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La fine della missione italiana in Iraq e i dubbi sulla exit strategy

di Lorenzo Striuli

Quando l’impegno italiano in Iraq giunse a termine, al termine del 2006, i numeri della missione
parlavano di un triennio di sforzi indubbiamente impressionante:

• Progetti portati a termine: più di 800, per un importo vicino ai 20 milioni di euro:
• Principali settori beneficiari: sanità, infrastrutture pubbliche, risorse idriche, reti fognarie,
strade, ponti etc.
• Bilancio della attività sanitarie: oltre 12.000 visite mediche effettuate su circa 30.000
persone, delle quali oltre 1.000 ricoverati;
• Bilancio delle attività militari: oltre 20.000 pattuglie effettuate, 3.000 veicoli impiegati, oltre
8.000 ore di volo, 1.500 check point allestiti, 2.500 persone controllate, oltre 1.000 veicoli
controllati, circa 60 tonnellate di armi ed esplosivi sequestrati, oltre 20.000 poliziotti
iracheni addestrati e oltre 6.000 militari iracheni addestrati;
• Personale militare italiano caduto: 38

La strada scelta dal nostro Paese da allora è stata quella di continuare la presenza italiana nel
tormentato Paese mediorientale mediante attività di cooperazione dal carattere prevalentemente
civile. Risulta ovvio che tale carattere, per poter operare sicurezza nelle delicate condizioni locali,
ha bisogno di adeguate coperture in termini di protezione diretta.

Desta dunque perplessità la scelta che è stata compiuta immediatamente al ritiro dei nostri militari,
ovvero quello di affidare tale protezione alla società di contractors inglese AEGIS Defence Service,
al costo di 3,5 milioni di euro. Questa perlessità è dovuta a molti fattori.

In primo luogo, i contractors di tutto il mondo si muovono in un sostanziale vuoto normativo


internazionale che oramai sta stretto anche agli Stati Uniti, il Paese che li ha utilizzati (e continua a
utilizzarli) in misura maggiore, a seguito dei noti massacri perpetrati dalla società Blackwater (e
non solo essa). Essi del resto rispondono solo limitatamente delle loro azioni ai governi che li
ingaggiano e ancor meno a quelli dei Paesi in cui operano.

In secondo luogo, la stessa AEGIS è stata in passato coinvolta proprio in Iraq (e non solo, anche in
Sierra Leone, o nelle Isole di Bouganville) in roventi polemiche per alcune sue azioni non proprio
“ortodosse”.

In terzo luogo, viene da chiedersi che senso abbia la volontà di non utilizzare assolutamente alcun
militare proprio per poi doversi affidare a delle risorse esterne così ambigue nel loro modo di essere
e di operare, tanto che, a ben vedere poi, la legislazione italiana neanche consente che similari
società possano essere costituite nel territorio italiano.

Difatti, è vero che le cosiddette Private Military Companies (PMC) possono offrire l’indubbio
vantaggio di “morire al posto degli altri” senza troppo clamore. Ma è anche vero che a loro possa
interessare ben poco quali possano essere i risultati delle loro azioni sul sistema-Paese che li ha
ingaggiati.

Dato che l’Italia resta impegnata in molti teatri d’operazione, urge dunque trovare per il futuro
migliori e meno ambigue vie di exit strategy che rendano maggiormente giustizia delle potenzialità
nazionali esprimibili in termini di sicurezza e rispettabilità internazionale.

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