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A.A.

2007/2008

SEMINARIO

Aporie del relativismo morale:


la proposta delletica del discorso

Antonino Rotolo
(E-mail: antonino.rotolo@unibo.it)
Corrado Roversi
(E-mail: corrado.roversi@ unibo.it)

26 marzo 2008

0. Preludio. Auto-confutazione dello scetticismo


La questione teorica preliminare che necessario comprendere per cogliere il nodo
concettuale fondamentale delletica del discorso la questione dello scetticismo
filosofico, e della peculiare contraddizione in cui esso, secondo alcuni, incorre. Lo
scetticismo filosofico, in linea generale, quella posizione per la quale non mai
possibile stabilire una verit oggettiva: secondo lo scettico qualsiasi postulato,
principio, giudizio (di qualsiasi scienza, sia essa una scienza empirica, come la fisica,
formale, come la matematica, o normativa, come letica o la scienza giuridica) per
sua stessa natura passibile di dubbio, e come tale privo di capacit fondative.
Lintuizione teorica fondamentale che sta alla base delletica del discorso che lo
scetticismo, cos formulato, auto-contraddittorio in un senso molto lato (e non
rigorosamente logico) di contraddizione. Non affatto complesso cogliere il punto
di questa contraddizione: lo scetticismo, dopotutto, a sua volta una tesi teorica che,
come tale, avanza una pretesa di verit. Ma se la posizione di colui che mette in
dubbio ogni verit avanza a sua volta una pretesa di verit (se, cio, nel sostenere
che qualsiasi verit passibile di dubbio, lo scettico pretende di avanzare una verit
che non sia invece passibile di dubbio), essa non pu essere coerentemente
sostenuta. La situazione pu essere agevolmente mostrata come segue:
Lo scettico dice nessuna tesi pu ambire alla verit assoluta
Ma ci che lo scettico dice a sua volta una tesi, che dunque non pu ambire a verit
assoluta
Dunque, se la tesi dello scettico vera, allora essa del tutto dubitabile, e non si vede
perch dovremmo assumerla come vera.

Nel sostenere come una verit la tesi secondo la quale non possibile riconoscere in
modo oggettivo alcuna verit, lo scettico incorre in una peculiare forma di
contraddizione, derivata dal fatto che egli non si avvede che la sua tesi generale (la
tesi dello scetticismo per la quale tutte le tesi sono passibili di dubbio) si riferisce,
tra le infinite possibili tesi enunciabili, anche a se stessa. Come scrive Aristotele,
e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento, quegli si avvale del ragionamento.1

1. Etica del discorso: gli autori


Gli autori comunemente associati allEtica del discorso sono tre: Karl Otto Apel,
Jrgen Habermas, Robert Alexy. I primi due (filosofi per formazione, e per un certo
periodo in stretto rapporto di collaborazione) possono dirsi i padri fondatori della
teoria, e nel corso del tempo ne hanno adottato due diverse varianti (Apel una
variante forte detta pragmatico-trascendentale, Habermas una variante indebolita detta
pragmatico-universale); il terzo (giurista e filosofo del diritto, allievo di Habermas) ha
pi che altro recepito la discussione generale, e ne ha dato applicazione allambito
giuridico.

Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano, 2004, 1006a, 25.

2. Problema: il Trilemma di Mnchausen


La sfida teorica che i filosofi delletica del discorso si propongono di affrontare
rappresentata dal cosiddetto Trilemma di Mnchausen, formulato dal filosofo
falsificazionista Hans Albert, allievo di Karl Popper.
Il Trilemma di Mnchausen ha come oggetto la possibilit di fondazione oggettiva
delletica, vale a dire (in termini pi semplici) la possibilit di costruire un sistema di
principi morali razionali ed oggettivamente fondati. Secondo Albert, questa
possibilit non vi , in quanto qualsiasi tentativo di fondazione etica oggettiva
incorre 1) o in un regresso allinfinito, 2) o in una petitio principii, 3) o in un circolo
vizioso.
1) Si ha regresso allinfinito, qualora la fondazione oggettiva di una morale si fondi
su principi, i quali a loro volta necessitano di una fondazione alla luce di nuovi
principi. Se il fondamento di giustificazione oggettiva richiede a sua volta una
giustificazione, e dunque un nuovo fondamento, si risale allinfinito la catena della
fondazione e della giustificazione, senza avere possibilit di raggiungere un punto
fermo.
2) Si ha petitio principii, qualora, in questo risalire la catena dei fondamenti, ci si fermi
ad un principio ritenendo che esso non richieda giustificazione. Questo certamente
fermerebbe il regresso, ma solleverebbe la domanda sulle motivazioni di questa
scelta. Perch quel principio (e non magari un altro) non dovrebbe richiedere una
giustificazione? La scelta di sottrarre uno specifico principio al bisogno di
giustificazione, ritenendolo al contrario un fondamento della giustificazione, non
sembra trovare ragioni a proprio supporto: piuttosto una forma di giustificazione
morale fondata su un qualche dogma.
3) Si ha circolo vizioso, qualora nel corso della fondazione si utilizzi implicitamente,
quale fondamento, ci che al contrario si intende dimostrare. Questa forma di
difetto del ragionamento molto diffusa: se, ad esempio, dovendo dimostrare che
una determinata area una triangolo, noi ponessimo quale premessa della
dimostrazione che la somma degli angoli interni di quellarea 180 (una propriet
del triangolo), non avremmo fatto altro che derivare una conclusione (larea un
triangolo) da premesse che gi contengono quella conclusione (larea ha come
somma degli angoli interni 180, ovvero un triangolo).
3. La risposta di Apel: analisi delle presupposizioni del Trilemma
Secondo Apel, il Trilemma di Mnchausen inevitabile soltanto se si danno per
scontati alcuni presupposti teoretici. Questi presupposti sono:
1) Solipsismo metodico. Il Trilemma d per scontato che il problema della validit
morale (e, pi in generale, della verit) si ponga in termini di oggettivit, vale a dire
di corrispondenza tra quanto il soggetto (lindividuo, colui che conosce) asserisce
come valido e le caratteristiche delloggetto (ci che invece il soggetto intende
conoscere) sul quale verte lasserzione. Lidea di fondo dunque che il problema
della verit oggettiva di una qualsiasi asserzione (e, pi nello specifico, della validit
oggettiva di qualsiasi giudizio morale) si risolva, in ultima analisi, in una verifica, da
parte del soggetto, del fatto che vi sia corrispondenza tra ci che egli dice e loggetto
su cui verte la sua asserzione ed il suo giudizio morale. Nel problema della

fondazione come oggettivit, non vi terzo attore tra il soggetto conoscente, da un


lato, e loggetto conosciuto, dallaltro: la validit di un giudizio morale
corrispondenza ad un oggetto (principio, realt) morale di qualche tipo; ed il
soggetto, da solo, a verificare questa sorta di corrispondenza. Questo modello a due
soli elementi chiamato da Apel solipsismo metodico: cio un approccio
metodologico al problema delloggettivit in cui il soggetto pu, da solo, riscattare le
pretese di validit (teoretica o morale) di ci che sta dicendo. Il modello di
evidente ascendenza cartesiana: fu infatti Cartesio il primo ad asserire, con
largomento del cogito, che il soggetto da solo, chiudendosi in se stesso tramite
riflessione, poteva stabilire verit oggettive (chiare e distinte, diceva Cartesio), in
grado di fondare lintero edificio teoretico della filosofia prima, o metafisica.
2) Linguaggio subordinato al pensiero. I giudizi morali, come qualsiasi asserzione, sono
formulati con mezzi linguistici, vale a dire tramite un qualche linguaggio. Se vale il
modello del solipismo metodico, risulta evidente che questa forma linguistica dei
giudizi morali non altro che una espressione diretta di ci che il soggetto, da solo,
pensa: il soggetto conoscente esprime tramite giudizi linguistici ci che pensa e
questa formulazione una perfetta rappresentazione di ci che egli pensa. Stando a
questa concezione, il linguaggio semplicemente un modo per esprimere il pensiero
dellindividuo: prima viene il pensiero, poi viene il linguaggio, inteso come segno che
esprime (proietta, rappresenta) questo pensiero. Lindividuo, da solo, ha in s tutti gli
elementi per dominare il linguaggio.
3) Fondazione come derivazione da qualcosaltro. Risulta abbastanza evidente dalla sopra
effettuata esposizione del Trilemma di Mnchausen che il concetto di fondazione
sotteso implica che fondare una qualsiasi verit (o validit) sia equivalente a derivarla
da una qualche verit (o validit) in qualche senso precedente alla prima. Ad
esempio, fondare la validit del giudizio morale mentire moralmente sbagliato
significa derivarlo da un qualche principio di ordine superiore e pi generale, ad
esempio ingannare moralmente sbagliato, il quale a sua volta pu essere derivato
da un principio come moralmente sbagliato fare ad altri ci che non vorresti
fosse fatto a te stesso. Come abbiamo visto, questa concezione della fondazione
come derivazione porta al problema del regresso allinfinito e della petitio principii: se
fondare significa derivare da qualcosaltro, allora questa derivazione o va avanti
allinfinito (risalendo indefinitamente a principi via via pi astratti e generali, ognuno
dei quali richiede a sua volta giustificazione) o si ferma, dogmaticamente, ad un
certo punto.
4) Razionalit in termini logico semantici. La concezione della fondazione come
derivazione discende da una specifica concezione della razionalit come razionalit
logico-semantica. Per cogliere che cosa si intenda con razionalit logicosemantica, sufficiente pensare alla geometria assiomatica euclidea. Nel sistema
euclideo, ogni teorema (ad esempio, il teorema di Pitagora) viene dimostrato sulla
base di teoremi precedenti o di assiomi, facendo esclusivo riferimento al significato
dei termini che appaiono in questi teoremi ed assiomi (da cui lelemento semantico) e
a leggi logiche di derivazione (ad esempio, il principio di non contraddizione, o la
legge per la quale se una tesi B discende da una tesi A, e A dimostrata, allora anche
la tesi B dimostrata: questo lelemento logico).
Ci che si deve notare, di questi quattro presupposti, che essi sono in certo modo
inscritti in larga parte della tradizione filosofica occidentale, se non altro moderna

(intendendo con ci la tradizione filosofica che ha tradizionalmente inizio con la


svolta soggettivista di Cartesio, intorno alla met del XVII secolo). Lidea di
fondazione come derivazione e di razionalit in termini logici senzaltro pi antica,
ma soltanto con lenorme impulso dato alle scienze matematiche nel corso del
XVII secolo (impulso al quale lo stesso Cartesio non fu affatto estraneo, essendo il
padre della odierna geometria analitica) che queste idee si estendono a tutti gli
ambito filosofici, etica compresa (lidea di un Ethica ordine geometrico demonstrata risale
infatti a Spinoza, la cui opera principale conclusa nel 1675; ma dovremmo contare
anche la sistematica razionalistica del giusnaturalisti seicenteschi, particolarmente del
Leviathan di Hobbes, del 1651).
Nellattaccare questi presupposti, dunque, Apel attacca una tradizione filosofica
secolare: ma gli argomenti che egli oppone ad ognuno di questi presupposti sono
largamente derivati dalle conclusioni della filosofia analitica novecentesca, in
particolare da due profonde conclusioni tratte da Ludwig Wittgenstein e dalle sue
Philosophische Untersuchungen (Ricerche Filosofiche, del 1953).
a) In primo luogo, Apel attacca il solipsismo metodico di matrice cartesiana, lidea
cio che un soggetto possa, da solo, riscattare le pretese di validit ed oggettivit dei
propri giudizi (giungere da solo alle proprie conclusioni conoscitive; capire da solo,
riflettendo, se ha ragione o ha torto). Questa idea stata, secondo Apel, superata
dallargomento del linguaggio privato di Wittgenstein. Secondo Wittgenstein, nessun
soggetto pu parlare un linguaggio che sia esclusivamente privato, vale a dire un
linguaggio di cui sia lui solo a conoscere la grammatica ed il lessico. Parlare un
linguaggio significa infatti seguire una regola, vale a dire portare avanti un
comportamento del quale si possiedono, in qualche senso, i criteri di correttezza e di
scorrettezza: ma requisito fondamentale del seguire una regola che questi criteri
siano in qualche senso indipendenti dal soggetto, che non dipendano da ci che il
soggetto semplicemente crede che essi siano. Wittgenstein mostra che, nel caso di
un linguaggio privato, non vi alcun fatto indipendente dal soggetto che egli possa
utilizzare per discernere quando parla correttamente il proprio linguaggio e quando
lo parla scorrettamente: la qual cosa significa che qualsiasi linguaggio privato, parlato
esclusivamente dal soggetto, sarebbe pi un parlare in modo sconnesso ed instabile
che un parlare in modo sensato. Da questo argomento, Wittgenstein deduce che
ogni linguaggio sempre un fatto sociale: che ogni soggetto impara a parlare un
linguaggio, distinguendo ci che grammaticalmente e lessicalmente corretto da ci
che non lo , sulla base dei segnali positivi e negativi (di approvazione o
disapprovazione, di accordo o disaccordo) che riceve nella propria comunit.
b) A questa conclusione di Wittgenstein, Apel associa la tesi che non esiste pensiero
che non sia linguistico, e linguisticamente strutturato: vale a dire, che le categorie
fondanti del nostro pensiero sono rappresentate nella grammatica profonda del
nostro linguaggio. Anche questa tesi pu essere fatta risalire alla filosofia analitica
novecentesca, la quale, fin dai propri padri fondatori (Gottlob Frege in primis, a
cavallo tra Ottocento e Novecento) ha sempre avuto un atteggiamento definito
antimentalistico (vale a dire, un atteggiamento che privilegiava lo studio oggettivo
delle regole e del lessico del nostro linguaggio, in quanto pubblico, piuttosto che la
congettura sui meccanismi mentali individuali, privati per definizione). Ma se ogni
pensiero linguisticamente strutturato, e non vi pu essere linguaggio che non sia
un fatto collettivo, sociale, lintero impianto del Trilemma di Mnchausen viene

messo in discussione. Infatti, la questione della fondazione di una morale oggettiva


, in primo luogo, un fatto linguistico e, in secondo luogo, un fatto linguistico che si
pone, e sul quale si decide, allinterno di una comunit di parlanti, e non nellambito
inaccessibile di un individuo-soggetto che riflette tra s e s su pensieri astratti e
privi di forma.
4. Largomento pragmatico-trascendentale e la contraddizione performativa
Ritorna la figura dello scettico, declinata in senso morale: lo scettico morale colui
che dubita della possibilit stessa di una morale oggettivamente fondata. Ci che
abbiamo tratto dallanalisi critica dei presupposti del Trilemma di Mnchausen,
tuttavia, che la questione dello scetticismo morale non qualcosa che si possa
semplicemente pensare, e risolvere nel pensiero individuale (come certamente
avrebbe fatto Cartesio). Se cos fosse, infatti, ricadremmo nel solipsismo metodico, e
non terremmo conto dellargomento del linguaggio privato. Piuttosto, la tesi dello
scetticismo morale deve essere enunciata linguisticamente dallo scettico, ed
enunciata in un contesto pubblico, inter-soggettivo: il contesto complessivo,
potremmo dire, dei parlanti interessati alla questione. Immaginiamo dunque che lo
scettico entri in un anfiteatro (lanfiteatro del discorso morale) insieme ad altri mille
parlanti; che ognuno dei parlanti prenda la parola ed avanzi un giudizio morale di
qualche tipo; e che, una volta venuto il turno dello scettico, egli salga sul
palcoscenico e, rivolgendosi agli altri parlanti l riuniti, sostenga la tesi dello scetticismo
morale.
Questo nuovo ruolo pubblico mette tuttavia lo scettico in una posizione
scomoda. Egli deve infatti enunciare la sua tesi, avanzando unasserzione del tipo
non vi possibilit alcuna di una morale oggettivamente fondata (TSM, tesi dello
scetticismo morale). Ma, cos facendo, lo scettico avanza unasserzione rivolgendosi
agli altri parlanti l riuniti: e il fatto di avanzare unasserzione rivolta ad altri non
privo di presupposti. In primo luogo, lo scettico avanza una pretesa di verit:
pretende cio, nel momento in cui sale sul palcoscenico e sostiene la TSM, che essa
sia una tesi vera; se egli ci dicesse non vi possibilit alcuna di una morale
oggettivamente fondata, ma questa stessa tesi che sto enunciando una falsit,
incorrerebbe in quella forma peculiare di contraddizione che, in apertura, abbiamo
commentato con le parole di Aristotele (e in effetti, proprio per distruggere il
ragionamento, quegli si avvale del ragionamento). Nellavanzare una tesi come vera,
cio, egli direbbe che la sua tesi falsa: vi sarebbe cio una contraddizione tra ci
che lo scettico fa (avanzare una tesi come vera, pretendere la verit di una tesi) e ci
che lo scettico dice (che la stessa tesi che sta avanzando come vera invece falsa);
questa sorta di peculiare contraddizione tra il dire ed il fare, nella quale incorrerebbe
lo scettico se non accettasse che la TSM implica una pretesa di verit, ci che Apel
chiama contraddizione performativa.
In secondo luogo, lo scettico avanza una pretesa di senso: pretende cio che TSM
sia una tesi sensata, oltre che vera; infatti, se non fosse sensata, non potrebbe
nemmeno essere vera. In terzo luogo, lo scettico avanza una pretesa di sincerit:
se lo scettico dicesse non vi possibilit alcuna di una morale oggettivamente
fondata, ma non credo in ci che dico, tutti gli astanti nellanfiteatro della questione
morale penserebbero che pazzo, esattamente come se avesse enunciato la falsit
della sua tesi nel momento in cui la asserisce.

Ma, nellavanzare queste pretese, lo scettico si rivolge a qualcuno (i parlanti


nellanfiteatro della questione morale) ed pronto a riscattare queste pretese: vale a
dire, a rispondere se qualcuno dovesse metterle in dubbio. Questo significa che
lenunciazione pubblica di TSM in una comunit di parlanti implica il riconoscimento, da
parte dello scettico, dei suoi interlocutori come possibili partner di
unargomentazione sulla questione morale. Lo scettico, infatti, nellavanzare pretese
che pronto a riscattare di fronte ai suoi interlocutori, si prende delle responsabilit:
in particolare, si prende la responsabilit ad argomentare la sua tesi, su richiesta.
Ora, lintuizione fondativa delletica del discorso che questa disponibilit
allargomentazione, inscritta nella logica stessa delle nostre asserzioni, sia gi di per
s un fatto morale. E dunque che colui che solleva il dubbio pi radicale sulla
possibilit di unetica oggettiva in realt presuppone, in quanto avanza la propria tesi
verso interlocutori che riconosce come tali, una serie di principi dellargomentazione
che hanno carattere morale. Anche nel sollevare questo dubbio, dunque, lo scettico
incorre in contraddizione performativa (nel dubitare della possibilit di unetica
normativa, egli presuppone principi dellargomentazione di natura morale): e se il
dubbio radicale sulla possibilit di una morale oggettivamente fondata autocontraddittorio, allora una tale morale possibile. Questo argomento, fondato sulle
presupposizioni dellenunciazione di TSM da parte dello scettico, chiamato da
Apel argomento pragmatico-trascendentale.
5. Analisi dei presupposti dellargomento pragmatico-trascendentale
Risulta sufficientemente chiaro che, come il Trilemma di Mnchausen, anche
largomento pragmatico trascendentale ha una serie nutrita di presupposti.
1) Il primo presupposto che lasserzione dello scettico equivale ad una pretesa
(anzi, come abbiamo visto, ad una serie di pretese), la quale a sua volta implica una
precisa assunzione di responsabilit. I teorici delletica del discorso sembrano
assumere che (a) in primo luogo, quando avanza la sua tesi lo scettico fa qualcosa; (b)
in secondo luogo, questo qualcosa che egli fa ha delle precise presupposizioni di
natura morale.
Lassunzione (a) non una tesi originale delletica del discorso, bens tratta dalla
teoria degli atti linguistici dei filosofi del linguaggio J. L. Austin e J. R. Searle. Nel
1955, in una serie di ben note lezioni dal titolo How to Do Things with Words (Come
fare cose con le parole), J. L. Austin ha mostrato come sia una caratteristica
funzione del linguaggio quella (non di descrivere, n di prescrivere, n di esprimere,
bens) di fare (to perform, in inglese): ad esempio, lenunciazione della frase battezzo
questa nave con il nome Regina Elisabetta, nel contesto di una specifica
cerimonia, non descrive il nome della name, n prescrive ad alcuno di fare qualcosa;
piuttosto, lenunciazione volta a fare qualcosa, vale a dire, dare quel nome alla nave
(allenunciazione corrisponde un risultato che ne loggetto, mediato o immediato).
Austin chiama questa la funzione performativa del linguaggio. In una fase successiva
del suo lavoro, Austin ha esteso questo aspetto performativo di alcune enunciazioni
linguistiche al linguaggio nella sua interezza: ha cio sottolineato come ogni
proposizione sia sempre anche una mossa concreta nel gioco del linguaggio, un atto
equivalente al fare qualcosa (nel lessico di Searle, allievo di Austin, un atto linguistico).
Ad esempio, una proposizione come domani parteciper alla manifestazione ha

certamente un contenuto semantico, che ci dice qual il significato della proposizione,


ma ha anche un aspetto pragmatico, che ci dice che ruolo ha tale proposizione nel
contesto della nostra enunciazione: se essa sia una descrizione di ci che far
domani, ad esempio, o piuttosto una specifica promessa rivolta a qualcuno.
Dovrebbe ora risultare chiaro come, nella prospettiva dei teorici delletica del
discorso, largomento pragmatico-trascendentale contro lo scetticismo morale si
fonda su una precisa concezione dellatto linguistico dellasserzione: infatti soltanto
a partire da una precisa analisi dei presupposti dellasserzione dello scettico
(lasserzione TSM: non vi possibilit alcuna di una morale oggettivamente
fondata) che largomento, come abbiamo visto, funziona.
In cosa consiste questa concezione dellasserzione? Secondo Searle, la regola
essenziale dellatto linguistico dellasserzione la seguente:
Unasserzione ha valore di assunzione di un impegno sul fatto che ci che si asserisce
corrisponda ad uno stato di cose reale,

il che non significa altro che dire che, quando qualcuno asserisce qualcosa, ritiene
che le cose stiano nel modo in cui si detto. Secondo i teorici delletica del discorso,
la regola essenziale dellatto linguistico dellasserzione muta leggermente:
Unasserzione ha valore di assunzione di un impegno sul fatto che ci che si asserisce
corrisponda ad uno stato di cose reale, e di un impegno a giustificare la propria credenza
che ci che si asserisce corrisponda ad uno stato di cose reale.

In questottica, lasserzione simile ad una promessa: come la promessa ha valore di


assunzione di un obbligo a compiere ci che si promesso, cos lasserzione ha
valore di assunzione di un obbligo a giustificare ci che si asserisce, su richiesta.
Chiameremo questa particolare prospettiva sullatto linguistico dellasserzione, che
il primo dei presupposti dellargomento anti-scettico formulato dai teorici delletica
del discorso, tesi del carattere intrinsecamente commissivo dellasserzione (commissivo
perch, nel lessico di Searle, la promessa un caso particolare degli atti linguistici
commissivi, ovvero atti che determinano lassunzione di un obbligo). Si noti che,
sotto questa interpretazione, lasserzione equivalente allargomentazione: asserire
qualcosa sempre equivalente a prendersi degli impegni nel teatro
dellargomentazione, di fronte cio ai parlanti interessati (reali o immaginari) che
partecipano al discorso.
2) Il secondo presupposto dellargomento pragmatico-trascendentale utilizzato dai
teorici delletica del discorso strettamente legato al primo. La domanda che sorge
spontanea di fronte alla tesi del carattere intrinsecamente commissivo dellasserzione
la seguente: come possibile dimostrare questa tesi? Come abbiamo visto, Apel ed
Habermas fanno riferimento, a questo proposito, al concetto di contraddizione
performativa: essi sostengono, cio, che unasserzione che contraddica il proprio
carattere di assunzione di responsabilit a giustificare sia non unasserzione genuina,
bens una contraddizione tra ci che dico e ci che faccio nel dire; e sostengono
altres che questa contraddizione sia del tutto evidente (in questa prospettiva, se io
asserisco in questo momento il gatto sul tavolo, ma questa asserzione del tutto
ingiustificabile, dico qualcosa di totalmente assurdo, e di assurdo in modo evidente
a chiunque). In ci possibile cogliere la portata del rifiuto, da parte dei teorici
delletica del discorso, della concezione logico-semantica della razionalit (cfr. sopra,
Sezione 3): secondo una concezione logicista della dimostrazione, infatti, le
contraddizioni logiche (nella forma A e non-A: Giovanni biondo e non

biondo) vanno evitate in quanto violano, in virt del proprio significato, un


principio primitivo, vale a dire il principio di non contraddizione. In una prospettiva
pragmatico-trascendentale, invece, le contraddizioni si mostrano in actu, in ci che
faccio nel momento in cui asserisco davanti ad un uditorio unassurdit. Non vi
derivazione da altri principi, n interpretazione semantica: soltanto diretta evidenza
del fatto che, se asserisco qualcosa e simultaneamente nego alcune verit che sono il
presupposto della mia asserzione, faccio qualcosa di semplicemente assurdo.
Chiameremo questo presupposto, cruciale per letica del discorso, la tesi dellautoevidenza delle contraddizioni performative. Per Apel, lauto-evidenza delle contraddizioni
performative diventa il criterio essenziale per la fondazione di regole del discorso
oggettivamente valide; egli scrive infatti:
Se non posso contestare qualcosa, senza incorrere in una contraddizione in actu [=
contraddizione performativa] esso rientra tra i presupposti pragmatico-trascendentali
dell'argomentazione, che devono esser stati gi sempre riconosciuti, affinch il gioco
linguistico dell'argomentazione conservi il suo senso.2

6. Le regole del discorso e il proceduralismo. Principio D e Principio U.


Secondo i teorici delletica del discorso, dunque, ci che non possibile contestare
senza incorrere in contraddizione performativa (ad esempio, il fatto che lasserzione
implica pretese, che a queste pretese sono connesse precise responsabilit, etc.) pu
dirsi oggettivamente fondato. Ma limpresa fondazionalista dei teorici delletica del
discorso riguarda, in primo luogo, lambito morale; la domanda rilevante che essi
devon porsi dunque: che tipo di norme o principi morali effettivamente possibile
dedurre sulla base del criterio della contraddizione performativa?
bene notare, in primo luogo, che le norme deducibili, a pena di contraddizione
performativa, da atti linguistici enunciati in un contesto argomentativo sono,
appunto, pi che norme morali sostanziali, regole inevitabili della situazione
argomentativa: vale a dire, regole del discorso moralmente rilevanti, ma necessariamente
limitate nellambito di validit. La formulazione pi completa delle regole del
discorso pratico generale si deve, senza dubbio, allopera Theorie der juristischen
Argumentation (Teoria dellargomentazione giuridica, del 1973) di Robert Alexy. In
questopera, Alexy costruisce un intero codice dellargomentazione pratica, un
codice dal quale poi deriva, mediante una serie di restrizioni successive, le regole
dellargomentazione giuridica (la tesi per la quale largomentazione giuridica deve
considerarsi come un caso particolare dellargomentazione pratica generale la
cosiddetta tesi del caso particolare: Sonderfallthese). Sono esempi rilevanti di regole
del discorso pratico generale, secondo Alexy, le seguenti:
1. Chiunque sia in grado di parlare pu prendere parte ai discorsi
2.1. Chiunque pu problematizzare qualsiasi affermazione
2.2. Chiunque pu introdurre nel discorso qualunque affermazione
2.3. Chiunque pu esprimere le proprie opinioni, i propri desideri, i propri bisogni
3. Nessun parlante pu essere ostacolato nell'esercizio dei propri diritti stabiliti sopra da
costrizioni che abbiano luogo all'interno o all'esterno del discorso.3

2
3

K. O. Apel, Discorso, verit, responsabilit, Guerini, 1997, p. 143.


R. Alexy, Teoria dell'argomentazione giuridica, Giuffr, Milano, 1998, p. 153.

Apel, dal canto suo, in Etica della comunicazione (del 1992) individua tre norme
fondamentali del discorso: una norma della giustizia, secondo la quale, nel discorso,
vi "uguale diritto per tutti i possibili partner del discorso ad articolare le proprie
pretese di validit"; una norma della solidariet, secondo la quale nel discorso
presupposto un "reciproco appoggio e dipendenza nel quadro del comune intento di
una soluzione argomentativa dei problemi"; una norma della co-responsabilit, secondo
la quale tutti i partecipanti al discorso sono egualmente responsabili del suo esito.
Il fatto che regole del discorso, cos formulate, abbiano una rilevanza morale di per
s evidente. Non altrettanto evidente, tuttavia, che regole di questo tipo possano
estendere il proprio dominio di validit al di l del mero mbito dellargomentazione.
Nel nostro teatro dellargomentazione, in cui si discute la questione morale, queste
regole valgono: ma, evidentemente, non il contesto altamente ritualizzato
dellargomentazione lunico mbito in cui sorgono problemi morali. La domanda,
dunque, la seguente: come pu letica del discorso, dopo aver costruito il sistema
delle regole formali del discorso, fornire una risposta a problemi morali sostanziali?
I teorici delletica del discorso rispondono a questo problema con il concetto di
proceduralismo. Non sono le regole formali del discorso a fondare direttamente un
contenuto morale sostanziale: esse, tuttavia, rendono possibile una situazione
argomentativa moralmente fondata a partire dalla quale possibile stabilire
contenuti morali sostanziali su qualsiasi problema, a patto che tali contenuti abbiano
ricevuto il consenso ultimo di tutti i possibili partecipanti al discorso. Lidea di
fondo, dunque, quella di fornire un metodo per risolvere i problemi morali, e non
un codice di verit morali sostanziali: questo metodo consiste nel raggiungimento
del consenso in una situazione argomentativa nella quale vengono rispettate le
regole formali del discorso; possono ritenersi fondati soltanto i giudizi morali che
ottengono il consenso di tutti i partecipanti in una situazione linguistica ideale,
nella quale, cio, le regole formali del discorso sono rispettate (in cui dunque tutti
accettano la propria responsabilit ad argomentare; tutti accettano le obiezioni da
qualunque parte esse vengano e rispondono ad ognuna di esse in modo razionale; in
cui chiunque pu portare qualsiasi considerazione o attestazione dinteresse, purch
rilevante per il caso in questione, etc.). questultimo il cosiddetto Principio D,
formulato da Habermas:
possono pretendere validit soltanto quelle norme che trovano (o possono trovare) il
consenso di tutti i soggetti coinvolti quali partecipanti a un discorso pratico.4

Riformulando D come principio per la soluzione dei problemi morali, si giunge al


Principio U, che pu ritenersi, in ultima analisi, il criterio centrale per la soluzione
razionale di problemi morali dal punto di vista dei teorici delletica del discorso.
Nella formulazione di Habermas, una norma o un principio morale sono validi se e
soltanto se
tutti i partecipanti in una comunit ideale della comunicazione possono accettare
liberamente quelle conseguenze e quegli effetti secondari che si prevedono derivare, per la
soddisfazione degli interessi di ciascun singolo individuo, da un'osservanza universale della
norma discussa.5

4
5

J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 103.


Ibidem.

Il principio U chiamato in questo modo, evidentemente, perch equivale ad un test


di universalizzazione: se, in una situazione linguistica ideale in cui valgono le regole
del discorso (in cui dunque tutti accettano la propria responsabilit ad argomentare;
tutti accettano le obiezioni da qualunque parte esse vengano e rispondono ad
ognuna di esse in modo razionale; in cui chiunque pu portare qualsiasi
considerazione o attestazione dinteresse, purch rilevante per il caso in questione,
etc.) una norma riceve il consenso unanime, in quanto ogni singolo partecipante
accetta le conseguenze di una eventuale osservanza universale di questa norma, sia
con riferimento ai propri specifici interessi, sia con riferimenti agli interessi di
qualunque altro individuo, allora (e soltanto allora) la norma morale pu dirsi, da un
punto di vista di etica del discorso, razionalmente fondata.
7. Alcune obiezioni contro letica del discorso
Limpianto teorico delletica del discorso, anche in virt della sua originalit e
profondit speculativa, stato in pi occasioni bersaglio di alcune obiezioni
notevoli. Nel seguito, discuteremo cinque delle obiezioni pi rilevanti.
1) Obiezione della petitio principii. In primo luogo, si pu obiettare ai teorici delletica
del discorso che essi, nel loro programma di fondazione morale per mezzo di un
proceduralismo fondato su regole del discorso, presuppongono unintera teoria degli
atti linguistici senza dimostrarla: inoltre, essi non soltanto presuppongono la verit
delle tesi di Austin e Searle sullaspetto performativo del linguaggio e sulla
costituzione interna dellatto linguistico dellasserzione, ma estendono queste
considerazioni fino a stabilire il carattere intrinsecamente commissivo
dellasserzione, vale a dire, come abbiamo visto, la sostanziale equivalenza tra
asserzione ed argomentazione. N Apel, n Habermas, n Alexy, tuttavia,
forniscono argomenti a supporto della teoria degli atti linguistici: in un certo senso,
essi confidano nella sua verit. In ci, essi sottopongono lintero impianto
fondazionalista delletica del discorso al rischio, molto concreto, di una petitio principii
(di una assunzione non giustificata, dogmaticamente presupposta).
Questa obiezione, si potrebbe obiettare agli obiettori, di parte: vale a dire che
essa presuppone proprio quella concezione logico-semantica della razionalit che
Apel ritiene essere un preludio allo scetticismo morale. Apel, infatti, come abbiamo
visto, fornisce un criterio per la individuazione degli elementi oggettivi
dellasserzione-argomentazione: questo criterio la contraddizione performativa.
Anzi, proprio in antitesi ad una concezione della dimostrazione come deduzione
logica da principi, egli sostiene che lautoevidenza riflessiva della contraddizione
performativa a mostrarci i presupposti fondamentali del discorso. Non soltanto: egli
riconosce che un qualsiasi criterio dimostrato per mezzo di contraddizione
performativa non possa essere dimostrato logicamente se non a pena di petitio
principii: ma in questo egli vede semplicemente un limite della dimostrazione logica,
la quale non in grado di mostrare quali evidenze appaiano tali a chi partecipa al
gioco linguistico dellasserzione-argomentazione.
2) Obiezione della circolarit. Lobiezione della petitio principii, di conseguenza, necessita
di un complemento, vale a dire una critica alla tesi dellauto-evidenza delle contraddizioni
performative. Non sufficiente dire che letica del discorso presuppone, come suo
fondamento, la teoria degli atti linguistici: visto che il criterio di fondazione delle

regole del discorso risiede nella auto-evidenza delle contraddizioni performative


(ovvero, come abbiamo visto, di quelle assurdit del linguaggio che nascono quando,
nellasserire qualcosa, neghiamo una delle regole del discorso), questo criterio al
quale necessario obiettare. Pi in particolare, si potrebbe obiettare ad Apel che,
argomentando che lasserzione ha un carattere intrinsecamente commissivo sulla
base del fatto che colui che nega il carattere commissivo di unasserzione (dicendo,
ad esempio, affermo che lattuale tasso di disoccupazione in Italia minore di
quello dellanno scorso, ma non mi prendo alcuna responsabilit a giustificare questa
asserzione) incorre in una assurdit manifesta, in realt si presuppone ci che si
vuole dimostrare, ovvero che unasserzione ha un carattere commissivo che non
pu essere sensatamente contraddetto: si cade, cio, in un circolo vizioso.
Anche a questa obiezione, tuttavia, Apel risponderebbe dicendo che la
contraddizione performativa che nasce dal negare il carattere commissivo di
unasserzione non dipende da una qualche presupposizione (o premessa) nascosta
nellargomento: ancora una volta, questa sarebbe uninterpretazione logico-deduttiva
dellargomento pragmatico-trascendentale. La contraddizione performativa che
nasce dal dire, ad esempio, affermo che lattuale tasso di disoccupazione in Italia
minore di quello dellanno scorso, ma non mi prendo alcuna responsabilit a
giustificare questa asserzione evidente a chiunque: ed questa evidenza (e non la
presupposizione di un principio nascosto) a costituire il fondamento
dellargomentazione pragmatico-trascendentale.
3) Obiezione della fallacia naturalistica. Alcuni autori hanno obiettato alletica del
discorso sostenendo che fallace dedurre principi di carattere normativo dalla
costituzione interna dei nostri atti linguistici: tale costituzione, infatti, una
questione di fatto. In questa prospettiva, letica del discorso cadrebbe in un caso
particolare di fallacia naturalistica, deducendo proposizioni di tipo normativo (le
regole del discorso) da proposizioni di tipo descrittivo (le quali esplicitano la
costituzione dei nostri atti linguistici).
Questa obiezione non pu essere trattata approfonditamente in questa sede, in virt
dellampiezza dei problemi che essa solleva. Basti dire, qui, che la possibilit di
dedurre principi o proposizioni normative dalla costituzione di atti linguistici stata
ampiamente discussa con riferimento ad un noto articolo di Searle, intitolato How to
Derive Ought from Is (Come derivare Dovere da Essere, del 1969). Inoltre, sia
Alexy che Apel hanno affrontato lobiezione, sostenendo che esplicitare i principi
normativi presenti, come presupposti, nelle nostre pratiche argomentative non la
stessa cosa che derivare principi normativi da propriet o stati di cose naturali: nel
momento in cui gli individui entrano in pratiche argomentative, infatti, si pu
ritenere che essi, in quanto agenti morali, abbiano gi riconosciuto i principi normativi
impliciti in tali pratiche; mentre non possibile ritenere che gli stati di fatto naturali
abbiano in qualche modo, di per se stessi, una connotazione morale.
4) Obiezione del formalismo. Una delle accuse pi frequenti alletica del discorso quella
di cadere nel formalismo etico: secondo questa obiezione, letica del discorso, al di l
dellesplicitazione di regole procedurali dellargomentazione, non in grado di
fornire una soluzione reale ai problemi etici sostanziali. Infatti, in primo luogo, la
realizzazione di un contesto argomentativo in cui valgano le regole del discorso del
tutto ideale: un tale contesto non pu essere concretamente realizzato. Un qualsiasi
discorso reale non potr mai includere tutti i potenziali interessati alla questione, n

sar sufficientemente esteso nel tempo da permettere a chiunque di argomentare le


proprie tesi contro qualsiasi obiezione. In secondo luogo, quandanche fosse
possibile realizzare il contesto argomentativo ideale delletica del discorso, non
affatto detto che sia possibile raggiungere un consenso tra tutti i partecipanti,
nemmeno con riferimento alle questioni etiche pi minimali. Ma se un tale consenso
non viene raggiunto, il principio U del discorso, che abbiamo visto essere il criterio
procedurale fondamentale per la risoluzione delle questioni morali sostanziali, di
fatto non ci dice niente: soltanto un criterio formale privo di applicazione.
Lobiezione al formalismo senza dubbio la pi forte delle obiezioni alletica del
discorso finora sollevate. Effettivamente, non vi motivo di ritenere che il consenso
sia effettivamente raggiungibile in un discorso reale, n che, qualora esso sia
raggiunto, si riveli poi inclusivo di tutti i possibili punti di vista. Sia Apel che
Habermas hanno risposto allobiezione del formalismo insistendo sul carattere
dialettico delle regole del discorso La loro tesi la seguente: pur essendo certamente
vero che le regole del discorso sono idealizzazioni, esse sono idealizzazioni
presupposte nelle nostre pratiche argomentative reali; ogni essere razionale, di fatto,
argomenta come se chiunque potesse obiettare a ci che dice, e come se dovesse
giustificare le proprie posizioni contro ogni potenziale obiettore, anche se,
evidentemente, ci non avviene nel concreto, e non nemmeno possibile che ci
avvenga. Da un lato, le nostre pratiche argomentative devono andare avanti
concretamente, e in ci necessariamente si allontanano dallideale delle regole del
discorso; dallaltro lato, tuttavia, le nostre pratiche argomentative tendono verso
lideale rappresentato da quelle regole: vi cio, una tensione dialettica costante tra
fattualit della pratica reale e idealit delle regole del discorso presupposte. Nel
riconoscere questa tensione, e nel ricostruire le idealizzazioni normative (le regole
del discorso) cui tendere per la realizzazione di una situazione argomentativa
razionale, letica del discorso non affatto inutile; essa, piuttosto, indica un ideale
regolativo nel senso kantiano: un ideale mai raggiungibile, e tuttavia necessario per
indicare la direzione cui avvicinarsi mediante approssimazioni successive.
5) Obiezione delluniversalit dellargomentazione. Lultima obiezione che considereremo
vlta a mettere in dubbio che la ricostruzione dei presupposti ideali
dellargomentazione possa essere un punto di partenza valido per la risoluzione
delle controversie morali: infatti, non affatto detto che largomentazione sia un
contesto universale ed inevitabile della discussione morale, ed anzi forse ne uno
dei contesti pi ristretti (ad esempio, si pensi allimpatto che dogmi di tipo religioso,
non argomentati n argomentabili, hanno sulla discussione morale). forse vero
che la discussione e largomentazione razionale caratterizzano la filosofia morale di
derivazione genericamente occidentale: ma non affatto detto che questa
impostazione debba essere onnicomprensiva; n, dunque, che sia possibile
presupporla quale fondamento di unetica procedurale universale.
I teorici delletica del discorso hanno risposto a questa obiezione in modi differenti.
Secondo Apel, che fornisce certamente la risposta di carattere pi teorico,
lobiezione delluniversalit dellargomentazione , a rigore, del tutto irrilevante:
infatti, dal suo punto di vista, nel momento in cui si avanza unasserzione di tipo
morale, si gi allinterno dellargomentazione e se ne accettano i presupposti (Apel
esprime questo concetto sostenendo che il contesto linguistico dellasserzioneargomentazione il gioco linguistico trascendentale al di l e al di sopra dei singoli

giochi linguistici specifici). Ci, secondo Apel, mostrato dal fatto che anche colui
che solleva il dubbio morale pi radicale, cio lo scettico morale, non pu non
accettare questi presupposti senza incorrere in contraddizione performativa. E, se
ci avviene nel caso del dubbio morale pi radicale, secondo il quale la discussione
morale non dovrebbe nemmeno essere possibile, a fortiori la fondazione delle regole
del discorso deve considerarsi valida in tutti gli altri contesti di discussione morale.
Secondo Habermas, invece, il contesto dellasserzione-argomentazione, per quanto
non universale nel senso di concettualmente inaggirabile (come invece sostiene
Apel), tuttavia un universale fattuale, frutto di uno specifico meccanismo evolutivo
(Habermas chiama questa prospettiva naturalismo debole). Alexy, infine,
indebolisce ulteriormente la prospettiva di Habermas, sostenendo che il contesto
linguistico dell'asserzione-argomentazione non trascendentalmente necessario, n
empiricamente universale, bens la pi generale delle forme di vita umane.
Questo progressivo indebolimento della tesi delluniversalit dellargomentazione
(frutto dellabbandono dellimpostazione teorica originaria di Apel) riduce,
evidentemente, la portata fondativa delletica del discorso: la questione che rimane
aperta se questa riduzione non equivalga, in ultima analisi, ad una resa del progetto
fondazionalista.

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