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Limes - rivista italiana di geopolitica (26/02/09) Esiste l'Italia?

Mille ricette, un solo stile: mangiare allitaliana di Carlo Petrini Lidentit gastronomica del nostro paese rintracciabile nella diversit dei prodotti e delle abitudini culinarie che lo attraversano. Da nord a sud lapproccio al cibo e alla sua preparazione che ci unisce e ci rende unici. LA DOMANDA ESISTE LITALIA? A proposito della gastronomia quanto mai pertinente. Le identit in generale, comprese quelle individuali, si formano, anche dal punto di vista gastronomico, per successive stratificazioni, per contaminazioni, per gli incroci che la storia porta con s, qualche volta in modo casuale, qualche volta allinterno di precise strategie. Lidentit gastronomica di ognuno di noi quel che ci piace e quel che ci disgusta, quel che consideriamo cibo quotidiano e quello che individuiamo come cibo della festa, il cibo che scegliamo e quello che invece subiamo si forma poco alla volta e cambia continuamente, in una danza di reazioni neuronali, fisiche e psicologiche che inizia prima della nostra memoria e si chiude solo quando termina la nostra esistenza. facile dunque immaginare quanto complessa possa essere la danza che porta alla costruzione di unidentit collettiva a livello gastronomico, e con quanti progressivi aggiustamenti si possa giungere alla definizione di unidentit gastronomica nazionale. Le nazioni sono istituti politici, che hanno confini facilmente individuabili. Un passo in l e sei in Francia, un passo in qua e sei in Italia. Ma le identit non hanno criteri politici, non si sottomettono docilmente alle descrizioni formali. 2. E allora, da dove partiamo? La carta geografica pu ancora tornarci utile, ma scegliamo quella fisica. Sono i territori, il clima, le possibilit produttive che unarea geografica offre a stabilire le prime regole. E anche qui, basta dare unocchiata alla forma del nostro paese, a questa specie di lungo molo nel bel mezzo del Mediterraneo per capire che per noi valgono le regole di tanti climi e tanti territori. Da Bolzano a Lampedusa, dal rafano ai capperi, dalla grappa al limoncello, dagli icewines ai passiti. C quella che qualcuno chiama la linea del burro, ovvero una specie di divisione e dunque condivisione dellidea di condimento e di conservazione. Sopra diciamo Bologna, il burro e il freddo (che consentiva di conservarlo); al di sotto della linea del burro, lolio doliva, che oltre che condimento esso stesso conservante, insieme al sale e al sole che disidrata e dunque scongiura le fermentazioni indesiderate (che molte sono invece, come si sa, in gastronomia, quelle ben accette!). Ancora, le regioni, nei loro precisi confini, sono una convenzione politica. Ma le differenziazioni di climi, territori e culture nelle varie regioni dItalia, anche se non rispettano i confini (a meno che i confini politici non coincidano con quelli fisici, come accade per le isole) sono un fatto. Forse la prima grande ed efficace occasione di unit nazionale a livello gastronomico labbiamo avuta durante la prima guerra mondiale. In trincea si incrociavano dialetti e ricordi, ognuno raccontava la sua fame e la sua versione dellabbondanza. Probabilmente di tanto in tanto ci si poteva permettere anche qualche scambio di assaggi. Chi torn a casa da quella guerra port con s amicizie e ricordi di terre e uomini lontani, come se al viaggio reale fatto per entrare nellincubo se ne fosse aggiunto un altro, fatto soprattutto di parole, che in qualche modo era servito a sfuggirne. Probabilmente le conversazioni non furono dissimili nella guerra successiva, quando le identit che vennero drammaticamente a contatto furono quelle di nazioni diverse, e non possibile dimenticare i passaggi di Se questo un uomoin cui Primo Levi ricorda ossessivamente la fame come lelemento di base dellesistenza nei lager: Sigi ha diciassette anni, e ha pi fame di tutti. () Aveva cominciato col parlare della sua casa di Vienna e di sua madre, ma poi scivolato sul tema
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della cucina e ora racconta senza fine di non so pi che pranzo nuziale e ricorda, con genuino rimpianto, di non aver finito il terzo piatto di zuppa di fagioli. E tutti lo fanno tacere, e non passano dieci minuti che Bla ci descrive la sua campagna ungherese, e i campi di grano turco e una ricetta per fare una polenta dolce, con la meliga tostata, e il lardo, e le spezie, e viene maledetto, insultato, e comincia un terzo a raccontare. Lambito in cui oggi resistono con maggiore evidenza le differenziazioni dei gusti regionali quello del consumo di pesce. Le tipologie ittiche amate a Venezia imputridiscono senza acquirenti sulle banchine dei porti calabresi. La Sicilia ha consumi che la Liguria rifiuta, lEmilia non mangia quel che il Lazio predilige. Suggerisco questo filone di ricerca agli antropologi dellalimentazione, e agli studiosi dei consumi. Come si creano, con differenze cos profonde a poche centinaia di chilometri, i gusti e i disgusti in un ambito apparentemente uniforme come quello del consumo di pesce? Sotto la cappa omologante e insostenibile dei consumi trendy, rappresentata attualmente dal tonno rosso, che rischia lestinzione grazie alle miopi manie di cuochi e clienti, si celano differenziazioni vere, risolute e inspiegabili. Sembra che il mare, proprio questo elemento che fa del nostro paese una tessera di Mediterraneo e dunque ci svincola dalla nostra appartenenza nazionale per posizionarci in una cornice pi ampia e in un respiro culturale pi vasto, sia, a livello gastronomico, il luogo delle radici pi solide, delle differenze pi nette. Lelemento positivo che proprio nei consumi ittici possibile individuare baluardi pi convinti di resistenza alle omologazioni: ancora, c lavoro per gli studiosi. 3. Tuttavia lItalia gastronomica in qualche modo esiste e dunque occorre provare a definirla. Se non esistesse, infatti, non ci sentiremmo cos diversi dai tanti stranieri che frequentano il nostro paese anche per potersi adagiare in quella normalit di celebrazioni alimentari che, a sentir loro, caratterizzano ogni nostro boccone. Come spesso succede, la definizione di unidentit pu trovare un valido contributo nelle descrizioni di chi a quella identit non appartiene. Senza tuttavia consegnare le armi ai tanti stereotipi che, in fatto di cibo, ci vedono protagonisti. Forse proprio questo: una questione di stile e una questione di atteggiamento verso il cibo. Certo, generalizzare non mai n semplice n opportuno. A fronte di un allarme obesit che si sta diffondendo anche nel nostro paese, insieme allallarme diabete, allallarme malattie cardiache e allallarme allergie in aumento, ci sono dati che ci dicono che gli adolescenti della mia citt sono, per il 6% sottopeso. Non per ragioni economiche, evidentemente, ma di conduzione della propria giornata alimentare. Se vogliamo parlare di stile italiano, dunque occorre prendere in considerazione un campione medio, che non si abbuffi e non si affami, che abbia ancora una buona relazione con le proprie origini culturali, che abbia ancora unidea, sia pure vaga, di cosa sia la produzione agroalimentare. Ecco, questo potrebbe essere un discrimine. Lidentit gastronomica italiana fatta anche di conoscenza agricola. Non conoscenze tecnico-colturali, non siamo certo convinti che litalianit oggi corrisponda di per s stessa a competenze relative alla produzione. Forse stato cos, in passato: le nostre origini, come societ, sono eminentemente contadine e per molto tempo quei saperi si sono tramandati da una generazione allaltra senza interventi di carattere istituzionale. I nostri nonni non frequentavano corsi di alfabetizzazione gastronomica, come molti adulti fanno oggi, per scoprire quali sono i tagli di carne destinati a determinati piatti e in generale a quali parti del bovino corrispondono. Tuttavia possiamo ancora affermare (e spero che potremo continuare a farlo per un bel pezzo) che alcune conoscenze di base sono ancora diffuse tra di noi: niente di speciale, ma quali stagioni e quali territori per quali prodotti, questo, almeno tra chi ha almeno trentanni sono ancora patrimonio comune. Gli statunitensi che trascorrono un periodo nel nostro paese si accorgono, con sollievo, che nei
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nostri negozi e nei nostri mercati, ma addirittura anche nei nostri supermercati una persona che fa la spesa riesce a capire dai prodotti freschi disponibili che stagione , mentre nella maggior parte delle loro citt questo impossibile, perch c sempre tutto. Anche su questa voglia di far corrispondere i ritmi dellacquisto e del consumo con quelli della natura si basato il successo dei farmers markets, che negli Stati Uniti trovano sempre maggiore attenzione e sempre pi vasto pubblico. Nei nostri supermercati, rimanendo ai prodotti italiani, non c tutto. Ma c quel che in un paese cos lungo si pu avere in una determinata stagione; e in ogni stagione, considerando, come dicevamo, Bolzano e Lampedusa, c moltissimo. Forse anche per questo che riusciamo a mantenere qualche aggancio con la sapienza di un tempo. Anche se non sapessimo che gennaio non stagione di pomodori, basta guardarne il prezzo per capire che evidentemente non sono di stagione e dunque arrivano da qualche altro lido. Certo, occorrerebbe ragionare sullitalianit dei nostri prodotti, oltre che sulla nostra. Se usciamo dallambito del fresco, ovvero la frutta e la verdura, la situazione si fa oltremodo problematica. Lo strumento delle indicazioni geografiche, nato per la tutela di prodotti, territori e sapienze, troppo spesso si trasformato in uno strumento di marketing. Molto efficace, peraltro, e dunque ampiamente abusato e copiato allestero. Parole come Toscana, amalfitano, valtellinese sono come evocatori di piacere. Se lo strumento delle indicazioni geografiche viene usato correttamente, ovvero quando lindicazione corrisponde a un disciplinare ben fatto, che collega il prodotto al territorio, alle sue caratteristiche e alla sua cultura, allora uno strumento di crescita, uno strumento che costruisce e rafforza identit, che costruisce e rafforza sviluppo. Se invece diventa un brand, nel regno dei brands quel che conta evocare, ma a forza di evocazioni vuote le identit si perdono, non si definiscono. E se le indicazioni geografiche sono solo un brand, allora le imitazioni sono possibili. Se dietro la protezione della pizza di Napoli non c una serie di ingredienti locali, oltre che una sapienza umana, e una procedura sperimentata nel tempo, allora sar semplice per qualsiasi industria vendere con successo un prodotto che evochi lidea di Napoli nel suo marchio (non serve usare la parola, basta una maschera, o uno strumento musicale o un vulcano in lontananza) e i consumatori non noteranno la differenza. Lesempio della bresaola della Valtellina, che contempla lutilizzo di carne di em brasiliana il pi classico esempio di indicazione geografica tradita. Un eventuale prodotto brasiliano che decidesse di utilizzare carne essiccata da animali locali conterrebbe pi verit del nostro prestigioso marchio. Se poi ci spostiamo dai prodotti specifici di un determinato territorio ai prodotti che, in linea generale, caratterizzerebbero la gastronomia italiana, non possiamo che ammettere che, sia pure con qualche rara eccezione, la maggior parte di essi vengono da molto lontano: il mais che caratterizza il Nord, il grano duro del Centro-Sud, il pomodoro di tutta la penisola, le patate, il caff quanta della nostra identit gastronomica la dobbiamo allAmerica del Sud e allAsia? Non sembri contraddittoria questa considerazione, dopo laugurio che le indicazioni geografiche diventino strumenti legati ai territori. Ammettere, con gratitudine, che dobbiamo allAmerica e allAsia la maggior parte degli ingredienti della pizza non significa offuscarne litalianit. Significa riconoscere che gli uomini e i territori sono interdipendenti, ma questa interdipendenza non significa indefinitezza. In quanto elaborazione culinaria e culturale di quegli ingredienti, la pizza oggi italiana, ma se gli ingredienti con cui viene prodotta non appartengono a nessun territorio, allora nemmeno la pizza pu contribuire alla definizione della nostra identit. Quando Ancel Keys defin la struttura della dieta mediterranea aveva molte ragioni per collegare il consumo di quei prodotti ai benefici per la salute che aveva osservato nelle persone che aveva preso come riferimento. Quello che poi nella vulgata dei suoi studi si perso di vista proprio questo: la dieta mediterranea ha un senso se si mangiano prodotti di qualit. Se si mangiano verdure inodori e insapori, se quella poca carne consentita viene da animali tenuti in condizioni di stress, se il raccomandato pesce allevato ad antibiotici e se persino i rari dolci sono pieni di aromi di sintesi,
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allora, dove finisce quellidentit mediterranea che farebbe riferimento a un determinato clima e territorio, oltre che a un certo stile di vita che preveda una certa quantit di moto e un rapporto costante con la natura? di questi mesi la discussione sulliscrizione della dieta mediterranea allelenco dei beni immateriali protetti dalle Nazioni Unite. Ecco, vorrei che ci andassimo piano con limmaterialit: le idee e lo stile di vita hanno un senso se sono agganciate a terreni, a procedure di produzione, a concrete azioni di rispetto della salute del pianeta, di chi produce e di chi consuma. Se la dieta mediterranea non questo, allora limmaterialit dei suoi riferimenti rischia di essere solo un suggestivo packaging per una scatola vuota. Ci detto, probabilmente anche quel conglomerato di conoscenze, competenze, gusti e comportamenti che cerchiamo di stipare nelletichetta un po rigida di identit gastronomica italiana si manifesta, anche, in un determinato stile di vita. Il 70% circa degli italiani pranza a casa. Forse questa la cifra identitaria che pi ci distingue. Perch il pasto a casa, specialmente il pranzo, un efficace antidoto allomologazione in direzione di unalimentazione di stampo industriale. Esso, infatti, implica lacquisto, la programmazione, la scelta di tutti gli anelli della catena di azioni che vanno dal momento in cui si programma al momento in cui si consuma un pasto. Il pranzo a casa rappresenta un presidio, una forma di controllo sulla propria alimentazione, un esercizio della sovranit alimentare. Non importa se si torna a casa per mangiare una mela o uninsalata o per consumare in famiglia un pasto cucinato da qualcun altro, o per cucinare, nel poco tempo a disposizione qualcosa per s e altri; quel che importa che si torna a casa per mettere insieme un pranzo sulla base di quel che si acquistato, in base alle tradizioni, ai gusti e alle capacit di elaborazione della propria famiglia. Quando non possibile pranzare a casa, fatalmente occorre rinunciare a qualche forma di controllo. Mangiare al bar sotto lufficio , in qualche modo, una delega alla propria sovranit. Non cos quando si sceglie un ristorante per una cena tra amici: si ha tempo e disponibilit danimo per scegliere quello pi adatto alle nostre esigenze. Ma il pasto veloce per forza di cose un pasto sul quale esercitiamo meno controllo. Certo, sia pure con questo consolante baluardo del 70% di pranzi consumati a casa, il cosiddetto modello unico inizia a dilagare anche da noi. E non si configura soltanto in una diversa qualit, quantit e tipologia di prodotti consumati. Si caratterizza, ancora, per le modalit in cui il pasto viene consumato. A definire le modalit di un pasto intervengono almeno tre categorie: il tempo, i modi e la compagnia. Sembra che la cifra della modernit si risolva sostanzialmente in una contrazione di tutte le tre opzioni. Meno tempo, meno cucina, meno persone. La sottrazione, fatalmente, omologa, mentre nella ricchezza di diversit si creano le identit. Anche per questo la salvaguardia di quel che oggi, con un refrain a tratti inconsapevole, chiamiamo biodiversit cos importante. 4. Ed eccoci, finalmente al cuore della questione, che abbiamo cercato di presentare nei precedenti paragrafi: il concetto chiave per il mantenimento di unidentit il cambiamento. Di pi: il cambiamento lelemento chiave della vita, della sopravvivenza delle specie. Se non cambiassimo continuamente, se il nostro corpo e la nostra psiche non fossero costantemente impegnati in un lavorio di recepimento ed elaborazione di informazioni (materiali e immateriali) noi non potremmo vivere. A livello culturale, la situazione molto simile. Le culture che non si evolvono, che per varie ragioni non si adattano ai cambiamenti fisici o culturali del tempo in cui vivono, finiscono per isolarsi, cristallizzarsi nelle loro forme, smettere di evolversi e scomparire. Mantenere una variet di prodotti, di usi, di costumi, di cucine, di abitudini, di gusti e di disgusti elemento fondante di ogni robusta identit gastronomica. Certo, siamo in unepoca che non favorisce n incoraggia le diversit, perch siamo in un mondo dominato dal mercato, il quale prospera rapidamente nella standardizzazione, nella semplificazione. Siamo in un mondo di pizzerie computerizzate in cui se il nostro desiderio gastronomico non
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corrisponde allopzione prevista dal sistema rischiamo di mandare in tilt cameriere e computer. Fateci caso, cos per gioco. Provate a dire che scegliete la 5 senza basilico o con il peperoncino. Lo sguardo del cameriere vagher sulla tastiera, poi torner a voi mentre lui dice che non ce lha nellelenco. Voi risponderete non grave, basta che lo dica al cuoco e lui assentir poco convinto. Il risultato sar che la vostra pizza, nel migliore dei casi, arriver in ritardo, nel peggiore si perder fuori dal sistema. Siamo in un mondo in cui scegliere ogni volta quel che si desidera, addirittura scegliere di mangiare solo se si ha fame, sta diventando un lusso da stravaganti. Ci si trincera dietro un non ho tempo che non sappiamo pi su quali dati si fonda per giustificare qualunque ricorso a un cibo standardizzato, superlavorato, lontano dalla sua origine e dalla nostra comprensione; un cibo che costa molto di pi di quello fresco, locale, stagionale, da cucinare. E che ci costringe dunque a lavorare molto per poterlo acquistare. Se compro linsalata di quarta gamma (prelavata e imbustata) a 15 euro al chilo invece di quella fresca a 1,50, allora certo che non ho tempo: ho dovuto lavorare molto per guadagnare quei 15 euro. Ma siamo anche in un mondo che, grazie alle tecnologie pi avanzate, sembra aver ritrovato la sua strada verso la diversificazione. Come magistralmente spiega Chris Anderson in La coda lunga, Internet ha rivoluzionato la relazione tra fornitore e consumatore favorendo proprio quel bisogno di comunit che ci caratterizza in quanto esseri umani. Lera del one-size-fits-all, scrive lautore, al capolinea, rimpiazzata da qualcosa di nuovo: un mercato di moltitudini. Non so se condivido laudacia di questa visione, forse non intravvedo ancora il capolinea dellomologazione. Ma certamente anche dalle nuove tecnologie ci pu venire una nuova rieducazione alla diversit che lunica via per non perdere il pi straordinario patrimonio della nostra identit gastronomica, al quale abbiamo bisogno di attingere continuamente, continuando a contaminare e contaminarci, per confermare e approfondire sempre pi le nostre radici, in modo che i rami si possano spingere sempre pi lontano.

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