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Gli effetti del deprezzamento delleuro La valutazione degli effetti del deprezzamento della moneta europea per larea

delleuro nel suo complesso e per lItalia viene effettuata attraverso il modello delleconomia mondiale dellOxford Forecasting Group. Lesercizio considera gli effetti di una svalutazione una tantum del 10% delleuro rispetto a tutte le valute, collocata convenzionalmente nel primo trimestre del 2000. Si confrontano dunque due scenari: prendendo a riferimento il cambio con il dollaro, nello scenario base leuro rimane per tre anni a 1,07 dollari (il valore medio del 1999), in quello alternativo esso si colloca a 0,97 dollari. In entrambi gli scenari si assume che la politica della BCE sia tale da mantenere costante al 3%, il tasso di interesse reale (a breve termine). La simulazione indica che il deprezzamento provoca nellarea delleuro una maggiore inflazione rispetto alla base dello 0,3% nel 2000, dell1,1% nel 2001 e dell1% nel 2002. In Italia lincremento del prezzo dei prodotti importati determina uno scostamento rispetto allo scenario di base pi forte che nellarea delleuro nei primi due anni (0,5% nel 2000 e 1,5% nel 2001); successivamente la spinta esterna tende ad attenuarsi (il divario di inflazione rispetto alla base si attesta a +0,6% nel 2002). Nellarea delleuro le esportazioni nette peggiorano rispetto allo scenario di base di 2,7 miliardi di euro nel 2000, ma migliorano poi nei due anni successivi; nel 2002 risultano di 7,4 miliardi di euro superiori alla base. Questa dinamica dipende dal fatto che le quantit di importazioni ed esportazioni si aggiustano alla svalutazione pi lentamente dei prezzi. Il meccanismo di aggiustamento dei prezzi allimport ed allexport e quello delle quantit differisce per tra i paesi dellarea. In Italia le esportazioni nette peggiorano rispetto allo scenario base di 6 miliardi di euro nei primi due anni. Nel terzo anno lo scostamento negativo si riduce a circa 3 miliardi di euro. La bilancia commerciale italiana risulta migliore rispetto alla base solo a partire dal quarto anno. In Germania e Francia invece le esportazioni nette migliorano gi nel corso del primo anno, accumulando un differenziale positivo rispetto allo scenario di base di 28 e di 12,5 miliardi di euro rispettivamente nel 2002. Quindi mentre in Germania e in Francia e, in generale, nellarea delleuro laggiustamento delle quantit segue quello dei prezzi con un ritardo temporale di un anno, in Italia tale aggiustamento risulta molto pi lento (3 anni). La dinamica della bilancia commerciale dipende sia da quanto la svalutazione si riflette sui prezzi allimport e allexport sia dallelasticit delle quantit esportate ed importate ai prezzi relativi. Le simulazioni mostrano che nei paesi dellarea leffetto del deprezzamento sui prezzi allimport alquanto diverso. In Italia i prezzi allimport pi che triplicano nel 2000, mentre raddoppiano in Francia e in Germania. Il differenziale con lo scenario di base si riduce considerevolmente e si annulla nei tre paesi a partire dal 2001. Il maggiore effetto per lItalia dipende dalla pi elevata quota di importazioni di materie prime fatturate in dollari per le quali la compensazione del rafforzamento del dollaro con minori prezzi allorigine praticamente impossibile: si tratta di commodities direttamente quotate nella valuta americana. Nel modello utilizzato questo fenomeno si evidenzia attraverso il peso delle importazioni petrolifere sulle importazioni totali di beni e servizi: tale peso, valutato a prezzi del 1995, 8,3% per lItalia, 5,3% per la Francia e 3,4% per la Germania. Nel caso dei manufatti invece gli esportatori extra-europei verso larea delleuro compensano lapprezzamento del dollaro con variazioni di segno contrario nei prezzi accettando una temporanea riduzione dei margini di profitto nel mercato europeo. Dal lato dei prezzi allexport, il comportamento degli esportatori non differisce in misura

sostanziale tra i principali paesi dellarea euro. Le simulazioni mostrano che in Italia, Francia e Germania i prezzi allexport aumentano nel breve periodo per poi ritornare su valori prossimi a quelli dello scenario di base nel lungo periodo. Gli scostamenti dallo scenario di base sono molto simili per i tre paesi: nel 2000 i prezzi allesportazione in euro subiscono un incremento dell1,9% in Italia e in Francia e dell1,3% in Germania; negli anni successivi i divari si esauriscono. Per quanto concerne le quantit scambiate col resto del mondo, differenze rilevanti si evidenziano dal lato delle importazioni. La diminuzione delle quantit importate allaumento dei prezzi infatti tanto meno sensibile quanto pi importanti sono le importazioni dei prodotti primari fatturati in dollari; tali prodotti sono scarsamente sostituibili nel breve periodo e si caratterizzano quindi per una domanda sostanzialmente rigida. Data la struttura dellimport, ne consegue che lItalia il paese caratterizzato da una domanda di importazioni totali pi rigida rispetto a quella della Germania e della Francia1. Dal lato delle quantit esportate, laggiustamento rallentato dal pass-through (incompleto) che gli esportatori europei fanno sui prezzi allesportazione, su cui non si registrano sensibili differenze tra i paesi europei. Levoluzione dei prezzi allimport ed allexport contribuisce a determinare un andamento dei margini unitari peggiore per lItalia sia rispetto allo scenario di base che rispetto a Francia e Germania. Rispetto allo scenario di base la dinamica dei margini unitari si riduce nel 2000 dell1,3% in Italia, dell1,1% in Germania e dello 0,7% in Francia. Tale differenziale diventa positivo nel 2001 sia in Francia che in Germania, mentre in Italia si azzera. Grazie allaumento delloutput, la minore dinamica dei margini non comporta un peggioramento dei profitti totali: la differenza rispetto allo scenario di base risulta positiva nel primo anno e tende ad aumentare negli anni successivi. Il deprezzamento conduce ad un aumento della domanda globale verso i beni domestici, determinando effetti positivi sulloutput totale. Rispetto allo scenario di base si osserva una maggiore crescita del PIL dello 0,2% nellarea delleuro e dello 0,4% in Italia; negli anni successivi la maggiore crescita della nostra economia consentita dalla svalutazione al di sotto di quella dellunione monetaria (0,3% e 0,4% in Italia, 0,4% e 0,6% nellarea delleuro).

1 Le elasticit stimate delle importazioni di beni e servizi risultano pari a 0,5 in Italia,

-0,6 in Francia

e 0,9 in Germania
2

Tab. 1 Differenze tra lo scenario con shock e lo scenario di base Italia Germania Prezzi al consumo (tassi di crescita) 0,5 0,3 2000 1,5 0,7 2001 0,6 1,4 2002 Saldo commerciale (scostamenti in miliardi di euro) -5,0 3,9 2000 -6,0 16,6 2001 -3,3 28,0 2002 Partite correnti (in % del PIL) 2000 2001 2002 Francia
0,3 0,7 0,9

Area euro
0,3 1,1 1,0

9,6 12,5 12,5

-2,7 11,6 7,4

-0,6 -0,5 -0,3

0,0 0,4 0,6

0,0 0,1 0,1

-0,1 0,1 0,0

Margini di profitto unitari (tassi di crescita) 2000 -1,3 2001 -0,1 2002 0,1 PIL (tassi di crescita) 2000 2001 2002

-1,1 0,3 0,4

-0,7 0,6 0,3

n.a. n.a. n.a.

0,4 0,3 0,4

0,2 0,6 0,8

0,1 0,5 0,3

0,3 0,4 0,6

LEVOLUZIONE DEL MERCATO DEL GREGGIO Secondo lAgenzia Internazionale per lEnergia (IEA) la domanda finale mondiale giornaliera di petrolio cresciuta dell1,5% nel 1999: a questo incremento hanno contribuito soprattutto lAsia (+14,3%) ed il Nord America (+3%), mentre la domanda europea risultata in diminuzione (-1,5%). Nello stesso tempo lofferta mondiale giornaliera si contratta dell1,9%, per il 90% dovuto alla riduzione dellofferta da parte dellOPEC e per il 10% a quella del resto dei produttori (tab. 1). La scarsit dellofferta ha prodotto una riduzione delle riserve di petrolio nei paesi dellOCSE, che hanno raggiunto nel 1999 i livelli minimi degli ultimi dieci anni, e ad un incremento considerevole del suo prezzo. Lincremento proseguito sino agli inizi dello scorso marzo con le quotazioni del Brent che hanno superato i 30 dollari al barile per la prima volta dopo la guerra del Golfo nel 1991. Nei due mesi successivi si assistito prima ad un rapido declino del prezzo (21 dollari al barile in aprile), in conseguenza della decisione dei paesi produttori di tornare ad incrementare la produzione, e poi ad un rialzo continuo (29 dollari al barile alla fine di maggio), a causa della ricostituzione delle scorte nei paesi industriali, prevalentemente gli Stati Uniti. In particolare, nel primo trimestre del 2000 lofferta di petrolio stata di 75,3 milioni di barili al giorno a fronte di una domanda che si attestata a 75,7 milioni di barili al giorno. Con il meeting dello scorso 29 marzo, nove degli undici paesi membri dellOPEC hanno deciso di aumentare la produzione di 1,4 milioni di barili al giorno, circa il 6% dellofferta OPEC. LIran, non formalmente parte dellaccordo, si allineato successivamente agli altri paesi negli incrementi produttivi. Tali aumenti non sono stati in grado di limitare le oscillazioni di prezzo. Mentre relativamente agevole fare proiezioni sugli andamenti della domanda perch legati alla crescita mondiale, le ipotesi sugli andamenti dellofferta sono pi arbitrari dipendendo principalmente dalle decisioni del cartello OPEC. LIEA stima un graduale incremento della domanda giornaliera di petrolio a partire dal secondo trimestre di questanno che porterebbe in media danno ad una crescita del 2%. Sulla base di questa stima, la domanda mondiale di greggio risulterebbe nel 2000 pari a 76,5 milioni di barili al giorno. In assenza di ulteriori incrementi nella produzione di greggio, da parte dellOPEC o degli altri produttori, lofferta mondiale di petrolio si attesterebbe a 75,6 milioni di barili al giorno, circa 1 milione di barili al giorno al di sotto della domanda. Questo scenario implicherebbe dunque il permanere di tensioni nel mercato del greggio, con una quotazione che tenderebbe a rimanere sugli elevati livelli dellultimo mese. Il riequilibrio del mercato e il conseguente allontanamento delle tensioni richiederebbero un incremento dellofferta di petrolio di circa l1,2% rispetto ai livelli dellultimo mese. Tale incremento potrebbe essere realizzato dallOPEC nel quadro degli accordi di marzo che prevedono aggiustamenti dellofferta qualora il prezzo di un basket di greggi si situi persistentemente (per pi di venti giorni) al di fuori di un range compreso tra i 22 e i 28 dollari al barile. Lincremento tecnicamente possibile detenendo lOPEC l80% delle riserve di petrolio ed una capacit produttiva inutilizzata pari a circa 5 milioni di barili al giorno. Laumento di produzione non implicherebbe un aumento dei costi marginali di estrazione per lOPEC che sono prossimi a zero.

La competitivit dell'Europa negli anni '90. La performance macroeconomica dell'Europa negli anni '90 stata deludente, soprattutto se confrontata con quella degli Stati Uniti. La crescita media annua dei paesi dell'Euro nel decennio stata pari al 2%, circa 1 punto in meno all'anno degli Stati Uniti (cfr. tab. 1). Il divario quasi doppio se si considerano gli ultimi 4 anni, in cui i paesi dell'Euro sono cresciuti in media del 2,2% e gli Stati Uniti del 4,1%; in quest'ultimo periodo, la crescita media dei paesi dell'Euro stata inferiore anche a quella del Regno Unito (+2,6% annua) e superiore invece a quella del Giappone (+1,1%). Tra i principali paesi partecipanti alla Moneta Unica, il tasso di crescita dell'Italia nel decennio '90 (+1,4%) stato inferiore sia a quello della Francia (+1,7%) che della Germania (+2,2%); il ritardo di crescita del nostro paese si ampliato negli ultimi 4 anni. La differenza di performance dell'Europa rispetto agli Stati Uniti e dell'Italia rispetto alla media Europea evidente anche dai dati sulla disoccupazione. Negli Stati Uniti, il tasso di disoccupazione si portato nella seconda met degli anni '90 stabilmente al di sotto del 5%; nello stesso periodo in Europa la disoccupazione si attestata in media all'11%, raggiungendo l'11,6% in Italia, l'11,9% in Francia e il 9,2% in Germania. L'Europa diventata anche negli anni '90 un'area meno attraente per gli investimenti diretti esteri: i flussi di investimenti diretti in entrata nell'area dell'Euro erano pari a quasi il 27% del totale degli investimenti diretti esteri mondiali tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90. Tale quota scesa al 21% nel 1998, ultimo anno per il quale si hanno dati disponibili a livello mondiale. Gli Stati Uniti sono divenuti quindi l'area che attira la maggior quota di investimenti diretti esteri nel mondo, con il 23,2% del totale. All'interno dell'area dell'Euro, stata particolarmente significativa la caduta della quota di investimenti diretti in entrata in Italia, che scesa dal 2,5% allo 0,9% del totale mondiale; la quota della Francia scesa negli stessi anni dal 7 al 5,7%, quella della Germania salita dall'1,5% al 2,4%. Tra i paesi partecipanti alla Moneta Unica, l'Italia con circa 3.500 miliardi di dollari di investimenti in entrata all'anno attira un ammontare di investimenti diretti esteri superiore soltanto a quello di paesi di dimensioni medio-piccole come Austria, Finlandia, Irlanda e Portogallo; il flusso di investimenti diretti esteri verso l'Italia molto minore rispetto a quello di Spagna (8.300 miliardi l'anno), Germania (oltre 9.000 miliardi annui), Belgio e Lussemburgo (oltre 12.000 miliardi), Olanda (circa 14.000 miliardi di dollari all'anno) e Francia (quasi 21.500 miliardi). Considerando gli investimenti diretti esteri in entrata in rapporto all'ammontare complessivo degli investimenti, l'Italia si trova nelle ultime posizioni con una quota di circa il 2%, ben inferiore anche a quella di Irlanda (circa 20%), Austria (5%), Portogallo e Finlandia (10%). La quota italiana di investimenti diretti esteri rispetto al totale degli investimenti nazionali superiore soltanto a quella tedesca e giapponese. Sulla deludente performance dell'Europa ha inciso un ambiente meno favorevole alla crescita e all'innovazione rispetto agli Stati Uniti. Tra i principali fattori di freno allo sviluppo, c' un intervento pubblico eccessivo e qualitativamente inadeguato, che ha determinato l'emergere di barriere e impedimenti all'attivit imprenditoriale privata2. Evidenza in tal senso fornita dagli ultimi rapporti "Benchmark" dell'UNICE3 e dagli studi dell'OCSE (tab. 2). L'Europa appare in forte ritardo rispetto agli Stati Uniti, ma anche al Giappone, anche per quanto riguarda lo sviluppo dei settori a pi alta tecnologia e dell'information technology e
2 Il CSC ha recentemente dedicato una approfondita riflessione al tema della regolazione e dei suoi effetti sulla competitivit dell'Europa. Si vedano a tale proposito i due volumi coordinati da Giampaolo Galli e Jacques Pelkmans, "Regulatory Reform and Competitiveness in Europe", editi da Edward Elgar nel marzo 2000. 3 Si vedano i Benchmarking Report dell'UNICE del 1998, 1999 e 2000 e il rapporto OCSE. 5

la quota di prodotto destinata ad attivit di ricerca e sviluppo. I paesi Europei, con l'eccezione del Regno Unito, mostrano una quota di attivit manifatturiere in settori tecnologicamente avanzati inferiore a quella degli Stati Uniti e del Giappone. Anche la penetrazione delle tecnologie ITC e la qualit delle infrastrutture ad esse collegate nettamente inferiore, cos come la quota di spesa in Ricerca e Sviluppo (sia totale che privata) rispetto al PIL e il numero di ricercatori di base come quota del totale dei partecipanti alle forze di lavoro. La pi bassa quota di spesa in R&S e il pi basso numero di ricercatori di base si traducono anche in una minore "autosufficienza tecnologica" dei paesi Europei: il numero di brevetti prodotti internamente rispetto al totale dei brevetti utilizzati in un paese pari a quasi il 52% negli USA e a oltre l'80% in Giappone, mentre nella media dell'Unione Europea scende a poco pi dell'11% e in Italia al 9%. La bassa propensione del nostro paese a sviluppare nuove tecnologie testimoniata anche dal dato sul numero di brevetti registrati: in Italia siamo a 1,2 brevetti per 10000 abitanti contro i 2,5 brevetti della media europea, i 4,5 degli Stati Uniti e i 27,7 del Giappone. Il ritardo Europeo nello sviluppo delle attivit ad alta tecnologia e nell'attivit di ricerca pu essere considerato il risultato dei maggiori costi che le imprese del nostro continente devono sopportare rispetto ai loro concorrenti. Sulla base delle informazioni raccolte dall'UNICE, il costo di servizi di grande importanza quali l'energia elettrica, il telefono o il trasporto su strada pi che doppio nella media Europea rispetto agli Stati Uniti. Anche il costo delle nuove tecnologie (accesso a Internet, telefoni cellulari) ben superiore in Europa rispetto agli Stati Uniti, cos come quello per ottenere il rilascio di nuovi brevetti (fig. 1). Anche i tempi necessari per l'avviamento di una nuova attivit imprenditoriale sono in Europa di molto superiori rispetto agli Stati Uniti ed al Giappone; tra i paesi Europei, l'Italia in una posizione intermedia tra paesi "virtuosi" come il Regno Unito e paesi come la Germania dove i tempi di attesa superano addirittura i 12 mesi. Anche in termini di costi burocratici da affrontare per creare una nuova impresa l'Europa svantaggiata rispetto agli Stati Uniti, con costi quasi tripli; i costi Europei sono per meno della met di quelli giapponesi. All'interno dell'area comunitaria, le differenze sono anche in questo caso notevoli: in paesi come il Regno Unito, i costi sono addirittura inferiori a quelli americani, mentre salgono quasi ai livelli giapponesi in Francia ed in Italia. Gli alti costi dei servizi, la scarsa propensione all'innovazione e i ritardi nella capacit di creazione di nuove attivit imprenditoriali possono essere in larga parte attribuibili alla lentezza con cui in Europa negli ultimi anni si proceduto alla riforma dei mercati, alla loro liberalizzazione e all'introduzione della concorrenza4.

4 Si vedano a questo proposito in particolare i contributi di Reichman e Schultz e Prosperetti (settore elettrico), McGowan (trasporto aereo), Ponti (trasporto su strada) e Martin Cave (telecomunicazioni) nello studio coordinato dal CSC sopra citato. 6

La riforma fiscale in Germania Nel corso degli ultimi due anni il governo tedesco ha varato una serie articolata di riforme fiscali e di programmi di risanamento delle finanze pubbliche. In particolare il Piano d'alleggerimento fiscale 1999/2000/2002, che gi in vigore, si concentrava sulla tassazione personale dei redditi e sullintroduzione delle imposte ambientali. Tale piano prevedeva solo una modesta riduzione daliquota della tassazione dimpresa ed stato cos affiancato dal Piano di riduzione fiscale, elaborato sulla base si una proposta (Bruehler Empfehlungen) formulata dal Comitato per la riforma della tassazione d'impresa. La nuova proposta, che non ha ancora terminato liter parlamentare, prevede una modificazione sostanziale dellimposizione societaria e ulteriori tagli nelle imposte personali. Se la legge nella sua forma attuale non venisse approvata dal Bundesrat, un comitato di mediazione (Vermittlungsausschuss) dovr trovare un compromesso tra Bundesrat e Bundestag. Gli scopi perseguiti dal governo sono quelli di migliorare la competitivit dellindustria tedesca e rendere il sistema fiscale pi equo e pi trasparente. Lalleggerimento fiscale previsto tra il 2001 e il 2005 dovrebbe corrispondere allincirca a 44 milioni di DM, dei quali 23 dovrebbero essere a beneficio delle famiglie, 14 per le piccole e medie imprese e 7 per le grandi imprese. Se sommato ai 30 miliardi di DM gi concessi nel 1999, la diminuzione complessiva del carico fiscale nel periodo 1999-2005 attribuibile alle insieme delle manovre attuate dal governo corrisponderebbe a 75 miliardi di DM rispetto al 1998. Ci comporta una diminuzione della pressione fiscale dal 43,1% del Pil nel 1999 al 41% nel 2003. Questi tagli sono peraltro coerenti con il Patto di stabilit: il deficit pubblico stimato al 1% del Pil nel 2000 e allo 0,5% nel 2003. Complessivamente le aliquote legali massime sui redditi personali scenderanno dal 55,9% nel 1999 al 47,5% nel 2005, mentre le aliquote legali sui redditi dimpresa dal 52,20% nel 1999 passeranno al 38,9% nel 2005.

La tassazione d'impresa in Germania attualmente composta da un'imposta sui redditi societari, analoga alla nostra IRPEG, da unimposta comunale sugli utili (denominata tassa sul commercio -Gewerbeertragsteuer) e da una sovrattassa di solidariet del 5,5%. Laliquota legale dellimposta sulle societ per azioni 40% sui profitti non distribuiti e 30% sui dividendi. Fin dal 1977, la tassa sulle societ per azioni opera in base al sistema a piena integrazione svolgendo sugli utili distribuiti una semplice funzione dacconto dellimposta dovuta dal socio. Nel sistema corrente, infatti, i dividendi distribuiti da societ per azioni tedesche ai residenti in Germania danno diritto ad un credito d'imposta pieno (pari ai 3/7 dei profitti distribuiti) per l'imposta personale sui redditi. Questo metodo evita la doppia tassazione dei profitti distribuiti e garantisce che i dividendi vengano tassati unicamente in base all'imposta personale sul reddito ( si noti che viene applicata una deduzione per i redditi annuali da interesse e dividendi pari 3000 DM per ciascun coniuge). Il governo tedesco ritiene che questo sistema non sia pi conforme alle regole della UE in quanto discrimina tra azionisti residenti e azionisti stranieri. Mentre per i residenti la tassazione dei dividendi a livello societario costituisce un anticipo della tassazione personale dei redditi, per gli stranieri a titolo definitivo. La proposta di trasformare la tassazione sui redditi dimpresa in unimposta a titolo definitivo. I redditi dimpresa verranno quindi sottoposti ad una doppia tassazione (sistema classico). Viene, per, ridotta drasticamente laliquota legale applicata sui profitti (distribuiti e non ) che scende al 25%. La proposta adotta una variante del sistema classico in base alla quale solo la met dei dividendi soggetta all'imposta personale sul reddito. Inoltre, per evitare la sovrapposizione di carichi fiscali allinterno delle holdings, la distribuzione dei profitti tra imprese verr esentata. In tab.1 vengono paragonati il vecchio e il nuovo sistema di tassazione dei dividendi: i due sistemi di tassazione risultano equivalenti quando laliquota marginale pagata sui redditi personali pari al 40%. Il nuovo sistema comporta delle riduzioni fiscali per coloro che hanno unaliquota marginale pi alta del 40%. Il sistema proposto dovrebbe rendere la Germania un paese che attira pi facilmente investimenti esteri (vista la riduzione dellaliquota al 25%) e comporta un trattamento preferenziale per i profitti non distribuiti rispetto ai dividendi. La massima aliquota marginale dellimposta sul reddito sar 51,2% nel 2001, 49,6% nel 2003 e 47,5% nel 2005, mentre il carico fiscale sui profitti non distribuiti sar approssimativamente 38,9%. Linconveniente di questo tipo di tassazione la possibilit che si creino dei lock-in effects e che venga cos ridotto il ruolo del mercato dei capitali come meccanismo di allocazione dei fondi. Inoltre, i profitti non distribuiti possono essere usati per comprare azioni di altre societ per azioni o per comprare obbligazioni invece che finanziare spese per investimento. Fondamentalmente in questo modo si crea una sorta di distinzione tra imprese, favorite dalla tassazione, e imprenditori, che potrebbero essere svantaggiati. Ricordiamo, infine che la riduzione dellaliquota legale accompagnata da un allargamento della base imponibile: infatti il tasso di ammortamento per alcune categorie di beni verr ridotto. Effetto indiretto del cambiamento dellaliquota sui redditi societari laumento dellaliquota media effettiva dellimposta comunale, attualmente pari all'incirca al 10%. Tale imposta infatti deducibile ai fini del calcolo dellimposta sui redditi societari. Pertanto diminuendo laliquota legale su questi ultimi verr anche diminuito il risparmio fiscale legato alla deducibilit. Con la riforma laliquota media effettiva dellimposta comunale salirebbe al 12,5%. Altro punto rilevante della riforma lesenzione delle plusvalenze (capital gains) realizzate

dalla vendita di azioni detenute da societ per azioni e appartenenti ad altre societ per azioni. La ratio seguita di facilitare la ristrutturazione degli assetti societari, di ridurre i controlli incrociati e di attirare maggior investimenti dallestero. Inoltre tale esenzione non comporter perdite di gettito perch la maggior parte delle movimentazioni non verrebbero effettuate se fossero ancora sottoposte allattuale regime fiscale. Dallaltra parte, per evitare che i capital gains rimangano completamente esentati, la tassazione degli stessi a livello personale verr inasprita. Per i privati le plusvalenze realizzate sulla vendita di azioni detenute come portfolio investment sono tassate con l'aliquota dell'imposta personale sul reddito se la vendita avviene entro un anno dall'acquisto delle azioni vendute. I capital gains realizzati dalla vendita di azioni dopo un anno dall'acquisizione sono esenti. Questa esenzione attualmente non si applica agli azionisti che detengono quote qualificate (substantial holdings) al di sopra del 10% delle azioni totali di una societ. Con la riforma, la soglia della quota qualificata ridotta all1%. Lesenzione dei capital gains, quindi, riguarda esclusivamente le societ per azioni, ma non le societ di persone e individuali, a meno che queste ultime non scelgano di essere tassate come un societ per azioni. Pertanto, si aumenta ulteriormente la discriminazione a favore delle societ per azioni. Le societ di persone, che rappresentano allincirca l80% di tutte le imprese in Germania, sono soggette alla tassazione personale sui redditi. Per ristabilire (sia pur approssimativamente) una neutralit di trattamento rispetto alle societ di capitali, la riforma prevede per le societ di persone di scegliere tra: essere tassate in base alla tassazione personale sui redditi, usufruendo per di un credito di imposta calcolato sull'imposta comunale pagata, oppure, essere tassate come le societ per azioni. In questo caso, verranno considerati alla stregua delle societ per azioni sotto ogni punto di vista. In generale vi incertezza circa il numero di aziende (societ di persone o individuali) che opteranno per essere tassate come societ per azioni. La critica mossa allopzione di poter considerare limposta comunale come credito dimposta per la tassazione personale del reddito si basa su ragioni sistematiche: mentre l'imposta personale sul reddito regolata dal principio della capacit contributiva, limposta comunale dovrebbe essere una sorta di corrispettivo pagato per i benefici derivanti dalle infrastrutture locali (da cui la sua natura di imposta locale). Mescolare imposte che seguono il principio dellabilit a pagare con quelle che seguono il principio del beneficio complica il sistema fiscale rendendolo meno organico. Tab.1 - Confronto fra nuovo e vecchio sistema fiscale
(valori assoluti in DM e valori percentuali)

Vecchio sistema Impresa Profitti da distribuire Tassazione sulla distribuzione Dividendi distribuiti 1000 300 700

Nuovo sistema 1000 250 750 750 375

Differenza

Azionisti Dividendi ricevuti 700 Imponibile imposta personale sui 1000 redditi

Versamenti e carico fiscale


Aliquota marginale 30%

9b27100000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000030000000000

Imposta dovuta Credito dimposta Versamento Carico fiscale complessivo Aliquota marginale 40% Imposta dovuta Credito dimposta Versamento Carico fiscale complessivo Aliquota marginale 50% Imposta dovuta Credito dimposta Versamento Carico fiscale complessivo

300 300 300

112,50 112,50 362,50 (112,50+250) +20,83%

400 300 100 400

150 150 400 (150 + 250) 187,50 187,50 437,50 (187,50 + 250) -15,62% 0

500 300 200 500

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Tab. 2 - Imposta personale sui redditi


Anno 1998 1999 2000 2001 2003 2005 (1) Deduzioni esentasse (in DM) 12365 13067 13499 14093 14525 15011 (2) Aliquota minima 25,9 23,9 22,9 19,9 17,0 15,0 (3) Sovrattassa solidariet* [0,05*(2)] 1,42 1,31 1,26 1,09 0,94 0,83 (4) Totale (2)+(3) 27,32 25,21 24,16 20,99 17,94 15,83 (5) Aliquota massima 53,0 53,0 51,0 48,5 47,0 45,0 (6) Sovrattassa Solidariet [0,05*(5)] 2,92 2,92 2,81 2,67 2,59 2,48 (7) Totale (5)+(6) 55,92 55,92 53,81 51,17 49,59 47,48

* Aliquote effettive

Tab. 3 Imposta sui profitti non distribuiti


Anno (1) Aliquota Legale 45 40 40 25 25 25 (2) Sovrattassa Solidariet* [0,05*(1)] 2,48 2,20 2,20 1,38 1,38 1,38 (3) Aliquota imposta comunale* 9,17 10,00 10,00 12,5 12,5 12,5 (4) Totale (1)+(2)+(3) 56,64 52,20 52,20 38,88 38,88 38,88

1998 1999 2000 2001 2003 2005


* Aliquote effettive

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La pressione fiscale sulle imprese: un confronto internazionale La rapida integrazione dei mercati dei capitali iniziata dagli anni ottanta e la costituzione del mercato unico e dellunione monetaria hanno rafforzato in tutti i paesi la necessit di rivedere la tassazione dei redditi societari e pi in generale dei redditi da capitale. Il tema della tassazione dimpresa sempre stato oggetto di accessi dibattiti tuttaltro che conclusivi, al punto che non vi accordo nemmeno su quale dovrebbe essere la corretta base imponibile. I possibili effetti negativi dalla tassazione dei redditi da capitale sottolineati dallanalisi economica sono il rallentamento degli investimenti interni e del risparmio e quindi della crescita economica; la distorsione dell'allocazione internazionale dei capitali e della localizzazione delle imprese; la mancanza di neutralit tra la tassazione delle societ di capitali e quella delle imprese individuali, nonch la mancanza di neutralit rispetto alle scelte di finanziamento. Tre linee guida hanno accomunato la maggior parte delle riforme attuate in questi anni nei paesi della UE e dellOCSE: una progressiva diminuzione delle aliquote legali con un contemporaneo aumento delle basi imponibili, lintroduzione di ritenute alla fonte a titolo definitivo per i redditi da interessi dei residenti e una limitazione del segreto bancario. Un modo per valutare limpatto delle riforme dellimposizione societaria attuate nei vari paesi di quantificarne gli effetti in termini di variazione della pressione fiscale. Un primo elemento danalisi dato dallandamento delle aliquote legali per le quali si pongono per problemi di definizione. La legislazione sui redditi societari ovunque piuttosto complessa. Oltre alle imposte sui profitti alcuni paesi applicano delle sovrattasse su una base imponibile molto simile (come la sovrattassa di "solidariet" in Germania). Spesso alla tassazione a livello statale si aggiunge quella locale e in molti paesi esistono anche le imposte sul giro daffari. La tab. 1 riporta nelle prime due colonne le aliquote legali sui profitti non distribuiti nel 1989 e 19995; le ultime due colonne riportano le aliquote complessive calcolate cercando di tenere conto di tutte le principali imposte aggiuntive. Le aliquote complessive risultano diminuite in tutti i paesi ad eccezione dellAustria. I cambiamenti pi accentuati sono avvenuti nei paesi nordici (Svezia e Finlandia), in Danimarca e in Grecia. La tabella, per, fotografa una situazione in movimento: la Finlandia ha in programma laumento dellaliquota al 29%; la Germania sta approvando un piano di riforma che cambier radicalmente la tassazione dei redditi societari (vedi il riquadro La Riforma fiscale in Germania); in lIrlanda, per rendere il sistema pi trasparente, stato programmato un abbassamento dellaliquota legale al 12,5%, che corrisponderebbe comunque alla media attualmente applicata. Nel 1998 anche lItalia ha diminuito le aliquote legali sui profitti. Tuttavia, le aliquote nominali dimposta vanno necessariamente considerate in connessione con le basi imponibili. Al riguardo, spesso si ricorre ad indicatori aggregati del prelievo fiscale sui redditi d'impresa rapportato al Pil che, dai dati disponibili per il periodo 1995-1997 (tab.2), aumentato per tutti i paesi della UE ad eccezione della Grecia. I maggiori aumenti si sono registrati in Lussemburgo, Regno Unito, Portogallo e Finlandia. Gli indicatori basati sul gettito aggregato sono per molto influenzati dal ciclo economico, forniscono poche indicazioni sulle conseguenze distributive delle imposte e non dicono nulla circa gli effetti d'incentivo (o disincentivo) agli investimenti o circa gli effetti sulle scelte di localizzazione delle imprese. Questo tipo di confronti pone inoltre vari problemi di metodo: i) la definizione stessa di tassazione di redditi d'impresa non uniforme tra i diversi paesi. Ad esempio in Austria, Belgio, Danimarca, Lussemburgo, Olanda, Svezia viene applicato il sistema classico di tassazione, in base al quale gli utili distribuiti
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Francia e Germania nel 1989 e la sola Germania nel 1999 applicavano aliquote ridotte sui profitti distribuiti.

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vengono tassati due volte, a livello dimpresa e a livello personale. Negli altri paesi UE (ad eccezione della Grecia) viene applicato il cosiddetto sistema a piena integrazione, in base al quale le imposte pagate sui profitti a livello d'impresa costituiscono un credito d'imposta per la tassazione personale dei redditi; ii) non vi accordo sul tipo dimposte da considerare, un esempio tipico sono le imposte patrimoniali sugli immobili delle imprese; iii) non si tiene conto delle imposte versate all'estero e della tassazione a livello personale dei profitti distribuiti e pi in generale dei redditi da capitale. Per molti versi quindi questi indicatori potrebbero sottostimare il carico fiscale sui redditi dimpresa. Effetti indiretti sullattivit dimpresa vengono infatti prodotti anche dalla tassazione dei redditi da capitale a livello personale, in quanto viene influenzata la propensione a fornire mezzi di finanziamento alle imprese. Indicatori che tengano conto di questo aspetto sono le aliquote implicite sui redditi da capitale, ottenute sommando le imposte personali pagate sui redditi da capitale, le imposte sui redditi societari, le tasse sulla propriet e rapportando il totale al risultato lordo di gestione. Dai calcoli effettuati dai servizi della Commissione UE (fig.1) risulta che laliquota media implicita sul capitale della UE non molto dissimile da quella degli Stati Uniti (21-23%), ed leggermente pi alta che in Giappone (19%); Germania, Spagna e Austria hanno il pi basso carico fiscale sul capitale mentre lItalia ha unaliquota implicita pi alta della media europea. Negli ultimi anni laliquota implicita media europea sarebbe cresciuta in maniera sostenuta, da valori al di sotto del 20% nel 1995 al 23,6% del 1999 (fig. 2). Tale andamento del tutto in contro tendenza con landamento delle aliquote legali, il che pu essere in parte spiegato dai cambiamenti avvenuti nella base imponibile e/o alle fluttuazioni del risultato lordo di gestione. Un modo pi accurato, ma anche pi complesso di quantificare il carico fiscale di calcolare le aliquote medie effettive. Il metodo pi accreditato quello proposto dallIstituto di ricerca tedesco ZEW che considera il bilancio di unimpresa tipo, simulandone lo sviluppo in un arco di 10 anni. In tale bilancio vengono prese in considerazione tutte le imposte rilevanti per le scelte dinvestimento e di finanziamento sia a livello dimpresa che a livello degli azionisti. Le aliquote medie effettive sono definite come la differenza in termini percentuali del rendimento del capitale calcolato in simulazione prima senza imposte e poi in presenza di imposte. I calcoli, finora effettuati per un ristretto numero di paesi ma in corso delaborazione per i rimanenti paesi della UE, mostrano (tab. 3) per il periodo 1995-99 livelli molto alti di tassazione con una leggera tendenza al ribasso (Germania, Regno Unito, Stati Uniti), ad eccezione della Francia. La diminuzione dei carichi non appare particolarmente consistente se non per la Germania, e le differenze nei livelli medi di prelievo tra paesi sono ancora molto elevate. Unulteriore riduzione delle aliquote medie effettive attesa in Germania e Francia se le riforme fiscali annunciate dai governi di questi due paesi verranno approvate. Unanalisi completa degli effetti della tassazione dei redditi da capitale richiederebbe anche lausilio di modelli economici che tengano conto delle reazioni comportamentali dei soggetti colpiti. Il carico fiscale non necessariamente sopportato da chi ha effettuato il versamento: il contribuente infatti tende a spostare il carico in avanti (sui prezzi dei beni) o allindietro (sulla remunerazione dei fattori). Quanto pi il comportamento degli agenti economici modificato dalla presenza del fisco, tanto pi ci si allontana dallottima allocazione dei fattori produttivi. Questo effetto negativo della tassazione sulleconomia pu essere quantitativamente rilevante e comporta una perdita netta di risorse delleconomia. Poich non esistono imposte efficienti e le distorsioni crescono (approssimativamente) in maniera quadratica al crescere delle aliquote marginale il mero

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calcolo del gettito fiscale sottostima comunque il costo complessivo del sistema impositivo sulleconomia. Tab. 1 - Aliquote legali sui redditi dimpresa
Paesi Austria Belgio Danimarca Finlandia Francia Germania Grecia Irlanda(1) Italia(2) Lussemburgo Paesi Bassi Portogallo Spagna Svezia Regno Unito(3) Giappone Stati Uniti Aliquote di base 1989 30 43 50 33 39 56 46 43 (10) 36 34 35 36,5 35 40 35[25] 40/35 34 1999 34 39 32 28 33,33 40 35 28 (10) 27-37 30 35 34 35 28 30[20] 34,5 35 Sovrattasse e tasse locali 1989 ---15E -7,3E --16,2 2T -10T -12E (5+12,3)T 9E 1999 -3 --10T 5,5T; 10E --4,25 4T -10T ---(5+12,3)T 9E Aliquote complessive 1989 30 43 50 48 39 63,3 46 43 (10) 52,2 34,68 35 40,15 35 52 35[25] 46,92/41.06 39,9 1999 34 40,17 32 28 36,66 52,20 35 28 (10) 31,25-41,25 31,2 35 37,4 35 28 30[20] 40,07 40,8

Fonti: Ruding Report (1992, p.173); Cnossen Company taxes in the EU: Criteria and Options for Reform; Fiscal Studies 17 (1996, p.70); Ministero delle Finanze tedesco, International Bureau of Fiscal Documentation (1990). Con E indichiamo le aliquote effettive intese al netto del risparmio legato alla loro deducibilit ai fini dellimposta sui profitti non distribuiti. Con T indichiamo le aliquote delle sovrattasse calcolate sul debito imposta societaria. (1) Laliquota del 10% relativa allindustria manifatturiera localizzata in certe zone del paese. (2) Nel calcolo dellaliquota complessiva non si tiene conto del fatto che la base imponibile IRAP colpisce in realt tutte le componenti del valore aggiunto, tra cui il soto del lavoro e gli interessi passivi. (3) Le aliquote del 20% e del 25% si riferiscono alla tassazione delle piccole imprese.

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Tab. 2 - Imposte dirette sulle persone giuridiche


(in percentuale del Pil) 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 Incremento 1990-97 1995-97 Belgio 2,5 2,5 2,0 2,2 2,7 3,0 3,1 3,4 0,9 0,4 Danimarca 1,6 1,6 1,6 2,2 2,0 2,0 2,3 2,6 1,0 0,6 Germania 1,8 1,6 1,6 1,4 1,1 1,1 1,4 1,5 -0,3 0,4 Grecia 2,0 1,7 1,9 2,1 1,9 2,1 2,0 2,1 0,1 Spagna 3,0 2,7 2,3 2,0 1,7 1,8 1,9 2,6 -0,4 0,8 Francia 2,3 2,0 1,5 1,5 2,0 2,1 2,3 2,6 0,3 0,5 Irlanda 1,8 2,1 2,5 3,0 3,1 2,8 3,2 3,3 1,5 0,5 Italia 3,9 3,8 4,4 4,1 3,7 3,6 3,9 4,2 0,3 0,6 Lussemburgo 6,7 6,4 5,3 7,2 7,5 7,7 8,3 8,6 1,9 0,9 Paesi Bassi 3,4 3,4 3,1 3,3 3,3 3,1 4,0 4,4 1,0 1,3 Austria 1,5 1,5 1,8 1,5 1,3 1,6 2,1 2,1 0,6 0,5 Portogallo 2,4 2,8 2,7 2,3 2,3 2,7 3,1 3,7 1,3 1,0 Finlandia 2,1 2,1 1,7 1,2 0,4 1,8 2,7 3,8 1,7 1,0 Svezia 1,7 1,6 1,2 2,2 2,6 2,9 2,8 3,2 1,5 0,3 Regno Unito 3,9 3,3 2,6 2,4 2,8 3,3 3,8 4,3 0,4 1,0 Media UE15 U.S.A. Giappone 2,7 2,2 6,8 2,6 2,2 6,2 2,4 2,1 5,0 2,6 2,3 4,3 2,6 2,5 4,1 2,8 2,7 4,3 3,1 2,8 4,6 3,5 2,8 4,3 0,8 0,6 -2,5 0,7 0,1 -

Fonte: OCSE, Revenue Statistics (1999), p.76

Tab. 3 - Aliquote medie effettive


Paesi Germania Francia Regno Unito Paesi Bassi USA Media Germania Francia Regno Unito Paesi Bassi USA Media Aliquote medie effettive a livello dimpresa 1995 1996 1997 1998 38,2 37,7 21,5 23,7 32,0 38,2 37,7 21,5 23,7 32,0 38,2 40,0 21,5 23,7 30,7 36,8 40,0 19,7 23,7 30,7 1999 32,9 40,0 21,0 23,7 30,7 29,34 37,0 48,7 25,8 31,8 33,8 35,4 2000 26,0 29,4 21,0 23,7 30,7 26,14 27,4 39,4 25,8 31,8 33,8 31,6

30,61 30,61 30,79 30,17 Aliquote medie effettive a livello dimpresa e di azionisti 43,8 43,8 40,9 39,5 45,3 45,3 46,5 48,6 26,8 26,8 27,0 48,6 38,3 38,3 32,6 24,8 35,2 35,2 33,8 33,8 37,9 37,9 36,1 35,7

15

35,1 26,2 22,6 15,9 18,5 20,8 28 25,1 18,8 24,6 24,1 27,9 23,6 22,7 18,7

23,7

Fig. 1 Aliquote implicite sul capitale 1999

Fonte: Servizi della Commissione e OECD, Public finances in EMU 2000 (24 Maggio 2000).

IRL

NL

FIN

DK

UK

Media UE

US

JAP

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LA CONGIUNTURA NEI SETTORI INDUSTRIALI Malgrado la ripresa delle esportazioni e degli investimenti, l'andamento sostanzialmente debole dei consumi privati ha costituito, nei primi mesi dell'anno in corso, un freno al processo di ripresa dell'industria, avviato nella seconda parte del 1999. Nella media del primo trimestre, la produzione giornaliera, al netto dei fattori stagionali, aumentata soltanto dello 0,4% nei confronti degli ultimi mesi del 1999, evidenziando, quindi, un rallentamento nella crescita rispetto ai due trimestri precedenti (III trimestre: +2%; IV trimestre:+1,4%). Con riferimento alla destinazione economica la produzione ha risentito del calo congiunturale dei beni di consumo (-1,2%), compensato solo in parte dalla crescita produttiva dei beni d'investimento e di quelli intermedi (entrambi oltre l'1%, cfr. fig.1). Anche rispetto ad un anno prima, la produzione di beni di consumo risultata in diminuzione dello 0,6% (essenzialmente nei beni semidurevoli) mentre hanno presentato un andamento particolarmente dinamico (oltre il 3%) i beni intermedi e d'investimento. Nell'ambito dei settori produttori di beni di consumo, nei primi tre mesi dell'anno in corso, ai risultati positivi dell'industria alimentare, del legno-arredo e degli autoveicoli, si sono contrapposti quelli negativi delle pelli e calzature e del tessile-abbigliamento. Sulla base di informazioni di fonte associativa, per l'industria alimentare, dopo un 1999 positivo, anche il 2000 si annuncia come un anno di ulteriore crescita, sia dal lato della produzione, sia da quello degli scambi commerciali, anche se a ritmo pi contenuto. Il commercio estero dovrebbe essere caratterizzato da una sostanziale stabilit delle importazioni, per la scarsa dinamicit dei consumi alimentari, e da una crescita delle esportazioni di entit analoga a quella del biennio 1998-99, che dovrebbe, quindi, permettere un ulteriore progresso dell'attivo commerciale. Le aspettative delle imprese del settore legno-arredo sono orientate ad attribuire un ruolo analogo sia alla crescita degli ordini dall'estero, sia a quella degli ordini provenienti dal mercato interno. Con riferimento alla domanda interna, il rilancio degli investimenti residenziali (in particolare ristrutturazioni di edifici) e l'attesa accelerazione dei consumi dovrebbero favorire gli acquisti di prodotti d'arredamento. Nel mercato dell'auto le immatricolazioni, sostenute dal buon andamento degli ordini, hanno evidenziato, nei primi mesi di quest'anno, un risultato positivo. Condizioni favorevoli alla crescita produttiva del comparto automobilistico (che rappresenta circa la met dell'intero settore dei mezzi di trasporto) potranno venire sia dalla sostituzione di vetture non catalizzate ancora circolanti che da un rapido svecchiamento del parco automobilistico, per motivi ambientali e di sicurezza della circolazione. Il miglioramento della congiuntura produttiva dovrebbe, comunque, riguardare anche gli altri mezzi di trasporto. Il quadro congiunturale del settore pelli e calzature ha presentato, anche nei primi mesi del 2000, andamenti ancora negativi. Sostanzialmente non favorevoli le prospettive per quest'anno. Nell'anno in corso, dovrebbe invece riprendere il tessile-abbigliamento. Segnali positivi provengono soprattutto dalle esportazioni, e ci grazie al risveglio della domanda nei mercati dell'Asia orientale, alla buona tenuta del Nord America e al previsto aumento dei consumi del sistema moda nell'Unione europea. Per i settori produttori di beni d'investimento, dopo la fase di stagnazione che aveva

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caratterizzato il settore della meccanica strumentale per larga parte del 1999, i risultati dei primi mesi dell'anno in corso evidenziano un significativo miglioramento della congiuntura settoriale, che trova conferma nella positiva evoluzione degli ordini in portafoglio e nell'elevato livello della capacit produttiva utilizzata, che dovrebbe attivare nuova domanda di beni capitali per accrescere la produzione. Secondo le associazioni di categoria, pur con differenze tra i diversi comparti nell'entit della crescita, le attese sono caratterizzate da un sostanziale ottimismo, grazie alla crescita dei volumi di produzione da indirizzare sui mercati esteri, in particolare quelli europei, e, sul mercato interno, anche per effetto delle agevolazioni fiscali sugli utili reinvestiti, entrambi importanti fattori di spinta per il ciclo degli investimenti. Per il settore dei prodotti elettrotecnici ed elettronici, in base alle valutazioni dell'Anie, le previsioni per il 2000 mostrano un andamento moderatamente positivo. In particolare, la ripresa degli investimenti, sostenuta dagli incentivi alle ristrutturazioni, verificatasi negli ultimi mesi del 1999, dovrebbe avere, nell'anno in corso, effetti positivi sui comparti che forniscono prodotti e sistemi per l'impiantistica elettrica. Si prevede un'ulteriore crescita per i comparti dell'informatica e delle telecomunicazioni, grazie alla liberalizzazione del settore e al decollo dei servizi innovativi. Prosegue, invece, la situazione di difficolt nel settore dei beni strumentali per la produzione, distribuzione e trasmissione dell'energia elettrica, in virt delle incertezze del processo di liberalizzazione. La ripresa dell'industria meccanica, insieme alle attivit di ristrutturazione edilizia, dovrebbe fare da traino ad una larga parte del settore dei semilavorati e prodotti in metallo, suo principale fornitore di componenti. Tra i beni intermedi, secondo le associazioni di categoria, le aspettative per l'anno in corso indicano, per il settore siderurgico, dopo un 1999 stentato, con cali produttivi e di prezzo, un risveglio della domanda di acciaio, sia nazionale che estera, confermato dalla ripresa degli ordini. Il continuo aumento del dollaro, inoltre, favorisce le vendite all'estero e frena le importazioni dai paesi dell'Est, anche se penalizza l'approvvigionamento di materie prime. Nel settore carta e stampa, malgrado i rincari della cellulosa ed il conseguente rialzo dei prezzi di carte e cartoni - tuttavia non sufficienti a recuperare totalmente gli aggravi dei costi delle materie prime - che creano allarme in particolare tra le imprese trasformatrici, il quadro previsivo orientato ad ottimismo. Tra i fattori pi importanti vanno segnalati la prosecuzione dell'espansione internazionale (in particolare in Europa) ed il consolidamento della ripresa dell'economia nazionale, su cui si innestano anche i positivi effetti del Giubileo. Il 2000 si aperto per l'industria chimica con una forte ripresa sia della domanda interna che estera. Il Panel Congiunturale di Federchimica prevede (al netto della farmaceutica) una crescita dei consumi del 3,8%, delle esportazioni del 5% e della produzione del 3,5%; tali andamenti positivi riguarderebbero quasi tutti i comparti. Per alcuni di essi possibile un aumento dei consumi anche superiore, ma la saturazione della capacit produttiva non dovrebbe permettere di cogliere in pieno lo sviluppo della domanda. Questi elementi portano ad una previsione di importazioni in aumento del 5%, in termini reali, nella media del 2000. Dopo le difficolt produttive del 1999, le previsioni per la chimica di base e le plastiche sono di aumenti superiori al 4%. Migliorano anche i settori pi colpiti da problemi strutturali (come le fibre e i fertilizzanti), senza per recuperare i livelli pre-crisi.

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Nell'ambito dei manufatti in gomma, vi sono, per la prima parte dell'anno in corso, segnali di ripresa dell'attivit produttiva, che provengono dagli ordinativi, in espansione nell'ultimo trimestre del 1999 e ancora di pi nei primi tre mesi di quest'anno. In particolare, le prospettive sono favorevoli soprattutto per il comparto degli articoli tecnici, grazie al boom della domanda estera negli ultimi mesi dello scorso anno, mentre restano incerte per quello dei pneumatici.

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Rilevanza e prime valutazioni degli effetti della e-economy La diffusione della e-economy sta determinando cambiamenti radicali nel modo di fare impresa. Le aziende, al fine di trarre vantaggio dai bassi costi di trasmissione ed elaborazione delle informazioni, sono spinte a riorganizzare le strutture e i processi produttivi, introducendo nuove forme di approvvigionamento e nuovi sistemi di vendita. Linvestimento in information technology (IT) non da solo sufficiente a produrre consistenti aumenti di produttivit. Esso deve accompagnarsi anche a modifiche sostanziali nella strategia delle aziende, nella struttura produttiva, nellorganizzazione del lavoro e negli skill dei lavoratori. In generale, il miglioramento di efficienza si realizza attraverso due canali: le-commerce tra imprese (B2B: business to business) e lecommerce tra imprese e consumatori (B2C: business to consumers). Il B2B permette di diminuire i costi dacquisto e i tempi di trasferimento di dati e materiali, di coordinare pi efficacemente la logistica, di migliorare i rapporti con i clienti riducendo i costi di assistenza e coinvolgendoli nella progettazione di prodotti e servizi, di sviluppare nuovi business e promuovere la propria offerta in un mercato globale. La vendita di prodotti ai consumatori finali tramite internet (o B2C) dovrebbe dar vita a mercati pi efficienti in cui i consumatori hanno informazioni migliori sui prezzi e sui prodotti offerti e i venditori non hanno extraprofitti. Entrambe le due forme di commercio elettronico stimolano lo sviluppo di nuovi servizi specializzati alle imprese, dal disegno di software dedicati alla consulenza per lottimizzazione della logistica. Nonostante i velocissimi ritmi di espansione, la e-economy riveste ancora un peso relativamente piccolo nelle maggiori economie. Essa inoltre diffusa assai diversamente nellarea industriale, con gli Stati Uniti in chiara posizione di leadership. Lo sviluppo della e-economy dipende in modo particolare dalla diffusione di PC e di internet sia nelle imprese che nelle famiglie. Negli Stati Uniti le persone che possiedono un computer sono il 46,9% della popolazione, mentre il 96% dei lavoratori dispone di un PC sul luogo di lavoro (tab. 1). Queste percentuali sono notevolmente inferiori nel resto del mondo. Tra i paesi industrializzati lItalia, con la Spagna, quello dove la diffusione dei PC tra la popolazione e tra i lavoratori pi bassa (rispettivamente il 13,4 e il 39%) 6. Il tasso di penetrazione di internet negli USA pari al 46,3%. In Italia la diffusione di internet intorno al 16,2% ed simile a quella del Giappone e della Francia e leggermente inferiore a quella tedesca7. Questa situazione in rapida evoluzione in tutto il mondo. In particolare in Italia sta crescendo fortemente il numero di coloro che fanno uso di internet pi di una volta alla settimana: da settembre 1999 a maggio 2000 sono cresciuti dell81% e sono circa 5,8 milioni8, anche se solo il 5,2% di questi ha fatto acquisti online. Oltre che da questultima constatazione, lancora scarsa rilevanza del commercio elettronico (B2C e B2B) in Italia testimoniata dal fatto che solo il 7,2% delle-commerce realizzato in Europa ha luogo nel nostro paese; Germania e Inghilterra assorbono individualmente il 27,7% del totale. Una misura per quanto approssimativa della rilevanza delle-commerce nelle economie data dal suo peso nel PIL dei paesi. In Europa il commercio elettronico nel 1999 stato pari a soli 24,4 miliardi di euro (di cui il 75,8% relativa al B2B) ovvero lo 0,3% del PIL europeo. Negli Stati Uniti le-commerce stato pari a circa 75,5 miliardi di euro ovvero lo 0,9% del PIL statunitense. Nonostante le cifre non siano elevate importante precisare che la situazione in rapida evoluzione: dal 1998 al 1999 il commercio
6 La crescita del 16,7% del numero di computer installati non ha permesso allItalia di colmare il divario esistente con gli altri paesi poich questi ultimi hanno registrato in genere tassi di crescita delle installazioni superiori. 7 LItalia, tra i paesi industrializzati, quello con il pi alto numero di utenti per PC. 8 Nel maggio del 2000 solo il 52,7% di coloro che aveva usato la rete almeno una volta nella vita navigava in internet pi di una volta alla settimana. 20

elettronico negli Stati Uniti aumentato di circa l80%; in Europa, dove le-commerce partiva da livelli molto bassi, cresciuto di circa il 300%9. Alcune recenti ricerche hanno indagato sulle conseguenze per lorganizzazione aziendale e pi in generale sugli effetti di efficienza determinati dalla diffusione dellIT e delle-commerce. Hitt e Bryniolfsoon10 hanno stimato gli effetti dellIT sulla crescita di produttivit nelle imprese americane. I risultati mostrano che la produttivit aumenta di pi per quelle imprese che oltre ad investire in IT utilizzano sistemi organizzativi moderni. In particolare i risultati migliori si hanno nelle imprese che si avvalgono del lavoro di personale altamente specializzato, dispongono di macchinari flessibili e di magazzini snelli, organizzano il lavoro per team di individui ai quali vengono delegati rilevanti poteri decisionali, investono molto nella formazione e nellaggiornamento della propria forza lavoro. Sempre a livello dei cambiamenti nellorganizzazione aziendale, Hitt11 verifica che linvestimento in IT fortemente correlato con una disintegrazione verticale e lievemente con una diversificazione produttiva. Ci avviene poich lIT riduce i costi di coordinamento delle diverse attivit produttive svolte allesterno dellimpresa in misura maggiore di quanto non contribuisce a diminuire quelli di coordinamento di attivit svolte internamente. Brynjolfsson e Smith12 studiano gli effetti del B2C sullefficienza di mercato nel 1999 negli Stati Uniti. Essi evidenziano che: 1) i prezzi dei libri e dei CDs (che hanno caratteristiche di beni indifferenziati) venduti tramite internet sono pi bassi di quelli praticati tramite i negozi tradizionali 13; 2) i menu costs14 sono pi bassi online che non nei negozi tradizionali; 3) la dispersione dei prezzi vale a dire le differenze nei prezzi praticati in un determinato istante per lo stesso bene non significativamente pi bassa nel commercio elettronico e i venditori che praticano i prezzi pi bassi non hanno la pi alta quota di mercato. Questultimo punto, insieme alla scoperta in altre indagini dellassenza di grosse differenze di prezzo fra prodotti venduti online e beni scambiati in modo tradizionale (cfr. nota 8), indicativo di una (ancora) insufficiente trasparenza del commercio elettronico. Ci a sua volta potrebbe essere la conseguenza di caratteristiche intrinseche nel modo di organizzare questo tipo di commercio oppure il risultato di unancora scarsa diffusione delle-commerce, con la conseguente persistenza di asimmetrie informative. I ricercatori evidenziano che la mancanza di maggiore efficienza nel B2C per quanto concerne la dispersione dei prezzi pu trovare spiegazione: a) nelle discriminazioni di prezzo che in internet sono pi facilmente praticabili visti i pi bassi menu costs e la disponibilit di maggiori informazioni circa le caratteristiche degli utenti. I venditori online tendono a praticare prezzi pi alti per coloro che danno un valore maggiore al tempo speso per la ricerca del prodotto: in genere lo stesso prodotto pu essere acquistato a un prezzo inferiore sui siti di pi difficile accessibilit e viceversa. b) Nellimpossibilit di conoscere tutti i venditori online15 vista la grande quantit di informazioni presente in internet. c) Nei costi legati al cambiamento del sito -switching
9 La fonte dei dati relativi al commercio elettronico IDC. Lassenza di una chiara definizione del B2B e del B2C fa s che la quantificazione delle-commerce vari da fonte a fonte. 10 L. M. Hitt e E. Brynjolfsson (1998), Beyond computation: information technology, organizational transformation and business performance, Mimeo, MIT and Wharton. 11 L. M. Hitt (1998), Information technology and firm boundaries: evidence from panel data, Mimeo, Wharton. 12 M. D. Smith e E. Brynjolfsson (1999) Frictionless commerce? A comparison of internet and conventional retailers, MIT. 13 Peraltro Bailey (1998) e Clay, Krishnan, Wolff e Fernandes (1999) osservano che i prezzi dei libri e dei CDs non sono pi bassi online. 14 I menu costs sono i costi nei quali incorrono i negozianti quando decidono di variare i prezzi dei loro prodotti. Al loro aumentare crescono le rigidit di prezzo dei beni e diminuisce labilit dei negozianti di adattarsi a piccoli cambiamenti dellofferta e della domanda. Questi costi possono quindi essere considerati un indicatore del grado di efficienza presente nel mercato. 15 Un recente studio Xerox mostra che il 75% di tutto il traffico online ha luogo nel 5% dei siti esistenti. 21

costs- da cui si gi acquistato. Questi costi sono la conseguenza delle diverse modalit di accesso ai vari siti e della presenza di promozioni che offrono sconti a coloro che acquistano con continuit beni dallo stesso sito. d) Nella fiducia riposta in un particolare venditore online. La potenziale grande distanza fra venditori e compratori fa s che in internet un fattore determinante sia la fiducia del consumatore nel venditore. I primi sono disposti a pagare un prezzo pi alto per acquistare beni da venditori con i quali hanno avuto positive relazioni nel passato. Ci trova evidenza nel fatto che coloro che vendono sia online che tramite i canali tradizionali praticano prezzi mediamente pi elevati di coloro che vendono solo sulla rete.

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La situazione congiunturale del Mezzogiorno Il sondaggio previsionale condotto semestralmente da Confindustria presso le Federazioni Regionali del Mezzogiorno mette in luce il contributo dellapparato produttivo meridionale alla ripresa della produzione industriale. Il recupero congiunturale dellindustria stenta tuttavia a tradursi in un irrobustimento della complessiva crescita economica, in ragione del modesto apporto delle attivit manifatturiere alla formazione del reddito meridionale (12% contro 24% nel Centro-Nord). Le ultime previsioni della Svimez sul Pil del Mezzogiorno nel 2000 indicano una crescita intorno ai due terzi di quella prevista per lItalia. Quello in corso sarebbe il nono anno consecutivo in cui larea meridionale accusa uno scarto negativo nella dinamica del Pil rispetto al resto del Paese. Gli andamenti territoriali nel 1999 Secondo le valutazioni di preconsuntivo della Svimez16, nel 1999 il Pil si accresciuto nel Mezzogiorno dell1,1%, in lieve decelerazione rispetto allanno precedente (1,3%) ; nel Centro-Nord laumento stato dell1,5%, come nel 1998 (Tab.1). Tra le regioni meridionali, andamenti decisamente migliori della media del Sud si sono avuti in Puglia e soprattutto in Basilicata; nelle altre regioni, i risultati sono peggiori o in linea con la media del Mezzogiorno. Nel Centro-Nord, laumento del Pil stato trainato dal Nord-Est e dal Centro ( 2% circa), mentre nel Nord-Ovest la crescita stata molto pi contenuta (meno dell1%). Alla deludente performance macroeconomica fa riscontro, secondo le valutazioni di consuntivo del sondaggio di Confindustria presso le Federazioni Regionali del Sud, una ripresa territorialmente diffusa della produzione industriale nel secondo semestre 1999 (Tab.2); tuttavia, come ricordato in precedenza, essa produce effetti sul reddito complessivo alla scala della scarsa consistenza delle attivit industriali meridionali. Nella media degli anni 90 laumento del Pil stato nel Mezzogiorno circa la met rispetto ai gi modesti ritmi dellarea pi sviluppata del Paese (Tab.1). Il differenziale nei tassi annui di crescita, rilevabile sistematicamente a partire dal 1992, andato attenuandosi negli ultimi anni. Il prodotto per abitante del Sud risultato pari nel 1999 al 54,9% di quello del CentroNord, in chiaro regresso rispetto ai valori intorno al 58% di inizio del decennio. Nel biennio 1998-99, nonostante il permanere di uno scarto di crescita, il divario ha registrato una marginale riduzione (v. Grafico), a seguito della ripresa delle migrazioni dal Mezzogiorno e del conseguente calo demografico (mentre la popolazione aumenta nel Centro-Nord). Il flusso migratorio, verso linterno e verso lestero, ripreso dal 1995 ed andato rafforzandosi negli anni successivi, raggiungendo nel 1999 un saldo netto di circa 90 mila unit (70 mila nel 1998). Lallargamento del divario negli anni 90 riflette aspetti strutturali del ritardo meridionale :
16 Cfr. Svimez, Comunicato stampa 11 maggio 2000. Le valutazioni della Svimez aggiornano i conti economici regionali Istat 1980-96 in versione SEC79. 23

una forte dipendenza dalla spesa pubblica, che ha ampliato nel Mezzogiorno limpatto delle politiche di riequilibrio di bilancio; una minore apertura verso lestero, che ha limitato gli effetti della pur apprezzabile performance esportativa di molte aree del Sud 17. La componente di domanda pi penalizzata risultata quella degli investimenti (Tab.1). Alla fine degli anni 90 nel Mezzogiorno il livello di questi ultimi era inferiore di circa 15 punti percentuali rispetto al livello di inizio decennio; nel Centro-Nord, di 14 punti superiore. La divergenza nella dinamica territoriale degli investimenti, molto pronunciata fino al 1995, era andata attenuandosi negli anni successivi, fino quasi ad annullarsi nel 1998. Nel 1999 il differenziale tornato ad ampliarsi. Al Sud gli investimenti sono aumentati del 2%, la met dellanno precedente; nel Centro-Nord si avuta invece unaccelerazione, dal 4,3% al 5%. Ha pesato su questi andamenti la stagnazione degli investimenti in costruzioni e opere pubbliche (-0,1% contro +2,1% nel Centro-Nord) e una dinamica pi contenuta, per quanto apprezzabile, degli investimenti in macchine e attrezzature (4% contro 7% circa). La congiuntura nel primo semestre 2000 Secondo il sondaggio previsionale condotto semestralmente da Confindustria presso le Federazioni Regionali del Sud, nel primo semestre 2000 la produzione industriale del Mezzogiorno avrebbe sperimentato, nel confronto con gli ultimi sei mesi del 1999, una crescita dellordine dell1,6-1,7%, leggermente migliore rispetto alla tendenza media nazionale (+1,3% nel periodo gennaio-maggio sui valori medi del secondo semestre 1999, stime CSC). In particolare, tutte le regioni del Sud prevedono aumenti della produzione, esclusa la Campania, per la quale prevalgono le tendenze alla stazionariet (Tab.3). Gli aumenti pi consistenti riguardano Abruzzo, Basilicata a Sardegna (2-3%), seguite da Puglia e Sicilia (1,5-2%) e dalla Calabria (1-1,5%). Se si esclude la Campania, la valutazione di sintesi per il Mezzogiorno indica una crescita dellordine del 2%. I risultati del sondaggio sono in linea con le rilevazioni dellISAE per il primo trimestre 2000, che evidenziano segnali di consolidamento della ripresa produttiva presso le imprese meridionali18. Anche sul fronte del portafoglio ordini e delloccupazione e i segnali risultano incoraggianti: come per la produzione, tutte le regioni prevedono un aumento con la sola eccezione della Campania (stazionariet). Buono, sotto il profilo degli ordinativi, il sostegno atteso dalla domanda estera. Non si registrano, inoltre, previsioni di aumento del ricorso alla cassa integrazione. Se i segnali sono complessivamente incoraggianti, altre indicazioni del sondaggio consigliano comunque una nota di cautela: se pure la ripresa appare territorialmente diffusa, non mancano disomogeneit di comportamento a livello di settori o classi dimensionali di imprese; in particolare, si conferma ancora non superata la fase critica del settore delle costruzioni, che vede, accanto a significativi recuperi (Puglia, Calabria),
17 Tra il 1992 e il 1998 la quota del Mezzogiorno sul totale nazionale delle esportazioni di prodotti industriali passata dal 7,0% al 9% (Cfr. Svimez, Rapporto 1999 sulleconomia del Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna, 1999. 18 Cfr. ISAE Congiuntura n.7, Aspetti territoriali: imprese e consumatori, maggio 2000. 24

tendenze fortemente cedenti (Abruzzo, Sicilia). E stata infine richiesta una valutazione sullandamento degli investimenti industriali nel 1999 e una previsione per il lanno in corso. Nei consuntivi del 1999 prevalgono indicazioni di aumento, che riguardano tutte le regioni (sette, non essendo disponibili valutazioni per il Molise) escluse lAbruzzo e la Puglia, dove la tendenza alla stazionariet (in Puglia, comunque, su livelli apprezzabilmente accresciutisi negli ultimi anni). Si tratta di indicazioni non incoerenti con i risultati macroeconomici illustrati in precedenza (+ 4% nel 1999 per gli investimenti meridionali in macchine e attrezzature riferiti allintera economia). Per il 2000 le previsioni indicano uno scenario meno favorevole: la tendenza alla stazionariet degli investimenti prosegue in Abruzzo e Puglia e si estende a Calabria e Sardegna; solo in Campania, Basilicata e Sicilia prevista una ulteriore crescita rispetto al 1999.

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LO SVILUPPO ECONOMICO-SOCIALE DELLE PROVINCE ITALIANE Sulla base delle informazioni statistiche disponibili a scala territoriale che Confindustria raccoglie e pubblica con regolarit da quasi un quindicennio19, viene annualmente costruito un indice sintetico che, attraverso laggregazione di alcuni indicatori elementari, fornisce una graduatoria dei livelli di sviluppo economico-sociale delle province italiane Ledizione 2000 degli Indicatori Economici e Sociali Provinciali, in corso di pubblicazione, riporta il calcolo dellindice riferito allanno 1998. Lindice stato ottenuto con il metodo delle componenti principali - mediante una sintesi dei seguenti indicatori elementari: occupati; nuove iscrizioni nelle anagrafi comunali; consistenza delle imprese industriali (escluse le costruzioni); consumi di energia elettrica per usi domestici; autovetture nuove immatricolate; vendite di carburanti per auto; consistenza dei depositi bancari per localizzazione della clientela; spese per spettacoli e intrattenimenti vari; pensioni erogate dallINPS; esportazioni di merci20. Lindice depurato della diversa importanza demografica delle province e ha quindi il significato di un indicatore pro capite, che assume valore 100 per lintera economia nazionale e valori rispettivamente superiori o inferiori a 100 a seconda che si tratti di territori pi o meno sviluppati. I risultati delle elaborazioni sono riportati nella Tab.1. Posto 100 lItalia, la provincia con i pi alto livello di sviluppo economico-sociale Modena (148,9); lultima Enna (47,6), con un rapporto di circa 3 a 1. Le prime dieci posizioni della graduatoria sono tutte appannaggio di province settentrionali, con la sola eccezione di Prato, che precede al secondo posto Reggio Emilia, Bologna, Milano, Vicenza, Verona, Novara, Parma e Pordenone. Le ultime dieci province della graduatoria sono tutte del Mezzogiorno: Catanzaro, Reggio Calabria, Caltanissetta, Vibo Valentia, Foggia, Cosenza, Benevento, Crotone, Agrigento e la gi citata Enna. Da un esame complessivo della graduatoria emerge come le province si susseguano secondo un ordine decrescente che coincide grosso modo con lordine geografico discendente (da nord verso sud) e con una disposizione che privilegia, entro certi limiti, le province del versante orientale rispetto a quelle che si protendono sul versante opposto. Strettamente connesso a tale tendenza poi il fatto che le province di una stessa regione si trovino raccolte in un intervallo dei valori dellindice molto spesso ristretto: basti considerare, ad esempio (v.Tab.1), che fra le prime undici province ben cinque sono emiliano-romagnole, che tra le ultime dieci otto sono calabresi o siciliane, e che quattro regioni (Lombardia, Liguria, Lazio, Abruzzo) presentano almeno tre province ordinate una di seguito allaltra allaltra.
19 Cfr. Confindustria, Indicatori Economici e Sociali Provinciali, SIPI, Roma, vari anni. Recentemente stato portato a termine un progetto per la ricostruzione di serie storiche di lungo periodo di indicatori provinciali i cui risultati sono riportati in: Confindustria-IPI, Quindici anni di statistiche provinciali, a cura di G.Rosa e P.Guglielmetti, Sipi, Roma, 2000. 20Gli indicatori elementari risultano tutti positivamente correlati al livello di sviluppo economico-sociale. In particolare, le nuove iscrizioni alle anagrafi comunali possono ritenersi indicative del grado di attrattivit esercitato dal territorio provinciale nei confronti delle persone; le pensioni erogate sono viste come componente positiva, in senso contabile, del reddito disponibile. Quanto alle esportazioni, esse possono tendere a sottostimare il reale contributo allexport di molte aree meridionali (mancato conteggio di merci trasferite nelle regioni del Nord e successivamente esportate allestero); si ritenuto tuttavia che, in mancanza di altre fonti informative, lindicatore possa fornire un contributo esplicativo accettabile. 26

Appare inoltre evidente che, sia pure in un quadro di differenziazioni non trascurabili tra province del Mezzogiorno, queste ultime tendono comunque a rappresentare un cluster ben definito e caratterizzato da livelli di sviluppo socio-economico modesti. Le ultime trenta province della graduatoria appartengono tutte allItalia meridionale e insulare e soltanto dal 64 posto possibile iniziare a contare una provincia meridionale: nel caso specifico, Teramo, con un indice di sviluppo pari a 93,7 e appartenente a una regione (Abruzzo) che soltanto geograficamente continua a essere compresa nel Mezzogiorno. Dopo Teramo, le province meridionali con scarti relativamente contenuti dalla media nazionale sono solo due, sempre abruzzesi (Pescara e Chieti, con un valore dellindice intorno a 90-91). Seguono Sassari (85), LAquila (82,8), Cagliari (77,1), Bari (73,6) e via via tutte le altre province del Sud. Un quadro schematico del posizionamento delle province, classificate secondo lappartenenza alle principali ripartizioni territoriali, riportato nella Tab.2, nella quale le 103 province italiane sono state ripartite in cinque gruppi di (quasi) uguale numerosit in base ai valori decrescenti dellindice sintetico. Ai cinque gruppi stato convenzionalmente attribuito, nellordine, un livello di sviluppo: alto, da Modena (con indice pari a 148,9) a Vercelli (con indice pari a 125,7); medio-alto, da Alessandria (125) a Trento (112,7); medio, da Asti (112,1) a Grosseto (94,1); medio-basso, da Sondrio (93,9) a Trapani (68); basso, da Catania (67,2) a Enna, (47,6). Dopo il Mezzogiorno, le cui province appartengono tutte ai gruppi a basso o medio-basso livello di sviluppo, le circoscrizioni caratterizzate da maggiore omogeneit territoriale sono il Nord-Ovest e il Nord-Est, dove una netta maggioranza di province (soprattutto nel NordEst) registra livelli di sviluppo alti o medio-alti, una minoranza livelli medi e solo una provincia su 46 (Sondrio) un livello medio-basso; pi articolata la situazione del Centro, le cui province si distribuiscono in tutti i gruppi (in maggioranza sui livelli medi dellindice sintetico), escluso quello a basso livello di sviluppo. I cinque gruppi di province registrano un peso demografico, sul totale nazionale, non troppo difforme, dal 17,6 % (sviluppo medio-basso) al 22,1% (sviluppo alto). Molto pi differenziate sono le corrispondenti quote del reddito prodotto, specialmente di quello industriale: le province a livello di sviluppo alto e medio-alto, che insieme rappresentano il 42% della popolazione, concorrono alla formazione del 52% del reddito complessivo e al 64 % di quello dellindustria (costruzioni incluse); per contro, le province a sviluppo mediobasso e basso, con quasi il 40% di popolazione, producono solo il 27% del reddito complessivo e appena il 20% di quello industriale. AGEVOLAZIONI CONTRIBUTIVE E OCCUPAZIONE: UN QUADRO DELLE PRINCIPALI MISURE CON EFFETTI NEL 1998-1999 Nel corso degli ultimi ventanni, le politiche volte a incentivare le assunzioni da parte di imprese private hanno tipicamente utilizzato, come forma di incentivo, labbattimento parziale o totale dei contributi sociali a carico dei datori di lavoro per i dipendenti interessati. Data lelevata incidenza del carico contributivo sul costo del lavoro ai massimi livelli tra i paesi industrializzati lagevolazione contribuitiva ha reso possibile riduzioni anche rilevanti del costo del lavoro per le assunzioni incentivate. Lincentivazione ha riguardato, coerentemente con le caratteristiche della disoccupazione italiana, soprattutto i giovani nella fase di inserimento nel mercato del lavoro, i disoccupati di lunga durata e il Mezzogiorno. Un documento di recente pubblicazionei, che raccoglie dati di

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fonte amministrativa, consente alcune valutazioni sulla rilevanza occupazionale di tali misure nel biennio 1998-1999. I dati evidenziano innanzitutto la preponderanza delle misure relative allingresso dei giovani nelloccupazione dipendente (tabella). Nella primo semestre del 1999 lo stock medio di giovani assunti con contratti di apprendistato e di formazione e lavoro era di circa 750.000 occupati, pressoch equamente ripartiti tra i due schemi, che hanno in comune una finalit anche formativa e una durata predeterminata. Listituto dellapprendistato ha ricevuto nuovo impulso dalla legge 196 del 1997, che ne ha esteso il campo di applicazione includendovi settori precedentemente esclusi (es. lagricoltura) ed innalzando da 21 a 24 anni (26 nel Sud, 29 anni nellartigianato) il limite massimo di et. La durata del contratto varia da un minimo di 18 mesi a un massimo di 4 anni (5 per lartigianato), secondo le disposizioni dei CCNL di competenza; i contributi a carico delle imprese sono di modesta entit (5.070 lire settimanali). Per i contratti di formazione e lavoro, il limite di et posto dalla legsilazione italiana di 32 anni; lagevolazione contibutiva del 25%, salvo nel Mezzogiorno (ed altre aree circoscritte) in cui i contributi sono parificati a quelli degli apprendisti. Una recente decisione della Comunit Europea ha stabilito che il diritto a usufruire di questultima - pi elevata - agevolazione debba essere sottoposto a un limite di et di 25 anni (29 per i laureati) e alla contestuale esistenza di altri requisiti, quali ad esempio la lunga durata della disoccupazione. La normativa italiana non stata ancora adeguata alla decisione CE; esiste per unindicazione del Governo alle Commissioni Regionali per lImpiego affinch si attengano, nellapprovazione dei progetti, alle linee della CE. Leffetto delle modifiche intervenute nella regolazione di apprendistato e CFL riscontrabile nei dati occupazionali: nel primo semestre del 1999 gli assunti con contratto di formazione e lavoro risultano in calo (-8,5%) e gli apprendisti in crescita (+22%) rispetto allo stesso periodo del 1998. Di notevole impatto sono anche le agevolazioni contributive introdotte con la legge 407 del 1990 per incentivare lassunzione a tempo indeterminato di disoccupati iscritti alle liste di collocamento, o di lavoratori in CIGS, da almeno 24 mesi, che nel primo semestre del 1999 hanno interessato circa 250.000 persone (+11,5% rispetto a un anno prima). La misura della riduzione contributiva, che vale per i primi 36 mesi dopo lassunzione, anche in questo caso differenziata sul territorio, prevedendo unesenzione totale nel Mezzogiorno o per le imprese artigiane, e del 50% dei contributi negli altri casi. Del totale delle assunzioni agevolate di questo tipo, pi della met (58,6% nel primo semestre del 1999) di pertinenza del Mezzogiorno. Lincremento registrato rispetto al 1998, pi forte nel Mezzogiorno (tabella), riflette probabilmente un effetto di sostituzione dovuto alle limitazioni intervenute nellapplicazione dei CFL; va inoltre ricordato che lagevolazione si applica anche alle assunzioni di giovani che abbiano usufruito di una Borsa di lavoro, un inserimento temporaneo in impresa con compenso a carico dello Stato che ha trovato applicazione nel 1998 nelle regioni con tasso di disoccupazione superiore alla media nazionale, interessando circa 60.000 giovani iscritti da almeno 30 mesi nelle liste di disoccupazione. Pi contenuto circa 75.000 persone e concentrato nel Centro-Nord leffetto occupazionale dellincentivazione ad assumere a tempo indeterminato lavoratori provenienti dalle liste di mobilit, che d titolo per 18 mesi ad applicare una contribuzione uguale a quella degli apprendisti; in questi casi limpresa beneficia anche del 50% dellindennit di mobilit residua che sarebbe spettata al lavoratore (con un massimale di mensilit variabile da 12 a 36 mesi secondo let e larea geografica). Una parte molto rilevante delle agevolazioni contributive riguarda specificamente il Mezzogiorno. I provvedimenti di sgravio contributivo, di cui le misure attuali sono la prosecuzione, hanno preso avvio nel 1968 con lintroduzione di uno sgravio parziale

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generalizzato a tutti i dipendenti in forza e senza limiti di durata (sgravio generale, inizialmente stabilito al 8,5 %, elevato nel 1972 di altri 10 punti sgravio ulteriore per lavoratori rimasti alle dipendenze della stessa impresa dal 1968). Per i nuovi assunti che risultassero in eccesso rispetto ai precedenti livelli occupazionali dellimpresa veniva riconosciuto, in aggiunta allo sgravio generale, uno sgravio aggiuntivo del 10%, integrato dal 1971 da uno sgravio supplementare sempre del 10%, entrambi senza limiti di durata. Dal 1976 al 1991, lo sgravio per la nuova occupazione aggiuntiva divenuto esenzione totale per dieci anni dalla data di assunzione, al termine dei quali trovava applicazione lo sgravio generale. A partire dal 1993, e fino alla fine del 1999, lesenzione totale stata limitata ad un solo anno; dal 1999 prevista anche unesenzione totale triennale, coesistente per il 1999 con quella annuale ma applicabile con criteri pi restrittivi, con scadenza a fine 2001. A seguito delle contestazioni mosse dalla Comunit Europea sulla liceit di sgravi illimitati non applicabili alla totalit delle imprese, da luglio 1994 gli sgravi parziali, che come si visto erano variabili da caso a caso secondo la data di assunzione e di durata illimitata, sono stati unificati al 14,6% e progressivamente ridotti, fino a diventare dal 1998 sgravi capitari in cifra fissa, il cui importo decrescente di anno in anno destinato ad azzerarsi al termine del 2001. Come conseguenza della stratificazione normativa, nel 1999 si riscontrano nel Mezzogiorno occupati interessati dalla coda dello sgravio totale decennale (i lavoratori addizionali - assunti nel 1991 smetteranno di godere dello sgravio totale nel 2001), dallo sgravio totale annuale riconosciuto nel 1998 e nel 1999, dallo sgravio totale triennale riconosciuto a partire dal 1999 e dallo sgravio capitario. I dati disponibili, che riguardano lammontare delle spese sostenute o stanziate a fronte delle diverse agevolazioni, consentono solo una quantificazione approssimataii del numero di occupati interessati, che viene riportata nella tabella a scopo di confronto sommario con le altre misure precedentemente illustrate. Emerge la rilevanza dello sgravio generale, oggi sgravio in forma capitaria, che pur riguardando uno stock di occupati in progressiva diminuzione - interessa ancora circa 330.000 occupati. Complessivamente, le misure illustrate, che peraltro non esauriscono gli interventi di incentivazione delloccupazione nel Mezzogiorno, riguardano oltre 700.000 dipendenti del Sud, rendendo conto da un lato della rilevanza che hanno avuto le misure di agevolazione nel rendere compatibile il costo del lavoro con le condizioni di mercato delle imprese del Sud, dallaltro dei problemi posti dalla graduale riduzione, nella durata e nellestensione, di tali misure.

La liberalizzazione del gas In seguito alla delega ricevuta dal Parlamento nel maggio 1999, il 19 maggio 2000 il Consiglio dei Ministri ha approvato un Decreto legge (c.d. "Decreto Letta"), che si propone di modificare l'attuale assetto del settore del gas in tutte le fasi del processo produttivo, per favorire una sua sostanziale liberalizzazione. I punti principali del decreto riguardano la separazione contabile e societaria, la fissazione di regole per le varie fasi produttive, il ruolo del Ministero dell'Industria, del Commercio e dell'Artigianato (MICA) e dellAutorit per lenergia elettrica e il gas (AEEG), le condizioni di reciprocit con gli altri paesi dellUE. L'efficacia del provvedimento subordinata alla creazione di una pluralit di fornitori, alla possibilit per l'utenza di scegliere fra questi e di accedere liberamente alla rete e alle sue infrastrutture.

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Lintroduzione di una pluralit di fornitori in grado di creare effettiva concorrenza nella fase di approvvigionamento risulta particolarmente difficile. Al fine di garantire maggiore concorrenza si previsto che a partire dal 1 gennaio 2002 e fino al 31 dicembre 2010 nessuna impresa direttamente o a mezzo di controllate o controllanti- potr immettere sulla rete di distribuzione una quota superiore al 75% dei consumi nazionali annuali di gas. Questa percentuale decrescer di due punti percentuali annualmente, fino a raggiungere il 61% nel 2010, suo ultimo anno di vigenza 21. La capacit dei nuovi entranti di competere con l'ENI nella fase di approvvigionamento pu essere peraltro limitata dai vincoli posti a carico dei soggetti importatori da paesi non UE, miranti a garantire la sicurezza energetica nazionale attraverso la diversificazione delle fonti di approvvigionamento e una maggiore integrazione del sistema gas nazionale nel sistema gas europeo. Entro il 1 gennaio 2002 il decreto impone di separare societariamente da tutte le altre le funzioni di trasporto e dispacciamento e di distribuzione. La fase di vendita pu essere esercitata congiuntamente a quelle di approvvigionamento ed esportazione; la funzione di stoccaggio va invece divisa contabilmente da quella di trasporto e dispacciamento e societariamente da tutte le altre. Il decreto stabilisce inoltre che il trasporto e il dispacciamento sono attivit di interesse pubblico; le imprese che svolgono tale attivit sono di conseguenza tenute a collegare chiunque ne faccia richiesta. L'AEEG determina le tariffe del trasporto e del dispacciamento in modo da assicurare una congrua remunerazione del capitale investito 22. In particolare le tariffe di trasporto devono tenere conto in primo luogo della capacit impegnata e della distanza di trasporto, e in secondo luogo della quantit trasportata indipendentemente dalla distanza. Il servizio di distribuzione affidato mediante gara per periodi non superiori ai 12 anni. Le imprese di distribuzione svolgono anche attivit di dispacciamento sulla propria rete; esse hanno lobbligo di allacciare i clienti che ne facciano richiesta. LAEEG determina le tariffe per la distribuzione in modo da assicurare una congrua remunerazione del capitale investito. A partire dal 1 gennaio 2003 e fino al 31 dicembre 2010 nessuna societ, direttamente o indirettamente (tramite una controllata o una controllante), potr immettere gas importato o prodotto in Italia al fine della vendita nel nostro paese per una quota superiore al 50% dei consumi nazionali annui di gas (al netto degli autoconsumi). Per quanto concerne i clienti non idonei lAEEG determina le tariffe in modo da realizzare una adeguata ripartizione dei benefici tra clienti ed imprese e da assicurare a queste ultime una congrua remunerazione del capitale investito. Dal lato della domanda da rilevare la decisione del Governo di estendere il riconoscimento della condizione di idoneit il pi rapidamente possibile. I clienti idonei sono coloro che, oltre ad avere accesso al sistema, hanno la capacit di stipulare contratti di fornitura, acquisto e vendita con qualsiasi produttore, distributore o grossista, sia in Italia
21 La percentuale di cui sopra calcolata sottraendo sia dalle quantit importate e prodotte che dai consumi nazionali, le quantit di gas autoconsumato sia direttamente che indirettamente dallimpresa. 22 Tale accesso regolamentato garantisce a tutti di svolgere l'attivit di approvvigionamento e vendita a parit di condizioni. 30

che all'estero23. L'apertura del mercato sar totale a partire dal 1 gennaio 2003 (la Direttiva europea prevede un'apertura minima del mercato di almeno il 33% entro il 2008). Infine il decreto stabilisce che le imprese operanti in Italia hanno diritto ad accedere ai sistemi di gas e a concludere contratti di fornitura con i clienti dichiarati idonei in altri Paesi UE, qualora esista una clausola di reciprocit. Il decreto va oltre il semplice recepimento della direttiva Europea, imponendo la separazione societaria e non solo contabile della filiera produttiva, fissando un tetto Antitrust all'approvvigionamento e alla vendita e prevedendo l'estensione dell'idoneit a tutti i clienti entro il 1 gennaio 2003. Esso per sembra far gravare costi eccessivi sui nuovi competitori, soprattutto quando impone un rigido sistema autorizzatorio per l'importazione da paesi extra-UE. Inoltre secondo lAutorit garante della concorrenza e del mercato la scelta di separare societariamente le attivit svolte in regime di monopolio e quelle verticalmente collegate e aperte alla concorrenza non ottimale. Infatti la separazione proprietaria presenta il duplice vantaggio di eliminare gli incentivi dellimpresa in posizione dominante a estendere abusivamente tale posizione in mercati potenzialmente concorrenziali e di agevolare lattivit di regolamentazione, riducendo le asimmetrie informative tra lAEEG e limpresa regolata. Lefficacia del decreto dovr essere valutata alla luce della sua capacit di creare una reale pluralit di soggetti che forniscono gas e di dare la possibilit ai consumatori di scegliere il proprio fornitore.

23 Sono clienti idonei le imprese che acquistano il gas per la produzione e cogenerazione di elettricit limitatamente alla quota destinata a tale utilizzo, i clienti finali il cui consumo sia superiore a duecentomila metri cubi di gas l'anno, i clienti che consumano il gas autoprodotto nel territorio italiano, le imprese di distribuzione del gas per il volume di gas consumato dai loro clienti nell'ambito del loro sistema di distribuzione, i consorzi con consumi complessivi superiori a 200.000 mc e individuali superiori a 50.000 mc annui.

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Le privatizzazioni in Italia Il processo di privatizzazione italiano, iniziato sotto la spinta della crisi valutaria e finanziaria del 1992, negli ultimi quattro anni risultato particolarmente intenso da un punto di vista quantitativo, con incassi complessivi che nel periodo che dal 1997 al primo semestre del 2000 ammontano a oltre 119 mila miliardi di lire24. Tra le operazioni effettuate, di particolare rilevanza da un punto di vista quantitativo sono state quelle che hanno riguardato il settore delle telecomunicazioni, con la cessione del controllo di Telecom, l'energia, con la cessione di quote di minoranza di ENI e ENEL, il settore bancario, con la cessione del pacchetto di controllo di BNL e Mediocredito Centrale, e i trasporti, con la vendita di una quota di minoranza di Aeroporti di Roma e del controllo della Societ Autostrade. In particolare, limitando l'analisi alle sole cessioni concluse nel 1999 e nel primo semestre di quest'anno, le principali operazioni hanno riguardato la vendita del 35% del capitale dell'ENEL, della maggioranza (l'87%) della Societ Autostrade, della totalit del capitale sociale del Mediocredito Centrale e di circa il 40% di Finmeccanica. La cessione della quota di minoranza dell'ENEL stata effettuata attraverso un'offerta pubblica di vendita (OPV), che ha fruttato un incasso lordo di circa 32.000 miliardi di lire; per quanto riguarda la vendita della Societ Autostrade, il 30% circa del capitale stato ceduto ad un nucleo stabile di azionisti tramite asta, ed il restante 55% circa stato collocato sul mercato attraverso una OPV. Il ricavato complessivo dell'operazione stato pari a circa 16.400 miliardi di lire. La cessione tramite trattativa diretta del 100% del Mediocredito Centrale ha determinato un incasso per il Tesoro di quasi 4.000 miliardi di lire. All'inizio di giugno di quest'anno, stato collocato sul mercato il 40% circa di Finmeccanica con un'offerta pubblica di vendita; secondo le prime stime, l'incasso dell'operazione stato pari a circa 9.800 miliardi25. Complessivamente, gli incassi realizzati nel 1999 e nel primo semestre di quest'anno con queste quattro operazioni sono stati pari a circa 62.250 miliardi di lire, il 30% del totale delle privatizzazioni effettuate dal 1992 ad oggi26. Il controvalore complessivo delle privatizzazioni effettuate in Italia negli anni '90 sale cos a circa 205.000 miliardi di lire27, pari al 13,5% del PIL del 1992 (anno in cui stato avviato il processo di privatizzazione). In altri termini, in Italia tra il 1992 e il primo semestre del 2000 le privatizzazioni effettuate hanno assicurato in media ogni anno un controvalore pari a 1,6 punti di PIL dell'anno iniziale, il 1992. Il processo di privatizzazione italiano stato dunque senza dubbio un successo dal punto di vista quantitativo; ci emerge anche dal confronto con i dati dei principali industrializzati. Ad esempio, se si considera il periodo di maggiore slancio (quello che va dal 1985 al 1995) delle privatizzazioni nel Regno Unito e in Francia, due dei paesi che maggiormente hanno privatizzato negli ultimi 20 anni, gli incassi realizzati sono stati pari in media ogni anno rispettivamente a circa 1,2 punti e 0,4 punti di PIL all'anno iniziale, il 1985. In Italia per non sempre alla cessione di quote di aziende pubbliche sul mercato corrisposta una effettiva cessione del controllo: in effetti, spesso si trattato di cessioni meramente finanziarie, con la vendita di pacchetti di minoranza che hanno lasciato in
24 Compresa la privatizzazioni di Finmeccanica, realizzata all'inizio di giugno di quest'anno. 25 L'incasso potrebbe salire a circa 11.000 miliardi qualora entro l'8 luglio gli investitori istituzionali esercitassero l'opzione di acquisto della cosiddetta green shoe. 26 Per una esaustiva analisi del processo di privatizzazione italiano, si veda S. De Nardis, "Le privatizzazioni italiane", Il Mulino, Bologna, in corso di pubblicazione. 27 Tale cifra comprende sia il ricavo lordo delle cessioni che l'indebitamento trasferito. 32

mano all'operatore pubblico il controllo dell'impresa, o di passaggi di quote azionarie dal Tesoro ad altri agenti controllati comunque dalla mano pubblica. Complessivamente, guardando agli incassi complessivi, ben il 44% delle privatizzazioni effettuate tra il 1992 e il primo semestre 2000 non ha comportato una effettiva cessione del controllo (tab. 1). Va inoltre considerato che molte delle cessioni non di controllo si sono concentrate in settori di significativa importanza strategica, come quello energetico, dove il ruolo pubblico resta ancora molto rilevante. Secondo i dati dell'OCSE (che si fermano al 1998) circa il 28% delle operazioni realizzate nei principali paesi industriali negli anni '90 hanno riguardato il settore delle telecomunicazioni e il 15% i servizi di pubblica utilit (che includono l'energia); circa il 18% degli incassi derivato da operazioni effettuate nel settore bancario-assicurativo, il 15% circa dal settore manifatturiero e oltre il 22% da cessioni effettuate nel settore dei trasporti. In Italia, un ruolo predominante l'hanno avuto il settore energetico (circa il 40% del totale) e le telecomunicazioni (il 20%). Il 14,5% circa degli incassi deriva dalla cessione delle partecipazioni pubbliche nel settore manifatturiero, e il 14,3% riguarda il settore bancario e finanziario. E' risultato invece basso il contributo sinora fornito dalle cessioni nel settore dei trasporti (solo circa il 9% del totale), che hanno preso slancio solo recentemente, con la vendita tra la fine del 1999 e l'inizio del 2000 della Societ Autostrade. Il processo di privatizzazione italiano lungi dall'essere concluso. La tabella 2 mostra le partecipazioni residue del Tesoro e dell'IRI28 in societ quotate e non quotate. Restano in mano allo Stato partecipazioni rilevanti in importanti societ del settore bancario come il Banco di Napoli, nei trasporti (Alitalia, Fincantieri, Tirrenia, Aereoporti di Roma, oltre ovviamente alle Ferrovie dello Stato), nel settore energetico (le quote di controllo di ENI e ENEL), nel settore aeronautico e della difesa (Finmeccanica) e nelle telecomunicazioni (le Poste e la Rai). Sono previste per quest'anno la vendita delle quota residue di Aereoporti di Roma, Cofiri, Banco di Napoli, Telecom, INA, BNL, San Paolo-IMI e la cessione di una quota tra il 10 e 15% del capitale della Tirrenia; stato inoltre recentemente annunciato che il Tesoro proceder nel corso dell'anno alla cessione di una seconda tranche dell'ENEL. Una valutazione del valore delle partecipazioni residue in mano al Tesoro e all'IRI possibile per le sole societ quotate, a partire dalla stima del valore della loro capitalizzazione di Borsa nei primi cinque mesi dell'anno. Sulla base del valore medio della capitalizzazione di Borsa del periodo gennaio-maggio 200029, il valore delle partecipazioni residue ammonta a circa 122.000 miliardi di lire, il 5,7% del PIL del 1999 e il 60% circa degli incassi complessivi fin qui realizzati. Inoltre, occorre considerare che tra le societ non quotate secondo recenti valutazioni la Cofiri avrebbe un valore di mercato di circa 800 miliardi, mentre la Rai dovrebbe valere oltre 30.000 miliardi di lire. Considerando anche Rai e Cofiri, il valore delle partecipazioni pubbliche residue sale a pi di 150.000 miliardi di lire.

28 Il prossimo 30 giugno con la chiusura dell'IRI le partecipazioni residue saranno con molta probabilit trasferite al Tesoro. 29 Valutato in base al prezzo ufficiale, ossia il prezzo medio ponderato giornaliero dell'intera quantit trattata. 33

LA CONTRATTAZIONE AZIENDALE NEL SETTORE PRIVATO Con lAccordo del 23 luglio 1993, che ha ridisegnato la struttura contrattuale assegnando ai Ccnl lobiettivo della tutela del potere dacquisto delle retribuzioni, la contrattazione di secondo livello in prevalenza aziendale, territoriale in specifici casi, come il settore delle costruzioni e le imprese artigiane - ha assunto un ruolo potenzialmente pi rilevante che in precedenza nella determinazione del salario. Sulla diffusione della contrattazione aziendale, e sui suoi effetti salariali, le informazioni sono sempre state scarse e frammentarie, non esistendo sul fenomeno rilevazioni di fonte ufficiale, salvo quelle condotte a cadenza irregolare dalla Banca dItalia su un campione di imprese manifatturiere al di sopra dei 50 addetti. Secondo tale fonte, nel biennio 1995-1996 i dipendenti interessati da sottoscrizione di accordo aziendale erano il 63,7% del totale; data la correlazione positiva tra dimensione dellimpresa e presenza della contrattazione aziendale, i dati di Banca dItalia non si prestano per a rappresentare leffettiva diffusione della contrattazione aziendale: la fascia dimensionale esclusa conta per circa il 48% dei dipendenti manifatturieri. Altri dati sono stati prodotti da parte sindacale o datoriale, talvolta anche con frequenza annuale (es. Indagini annuali di Federmeccanica, Rapporti annuali del CESOS), ma su campioni spesso limitati a specifici settori o aree geografiche, o comunque insufficienti a fornire un quadro informativo articolato sul piano settoriale, dimensionale e territoriale. Particolarmente scarse sono le informazioni relative al settore dei servizi privati. In questo quadro, di particolare interesse lIndagine ISTAT sulla flessibilit nel mercato del lavoro, condotta nel 1997 e attualmente in corso di pubblicazione, che contiene alcuni risultati relativi alla diffusione e ai contenuti della contrattazione aziendale nelle imprese private con almeno 10 addetti. Lindagine, che si basa su un campione di circa 8.000 imprese industriali e dei servizi, consente di porre qualche primo punto fermo sullargomento, anche con riguardo alla diffusione delle erogazioni variabili previste dallAccordo di luglio 1993. Il fenomeno rilevato dallindagine la sottoscrizione di un accordo aziendale nel biennio 1995-1996. La quota di dipendenti interessati da contrattazione risulta di poco inferiore al 40% sia nellindustria che nei servizi, con quote decrescenti in entrambi i settori - al diminuire della dimensione aziendale e scendendo dal Nord al Sud (con quote massime nel Nord Ovest). Differenze, anche rilevanti, emergono guardando ai risultati dei principali comparti (tabella). In particolare, alcuni settori si segnalano per una diffusione pi contenuta della contrattazione aziendale. Nelle costruzioni, la bassa percentuale (7,8%) di dipendenti interessata da sottoscrizione di un accordo aziendale ha, come si anticipato, una spiegazione istituzionale: secondo il CCNL delledilizia, la contrattazione di secondo livello di tipo territoriale; quella aziendale riguarda un numero ristretto di imprese in cui presente per tradizione. In ambito manifatturiero, la diffusione della contrattazione aziendale inferiore alla media nel settore tessile. Nei servizi, la piccola dimensione che caratterizza le imprese commerciali rende conto della bassa diffusione della contrattazione aziendale in quel settore. Va anche ricordato che il CCNL del commercio ha stabilito nel 1994 che la contrattazione aziendale possa riguardare solo le imprese al di sopra dei 30 dipendenti: sotto tale

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soglia possono trovare applicazione accordi territoriali, secondo modalit meglio definite in occasione del rinnovo economico nazionale del 1996. E possibile che il dato ISTAT sulla contrattazione aziendale riferito alle sottoscrizioni intervenute nel 1995-1996 - rifletta almeno in parte la nuova normativa. Il periodo di rilevazione influenza pi in generale il confronto settoriale: il biennio 1995-1996, per quanto caratterizzato da unintensa attivit di contrattazione, non ha avuto la stessa rilevanza per tutti i comparti. La contrattazione aziendale si caratterizza infatti per la presenza di cicli negoziali, che risentono di fattori comuni a tutti i settori ad esempio, landamento economico generale ma anche di evoluzioni specifiche delle singole industrie, tra le quali ha particolare rilevanza il profilo temporale dei rinnovi del contratto nazionale, e della situazione delle singole imprese. Negli ultimi anni, linfluenza della contrattazione nazionale sullattivit di contrattazione aziendale stata particolarmente forte: nei primi anni novanta, la negoziazione in azienda stata molto contenuta, risentendo della crisi economica. In seguito, la ripresa della contrattazione nelle imprese ha seguito i tempi del recepimento, nei singoli CCNL, delle novit introdotte con lAccordo di luglio 1993, in base al quale le erogazioni retributive derivanti dalla contrattazione aziendale si configurano come premi variabili in funzione del raggiungimento di obiettivi prefissati. Nellindustria, la contrattazione aziendale partita nel 1994 nel settore alimentare e nel tessile-abbigliamento, dove accordi nazionali specifici ne hanno regolamentato svolgimento e contenuti anticipando i tempi di scadenza dei rispettivi CCNL, rinnovati poco prima del luglio 1993; per le industrie chimiche e per le meccaniche il biennio 1995-1996 coglie invece il momento di picco della contrattazione. Ne consegue che la rilevazione ISTAT sottostima la diffusione della contrattazione aziendale nei settori, come i citati alimentare e tessile, in cui la sottoscrizione degli accordi ha significativamente interessato un arco di tempo diverso dal biennio 1995-1996. Va anche sottolineato che in ogni caso la rilevazione del flusso delle sottoscrizioni sottostima la diffusione della contrattazione aziendale: anche nei periodi di pi intensa attivit contrattuale, esiste una quota di imprese in cui in vigore un contratto aziendale rinnovato in un momento precedente. Secondo lindagine annuale di Federmeccanica, ad esempio, nel 1996 le imprese metalmeccaniche con contratto aziendale rinnovato nellanno o in quello precedente erano il 67,7% del complesso delle imprese con contratto aziendale; le rimanenti applicavano un contratto siglato in precedenza. Oltre alla diffusione, un secondo aspetto messo in luce dai dati ISTAT che la grande maggioranza degli accordi sottoscritti riguarda voci retributive: nel complesso del settore privato, la contrattazione aziendale ha implicato effetti sul salario per quasi l80% dei dipendenti interessati da sottoscrizione di accordi. Degli accordi di contenuto salariale, la maggioranza ha riguardato il premio di risultato, secondo le linee guida stabilite dallAccordo di luglio 1993 e definite poi dai diversi CCNL. Nel complesso del settore privato, la quota di dipendenti interessati da premio di risultato sul totale di quelli coperti da un contratto di contenuto salariale del 74,5%, con punte massime superiori all80% nellalimentare, nel metalmeccanico, nel commercio e nelle imprese di trasporto e comunicazione. Valori pi bassi, ma comunque superiori al 50% (escluse le costruzioni), si

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registrano nel tessile-abbigliamento, nel settore del legno e per le imprese di credito e assicurazioni. Anche questo risultato potrebbe risentire della finestra temporale di rilevazione: possibile ad esempio che gli accordi sottoscritti nel settore tessile nel biennio 19951996 siano qualitativamente diversi da quelli sottoscritti precedentemente; una stipula ritardata rispetto alla maggioranza delle imprese del settore potrebbe essere sintomo di situazioni particolarmente conflittuali rispetto allintroduzione di erogazioni variabili. Nel complesso, tuttavia, i dati ISTAT danno conto di una larga diffusione, nellintero settore privato, delle formule retributive previste dallAccordo del 1993. Ci che lindagine ISTAT non permette di conoscere limpatto sulla retribuzione degli accordi aziendali sottoscritti nel biennio considerato, e leffettiva variabilit dei premi nel corso del tempo, in base al confronto tra obiettivi e risultati. Quanto allimpatto retributivo, una pluralit di altre indagini relative al settore manifatturiero iii converge nellidentificare lincidenza media del premio di risultato sul complesso della retribuzione lorda in un valore attorno al 3%. Quanto alla variabilit, i dati disponibili sono ancora pochi, e non conclusivi; in base ai dati della Banca dItaliaiv, a fine 1996 i dipendenti interessati da una variabilit dellerogazione anche verso il basso erano il 66% di quelli cui si applicava un premio di risultato; tuttavia, solo per il 44% la variabilit era giudicata significativa dalle imprese. Secondo la stessa fonte, nel 1999 la met delle imprese manifatturiere con almeno 50 addetti dove trova applicazione un premio di risultato classificavano il premio come non completamente variabilev.

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i Ministero del Lavoro, Rapporto di monitoraggio degli interventi di politica occupazionale e del lavoro, Roma, giugno 2000. ii La stima effettuata a partire dai dati di bilancio dellINPS e assumendo una retribuzione media per gli occupati del Mezzogiorno, elaborata a partire dai dati ISTAT di Contabilit regionale. Lapprossimazione della stima deriva sia dal ricorso a una retribuzione media - che potrebbe divergere considerevolmnete da quella dei singoli gruppi di lavoratori interessati dalle diverse agevolazioni sia da incertezze relative alla definizione delle poste di bilancio. I dipendenti cui si applica lo sgravio capitario sono stati ottenuti dividendo lo stanziamento del 1998 per il valore unitario dello sgravio. iii Si vedano ad esempio i dati elaborati da Confindustria in F. Rossi, La contrattazione aziendale nel triennio 19941996, CSC Ricerche n. 123, Confindustria 1997. iv Si veda P. Casadio, Diffusione dei premi di risultato e differenziali retributivi territoriali nellindustria, in Lavoro e Relazioni Industriali n. 1, 1999. v Cfr. Banca dItalia, Relazione Annuale per il 1999, Roma, maggio 2000.

IL DECRETO SU DECENTRAMENTO AMMINISTRATIVO E FISCALE

Dal 2001, prender concretamente avvio il federalismo a Costituzione invariata previsto dalle leggi Bassanini: entro luglio 2000 dovrebbero infatti essere completati i Dpcm che trasferiscono personale e mezzi finanziari per complessivi 30.000 miliardi circa; dal 2001, prender avvio anche il decentramento fiscale, sostituendo il sistema di trasferimenti di risorse finanziarie dallo Stato alle Regioni finora in vigore con un sistema che prevede la compartecipazione diretta di queste ultime ai tributi erariali. Il Dlgs n. 56/2000 stabilisce infatti, a partire dal 2001, un aumento della quota di partecipazione allaccisa sulla benzina di 8 lire (da 242 a 250 lire) e un aumento della quota di partecipazione al gettito Irpef, che passa dallo 0,5 allo 0,9%. Le regioni potranno inoltre autonomamente decidere di elevare tale percentuale fino all1,4%. Ai 74.005 miliardi gi previsti tra compartecipazione a tributi erariali e tributi propri si aggiungono cos 3.763 miliardi (176 dallaccisa sulla benzina e 3.587 dallIrpef), per un totale di 77.768 miliardi. Il decreto prevede inoltre una compartecipazione al 25,7% del gettito IVA complessivo, al netto di quanto devoluto alle regioni a statuto speciale e delle risorse UE. Per il 2001 tale compartecipazione valutata in 35.682 miliardi. Nel complesso sono quindi attribuite alle regioni a statuto ordinario risorse tributarie per 113.460 miliardi. Il decreto tiene anche conto dellesigenza di introdurre un criterio di perequazione delle capacit fiscali che si applica al gettito dei tributi regionali (77.768 miliardi tra Irap, accisa sulla benzina, addizionale Irpef e tassa auto). La distribuzione tra le regioni della compartecipazione allIVA viene attuata con un diverso sistema e con diverse finalit. Non

sono previsti trasferimenti tra le regioni, ma i due criteri determinano leffettiva ripartizione tra le regioni delle imposte loro attribuite. E importante infine precisare che i gettiti derivanti da eventuali aumenti di aliquote autonomamente decisi da ciascuna regione, allinterno dei valori stabiliti dalla legge, restano integralmente alla regione e sono quindi esclusi dai meccanismi di perequazione e solidariet. Il primo meccanismo di perequazione consiste nel calcolare il gettito medio pro capite dei tributi regionali, ottenuto dividendo il gettito complessivo risultante a livello nazionale (si parla sempre delle sole regioni a statuto ordinario) per la popolazione complessiva. La quota di compartecipazione di ciascuna regione viene stabilita riducendo del 90% la distanza tra il gettito pro capite dei tributi regionali che risulta nella regione e tale valore nella media nazionale. Un esempio (tratto da Il federalismo fiscale in attuazione della legge n. 133/1999: aspetti tecnici, ragioni e problemi aperti P. Giarda) pu aiutare a comprendere il meccanismo di perequazione adottato: il valore medio pro capite dei tributi propri stimato per il 2001 pari a 1.599.000 lire; il valore medio del gettito per abitante risulta pari a 741.000 lire in Calabria e a 2.217.000 in Lombardia; dopo la perequazione (riduzione del 90 % delle distanze) i tributi propri perequati ammontano a 1.501.000 lire per la Calabria e a 1.661.000 lire per la Lombardia. Pi complesso il secondo sistema, stabilito per lattribuzione alle singole regioni della compartecipazione allIVA, che si basa su un indicatore di base imponibile regionale (la media mobile triennale dei consumi a livello regionale) e su un criterio di assegnazione delle risorse in base ai fabbisogni stabiliti dal Piano Sanitario Nazionale e da altri parametri prestabiliti. L'eventuale surplus di risorse di alcune regioni (per un ammontare che all'inizio si stima pari a circa 12.000 miliardi) deve essere utilizzato per sovvenzionare le regioni che non riescono a coprire i fabbisogni. Il decreto prevede un periodo transitorio. Per lIVA, i criteri individuati saranno adottati progressivamente, fino ad andare a regime nel 2013. Nel 2001 si terr conto al 100% solo del fabbisogno storico per spesa sanitaria; successivamente si ridurr gradualmente tale percentuale, aumentando parallelamente la quota di partecipazione attribuita in base ai nuovi criteri. Dal 2001 al 2003 di fatto rimarr un vincolo di destinazione per le risorse relative al finanziamento del servizio sanitario, vincolo che sar eliminato a fronte per della definizione di un sistema di controlli sul rispetto di standard minimi nei servizi erogati. Guardando al complesso delle autonomie locali (regioni, province, comuni, ASL e altri enti locali), i cambiamenti qui descritti dovrebbero portare a poco meno del 50% la quota delle entrate totali delle amministrazioni locali derivanti da imposte, proprie o in compartecipazione (cfr. tab. A); tale quota era del 21,9% nel 1994. Secondo le nostre stime, le amministrazioni locali nel 2001 passerebbero dal 22,3 al 27,4% delle spese al netto degli interessi dell'intero settore pubblico e dall'11,3 al 23,5% delle entrate tributarie sempre, dell'intero settore pubblico (tab. B). Gli enti di previdenza amministrano circa un terzo della spesa primaria del settore pubblico; del 39,4% delle amministrazioni centrali si pu calcolare che circa un terzo imputabile a funzioni quali difesa, ordine pubblico, rapporti internazionali, organi costituzionali e spese generali di amministrazione.
Tab. A COMPOSIZIONE ENTRATE E USCITE AMMINISTRAZIONI LOCALI

(valori %)

Uscite di cui: Entrate di cui: Totali correnti netto totali tributarie trasferimenti interessi

1994 100,0 80,4 100,0 21,9 59,0 2001 100,0 80,6 100,0 47,3 34,2

Fonte: Istat e stime CSC

TAB. B COMPOSIZIONE PER CENTRO DI SPESA DELLE ENTRATE E DELLE USCITE DELLA PA

(valori %)

Totale PA Amministr. Amministr. Enti di Totale PA Amministr. Amministr. Enti di centrali locali previdenza centrali locali previdenza Uscite totali al netto interessi Spesa per interessi 1994 100,0 48,4 22,3 29,3 100,0 94,0 5,8 0,2 2001 100,0 39,6 27,4 33,1 100,0 93,8 5,8 0,3

Entrate totali Entrate tributarie 1994 100,0 49,2 22,1 28,6 100,0 88,7 11,3 0,0 2001 100,0 44,3

25,9 29,8 100,0 76,5 23,5 0,0

Fonte: Istat e stime CSC

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