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Dark Deleuze 1st Edition Andrew Culp

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MIMESIS / TRANSITI

N. 12

Collana diretta da Carlo Sini e Rossella Fabbrichesi

comitato scientifico
Alessandro Carrera (University of Houston, USA)
Rocco Ronchi (Università dell’Aquila)
Lorenzo Vinciguerra (Université de Reims, France)
Vincenzo Vitiello (Università San Raffaele)
Andrew Culp

DARK DELEUZE
A cura di
Francesco Di Maio

Interventi di
Rocco Ronchi e Paolo Vignola

MIMESIS
Titolo originale: Dark Deleuze, Andrew Culp Published by the University of
Minnesota Press. All rights reserved

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)


www.mimesisedizioni.it
mimesis@mimesisedizioni.it

Collana: Transiti, n. 12
Isbn: 9788857567808

© 2020 – MIM EDIZIONI SRL


Via Monfalcone, 17/19 – 20099
Sesto San Giovanni (MI)
Phone: +39 02 24861657 / 24416383
INDICE

Abbreviazioni 7

Introduzione all’edizione italiana.


Dark Deleuze, o del restauro filosofico
di Francesco Di Maio 9

(Non)prefazione
di Paolo Vignola 17

Nota di traduzione 29

DARK DELEUZE

Introduzione 33
Connessioni attuali 34
Odio per questo mondo 38
Dalla cappella alla cripta 43

L’Estinzione dell’Essere 49
Il compito: Distruggere mondi, non creare concetti 49
Il soggetto: De-divenire, non concatenamenti 52
L’esistenza: Trasformazione, non genesi 54
Ontologia: Materialismo, non realismo 55
Differenza: Disgiunzione esclusiva, non inclusiva 56

Avanzando verso il nulla 59


Diagramma: Asimmetria, non complessità 59
Affetto: Crudeltà, non intensità 61
Organizzazione: Spiegatura, non rizoma 62
Etica: Comunismo cospirativo, non democrazia procedurale 65
Demolizione, Distruzione, Tramonto 69
Velocità: Fuga, non Accelerazione 69
Flussi: Interruzione, non produzione 72
Sostanza: Antropologia politica, non tecnoscienza 74
Nomadismo: Barbarico, non pastorale 76

Il richiamo del di fuori 79


Distribuzione: il di fuori, non il nomos 79
Politica: Cataclismatica, non molecolare 81
Cinema: Il potere del falso, non le forze dei corpi 82
Il sensibile: Indiscernibilità, non esperienza 84

Conclusione 87

Ringraziamenti 91

Gilles the Obscure


di Rocco Ronchi 93

Bibliografia 101

Filmografia 113

Indice dei nomi 115


ABBREVIAZIONI

Opere di Gilles Deleuze

C1 L’immagine-movimento. Cinema 1 (1983), Einaudi, Torino 2016.


C2 L’immagine-tempo. Cinema 2 (1985), Einaudi, Torino 2017.
CC Critica e clinica (1993), Raffaello Cortina, Milano 1996.
DR Differenza e ripetizione (1968), Raffaello Cortina, Milano 1997.
DRF Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995
(2003), Einaudi, Torino 2010.
ES Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo
Hume (1953), Orthotes, Napoli-Salerno 2018.
F Foucault (1986), Cronopio, Napoli 2002.
FB Francis Bacon. Logica della sensazione (1981), Quodlibet,
Macerata 20082.
ID L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974 (2002),
Einaudi, Torino 2007.
L La piega. Leibniz e il barocco (1988), Einaudi, Torino 20042.
LS Logica del senso (1969), Feltrinelli, Milano 1975.
MPS Marcel Proust e i segni (1964), Einaudi, Torino 20013.
NF Nietzsche e la filosofia (1962), in Id., Nietzsche e la filosofia e altri
testi, Einaudi, Torino 2002, pp. 1-293.
PP Pourparler. 1972-1990 (1990), Quodlibet, Macerata 2000.
S Spinoza e il problema dell’espressione (1968), Quodlibet,
Macerata 1999.

Opere di Gilles Deleuze e Félix Guattari

AE L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), Einaudi, Torino


20022.
CF Che cos’è la filosofia? (1991), Einaudi, Torino 20023.
8 Dark Deleuze

K Kafka. Per una letteratura minore (1975), Quodlibet, Macerata 1996.


MP Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (1980), Orthotes, Napoli-
Salerno 2017.

Opere di Gilles Deleuze e Claire Parnet

C Conversazioni (1977, 19962), ombre corte, Verona 2007.


Francesco Di Maio
INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
DARK DELEUZE,
O DEL RESTAURO FILOSOFICO

Quando un termine è lanciato, e ha un minimo di successo, come è accadu-


to per “macchina desiderante” o per “schizoanalisi”, o lo si riprende, e allora è
molto increscioso, è già il recupero, oppure ci si rinuncia, bisogna trovarne al-
tri, e spostare tutto. Ci sono parole che Félix e io sentiamo che è per noi urgen-
te non usare più: schizoanalisi, macchina desiderante, è orrendo, se li usiamo,
siamo presi in trappola.1

Dell’autore di questo libro non si sa molto. Andrew Culp attualmente in-


segna Media History and Theory al California Institute of the Arts (CalArts).
Oltre ad alcuni articoli su riviste specializzate, abbiamo finora potuto legge-
re un suo pamphlet, The Black Arrow, che la mano di Felipe Mancheno ha
reso un piccolo gioiello della grafica2, mentre è già qualche anno che aspet-
tiamo un nuovo libro sulle tecnologie della resistenza dell’anonimato, an-
nunciato sempre per la University of Minnesota Press. Titoli probabili: Per-
sona Obscura oppure Imperceptibility: The Politics of the Unseen.
Ma Culp è noto soprattutto per Dark Deleuze, di cui qui presentiamo l’e-
dizione italiana. È un pamphlet anch’esso, breve, neanche una settantina di
pagine, che, tramite il cosiddetto passaparola – ma sarebbe da ricordare la
viralità dei meme che hanno girato sull’argomento –, ha avuto una diffusio-
ne inaspettata. Dopo le prime traduzioni in spagnolo e giapponese nel
2016, ha seguito l’anno successivo quella in tedesco da parte di una figura
di eccezione quale Achim Szepanski, musicista e fondatore della casa di-
scografica Mille Plateaux3. Infine, dopo quella in greco l’anno scorso e
quella francese a inizio anno, si giunge alla presente in italiano.
Esplicita la partecipazione dell’autore all’anti-politics, con cui – speci-
fichiamo fin da subito, onde evitare di associarlo all’“antipolitica” che ha

1 G. Deleuze, Cinque proposizioni sulla psicoanalisi (1973), in Id., L’isola deserta


e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974 (2002), Einaudi, Torino 2007, p. 354.
2 A. Culp, The Black Arrow, Flügschriften, Pittsburgh-New York 2019.
3 Cfr. Millesuoni. Deleuze, Guattari e la musica elettronica, a cura di R. Paci Dalò
ed E. Quinz, Cronopio, Napoli 2006.
10 Dark Deleuze

attraversato la penisola degli ultimi anni – l’autore intende una posizione


radicalmente anarchica, per la quale – traduco dal suo sito personale4 – ha
partecipato “a numerosi collettivi per abolire lo Stato, il capitale e tutte le
altre forme di oppressione”, posizione maturata in quanto “cresciuto du-
rante i movimenti anti-globalizzazione”. I suoi riferimenti immediati, le
sue ispirazioni, sono dunque i movimenti degli anni ’90 della net.art,
dell’hacktivismo, dell’open source, del culture jamming (“sabotaggio cul-
turale”) e dell’Independent Media Center.
I suoi testi, quindi, hanno innanzitutto un intento polemico e politico. La
necessità di scrivere un testo sul filosofo francese Gilles Deleuze – e que-
sta è la nostra impressione alla lettura –, è dovuta a una forma di saturazio-
ne: la sagoma di Deleuze, filosofo anarchico (gli “anarco-desideranti”, li
chiamava Alain Badiou), è stata sciolta al sole accecante della Sylicon Val-
ley ed elevata a santino, a “genio della lampada lava” da quei pochi hippie
divenuti poi giganti del silicio5. E così Deleuze, da colui che voleva rove-
sciare l’ontologia, è diventato un paladino dello status quo. I suoi concetti,
a partire dagli anni in cui sono stati fabbricati, hanno perso progressiva-
mente la loro incisività, corrotti dall’uso e dalla banalizzazione che se n’è
fatto. La schizia del rizoma si è aridita a immagine della rete internet; la fi-
losofia, da arte di produrre concetti, è stata sussunta all’ennesima delle at-
tività creative tanto incentivate dal capitalismo6; l’immanenza della produ-
zione del reale neutralizzato a mera riproduzione della realtà7.
Senza il riferimento al contesto californiano e alle posizioni politiche di
Culp, non si comprende l’operazione del suo libro. Ma, in breve, di cosa par-
la? Dark Deleuze parla semplicemente della corruzione del linguaggio, della

4 http://www.andrewculp.org/
5 Infra, p. 37.
6 Per un’analisi del concetto e una sua rinnovata lettura, resta ancora attualissimo E.
Garroni, Creatività (1978), Quodlibet, Macerata 2010. Si veda l’importante prefa-
zione di Paolo Virno all’edizione citata. Per quanto riguarda le origini contingen-
ti del concetto di ’creatività’, si veda S. Bartezzaghi, Il falò delle novità. La crea-
tività al tempo dei cellulari intelligenti, utet, Torino 2013.
7 Culp, nel suo libro, parla di “reale”, a volte con la minuscola, a volte con la maiu-
scola, grafia che abbiamo sempre rispettato senza modificare. A nostro parere, il
discrimine tra “produzione” e “riproduzione” sta tutta lì. Nelle convenzioni del
linguaggio lacaniano, infatti, con la maiuscola ci si riferisce al Reale visto dal re-
gistro del Simbolico, mentre con la minuscola al reale in sé. Su questo punto, re-
stano sintomatiche le domande e le incomprensioni sollevate da J. Butler, E. La-
clau e S. Žižek, Dialoghi sulla sinistra. Contingenza, egemonia, universalità
(2000), Laterza, Bari-Roma 2010.
F. Di Maio - Introduzione all’edizione italiana 11

necessità di pensare una retorica del concetto e della complessa operazione


di quello che ci siamo permessi di definire “restauro” filosofico.
In Che cos’è la filosofia? si esplicita come i concetti, in quanto moltepli-
cità di componenti, assumano valore in base alla loro combinazione e alla
reciproca reggenza. Se la scienza progredisce per cambi di paradigmi, la fi-
losofia non è che prassi sintagmatica8. Ma come ogni articolazione sintat-
tica, i concetti vivono di una loro retorica.
Se Deleuze ha perso la sua incisività di modificare il presente e di produrre
un reale sempre nuovo, ripetendo ora le parti di un copione già scritto, si neces-
sita allora di restaurarlo, urge un Deleuze “refashioned” tale da non confonder-
lo con il fantoccio venduto dalla controparte9. Il metodo è molto semplice: la si
chiami “immacolata concezione” o “inculata”, si tratta di una semiogenesi. Dati
alcuni enunciati, articolati e messi in discorso da determinati dispositivi, si trat-
ta di riprenderli ed alterarli, distorcerli, campionarli, al fine di generare un nuo-
vo senso, nuovi effetti, nuove soluzioni. In breve, di tradurli10. È il metodo che
Deleuze ha sempre attuato nella sua prassi filosofica. E se lo usassimo su De-
leuze stesso? D’altronde l’accademia americana – ma non solo – ha regalato a
Deleuze dei “figli irriconoscibili”: perché allora non generargliene altri? Ed è
così che Culp plasma il suo Dark Deleuze11.
L’operazione di Culp è però complessa. Se la filosofia è l’“arte del
ritratto”12, questa è rivolta non solo ai propri autori e i propri personaggi con-
cettuali, ma anche a quelli contro cui si giocano13. Ed è così che l’oscurità si
staglia contro un ennesimo Deleuze, questo stavolta “della gioia”, gaudente.
Oscurità contra Gioia: s’articola così una serie disgiuntiva di concetti che
divergono gli uni dagli altri, per i quali rimandiamo alla tabella riassuntiva,
ripresa, a differenza dell’originale, nell’indice in apertura14. È certo l’aspetto
più affascinante del libro: una crudele architettonica di concetti, completa-
mente nuova, che, pur parlando la stessa lingua filosofica di Deleuze, la bi-

8 Cfr. G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991), ed it. a cura di C. Ar-
curi, Torino, Einaudi 20023, p. 119.
9 Infra, p. 34.
10 Si pensi “semmai a una specie di “trans-semiotica” come attività costante di tra-
duzione: per Deleuze i concetti non esistono di per sé ma solo in traduzione con
altri concetti; allo stesso modo, i segni e gli autori non esistono di per sé, ma solo
in traduzione con altri segni e con altri autori”, P. Fabbri, Come Deleuze ci fa se-
gno. Da Hjelmslev a Peirce (1998), url = https://www.paolofabbri.it/deleuze/.
11 Cfr. infra, p. 17.
12 G. Deleuze e F. Guattari, op. cit., p. 44.
13 Su questa dinamica, si veda U. Eco, Costruire il nemico (2008), in Id., Costruire
il nemico e altri scritti occasionali, Bompiani, Milano 2010, pp. 9-36.
14 Cfr. infra, pp. 5-6 e 48.
12 Dark Deleuze

forca. Culp produce la sua serie (doppia) divergente di concetti, ripresi e ri-
masticati dalla lettera di Deleuze, fino a creare un Deleuze (doppio anch’esso)
tutto suo e irriconoscibile o, meglio ancora, spinto al punto di indiscernibili-
tà con l’originale. Il fine: distruggere questo mondo di gioia compulsiva.
Come è possibile questa dinamica? Un mondo è ciò che inerisce ad un
punto di vista. Il punto di vista è ciò che dà coerenza alle cose che costitu-
iscono il mondo che, rimandandosi tra di loro, si articolano in serie. I mon-
di coerenti tra di loro saranno allora serie convergenti, quelli in contraddi-
zione serie disgiuntive. Se quanto detto non esaurisce il nocciolo della
metafisica deleuziana, certo vi si ritrovano gli assi della sua mona-/noma-
dologia e di tutto il libro di Culp. Dark Deleuze è così un testo di grande
densità dove, alla prima trentina di pagine sullo stato dell’arte e sugli
intenti programmatici, seguono tre capitoli che passano in rassegna la di-
sgiunzione concettuale tra la Gioia e l’Oscurità.
Il Deleuze gioioso non è altro che un sole acceccante, infinito, che tutto
illumina fino ad abbacinare. È un eliocentrismo ineluttabile. Ma perché la
contrarietà e non spingersi fino alla contraddizione, alla negazione? Perché
quindi Deleuze, dato che è stato colui che ha scelto come suo bersaglio po-
lemico la dialettica in tutte le sue forme, da quella platonico-aristotelica a
quella hegeliana? Si parla molto del Deleuze opposto alla negazione, De-
leuze filosofo dell’affermazione gioiosa che non può che descrivere la re-
altà e così benedirla.
Il problema è che si gioca tutto su un crinale delicato, tra la negazione e il
negativo. Se in Deleuze la prima viene destituita per il suo carattere incoeren-
te (la negazione non può che affermare ciò che nega) ed in quanto logica
adottata da qualsiasi istanza trascendente, il negativo è più che presente nel-
le sue opere e, anzi, è forse il suo motore: cosa sono due forze opposte se non
l’una il negativo dell’altra?15 Culp in realtà non scioglie quest’ambiguità di-
stinguendo i termini, ma introducendone un terzo che, seppur non faccia ri-
ferimento alla “negazione”, in qualche modo la rievoca: negatività [“negati-
vity”]. Negli intenti di Culp, negatività è da una parte il carattere psicologico
di opposizione, dall’altra è l’essere negativo fotografico. Nel mondo d’oggi
di sovraesposizione, Deleuze non può che emergere per contrasto.

15 In Italia quest’aspetto del pensiero deleuziano è stato fonte di acceso dibattito. Si


veda ad esempio il confronto tra Roberto Esposito e Antonio Negri. In particola-
re, si vedano le oscillazioni del primo dal suo limpido Politica e negazione. Per
una filosofia affermativa, Torino, Einaudi 2018 a quanto proposto nel successivo
Potere istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Torino, Einaudi 2020.
F. Di Maio - Introduzione all’edizione italiana 13

Detto in altri termini, Dark Deleuze non fa altro che un buon uso del
complotto, come estrema controffensiva della paranoia del sistema. Se un
principio si erge a primo, sussumendo tutti i particolari, ciò che resta non è
che un fantasma che può solo insistere sui bordi e che, dopo averli infesta-
ti, possa progressivamente assumere una corporeità concettuale propria,
che non può che divergere logicamente dal sistema e costituire nuovi mon-
di. Qui l’intento politico-polemico del libro: il compito di “distruggere
questo mondo”, supposto unico.
Ci stiamo concentrando sulla componente del rapporto tra linguaggio e
sistema, poiché lì, a nostro parere, risiede il valore dell’operazione di Culp.
Esempio: si prenda un concetto paradigmatico quale quello di “rizoma”,
scaduto, come già indicato, a immagine di un entusiasmo per la connessio-
ne infinita di persone e cose. In realtà, chi ha avuto modo anche solo di sfo-
gliare il testo Rizoma, sa bene che il rizoma ha un “di fuori”, un esterno, un
elemento di virtualità sempre ulteriore, tale da permettere le “rotture asi-
gnificanti”: si ha infatti “rottura nel rizoma ogni volta che linee segmenta-
rie esplodono in una linea di fuga, ma la linea di fuga fa parte del rizoma”16.
Un rizoma senza fuori è solo un’immensa struttura arborescente, mera ri-
petizione dello stesso concetto e non differenza. Se dunque il “rizoma” è
ormai “musica da organetto”, se ne svisceri il midollo ancora vivo e lo si
alimenti. L’urlo di Dark Deleuze è il richiamo del di fuori. La sua velocità
è quella della linea di fuga, non dell’accelerazione di cui altri dark, questi
però Illuministi, si sono fatti promotori17.
Tutto il Dark era già in Deleuze stesso. Ma se Culp introduce il proble-
ma di una “retorica” del concetto, di retorica sembra anche peccare. Il te-
sto, densissimo, per il suo intento politico non cede ad alcun compromes-
so. È un testo di una radicalità che non prevede dialogo. L’operazione di
produrre un personaggio concettuale lo permette e l’intento lo richiede. Ma
una strategia simile, alimentata però dalla ferocia verso il mondo, si tradu-
ce in una tattica filosofica che fa terra bruciata degli spunti, stimoli e lettu-
re che hanno portato Culp a realizzare una struttura così ben congegnata.
Tutti coloro che cita e che risultano suoi punti di partenza, seppur elogiati
per le loro intuizioni, mancano di quella radicalità da lui pretesa. Questa
forma di ingratitudine, nonché di svilimento finale dell’opera di importan-

16 G. Deleuze e F. Guattari, Rizoma (1976), ora in Ead., Mille piani. Capitalismo e


schizofrenia (1980), ed. it. a cura di Paolo Vignola, Orthotes, Napoli-Salerno
2017, p. 45.
17 Oltre a infra, pp. 69-72, si veda l’articolo di Culp, Accelerationism and the Need
for Speed: Partisan Notes on Civil War, in “La Deleuziana”, n. 8, 2018, pp. 161-71.
14 Dark Deleuze

ti studiosi, è certo il limite più ampio di questo libricino. La speranza però


è che possa generare dibattito sui loro studi e far sì che questi autori possa-
no essere ripresi anche in Italia, nonostante e oltre Culp stesso.
Inoltre, per quanto il pamphlet si mostri diretto ed esplicito nei suoi in-
tenti, e abbia una vocazione politica, risulta essere un testo fin troppo “ac-
cademico”. Se non nello stile, ricco di immagini evocative e memorabili,
sormontato dall’io dell’autore troppo rombante, che non lo rende certo un
paper di una rivista specialistica, il testo è talmente intriso di riferimenti bi-
bliografici, non solo di tutta l’opera di Deleuze, che lo allontana da un pub-
blico più ampio. È questo il motivo per il quale, per la presente edizione, si
è pensato di accentuare questo carattere filosofico del testo con altri tre
contributi, così da presentarlo al dibattito italiano all’interno di un’accesa
discussione. Oltre alla presente introduzione, il testo italiano di Culp viene
preceduto da una (Non)introduzione di Paolo Vignola e seguito da Gilles
the Obscure, testo di risposta di Rocco Ronchi.
Vignola, oltre ad esse il curatore della più recente edizione di Mille pia-
ni, è direttore della rivista “La Deleuziana”, che a partire dall’opera di De-
leuze, intende sviluppare percorsi di ricerca rivolti verso la realtà
contemporanea – quella filosofica come quella sociale. Vignola è stato
l’autore di una recente monografia dedicata proprio alla macchinazione fi-
losofica del filosofo francese, dell’“immacolata concezione”, asse da cui si
sviluppa tutta la trama del Deleuze oscuro18. Il suo intervento si confronta
sulle specifiche posizioni assunte, confrontandole con il dibattito interna-
zionale sulla filosofia di Deleuze, e valutandone puntualmente le proposte
di Dark Deleuze. Seppur Vignola dialoghi col testo, evidenziando alcuni
punti importanti sollevati, il (Non) della sua Prefazione già anticipa la sua
presa di distanza dal testo di Culp.
Se Vignola sonda Dark Deleuze “in uscita”, nel dibattito internazionale,
Ronchi invece affronta Culp “in entrata”, sul suolo italiano. Ronchi ha
avanzato un’originale lettura di Deleuze in quanto filosofo nella sua radi-
calità19. Il suo contributo era richiesto dal fatto che il Joyous Deleuze ritrat-
to da Culp mostrasse dei tratti sorprendentemente vicini alla sua opera. Ol-
tre alla posizione politica20, anche il suo Deleuze appartiene ad un canone,

18 P. Vignola, La funzione N. Sulla macchinazione filosofica in Gilles Deleuze, Or-


thotes, Napoli-Salerno 2018.
19 R. Ronchi, Deleuze. Credere nel reale, Feltrinelli, Milano 2015.
20 Il Deleuze di Ronchi è esplicitamente democratico e riformista. Come ricorda il
testo qui presente, le sue posizioni “rivoluzionarie” erano dovute alle contingenze
del suo presente storico con cui inevitabilmente ci si compromette. Culp oppor-
rebbe le pagine sulla connivenza tra democrazia e capitalismo e di come Deleuze
F. Di Maio - Introduzione all’edizione italiana 15

non “della gioia”, né tantomeno musicale, come quello composto da Culp,


ma uno filosofico, “minore”. Riprendendo l’idea del “canone occidentale”
di Harold Bloom, ai concetti tradizionali del “periplo metafisico” di contin-
genza, finitezza e intenzionalità, Ronchi oppone quelli di necessità, causa
e intuizione21. Oltre a ricordare un suo libro sugli zombie22, Ronchi ha pro-
posto di caratterizzare la condizione umana con il “godimento” (opposto
alla limitatezza del “piacere”), termine che traduce l’inglese enjoyment23.
L’elevata coincidenza tra le posizioni di Ronchi e il canon of joy ci hanno
portato a ritenere necessario e corretto, nonché amichevolmente provoca-
torio, che il filosofo italiano rispondesse.
In conclusione, il testo di Culp sembra voler rispondere, filosoficamen-
te parlando, al problema della storicità dei concetti: “i nuovi concetti devo-
no essere in rapporto con i nostri problemi, con la nostra storia e soprattut-
to con i nostri divenire. Ma cosa significano i concetti del nostro tempo o
di un tempo qualunque? I concetti non sono eterni, ma si può dire con que-
sto che siano temporali?”24 Non sappiamo ancora se i concetti qui presen-
tati siano adatti a resistere al mondo di gioia compulsiva in cui sono nati,
ma, se si deve riconoscere una virtù dell’autore, questa è certo la sua disil-
lusione: “non credere mai che basterà l’oscura a salvarci”25. Dark Deleuze
è un controinno alla gioia, urlo contro questo mondo sgraziato.

non si sia mai rivolto in termini positivi verso questi e che il compromesso sia sta-
to piuttosto con la democrazia stessa. Cfr. infra, pp. 65-7.
21 Id., Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017. Il
progetto filosofico presentato in questo libro sta proseguendo in una collana omo-
nima della presente casa editrice. Sembra però che sia Deleuze stesso a fare pro-
prio, nella sua filosofia, il concetto di canone. Si veda Canone Deleuze. La storia
della filosofia come divenire del pensiero, a cura di M. Iofrida, F. Cerrato e A.
Spreafico, Clinamen, Firenze 2008.
22 R. Ronchi, Zombie outbreak. La filosofia e i morti-viventi, Textus, l’Aquila 2015.
Tra i figli di Deleuze, sebbene non necessariamente gioiosi, vi si trovano “rizom-
bie senza radici”. Cfr. infra, p. 3.
23 Il termine ritorna nelle opere di Deleuze direttamente in inglese, in quanto ripreso
da A.N. Whitehead. Ci è sembrato comunque il caso di tradurlo con “godimento”
dovendo introdurre l’opera nel dibattito italiano, ricordando che in ogni caso il
termine ricopre un ampio raggio di accezioni e i significati dati dagli autori non
sono gli stessi.
24 G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 17.
25 Infra, p. 48.
Paolo Vignola
(NON)PREFAZIONE

Dark Deleuze non solo non è uno dei tanti libri su Deleuze, ma non dà
neanche l’idea di essere un libro sul filosofo francese. In un certo senso si
può dire che, salvo alcune eccezioni, non parla nemmeno esattamente di
Deleuze, se non per mostrare ciò che quest’ultimo non avrebbe pensato ab-
bastanza. Parla piuttosto di quel che non è Deleuze, di come l’autore lo
vorrebbe e di come potrebbe esserlo, di come Deleuze potrebbe essere
dark. Al tempo stesso, però, non parla che ai deleuziani e allo stesso De-
leuze, reo di essere spesso deleuziano, troppo deleuziano.
Tuttavia, Dark Deleuze non è non deleuziano, almeno non lo è nel senso
indicato da Bachelard, dove il non – per esempio quello delle geometrie non
euclidee – non rappresenta una negazione, bensì un allontanamento o una bi-
forcazione. Come dichiara, Dark Deleuze non va e non pretende andare oltre
la prospettiva deleuziana1. Ecco allora l’ipotesi di questa (non)prefazione:
più che il titolo di un saggio filosofico, Dark Deleuze è un personaggio, al-
meno se stiamo a quello che ci dice. E innanzitutto scopriamo che sarebbe un
figlio fatto con Deleuze, ossia, come vuole l’immagine della Lettera a un cri-
tico severo, un figlio fatto alle sue spalle, proprio come quest’ultimo diceva
di comportarsi con i grandi filosofi della storia ai quali consacrò le sue mo-
nografie: “inculata o, che poi è lo stesso, immacolata concezione”2. In questo
senso, e considerando la mole di studi sul – e a partire dal – filosofo france-
se, dovremmo aspettarci che Dark Deleuze non sia l’unico figlio di tale rela-
zione. Queste le parole del genitore semantico, latore del seme: “Deleuze ha
ora una più che abbondante prole di mostriciattoli tutta sua – rizom-bie [rhi-
zombies] senza radici, vertiginosi metafisici, capricciosi geonaturalisti, tra-
scendentalisti incantati e affettivisti passionali. Il mio scopo è dargli un enne-
simo figlio che ne condivida il cognome: ’Dark Deleuze’”3.

1 Cfr. infra, p. 33.


2 Cfr. G. Deleuze, Lettera a un critico severo (1972), in Id., Pourparler. 1972-1990
(1990), trad. it. di Stefano Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, p. 14.
3 Infra, p. 33.
18 Dark Deleuze

Dato che tali epiteti filosofici possono irritare diversi potenziali lettori,
diciamolo prima che sia troppo tardi, ma anche prima di eventuali accosta-
menti quasi automatici con l’ultrareazionario Dark Enlightment di Nick
Land, da cui Andrew Culp è comunque distante anni luce, o meglio, anni
ombra, dato il tema: Dark Deleuze è (un) comunista rivoluzionario, il suo
compito ultimo è “tenere vivo il sogno della rivoluzione in tempi
controrivoluzionari”4 e così preparare “la fine di questo mondo, la sconfit-
ta finale dello Stato e il comunismo pieno”5. Chiaramente questo “nobile”
fine non può sminuire più di tanto l’arroganza con cui Dark Deleuze si pre-
senta. Se infatti tale obiettivo pare irriducibilmente ambizioso, il modo di
promuoverlo è assillante, borioso e a dir poco tranchant, nonché letteral-
mente anti-patico, soprattutto verso qualsiasi accento spinoziano. Tutto ciò
non lo prenderei però troppo negativamente, preferirei non ridurre tutto a
un’opposizione, preferirei di no. A maggior ragione perché, al netto dell’an-
ti-patia con cui vuole presentarsi, la sua operazione è tutto fuorché gratui-
ta, dato e riconosciuto il rischio che si corre, con Deleuze (chiaramente non
solo con lui), di ripeterlo senza produrre una differenza, uno scarto che
spinga il pensiero avanti. In tal senso, gli strattoni concettuali che Dark
prova a dare possono essere salutari e tonificanti.
Probabilmente tutti coloro che leggono e scrivono su Deleuze hanno in-
contrato nella loro vita qualcuno così ostinato nel compito del detrattore
del pensiero deleuziano: studiosi analitici ortodossi, vetero-marxisti, catto-
lici integralisti, accademici ignoranti allo stato brado, solo per ricordare la
mia esperienza personale. Qui però pare trattarsi, tecnicamente parlando,
di fuoco amico: una macchina da guerra che incomincia a mitragliare le sue
compagne, ree di aver goduto troppo dell’affermatività gioiosa del deside-
rio. Il bersaglio di Dark, dunque, non è Gilles, bensì varie mute di deleuzia-
ni influenti nel campo, o di autori che, rei di complicità con Spinoza – il
Cristo dei filosofi –, esprimerebbero più o meno ingenuamente la gioia del-
la connettività, come Donna Haraway, Tim Dean, Jasbir Puar, Édouard
Glissant, Manuel DeLanda, ma anche quello che viene definito lo spinozi-
smo democratico di Toni Negri. Altri autori, da Dark definiti come deleu-
ziani dissidenti, e in particolare Gregory Flaxman, Anne Sauvagnargues,
Gregg Lambert e François Zourabichvili, sarebbero invece “pessimisti
gioiosi”6, per via del loro scarto dall’ipotesi di un’ontologia propriamente
spino-deleuziana, ma non ancora pronti per affrontare l’oscurità necessaria

4 Infra, p. 46.
5 Infra, p. 48.
6 Infra, p. 52.
P. Vignola - (Non)prefazione 19

per il compito che si prefigge l’immacolatogenito con il suo “feroce pessi-


mismo che frantuma il cosmo”7. Ecco allora uno dei momenti più negativi,
complottisti e negativologici del libro:

Molti deleuziani promuovono ancora concetti che allo stesso modo giustifi-
cano questi slogan: linee trasversali, connessioni rizomatiche, reti composizio-
niste, concatenamenti complessi, esperienze affettive e oggetti incantati. Nes-
suna meraviglia se Deleuze è stato deriso come genio della lampada lava del
“Buddhismo californiano” – tanti così hanno ridotto la sua rigorosa filosofia a
un apprezzamento reciproco della differenza, dell’apertura agli incontri in un
mondo intricato e delle capacità accresciute attraverso la sinergia.8

Se organizzassimo una gita sull’Etna non riusciremmo comunque a ri-


empirci così tanto di zolfo. Ma le immagini davvero infernali9 o mostruose
è lo stesso Dark a mostrarle. Non solo il richiamo al mostro di Frankenstein
e al cataclisma come figure della negatività senza compromessi, bensì più
in generale l’immagine niet-zscheana della terra “nell’oscurità più nera che
il mondo abbia mai visto”10 e quella sorta di giustizia, più che apocalittica
appunto cataclismica, che Dark, come un barbaro alle porte dell’impero,
decide di applicare, con odio e violenza, verso chi vuole, con Deleuze, cre-
dere in questo mondo. E proprio tale credenza, a dire di Dark, sarebbe il
grande errore deleuziano: “Dobbiamo correggere l’errore di Deleuze: man-
care di coltivare un odio per questo mondo. […] [I]nvece di apprezzare
semplicemente le forze che producono il Mondo, Dark Deleuze interviene
al loro interno per distruggerlo”11. Tuttavia, i tratti caratteriali di Dark, che
lo descrivono quindi come un anti-sociale della filosofia, sono da intender-
si come intensivi, dunque non personalistici ma diagrammatici, funzionali
cioè alla costruzione di un discorso teorico e, perché no, di un concetto, o
meglio di un personaggio concettuale, proprio come quelli descritti in Che
cos’è la filosofia?.
Ora, tali tratti diagrammatici appaiono del tutto coerenti rispetto alle tre
operazioni che si prefigge Dark Deleuze e che scandiscono i capitoli del
(suo) libro: decostruire e porre in ridicolo il canone della gioia “che cele-
bra Deleuze come un ingenuo pensatore affermativo della connettività”; ri-

7 Infra, p. 52.
8 Infra, p. 37.
9 “’[G]iardini rizomatici’’, ’auto-produzione cooperativa’ e ’affermare l’affermati-
vo della vita’. Contro queste massime, Dark Deleuze è rinato come un barbaro de-
scritto nella stagione all’inferno di Rimbaud”, cfr. infra, p. 43.
10 Infra, p. 82.
11 Infra, pp. 42 e 38-9.
20 Dark Deleuze

abilitare il negativo con la sua forza distruttiva – odiare e distruggere il


mondo –; complottare contro il lessico deleuziano, scommettendo sui ter-
mini contrari “che divergono dal gioioso compito della creazione”12. In tal
senso, “il primo compito è negativo” e consiste nel “riconoscere che l’otti-
mismo a briglia sciolta per la connessione ha fallito”13. Negativo, come ri-
corda lo stesso Andrew Culp, sarebbe stato del resto anche il compito pre-
liminare della schizoanalisi, che Deleuze e Guattari descrivevano come un
“raschiamento” dei presupposti impliciti delle discipline da cui la loro pro-
spettiva nasceva per controeffettuazione: psicoanalisi, linguistica, antropo-
logia, economia e storia della filosofia. Inoltre Culp, ossia l’involucro14 di
Dark, coglie un problema assolutamente centrale quando afferma che “il
preciso rapporto tra il pensiero di Deleuze e il nostro tempo resta un puzzle
che dobbiamo risolvere”, e ritengo sia nel giusto tanto a voler decostruire
il mito attuale della connettività, “nome dato alla crescente integrazione di
persone e cose attraverso la tecnologia digitale” quanto nell’affermare che
Deleuze odierebbe l’immagine contemporanea della creatività15.
Occorre comunque dire che già da un paio di decenni, proprio grazie a
vari studiosi “gioiosi”, non solo è letteralmente inconcepibile accostare
Deleuze e Guattari a Internet e a questo world wide web16, ma è proprio
grazie all’impostazione di questi ultimi che ci sono date le armi – come i
concetti di dividuale, modulazione e asservimento macchinico – per poter
criticare il nostro presente e crearne un altro. Se invece, come indica Dark
– e anche in questo sono più che d’accordo –, si ritengono necessarie una
diagnosi e una manutenzione dei concetti del gioioso binomio francese,
varrebbe la pena allora terminare con la semplice analogia del rizoma e il
capitalismo, e rivolgersi per esempio al binomio belga di Antoinette
Rouvroy e Thomas Berns, che con il concetto di governamentalità algorit-
mica hanno probabilmente aperto la via alla sintomatologia del pensiero
post-strutturalista all’interno della società digitale. La prospettiva dei due

12 Infra, p. 33.
13 Infra, pp. 37-8.
14 Nel senso che Deleuze e Guattari pensano il rapporto tra autore e personaggio
concettuale, per cui il primo non sarebbe altro che l’involucro del secondo. Cfr. G.
Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, ed. it. a cura di Carlo Arcuri, Einau-
di, Torino 2002.
15 Infra, pp. 35-6. Cfr. il numero d’esordio della rivista “La Deleuziana”, la quale ha
tra le sue linee di ricerca la sintomatologia del pensiero contemporaneo. In parti-
colare cfr. “La Deleuziana” n. 0, “Critica della ragion creativa”.
16 Cfr. per esempio D. Savat, M. Poster, Deleuze and New Technologies, Edinburgh
University Press, Edinburgh 2005.
P. Vignola - (Non)prefazione 21

filosofi belgi rappresenta in tal senso un punto di vista importante per con-
nettere la micropolitica di Mille piani al presente e cominciare a risolvere,
provisionalmente, il puzzle di Dark.
Più in particolare, secondo Rouvroy e Berns, il capitalismo digitale si
sarebbe impadronito tanto dell’immagine del piano d’immanenza, quanto
della stessa micropolitica e dei flussi molecolari su cui si basava proprio la
strategia schizoanalitica di Deleuze e Guattari. Il capitalismo delle piatta-
forme digitali, in tal senso, sarebbe precisamente una forma di governare la
micropolitica del desiderio attraverso la stessa dimensione micropolitica
delle esistenze, che mediante l’estrattivismo dei dati e l’asservimento mac-
chinico17 degli utenti regala al capitale sempre più informazioni molecola-
ri. La governamentalità algoritmica sarebbe in tal senso un modo inedito di
controllo sociale di cui beneficiano vari soggetti, governativi, statali e pri-
vati, basato sull’estrazione e modulazione dei Big Data. Oggetto di tale go-
vernamentalità sarebbero perciò tutti gli utenti delle tecnologie digitali,
“interpellati” attraverso i loro “profili” al fine di anticiparne i comporta-
menti, prevederne rischi e opportunità per la sicurezza, l’economia, la fi-
nanza e la biopolitica della sanità. Ora, a destare scalpore filosofico sareb-
be l’effetto d’immanenza, risultato dell’iper-ostensione dell’immediatezza
e dell’orizzontalità radicale delle connessioni, generato dal lavoro di corre-
lazione dei Big Data. È qui che sorge la clinica del concetto di Rouvroy:

sembra proprio come se il sogno dell’immanenza diventasse realtà – qualco-


sa che, a un primo sguardo, ma solo a un primo sguardo, appare come la realiz-
zazione definitiva di alcuni degli ideali ereditati dalla critica degli anni Sessan-
ta e Settanta: mi riferisco a Gilbert Simondon [...], a Gilles Deleuze e Felix
Guattari [...], ma anche a Foucault […]. In realtà, la governamentalità algorit-
mica è una radicale forclusione degli ideali di emancipazione degli anni Ses-
santa e Settanta: l’ideologia dei Big Data è una chiusura del digitale su se stes-
so e una neutralizzazione del “fuori”, del non-digitale e dunque del “pensiero
del fuori” (come direbbe Deleuze).18

Quello che Dark non sembra voler vedere, è che ci è possibile pensare il
platform capitalism nei termini dell’immanenza e del governo sulla micro-
politica, precisamente perché Deleuze, e con lui altri gioiosi spinoziani, ci
hanno fornito le lenti per vederla e criticarne gli effetti superficiali che in re-
altà la cortocircuitano, ossia che ne neutralizzano tanto la potenza quanto il

17 Cfr. M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, Roma 2012


18 A. Rouvroy, A few thoughts in preparation for the Discrimination and Big Data
conference, cdcp, Bruxelles, 2015.
22 Dark Deleuze

senso – immanenza come omogeneizzazione delle differenze e non più come


la loro stessa potenza di proliferare. In quest’ottica le analisi di Rouvroy e
Berns, così come quelle di Stiegler che ne riprende l’asse centrale19, invitano
a produrre una ripetizione differenziante dei concetti di Deleuze e Guattari.
In altra sede20 ho già definito questa operazione come il disegno di una
carta concettuale, strategica per sbloccare l’immanenza, il rizoma e la
micropolitica dalle illusioni e i dispositivi di cattura che li cortocircuita-
no attraverso gli algoritmi del capitale. Fare la carta, ripetere differen-
ziando, è allora da intendersi come l’alternativa ai rischi di un deleuzia-
nismo autoreferenziale che, ricalcando sul presente le espressioni di
Mille piani, ripetendole cioè senza variazioni, perde per strada i mezzi
per criticare e quindi ricreare l’immanenza. Opporre – qui sì, si tratta di
opposizione – al pensiero-calco dei concetti di Deleuze e Guattari un
pensiero-carta. Questo è ciò che si può apprendere dall’operazione di
Rouvroy e Berns, articolata su due piani di analisi interdipendenti: la sin-
tomatologia dei concetti di Deleuze e Guattari nel presente – come fun-
zionano, come non funzionano più, come disfunzionano – è sviluppata
proprio grazie all’utilizzo di questi stessi concetti nel comprendere, defi-
nire e criticare la governamentalità algoritmica.
Di fronte al disfunzionamento dei concetti indotto dal divenire tecnolo-
gico in atto, occorrerebbe perciò farli funzionare diversamente, per conti-
nuare a virtualizzare il mondo – questo sarebbe il senso del piano d’imma-
nenza – e così trasformarlo, piuttosto che semplicemente odiarlo e
distruggerlo. Se Dark si appoggia veementemente sulla “profezia” di Tiq-
qun per cui se “la rivoluzione era molecolare, la controrivoluzione non lo
fu da meno”, non si tratta – almeno per chi scrive – di gettare via il mole-
colare in nome della rivoluzione, bensì di ripensarlo e farlo fuggire oltre la
controrivoluzione tecnologica in atto.
Probabilmente Dark non è molto interessato a queste manutenzioni del
concetto. Nell’oscurità della sua cripta, pronto per assaltare gli hippies e
democratici deleuziani, Dark legge le scorribande filosofico-rivoluzionarie
del Comité Invisible e di Tiqqun, così come le analisi contro-deleuziane di
Žižek21 e si gonfia di negatività. È un duro e sporco lavoro, ma qualcuno,

19 Cfr. B. Stiegler, La società automatica I. Il futuro del lavoro, trad. it. di S. Baran-
zoni, I. Pelgreffi e P. Vignola, Meltemi, Milano 2019.
20 Cfr. P. Vignola, “Questo non è un piano”, postfazione a G. Deleuze, F. Guattari,
Mille piani. Capitalismo e schizofrenia II, a cura di P. Vignola, Orthotes, Napoli-
Salerno 2017.
21 “[I]l punto non è costruire un corpo senza organi (organizzazione, organismo,...)
ma organi senza un corpo”, infra, p. 83.
P. Vignola - (Non)prefazione 23

secondo Dark, dovrà pur farlo. Il duro lavoro del concetto nel quale si im-
pegna Dark è duplice, poiché a tratti vorrebbe in qualche modo salvare De-
leuze dai suoi “vizi” gioiosi e affermativi, denunciandoli e trovandone
l’antidoto, mentre altre volte vuole mostrarci come sia lo stesso Deleuze a
tendere esplicitamente verso il negativo, o ad appoggiarvisi, e dunque il vi-
zio starebbe nei suoi lettori che si coprirebbero gli occhi. In qualsiasi caso,
anche se è innegabile l’articolazione di critica spietata e creazione nel pen-
siero di Deleuze, il rischio che Dark immagina consiste nel poco amore
verso l’odio che il filosofo del rizoma sembra manifestare, nonché la scar-
sa propensione verso la distruzione. Si tratterebbe di un atteggiamento che,
specie se incoraggiato dai lettori, rischierebbe di condurre Deleuze a diven-
tare “l’asino ragliante di Nietzsche, che dice sì solo perché è incapace di
dire no (cfr. NF, pp. 270–7)”.
Ma appunto qui risiede probabilmente il punto cieco della prospettiva di
Dark, che sembra voler vedere tutto bianco o tutto nero: sin da Differenza
e ripetizione e Logica del senso, Deleuze ha sempre mostrato una specie di
diplopia concettuale, per cui le incursioni nella profondità sono spesso
compensate o per meglio dire controeffettuate dagli scivolamenti in super-
ficie, il nuovo della differenza è permesso dalla ripetizione, così come l’af-
fermazione nietzscheana dalla negazione delle forze reattive, il molecolare
si intreccia col molare, la micropolitica con la macropolitica, Nietzsche si
trama con Bergson, lo stesso Deleuze con Guattari, e via dicendo. Ed è pre-
cisamente questa diplopia a fare di Deleuze un autore irriducibile a un ca-
none predefinito, irriconducibile a una monolitica Stimmung filosofica –
gioia, ottimismo, vitalismo22. Le macchine, e soprattutto le macchine da
guerra – che non hanno la guerra come oggetto esclusivo per quanto sem-
bra definirle – rendono conto proprio di tale aspetto, ma anche la formula
“I would prefer not to” di Bartleby, che del resto rappresenta un’autentica
macchina da guerra linguistica.
Con un gesto che al tempo stesso afferma e rimuove tale diplopia, Dark
segnala la componente negativa presente in vari concetti creati da Deleuze
e Guattari, e si propone di svilupparne i tratti genetici, non tanto nel senso
metafisico, quanto in quello propriamente logico-grammaticale: deterrito-
rializzazione, anti-Edipo, sintesi disgiuntiva, tra gli altri. L’osservazione

22 Un’importante traiettoria di ricerca in merito alla complessità del pensiero deleu-


ziano, che comprenderebbe anche un movimento dialettico e dunque una dimen-
sione del negativo, ma al tempo stesso ben ponderata e precisa, è quella sviluppa-
ta da Fabio Treppiedi. Cfr. in particolare F. Treppiedi, Differenti ripetizioni,
YoucanPrint, Tricase 2016.
24 Dark Deleuze

circa le radici negative di molti concetti di Deleuze è azzeccata, anche se


piuttosto di usarla per evidenziare una sorta di ritorno del rimosso o di de-
negazione del negativo come sembra fare Dark, andrebbe forse intesa
come indice di complessità della gioia affermativa, che non ha niente di
monolitico, perché sempre risultato di giochi di forze, di processi e di tagli-
sintesi – la gioia deleuziana è macchinica, dunque sempre ibrida.
Comunque sia, l’operazione di Dark può essere concepita come propo-
sitiva – almeno in ultima istanza –, e consiste nel valorizzare tali radici ne-
gative al punto da proporre una lista di termini e concetti tendenzialmente
contrari a quelli coniati dal filosofo francese, ma testimoni appunto di que-
sta radicalità negativa, implicita nell’atto di creazione concettuale di De-
leuze. Questo rovesciamento comprende in pratica l’intera portata del pen-
siero deleuziano, e non dovrebbe essere inteso come una critica distruttiva,
bensì proprio come la promozione di un Deleuze dark, in carne e (soprat-
tutto) ossa. Nello specifico, il rovesciamento consiste nel promuovere il
lato oscuro, negativo del concetto: così, per esempio, il compito della filo-
sofia passerebbe dal creare concetti a distruggere mondi; al credere al mon-
do del realismo si contrapporrebbe la negazione materialista; l’affetto non
si definirebbe più per intensità, bensì per crudeltà; inoltre, a Dark i flussi
non interessano come produzione (per lui un’altra parola d’ordine sbiadi-
ta), ma come interruzione; all’accelerazione preferisce la fuga, e così via.
A tal proposito, occorre dire che un filosofo di grande apertura teorica
come Frédéric Neyrat sembra proprio cavalcare alcuni di questi contrari in
testi recenti, dimostrando dunque la viabilità della strada indicata da Dark23.
E in effetti Dark solleva una questione strategica: non solo cosa fare con
i concetti deleuziani, ma anche perché vederli da un punto di vista che ne-
gherebbe o silenzierebbe la loro spinta egemone o più evidente? Una rispo-
sta potrebbe essere: per mettere le componenti dei concetti in prospettiva,
o come Dark acutamente direbbe riprendendo Elisabeth Grosz, per far
“dedivenire”24 i concetti, ossia in questo caso specifico disancorarli dal ca-
none della gioia a cui sono stati legati. Nietzscheanamente, significa agire
contro il presente del concetto in favore di un suo tempo a venire. Si po-
trebbe allora parlare di una sorta di sperimentazione concettuale, che Dark
ci propone attraverso una fitta serie di immagini affilate con cui si inanel-
lano i paragrafi, e che dovremmo perlomeno tentare: pensare i concetti di

23 Cfr. in particolare, F. Neyrat, Atopies. Manifeste pour la philosophie, Nous, Paris


2014; Id., La parte inconstructible de la Terre, Seuil, Paris 2016.
24 Cfr. E. Grosz, Becoming Undone. Darwinian Reflections on Life, Politics, and
Art, dup, Durham 2011
P. Vignola - (Non)prefazione 25

Deleuze e Guattari fino a prova contraria, ossia provare a vederne il non


pensato, spiegarne le componenti fino a farli tendere verso la direzione op-
posta. Lo sforzo da fare è interessante, il risultato dipende da noi. Del re-
sto, sperimentare i contrari è precisamente mantenere allenate la critica e
l’immaginazione.
Si è detto giusto al principio che Dark Deleuze non parla che ai deleu-
ziani, nel senso che difficilmente un non addetto ai lavori del pensiero de-
leuziano potrebbe intenderlo. Ogni argomento, così come quasi ogni voca-
bolo, trova il suo senso solo all’interno del mondo concettuale deleuziano.
Al tempo stesso, però, non parla di Deleuze. Qui probabilmente si ha la più
forte coerenza del libro, nel senso che la sua volontà del negativo, dell’in-
terruzione, della sconnessione si manifesta nell’offrire un’immagine possi-
bile e improbabile di Deleuze, un Deleuze Dark, che finisce per allontana-
re l’autore – o il personaggio – dallo stesso filosofo francese.
Dark Deleuze parla del negativo, dell’opposizione, dell’odio per il mon-
do e della volontà di distruggerlo, e tutto ciò, lo si è detto, per il comuni-
smo rivoluzionario. Il libro commette alcune forzature interpretative tanto
nei confronti del filosofo del divenire quanto in quelli di altri autori25, ma
sarebbe precisamente una forzatura leggerlo come un saggio filosofico tout
court, l’ennesima monografia accademica su Deleuze, o un attacco accade-
micamente deliberato alla comunità deleuziana, o a una sua parte. Impreci-
sioni e forzature fanno parte del metodo adottato dall’autore26. Come anti-
cipato, Dark Deleuze è un personaggio, e non semplicemente il titolo del
libro, il quale se proprio si dovesse attribuirgli un genere, potrebbe appar-
tenere alla fiction filosofica: “Dark Deleuze crea concetti solo per scrivere
fantascienza apocalittica”27. E in questo aspetto letterario risiede allora tan-
to la funzione sintomatologica di esprimere il negativo, quanto la dimen-
sione – probabilmente suo malgrado – affermativa, gioiosa, del libro, nel
senso che ciò che fa a livello teorico può essere tradotto sul piano della fic-
tion con la produzione di affetti discordanti, che ci permette di connettere
in altro modo concetti, percetti, elementi, cose, persone, dentro e al di fuo-

25 Un esempio è quello relativo a Bernard Stiegler. Culp afferma che “Alcuni filoso-
fi, come Bernard Stiegler, dicono persino che la tecnologia sta rubando la nostra
preziosa interiorità” (infra, p. 36). Come è risaputo, per Stiegler l’interiorità è un
effetto del nostro rapporto con l’esteriorità e, paradossalmente, l’esteriorizzazione
dei nostri contenuti di memoria. Ciò significa che non esiste un’interiorità pura
che verrebbe affettata o sottratta da parte della tecnologia. Di conseguenza, l’af-
fermazione di Culp risulta inconsistente.
26 Cfr. infra, p. 87.
27 Infra, p. 34.
26 Dark Deleuze

ri del pensiero deleuziano. La fiction è stata un atto di creazione. Verrebbe


allora quasi da riprendere la considerazione-confessione di Deleuze quan-
to alla possibilità di far fare un figlio a Nietzsche, per poterla traslare al ten-
tativo di Culp nei confronti del primo: “A lui infatti è impossibile imporre
un simile trattamento. Figli prendendovi alle spalle, è lui che ve li fa fare”28.
Da vertiginoso e cristallino filosofo nietzscheano, Deleuze sapeva di quel
che parlava.
Ma sarà davvero così? Un libro di fiction filosofica sul negativo, che
non parla ai deleuziani che per criticarli anche surrettiziamente, si risolve
in qualcosa di nietzscheanamente affermativo, di deleuzianamente gioioso
per il lettore? Certo è che se di fiction si tratta, la potenza dell’affetto è evi-
dente, prova o sintomo ne è la pletora di negazioni che compongono que-
sta prefazione, letteralmente affettata dal negativo. Ma forse questo accade
particolarmente a me, come lettore, e più in particolare come lettore di De-
leuze. Non sarà che mi trovo come un deleuzianus in fabula? Sì, probabil-
mente la buona vecchia teoria di Umberto Eco sulla cooperazione interpre-
tativa potrebbe chiarire qualcosa di questa somatizzazione che questo testo
sta provando.
In Lector in fabula, Eco esponeva la sua teoria del lettore modello, da in-
tendersi come la strategia testuale che l’autore di un’opera sviluppa per
permettere al lettore empirico non solo di comprendere il testo, bensì di
completarlo29. Generare un testo significa quindi, innanzitutto, realizzare
una strategia, ossia una struttura testuale incompleta, capace però di preve-
dere in una certa misura i movimenti interpretativi del lettore. In tal senso,
il lettore modello non è una persona ma, appunto, una strategia diretta a noi
lettori empirici, aderendo alla quale possiamo attualizzare il testo, ossia de-
finire o ampliare i contorni del senso. E tale lettore modello non esiste di
per sé, nemmeno nella sua dimensione meramente strutturale, ma è l’auto-
re che lo inventa: un testo non si appoggia semplicemente su di una com-
petenza, ma contribuisce a produrla. L’autore contribuisce alla stessa costi-
tuzione di un soggetto come lettore, per lo meno di quel libro.
Conversamente, per Eco il lettore empirico crea un’ipotesi interpretativa
attorno all’autore, crea cioè il proprio autore modello per quello specifico
libro. Così, potremmo dire che chi legge Dark Deleuze lasciandosi traspor-
tare dal personaggio Dark, dai suoi tratti caratteriali, è il lettore modello di
Culp, o meglio lo diviene aderendo alla strategia testuale messa in campo

28 G. Deleuze, Lettera a un critico severo, cit., p. 15.


29 Cfr. U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi,
Bompiani, Milano, 1979, pp. 50 e ss.
P. Vignola - (Non)prefazione 27

dall’autore. L’autore modello è invece parte del testo, o meglio è parte di


quel che il lettore fa del testo, è l’ipotesi sul testo che il lettore modello at-
tualizza: Dark. È un gioco, un gioco letterario quello a cui siamo chiamati,
e in tal gioco sta a noi aderire alla strategia per poter sviluppare la nostra
ipotesi interpretativa e, così, inventare l’autore modello con il quale voglia-
mo cooperare per attualizzare il testo e andare al di là del saggio. Altrimen-
ti detto, per quanto possibile, estrarre l’affetto dal concetto e seguirlo.

Comunque sia, a un certo punto la fiction termina e Culp offre una serie
di preziose indicazioni sulla metodologia. Non voglio spoilerare il finale e
per questo il testo si avvia alla conclusione.

Questo libro è come una palestra per il pensiero, importante per mante-
nere attiva la sintomatologia del concetto, e in tal senso, positivamente, at-
tivamente, non parla che ai deleuziani. Per questo va letto, e in tale aspetto
sintomatologico risiede anche il suo carattere in un certo senso necessario
per gli studiosi di Deleuze, soprattutto se non si vuole finire a fare i colle-
zionisti di macchine d’epoca, attenti a non usurarne il motore o a non graf-
fiarne la carrozzeria. In questa palestra oscura, incriptata nelle viscere del
negativo, Dark sarebbe allora chi si presenta come un (im)personal trainer,
specializzato nel bungee jumping intensivo, nel parcours concettuale e nel
sollevamento dei contrari. Sta al lettore come rapportarvisi, se preferire di
no o scoprirne l’interesse e l’utilità, sposarne la causa o anche solo un
aspetto, giocarci o prenderlo seriamente. Oppure, giocarci per prenderlo
sul serio, per continuare a pensare.
NOTA DI TRADUZIONE

Nel testo, all’abbreviazione segue il riferimento all’edizione italiana.


Dove necessario, il testo è stato modificato per adeguarlo all’originale.
Tutti i corsivi sono dell’Autore, compresi quelli nelle citazioni.
Tutto il testo contrappone la semantica dell’oscurità a quella della gioia,
in ingl. Joy, incarnati dai rispettivi Deleuze Dark e Joyous. L’autore quindi
gioca su tutte le risonanze dei due termini, difficili da rendere espressiva-
mente ogni volta in italiano. Per non appesantire il testo, le elenchiamo di
seguito: “canon of joy” [canone della gioia], “joyful” [gioiosa], “en-
joyment” [godimento], “chapel choir of joy” [il coro della gioia].
Abbiamo deciso di tradurre il capitolo “Breakdown, Destruction, Ruin”
con “Demolizione, Distruzione, Tramonto”. Come indicato nel testo, si
tratta di una citazione dall’aforisma 343 de La gaia scienza di F.W.
Nietzsche. L’edizione utilizzata dall’A. è The Gay Science, Vintage Books,
New York, 1974. Il traduttore anglofono, Walter Kaufmann, ha reso il ter-
zo termine “Untergang” nel suo significato letterale di “rovina” (lett. “an-
dare-giù”). Tutte le traduzioni italiane hanno invece sempre optato per il si-
gnificato corrente di “tramonto”. Seguiamo queste ultime, in riferimento
alla già citata “oscurità” di Dark Deleuze, aggiungendo inoltre una sfuma-
tura semantica abendlandische.
Il senso di un-becoming, che l’A. mutua da Unbecoming Undone di Eli-
sabeth Grosz, sfrutta un gioco di parole non restituibile pienamente in ita-
liano. Nel linguaggio comune, unbecoming è un aggettivo che significa
“vergognoso”, “disdicevole”, mentre nel testo è utilizzato anche come ver-
bo al gerundio quale modalità, più che suo contrario, di “divenire”. Segna-
landone sempre le ricorrenze, è stato qui reso solitamente con “de-diveni-
re”, seguendo il suggerimento dello stesso Dark Deleuze, secondo cui de- è
uno dei prefissi di “negatività” che Deleuze stesso utilizza per fabbricare
alcuni suoi concetti. Allo stesso modo, il termine relato undoing, che lette-
ralmente significa “sfare”, “sfarsi”, significa anche “liberare”, “sciogliere
dai legami”.
30 Dark Deleuze

Il concetto blanchotiano di dehors (en. Outside), altrimenti restituito in


italiano come ‘fuori’ o ‘Fuori’, è stato qui sempre reso con ‘di fuori’, rifa-
cendoci alla traduzione di Cesare Milanese de Il pensiero del di fuori
(1966) di Michel Foucault, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano, 1971, pp.
111-134. Abbiamo di conseguenza adeguato le citazioni in cui ricorre il ter-
mine, segnalandolo puntualmente.
Un ringraziamento va a tutte le istituzioni bibliotecarie di Bologna e a
chiunque abbia messo a disposizione il proprio tempo e la propria libreria
personale per la ricerca dei vari riferimenti bibliografici, prima e durante
l’emergenza Covid-19.
Ringrazio Paolo Vignola per aver arricchito la presente edizione con la
sua (Non)prefazione e a Rocco Ronchi per aver risposto al testo di Culp
con il suo Gilles the Obscure. Ringrazio Matteo Anzelini (a.k.a. Inchiostro
Lisergico) che ha permesso che il suo Two-headed Saint svettasse sulla co-
pertina del volume.
A Irene, che ha pazientemente riletto la traduzione, impreziosendola non
poco.
Dedico questa traduzione a Umberto Maffucci, che l’aspettava da tempo.

F.D.M.
DARK DELEUZE
INTRODUZIONE

Nel riassumere la sua opera profondamente idiosincratica, il filosofo


francese Gilles Deleuze racconta che scrivere di altri autori è come “una
specie di inculata” o “immacolata concezione”, arriva “alle [loro] spalle” e
gli fa “fare un figlio” (PP, p. 14). Deleuze è comunque sbrigativo nel distin-
guere il suo progetto dalla palese falsificazione. Egli si limita rigidamente
a cosa effettivamente dice un autore; segue i “decentramenti, slittamenti,
rotture, emissioni segrete” di un pensatore per dargli poi “un figlio, che
[sia] suo e tuttavia [sia] mostruoso” (ibid.). Più di trenta anni dopo aver
espresso queste osservazioni, Deleuze ha ora una più che abbondante pro-
le di mostriciattoli tutta sua – rizom-bie [rhi-zombies] senza radici, vertigi-
nosi metafisici, capricciosi geonaturalisti, trascendentalisti incantati e af-
fettivisti passionali. Il mio scopo è dargli un ennesimo figlio che ne
condivida il cognome: “Dark Deleuze”.
Una volta Deleuze disse a un amico che un “libro valido” svolge alme-
no tre funzioni: di polemica, di recupero e di creatività. Nello scrivere il li-
bro, l’autore deve rivelare che (1) un altro studioso commette un errore; (2)
un’intuizione essenziale è stata tralasciata; e (3) si può creare un nuovo
concetto. Le troverete tutte e tre in questo libro. In primo luogo, mi muovo
contro il “canone della gioia” che celebra Deleuze come un ingenuo pensa-
tore affermativo della connettività. In secondo, riabilito la forza distruttiva
della negatività, coltivando un “odio per questo mondo”. In terzo, propon-
go un complotto di termini contrari che divergono dal gioioso compito del-
la creazione.
Si prenda ad esempio un particolare movimento di pensiero: gli studio-
si del new materialism si rifugiano in un’ontologia realista per mezzo del-
la metafisica della positività di Deleuze. Il fianco per una lettura realista
di Deleuze è sicuramente offerto dalla sua biografia. Chi lo ha conosciuto
ricorda costantemente il suo fermo impegno all’affermazione gioiosa e il
suo disgusto per il ressentiment della negatività. Beatificando questo sen-
timento, Deleuze è stato usato per stabilire un intero canone della gioia.
34 Dark Deleuze

Secondo quest’ultimo, il cosmo è una collezione complessa di concatena-


menti prodotta attraverso i continui processi di differenziazione. L’imma-
gine del pensiero del Joyous Deleuze provoca un senso di meraviglia, ac-
compagnato dal godimento di creare concetti che esprimono il mondo così
come esiste.
Un Deleuze differente, più oscuro [dark], ha lentamente proiettato la sua
ombra. Tuttavia, questa figura appare solo quando fuggiamo il coro della
gioia per l’oscura reclusione della cripta. L’oscurità, emergendo dagli acca-
demici preoccupati del presente, restaura un Deleuze rivoluzionario: la ne-
gatività rivoluzionaria in un mondo caratterizzato da felicità obbligatoria,
controllo decentralizzato e sovraesposizione. Questo Deleuze restaurato
forma un canone inverso [counter canon] dalla negatività diffusa nei suoi
concetti e nei suoi affetti. Sul piano del concetto, si riconosce che in De-
leuze la negatività impregna i tanti prefissi della differenza, del divenire,
del movimento e della trasformazione, come de-, a-, in- e non-. Sul piano
dell’affetto, si attinge da quanto detto da Deleuze sull’indiscernibilità, la
dissimulazione, la vergogna di essere umano e la mostruosa potenza
dell’urlo. Il compito finale di quest’approccio non è la creazione di concet-
ti, e ammesso che lo faccia, Dark Deleuze crea concetti solo per scrivere
fantascienza apocalittica (cfr. DR, p. 3).

Connessioni attuali

Michel Foucault, un po’ per battuta, pronosticava nel 1970 che “un gior-
no, forse, il secolo sarà deleuziano” (Foucault 1970, p. 54). È facile vedere
come i tifosi abbiano pompato questa frase per far emergere Deleuze, che
era molto meno popolare di Foucault o Derrida durante la prima ricezione
del post-strutturalismo in America. E se invece fosse un attacco tra le ri-
ghe? Foucault esprime questo giudizio riferendosi nello stesso momento
anche a Pierre Klossowski, un membro cruciale della società segreta
Acéphale, che ha aiutato a rilanciare Nietzsche in Francia quando altri
troppo facilmente liquidavano il pensatore come fascista. “Storicamente
adeguato” sarebbe un insulto per Nietzsche, il quale, all’inizio del suo sag-
gio Sull’utilità e il danno della storia per la vita, orgogliosamente annun-
cia l’inattualità di un pensiero che agisce “contro il [proprio] tempo, e in tal
modo sul [proprio] tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo”
(Nietzsche 1874, p. 261). In quanto uno dei principali interlocutori france-
si di Nietzsche, Deleuze usa questa frase sull’inattualità in apertura di Dif-
ferenza e ripetizione – proprio quel libro che Foucault stava recensendo
Introduzione 35

quando fece il commento. Per esplicitare l’implicito, Foucault lo stava for-


se accusando di essere, rimasticando un’altra frase nietzschiana, “attuale,
troppo attuale”.
Ma cosa renderebbe il pensiero di Deleuze particolarmente attuale? Cri-
tici quali Slavoj Žižek (2004) lo accusano di essere un testimonial per gli
eccessi culturali del capitalismo postmoderno. Un recente giro di accuse,
sottoscritto con un misto di meraviglia e maccartismo, esclama: “il fonda-
tore di BuzzFeed ha scritto la sua tesi di laurea sul marxismo di Deleuze e
Guattari!”, da aggiungere a un elenco di associazioni poco lusinghiere – “le
Forze di difesa israeliane leggono Mille piani!”, “Deleuze blatera il non-
sense alla moda della pseudoscienza!”. Fanno bene i difensori di Deleuze
a respingere tali critiche come o incomplete o nettamente illegittime. C’è
tuttavia un nocciolo di verità, che rimanda a una vecchia battuta – comuni-
sta è chi legge Das Kapital; capitalista è chi legge Das Kapital e lo capi-
sce. Dicasi lo stesso di Deleuze: nella sua opera c’è qualcosa di assoluta-
mente essenziale, ma sarebbe comunque meglio non prenderla per buona.
È vero che c’è la necessità di “fare un altro passo” oltre Deleuze ante litte-
ram, quando sia i capitalisti che i loro avversari lo citano simultaneamente
come principale influenza. Il preciso rapporto tra il pensiero di Deleuze e il
nostro tempo resta un puzzle che dobbiamo risolvere. Forse che il proble-
ma non sorge perché certi lettori agiscono come dottori che partecipano
all’esecuzione di una pena di morte, seguono il protocollo per fare una dia-
gnosi perfettamente clinica, solo per aiutare ad amministrare una dose di
droga condannata nel loro campo? O c’è qualcosa nella loro ricetta che non
fa altro che peggiorare la nostra condizione attuale?
La nostra è l’epoca degli angeli, dice il filosofo francese Michel Serres
(1993). Eserciti di messaggeri invisibili striano ora i cieli, incaricati di co-
municare, connettere, trasmettere e tradurre. Per quanto possano sembrare
fonte di ispirazione, ci costringono anche a incorporare i loro messaggi in
parole e azioni. Click, poke, like. Sentiamo il pungolo nervoso delle lettere
in arrivo che ci pongono in uno stato febbricitante fin quando non affron-
tiamo i messaggi in arrivo, rispondiamo alle mail in ritardo o alle richieste
di amicizia in sospeso. Questi comportamenti di tutti i giorni mostrano che
il mondo delle merci apparentemente moderno non ha rubato il nostro sen-
so di meraviglia – siamo mossi divinamente dai media, così come una vol-
ta lo eravamo dagli angeli. Marx, che, citando Artaud, l’ha fatta “finita con
il giudizio di Dio”, mostra che questo carattere mistico della merce è capi-
talismo, e per di più il suo trucco più popolare. Lasciateci allora seguire la
vecchia talpa di Marx alla ricerca della storia, muovendo dai cieli al sotto-
suolo. Uscendo dal coro della propria epoca, Deleuze e Guattari hanno fat-
36 Dark Deleuze

to una dichiarazione cruciale nel 1991, mentre crollava la Cortina di ferro


e andava online il primo provider commerciale: “Non ci manca certo la co-
municazione, anzi ne abbiamo troppa [...]. ‘Ci manca la resistenza al pre-
sente’” (CF, p. 102).
Il bersaglio immediato di Dark Deleuze è la connettività, il nome dato
alla crescente integrazione di persone e cose attraverso la tecnologia digi-
tale. Eric Schmidt, accolito della connessione e presidente del consiglio di
amministrazione di Google, ha recentemente dichiarato al World Econo-
mic Forum che presto “Internet scomparirà”, poiché diventerà inseparabi-
le dal nostro essere (“sarà parte della vostra presenza tutto il tempo”, cit. in
Smith 2015). Questo dovrebbe sollevare dei sospetti. Nessuno dovrebbe
mai prendere i futurologi in parola – la tecnologia procede con l’andatura
combinata e irregolare di tutti i tipi di sviluppo. Tuttavia i numeri alla base
della dichiarazione di Schmidt sono difficilmente discutibili. Ci si aspetta
che cinque miliardi di nuove persone accedano a Internet nei prossimi die-
ci anni e l’“Internet delle cose” ha motivato i singoli utenti a integrare nel-
le loro vite di tutti i giorni un vasto vettore di dispositivi abilitati alla rete.
Sebbene non ne realizzino pienamente i sogni, costituiscono pur sempre la
sostanza dell’amministrazione di cose e viventi da parte di Google.
Sulla connettività sono state sollevate molte tradizionali inquietudini.
Quasi tutte usano la voce conservatrice della prudenza morale. Un gruppo
di “critici della rete” avverte che la tecnologia si stia sviluppando più velo-
cemente della nostra comprensione dei suoi effetti. I media popolari, il
grande schermo dell’inconscio collettivo, materializzano le paure sulla tec-
nologia fuori controllo. C’è un intero filone di film horror asiatici che di-
pingono oggetti mediali maledetti rovinare le nostre vite (Ring, Kairo,
Phone, The Call – Non rispondere, White: The Melody of the Curse). La
solita occupazione borghese di romanticizzare la vita senza tecnologia in-
sinua ora che “i cellulari ci rendono pigri”, mentre circolano idee su come
“ottenere una dieta da social media”. Alcuni filosofi, come Bernard Stie-
gler, dicono persino che la tecnologia sta rubando la nostra preziosa inte-
riorità. Dietro queste insinuazioni si annida uno stimolo per ritornare alle
nostre radici.
La critica allo “scienziato pazzo” della tecnologia non centra il bersa-
glio. Il problema non sono i miopi tecnici che inesorabilmente hanno per-
seguito aperture tecniche senza aver considerato le conseguenze (“perdona
loro, perché non sanno cosa fanno” [Lc.23,34, N.d.T.]) (cfr. Žižek 1989, p.
55). L’antidoto a tale inconsapevolezza sarebbe solo una piccola dose di
critica dell’ideologia. Per altri versi, la tecnologia non ha oltrepassato la ca-
pacità umana di gestirla – se non altro, le intuizioni di Foucault (l’analitica
Introduzione 37

della finitudine e il biopotere) affermano che l’umanità influenza più che


mai il proprio destino (cfr. ID, pp. 111-5). Il problema è questo: sanno per-
fettamente cosa stanno facendo, ma ad ogni modo continuano a farlo!
Filosoficamente, la connettività riguarda la costruzione del mondo. Il
fine della connettività è rendere tutti e tutto parte di un solo mondo. Gli stu-
di portati avanti per tale mondo sono sufficientemente virtuosi – il cosmo-
politismo kantiano vuole la pace perpetua, l’universalismo marxista esige
l’unità di teoria e prassi e Habermas ci vorrebbe tutti parte di un unico
grande dialogo. Tuttavia oggi la connettività è determinata molto di più da
persone come Jared Cohen, l’ideas director di Google, il quale ha dimo-
strato il significato della tesi di Deleuze secondo cui “la tecnologia è [...]
sociale prima di essere tecnica” (F, p. 60). Formatosi come esperto antiter-
roristico, Cohen è stato sottratto da Google alla sua posizione all’interno
del Dipartimento di Stato, da cui aveva convinto Condoleezza Rice (2011,
p. 305) a integrare i social media della “cassetta degli attrezzi diplomatica”
dell’amministrazione Bush. In un manifesto geopolitico scritto con l’allora
amministratore delegato di Google Eric Schmidt, La nuova era digitale,
Cohen rivela l’aspirazione profonda di Google a estendere gli interessi del
governo statunitense in patria e all’estero. Il loro strumento principale? La
connettività.
Quando la connettività è ripetuta come un mantra, si possono vedere i
suoi effetti ovunque. A chi cerca lavoro viene detto di fare un salto sulla
rete (“Mentre il tuo curriculum vitae può aiutarti a ottenere un colloquio
per un nuovo lavoro, un profilo LinkedIn pienamente ottimizzato può por-
tarti più business, più connessioni e può aumentare la tua reputazione pro-
fessionale!”). Le gerarchie piatte sono pubblicizzate positivamente per il
business management (“Il potere è verticale; il potenziale è orizzontale!”).
E il diluvio di contenuti digitali è trattato come la più grande risorsa al
mondo, rallentata solo dagli accessi diseguali (“L’informazione vuole esse-
re libera!”). Per quanto suoni perverso, molti deleuziani promuovono anco-
ra concetti che allo stesso modo giustificano questi slogan: linee trasversa-
li, connessioni rizomatiche, reti composizioniste, concatenamenti
complessi, esperienze affettive e oggetti incantati. Nessuna meraviglia se
Deleuze è stato deriso come genio della lampada lava del “Buddhismo ca-
liforniano” – tanti così hanno ridotto la sua rigorosa filosofia a un apprez-
zamento reciproco della differenza, dell’apertura agli incontri in un mondo
intricato e delle capacità accresciute attraverso la sinergia.
Invece di estrarre romanticismo, Dark Deleuze esige che uccidiamo i
nostri idoli. Il primo compito è negativo. Come nella schizoanalisi di De-
leuze e Guattari, “tutto un raschiamento” (AE, p. 355) – Demolirete i loro
38 Dark Deleuze

altari, spezzerete le loro stele, taglierete i loro pali sacri, brucerete nel fuo-
co le statue dei loro dei e cancellerete il loro nome da quei luoghi [De.12,
3, N.d.T.]. Più modestamente, il primo passo è riconoscere che l’ottimismo
a briglia sciolta per la connessione ha fallito. Le zone temporaneamente au-
tonome sono diventate zone economiche speciali. Le conseguenze materia-
li del connettivismo sono chiare: il terrore dell’esposizione, la diffusione
del potere e la sovrasaturazione dell’informazione. Si sarebbe tentati di cri-
ticare i deleuziani connettivisti di cadere fuori dal tempo, per non aver ri-
conosciuto il loro stesso momento di convalescenza. Tuttavia tale accusa
preparerebbe solo il terreno per un intervento più attuale. Dark Deleuze
non indossa il mantello del guru profetico o del puntuale agitatore politico.
Come progetto, segue piuttosto il consiglio di Deleuze di creare inattuali
“vacuoli di non-comunicazione” che rompono i circuiti anziché estenderli
(PP, p. 231). Il punto non è uscire da questo luogo, ma cannibalizzarlo –
possiamo essere di questo mondo, ma certo non siamo per esso. Questo es-
sere fuori dai cardini è una distanza. E la distanza è ciò che dà inizio all’o-
scura immersione nei molti mondi che il vecchio ha eclissato.

Odio per questo mondo

“[A]bbiamo bisogno di ragioni per credere in questo mondo”, esige De-


leuze (C2, p. 200). Siamo troppo distratti dal cinismo della critica ideolo-
gica che troppo facilmente mettiamo da parte il mondo reale come se fosse
un’illusione. Il problema è amplificato ancora di più oggi in quanto scam-
biamo la conoscenza con la credenza, una confusione nutrita dai crescenti
database d’informazioni leggibili a disposizione. Deleuze ci chiede di ri-
connetterci con il mondo come oggetto di fede, per credere in qualcosa an-
che se tanto transitorio quanto le sensazioni sfuggenti del cinema (cfr. ivi,
pp. 198-202). Sebbene non sia sbagliata, questa indicazione è incompleta.
Nella sua impulsività, Deleuze dimentica di porre il problema con l’ambi-
valenza trovata in tutte le sue altre analisi di potere – così come gli affetti
sono regolati dai tiranni, le rivoluzioni molecolari fecero il fascismo e le
macchine da guerra nomadi furono arruolate dallo Stato per combattere.
Senza di questo, egli diventa l’asino ragliante di Nietzsche, che dice sì solo
perché è incapace di dire no (cfr. NF, pp. 270–7). Dobbiamo allora rimedia-
re all’errore di Deleuze e cercare il lato oscuro della credenza. Il cardine
per identificare ciò che vi è sotteso inizia con il sentiero della fede, ma solo
per seguire una strada diversa. Quindi si parta con un simile divenir-attivo
che si colleghi con le forze che autoproducono il reale. Ma, invece di ap-
Introduzione 39

prezzare semplicemente le forze che producono il Mondo, Dark Deleuze


interviene al loro interno per distruggerlo. Una volta, tale intervento avreb-
be richiesto la Morte di Dio o, più recentemente, la Morte dell’Uomo. Ciò
che si invoca oggi è la Morte di questo Mondo e riuscirci richiede coltiva-
re un odio per esso.
Deleuze rifiuta l’immagine di Nietzsche come cupo pessimista. Rimet-
tendo quell’immagine sulla sua testa, Deleuze sostiene che Nietzsche sia
un pensatore dell’affermazione senza pari. Ma nel farlo, nemmeno la ma-
gistrale penna di Deleuze può cancellare i molti momenti di negatività che
impregnano l’opera di Nietzsche. Deleuze si focalizza così sui momenti di
creazione di Nietzsche, come ad esempio un passaggio tratto dall’aforisma
58 de La gaia scienza:

Che genere di pazzo sarebbe chi pensasse che sia sufficiente mostrare
quest’origine e il velo nebbioso che avvolge questa illusione per annientare il
mondo che si crede sostanziale, la cosiddetta “realtà”! Solo in quanto creatori
noi possiamo annientare! – Ma non dimentichiamo neppure questo: è sufficien-
te creare nuovi nomi e nuove valutazioni e nuove verosimiglianze per creare, a
lungo andare, nuove “cose”.

Insoddisfatto dell’implicito fine di distruzione di Nietzsche, Deleuze in-


verte la frase in “distrugg[ere] per creare” (ID, p.161). Questa formulazio-
ne appare più volte nella sua opera. Per nominare pochi luoghi: ne L’anti-
Edipo, Deleuze e Guattari dicono che il capitalismo distrugge ciò che è
venuto prima di crearne la sua esistenza terrena, un processo di tre compi-
ti, laddove il primo è negativo (distruggi!) e gli ultimi due sono positivi
(crea! crea!). Deleuze in seguito sostiene che il pittore deve innanzitutto di-
struggere i precedenti luoghi comuni prima di creare un nuova immagine
(cfr. FB, pp. 157-66). E nella loro ultima collaborazione, Deleuze e Guat-
tari rimproverano “coloro che criticano senza creare” come “la piaga della
filosofia” (CF, p. 18).
C’è qualcosa di disarmante nella sincerità della definizione di Deleuze e
Guattari della filosofia come l’arte di costruire concetti (ivi, p. VIII). Tut-
tavia sembra strano, in un’era piena di triti inviti a essere costruttivi: “se
non hai niente di carino da dire, non dirlo affatto”, “se saranno piantati pen-
sieri costruttivi, allora esiti positivi ne saranno il frutto”, o, semplicemente,
“sii costruttivo, non distruttivo”. La semplice struttura se-allora di queste
massime di autoaiuto è più che logica: dischiude una teoria transitiva della
giustizia. Proprio come il mite erediterà la terra [Mt.5,5, N.d.T.], si promet-
te la giusta ricompensa della costruzione: cose buone verranno a coloro che
40 Dark Deleuze

saranno costruttivi! Quant’è lontano tutto questo dalla “critica radicale di


tutto ciò che esiste” di Marx (1843, p. 72). Ora che i pubblicitari reclama-
no di essere le più creative di tutte le creature sulla terra, è tempo di sosti-
tuire la creatività dal suo ruolo di meccanismo centrale di liberazione.
Deleuze avrebbe odiato l’immagine odierna della creatività – c’è gran-
de violenza nel comparare la fabbricazione di concetti a qualsiasi felice
mezzo di costruzione; i concetti sono amici solo al pensiero, mentre essi
rompono il consenso (cfr. CF, pp. X-XII e 92). I concetti non vengono
scoperti ma sono il risultato di una catastrofe, dicono Deleuze e Guattari,
di un distogliersi, della stanchezza, della difficoltà e della diffidenza (cfr.
ivi, pp. XII-XIII). Il pensiero vero è raro, doloroso e di solito ci è impo-
sto dalla brutalità di un evento così terribile che non si può risolvere sen-
za la difficoltà del pensiero. Come tale, noi dobbiamo smetterla di tratta-
re i concetti come qualche “’[…] dote miracolosa proveniente da un
mondo miracoloso’” per comprendere il duro, rigoroso lavoro che va nel-
la loro creazione (ivi, p. XI).
Il produttivismo è il secondo oggetto di critica di Dark Deleuze (il pri-
mo era il connettivismo). Si potrebbe distinguere la creazione di concetti
dal produttivismo, poiché quest’ultimo è la “formazione commerciale pro-
fessionale” che aspira a un pensiero semplicemente vantaggioso “dal pun-
to di vista del capitalismo universale” (ivi, p. XIX). Mantenere tale distin-
zione è difficile – in un’epoca di felicità obbligatoria, è facile fondere una
costruzione con i valori capitalistici, le promesse vuote della democrazia o
la semplice utilità (cfr. ivi, pp. 100-2). In tal senso, il produttivismo si di-
stingue per due principi formali: accumulazione e riproduzione. In primo
luogo, il produttivismo gestisce i conflitti politici attraverso una logica di
accumulazione, come visto nella “mobilità totale” della Seconda Guerra
Mondiale, così come nei squallidi tentativi di Stalin e Mao di superare in
produzione il sistema mondiale capitalistico. In secondo, il produttivismo
limita la produzione alla riproduzione, come il capitalismo tenta di fare, av-
viando solo quei circuiti di produzione che operano su basi che si espando-
no (ciò che Lenin chiamava “imperialismo”). L’importanza della critica al
produttivismo è che espande la grammatica del potere oltre ciò che si attie-
ne all’accumulazione e alla riproduzione.
Dark Deleuze non cavilla filosoficamente sulla creazione. Ma è facile
essere sovrastati da coloro che elogiano Deleuze per la sua “gioia”. La dif-
ficoltà con la gioia è che giace nello slittamento tra metafisica e normativi-
tà. Michel Serres, per esempio, resta convinto che la morte di Deleuze deb-
ba essere stata un incidente, perché sentiva che il suicidio non era nel
carattere o nella filosofia di Deleuze (cfr. Flint 1996). Tali libertà possono
Introduzione 41

essere autorizzate dal termine stesso, così come viene dall’Etica di Spino-
za, in cui la linea tra le due è meno netta. Superfici di gioia come la sensa-
zione di piacere che proviene dall’incontro di un corpo con qualcosa che
espande le sue capacità, le quali sono affetti che vengono detti “concorda-
re con la mia natura”, essere “buoni” o semplicemente “utili” (S, p. 186).
Finire la storia qui (sebbene qualcuno lo faccia) riprodurrebbe un edoni-
smo ingenuo basato sulle inchieste sui soggetti e sui loro stati affettivi au-
toriportati. La teoria degli affetti di Spinoza non è un’affermazione delle
sensazioni di un soggetto, ma una prova dell’inadeguatezza della critica.
Gli affetti sono sottoprodotti emessi durante l’incontro che sottintendono
un sostituto da riconoscere o la comprensione di un ciclo vizioso che indi-
ca l’insufficienza della conoscenza. Ma ci sono innumerevoli forme di co-
noscenza, molte delle quali invitano alla stupidità o all’illusione. Ciò che
caratterizza la “conoscenza adeguata” di Spinoza è la sua abilità di creare
qualcosa di nuovo – è allora che la conoscenza diventa “identica alla co-
struzione del reale” (ivi, p. 109). Questo è il motivo per cui Spinoza può
dire Dio=natura; la conoscenza-come-Dio è definita come quel pensiero
che aumenta le capacità di prosperare delle azioni nel mondo naturale
(“penso, dunque sono attivo”, CF, pp. 20-1). Ciò implica che la critica non
sia effettiva di per sé, non importa quanto ad alta voce essa proclami la sua
verità. L’unica conoscenza adeguata è l’attività.
Deleuze corrompe l’olismo del già eretico Spinoza attraverso una vec-
chia proposizione atomista: il rapporto tra due termini produce un terzo ter-
mine indipendente (a volte, “i rapporti dei due corpi concordano così bene
da formare un terzo rapporto, grazie al quale i due corpi si conservano e
prosperano”, S, p. 186; cfr. inoltre, ES, p. 123.). Questo è come Deleuze co-
struisce la sua metafisica della positività – tutti gli elementi sono indipen-
denti senza ricorrere all’opposizione, alla contraddizione o all’identità (he-
geliane). La “linea di fuga” di Deleuze e Guattari incarna concettualmente
la nozione nietzscheana che le cose sono non del tutto dipendenti dal loro
contesto di produzione. Per essi, qualsiasi cosa che abbia acquisito la sua
propria consistenza interna è libera di muoversi al di fuori del proprio luo-
go di origine. Essi definiscono in questo modo anche l’arte – come impres-
sioni che si sono rapprese abbastanza da diventare il loro stesso esercito di
sensazioni (cfr. CF, p. 161). I contemporanei di Deleuze e Guattari condivi-
dono questa intuizione, in particolare la reversibilità strategica delle rela-
zioni di potere di Foucault e il materialismo aleatorio di Althusser. Per Fou-
cault (1976, pp. 81-90), la reversibilità del potere è illustrata
nell’omosessualità, la quale fu prima creata come categoria medica di per-
versione sessuale ma cresce come stile di vita pieno che “ha parlato auto-
42 Dark Deleuze

nomamente”. Per Althusser (1982, pp. 66-7), la “corrente sotterranea” del


capitalismo è composta sempre da vari elementi non contemporanei in un
processo di “divenire necessario” che giunge a “consolidarsi in certi mo-
menti fortunati”, mentre l’importanza singolare di ogni contingenza ricer-
cata rivela simultaneamente l’orizzonte instabile del sistema. L’atomismo
mostra così come il mondo fornisce i materiali per la sua distruzione.
I poteri del di fuori, componente del pensiero di Deleuze largamente
spinta in secondo piano, offre un’ulteriore fuga. In primo luogo, vi è un pun-
to chiave in questo libro: Deleuze e Guattari stabiliscono ne L’anti-Edipo
l’autoproduzione del Reale, che è un processo passivo che accade largamen-
te oltre la comprensione umana. Nel confondere metafisica e politica, molti
deleuziani ripetono a pappagallo questa produzione come un positivo fine in
se stesso. Tuttavia un ritorno a una politica degna del nome di “comunismo”
esige l’opposto, poiché il più grande sistema di autoproduzione è il capitali-
smo, che getta miliardi di individui in una povertà abietta, dichiara orribili
guerre di devastazione e assoggetta l’umanità a una matrice crescente di op-
pressione sociale. I richiami alla fragilità della vita non fanno che oscurare
sempre di più il problema. Volendo dire qualcosa di parecchio controverso,
sebbene ben stabilito dagli ecologisti decine d’anni fa: la vita ci sopravvive-
rà. Tutte le preoccupazioni umane verso il mondo sono in ultima analisi un
antropocentrismo egoista, perché non c’è mai stata vita che non fosse a ri-
schio, ma lo sono solo le capacità del mondo di sostenere gli umani (“la de-
tonazione combinata di tutte le armi nucleari del mondo – ho sentito una
volta – sarebbe come una calda brezza estiva per Gaia”) (cfr. Luke 1997;
Stengers 2008). In secondo luogo, la via da seguire è invitare la morte, non
evitarla. Questo suggeriscono Deleuze e Guattari nella loro rielaborazione
dell’istinto di morte. Sentimenti simili hanno avuto eco nell’etica punk del
“no future”, che paradossalmente realizza che il solo futuro che abbiamo
giunge proprio quando smettiamo di riprodurre le condizioni del presente
(cfr. Edelman 2004). Quindi lasciateci smettere di romanticizzare la vita e
sperare in una morte felice su forme politiche calcificate, con nessuna buo-
na soluzione e attraverso cattivi modi di pensare.
Dobbiamo correggere l’errore di Deleuze: mancare di coltivare un odio
per questo mondo. Inizia con l’“ambivalente gioia di odiare” (F, p. 39) –
“Tutto quanto la mia anima ama, anch’io l’amo. Tutto quanto la mia anima
odia, anch’io l’odio” (CC, pp. 116 e 176). O, per fare eco a Proust, “Occor-
re essere duri, con l’amata, crudeli, senza scrupoli” (MPS, p. 74). Non che
Deleuze abbia mai menzionato l’odio in una luce positiva; in effetti, spes-
so elogia il “senso della crudeltà” e il “gusto per la distruzione” di Nietzsche
(DR, p. 75). Troppo spesso Deleuze è stato sopraffatto da un’ingenua affer-
Introduzione 43

mazione di gioia, e, come tale, inabile a dare all’odio la sua forma necessa-
ria. La sua immagine del futuro assomiglia troppo a quella del presente, e
coloro che la ripetono finiscono per suonare come una parodia: “giardini ri-
zomatici”, “auto-produzione cooperativa” e “affermare l’affermativo della
vita”. Contro queste massime, Dark Deleuze è rinato come un barbaro de-
scritto nella stagione all’inferno di Rimbaud (1873, pp. 259 e 295):

Sono di una razza lontana: i miei padri erano Scandinavi: si trafiggevano il


constato, bevevano il loro sangue. – Mi farò tagli in tutto il corpo, mi tatuerò,
voglio diventare repugnante come un mongolo: vedrai, urlerò per le strade. Vo-
glio diventare proprio pazzo di rabbia. […] Sognavo crociate, spedizioni di cui
non è rimasta relazione, repubbliche senza storie, guerre di religione soffocate,
rivoluzioni di costumi, spostamenti di razze e di continenti.

L’odio barbaro non deve essere indiscriminato, ma nemmeno segue una


scienza del giudizio. In effetti, è ciò che resta dopo averla fatta finita col
giudizio (di Dio, dell’Uomo e perfino di questo Mondo). L’odio è l’ambi-
valente integrazione dell’amore e, come tale, può facilmente evitare di sca-
dere nel ressentiment. Poiché il ressentiment è solo un’immagine disprez-
zata dell’amore, come dimostrato dal Dio cristiano che ha amato questo
mondo così tanto da introdurvi il giudizio morale con l’ideale ascetico. In-
fine, l’odio darà solo prova di essere importante per la Morte di questo
Mondo, tanto quanto lo è stato per la Morte di Dio e la Morte dell’Uomo.

Dalla cappella alla cripta

Finora ci sono stati solo coloro che hanno illuminato il mondo in vari
modi; ora il punto è oscurarlo. Alcuni speculano che gli umani per la prima
volta abbiano riflettuto sui fatti del mondo sotto la luce brillante dei cieli.
Su quel vasto palcoscenico celeste, gli dei recitavano le grandi tragedie
dell’arte e della cultura. Questo cosmos ha inoltre ispirato le prime scienze
della matematica e dell’astronomia, intrecciando le molte costellazioni in
un unico arazzo. Mentre la luce delle stelle diveniva cicli astrologici, infi-
ne calendari dettagliati, venne così l’alba dei tempi.
Una storia più moderna inizia nel 1609, quando, dopo aver avuto notizia
dell’invenzione olandese del cannocchiale, Galileo ne crea uno proprio.
Quasi immediatamente, Galileo scrutava già negli oscuri quadranti della
Luna e illustrava il suo angolo di illuminazione. Queste scoperte l’avrebbe-
ro portato ad appoggiare ad alta voce l’eliocentrismo – rimpiazzando Dio
44 Dark Deleuze

con una nuova luce al centro dell’universo. Curiosamente Galileo ostenta


le regole dell’astronomia nella sua registrazione lunare, benché non dati
ogni acquarello secondo il suo tempo di osservazione, né riproduca il pae-
saggio lunare fotorealisticamente (cfr. Gingrich e van Helden 2003, pp.
258–62). Secoli di critici hanno provato a determinare la causa dell’inaccu-
ratezza di Galileo. Johannes Hevelius, il padre della stenografia, si sorpren-
deva come fossero troppo rudimentali gli strumenti di Galileo (cfr. Heve-
lius 1647, p. 205). Altri insinuano che egli possa essere stato troppo
sopraffatto dall’emozione della scoperta (cfr. Kopal 1969, p. 225). E se Ga-
lileo avesse invece scelto non di vedere la luna matematicamente ma filo-
soficamente? Egli si preoccupava meno dei suoi angoli di illuminazione in
quanto oggetto astronomico che quanto il suo telescopio perspicillum rive-
lasse su quella come concetto cosmologico. Il suo modello di luna rivela un
modo di vedere molto più appropriato al pensiero visuale barocco che alla
misurazione geografica. Gli acquarelli di Galileo dimostrano le belle con-
vergenze del barocco. Connotando non “un’essenza, ma una funzione ope-
rativa” (L, p. 5), la luna di Galileo si diversifica nella collisione di molte-
plici punti di vista mentre l’oscurità e il paesaggio si incontrano in ombre
cangianti. Più significativamente, egli segna una transizione “sotto i colpi
inferti dalle divergenze, dalle incompossibilità, dai disaccordi, dalle disso-
nanze” (ivi, p. 135). In un mondo non più illuminato dalla luce di Dio, Ga-
lileo dipinge “altrettante frontiere tra i mondi” (ivi, p. 136) in una scala cro-
matica così da essere irrisolvibile da qualsiasi obiettivo impostato su un
unico angolo. Allora, come si può continuare il viaggio di Galileo sul lato
oscuro della luna? Rifiutando l’armonia divina e piuttosto cospirando con
i divergenti mondi sotterranei.
Caso il più immediato di luminosità, il connettivismo è la realizzazio-
ne del sogno tecno-affermazionista di trasparenza completa. Il destino di
tale trasparenza è rappresentato in Metropolis di Fritz Lang. In esso, la
spinta alla completa comunicabilità eleva la trasparenza nella falsa tra-
scendenza di una Nuova Torre di Babele. Nel profondo dell’oscurità del-
la Città inferiore viene sfruttata la classe lavoratrice, schiavizzata alle
macchine che l’automazione ha promesso di eliminare. È solo nelle cata-
combe che comincia la ribellione segreta. Ma invece della conclusione
nella grande meditazione hegeliana di Lang, sarebbe piuttosto meglio
ascoltare Babilonia la Grande Prostituta in Metropolis, che dice “Guar-
diamo il mondo sprofondare all’Inferno” [cfr. Ap.17,1-6 e 9-10, N.d.T.].
Tale inattuale caduta nell’oscurità inizia con una protesta: la luminosità è
stata troppo a lungo il modello dominante di pensiero. La strada qui di-
scende dalla cappella alla cripta.
Introduzione 45

Le cripte sono per loro stessa natura luoghi di reclusione. I primi Cri-
stiani che dovettero affrontare le persecuzioni pubbliche fuggivano nelle
catacombe sotto Roma, dove essi potessero pregare in segreto (cfr. an.
1829). Sotto i loro cori le prime basiliche contengono cripte come una
“seconda chiesa”, con una cella voltata, molte colonne, diverse corsie e
un altare (cfr. Lübke 1852, pp. 24-5). Alcune grandi chiese includevano
una seconda cripta dedicata a un particolare santo (cfr. ivi, p. 26). Talvol-
ta, quando gli oggetti sacri erano di speciale interesse, le cripte di santi
particolarmente rinomati ispiravano pellegrinaggi di massa (cfr. Spence-
Jones 1902, p. 269). Deleuze nota che questi spazi si piegano su se stessi,
esprimendo simultaneamente l’“autonomia dell’interno” e
l’“indipendenza della facciata” come un interno senza un esterno o un
esterno senza un interno, a seconda di come li si approcci (L, p. 47, trad.
leggermente modificata). Guardando il grande dipinto manierista-baroc-
co della Sepoltura del conte di Orgaz di El Greco, ci è data una scelta. Al
di sopra della grande linea orizzontale, una comunione di santi ascende
all’altezza di Gesù, la cui ascensione conferisce ai cieli eterna lucentez-
za. Al di sotto, una fratellanza di incappucciati, una folla di uomini palli-
di assieme per deporre il conte affinché riposi sotto un oscuro sfondo il-
luminato solo da torce. Il dipinto rivela la verità barocca della
conoscenza: “Da lungo tempo esistono luoghi in cui tutto ciò che è dato
a vedere si trova al di dentro: cellula, sacrestia, cripta, chiesa, teatro, stu-
dio di lettura o di stampa” (ivi, p. 46). Quindi al di là dell’associazione
delle cripte alla decomposizione e alla morte, vi è una proiezione di una
potenza architettonica sotterranea.
Dalla cripta, Dark Deleuze lancia un complotto. È alimentato da negati-
vità, una negatività che non proviene dalle antinomie. Seguendo Freud, la
negazione non è un sottoprodotto necessario della coscienza. La lezione da
trarre da lui è che la negazione consiste nel trovare un modo per dire “no”
a coloro che ci dicono di prendere il mondo così come è. A questo fine, il
cammino che ci attende è la negazione non dialettica di Deleuze, il “con-
trario”, che funge da distanza tra due cammini esclusivi (cfr. LS, pp. 153-
160). Klossowski (1972) identifica la meta del complotto nel rompere la
collusione tra moralità istituzionalizzata, capitalismo e Stato. Egli allora
mostra come la risata di Nietzsche possa essere usata come strumento spe-
rimentale per dissolvere in fantasmi tutte le identità. Numerosi commenta-
tori hanno provato a riabilitare il complotto sulla base di una distinzione tra
esoterico ed essoterico, laddove i discorsi essoterici sono la mera faccia
pubblica di una paranoia più profonda, il cui desiderio è celato in un codi-
ce esoterico. Nella misura in cui vale, nel suo libro Nietzsche e il circolo vi-
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The French Method

This method, per se, is not in itself sufficient to bring about a


satisfactory result. The fundamental principle is that of the sliding
flap of Celsus, and in which the two flaps intended to form the new
nose are taken from the tissue of the cheek at either side of the
remains of the old nose.
The total outcome is simply to bring before the opening a curtain
of skin with a median scar running from the root to the lobule, which
in itself is sufficient upon contraction to mar the result; furthermore,
there are the two lateral wounds which have to be covered by skin
grafts which, upon healing, have their tension of contraction, added
to that of the median scar, with the result that the anterior nose
becomes flattened and ugly, practically amounting only to an
unevenly contracted curtain of marred skin.
The author would not advise resorting to such method, but, owing
to the fact that a step in the advancement of the art was conceived
under this particular method, space is given to the subject. This step,
first introduced by Nélaton, consisted of allowing all of the cicatricial
tissue of the old nose to remain with which the new nose could be
built. As the possibility of this is rare in total rhinoplastic cases, the
method is more useful in partial rhinoplastics, where it forms an
important factor, as will be shown later under that subdivision.
Nélaton Method.—Two lateral flaps of triangular form, having
their pedicles below the internal canthi, are cut from the cheeks,
each flap containing all of the remains of the old nose. The entire
inner borders of these flaps were freshened throughout their whole
thickness.
In making the flaps, dissection is made down and through the
periosteum, thus giving firmness and thickness to the new nose. The
flaps are slid forward and sutured along the median line, leaving a
triangular wound of the cheek on either side, as shown in Fig. 339.
To keep the raw surfaces in contact with the newly dissected area
and to retain the nose in place as far as possible, a silver pin is
inserted through the base of the new nose, going through the skin
and remains of the old nose. It should be of sufficient length to
permit holding a disk of cork at either end, beyond the skin and for
the retention of the metal ring ends of a hook bent in inverted U-
shape. The diameter of the latter bent wire is equal to that of the pin.
He claims for his method a perfect and fixed cicatrization of the
newly placed parts.

Fig. 339.—Nélaton Method.

Heuter Method.—The cheek flaps are cut from the cheeks, as


shown in Fig. 340, leaving intact a triangular piece of skin with the
object of giving support to the new nose. The inner and upper
borders of the two flaps were stitched to the rim of this triangle, and
then along the median line. The flaps are not made to include the
periosteum, as in Nélaton’s method. The results thus obtained are
not equal to the latter’s procedure.
Fig. 340.—Heuter Method.

Bürow Method.—The cheek flaps are made as in Fig. 341. The


projection intended for the subseptum is an elongated strip at the
inferior border and inner angle of the left flap.
The shaded triangles at either extremity of the outer incisions
show the removal of the skin at these points, to facilitate sliding of
the flaps, adding, however, to the extent of cicatricial contraction
upon final healing, with the resultant flattening of the new nose. The
lobular prominence takes an upward position eventually, and
altogether the extensive secondary wounds and the effect of their
behavior does not warrant the use of this method.
Fig. 341.—Bürow Method.

Szymanowski Method.—His method is an improvement on that


of Bürow. The flaps, inclusive of considerable cellular tissue, are
fashioned in Fig. 342, except under the two narrow extension flaps,
which are to be utilized in building up the subseptum. Their raw
surfaces are sutured together with silk. The flaps are united along
the median line.
If the tissue from the cheeks do not permit of free sliding forward
of the flaps, further incisions shown by the dotted lines over each
malar prominence are made. The skin of the shaded irregular areas
on either side is removed, as in the Bürow method.
Fig. 342.—Szymanowski Method.

Serre Method.—The flaps are made to either side of the remains


of the old nose, each leaving its pedicle about one fourth inch below
the inner canthus of the eye. The flaps were cut rather obliquely,
their bases extending somewhat below the nasal orifices. The
remaining skin of the latter was dissected downward and folded
down upon the median third of the lip. If cut in two sections their
inner borders were sutured so that their raw surfaces faced each
other. The object of the latter step was to form the subseptum,
according to Lisfranc. The sections of skin lying with their bases on a
level with the nasal orifices were dissected downward and united in
the median line to assist in forming the end of the nose. All along the
borders of the old nose were also dissected up where possible and
folded inward, so that their raw surfaces would adhere to the new
dorsum of the nose, and thus give it stability and form. These pieces
of skin were united at the median line when possible.
The cheek flaps with indented bases were now brought forward
and united, as shown in Fig. 343. The skin of the cheeks was
dissected up to the extent of the dotted line in the former illustration,
and when necessary two lower curved incisions were made to permit
of free sliding. The skin of the cheeks was retained by three sutures
at either side, as shown in Fig. 344. The subseptum may be made at
the same sitting, or at a later operation.
Fig. 343. Fig. 344.
Serre Method.

Syme Method.—The procedure is very like that of Heuter, except


that the somewhat curved line making the inner borders of the flaps
extended over the root of the old nose. The lower ends or bases of
the two cheek flaps were stitched around and to the orifice to form
the end of the nose, rubber tubes being used to form the nostrils,
where they were retained until healing was complete.
Blasius Method.—He forms the cheek flaps in triangular form,
including all of the tissue making up the buccal cavity. The outer or
cheek incision is made through all of the tissue and extends to a
point corresponding to a point a given distance beyond the angle of
the mouth. The inner incision is made from a point just below the
angle of the ala downward and through the thickness of the lip. A
third incision unites the angle of the mouth with the outer incision.
Both cheek flaps are made alike, each remaining attached along all
of the remains of the old nose. They are now raised upward and
inward, with their mucosa facing outward, and united along the
median line. The raw cheek borders are now brought forward and
held in place by suturing them at either side to the remaining
rectangular flap of the upper lip. The formation of the subseptum is
left for a second sitting. This method is not only too extensive, but
too disfiguring to make its employment practicable. The mucous
membrane would, of course, in time take on the function and
appearance of skin, but the shape of the mouth never assumes a
normal form, especially since there is quite a loss of the vermilion
border at either side which is raised upward with the cheek flaps to
assist in forming the base of the nose.
Maisonneuve Method.—Where there is more or less occlusion of
the nares and yet an integumentary covering corresponding to the
nose, as it might rarely be in congenital cases, Maisonneuve utilizes
the sliding flap method to overcome the abnormality. In the case
presented, the nasal orifices were hardly three sixty-fourths of an
inch in diameter and about one inch apart. The correction was
accomplished as follows, and shown in Fig. 345: An incision was
made transversely outward from each nostril, then two converging
incisions were made from both nares downward, meeting at the
vermilion border of the lip in the form of a V, which were made to
include the whole thickness of the lip. This flap was brought upward
to form the subseptum. The skin to form the nasal lobule was now
slid forward from either end of the incision and the subseptum
sutured in place. Rubber tubes were employed to keep the nares
distended and permit of the wings of the nose to form.
The defect in the upper lip was brought together as in a median
harelip operation, the parts appearing after operation as illustrated in
Fig. 346.
Fig. 345. Fig. 346.
Maisonneuve Method.

The Italian Method

In this classification of total rhinoplasty the skin flap is taken from


another part of the body and not from the face. The integument of
the arm is usually employed, the pedicle remaining intact until the
flap has healed into place.
The method has been accredited to the Italian author-surgeon
Tagliacozzi, but it was practiced long before his time; yet he was the
first to fully describe the steps of the successful operation. It has
been referred to quite fully under skin grafting.
The flap having an attached pedicle is cut from the entire
thickness of the skin of the arm. The free end of the flap is sutured to
the freshened borders of the old nose, and the arm is held in place
until union has been established, when the pedicle is cut. There are
no special advantages in this method, since the outcome is no better
than that obtained with the Indian method; at best the result is
merely the curtain of skin covering the defect, with the one thing in
its favor—the avoidance of the frontal scar. Against this is the great
discomfort the patient must suffer in having his arm retained in the
necessary position to prevent movement and strain on the flap, to
which may be added the danger of embolism occasioned by freeing
the arm at the time the pedicle is cut. There is also difficulty of
properly dressing the wounds, owing to the constrained position
which consequently invite sepsis and imperfect healing. Hence, for
total rhinoplasty, this method may be termed unsatisfactory; yet for
certain partial rhinoplastic results it supersedes all other methods, as
will be hereinafter shown.
To make the flap a pattern is laid upon the skin, from which it is to
be made; it should be one third larger than the actual size of flap
needed, to allow for contraction. The incisions should go through the
entire thickness of the skin, leaving an attachment or pedicle, what in
this case would be the part of the flap intended for the base of the
nose, and directly opposite to those described heretofore.
The flap may be sutured in place immediately after the cutting, or it
may be allowed to remain upon the arm until contraction has taken
place in the flap, or the flap may first be modeled into nose shape
and then sutured upon the freshened margins of the old nose.
The arm must in any of these methods be held in place during the
days required to have the flap heal or unite with the facial tissue. The
various operators have devised means to accomplish this. There is
the linen network of bandages of Tagliacozzi, the harness of Berger,
the starched linen and book-board affair of Sedillot, the one-piece
suit of Lalenzowski, the leather sleeve and helmet of Graefe and
Delpech and many others.
Having determined upon the method to be followed in securing the
flap, the surgeon is advised to consider such apparatus as he may
be able to procure to retain the parts, or to use his own ingenuity to
construct one of plaster-of-Paris bandages to meet the requirements
of the case at not only less expense, but with greater comfort to the
patient. At best, any apparatus employed will do little to overcome
the agony of the retained member, which must be held in position.
Various operators give this period between six and twenty days.
The apparatus should be so constructed that dressings can be easily
made without discomfort to the patient, and without doing damage to
the parts, and also to expose the face of the patient as much as
possible. The various operations employed to perform total
rhinoplasty by the Italian method may now be considered.
Tagliacozzi Method.—This surgeon resorted to four steps to
accomplish his operations, which were:
I. Massage of or stretching the skin of the part from which the flap
is to be made.
II. Cutting the flap, and allowing the same to cicatrize.
III. Freshening the flap and suturing in place, and use of
apparatus.
IV. Cutting the pedicle and making the subseptum.
The various details of these steps should be considered here,
since the methods are practically the same for all other operations of
this kind, except in certain particulars as to time and mode of
procedure.
I. Massaging the tissue of the arm to render it supple. This is of
some consequence, in some cases, where the skin is tense, but
requires no especial description.
II. He then compressed a fold of the skin with a large forceps at
the lower half of the biceps. Upon opening these forceps he forced a
bistoury under the skin fold and cut down toward the elbow-joint a
distance sufficient to form a flap. This gave him a piece of raised
skin, attached at either end, double the size of that required to make
the nose. Under this he introduced linen mesh dressings in the form
of a seton, with the object of irritating the skin to encourage the
circulation, and render it thicker by consequent suppurations and
granulations. This was continued for fifteen days, when the skin was
detached at its upper end, leaving it attached by the lower or wider
pedicle intended for the base of the nose. The flap was now turned
down and both flap and wound were allowed to cicatrize.
III. When the flap had become dry he fitted the linen bandage
apparatus to retain the arm. Then the borders of the old nose were
freshened. Thereafter he cut a paper pattern as a model for the new
nose, upon which the margins and shape of the flap were cut. The
flap was finally sutured in place, and the apparatus was tightened to
prevent movement of the parts.
IV. After twenty days he cut the pedicle. The latter was then cut
into, to divide it in three parts, which he formed into the subseptum
and nasal wings, which were sutured in place, metal tubes being
employed to keep the nares open.
Dieffenbach Method.—This surgeon followed seven steps to
complete the operation, as follows:
I. The pattern of the new nose, cut one third larger, is fixed upon
the skin of the arm, with the basic pedicle just above the fold of the
elbow. Skin is now raised sufficiently to permit of its being incised,
the incisions being made laterally, as shown in the dark lines in Fig.
347.
This gives a triangular flap, the apex lying upon the biceps and
having two adherent pedicles at apex and base.
The base is now incised at one angle, transversely and again
vertically, as shown. This incision liberates the part of the flap
intended for one of the ala of the nose.
II. Diachylon plasters are placed under the flap to contract the arm
wound immediately the bleeding has been arrested. The free angle
of the base of the flap is now turned inward and under the attached
part of the flap, as in Fig. 348, so that its margin protrudes from the
other lateral incision, and its skin surface lying above the plaster. The
edges of the flap are now stitched together, and the flap is allowed to
lie cushionlike upon itself while the arm wound heals. This requires
about six weeks.
Fig. 347. Fig. 348. Fig. 349.
Dieffenbach Arm-flap Method.

III. The holding of the flap cushion in place by the use of splints of
leather held in place by three needles. The latter are moved about,
as the shape of the cushion becomes modeled, about every three
weeks. The process ends when cicatrization of the flap or the newly
formed nose has been accomplished, shown by firmness and
contour.
IV. The margins of the old nose are freshened; the lateral incisions
extend to the root of the nose, where they are united with an upward
convex incision. The skin is well raised, gutterlike, from the deeper
tissue, to assure of the best vascularity.
V. The upper or apex pedicle of the flap on the arm is cut (see Fig.
349), and the thickened roll of skin, or what may now be termed the
new nose, is turned down toward the elbow. It is divided along the
line where the two margins of skin had been sutured; in other words,
it is laid open longitudinally.
VI. The nose thus prepared is brought into place before the
freshened margins of the old nose and is sutured into place
beginning at the root before the sides are coapted.
VII. At the end of fifteen days the pedicle attaching the nose to the
arm is severed, the angle for the wing being cut slightly larger than
that of the other side, which by this time has, of course, undergone
full contraction. The subseptum is made out of the square projection
folded upon itself, raw surfaces facing, and is brought into place by
suturing it into an incision made in the lip at the required point.
Graefe Method.—This surgeon devotes six steps to his operation,
as follows:
I. The borders of the old nose are freshened.
II. Sutures are passed through the raised skin of the borders of the
old nose.
III. The flap is cut from the arm after a pattern made one fourth
larger than the new nose required, leaving it attached by the small
pedicle intended for the subseptum.
IV. The sutures where required are now passed through the flap,
having already been placed through the old nasal borders and left
untied. The forearm is drawn against the forehead and the arm is
fixed in place with the retention apparatus. The sutures are now tied.
They are allowed to remain in about four or five days, not long
enough to irritate.
V. About the tenth day the head apparatus is removed and the
pedicle of the arm flap is divided. The arm may now be carefully
lowered to its normal position.
VI. The subseptum is not formed from the free end of the attached
flap for several weeks. It is then divided by two parallel incisions
directed outward. The septal section is folded upon itself, and
inserted and sutured in place into an incision made into the upper lip.
Szymanowski Method.—This author advises making the base of
the flap sufficiently wide, and of the form shown in Fig. 350, to permit
of the three sections of skin of this part of the flap to be folded upon
themselves before being sutured in place at the base of the nose, so
as to form lined nares and a thickened and supportative subseptum.

Fig. 350.—Szymanowski Method.

Fabrizi Method.—This author utilized the immediate method of


flap fixation, but makes his flap of triangular form from the inner and
upper skin of the forearm.
The transverse base is made to lie one half inch below the radio-
ulnar space. The flap should be about three inches long and of about
the same width. It is cut while the forearm is relaxed; bleeding is
controlled by gentle pressure. In the meantime the cicatricial tissue
of the old nose margins has been removed and the skin freshened to
receive the flap.
To approximate the parts, the hand is laid palm down upon the
shoulder; the resultant position of the arm and forearm are retained
by bandages. The parts are now sutured. On the thirteenth day the
line of division is traced out upon the arm with nitrate of silver, at the
same time giving the flap somewhat the form required to give the
nose its contour.
The next day the pedicle is cut and the arm is brought back into its
normal position. With the division of the pedicle he advises including
a portion of the aponeurosis and a few fibers of the supinator longus
muscle.
The flap is allowed to remain free at its base until contraction and
cicatrization have been established, when the subseptum and wings
are made.
The position of the arm and the attached flap at the root of the
nose is shown in Fig. 351.
He advises, when possible, to dissect up a flap of the cartilage of
the old septum, letting it adhere at its lower border and turning it from
below upward with the skin which covers it to form the subseptum.
This will help to hold up the point of the nose firmly (an important
matter because it is at this point that all noses constructed of skin
flaps alone sink down for the want of suitable prop of tissue).
This cartilaginous flap he held in place with two pins thrust through
the latter and the skin flap proper, and held them in place with a
figure twist of silk. He removed the needles about the sixth day.
Fig. 351.—Fabrizi Method.

Steinthal Method.—This authority made the flap for the nose from
the skin over the sternum, proceeding as follows:
“From the sternum I cut a flap of skin and periosteum in the form
of a tongue whose lower base was five centimeters wide, and the
summit forming the pedicle three centimeters wide; its length was
twelve centimeters.
“I could have taken away with this flap some of the costal cartilage
to utilize in making the wings of the new nose.
“I dissected up this flap and closed the wound over the sternum
with sutures. The flap was then stitched to the forearm by its base
into an incision of appropriate length made near the radius. (See Fig.
352.) The arm was properly fastened in a plaster apparatus and the
flap enveloped in a dressing of borated vaselin. The forearm was
held in front of the breast, an attitude easily retained. Twelve days
later I cut the pedicle.
“I let a few days pass by, and then stitched the pedicle end of the
flap to the root of the nose. A new plaster apparatus was put in a
suitable position. The hand was placed on the forehead.
“Ten days after, I detached the flap from the arm and reformed the
nose with the flap, which hung down like an apron. It is necessary to
have a flap sufficiently long to fold in for the nostrils. I used bronze
aluminum wires for all the sutures.”
The position of the hand while the flap was healing to the root of
the old nose and the slight twist of the flap is shown in Fig. 353.
Fig. 352. Fig. 353.
Steinthal Method.

The Combined Flap Method


To overcome the consequent cicatricial contraction and falling in of
the flap used to make the new nose by either of the three grand
methods given, various surgeons have resorted to lining the flap with
skin flaps, bringing their raw surfaces together so that the nose
actually received in this way an integumentary lining.
While this had the tendency to thicken the new nose, it did not give
the support necessary to it, especially at the lower third, and the
lobule, at first quite satisfactory, resulted only in the appearance and
form of a small tubercule of tissue, with a decided saddle effect
above it. This combined method did overcome, however, the slow
process of cicatrization, and its accompanying suppuration.
The raw surfaces of the two flaps, if properly brought together,
healed upon themselves readily, as has been referred to in the lining
or doubling in of the basal sections to form the nostrils and
subseptum.
The method of lining the nasal flap in this manner is never
sufficient to give a satisfactory result in total rhinoplastic cases, but
may be of great service in restoring parts of the nose, as will be
shown later.
The requirement is that of support, whether it be organic or
inorganic, and these methods will be considered presently.
Volkmann Method.—This surgeon fashioned the frontal flap as
shown in Fig. 354. This resulted in leaving a triangle of skin at the
root of the nose, which he dissected up, down, to and inclusive of the
periosteum, and turned downward so that its raw surface faced
upward, as in Fig. 355. The flap was sutured into place to retain it.
The frontal flap was brought down, so that the two raw surfaces
came together.
This method overcame the contraction of the flap over the nasal
bridge or superior third of the new nose, and an excellent adhesion
of that part of the flap to the denuded bone and flap resulted, but the
same faults about the base were not mitigated.
Fig. 354. Fig. 355.
Volkmann Method.

Keegan Method.—The frontal flap method of Keegan has been


referred to. For the lining of the upper nose he cuts two flaps from
the skin above the old nasal orifice, as shown in Fig. 356, which he
turns down, raw surfaces out. This gave a lining to either side of the
median line; the skin remaining intact between the two flaps gave
additional prominence and support to the upper third of the new
nose.

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