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copyright © 2012 Fratelli Frilli Editori


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isbn 978-88-7563-757-6
Cristina Rava

Cappon Magro per il Commissario

Rebaudengo indaga nei carruggi di Albenga

Fratelli Frilli Editori


Capitolo uno: nel quale si scopre che in una casa
ligure vivono non una Svetlana, bensì due
Negli appartamenti del centro storico di Albenga c’è silenzio,
perché le pareti sono di pietra spessa ed il traffico corre fuori le
mura. Non si sentono le conversazioni dei vicini, suoni di radio e
televisori altrui, come nei condomini moderni.
In quella cucina, per esempio, c’era una gran quiete, la quale però
non inclinava a sentimenti sereni e pacifici, inquietava piuttosto,
proprio perché non si sentiva un suono, non si avvertiva un
movimento. Il sole non era ancora sorto, d’inverno fa fatica ad
emergere dal mare freddo, e senza la lampadina appesa al soffitto a
volta, ci sarebbe stato ancora buio. Due creature stavano in quella
cucina, una donna e una gatta, la prima seduta su una seggiola
impagliata, la seconda accoccolata accanto alla stufa a legna che si
stava riscaldando lentamente. Per uno strano caso del destino esse
si chiamavano tutte e due Svetlana, evento banale nel grande
impero di Russia, straordinario ad Albenga. La donna, di tanto in
tanto, tentava di precisare che il suo nome era Svitlana, con la i al
posto della e, all’uso ucraino, ma se ne dimenticavano sempre tutti.
La signora arrivava dall’Ucraina, appunto, e la gatta dalla Siberia, che
è territorio russo, ma non avevano compiuto insieme il viaggio
dall’oriente algido fino al mar ligure, diciamo che erano arrivate
ognuna per conto proprio, attraverso tortuosi itinerari, e lì s’erano
incontrate e amate. Svitlana chiacchierava con Svetlana un po’ in
ucraino e un po’ in russo e la micia, dolcissima e aristocratica, non si
perdeva una parola. Svitlana sapeva benissimo che l’animale non
capiva un accidente di quello che lei diceva, d’altronde non avrebbe
capito nemmeno se lei le avesse parlato in dialetto ligure o in
portoghese, che è quasi la stessa cosa. La gatta però sapeva
interpretare il tono della voce, la lentezza, le note morbide e quelle
severe, bassi e acuti, e su quelli regolava la sua attenzione verso la
signora, quando e se ne aveva voglia. Svitlana non era la padrona
della gatta, l’aveva già trovata nella casa ed era stato amore a prima
vista, ancora prima di sapere che l’animale vantava origini non tanto
diverse dalle sue.
Una capricciosa signora torinese l’aveva fatta arrivare da quelle
foreste remote con l’aeroplano, l’aveva chiamata Svetlana perché
faceva tanto ‘Russia’, e l’aveva regalata nella condizione di batuffolo
indifeso alla sua ancor più capricciosa figliola. Costei, dopo un
iniziale idillio, probabilmente non condiviso dalla creatura boreale,
orgogliosa e schiva, s’era presto stufata, specialmente dopo che
l’animale, in seguito ad una dieta errata, aveva rischiato di tirare le
cuoia. Una volta rimessosi dalla malattia, il giocattolo aveva
dimostrato di non essere duttile a tutti i ghiribizzi della bambina ed in
più d’una occasione le aveva affettato le rapaci manine. Insomma,
una vera e propria bestiaccia, anche se era costata una fortuna.
Così, durante le vacanze estive che i signori torinesi trascorrevano,
come molti loro concittadini, ad Albenga, l’esotico felino aveva
cambiato proprietaria: era stata rifilato all’anziana signora che
affittava loro l’appartamento. La vita della micia era migliorata
considerevolmente non soltanto per il vitto, ma soprattutto per la
gestione del riposo e del tempo libero, che sono due importantissime
occupazioni del vero gatto, oltre alla caccia che, si sa, in un
appartamento è difficile da praticare, bisogna sapersi accontentare di
ragni e prede immaginarie. Svetlana era ornata di pelliccia da lince,
proprio come la sua parente più grande aveva graziosi ciuffi dorati
sulle orecchie, vibrisse lunghe e mobilissime, un manto che l’avrebbe
resa invisibile nella taiga, zampotte e ventre candidi. Gli occhi erano
obliqui, d’un verde venato di grigio, e sembravano guardare sempre
qualcosa d’irraggiungibile, qualcosa d’invisibile agli umani.
L’anziana padrona di casa e la gatta s’ignoravano con molta
signorilità, dedicandosi a vicenda pochi momenti, mai troppo intimi,
talvolta alla sera davanti alla tv, soprattutto se c’erano documentari
sugli animali, specie volatili, verso i quali la piccola felina dimostrava
vivo interesse.
Poi era arrivata Svitlana Myhailivna Lysenko, e la vecchia signora
che non conosceva confini e tradizioni delle lingue slave, dal principio
l’aveva chiamata Svetlana, alla russa, senza farsi tanti problemi e
così le cose erano rimaste. Quando l’aveva assunta, nel sentire quel
nome, le era scappato un sorriso quasi riso.
“Non è la prima Svetlana che entra in questa casa, sa mia cara?”.
“Lei già avuto compagnia di persona che si chiama come me?”,
chiese con il suo accento dolcissimo la neo assunta, abituata alla
storpiatura del suo nome.
“No, è la prima volta che mi ritrovo in questa necessità…”, sospirò
l’anziana che rispondeva al nome altisonante di Ildebranda Matilde
Peluffo, d’antico e nobile lignaggio ingauno. “D’altronde venendo
vecchi, qualche acciacco arriva… Se si muore giovani non succede,
quindi meglio non lamentarsi… E con la mia schiena da sola non ce
la faccio più”.
Svitlana aspettava ancora la spiegazione di quella risata al
principio del loro incontro, le mani intrecciate sul manico della
borsetta consunta. Ildebranda ricordò all’improvviso e riprese:
“Ah sì, il mio riso di prima, la prego di non offendersi, non volevo
essere oltraggiosa. Aspetti che le chiamo la sua omonima, sì,
insomma, quella che si chiama come lei”, e voltandosi verso il lungo
corridoio tenebroso cominciò a far pss pss e versi di baci con la
bocca. Lei arrivò, dimenando la coda piumosa e socchiudendo gli
occhi. Si sedette, appoggiò la coda sulle zampe anteriori, che
sembravano due pon pon bianchi, e rimase in attesa.
“Lei si chiama Svetlana?”, domandò Svitlana con un tono stupito.
“Sì, me l’hanno affidata che già si chiamava così. Padroni cattivi
che non la volevano più. E io l’ho accolta volentieri. Non ti accorgi
nemmeno della sua presenza. Viene dalla Siberia”.
Questa volta gli occhi di Svitlana si fecero grandi come due pozze
blu.
“Siberia?”.
“Già mia cara, Siberia!”.
“E non c’erano gatti più vicini?”.
“Oh per quello ce ne saranno anche stati, ma questa è speciale,
non fa starnutire e la sua padroncina di prima era allergica ai gatti”.
“E perché l’ha data a lei?”.
“Semplice, s’era stufata”.
“Ah”.
“Eh sì: ah! Così è quasi un anno che viviamo insieme. A lei
piacciono i gatti?”.
“Oh davvero tanto, soprattutto quelli che vengono di Siberia, così
mi sento ancora un po’ a casa!”. risero insieme, il loro primo riso, di
tanti che sarebbero seguiti, perché il rapporto di lavoro tra Svitlana e
Ildebranda, che durò tre anni, si trasformò presto in una garbata
amicizia, fondata sul rispetto e la stima. L’anziana signora non fu mai
gelosa del fatto che Svetlana gatta avesse scelto la sua badante
come centro di gravità universale e la seguisse come un’ombra, ‘si
vede che tra loro si capiscono meglio’, aveva concluso.
In principio non fu facile, in genere niente all’inizio risulta facile,
anzi, è saggio diffidare di quelle situazioni che si rivelano subito
piane e lisce, in genere i guai arrivano dopo.
Il primo periodo di convivenza tra le tre signore, le due Svetlane e
Ildebranda potremmo definirlo un raffinato lavoro d’intelligence:
tutti, o meglio tutte spiavano tutte. Svitlana Myhailivna studiava la
sua datrice di lavoro per decifrarne il carattere e gli umori, i bisogni
ed i capricci, le sue solitudini di vecchia, le sue paure, in modo di
farla contenta e tenersi caro il lavoro. Ildebranda Peluffo studiava la
nuova venuta con mutevoli stati d’animo. C’era un po’ di diffidenza
verso la dipendente, dovuta alla sua condizione di straniera e a tutto
quello che sentiva dire ai telegiornali sulla gente che arrivava dall’est,
ma anche molta curiosità, perché la badante si dimostrava solerte e
gentile, ma molto schiva, quasi sfuggente. C’era anche una gran
voglia di fare amicizia, d’imparare cose nuove, di raccontare e di
ascoltare. Ildebranda, solitaria rampolla nubile di una famiglia di
possidenti albenganesi semi-nobili, era stata una pessima signorina
aristocratica e, malgrado i severi insegnamenti ricevuti nei collegi,
non aveva mai saputo mantenere le distanze con la servitù,
nemmeno quando, nel grande palazzo signorile, di domestici ne
giravano parecchi. Scherzava con le serve come se fossero state
compagne di giochi e quelle se ne approfittavano subito, lavorando
di meno, diceva sua madre, donna Armanda dal baffo vigoroso.
Anche adesso, che aveva quasi ottantadue anni, non aveva voglia di
fare la vecchia madama che comanda a bacchetta, e guarda
sfaccendata qualcuno che ubbidisce senza fiatare, non ci riusciva
proprio. Condiva i suoi ordini con una sfilza di ‘se non disturbo’,
oppure ‘quando le è possibile’, o ‘sarebbe così gentile da…’, che
Svitlana non capiva, ma non commentava nemmeno tra sé, avendo
imparato da molto tempo a non stupirsi di nulla. Quanto a studiarla
però, Ildebranda dietro la sua cortesia un po’ impacciata, la studiava
eccome, più con la curiosità dei poeti che non con l’occhio mercantile
del vero ligure.
Infine Svetlana la gatta studiava tutte e due. Sebbene la figura
della vecchia le fosse familiare, non l’aveva mai vista compiere strani
gesti, tipo percorrere il corridoio con passo felpato per spiare la
nuova venuta in cucina, oppure far finta di essersi appisolata davanti
alla televisione ed intanto seguirne ogni gesto, attraverso la fessura
invisibile di un solo occhio socchiuso. La giovane spiava l’anziana con
la delicatezza di chi ha sulle spalle una lunga esperienza, un’arte da
poliziotto vecchio stampo, e la vecchia, convinta di essere l’unica a
cimentarsi in attività spionistiche, non se ne accorgeva, ma la gatta
naturalmente sì, perché i gatti sanno le cose. A Svetlana pelosa
piacevano quelle novità, c’era più vita nello sconfinato appartamento
dai soffitti a vela troppo alti, affrescati da qualche rustico pittore del
seicento che aveva cercato, a modo suo, d’imitare Caravaggio. Con
la vecchia avevano convissuto per un anno trattandosi da
compassate signore, Ildebranda di tanto in tanto le faceva una
carezza e lei la ricambiava con un grazioso prrrruit, soprattutto
quando c’erano le scatolette con i bocconcini di granchio, ma non
avevano mai avuto veri e propri slanci amorosi. Certo, le era grata di
averla sottratta a quella piccola cannibale oligofrenica con la quale la
vita stava diventando impossibile, ma a parte la gratitudine, loro due
non eran femmine da grandi smancerie. Con quella nuova invece era
diverso, sentiva una specie di corrente elettrica che le passava dai
baffi e le arrivava in fondo alla coda piumosa, una strana sensazione.
Quindi era prudente continuare l’attività spionistica per comprendere
meglio.
E per un bel pezzo andarono avanti così. Le cose non cambiarono
di colpo, semmai si trasformarono pian piano in qualcos’altro, senza
mutamenti avvertibili. Ildebranda cominciò a pensare che la straniera
non le avrebbe tagliato la gola per portarle via i gioielli e poi, anche
se fosse successo, di qualcosa bisogna pur morire e lei aveva già
ottantadue anni e le era sempre piaciuto vivere pericolosamente.
Svitlana poteva dire di conoscere la vecchia molto meglio di quanto
la vecchia non sarebbe stata disposta ad ammettere e non aveva
ottenuto questo risultato per biechi fini, ma semplicemente allo
scopo di far bene il suo lavoro e di non essere cacciata. Il suo punto
debole era la cucina, ma sembrava che la vecchia deglutisse
qualsiasi cosa appena commestibile senza lamentele. Infine anche
Svetlana pelosa si accorse che il famoso brivido, il tremore elettrico
che dai baffi arrivava alla coda percorrendo tutte le sue piccole
candide vertebre, si stava trasformando in una sensazione
confortevole, per quanto inedita: si può essere amici di un essere
umano, anzi, possono esistere esseri umani assolutamente
straordinari che capiscono i gatti. Le cose si stavano mettendo bene
e andarono bene per tre anni.
Dopo questo tornare con la memoria ai tre anni appena trascorsi,
Svitlana si alzò dalla sua seggiola, s’inginocchiò davanti alla stufa,
aprì lo sportello e mise un pezzo di legna più grosso. La micia
sbadigliò, si inarcò con grande voluttà e la fissò con i suoi occhi color
delle selve. Fece un miao muto che, però, bastò alla donna per
ricordare che non le aveva ancora dato colazione. Andò in dispensa,
aprì una bustina di ‘succulenti bocconcini di anatra, riso e carote’, ne
rovesciò metà nella ciotola e ripose l’avanzo in frigo. Il suono delle
fusa sembrava prodotto da un motorino nascosto nell’animale ed il
corpo amplificava il rumore della sua felicità. Doveva aver avuto
proprio tanta fame, perché in un attimo s’era spazzolata tutto ed ora
si leccava baffi e zampe con grande soddisfazione. Con un balzo
silenzioso volò sul davanzale, s’insinuò tra tenda e vetro e si mise a
sbirciare i voli degli uccelli sopra i tetti antichi e le torri comunali.
Svitlana Myhailivna si sedette al tavolo, non aveva voglia di fare
colazione. Appoggiò i pugni sovrapposti, ci mise sopra la fronte e
stette così, per una parentesi senza tempo. Era la cosa più simile al
pianto che le riuscisse di fare. Da tanti anni aveva disimparato il
sapore delle lacrime. Da tanti anni non ricordava che singhiozzare
allevia il peso del dolore, non risolve, ma un poco scioglie, e dopo
sembra di avere un po’ più di coraggio. Stava lì, con la testa
appoggiata sui pugni, uno sull’altro, sul ripiano del tavolo, senza
sentire il freddo del marmo, conscia che quel momento si sarebbe
chiuso per sempre, che fuori dalla porta si sarebbero sentiti dei
passi, sarebbe suonato il campanello, tutto sarebbe finito e tutto
sarebbe cominciato.
Oltre il lungo corridoio scuro, tra arazzi e drappeggi, tra mensole e
specchiere, il silenzio. In fondo c’era una porta aperta, era da lì che
usciva il silenzio, un silenzio denso e freddo come certe matasse di
nebbia che rotolano nell’alba. Oltre c’era una stanza e nella stanza
un letto ed in quel letto giaceva composta Ildebranda Peluffo, con le
mani di vecchia ornate dai pizzetti della camicia da notte, posate sul
risvolto del lenzuolo, aveva gli occhi aperti ed era morta.
Chissà perché a Svitlana Myhailivna vennero in mente le tante
volte che erano andate in piazza delle Erbe a comprare le verdure e
tra un banchetto e l’altro la vecchia raccontava. Che arte aveva! Eran
soprattutto ricordi di un’Albenga che non esiste più o, forse, esiste
ancora ma non si vede più, erano storie di contadini, di rivalità e
miserie, di vendette o di successi, in cui Ildebranda mesceva
comicità e tragedia con una ricetta così fina da farle sembrare pagine
di un grande scrittore. Aveva un forte accento ligure ed intercalava
spesso il dialetto di Albenga, poi quando si accorgeva che gli occhi
della sua accompagnatrice diventavano sempre più smarriti,
rispiegava tutto in perfetto italiano. Le parlava della sua città di un
tempo, e cosa c’era qui e cosa c’era là, e qui è tutto cambiato, ma
forse è meglio adesso, qui invece no, qui era molto meglio una volta,
e le raccontava saghe famigliari legate a palazzi e carruggi e
ascoltandola sembrava che il tempo si fosse fermato. Facevano
passeggiate, fino al mare, pian pianino, fermandosi di tanto in tanto
a guardare una vetrina o uno scorcio di giardino in viale Martiri,
‘viale del Re si chiamava quand’ero giovane e adesso belle ville non
ce n’è quasi più, son tutti palazzi’, diceva la vecchia, ma senza grandi
malinconie. Un pomeriggio, mentre guardavano la mareggiata dal
Caffé Noir, bevendo un tè, Ildebranda aveva voluto sapere se il Mar
Nero si chiamava così perché era davvero nero. Dopo quella volta
aveva cominciato a far domande, dimostrando di non essere soltanto
una buona narratrice, ma anche un’ottima ascoltatrice. A quel tempo
si poteva già dire che la loro fosse un’amicizia, il rapporto di lavoro
era importante, ma lo era anche l’amicizia.
Svitlana faceva proprio tanta fatica a rispondere, non per
mancanza di fiducia verso la signora, ma per un’eredità di ricordi che
non si sarebbero mai estinti. Un po’ era il suo carattere, lei non
aveva mai amato confidarsi, e un po’ era un timore indistinto,
atavico, come se avesse potuto ascoltarla, per caso, la persona
sbagliata, qualcuno che in qualche modo non avrebbe capito, e che
forse, chissà, avrebbe potuto farle del male, magari in seguito,
usando i suoi stessi ricordi, i suoi stessi racconti. E non le bastava
guardarsi intorno e parlare sottovoce, cosa peraltro impossibile
perché Ildebranda era sorda e quindi pretendeva un bel tono di voce
chiaro e forte, perché comunque, anche se fosse riuscita ad
esprimersi attraverso bisbigli e sussurri, quella ‘persona sbagliata’
che passava per caso, avrebbe sentito lo stesso.
Le capitava di sospettare di essere matta con questa fissazione
che qualcuno potesse o volesse farle del male, ed in quei momenti il
pessimismo impregnava le sue giornate e si sentiva triste. Poi, per
lunghi periodi il senso di allarme così com’era arrivato se ne andava,
e lei si dimenticava di aver pensato di essere matta, però parlare di
sé continuava a costarle fatica. Restava comunque impossibile
dissuadere Ildebranda dal fermo proposito di conoscere la vita della
straniera. Così aveva fatto una cernita delle cose che poteva o voleva
raccontare e quelle che preferiva tacere: silenzio sul ricordo doloroso
di suo padre, quello ancora più cupo di Dido, nonno Konstantin,
niente della storia di Andrej, troppo male. Venivano meglio le cose
belle, come il suo grande amore per Evgenij e per Irina, la sua
‘bambina’, lei la chiamava ancora così, anche se aveva vent’anni e
studiava economia a Kiev. Ormai si poteva dire che con suo marito
Evgenij fossero semplicemente due amici, o forse sarebbe stato più
corretto definirli due compagni di navigazione: insieme, anche se
lontani, avevano remato e faticato per tenere a galla la barchetta
che portava il carico delle loro esistenze. Ci erano riusciti? In un
momento come quello era davvero difficile affermarlo.
Un pregio della vecchia Ildebranda era che, anche quando poneva
delle domande, riusciva a farlo con il tocco indolore di uno
psicoterapeuta, sempre con un sorriso senza giudizi, quasi come a
dire: ‘Figliola, non è la curiosità che mi spinge, alla fin fine i tuoi
segreti non saranno poi tanto diversi dai miei o da quelli di mille altre
donne a questo mondo: è solo il mio bisogno di sentirti un po’ più
vicina, anche se io sono vecchia e tu giovane, e magari, almeno tra
noi un po’ meno straniere’. Non lo aveva mai detto in modo diretto,
però lo si capiva e così Svieta aveva cominciato a raccontare, sempre
con la sua naturale timidezza, ma fidandosi un po’ di più, e l’isola dei
segreti s’era ristretta, come con l’alta marea. S’era anche accorta che
la paura dell’ascoltatore misterioso lentamente era sfumata e le rare
volte che tornava, era roba che passava presto.
La prima risposta era stata: “No, il mar Nero non è nero, certo è
diverso di questo e forse un po’ più nero lo è veramente…”.
Le venne voglia di alzarsi, non sapeva nemmeno lei perché.
Percorse tutto il corridoio con passi stentati, come se mani invisibili
le avessero stretto gli avambracci per tirarla dove non voleva e lei
non voleva, ma anche voleva, guardare ancora una volta quel viso
buono, quella vecchia che non rompeva mai le scatole, che le
andava sempre tutto bene, che da giovane doveva essere stata una
gran bagascia, come dicono i liguri e da vecchia la grande
intelligenza le aveva impedito di diventare una gran beghina, come
sempre accade. Ma proprio quando arrivò accanto al letto e le fece
una carezza lieve sulla mano che aveva la pelle fredda e molle come
quella del pollo, suonarono al citofono.
Capitolo due: in cui appare evidente che in tutte le
storie c’è il giorno prima
Non prendeva mai il carrello, preferiva lo scomodissimo cestino di
plastica rosso in cui, in genere, non ci stava mai tutto. Allora
rimpiangeva di non aver preso il carrello, ma era tardi. Quella
mattina, quando ancora stava posteggiando, s’era ripromesso di
comprare quattro sciocchezzuole. Aveva percorso pochi metri e già
gli erano venute in mente un sacco di cose indispensabili a cui prima
non aveva pensato. Così aveva trovato la soluzione al suo problema
afferrando un secondo cesto, e adesso, in attesa al banco del pesce,
con tutti e due i contenitori ancora vuoti, uno per braccio, si sentiva
scemo. Ma pensandoci bene era una condizione transitoria, quindi
poteva piantarla lì di martellarsi i coglioni con quelle idiozie da
insicuro cronico, che poi lui non lo era per niente. Teneva d’occhio lo
scorrere dei numeri man mano che i clienti venivano serviti ed
intanto osservava con uno sguardo che non aveva smesso di essere
critico, quel grande banco pieno di ghiaccio cosparso di creature
aliene. Lo scorfano, che a detta di Ardelia doveva essere l’apoteosi
della delizia nella zuppa, era un mostro ostile e minaccioso, anche da
morto. La ‘rana pescatrice’, che poi perché ‘rana’ visto che era un
pesce, nella coda ricordava vagamente lo squalo e davanti un pesce
gatto del giurassico. Sembrava il giusto soggetto per un quadro di
Hyeronimus Bosch. Ma ce n’erano altri, dei quali ignorava i nomi, che
somigliavano a tutto fuorché a roba da mangiare. E allora cosa ci
stava facendo il vicequestore Bartolomeo Rebaudengo davanti al
banco del pesce del supermercato Coop? Ci faceva che gli avevano
trovato il colesterolo alto, ecco cosa ci faceva, porca paletta! Perché
altrimenti col cavolo che lo avrebbero beccato lì! Si sarebbe limitato
a mangiare pesce durante le cene a casa di Ardelia, che certamente
lo cucinava meglio di lui, e non avrebbe dovuto incrementarne il
consumo. Il problema s’era posto quando il suo medico, sollecitato
segretamente dalla perfida dottoressa Spinola, gli aveva detto che
un colesterolo totale a 237 non andava mica tanto bene, forse si
poteva rimandare ancora di un po’ il trattamento farmacologico,
d’altronde quello buono, l’HDL, era a 65, i trigliceridi sotto i cento
purché… purché mangiasse pesce almeno quattro volte a settimana
e si dimenticasse salumi e formaggi, soprattutto formaggi e ci
andasse anche piano con le uova. Una tragedia! Naturalmente niente
fumo, raccomandazione che gli aveva ispirato un’espressione
virginale: ‘Il fumo è quella cosa che esce dai camini d’inverno?’ e
poco alcol, entrambi fattori di rischio di accidente cardiovascolare.
Insomma per tenerti sano il cuore con tutti i suoi tubi annessi e
connessi, dovevi fare una vita da monaco tibetano.
Dopo estenuanti ragionamenti in cerca di alternative, aveva
individuato tre vie: una verso la follia, una verso l’infarto e una da
povero cristo. Decise per la terza, che si potrebbe riassumere
all’incirca così: niente astinenza e niente lussuria. Che ci sia un
effimero incontro con il formaggio, un’esile fetta di bollito, scarsi
ravioli, un moderato gotto di vino buono, un’evanescente, quasi
invisibile sigarettina da fumarsi in segreto, con lo stesso spirito che si
aveva da ragazzi, quando ci si faceva le pippe chiusi in bagno con
dei giornaletti prestati da qualche amico più grande e audace; il tutto
alternato con pesce azzurro, insalate, stoccafisso un po’ scondito,
orrendi tentacoli di polpo lesso, lecitina di soia e omega tre. Sarebbe
bastato? Bastato a cosa? Magari a novantadue anni non sarebbe
arrivato, ma forse a ottanta sì, che poteva essere considerato un
buon successo, non trascurando il fatto che nel frattempo se la
sarebbe goduta un po’ di più!
Il casino ora era attenersi a ’sta maledizione del pesce, perché non
poteva mica mangiare in continuazione merluzzo bollito! Gli venne in
soccorso un nume tutelare di cui egli ignorava l’esistenza, ma che da
anni lo accompagnava nella sua vita complicata, e per l’occasione
aveva assunto le spoglie di un addetto al banco del pesce. Questa
brava persona lo aveva visto smarrito, le prime volte, con il suo
numeretto tra le dita e lo sguardo vacuo, incapace di comprendere
fino in fondo cosa stessero fissando i suoi occhi piemontesi. Così il
nume tutelare gli aveva rivolto poche domande, con cautela, giusto
per capire quale fosse il motivo che spingeva un essere riluttante a
contemplare del pesce morto. Lo sconosciuto guardava come se lì
davanti non ci fossero state vere prelibatezze ma scarafaggi, e
nonostante ciò un giorno sì e un giorno no era lì, con il suo
numeretto e l’aria afflitta. L’addetto al pesce, che si chiamava
Massimo ed era un po’ più giovane del cliente in difficoltà, capì che il
signore aveva due problemi: doveva cucinare da solo, era un single,
probabilmente di ritorno, come si suol dire, e di sicuro era
terrorizzato dalle spine. Di problemi forse ne aveva anche tre, e
l’ultimo, non meno grave, era l’accento: con un accento così la sua
esperienza ittica non doveva andare oltre la bagna cauda. Insomma,
si doveva partire da zero, ma Massimo amava le sfide, gli piacevano
le figure strampalate, quelle persone che percorrevano il mondo
fuori binario, seguendo itinerari personali. Tale predilezione s’era
acuita nel tempo, forse a causa del contatto forzoso imposto dal suo
lavoro, con una folla scialba e sciocca. Un giorno l’aveva accolto con
aria da cospiratore, come di chi avesse scoperto un grande segreto.
Aveva indagato un po’ nei tortuosi percorsi della memoria, perché
quel tizio gli aveva dato dall’inizio una persistente sensazione di déjà
vu e la certezza gli era arrivata fulminante, come un vaso di gerani
piovuto da un terrazzino del terzo piano: era il commissario
Rebaudengo, ecco chi era! E certo che aveva quell’accento e non era
capace di cucinare il pesce! Era di Cuneo o giù di lì, lo sapevano
tutti! Da quel giorno lo elesse a suo cliente preferito e quando non
c’era tanto affollamento ed era più facile indovinare chi fosse il
prossimo da servire, accelerava o rallentava i gesti nei limiti del buon
senso, sperando che il numeretto del commissario capitasse a lui.
Quando veniva a mancare la sincronia ed il suo eroe doveva
rivolgersi ad un collega, Massimo era convinto di scorgere nel suo
sguardo un po’ di smarrimento e forse era vero. Ciò che spingeva il
‘ragazzo’ non era di sicuro il servilismo, perché tra i suoi difetti, che
non erano pochi, potevano starci l’orgoglio e il mugugno, ma non
l’ipocrisia. Poi era curioso, come un gatto, gli sarebbe piaciuto fargli
delle domande, imparare aspetti poco noti del lavoro di poliziotto,
ma era consapevole che così, separati da un banco cosparso di pesci
morti, probabilmente non sarebbero andati oltre la forma della
conoscenza superficiale e della cortesia. E proprio la cortesia e la
timidezza gli avevano imposto di far finta d’ignorare l’identità del
solitario compratore di merluzzo, poi una mattina gli era scappato un
‘commissario’, mentre lo serviva. Bartolomeo aveva sollevato un
sopracciglio, segno di grande stupore, Massimo era arrossito e
avevano subito ripreso ad argomentare su come fare il nasello
bollito.
Quel giorno, il giorno precedente l’inizio della vicenda, il suo
sherpa marino gli stava elargendo consigli sulle varie opportunità di
preparazione della fetta di tonno, perché, per il momento, non lo
aveva spinto su percorsi troppo infidi, come triglie in guazzetto o
seppie ripiene. Nuotavano all’interno di un acquario semplificato, in
modo che il risultato finale fosse sì quello di mangiare del pesce, ma
avesse ancora l’aspetto e la lavorazione della bistecca.
“Se vuole ci può mettere una manciatina di capperi, sempre che
non le dia fastidio l’aspro, altrimenti può scegliere quelli di
Pantelleria, che ci sono anche sotto sale, ben risciacquati s’intende.
Come erbe ci sta bene un ciuffetto di prezzemolo, tritato fresco alla
fine, mentre a cuocere può aromatizzare con uno spicchio d’aglio.
L’unico accorgimento è di toglierlo dal fuoco che sia ben cotto ma
non troppo asciutto, perché altrimenti diventa stopposo. Un quarto
d’ora a esagerare. Tutto chiaro?”, domandò Massimo con due grandi
fette appoggiate sulla carta, pronte per essere sbattute sulla
bilancia. Bartolomeo osò un azzardo incredibile.
“Come ci starebbe un carciofo tagliato a fette fini che cuocia
rapidamente?”.
“Sa che non ci ho mai pensato… In linea di massima direi che non
dovrebbe star male, il dolce del carciofo, d’altronde si fanno anche le
seppie in umido con i carciofi. L’ha letto da qualche parte?”.
“No, mi è venuto in mente adesso, così, un’ispirazione
momentanea”.
“Sì, può essere un’idea interessante… Un accostamento forse un
po’ ardito, ma interessante…”, aggiunse Massimo sempre reggendo
l’involto ancora aperto, e poi riprese: “Basta così?”.
“No, ci metta ancora una fetta. Voglio invitare una persona…”.
Massimo sorrise comprensivo ma vagamente allarmato all’idea di
cos’avrebbe combinato quel cuoco con tonno e carciofi. Chissà se
quella sera, a casa, gli sarebbe venuto in mente il commissario con il
grembiule, intento a trafficare con spicchi d’aglio e prezzemolo per
preparare una cenetta ad una bella signora…
Si salutarono con un garbato cenno del capo e un arrivederci.
Prima di servire il cliente successivo, Massimo lo guardò allontanarsi
in direzione della verdura a caccia di carciofi. Era sicurissimo che si
sarebbe punto.
Aveva riempito i due canestri, si era ricordato tutto e non aveva
comprato cazzate come al solito. Il vino lo aveva preso rosso,
bisognava sfatare quest’obbligo morale del vino bianco con il pesce…
Adesso sarebbe passato da casa, avrebbe posato tutto in frigo e se
ne sarebbe andato tranquillamente a lavorare. Con la dottoressa
Spinola non c’era un accordo preciso, però era abbastanza scontato
che quella sera si sarebbero incontrati, non si vedevano dalla
domenica precedente, ed era già giovedì. La mamma di Ardelia stava
sempre peggio, anche se non lo sapeva: lei parlava con misteriosi
interlocutori invisibili e andava tutto bene fino a quando non
arrivavano quelli cattivi, allora litigava, certe volte piangeva, e non
c’era verso di tranquillizzarla. I farmaci dovevano essere rivisti molto
spesso, mirando meglio dosaggi e combinazioni ed era Ardelia che
insegnava alla badante sudamericana quali pastiglie, di che colore, a
che ora e poi le gocce. Nei giorni successivi alla revisione
farmacologica, la povera donna ricordava una vecchia auto dopo la
visita dal meccanico: recuperava un poco d’equilibrio, aumentavano i
momenti di lucidità e sembrava quasi che ci fosse un po’ di speranza.
Poi, pian pianino, la strada riprendeva pendenza e la velocità verso il
delirio aumentava.
Ardelia era spesso taciturna, di sua madre parlava poco e,
comprensibilmente il suo senso dell’umorismo aveva lasciato il posto
ad un sarcasmo non sempre divertente. Bartolomeo cercava di starle
vicino a modo suo e il suo modo era soprattutto silenzioso, fatto di
piccoli gesti e poche parole, perché proprio non era abituato a farsi
notare.
Nella sua vita più di una donna si era presa cura di lui, a
cominciare dalla madre, cura materiale beninteso, quella fatta di
preparazione dei pasti, pulizia e gestione del vestiario. Ma c’era un
altro modo di prendersi cura di qualcuno, almeno secondo lui ed era:
fare qualcosa fuori dell’ordinario, qualcosa di complicato o anche
semplice, ma di diverso dai ruoli e riti quotidiani dietro ai quali
ognuno di noi si protegge e qualche volta si barrica. Rompere le
regole della banalità e lanciarsi in un gesto superfluo e per questo
meraviglioso! Bene, proprio non riusciva a ricordare chi avesse fatto
questo per lui negli ultimi quarantotto, quasi quarantanove anni della
sua storia personale. Ciononostante aveva deciso di ribaltare le parti
e provarci lui, senz’aspettarsi troppo in cambio. Cucinare il pesce,
rischiando moltissimo, data la sua scarsa capacità, era un modo di
‘prendersi cura’ ardito e forse superfluo, tenendo conto del fatto che
la sua morosa avrebbe anche potuto, a causa dei suoi guai, non
accorgersi del suo slancio. Ma questo genere di cose non va fatto
mirando ad un premio garantito, altrimenti buonanotte alla
generosità.
Tale era il tenore dei suoi pensieri mentre, in tutta tranquillità
stava guidando verso Alassio, verso una giornata di lavoro che, al
momento, non si presentava densa di inquietudini. Sì, c’erano due o
tre faccende a mezzo che prima o poi loro sbirri avrebbero dovuto
chiudere con un bel colpo di ramazza, ma non avevano ancora
raggiunto la condizione dell’urgenza. Il mare era una lastra di
piombo talmente piatta da sembrar molata, semplicemente non
c’erano onde e guardando la battigia laggiù si vedevano delle brevi
mezzelune bianche di schiuma che scomparivano in fretta, senza
creare movimento. L’isola Gallinara, deserta, appariva nera contro il
fondale del cielo nuvoloso, appena poco più chiaro all’orizzonte, a
testimoniare il fatto che, lontanissimo, verso sud est, forse il sole
esisteva ancora. L’isola stava lì, immobile come un orso bruno
smarritosi nel mare, con la sua pelliccia di macchia mediterranea
aggrovigliata dal vento e bruciata dal sale. Il parabrezza si coprì
all’improvviso di goccioline d’acqua. Le montagne non si vedevano,
incappucciate di grigio: era nebbia che scendeva. Quel tempo gli
faceva venire sonno e l’idea di un pomeriggio in ufficio tra le
scartoffie gli sembrava un peso insostenibile. Ma tant’è, così stavano
le cose e a lavorare ci doveva pur andare.
Posteggiò la sua Fiat e s’incamminò verso l’ingresso del
commissariato. ‘Però’, pensò stringendosi il colletto della giacca a
vento intorno al collo, ‘per essere Liguria, che ci son le palme come a
Tripoli, fa fin freddo, o bastalà’.
La giornata, in una maniera o nell’altra, tra firme e telefonate non
sempre indispensabili, dalle quali non dipendeva comunque la
salvezza del genere umano, passò. Una delle ultime cose che gli
capitò di osservare, fu il ‘calendario’, lui lo chiamava così, dei pm
nelle settimane successive e con piacere scoprì che c’era di turno il
buon Ugo Bottini, un valtellinese orso benevolo. Bartolomeo era
l’unico che riusciva a chiacchierare con lui, evento raro, la cui origine
andava ricercata nella loro comune natura di uomini d’alta valle.
L’ultimo pensiero che ebbe, prima di spegnere la luce sulla scrivania,
fu umoristicamente noir: ‘Se ha da crepare qualcuno o succedere un
casino grosso, o santo protettore dei commissari, se esisti, fa che
succeda prima che finisca il turno di Bottini’. Mai una speranza fu
premiata così pesantemente.

La cena con Ardelia fu preceduta da una mezz’ora, anche tre


quarti d’ora, ad altissima tensione, altro che Fox Crime! Il thriller
scaturiva dalla preparazione del pasto. Tolse la pelle intorno alle
fettine di tonno per evitare che si arricciassero, tritò un minuscolo
scalogno, ci stava bene? Boh, magari uno chef sarebbe inorridito, ma
secondo lui sì, ci stava bene, si preparò un mezzo bicchiere di pigato,
l’aglio meglio lasciarlo intero, tutt’al più schiacciato, il prezzemolo lo
avrebbe messo fresco alla fine. Pulì, lavò e tagliò finemente i tre
carciofi pungendosi parecchie volte, e sistemò tutti gli ingredienti
come soldatini schierati, in modo da avere una visione strategica dei
passaggi che avrebbe dovuto affrontare, proprio come in una
trasmissione televisiva di cucina. Alla fine di un’operazione
complessa come quella di girare le fettine senza romperle, si sentì
potente e strinse il pugno in segno di vittoria, come un grande
tennista a Wimbledon. Questo rito fu interrotto dallo squillo del
telefono: era sua madre Ernestina, che chiamava per informarlo che
a Ceva era venuto giù quasi mezzo metro di neve, ma adesso era
salita la temperatura e ci stava piovendo sopra. La vecchia si
augurava che il termometro non precipitasse nuovamente, perché al
mattino si sarebbero ritrovati con una lastra di vetro e tante gambe
rotte. Bartolomeo la ascoltò con pazienza e quando lei gli pose la
domanda fatidica “Cosa mangi di buono stasera?”, lui rispose
laconico “Tonno”.
“Ma come, tonno? una scatoletta di tonno, così, fredda e basta?”.
“No, mamma, il tonno è un pesce a forma di pesce che sta in
mare e prima di finire pressato in una scatoletta di latta, viene bollito
e messo sott’olio. Se tu lo compri quando è ancora a forma di pesce,
cioè morto, crudo, sul banco della pescheria, lo puoi fare in tanti
modi”.
“…”.
“Non ci credi?”.
“Mah, non so, non l’ho mai né visto né mangiato!”.
“Ti assicuro, è buono!”, rispose Bartolomeo con calore, reggendo il
cordless con la spalla, intanto che stava lasciando consumare un po’
il brodetto che si era formato dall’acqua di vegetazione dei carciofi.
L’odore nell’aria era appetitoso, anche se sapeva indiscutibilmente di
pesciume, come diceva Ardelia, la quale dava alla parola una valenza
molto positiva.
“Adesso mamma, se non ti dispiace, sarei un po’ nei casini, magari
ci sentiamo domani…”.
“Dimmi solo: con la dottoressa tutto bene?”.
“Sì mamma, stai tranquilla, tutto a posto”.
“Allora me ne vado di là in poltrona a guardare NCIS, che mi piace
tanto quell’uomo…, sì, come si chiama, Ghibb, Getro Ghibb, anche se
non so come lo scrivono… Sai io ho già cenato, da vecchi si cena
presto…”. Sua madre guardava NCIS!? Decise di non interrogarla in
merito, aveva fretta e non era preparato ad ascoltare la risposta.
“Ma’, un bacio, a domani”.
“E senti, un’ultima cosa, il lavoro tutto bene?”.
“Sì, è un periodo tranquillo, non sta succedendo niente”.
“Meno male. Buonanotte!”.
“Buonanotte”, ed in quel momento suonarono alla porta. Era
Ardelia che si era dimenticata le chiavi di casa nell’altra borsa.
Furono abbracci e feste, si annusarono e si strinsero con un calore
improvviso che da un po’ di tempo mancava. Rebaudengo era
contento di quello stato di grazia, per quella sera si sarebbe ben
guardato dal domandare ‘come sta tua madre?’, argomento che
avrebbe fatto precipitare il tono dell’umore di tutti e due.
Il buon commissario, come amava etichettarsi, piuttosto che
vicequestore aggiunto, poco letterario, non ricordava una sera così
tranquilla e serena da parecchio tempo e voleva gustarsi quello stato
di grazia. Ardelia si commosse così tanto per quel suo sforzo
gastronomico immane – aveva creduto che lui avesse comprato due
pizze – che le scappò perfino una lacrimetta. Bartolomeo decise che
non era stata fatica o ansia sprecata: dall’altra parte il gesto era
stato interpretato nel verso giusto e la cosa fece bene a tutti e due,
nel corpo e nello spirito.
Quando, alle sette e venti del mattino successivo il cellulare di
Rebaudengo suonò diffondendo nell’aria un perentorio squillo da
telefono di bachelite nera stile anni quaranta, lui odiava le
musichette dementi che andavano tanto di moda, ricordò subito che
Ardelia dormiva al suo fianco e si affannò a spegnerlo per non
disturbarla, anche se ormai era ora di alzarsi. Ma Ardelia non
dormiva al suo fianco, era già in cucina a preparare orzo e cereali;
s’era portata la scorta nella cucina di Bartolomeo, perché lei trovava
buone le brodaglie salutiste con dentro i vegetali essiccati, che
galleggiavano come pezzetti di sughero e avevano lo stesso sapore.
Gli urlò: “Telefonoooo, ti g’hai u telefonin c’u sona!!! Vegne a
rispundeee!”, imitando la suoneria patriottica che aveva nel suo.
Era la Negri e la Negri che chiamava sul cellulare alle sette e venti
di mattino era un brutto segno. Di colpo si ricordò l’augurio del
giorno prima: ‘Se ha da crepare qualcuno...” e si pentì di averlo
pensato.
Era crepato qualcuno.
“Ma come è andata?”.
“Ma, guarda, mezz’ora fa mi ha telefonato mia madre che, santa
donna, ha ottant’anni ma è vispa come un furetto, il Signore me la
conservi, spiegandomi che è morta una sua vicina che era anche la
sua padrona di casa, nel centro storico di Albenga”.
“Come è morta? Tua madre l’ha vista?”.
“Sì, l’ha vista, l’ha vista. Be’, cosa vuoi, mia madre, povera donna,
dice che secondo lei è morta nel sonno… Però…”.
“Però, che cosa?”.
“Però stava con la badante, una straniera, sai, mia madre è
sospettosa, non per altro è mia madre”.
“E che cos’ha che non va la badante?”.
“Non lo so, probabilmente niente, a parte il fatto di essere
straniera e per di più dell’est. Sai mia madre ha sempre considerato
un azzardo aver sposato mio padre, lei di Leca e lui di Pieve di Teco,
un’altra provincia perfino! Non ti dico i sospetti verso mio marito che
è di Lerici!”.
“Ho capito. Ma a parte questo, ce l’ha con la badante per qualcosa
di preciso? La vecchia si era lamentata?”.
“Non che io sappia… Va be’, ma stiamo perdendo tempo a far
discorsi inutili: ti vengo a prendere tra dieci minuti, fai pipì e lavati i
denti. Ah, senti ancora una cosa, io direi che per adesso non sia il
caso di rompere le palle alla tua fidanzata, poi vedremo un po’ come
stanno le cose quando saremo arrivati là, giusto?”.
“Giusto. Io comunque un colpetto di telefono a Ugo glielo do, è di
turno lui in questi giorni. Senti, vedi di recuperarmi in fretta il medico
curante della signora, perché voglio trovarlo lì e sentire un po’ come
stavano le cose. Non volermene, ma magari tua madre legge un po’
troppi gialli e la povera vecchietta è morta nella notte perché aveva
qualche malattia che rende tutto spiegabile, solo che noi non lo
sappiamo ancora. ti pare?”.
“Guarda Rebaudengo che basta leggere il giornale per diventare
fantasiosi, non c’è bisogno di comprarsi dei gialli. Comunque sì,
m’incarico di reperire al più presto il suo medico curante, in modo
che le dia un’occhiata e che ci possa dare tutte le spiegazioni
necessarie”.
“Va bin, ti aspetto tra dieci minuti”.
“Fa’ un quarto d’ora”.
“Ok”.
Chiuse la comunicazione e prese aria per chiamare la morosa in
cucina, ma rimase così, con i polmoni ventilati perché lei era sulla
soglia della camera, in vestaglia, appoggiata allo stipite e stava
bevendo il suo orzo solubile, quelle robe da bambini e malati di
cuore.
“Non vorrei sembrarti esagerata, ma mi raccomando, se anche hai
solo un minimo dubbio, o il medico ti sembra un belinone, ricordati
che io non mi faccio nessun problema a darle un’occhiata, anche
dopo… Certo, in situ sarebbe meglio, ma non possiamo neanche
metterci a fare CSI e farci ridere dietro, magari la poverina era
ipertesa, o aveva una cardiopatia, il diabete, o semplicemente era
vecchia ed era arrivata al capolinea. Vado a prepararti un caffè e ti
faccio scaldare una merendina nel microonde, me le sono portate da
casa perché qui ci sono solo cose nocive”.
“Oh, brava, grazie! Una di quelle merende sanissime, senza uova,
senza burro, senza farina e senza zucchero, che sanno di gesso?”.
Lei lo guardò malissimo e sentenziò: “Ce l’hanno la farina, è di
kamut, il condimento è olio di girasole e dentro c’è la marmellata di
albicocche!”.
“Va bene grazie, allora fammene scaldare una... Non vedo l’ora”,
aggiunse in un borbottio, sognando un lenzuolo di focaccia del bar,
quella unta e bisunta. I Liguri hanno tanti, tantissimi difetti, ma la
focaccia, ah la focaccia se ne sbatte di tanti dolci piemontesi,
bisogna essere onesti e la verità va riconosciuta.

Il centro storico di Albenga ha una vita propria, che non c’entra


niente con tutto quel che di moderno lo circonda. Non importa che
dentro ci siano botteghe d’artigianato, banchetti di verdura e frutta
colorate o ristorantini per turisti, quello che prende al cuore è il
senso del tempo, un Tempo lento, profondo che tiene insieme la
pietra, che respira tra gli archi, che impone rispetto. Se ti fermi e ti
guardi intorno, le boutique e i ristorantini non li vedi più. vedi lo
scorrere delle stagioni, degli anni e gli anni diventano secoli,
generazioni sfilano e scompaiono, senza volto, ma con la loro storia
impressa proprio lì, nella pietra, negli archi, nel silenzio umido e
freddo di cantine millenarie, nei carruggi che sanno di gatto.
Qualcuno ha voluto conservare un piccolo pezzo di passato e non ha
eliminato quei vecchi anelli di ferro che stavano accanto alle porte, ai
quali si legavano asini, muli e cavalli quando si doveva entrare in una
casa o in una bottega. Su una parete, a metà tra due finestre
quadrate, magari anche graziose con i loro gerani, appare una bifora
o una trifora, con le colonnine lavorate a spirale. Ci sono porte di
case sovrastate da archi a sesto acuto, qualche volta si vede ancora
un’incisione rosicchiata dalle intemperie sull’ardesia sbiadita, e una
fila di lettere in un latino di confine racconta qualcosa: una storia che
nessuno ricorda, anzi, che nessuno sa, tanto meno chi ci abita ora,
spesso straniero, ma il segno resta, silenzioso e pieno di malia.
‘Albenga vecchia’ conserva la pianta romana, con un decumano ed
un cardo che s’incrociano proprio nel cuore del suo intrico di vicoli,
come vene sottili. La vita economica del cardo, che oggi porta il
nome di via Medaglie d’Oro, pulsa nel suo braccio rivolto a nord est,
verso la Porta molino. Altra aria si respira dalla parte opposta, verso
il fiume Centa, un’aria sonnacchiosa e pigra, anche più rari sono i
passanti.
In quella periferia lenta sorgeva il palazzo d’Ildebranda Matilde
Peluffo, un edificio signorile di seicento anni o giù di lì, senza
botteghe, solo una facciata color polvere. L’accesso era dato da un
portone di legno alto e massiccio, con un’ampia finestra a lato,
provvista d’inferriate cinquecentesche, che lasciava intravedere un
androne male illuminato e uno scalone consunto dai passi. La
stravagante nobildonna aveva abitato all’ultimo piano e forse dalle
sue finestre aveva goduto di un panorama poco diverso da quello
che si poteva contemplare dalla terrazza di Ardelia. Se quella notte
Bartolomeo avesse dormito dalla sua fidanzata, avrebbe impiegato
circa tre minuti per raggiungere palazzo Peluffo, così invece
dovettero sedersi sulla scomoda auto di servizio guidata
dall’ispettore Simonetta Negri. Dal mare avanzava una nuvolaglia
livida, mentre a occidente le Alpi Marittime morbide di neve, si
stagliavano sulla seta azzurra di un cielo gelido. La Negri posteggiò
in zona carico scarico merci sul Lungo Centa dopo aver messo il
contrassegno della polizia, con il forte presentimento che qualche
ausiliario del traffico o vigilino di fresca nomina, ci avrebbe piazzato
lo stesso una bella multa. Il furgone che avrebbe dovuto caricare il
corpo sarebbe arrivato solo più tardi. Mentre la Negri e Bartolomeo si
davano da fare a sbirciare i nomi sul citofono, sopraggiunse Martelli,
l’ispettore della scientifica, così, per sicurezza, con la sua valigetta
piena di carabattole tecnologiche. Il citofono era un piccolo
rettangolo, come una copertina di quaderno, di ottone brunito da
sole e pioggia. Per ultimo, dopo i cognomi degli inquilini scritti un po’
a brettiu, eccolo, in un corsivo elegante: ‘Ildebranda Peluffo’: prima il
nome e poi il cognome. Era una di quelle minuzie trascurate da tanti,
che fece provare a Bartolomeo un quieto apprezzamento verso la
defunta. Quante volte taceva il proprio fastidio, soprattutto con i suoi
uomini, per l’uso inverso di cognome e nome. La colpa o il merito di
questa sua mania, erano stati del suo professore di latino e greco
che, al di fuori degli elenchi sui registri, era severissimo sull’ordine
con cui andava apposta la propria firma, accusando di barbarie tutti
quelli che lo sbagliavano.
Sentiva la mancanza di Ardelia e del suo ‘cazzeggio preventivo’.
Così aveva definito il particolare stato d’animo che s’impadroniva di
lei prima della visita su una scena del crimine. Certo, dopo anni di
lavoro un medico legale, un anatomopatologo o anche un povero
becchino, sono capaci di sopportare odori e visioni che
stenderebbero un campione medio di popolazione… Eppure alla
morte non si fa mai l’abitudine, perché l’abitudine si accompagna alla
perdita della pietà, non soltanto verso il morto, ma anche verso se
stessi. Se da un lato è indispensabile proteggere il proprio equilibrio
mentale ed emotivo, insomma è inutile seppellirsi con il defunto,
dall’altro è inevitabile provare inquietudine ogni volta che si spinge
una porta o si cammina in un bosco dove si sa che s’incontrerà la
morte nei suoi aspetti più crudi e spaventosi. Allora cosa si fa? Si
cazzeggia, si privilegia il lato grottesco e comico del proprio lavoro,
con lo scopo d’ingannare l’attesa di quel che si vedrà. Ardelia in quei
casi appariva euforica come una ragazzina prima di un esame. Poi
basta, sulla scena del crimine o dell’incidente, diventava calma,
ritornava adulta, l’inquietudine le passava, sapeva cosa doveva fare
e lo faceva. Aveva confidato a Bartolomeo che da tanto tempo non
aveva più incubi, segno che i suoi meccanismi di difesa funzionavano
bene, ma per qualche anno, nell’attimo di spegnere la luce sul
comodino, s’erano accesi davanti ai suoi occhi gli orrori della
giornata.
Chissà perché si era risvegliato in lui il ricordo di quei racconti, non
tanto diversi dalle sue esperienze: lei non c’era, non solo, ma non
c’era nessun delitto. Quella era, con tutta probabilità, una morte
naturale, e tutto si sarebbe risolto con un bel funerale e una piccola
folla di parenti contenti o delusi dal testamento della vecchina, la
quale comunque era morta sola o, al massimo, in compagnia di una
donna estranea che non poteva certo averla amata.
“Andate e fate quel che dovete, poi telefonatemi a seconda di
quello che trovate”, questo era quello che aveva detto a Rebaudengo
Ugo Bottini, il magistrato.
Capitolo tre: nel quale accade che grandi
perturbamenti vengano annunciati da eventi minimi
Nessuno parlò, si sentì soltanto il ronzio e lo scatto dell’apriporta.
Ci voleva un braccio forzuto per spingere quella parete di legno alta
più di due metri e spessa un palmo. L’altra anta era fissata con un
lungo perno che s’infilava nel pavimento. I loro passi rimbombavano
sotto la luce fioca della lampadina che pendeva dal soffitto a volta, e
si vedevano le nuvolette del fiato. In quell’androne si respirava
antichità, unico tocco che riportava a epoche un poco più recenti
erano le cassette della posta appese ad una parete, anziane ma non
medioevali. Il pavimento era a scacchi bianchi e neri di marmo
alternato all’ardesia, ed una scala polverosa conduceva ai piani
superiori. A sinistra dello scalone c’era una balaustra anch’essa di
marmo, preceduta da una colonna antica. Erano abbastanza
tranquilli, perché non stavano per vedere qualcosa di violento, e
comunque dei veri sbirri sono abituati a tutto, eppure si sentivano
tristi, di una tristezza intensa, come umidità che trasudi da un muro.
Salirono le scale. L’ispettrice si guardava intorno, anche se
conosceva alcuni nomi accanto ai campanelli, li leggeva lo stesso,
forse per vedere se c’erano stati cambi d’inquilini. Gli appartamenti
erano tre per ogni piano. Tre per tre nove, il quarto piano doveva
essere tutto occupato dall’abitazione della vecchia, però non
ricordava d’essere più salita lassù da molto tempo. La signora
Ildebranda non aveva venduto nessun alloggio, pertanto lo stabile
era ancora tutto di sua proprietà e non era nemmeno l’unico che
possedesse in Albenga. Sarà stata capace di godersi la vita? La vita
ce la si gode soprattutto in gioventù e se l’ispettrice si sforzava di
andare indietro con la memoria, a prima che morisse suo padre e
ancora più indietro, a quand’era ragazzina, insomma ai primi tempi
in cui la sua famiglia era andata ad abitare lì, non riusciva a ricordare
la signora Peluffo diversamente che nel suo aspetto di vecchia. Poi
pensò che certamente era stata giovane, o di certo meno vecchia; il
punto è che ai giovani, i vecchi sembrano sempre più vecchi, anche
quando non lo sono ancora. Al terzo piano, la Negri entrò
nell’appartamento della madre, scomparve nel lungo corridoio senza
chiudersi la porta alle spalle e riapparve pochi secondi dopo.
Ripresero a salire per gli erti gradini e quando arrivarono al quarto
piano, tutti più o meno con il fiatone, non dovettero suonare il
campanello, perché la porta era aperta. Dietro a quella porta stava
una donna, con la tempia appoggiata allo stipite che si fece da parte
per farli entrare, il tutto senza dire una parola.
L’ispettore della scientifica entrò per primo, la Negri diede una
breve occhiata al suo capo, lui con un cenno la invitò a varcare la
soglia ed infine entrò a sua volta, ma quando passò accanto alla
figura femminile che aveva atteso il suo ingresso per chiudere la
porta, non poté non sollevare lo sguardo e fissarlo negli occhi di lei.
Fu sicuro che tutti i blu che aveva visto nella sua vita fossero stati
macchie sbiadite di un colore del quale aveva ignorato la profonda
essenza fino a quel momento. Gli occhi della sconosciuta erano blu,
‘il Blu’: non azzurri, grigi, verdazzurri, no erano blu; il blu delle
vetrate colorate delle cattedrali gotiche. Ed in quel blu c’era un
dolore infinito, un’inesprimibile stanchezza di vivere, una
rassegnazione amara che però lasciava affiorare un palpito di vitalità.
Non pensò di essere scemo ad aver immaginato tutte quelle
sensazioni con un semplice sguardo: fu sicuro di non essersi
sbagliato. Quello era il blu di una persona fuori del comune, in quale
direzione però non aveva idea.
Il collega della scientifica aveva già percorso il corridoio scuro fino
alla camera della defunta, dietro a lui Simonetta, poi Rebaudengo ed
infine la badante, giacché era presumibile si trattasse di lei, anche se
non si era ancora presentata e non aveva aperto bocca. Quel suo
silenzio non aveva dato un’impressione di ostilità, ma piuttosto di
discrezione, come se la donna avesse ritenuto scortese attirare
l’attenzione su di sé ed avesse preferito far scegliere a loro, i
poliziotti, il momento di cominciare con le domande.
Nella camera era tutto in ordine, quasi troppo; l’odore di morte
sembrava più immaginario che reale. Il medico curante non c’era
ancora.
“Negri, il medico arriva?”.
“Sì, mi ha detto che tempo una ventina di minuti sarebbe stato
qui, ma da quando l’ho chiamato sarà passata anche mezz’ora”.
“Si chiama?”.
“Dottor Ferrari, Ettore Ferrari, è a un passo dalla pensione ed è
stato il medico della signora per anni, quindi la conosce molto bene”.
“Che impressione ti ha fatto quando gli hai dato la notizia?”.
“Lì per lì non ha detto niente, mi ha ascoltato. Mi è sembrato
moderatamente dispiaciuto e appena un po’ sorpreso…”.
In quel momento si sentì il ronzio del citofono e dopo pochi minuti
il medico fece il suo ingresso nella stanza, ansando un po’. Era un
uomo che doveva aver passato da poco la sessantina, grassoccio e
dall’aria sussiegosa. Porse la mano ai funzionari di polizia, ignorando
la badante che scomparve, probabilmente in cucina, abituata a non
esistere. Bartolomeo fece un cenno del capo alla Negri che la seguì,
mentre sfoderava biro e taccuino.
Il dottore si avvicinò al letto, incurante dell’uomo della scientifica,
che si limitava ad osservare la scena, facendo qualche fotografia,
spostando pochi oggetti con i guanti di lattice, stando ben attento a
non toccare il letto o il cadavere.
Il medico cambiò gli occhiali, non si mise i guanti e osservò la sua
paziente, chinandosi su di lei. Le toccò una mano che era già rigida,
poi la posò e si mise ad osservare le medicine sul comodino ed un
bicchiere con un liquido opaco, lattiginoso, bevuto a metà o forse
riempito a metà. Si avvicinò al comò ed osservò altre due o tre
confezioni di farmaci. Tornò presso il letto e ispezionò le dita e le
unghie del cadavere con più attenzione, dopo aver tirato fuori una
lente dalla sua valigetta. Ruotò leggermente il tronco della donna e
verificò i segni d’ipostasi che apparivano sulle zone di pelle lasciate
scoperte dalla camicia da notte.
“Potrebbe trattarsi di un dosaggio errato di farmaci? Oppure
questo evento era prevedibile nel quadro clinico della sua paziente?”,
ruppe il silenzio Bartolomeo che si era via via sempre più irritato per
i gesti del medico, condotti con aria d’importanza e di contegnoso
riserbo, come se i presenti fossero stati degli esseri inferiori, incapaci
di afferrare il senso profondo delle sue manovre. Ferrari si riscosse
all’improvviso quando sentì la voce del commissario e lo guardò,
quasi stupito di vederselo lì, ma continuò a tacere, come se avesse
perso l’uso della lingua.
“Forse la mia domanda non è stata chiara: date le condizioni della
paziente, era se non prevedibile almeno possibile un evento come
questo, cioè una morte improvvisa non preannunciata da alcun
aggravamento, oppure si può ipotizzare un evento esterno, un
farmaco dimenticato oppure preso in eccesso? In poche parole: la
signora Peluffo soffriva di qualche patologia riconosciuta?”.
Il dottor Ferrari, comprendendo che davanti a lui c’era un essere
pensante, sebbene si trattasse solo di un poliziotto, giunse alla
conclusione non rapidissima che costui si aspettasse delle risposte.
Finalmente si sentì la sua voce.
“Aveva piccoli guasti, dovuti soprattutto all’età, ma nulla di più
drammatico o predominante sul resto”.
“In spiccioli?”, domandò Rebaudengo sempre più irritato da quel
modo di fare.
“Un’ernia iatale che le comportava un reflusso gastrico…”.
“Ho visto che la rete del letto dal lato della testa è appoggiata su
due tacche che danno una leggera pendenza verso i piedi ed ho
immaginato che lo scopo fosse impedire il reflusso. Poi sul comò c’è
uno sciroppo che conosco. Vada avanti, oltre al reflusso gastrico?”. Il
dottore lo guardò perplesso, faticando ad arrendersi all’intelligenza
dell’interlocutore.
“Poi c’era una leggera ipertensione, ben stabilizzata con l’uso di
betabloccanti, ma in un dosaggio moderato, glicemia alta anche se
non ancora diabete, niente aritmie, mai un TIA…”.
“Per TIA credo intenda ischemia cerebrale temporanea, vero?”,
adesso voleva fargli vedere che anche lui aveva studiato… Poi si
sentì scemo ad entrare in competizione con quel vecchio barbagianni
e piantò lì.
“Sì…”.
“Quindi in poche parole: una vecchia sana, giusto?”.
“Giusto… Però…”.
“Però anche una vecchia sana, per quanto sana, proprio perché è
vecchia può morire all’improvviso, anzi, tutti noi possiamo morire
all’improvviso, vero dottore?”.
“Sì…”.
“Ok. Ci pensa lei a stendere un certificato di morte o giudica sia
consigliabile l’intervento di un medico legale?”.
Sembrava che quel vecchio dottore non si fosse mai trovato ad
avere a che fare con la polizia, che la sua carriera professionale fosse
scorsa tranquilla, mai sfiorata da dubbi o brutture del mondo. Di
sofferenze e morte doveva averne visto anche lui, eppure niente era
riuscito a perturbare l’olimpo della sua superficialità. Era soltanto un
uomo ottuso, che era riuscito a vivere l’intera sua vita, come tanti
del resto, proteggendo se stesso e curando i suoi assistiti più per
necessità che per vocazione. Bartolomeo aveva deciso che non gli
piaceva, ma non poteva farci niente. Non vedeva l’ora che il tizio
scrivesse quel che doveva scrivere e portasse fuori di lì il suo bel
cappotto color cammello. La signora Ildebranda non s’era affannata
a cercarsi un medico della mutua serio e capace, probabilmente
perché nelle occasioni in cui aveva temuto per la propria salute si era
affidata a specialisti, ed il meschino le era andato giusto bene per
trascrivere ricette e richieste di esami. Di sicuro non era il solo a
questo mondo ad esser campato facendo lo scribacchino, attività
poco gloriosa, ma sicura per arrivare alla pensione.
“Mah… io non direi che serva un medico legale. La guardi, è solo
una vecchia morta di vecchiaia nel proprio letto, come tutti
vorremmo accadesse anche a noi, non le pare?”.
“A me non pare proprio niente, il medico è lei, se lei ritiene di
poter stendere un certificato di morte naturale, lo faccia, è il suo
dovere e noi non le chiederemo altro”.
Più che rispondere, brontolava contro quella figura antipatica ed
intanto si avvicinava al cadavere, attratto dalla curiosità di Martelli
che fotografava da vicino, molto vicino la faccia della vecchia.
“Cos’hai visto?”.
“Dottor Rebaudengo, io non sono un medico, ma impiccati ne ho
già visti parecchi, e anche qualche donna strangolata”.
Tutte le antenne invisibili di Bartolomeo si tirarono su perché
raramente Martelli si lanciava in esordi simili. Oltre all’allarme, provò
anche un senso di compiacimento che il suo uomo avesse notato
qualcosa che era sfuggito al dottore, il quale dal canto suo aveva
interrotto il gesto di estrarre blocco e penna dalla valigetta e s’era
voltato verso il letto e verso il poliziotto, ostentando un sopracciglio
scettico. Poi aveva guardato Rebaudengo, in attesa di un rimprovero
che non ci fu.
“E…?”, domandò Bartolomeo.
“E questi minuscoli puntini rossi presenti nell’occhio mi danno da
pensare. Aspetti un attimo… Dottor Ferrari, lo fa lei o lo faccio io di
scostare il labbro dalla gengiva e magari anche sollevare una
palpebra? se non ne ha voglia non c’è problema, sa, poi
bisognerebbe illuminare bene”, e ormai l’ironia era palese.
Il dottore, incerto sul da farsi, si voltò di nuovo verso Rebaudengo.
Adesso il dirigente avrebbe di sicuro rimproverato il suo sottoposto
per tanta superbia, invece lo sentì dire:
“Pensa di farcela?”.
“Ma che modi, certo che penso di farcela, sono un medico!”.
“Nessuno lo mette in dubbio… E poi è solo un controllo, non tema,
d’altronde il certificato di morte non aveva neppure cominciato a
scriverlo, giusto?”.
Il medico fece quel che doveva fare e rimase, come suo solito, in
silenzio.
“Allora?”.
“Certo che, mah, non saprei… Sì, sembrerebbero petecchie…”.
“Sia nell’occhio che sulla mucosa della bocca?”.
“Beh, sembrerebbe di sì…”.
“Lasciamo perdere”, concluse secco Bartolomeo intanto che faceva
il numero di cellulare di Ugo Bottini. Diede le spalle alla stanza e
parlottò per nemmeno un minuto. Subito dopo chiamò Ardelia. Poi si
rivolse al medico che stava chiudendo la sua cartella con una smorfia
seccata, con la bocca all’ingiù, alla maniera dei bambini. “Lei è vicino
alla pensione, dottor Ferrari e va bene così, la rispetto perché è
anziano, non per il suo modo di lavorare. Pensi soltanto questo, boia
faus: un dottorino giovane avrebbe anche potuto prenderci una
cantonata, ma non sarebbe dovuto succedere ad una persona della
sua esperienza, o no? E poi, lasciarsi sfuggire un dettaglio che,
invece, viene raccolto da un poliziotto: che figura! Arrivederci!”.
Dopo mezz’ora l’appartamento era pieno di gente, Simonetta Negri
era scesa un momento a casa di sua madre e Bartolomeo stava
interrogando la badante, perché il quadro era cambiato, e parecchio.
Lui non usava mai quadernetto e biro perché sapeva che al
momento opportuno tutto sarebbe stato verbalizzato. Quegli
interrogatori gli servivano per annusare l’avversario, per saggiarne la
forza, per sondarne lo sguardo, per osservare i gesti, la direzione
degli occhi, per insinuarsi tra le pause, tra i respiri, per valutarne la
logica. quasi quasi alla fine di tutto ciò, le risposte erano l’aspetto
meno importante, anche perché quelle domande sarebbero state
ripetute decine e decine di volte, da persone ed in luoghi diversi,
nonché rigorosamente registrate e trascritte.
A conversazione conclusa, almeno per il momento, si mise a
passeggiare lungo il corridoio, curiosando oltre le porte aperte che vi
si affacciavano: la stanza della badante, poi un bagno, una camera
degli ospiti, una stanza per il cucito, dove troneggiava una Singer
che sembrava un pezzo da museo e forse era lì solo per fare
arredamento in memoria dei tempi andati, un altro bagno, un
salotto... Ardelia, con il suo armamentario da frugamorti, era nella
camera della defunta e lui si sentiva incerto, inquieto, come
vagamente ubriaco. Ricordava ogni cosa che gli era stata riferita
dalla straniera, eppure la sensazione più forte che provava in quel
momento non riguardava lei o le sue risposte, quanto una specie di
mal di mare, anche se in vita sua non era stato in barca più di due o
tre volte. Quello che gli era stato appena raccontato intorno a quella
notte si poteva riassumere all’incirca in questi termini: la russa – era
russa? o ucraina? boh, prima della fine della storia lo avrebbe
sicuramente imparato – era andata a dormire nella sua camera,
accanto a quella della vecchia verso le undici, dopo aver dato da
mangiare l’ultimo spuntino alla gatta che si chiamava, per uno strano
caso Svetlana come la donna, aveva salutato la sua assistita, che
sembrava in buona salute e stava guardando la televisione sistemata
sul comò. Durante la notte non aveva sentito invocazioni d’aiuto o
lamenti e nemmeno rumori, loro dormivano con le porte aperte e le
due camere erano a pochi metri. Al mattino, lei si alzava sempre
presto, dopo aver indossato la vestaglia, aveva compiuto i pochi
passi che la separavano dalla camera della Peluffo, chiamandola e
s’era subito allarmata, perché la vecchia non le aveva risposto. La
televisione era spenta e, nella penombra, l’anziana donna le era
apparsa distesa, con le mani sul risvolto del lenzuolo, proprio come
l’avrebbero vista di lì a poco i poliziotti. Con il cuore stretto da un
brutto presentimento aveva acceso l’abatjour sul comodino e non
c’era stato bisogno di toccarla per capire come stavano le cose. Solo
più tardi aveva trovato il coraggio di farle una carezza, in quel
momento aveva pensato che sarebbe stato meglio scendere subito
dalla signora Negri, dopo essersi lavata la faccia e vestita.
Questo aveva raccontato Svitlana, che solo una volta aveva
debolmente corretto dalla forma russa in quella ucraina il suo nome
e poi aveva lasciato perdere. Con il commissario aveva raccontato
tutto minuziosamente, perfino il particolare del pasto della gatta che
aveva taciuto all’ispettrice, perché le aveva dato la sensazione,
chissà perché, che i gatti non le piacessero. E lei, la gatta, per tutta
la durata del loro colloquio, era rimasta immobile dietro alla tenda,
sul davanzale tiepido perché sotto c’era il termosifone. La badante
invece aveva di tanto in tanto inframmezzato le sue risposte con
semplici gesti, come aggiungere legna nella stufa o spazzare con la
mano briciole inesistenti dal ripiano del tavolo.
La sua voce era parsa a Bartolomeo quietamente triste, con la sua
parlata scivolosa, quelle ‘elle’ così diverse dalle nostre, che mai gli
erano sembrate tanto musicali, anche se i cambiamenti del mondo lo
avevano abituato a suoni venuti da lontano.
Il suo resoconto, sebbene dettagliato, faceva acqua da tutte le
parti, non soltanto perché c’erano punti oscuri, ma perché appariva
improbabile anche se non impossibile, che le cose fossero andate
come diceva Svitlana Lysenko, ecco come si chiamava di cognome, sì
Lysenko. Come poteva la signora Ildebranda essere passata a miglior
vita, ammesso che di là sia migliore, senza emettere un suono,
considerando inoltre che forse le avevano dato una spinta per
trasferirsi? Oppure ne aveva emessi eccome, ma la dolce Svitlana dal
sonno plumbeo non aveva sentito niente: possibile? O magari li
aveva sentiti benissimo e aveva lasciato che qualcuno facesse quello
sporco lavoro, se addirittura non era stata lei a compierlo? Perché
poi? Perché denunciare il fatto e farsi trovare lì, senza cercare di
eludere le conseguenze dell’evento? Era presto per tutte quelle
domande. la casa non era ancora stata perquisita, bisognava trovare
qualche parente che facesse luce sulle dinamiche famigliari,
inventariare i gioielli appartenuti alla signora, verificare la situazione
patrimoniale, i beneficiari di un eventuale testamento; insomma c’era
un lavoro immenso da eseguire che rendeva inutile per il momento
fare ipotesi acrobatiche. Già è così difficile ricostruire la sequenza
che porta ad un omicidio e al suo esecutore quando si conoscono
anche i minimi particolari di ogni storia, personaggio, protagonista o
semplice comparsa; quando non si sa ancora nulla è praticamente
impossibile.
La badante avrebbe dovuto trovarsi al più presto un domicilio,
perché quella casa andava posta sotto sigilli, la polizia ci avrebbe
girato per giorni, l’avrebbe smontata pezzo per pezzo per capire il
come, il quando, il perché e, alla fine, chi. Tutto sarebbe dipeso dal
verdetto di Ardelia, che non tardò ad arrivare. Si sentì la sua voce
provenire dalla parte opposta del corridoio, mentre faceva la
domanda: “Dov’è il dottor Rebaudengo?”, e da qualcuno arrivò la
risposta: “È andato di là”. Poi il rumore dei suoi passi, ovattato dalle
soprascarpe usa e getta che ormai avevano calzato tutti, anche se
con un po’ di ritardo.
S’incontrarono davanti alla cucina e Ardelia rimase accanto alla
soglia, da dove notò la sagoma della gatta sul davanzale, schermata
alla vista dalla tenda che la separava dall’ambiente circostante. Per
Ardelia nessuna tenda al mondo sarebbe riuscita a nascondere un
gatto, lo avrebbe individuato, se ci fosse stato, anche sulla superficie
lunare, perché il suo cervello era sintonizzato sulla frequenza ‘gatto’
anche nelle circostanze più impegnative: scattava all’istante una
specie di blackout di adorazione, ma anni di autodisciplina le
avevano insegnato a contenere il proprio slancio. Fece un respiro
profondo, si riscosse quasi subito e non disse niente. Salutò la
sconosciuta con un breve cenno del capo, poi guardò intensamente
Bartolomeo, ma quello non era uno sguardo d’intesa tra fidanzati,
soltanto un’occhiata tra collaboratori. Lui comprese e si
allontanarono di qualche passo.
“Per essere sicura al cento per cento della causa mortis devo
aprirla, guardarle gli alveoli, gli interstizi, ma già adesso posso
dartela al novanta… novantacinque, va’…”.
“Ma una diagnosi certa come la ottieni, in un caso come questo?”.
“A parte che coi morti si parla di accertamento della causa mortis,
più che di diagnosi, però rende lo stesso e si fa prima. Vedi, le
osservazioni che posso fare adesso hanno un valore indicativo, che
però è parecchio indicativo, perlomeno tra noi, poi per stendere un
papiro devo essere in possesso di altri elementi”.
“Per esempio?”.
“Nel soffocamento, che è diverso dallo strangolamento e dallo
strozzamento, come ben puoi immaginare, esistono però degli
elementi inattaccabili, delle alterazioni strutturali. L’aria che la vittima
ha inspirato prima che le venisse posto un ostacolo all’espirazione,
rimane intrappolata negli alveoli e rompe i setti, genera micro-
rotture, rimangono delle vere e proprie bolle intraparenchimali, poi si
manifestano micro-emorragie encefaliche per l’aumento della
pressione, infine i capillari si dilatano, si rompono e si verifica una
diapedesi…”.
“Una cosa?”.
“Diapedesi: in poche parole una fuoriuscita di sangue attraverso i
pori. Quindi, anche se ti mancano i segni distintivi dello
strangolamento, anche se il collo non presenta ecchimosi e lo ioide è
bello intero, tu sai che quel poverino è morto soffocato. Ci sono casi
in cui la bocca presenta segni di compressione, di sfregamento, o
anche di lacerazione delle labbra contro i denti, ma ho guardato, e
non è questo il caso. Adesso puoi capire che per scrivere ’sto fiume
di roba io la vecchietta devo aprirla e devo vedere il tutto con i miei
occhi”.
Stette un attimo pensosa come di chi si accorge di non aver finito
e aggiunse:
“Intendiamoci, c’è ancora la possibilità che sia stato accidentale,
un soffocamento interno, qualcosa che le ha ostruito la trachea, un
boccone, un sorso di bevanda. Però mi suona strano perché intorno
non ci sono tracce di cibo ed il bicchiere è ben sistemato sul
comodino, senza segni di sgocciolamento, cosa che capita se lo posi,
ammesso che tu ci riesca, con mano malferma mentre tossisci come
un pazzo. Stessa cosa se avesse avuto un laringospasmo o un
attacco d’asma violento e improvviso. Soffriva d’asma o di allergie?”.
“Il medico non ne ha parlato. No, non ha detto proprio niente in
proposito… Ma per saperlo basterà guardare tra le sue medicine”.
“Già fatto. Non c’è niente, né cortisone, teofillina o salbutamolo,
né altri farmaci, tipo antistaminici, per capirci. Mi viene anche in
mente che in una situazione simile, che ti sia andato qualcosa di
traverso o ti sia insorto un laringospasmo, sbatacchi per tirarti su nel
letto in cerca d’aria, ti agiti, sconvolgi le coperte, fai del casino
insomma. Lei invece è lì bella composta, sembra già pronta per la
bara, come se l’avessero messa in posa. Se vuoi la mia opinione, per
adesso del tutto ufficiosa e non certa al cento per cento… La vuoi?”.
“Certo che la voglio, perché me lo chiedi?”.
“Mah, fissi il vuoto che sembri un pesce S. Pietro sul banco di una
pescheria!”.
“Allora, me lo vuoi dire sì o no?”.
“Sì che te lo dico: secondo me è stata fatta secca, col belino che è
morta di morte naturale. Visto che, come ti ho già detto, non c’è
nessun segno di strangolamento o strozzamento, il mio buon senso
propenderebbe per un soffocamento esterno però, ripeto, devo
aprirla, devo assolutamente escludere l’evento accidentale o la causa
patologica. Se come immagino, ho ragione, dovremo cercare saliva e
cellule epiteliali eventualmente rimasti sull’oggetto utilizzato per
soffocarla. Avessero usato il suo cuscino potremmo trovarci tracce
della sua saliva o di suoi essudati precedenti, ma la traccia impressa
durante l’omicidio dovrebbe avere una conformazione abbastanza
coerente con la bocca, sai comunque c’è trauma, sfregamento… con
un po’ di fortuna si potrebbero rinvenire fibre di stoffa sui denti e
sulla mucosa delle labbra, e da quelle risalire al materiale che ha
impedito la respirazione. Tra parentesi non ha la dentiera, ma un
bell’impianto, fatto da uno bravo, ma questo non c’entra, era solo un
apprezzamento tecnico”.
“Propendi per la stoffa?”.
“Sì, e anche abbondante, tipo cuscino o asciugamano. Se la
pressione è distribuita su un’ampia superficie, d’accordo che ci metti
di più, ma non si verificano ecchimosi o ematomi, e lo scemo che lo
fa pensa che sia più facile farla passare per una morte naturale, che
ne so, nel sonno, per esempio”.
“Potrebbe riuscirci una donna?”.
Ardelia guardò verso il riquadro illuminato della cucina, poi guardò
di nuovo Bartolomeo e ci pensò ancora un attimo. Non voleva mai
dare risposte affrettate che potessero mettere in difficoltà qualcuno.
“Sì, teoricamente sì. Non è un’operazione breve e, anche se con il
passare dei minuti la resistenza diminuisce, per un po’ la vittima lotta
come una forsennata, pur tenendo conto dell’età avanzata. Non hai
idea di come si rivelino energici certi vecchietti quando se la vedono
brutta. A proposito di lotta: controllerò con la mia usuale pignoleria
sotto le unghie, per verificare che non ci siano tracce di pelle umana
o di altro materiale. Se fosse andata come penso, potrebbe essere
rimasto qualcosa… In questi casi, alla vittima viene istintivo graffiare
o piantare le unghie nelle mani dell’aggressore, anche se non serve
a salvarle la vita… Ma a noi, invece, può servire”.
“Però potrebbe non aver lottato se fosse stata stordita con un
farmaco, o no?”.
“Ah be’, certo… Ma stai tranquillo che farò i prelievi necessari per
gli esami tossicologici. Se era in overdose di sedativi o sonniferi o di
qualsiasi altra cosa, verrà fuori”.
“Perché ucciderla così, quando sarebbe bastato un sovradosaggio
delle sue medicine?”.
“Perché non tutti sanno gestire i farmaci. E se sbagli e la vittima
sopravvive? No, magari con il farmaco la rincoglionisci, ma il lavoro
lo fai alla vecchia maniera, sei più tranquillo: non credi?”.
“Non so cosa credere…”.
“Se è per questo nemmeno io… Ma pensi che la tipa lì, Kalinka
c’entri qualcosa?”.
“Non si chiama Kalinka…”.
“Ma cosa vuoi che ne sappia io, l’ha chiamata così Martelli, sai che
è un po’ abelinato… E poi, come ci risentiamo subito! Oh, non ti
piacerà mica? Perché sai, in questo caso ti ricordo che ho tanti, tanti,
tipi di bisturi diversi, per tanti tipi di tagli diversi o… di ablazioni. Ti
piace il termine semitecnico: ablazione di palle? Suona bene, neh,
come dite a Ceva?”.
Bartolomeo provò un brivido metallico e cercò di sorridere, poi
riprese il suo atteggiamento professionale.
“Al momento non conosco niente della vita della vittima né delle
persone che la circondavano. Devo imparare tutto di tutti. Forse,
allora, comincerò ad escludere qualcuno e a tirare dentro qualcun
altro, ma adesso è proprio presto”.
“Giusto”, girò sui tacchi con un movimento rigido da soldatino e se
ne tornò dalla sua vecchietta a sistemarla per il trasporto, senza
dimenticare di avvolgerle le mani in due sacchetti di plastica stretti
intorno ai polsi. Intanto gli uomini della scientifica stavano facendo il
loro lavoro. La posizione di ogni oggetto sulla scena del crimine
veniva fotografata prima che il cadavere venisse rimosso. Sarebbero
sorte poi mille domande sul perché il bicchiere fosse lì e non là, la
pantofola fosse girata in su e non in giù, su dove fossero finiti i
telecomandi o il telefonino, eccetera eccetera. E non era un lavoro
breve, non finiva in una volta, sarebbero tornati ancora per cercare
risposte, soprattutto quando il verdetto di Ardelia avesse sgombrato
il campo dalle ultime riserve sulla natura criminosa di quella morte.
La Negri fu incaricata di ‘far compagnia’ alla signora Lysenko
mentre raccoglieva i propri effetti personali dalla casa. Non doveva
portar via tutto, perché ogni cosa sarebbe stata controllata dalla
polizia, soltanto lo stretto indispensabile per i giorni successivi,
mentre si metteva in moto la macchina delle indagini e venivano
chiarite la sua versione dei fatti e la sua posizione relativamente alla
vicenda.
Simonetta Negri sembrava persa in riflessioni personali, mentre
osservava la badante che apriva e chiudeva le ante dell’armadio nella
sua piccola camera, ed in fondo lo era davvero. Rimuginava su sua
madre, la quale al momento godeva di ottima salute e non aveva
certo bisogno di un’assistenza costante. Per adesso lei e suo fratello
erano sufficienti, con le visite quotidiane, la spesa grossa del
supermercato, la presenza affettuosa quando c’era da andare a fare
qualche esame all’ospedale. ma per quanto sarebbe filato tutto
liscio? Prima o poi sarebbe arrivato il momento di una badante? Era
meglio augurarsi una morte improvvisa, dopo una giornata di buona
salute, o un declino lento ma una durata di vita maggiore? Non
sapeva rispondersi e taceva, senza perdersi un gesto della straniera,
che apriva e chiudeva cassetti e riempiva una modesta borsa e uno
zaino con un po’ di vestiario, della biancheria, prodotti per l’igiene e
tanti libri, qualcuno in italiano ed in inglese, la maggior parte in
cirillico, la Negri non avrebbe certo saputo dire se scritti in ucraino o
in russo. Donna strana la badante, silenziosa e composta, mesta
forse, certamente indecifrabile. Solo una volta alzò il capo, era china
a scegliere uno o due paia di scarpe, e Simonetta vide che aveva gli
occhi rossi e lucidi. Sarebbe anche stata commovente, se non fosse
stata l’unica persona presente sulla scena di un crimine e non avesse
dato una versione abbastanza nebulosa degli eventi. E poi Simonetta
era uno sbirro, ci voleva ben altro per commuoverla.
“La gatta?”, domandò Svitlana.
“La gatta, cosa?”, rispose l’ispettrice che non si ricordava della
siberiana.
“La gatta Svetlana”.
“Ma scusi, non è lei Svetlana?”.
“Sì, io sì, ma anche la gatta. Si chiamava così anche prima che
arrivava io. arriva di Siberia”.
“Ah… Vuol dire che c’è un gatto qui?”.
“Sì, solo che lei non vedeva perché è stata tutto tempo su
davanzale di cucina, dietro la tenda”.
“Ma di chi è?”.
“Era della signora Ilde, ma loro non stavano tanto insieme. Era
quasi come mia, la signora stava bene così”.
“Questa casa sarà sigillata dopo che saremo usciti e potrà entrare
solo la polizia, fino a quando lo deciderà il magistrato. Lei ci dovrà
consegnare tutte le chiavi in suo possesso, anche quelle della
signora e non gliele potremo restituire fino alla conclusione delle
indagini”. Proprio in quel momento dal corridoio giunse la voce del
giudice appena menzionato: Bottini era arrivato. Le fece piacere,
perché la sua presenza portava una nota di consolatorio buon senso
in quell’atmosfera cupa.
“Posso portare con me?”, domandò la Lysenko con una nota
commossa nella voce. Quel gatto doveva sicuramente rappresentare
qualcosa di molto forte per lei, solo che era difficile per il momento
indovinare cosa fosse.
“Se nessuno lo reclama nei prossimi giorni, credo che possa
tenerlo con lei. Adesso di sicuro sì, visto che non può lasciarlo qui da
solo”.
“Lasciare-la: è una signora”.
“Lei sa già dove andare?”.
“Da Tamara, mia cugina che lavora in un albergo, ma ha piccolo
appartamentino, con sua filia. Loro possono ospitare me”.
“Come fa ad esserne così sicura?”.
“Perché c’era accordo, se moriva mia padrona, intanto che
aspettavo di trovare un altro lavoro”.
“Può telefonare, lo faccia subito, così siamo tranquilli”.
“Ma ho già telefonato. Tamara è al lavoro, ma so dove sono le
chiavi”.
“Bene, così la portiamo noi. Cerchiamo il trasportino per la micia?”.
“Io so dov’è”.
“Bene. Comprenderà signora Lysenko, giusto? l’altra annuì “che
non potrà lasciare il suo nuovo domicilio senza avvertirci e dovrà
essere reperibile per eventuali comunicazioni. Ci sarà ancora molto
da parlare su questa brutta storia!”.
“Certo, lo so, so che con me non avete ancora cominciato...”, e lo
disse con una calma amara che turbò Simonetta. Russi... chissà che
idea hanno della polizia... La stranezza era che si capiva benissimo
che quella donna non stava giocando la carta della pena, non voleva
commuovere nessuno. Aveva qualcosa di onesto nei modi che
suonava quasi stonato, improbabile. Il fatto che una persona nella
situazione di possibile, se non presunta colpevolezza, non avesse
comportamenti artificiosi, poco spontanei, era strano: o era
bravissima a fingere o era pulita come acqua di fonte. Sicuramente
aveva una grande dignità che la sua miserabile condizione non
umiliava.
Ugo Bottini le fece poche domande con voce severa ma non
minacciosa, lei annuì parecchie volte e diede risposte brevi. Quando
il magistrato l’ebbe informata dell’obbligo di restare a disposizione, si
salutarono. L’ispettrice Negri l’avrebbe accompagnata presso la sua
nuova, temporanea, casa di nomade.
Per quel giorno, l’ultima cosa che di lei vide Bartolomeo fu la figura
appena un po’ curva per il peso del bagaglio, uno zaino sulle spalle,
una borsa scalcinata e, stretta nella mano destra con fermezza, la
maniglia del trasportino dove stava Svetlana, in viaggio verso un
futuro incerto. Quelle due Svetlane, spaventosamente sole lo
commossero e quando quella umana, prima di cominciare a
scendere le scale si voltò e gli sorrise in una maniera un po’
asimmetrica e triste, dovette distogliere lo sguardo per nascondere
la propria malinconia.
Subito dopo la badante, se ne andò anche Ilde, trasportata in una
barella, chiusa nel sacco mortuario. Bartolomeo e Ardelia rimasero
un istante vicini sul pianerottolo, lei non aveva più niente da fare
sulla scena del crimine, il suo lavoro sarebbe continuato altrove,
anche se l’autopsia sarebbe stata effettuata più tardi, a rigor mortis
concluso.
“Si chiama Svetlana, vero, la donna e non Kalinka?”, domandò la
dottoressa, seguendo i movimenti del primo poliziotto che reggeva la
barella e cominciava a scendere la scala.
“Anche la gatta si chiama Svetlana”.
Ardelia ebbe un piccolo sussulto di stupore e fissò il suo compagno
con occhi spalancati.
“Perché mi guardi così?”, chiese lui.
“Con tutte le slave che vivono da noi non è difficile incontrare
donne che si chiamino Svetlana, ma non avrei mai creduto
d’incontrare un’altra gatta che si chiamasse proprio così!”.
“Perché, tu hai conosciuto una gatta prima di questa con lo stesso
nome?”, adesso stupito era lui.
“Mio zio Paciugo aveva lavorato per l’Ansaldo in Unione Sovietica e
s’era portato giù una gatta. Credo che avesse scomodato la dirigenza
del comitato centrale per ottenere il permesso. L’aveva chiamata
proprio Svetlana. Uno dei motivi per cui ho tenuto tanti anni la
Volvo, era che su quell’auto, peraltro eccellente nonostante l’età, la
gatta ci aveva partorito e i micini, genovesi a metà, ci avevano
scorrazzato durante tutto lo svezzamento. Proprio vero che nella vita
si verificano strani casi… Be’, per me sta venendo tardi, ci vediamo
dopo. Ciao!”.
“Ciao Ardelia, mi faccio sentire in qualche modo”, e la baciò
sfiorandole appena la guancia, ma la sua testa era altrove.
Solo verso l’imbrunire di quella giornata troppo lunga, tornando ad
Alassio, rivide sul mare all’orizzonte un brivido blu che increspava la
superficie dell’acqua, di quello stesso ‘Blu’.
Capitolo quattro: in cui Rebaudengo conosce un
nuovo personaggio che risveglia il suo interesse
Sette e mezzo di mattina, tutti nell’ufficio di Rebaudengo. Ravera,
che era appena tornato da una settimana di ferie sulla neve, dove si
era dato allo sci di fondo, sedeva composto accanto a Simonetta,
mentre la Canepa trafficava con alcuni fogli che continuavano a
caderle, e Martelli guardava fuori dalle finestre sperando che
sorgesse il sole a smentire le previsioni che avevano dato tempo
coperto.
“Senti un po’, ma Bartolomeo ha deciso d’imitare Wallander, il
commissario svedese?”, domandò sottovoce la Negri a Ravera.
“Quale commissario svedese?”, chiese a sua volta Ravera che
leggeva solo bestseller americani.
“Mi dimentico sempre quanto sei ignorante, o magari m’illudo che
possa essere cambiato qualcosa. Kurt Wallander è un commissario
inventato da uno scrittore svedese, un certo Henning Mankell che a
te ovviamente non dirà niente”.
“Esatto”.
“Ok, esatto, ma io finisco lo stesso il mio ragionamento, va bene?”.
“Va bene”.
“Hai in mente la Svezia, quello stato luuungo, che insieme alla
Norvegia, forma la Scandinavia e si alluuunga all’ingiù?”.
“Certo che ho in mente la Svezia! Una volta, ai bei tempi, Alassio
era un paradiso, una riserva meravigliosa di creature che arrivavano
da lassù e che venivano a fare il bagnetto nelle nostre tiepide
acque!”.
“Ecco, bravo. Però esistono anche gli svedesi maschi, che ti dirò
tra parentesi, non sono malaccio nemmeno loro. Ebbene, Henning
Mankell è uno di questi e fa lo scrittore. Prima o poi ti accorgerai che
c’è un mondo di letteratura poliziesca anche di qua dell’Atlantico?”.
“Ok, a parte tutto questo, dove vuoi arrivare?”.
“Voglio arrivare a raccontarti che questo Wallander, che è un
ottimo sbirro, anche se devo precisare che è un po’ palloso e da
un’idea di depressione…”.
“Figata!”.
“Non fare lo stronzo, davvero, non è male!”.
“Va be’, finisci il concetto”.
“Wallander, insieme ad altri poliziotti con i cognomi che finiscono
tutti in -son, -sen o in -berg, al mattino arriva in commissariato: sai a
che ora?”.
“Alle otto?”.
“Eh sì, alle otto, col belino alle otto! Alle sei e mezzo! E sai a che
ora fanno il briefing, tutti riuniti come bravi soldatini?”.
“Alle sette!”.
“Esatto! Alle sette, massimo sette e mezzo del mattino! Secondo
me Rebaudengo l’ha letto e gli è piaciuta l’idea. Tu cosa dici? Ti
piace ’sta novità?”.
“Non particolarmente, soprattutto di ritorno dalle ferie, però non
credere: se gli Svedesi son strani, i piemontesi son mica tanto
meglio!”.
In quel momento Bartolomeo entrò nella stanza, salutò tutti con
un laconico ‘buongiorno’ e si sedette al suo posto. Sistemò le sue
scartoffie sul ripiano della scrivania e finalmente alzò gli occhi
facendo una panoramica su tutti i presenti in trepidante attesa.
Cominciò come se nella sua testa una mano invisibile avesse girato
un interruttore.
“In mattinata dovrebbero arrivare i referti dell’autopsia della
signora Ildebranda Matilde Peluffo, eseguita ieri pomeriggio dalla
dottoressa Spinola. Come tutti saprete, già dopo un sommario
esame della salma sono sorti dubbi sulla natura del decesso. All’inizio
non si è escluso l’evento naturale o accidentale, ma con il passare
delle ore sono cresciuti i sospetti che possa essersi trattato di un
crimine. Siamo in attesa dei risultati tossicologici, per accertare che
non ci sia una concausa farmacologica nella morte della donna. Che
sia deceduta perché è stata interrotta la respirazione è accertato. Ieri
ho parlato con la dottoressa ed anche se non abbiamo ancora la sua
relazione scritta, nelle vie respiratorie non è stata riscontrata
presenza di sostanze estranee che possano aver impedito la
ventilazione. Non risulta inoltre che la donna soffrisse di asma severa
o di allergie gravi al punto da scatenare uno shock anafilattico.
Insomma, al momento attuale possiamo parlare con ragionevole
sicurezza di soffocamento esterno, in poche parole le hanno messo
qualcosa davanti alla faccia che le ha occluso bocca e narici. Dalla
scientifica di Genova non dovrebbe tardare il risultato di una prima
perizia sugli oggetti più interessanti della camera, effettuata in
ordine di probabilità di utilizzo. La presenza di tracce di saliva e di
cellule epiteliali della mucosa labiale sul guanciale, che sarà il primo
ad essere esaminato, dovrà essere coerente con l’impronta della
bocca nel punto in cui è stata esercitata la pressione occlusiva.
Presumibilmente, una volta completata l’azione omicidiaria, il cuscino
le è stato posto nuovamente sotto il capo. La ricerca di queste
sostanze, saliva, muco e cellule sarà ripetuta anche su altri materiali,
per maggior sicurezza: il lenzuolo, la vestaglia della donna, gli
asciugamani. Dovranno inoltre comunicarci la natura dei minuscoli
frammenti di materiale rinvenuti dalla dottoressa Spinola sotto le
unghie: non è da escludere che possa trattarsi di scaglie di pelle
conciata e colorata di scuro, in poche parole: guanti. Verranno inoltre
ricercate tracce di liquidi corporei ed impronte sulla scena del
crimine, l’ipotesi che l’assassino indossasse i guanti, non esclude che
possa esserseli sfilati, anche solo per un momento. Per adesso sono
state evidenziate, naturalmente, quelle della defunta e della sua
badante Svetlana Mychailivna Lysenko, ucraina, in Italia dal ’96, a
posto con il permesso di soggiorno dal lontano ’97, alle dipendenze
della Peluffo da tre anni con regolare contratto. Poi ce ne sono molte
altre, alcune chiare, altre latenti, ma per ora non abbiamo nulla con
cui confrontarle, a parte un generico controllo all’AFIS. Dobbiamo
approfondire la conoscenza intorno alla persona della badante, la
quale ha offerto una spiegazione relativa alla notte della morte
piuttosto insoddisfacente. Non vanno poi trascurate le persone che
praticavano l’anziana a vario titolo: parentela, amicizia, lavoro. La
defunta era una donna più che benestante, ricca direi, che viveva
della rendita garantitale dal possesso di numerosi appartamenti e
negozi affittati. Poteva avere delle questioni in corso, delle liti per
motivi d’interesse. Ravera, tu ti occuperai del suo commercialista, del
suo legale, dell’amministratore del condominio, parlerai con i suoi
inquilini, sia quelli dello stabile, dove lei stessa risiedeva, sia degli
altri immobili.
Se l’omicidio non è stato compiuto da una persona già presente
all’interno, bensì da qualcuno entrato nell’appartamento durante la
notte, doveva trattarsi di figura conosciuta o comunque persuasiva,
perché possiamo escludere qualsiasi tentativo di scasso ai danni
della porta o della serratura. In poche parole o gli è stato aperto
dall’interno o aveva la chiave. La Lysenko, dandosi abbastanza la
zappa sui piedi, cosa che non capisco, esclude assolutamente la
prima ipotesi”.
“Cioè, l’ipotesi che qualcuno abbia aperto da dentro?”, domandò la
Canepa, mentre la Dominelli la guardava da sopra gli occhiali con lo
sguardo che si usa verso i deficienti.
“Esatto. Esclude di aver aperto a qualcuno durante la notte, ma
esclude anche che lo abbia fatto la vecchia. Primo: dice che tra loro
non c’erano segreti. Secondo: nell’ipotesi che possa aver aperto la
Peluffo muovendosi con estrema circospezione, lo avrebbe
comunque fatto in seguito al suono di un campanello, citofono o
telefono. la vecchia non riceveva mai messaggini e comunque anche
quelli, quando arrivano, fanno rumore, e lei se ne sarebbe accorta di
sicuro perché aveva imparato, assistendo gli anziani, a dormire con
un occhio e un orecchio aperto. Ha detto esattamente così. Poi ha
escluso anche che possa essere entrato qualcuno dotato di chiave,
perché di nuovo lo avrebbe sentito”.
“Quindi è come se dichiarasse di essere stata lei?”, domandò
Sciarra.
“Indirettamente… Senza fare scenate sostiene però con fermezza
la sua totale estraneità alla morte della sua datrice di lavoro”.
“Che stranezza… Sarebbe così semplice dire: può essere entrato
chiunque, io quando dormo non mi accorgo di niente!”, concluse
quasi tra sé Sciarra, massaggiandosi la radice del naso, dove gli
occhiali gli incidevano un profondo solco.
“Sì, è una stranezza, ma in questa storia le stranezze sono
parecchie. Andiamo avanti. Il primo passo sarà effettuare il controllo
ambientale dell’abitazione provvisoria della Lysenko e del suo
cellulare: il fatto che non siamo proprio bravissimi con l’ucraino sarà
risolto da un interprete della procura che ci salverà”.
S’interruppe, come per recuperare un pensiero che gli era sfuggito
e per un attimo regnò un silenzio assoluto, interrotto soltanto dalla
cartellina della Canepa che si fracassò ai piedi della sua seggiola,
seminando intorno un buon numero di fogli scarabocchiati con i suoi
appunti caotici. Bartolomeo non disse niente, ma la guardò con uno
sguardo affilato, nessuno respirò e lui riprese.
“Le intercettazioni ambientali saranno tutte registrate, quindi
avremo traduzioni abbastanza fresche, non appena l’interprete ne
prenderà visione. Per quel che riguarda la situazione famigliare della
defunta, al momento, Negri, attraverso la propria madre che abita
nello stabile della vittima, ha individuato una persona che faceva
visita all’anziana signora circa una volta alla settimana; un nipote,
figlio di un fratello. È stato presentato una volta alla madre
dell’ispettrice, durante una visita a casa della Peluffo. Abbiamo
controllato: si tratta di Guido Peluffo, proprietario di una grande
cartoleria a Novi Ligure, di anni cinquantasei, coniugato, con due
figlie. Tra un’oretta dovrebbe essere qui e di lui mi occuperò io, in
maniera che mi fornisca un quadro più chiaro possibile della famiglia.
Dominelli e Canepa, insieme al nostro Battaglia, dovrete costruire
un quadro aggiornato sulla presenza di donne ucraine nel nostro
territorio. Organizzatevi, Battaglia son anni che lavora con gli
stranieri, saprà lui come farvi muovere, e cercate di raccogliere più
informazioni possibili sulla Lysenko. Ricordate che all’inizio saranno
abbottonate se non direttamente ostili. Dovete far capire a queste
persone che non fate domande per metterle in difficoltà o per
incastrare la loro connazionale, ma soltanto per sapere come viveva,
quali fossero i suoi contatti e le sue amicizie. All’inizio vi sembrerà di
non fare un passo avanti, ma so che non vi demoralizzerete e
riuscirete ad imbastire un profilo discretamente attendibile di quella
che è stata la sua vita in Italia fino ad oggi. Quando ne trovate una
disposta a chiacchierare, non importa se si perde in cose che vi
sembreranno poco attinenti, lasciatela parlare senza interromperla,
al limite ogni tanto riportatela in argomento. dobbiamo sapere tutto,
se è incline al risparmio e manda tutto di là, se ha lasciato affetti in
patria, se ha una vita sessuale, se è di buon carattere o una
musona, in che rapporti è con la cugina Tamara o come diavolo si
chiama, mi va bene sapere anche se le piacciono gli spaghetti o se
quando può si cucina il bortscˇh”.
“Il cosa?”, domandò la Canepa interpretando con il suo strillo lo
stupore di tutti.
“Il bortscˇh è una specie di spezzatino, un piatto misto di verdure
e carni, praticamente, il piatto nazionale ucraino”.
“E lei come diavolo fa a saperlo?”, chiese ancora la bionda Paola.
“Perché questa notte ho fatto un giro in internet e mi sono
documentato. Comunque, a parte la gastronomia ucraina,
raccogliete tutto quello che potete. Battaglia, pensaci tu”.
Tacque un po’, guardando fuori la luce dei lampioni. Non si erano
ancora spenti perché una lapide di nuvoloni copriva il mondo,
almeno quello di Alassio e se anche in qualche altro posto il sole era
sorto, da lì non era dato saperlo. C’era, sospeso nell’aria, quel livore
crepuscolare che precede l’alba, una fredda alba umida, che sarebbe
piaciuta tanto a Cesare Pavese, e quindi piaceva anche a
Bartolomeo, perché gli ricordava la Langa. Con un colpo secco e
soddisfatto richiuse la cartella dove si era scritto tutto il suo
programmino.
“Ci sono domande?”.
Martelli sembrò riprendere conoscenza dopo uno stand by
abbastanza prolungato e domandò:
“Tra quanto conosceremo la movimentazione telefonica della
vecchietta, sia dal cellulare che dal fisso?”.
“Ci vorrà qualche giorno…”, ma Martelli aveva ancora una
domanda.
“Oltre a quel che ci ha appena detto, la dottoressa Miroglio le ha
già fatto sapere qualcosa sui tempi? Noi ieri mattina quando siamo
arrivati alla Scientifica a Genova, non l’abbiamo incontrata perché in
quel momento era dal questore. Abbiamo consegnato i materiali, ma
non abbiamo aspettato che rientrasse in sede, anche perché la cosa
stava andando per le lunghe”.
“Sì, l’ho sentita nel pomeriggio: ha dato priorità assoluta. Per quel
che riguarda il guanciale, stanno lavorando all’estrazione del dna,
perché naturalmente lì sopra materia organica ce n’era e non solo
sul cuscino, sono dietro anche agli altri campioni. Non li manda
nemmeno a Roma per motivi di tempo, fa fare tutto al Galliera.
Abbiamo da aspettare soltanto i tempi tecnici del laboratorio. Non
sarebbe la prassi, ma sapete che è una persona accurata e ha preso
a cuore la faccenda. Appena avrà i risultati ce li manderà. Per inciso,
ho saputo che Germanà è in settimana bianca e purtroppo non
potremo avvalerci della sua collaborazione, ma cercheremo di
cavarcela”. Tutti avevano compreso l’ironia, ma si guardarono bene
dall’ammiccare o dal sorridere: nessuno poteva soffrire Germanà, il
capo della mobile di Savona, nemmeno il vicequestore Rebaudengo,
solo che il buon senso sconsigliava i festeggiamenti. Prese la parola
Battaglia.
“Io conosco parecchie donne di nazionalità ucraina pressappoco
dell’età della Lysenko, sono persone in Italia da anni. Comincerò
subito a contattarle e le posso convocare nel mio ufficio. Faccio da
solo o le fa piacere essere presente?”.
“Fai da solo, mi chiami appena esce qualcosa di utile”.
Ravera alzò un ditino e chiese la parola.
“Su di là io ho un canale confidenziale molto affidabile per sapere
vita, morte e miracoli del nipote della vittima. Ci penso io?”.
“Benissimo. Qualunque cosa tu venga a sapere che possa risultare
minimamente utile, comunicacela”.
“Perfetto!”.
“Altre domande?”. Trascorse giusto quella manciata di secondi
sufficiente ai presenti per capire che per il momento nessuno aveva
dubbi sulla propria parte.
Si cominciava. Aveva il presentimento, ormai consolidato
dall’esperienza, che sarebbe stata una cosa lunga.
Quando tutti se ne furono andati, dopo averlo salutato,
Rebaudengo si sollevò dalla seggiola, ancora curvo sulla scrivania,
raccolse i suoi fogli in una cartellina e solo allora, alzando lo sguardo,
si accorse che la Canepa aveva aspettato in silenzio accanto alla
porta che non ci fosse più nessuno. Di sicuro voleva domandargli
qualcosa e aveva paura di sembrare stupida a farlo in mezzo agli
altri.
“Dimmi, Canepa, cosa ti turba?”.
“Mah, non lo so nemmeno io…”, cominciò avanzando di un passo
nella stanza, tenendosi il suo quadernone stretto al petto.
“Allora?”, fece lui ed il tono gli uscì un po’ troppo secco. Doveva
combattere ogni volta una tentazione di tenerezza poco utile.
“Non ho ben capito cosa dobbiamo chiedere”.
“Consultati con la Dominelli”.
“E questa è l’altra parte del problema… È che io con la
Dominelli…”.
“Senti, Canepa, io di queste storie non ne voglio sentire. Non sarà
né la prima né l’ultima volta che lavori con qualcuno che non ti
piace. Devi imparare a farlo lo stesso, non deve andarci di mezzo il
lavoro, perché quello viene prima delle vostre beghe tra donne,
chiaro? Impara a difendere il tuo spazio, le tue idee e sii pronta a
riconoscere quelle buone dell’altro. La Dominelli non è una stupida,
lo ha già dimostrato; inoltre siete giovani e nel trattare con delle
straniere, date meno fastidio dei colleghi maschi, proprio perché
sembrate due ragazzine. Imparate a sfruttare il vantaggio e cercate
di raccogliere più elementi possibili. Se avete dei dubbi, parlatene
con Battaglia: son anni che sa rapportarsi con ucraini, russi, arabi,
equadoriani, forse anche con eschimesi e indigeni dell’isola di
Pasqua!”.
Anche lei se ne andò con i suoi compiti da svolgere. A nessuno era
venuto in mente che quel giorno era un sabato, e quindi quello
successivo sarebbe stato domenica. Erano entrati in una galleria
male illuminata, di cui non si vedeva l’uscita dall’altra parte, dava più
l’idea di una miniera che di una galleria… L’impegno era trovare la
vena preziosa a suon di picconate ed era un lavoro che si poteva
fare anche di domenica.
Non concluse questa riflessione perché gli fu annunciato l’arrivo
del signor Guido Peluffo, nipote della vittima. Cominciavano le danze.
Decise di farlo aspettare un attimo, andò in bagno a far pipì e
mandò Ravera di sotto a prendergli un caffè alla macchinetta. Non
voleva farsi vedere dal mandrogno con un bicchieretto di carta in
mano, intento a soffiare per non bruciarsi le papille. preferiva
incontrarlo nella posizione di vantaggio, esiguo peraltro, offerta
dall’essere seduto dietro ad una scrivania. Mescolò con tranquillità le
due bustine di zucchero che davano al suo caffè una consistenza
sciropposa e lo sorseggiò guardando la via Aurelia. Pensava ad un
itinerario di domande da porre al tizio, anche se aveva imparato a
non seguire un copione rigido, perché amava lasciarsi guidare dalle
sensazioni che nascono sempre davanti ad uno sconosciuto. Pensava
anche a qualcos’altro, e provò una specie di crampo, una strizzatina
alle budella... non doveva pensarci, oh, e basta! Si sedette al suo
posto.
“Dottor Rebaudengo?”, la voce era quella di Battaglia che aveva
accompagnato il nipote della defunta al piano di sopra e lo riportò
all’attimo presente, “è arrivato il signor Peluffo”, poi senz’attendere
una risposta, si allontanò lungo il corridoio per tornarsene nel suo
ufficio al piano sottostante.
“Permesso?”, voce piacevole, tono cordiale, fin troppo disinvolto.
Dalla sua posizione Bartolomeo non riusciva ancora vedere il nuovo
arrivato e dovette allungarsi per scorgerlo nel riquadro della porta.
“Avanti, avanti, entri pure, si accomodi” e lo osservò mentre
avanzava un po’ nella stanza. Il commissario gli indicò la seggiola
davanti a lui e con la mano lo invitò a sedersi. Guido Peluffo non
pensò di dovergliela stringere e si limitò a sedersi, tenendo
saldamente tra le dita la tesa di un bel Borsalino di feltro grigio
scuro, vezzo comprensibile per uno che arrivava dalle parti di
Alessandria. Cercò d’immaginare la fisionomia del tizio con il cappello
calcato sulla testa, ma non ci riuscì e decise di lasciar perdere. I
convenevoli furono brevi, l’uomo aveva un viso aperto, piacevole
anche se una bella dieta non gli avrebbe fatto male. Stava seduto
sulla punta della seggiola come accade a molti, che non riescono a
dissimulare del tutto il loro disagio quando si trovano davanti ad uno
sbirro. Teneva soprabito e cappello sulle ginocchia, poi pensò che
non sarebbe sembrato maleducato posare tutto sull’altra sedia di
fianco e lo fece, sistemando le cose in ordine. Alla domanda sulla
frequenza delle sue visite alla zia, cominciò la sua storia: non era
davvero un tipo al quale cavar le parole di bocca con le tenaglie.
“Eh, guardi, ormai son anni che vengo a trovare, o meglio, venivo
a trovare la zia una volta alla settimana. In passato mi
accompagnava mia moglie e quando le bambine erano piccole, ci
fermavamo qualche giorno, soprattutto durante l’estate, ospiti di zia
Ilde, a fare un po’ di bagni”.
“Poi avete smesso?”.
“Cosa vuole, le mie figlie hanno una vent’anni e l’altra diciassette:
al mare vanno con i loro amici”.
“E sua moglie non l’accompagna più nemmeno lei?”.
“Se devo essere sincero…”.
“È meglio che lo sia, glielo assicuro!”, l’interruppe Bartolomeo con
un bel sorriso.
“Certo, certo, è evidente che devo essere sincero. Non è che le
due, mia moglie e mia zia, si piacessero poi tanto, sa? Mia moglie è
molto religiosa, una santa donna… Anch’io se è per questo frequento
la parrocchia e mi raccolgo in preghiera, ma lei è più devota di me,
un’anima candida… Insomma, sembrava che la zia lo facesse
apposta, sì, si divertiva proprio a provocarla!”.
“In che modo? Era forse atea ed entravano in polemica?”.
“No, non in tal senso. La zia di religione non parlava mai, credo
che le interessasse poco. No, piuttosto, si divertiva a scandalizzarla
con riferimenti ai suoi divertimenti e alle sue avventure di un tempo”.
“E cos’avrà mai combinato?”.
“Non creda, è stata quasi un’avventuriera… Amanti, viaggi, feste…
Certamente non conduceva una vita misurata, e tutto ciò ha finito
poi con il costarle caro: nessuno ha voluto sposarla, è rimasta zitella.
Ma non era per niente pentita di come si era svolta la sua esistenza.
Comunque, per farla breve, io non ho interrotto le visite, povera
donna, aveva solo me come parente prossimo e ho lasciato mia
moglie tranquilla a casa, in modo da non sentire le sue lamentele per
tutto il viaggio di ritorno”.
“Capisco. Dunque non ha altri parenti?”.
“Più lontani certamente. Le spiego: erano in tre, Ildebranda, mio
padre Agostino ed un’altra sorella la quale, un po’ inspiegabilmente,
a nemmeno vent’anni, era il primo anno della guerra, si è fatta
suora. Era la più vecchia, si chiamava Eufemia e se devo essere
sincero non credo di aver nemmeno mai visto una sua fotografia. Io
ho una sorella più giovane, Benedetta, che vive in Australia da
venticinque anni, e non saprei dirle se si sia mai ricordata di avere
una vecchia zia, sorella del papà. Anche con me i rapporti sono
sempre stati molto blandi”.
“Bene, fin qui ci siamo arrivati; come mai lei da Albenga è finito
nell’alessandrino?”.
“L’amore, signor commissario, l’amore. Ci siamo conosciuti più di
trent’anni fa, cosa dico, quasi trentacinque, durante un ritiro
spirituale organizzato per i giovani cattolici. ne ho un ricordo
stupendo, eravamo andati ad Assisi e là ci siamo incontrati ed
innamorati. Io avevo poco più di vent’anni e studiavo giurisprudenza,
mio padre era avvocato. I genitori di Gioconda, mia moglie, sono
morti in un incidente stradale, lei si è ritrovata sola, essendo figlia
unica, con un grande negozio da mandare avanti, una grossa
cartolibreria nel centro del paese, anche lei appena ventenne. Sono
andato lassù e non ho impiegato molto a capire che quello era il mio
posto, così ho interrotto gli studi, con grande delusione di mio padre
e mi sono sposato. Devo dirle che non mi sono mai pentito della mia
scelta”.
“Però non ha mai abbandonato la vecchia zia?”.
“All’inizio forse un po’. i primi tempi del mio matrimonio non ci
frequentavamo molto, io avevo da lavorare, le bambine sono arrivate
dopo qualche anno, e non venivo volentieri ad Albenga, perché i
rapporti con mio padre si erano guastati irrimediabilmente. Dopo la
sua morte, forse proprio in occasione del funerale, ho ripreso i
contatti con la zia Ilde, ci siamo piaciuti e di lì è cominciata
l’abitudine”. Tacque un attimo, come turbato da un’indecisione, ed
allungò una mano spostando il portapenne d’argento sulla scrivania
di Bartolomeo in una posizione che a lui evidentemente doveva
sembrare più adatta, sospirò e riprese: “Mi scusi una domanda.
Siccome non capita tutti i giorni di essere convocati dalla polizia
quando muore un parente anziano, mi permetto di chiederle: ci sono
dei dubbi sulla natura della morte della zia?”.
“Siamo in attesa dei risultati dell’autopsia e degli esami di
laboratorio”.
“Uh, come fanno i RIS alla televisione?”, domandò con eccitazione
quasi infantile, dimenandosi un attimo sulla sedia, un attimo solo,
ma con un atteggiamento assolutamente femmineo che non sfuggì a
Bartolomeo.
“I RIS appartengono al corpo dei carabinieri”, rispose con flemma
Rebaudengo.
“Oh mi scusi!”, soggiunse Peluffo salendo di un’ottava sulla ‘i’
finale e, dopo aver quasi furtivamente allungato una mano, sistemò
un calamaio di cristallo un po’ più sulla destra rispetto alla posizione
precedente. Bartolomeo non diede importanza alla cosa e rispose:
“Oh be’, non deve scusarsi, si tratta di una struttura molto simile:
noi abbiamo la Polizia scientifica ed i carabinieri hanno i RIS.
Torniamo alla vicenda di sua zia. Siamo in attesa dei risultati, come
le ho detto, ma i sospetti che non si tratti di morte naturale ci sono.
Lei è al corrente, o perlomeno ha qualche sensazione, anche poco
definita, non importa, che qualcuno potesse odiare sua zia,
insomma, che avesse dei nemici?”.
Peluffo guardò il calamaio in controluce e si accorse di averci
lasciato una ditata. Questa scoperta lo mise a disagio e con finta
disinvoltura, come quando da ragazzini a scuola, si trafficava sotto il
banco sperando che la maestra non se ne accorgesse, si stiracchiò
una manica del maglione oltre il polso, fino al palmo della mano e la
sfregò contro l’angolo dell’oggetto di cristallo: quando fu soddisfatto
del risultato, sollevò lo sguardo e riprese la conversazione.
“Onestamente, a me non sembra proprio che mia zia avesse dei
nemici così cattivi da volerla morta; però tenga conto che aveva
ventisei anni più di me, quel che so della sua giovinezza è per sentito
dire e per molti anni non l’ho frequentata: pur essendo parenti,
vivevamo in mondi lontani, in tutti i sensi e non solo in quello
geografico, quindi le mie informazioni su questo aspetto della sua
vita sono scarse. Era una donna molto ricca, aveva beni immobili che
affittava da anni e con i quali si garantiva una vita agiata. Pensi che
fino a pochi anni fa viaggiava e prendeva anche l’aereo con grande
disinvoltura. Dunque poteva aver avuto di sicuro qualche diverbio
con un inquilino, magari indietro con gli affitti, ma a me non aveva
detto nulla, anche perché aveva delegato tutto al suo
amministratore, anche le patate bollenti. Mi sembra che in passato ci
fosse stata qualche storia di morosità e di sfratti, ma le parlo di
quattro o cinque anni fa. Mi ricordo che amava ripetere: ‘Ma figurati,
Baldo, se alla mia età ho voglia di rovinarmi il poco tempo che mi
resta in beghe da quattro soldi! Si occupa di tutto Amilcare e se
anche ci dovessi perdere qualcosa, sinceramente non me ne frega
più di tanto. Ci sono vecchi che diventano sempre più avari, quando
sentono che avanza ‘la livella’. L’idea della morte che si avvicina, mi
fa venir voglia di tutte quelle cose, e sono tante, che non puoi
comprare: i colori, l’affetto delle persone. puoi pagare l’adulazione o
la compagnia ma non l’affetto, e poi le mareggiate, gli odori della
campagna…’. Concludeva pressappoco in questo modo: ‘Dei soldi,
nella tomba, non sapresti cosa fartene…’. Così diceva, però al di là
dei suoi racconti, non so dirle se la situazione reale fosse
esattamente in questi termini”.
“Mmh… E la badante?”.
“Svieta?”, e sorrise con benevolenza. “La badante di mia zia mi ha
sempre dato un’impressione di grande correttezza, d’indifferenza al
denaro facile, alle lusinghe del nostro benessere. Non so molto di lei,
niente della sua vita intima e nemmeno le ho mai fatto domande,
ma la sensazione che ho tratto in questi anni è di compostezza ed
anche di un certa dignità. Lei l’ha vista, immagino, Bartolomeo
annuì, si può dire che sia una bella signora, anche se avrà i suoi
quarantacinque comodi… Forse qualche vecchio gufo sarebbe ancora
riuscita ad accalappiarlo, magari non da farsi sposare, ma da farsi
intestare un appartamento e smollare un po’ di quattrini. Invece fa la
badante e credo che siano ormai dieci anni, ciò significa che quando
è partita ne aveva dieci di meno, sarebbe stato ancora più facile
trovare un pollo. Se non sbaglio, mia zia mi aveva detto che Svieta
era laureata in chimica, lavorava nel laboratorio di una grande
industria che, con la fine del comunismo e l’indipendenza politica se
ne è andata a gambe all’aria. Così lei è venuta di qua a far
minestrine, cambiare pannoloni e accompagnare vecchiette in
deprimenti passeggiate…”. osservò la scrivania, rimise in ordine
perfetto una pila di fogli i cui margini sbucavano un po’ da tutte le
parti e concluse: “Oddio, che poi una mano sul fuoco non la si può
mettere per nessuno…”.
‘Eccolo lì il pizzico di perfidia dopo tante lodi…’ pensò. Lo avrebbe
spinto su quell’argomento ancora più di una volta, per vedere quale
atteggiamento avrebbe prevalso: la stima o il sospetto.
Decise di cambiare discorso: “Perché citando sua zia, ha definito
se stesso, ‘Baldo’?”.
“Uh, non mi ci faccia pensare! Io in realtà mi chiamo Guidobaldo,
ma dai tempi della scuola mi sono sempre fatto chiamare Guido,
anche perché se l’immagina quanti compagni avrebbero storpiato il
mio nome in Bracco Baldo? Un incubo! Solo la zia mi chiamava
ancora Baldo e da lei lo sopportavo…”, sospirò, come se fosse stato
sopraffatto all’improvviso dalla consapevolezza che non l’avrebbe mai
più rivista.
“Mi scusi, ma devo chiederglielo…”, riprese Bartolomeo.
“Dov’ero quando la zia è morta? A parte che non so nemmeno con
precisione quando ‘è’ morta, perché nessuno me lo ha detto”.
“Nella notte tra giovedì e venerdì, verso le due…”.
“Ero a casa mia. Ci sono testimoni naturalmente, mia moglie e mia
figlia. Però… ”.
“Però?”.
“Però io l’ho vista il giorno della sua morte, o meglio il giorno
prima della notte in cui è morta”.
“Mi racconti tutto”, lo sollecitò Bartolomeo sinceramente
incuriosito. Chissà perché non gli era venuto in mente che il tipo
fosse stato in visita alla zia proprio in quella circostanza.
“Sono sceso ad Albenga nel primo pomeriggio. In negozio sarebbe
rimasta mia moglie. Non ci venivo, da più di una settimana. Avevo
deciso per giovedì, che poi era l’altro ieri, ma senza fermarmi a cena
perché ieri mattina dovevo fare degli esami clinici e non volevo che
si alterasse qualche risultato, cosa vuole, il colesterolo!”.
Bartolomeo annuì dolente.
“Così, mi sono fermato fin verso le sei, massimo sei e mezzo,
adesso non ricordo più con precisione”.
“È accaduto qualcosa di particolare, di diverso rispetto ad altre
visite?”.
“Assolutamente niente. Abbiamo chiacchierato un po’ del lavoro,
delle mie figlie, delle sue giornate, di come passava il tempo… Devo
dire che lei non si annoiava mai, non era di quelle che esordivano
con ‘Eh, cosa vuoi che faccia, sono vecchia, i malanni!’ e altre
lamentele simili. Per la sua età era piena d’interessi, era più lei che
raccontava a me, di quanto non fossi io che raccontavo a lei”.
“E la signora Lysenko dov’era durante la sua permanenza nella
casa?”.
“Dunque, subito si è ritirata e se n’è andata nella lavanderia a
stirare, una stanza in fondo al corridoio dove c’è un bagnetto, la
lavatrice, il ferro e l’asse. E avrà finito che saran state le quattro e
mezzo, forse le cinque. Poi è uscita a fare delle commissioni che mia
zia le aveva scritto su un biglietto. Quando sono andato via non era
ancora tornata”.
Bartolomeo parve rimuginare assorto in chissà quali pensieri.
“A che ora è arrivato a casa?”.
“Considerando la nebbia dopo il Turchino, non prima delle otto e
mezzo, io non guido veloce”.
“Prima mi ha detto di aver trascorso la serata e la notte a casa con
sua moglie e sua figlia. Non ha due figlie?”.
“Sì, sono due, ma Chiara durante la settimana non c’è, frequenta
l’università a Torino, giurisprudenza. La piccola, Caterina, ha finito il
ginnasio ed è in prima liceo classico”.
“Va bene. Naturalmente comprenderà che dovevo chiederglielo e
comprenderà anche che controlleremo”.
“Certo, è il suo lavoro”, e si addentrò un po’ di più nel territorio di
Bartolomeo, cioè la sua scrivania, per appaiare due biro che se ne
stavano piazzate una lì e una là in evidente disordine.
Il resto della conversazione fu routine molto formale, domande da
parte del nipote circa il funerale, la possibilità di vedere la salma
della cara parente, domande da parte di Rebaudengo intorno alla
personalità e le abitudini della zia, osservate dal punto di vista del
nipote, che non necessariamente era il miglior interprete, ma
rappresentava comunque una persona che l’aveva conosciuta e
frequentata. Quelle domande servivano quasi più a comprendere il
complesso carattere di Peluffo che non quello della defunta Ilde.
Questa volta la stretta di mano ci fu e si salutarono consapevoli che
si sarebbero rivisti ancora ben più di una volta.
Quando l’eco dei passi del nipote si fu smorzato lungo la scala di
marmo che portava al piano di sotto, Bartolomeo riprese a guardare
il traffico sull’Aurelia, cercando di capire se quell’uomo grassoccio,
pelato, con un’ombra di barba grigia ben curata ed il Borsalino in
mano, gli piacesse o meno. Chissà se era consapevole del proprio
lato femmineo e chissà come questo aspetto si conciliava con la sua
identità cattolica così sventolata… Pensò che tutti abbiamo la nostra
porzione di tenebra nel cuore, Conrad insegna, ed un sospetto di
omosessualità non rappresentava, per Rebaudengo, un ostacolo nel
giudicare con serenità una persona. Decise però di rimandare la
conclusione su quanto gli piacesse Guidobaldo Peluffo ad un futuro
prossimo, quando lo avesse conosciuto meglio, perché, per adesso,
non provava grande entusiasmo.
Sollevò il telefono, digitò un interno e attese un istante.
“Martelli, vieni un attimo su coi pennelli che ci sono un po’
d’impronte da prendere su due o tre oggetti sulla mia scrivania”.
Quello stesso pomeriggio, alle quattordici, momento del fine
settimana in cui i tribunali sono più deserti delle rovine di Ur, Bottini
organizzava le intercettazioni sia telefoniche che ambientali a carico
dei due personaggi più vicini alla povera vecchietta: la badante ed il
nipote, che s’era aggiunto alla Lysenko nel ruolo di sospettato. Con
la bella Svitlana avrebbero fatto presto, giocavano in casa. Un po’ più
macchinosa la sortita a Novi Ligure, ma non sarebbe stata la
domenica a fermarli: non sta scritto da nessuna parte che le fughe di
gas si verifichino solo nei giorni feriali. Il tempo di prendere accordi
con l’agenzia erogatrice di quella cittadina nebbiosa e vagamente
inquietante, e l’orecchio del commissariato di Alassio si sarebbe
proteso fin lassù, sfruttando i fili impalpabili della tecnologia. Il gas
va sempre bene, tutti hanno paura di saltare in aria a causa di una
perdita, pertanto, due omini in blu che fanno sloggiare tutti
dall’edificio per compiere i loro rilevamenti, non destano sospetti
nemmeno tra le persone più sospettose. Intanto, quello stesso
sabato si sarebbe cominciato con l’appartamento di Tamara
Ivanovna Karachuk cameriera ai piani dell’albergo Orizzonte e della
figlia Nadia che lavorava in una pizzeria.
Così i due omini dell’azienda del gas entrarono nel microscopico
appartamento di via Garibaldi e sistemarono cimici, pulci, zecche,
acari e quant’altro. In questo modo sempre gli stessi omini, una
volta rientrati alla base in una stanza attrezzata, in attesa di partire
per Novi, poterono ascoltare lunghi pianti sommessi e parole
incomprensibili sussurrate a qualcuno che non rispondeva. loro
avevano visto che Svitlana era sola nell’alloggio, allora con chi si
lamentava? Fu Rebaudengo che risolse il mistero: con la gatta.
Quando lo capì gli venne il magone, provò una fitta dolorosa tra
pancia e cuore all’idea di quella solitudine, e della paura,
dell’isolamento. Le due Svetlane erano sole, in una casa straniera, in
una terra straniera ed il futuro non prometteva niente di buono. Le
apparecchiature stavano registrando tutto, anche i singhiozzi e le
tirate su con il naso, perfino un unico, timido miao. Poi si sentì il
rumore della pietrina di un accendino ed il sospiro di una lunga
boccata: non l’avrebbe detta fumatrice, ma chissà di quante cose si
sarebbe ancora stupito. All’improvviso un microfono prese a fare un
rumore basso, ondivago, saliva e scendeva, come un sordo
motorino. Gli omini, che da un pezzo erano stati raggiunti da
Bartolomeo, il quale non riusciva a tornare a casa e staccare
finalmente da quella giornata infernale, si guardarono in faccia e fu
nuovamente Rebaudengo a risolvere il mistero: la gatta si era messa
a fare le fusa contro un microfono.
“Ma dove cazzo lo avete piazzato?”, domandò lui tra lo scocciato e
il divertito.
“Non c’è solo quello lì, ne abbiamo messi un po’ dappertutto, ma
questo è accanto al davanzale della finestra del tinellino, dove c’è il
divano letto su cui probabilmente dorme la Lysenko”.
“Ah, ecco…”, e si ricordò della gatta che faceva bird watching sul
davanzale della cucina di Ildebranda, con le chiappe al caldo perché
sotto il davanzale c’era il termosifone.
Finalmente si sentì lo scatto secco di una chiave che girava nella
serratura ed una voce femminile da contralto, che riempì le cuffie
degli ascoltatori come uno squillo di tromba. Quello che seguì fu un
chiacchiericcio incomprensibile, esclamazioni, lamenti di grande
costernazione da parte della nuova venuta, che dovevano aver per
oggetto la sventurata situazione di Svitlana.
“La giovane non l’avete vista quando siete andati a posizionare
l’armamentario?”, domandò Bartolomeo che detestava il linguaggio
tecnico sprizzante efficienza e amava, quando poteva, ricorrere a
parole vecchie, di uso comune, preferibilmente un po’ irriverenti.
“Doveva essere appena uscita, perché abbiamo incontrato una
bella ragazza che scendeva le scale e nell’appartamento era facile
riconoscere lo stesso profumo. A quest’ora non può essere lei, è
sabato sera e sarà già sul lavoro”.
“In che pizzeria?”.
“Da ‘U recantu’, rispose Orlando improvvisando un accento
genovese credibile quanto un serial killer che sviene alla vista del
sangue. Orlando era siculo ed il suo nome risvegliava nella fantasia
del commissario ricordi infantili di teatro dei pupi e rumore di latta.
L’aspetto insulare, però, finiva lì perché aveva una fisionomia più da
salumiere brianzolo che da picciotto, anche se bisogna considerare
che non sempre i picciotti sembrano picciotti e viceversa. forse ciò
può accadere perché la fisiognomica non segue regole geografiche
rigide. L’altro tecnico era secco secco, costantemente pallido, come
se fosse stato in eterna convalescenza dall’influenza, quando ti
stringeva la mano era fredda e sudaticcia, inoltre non sapeva
pronunciare la ‘erre’ e l’aveva sostituita sin dalla prima infanzia con
la evve. Tutto questo era sufficiente a che Bartolomeo non gli
rivolgesse la parola, se non obbligato dalla buona educazione e dalle
circostanze, non ne ricordasse mai nome e cognome, e si trovasse in
affanno le rare occasioni in cui doveva coinvolgerlo in una
conversazione o in una qualsiasi attività.
“Quindi questa è sicuramente la madre?”.
“Sì che è anche cugina della Lysenko e anno più anno meno,
dovrebbero essere all’incirca coetanee. Non ci capisco una minchia,
con rispetto parlando, ci dirà tutto l’interprete quando ascolterà le
registrazioni, ma mi viene logico pensare che la Lysenko abbia
raccontato la faccenda e non sappiano parlare d’altro, non crede
anche lei, dottore?”.
“Quasi certamente… In tutto il pomeriggio è rimasta sola? Non ha
fatto o ricevuto telefonate?”.
“Non l’abbiamo mai sentita fare un discorso, se non quelle quattro
parole in croce che ha ascoltato anche lei, e che erano rivolte al
gatto. Potrebbe aver mandato dei messaggi con il telefonino, ma è
solo un’ipotesi, perché non ne ha ricevuti, a meno che non abbia
silenziato la suoneria. Insomma, un pomeriggio triste…”.
“Non è mai uscita, che ne so, a comprare qualcosa, a prendere
una boccata d’aria?”.
“Noi non abbiamo mai sentito lo scatto della serratura della porta
d’ingresso e l’agente sulla via non ha riferito niente”.
“Ok, quindi probabilmente è depressa ed è rimasta tutto il
pomeriggio a rimuginare sulle sue disgrazie… Oppure l’aver fatto
secca la vecchietta l’ha stancata e ha dormito…”, immaginò
Rebaudengo, ostentando un cinismo che non provava. In realtà non
voleva che nessuno pensasse che lui, il quale doveva essere
assolutamente neutrale in quella vicenda, né avvocato difensore né
pubblico ministero, la sentiva innocente, ecco sì, lui la sentiva
innocente. Sensazione che in sé non aveva nessun valore, perché
l’ipotesi di un errore di percezione e di valutazione, a quel punto
dell’indagine, con così poche informazioni su cui ricostruire gli eventi,
era alta, molto alta. Il fatto che lui la ‘sentisse’ innocente era quindi
una stupidaggine, e non voleva che altri pensassero che lui fosse
incline alle stupidaggini. Decise di interrompere sia il proprio flusso di
pensieri sconclusionati che quel chiacchiericcio femminile del quale
non afferrava una parola.
“Da che ora è che siete in servizio?”.
“Siamo andati a mettere tutti i dispositivi nell’appartamento
intorno alle quindici e poi ci siamo piazzati qui”.
“Adesso sono le…?”, si chiese trafficando con il polsino della
camicia per scoprire l’orologio.
“Le ventidue e trentacinque”, rispose prontamente Orlando.
“O cazzo, vi mando il cambio, tanto più che domattina dovrete
essere a Novi, in corso Aurelio Saffi, mi pare, ma poi controllo, alle
otto”, concluse Rebaudengo tirando su la cerniera lampo del
giubbotto imbottito, con il quale somigliava molto di più ad un
boscaiolo che non ad un dirigente di polizia. I due lo guardarono
allontanarsi con occhi rossi di sonno.
Nel frattempo s’era messo a piovigginare, era tutto il giorno che ci
provava. Sperò che fosse una cosa seria, aveva bisogno di guardare
le righe d’acqua piovana contro i vetri della camera da letto,
illuminati dal lampione sulla strada. Da sempre quel rito lo aiutava a
riflettere, se insonne, e ad addormentarsi quando arrivava il
momento.
Ardelia era una buona equilibrista, riusciva a rimanere sulla fune
senza mai cadere nella banalità delle lamentele da moglie di
poliziotto ‘che non c’è mai’, però quella sera era diversa dal solito,
anche se Bartolomeo s’era abituato alle sue diversità. Ormai sapeva
che non c’era più soltanto l’Ardelia umoristica o quella professionale,
o quella che riusciva a far dell’umorismo sul proprio lavoro, quella
che cucinava bene e quella che a letto s’abbandonava al piacere in
religioso silenzio. c’era anche quella strana ed era praticamente
impossibile tentare una classificazione delle sue stranezze.
Quella sera era strana... o forse era lui che la vedeva strana… o
forse lo strano era lui…
Alla televisione, mentre sparecchiavano, scorrevano i titoli di coda
di un film che non avevano seguito. Ardelia stava già caricando la
lavastoviglie e a Bartolomeo cascò l’occhio sul paesaggio che faceva
da sfondo ai nomi di attori e macchinisti: era uno scorcio di natura
americana, pianura, fattoria con il silos, granoturco ancora tenero
ondeggiante nel vento, cielo blu, ‘quel blu’ e per un attimo gli si
annodò il duodeno.
Capitolo cinque: nel quale il vento di Gregà evoca
fantasie di terre sconosciute
In Liguria lo chiamano Gregà, grecale, ma non arriva dalla Grecia,
bensì dai Balcani e anche più indietro. A Trieste è bora, ma poi
continua il suo viaggio. Ed è freddo, tagliente, fa male a respirarlo,
spazza via nuvole e fumi, riporta il cielo alla sua purezza primigenia.
Che poi è un’illusione, perché basta abbassare lo sguardo per
scoprire rumenta da tutte le parti e capire che di primigenio non c’è
più nulla. Non è rumenta nella sola accezione di spazzatura, ma è un
concetto allargato al quale si possono riferire molte delle nobili
invenzioni dell’umanità, soprattutto quando essa se ne è stancata,
come di giocattoli vecchi. E per portar via tutto questo non basta il
Gregà.
Bartolomeo amava quel vento che somigliava ad una lama, che
attraversava i cappotti, che gelava l’acqua delle grondaie con il suo
solo passaggio ed i candelotti rimanevano tutti storti, simili a chiome
di vetro… E poi il mare, questo grande sconosciuto! Sotto un bianco
sole d’inverno, abbagliante e senza calore, sembrava una lastra color
del cobalto, grezza, piena di rughe bianche, onde piatte che invece
di venir verso riva, andavano verso l’orizzonte, disperdendo nell’aria
polvere d’acqua salata. Eh, era uno spettacolo solenne, una cosa che
da bambino non sarebbe mai stato capace d’immaginare.
Gli venne in mente un matto, un olandese che aveva messo
dentro un po’ di tempo prima. Quel ragazzo sì che avrebbe saputo
cogliere e rubare alla natura quei colori, quella luce, quella fredda
sensazione d’infinito. C’illudiamo di cogliere l’infinito, in realtà è più
sgomento che percezione, ma se qualcuno a questo mondo sa
invertire le proporzioni e pochi ne sono capaci, bene quelli sono i
poeti, i pittori, i musicisti che sono tanto più vicini ad una
contemplazione matematica del cosmo di quanto non lo sia il
matematico di mestiere. E quel povero olandese in ospedale
psichiatrico giudiziario, che paradossalmente per la prima volta in
vita sua dipingeva in libertà, avrebbe saputo dare alla tela la gloria di
un primo pomeriggio di Gregà.
Ricordava una sua frase, quando tutto era finito, un suo tormento,
che non era l’aver commesso un delitto in un delirio paranoico, ma il
non sapere se l’artista dipingesse la luce perché la possedeva
‘dentro’ o perché la rubasse ‘fuori’. Chissà se lassù, a Castiglione
dello Stiviere c’erano gli stessi cieli di Alassio. Di sicuro non si sentiva
lo stridio dei gabbiani, veri capitani durante le tempeste.
Rabbrividì, si strinse ancor di più la sciarpa intorno alla gola, e
decise di rientrare in ufficio. Erano le due e mezzo: Svitlana
Mychailivna Lysenko si sarebbe presentata di lì a poco. Era arrivato il
momento di parlare un po’. Aveva il dubbio che la badante avesse un
segreto, o meglio, chissà quanti ne aveva, uno stava affiorando però,
anche se ne ignorava ancora la natura.
Era successo a metà mattinata, quando era arrivato dalla questura
un primo contenuto tradotto dall’interprete. A parte un mare di
cazzate e di chiacchiere femminili tra le due cugine, alcune delle
quali aveva ascoltato anche lui senza capirci un tubo, c’era stata una
telefonata, sempre in ostrogoto, ricevuta all’una del mattino dal
cellulare della signora sotto osservazione, ed ora sapeva anche chi
fosse la proprietaria dell’altro apparecchio. Erano stati sussurri da
parte di Svitlana, che evidentemente non voleva svegliare la cugina
addormentata e suppliche dall’altra parte, esortazioni a cambiare
idea su una faccenda che non veniva specificata e la voce
dell’interlocutrice diventava sempre più accorata man mano che la
Lysenko si chiudeva in un ostinato rifiuto a seguire il consiglio. Alla
fine piangevano tutte e due e i poliziotti non erano riusciti a capire a
cosa diavolo si fossero riferite quelle due, non perché avevano
parlato nella loro lingua, ma perché a traduzione completata,
l’oggetto del contendere non era mai stato citato. strana gente...
Entrando in commissariato diede una rapida occhiata alla saletta
d’aspetto, sebbene pensarla in quei termini fosse un eccesso
d’ottimismo, perché in effetti eran quattro sedie nere di lamiera a
buchini, visibilmente scomode e inospitali, ma non vide nessuno. Si
prese un caffè lungo e strinse il bicchiere rovente tra le dita
cercando di trarne un po’ di conforto. Salì la scala con prudenza, nel
corridoio posò lo sguardo sul replay d’arredo, altre quattro sedie
bucherellate e gli parve di vederle per la prima volta. Solo quando fu
nel suo ufficio, si decise a sorseggiare il beverone ancora troppo
caldo. Man mano che il liquido scendeva nello stomaco, riusciva a
trovare accettabile l’idea di togliersi il giubbotto, più dannoso che
utile, ancora gonfio d’aria artica. Non si sedette alla scrivania, non
gliene importava niente che la signora Lysenko lo trovasse
apparecchiato come un ligio funzionario sabaudo, con altra gente
magari la sceneggiata poteva avere un senso, non con lei. Intanto
guardava in strada per vedere se riusciva a scoprire la sua figura tra
i pochi passanti. La vide, ma a lei certo non venne in mente di alzare
lo sguardo verso la finestra dell’ufficio del dirigente, e così compì
l’ultimo pezzo del tragitto ignorando d’essere osservata. Indossava
un grazioso colbacco di pelliccia di poco prezzo, chiaro, color del
miele d’acacia, che faceva risaltare ancora di più la nota scura dei
suoi capelli. Durante il loro primo incontro li aveva raccolti in una
coda e la pettinatura trascurata non aveva certo messo in evidenza il
suo ovale. Ora li aveva sciolti, dovevano essere mossi, e uscivano
disordinatamente dal cappello, sbatacchiati sul viso dal vento. Era
pallidissima, ma forse era il suo colore naturale. Dì più Bartolomeo
non vide perché lei fu presto nascosta dal muro di cinta e dalla porta
di metallo del commissariato.
Poco dopo gli fu annunciata e fu accompagnata al piano di sopra;
entrò nel suo ufficio e lui si sporse oltre la scrivania per stringerle la
mano. Si sedettero, il commissario comodo, ben appoggiato allo
schienale della sua poltrona, lei in punta di seggiola, le dita
intrecciate sui manici della solita borsetta consunta, il colbacco in
grembo, non aveva però osato togliersi il cappottino. Il suo disagio
era aumentato nel momento in cui nella stanza era entrato Ravera
che aveva il compito di prendere nota della conversazione. Non
aveva detto niente, si era limitato a prendere posto su una sedia,
dopo aver borbottato un ‘buongiorno’ a volume ridotto, e s’era
messo subito a trafficare con il computer che aveva davanti. Gli occhi
della donna avevano guardato un po’ uno e un po’ l’altro i due sbirri
presenti nella stanza, senza ostentare tracotanza ma nemmeno
timidezza. Impossibile decifrare cosa le passasse per la mente: di
sicuro non era tranquilla, eppure non aveva l’atteggiamento umile di
chi cerca benevolenza. Sapeva che stava rischiando
un’incriminazione per omicidio volontario e magari anche
premeditato? Non poteva non saperlo, al di là di tutte le differenze
linguistiche di questo mondo. Ancora nessuno l’aveva informata che
la vecchia non era morta di morte naturale? Ma, forse, questo lei lo
sapeva meglio di loro… Dopo un breve viaggio panoramico sugli
oggetti presenti sulla scrivania del commissario, i suoi occhi si
piantarono dritti in quelli dell’interlocutore principale, visto che
Ravera era seduto un po’ in disparte. Bartolomeo non poté far altro
che reggere lo sguardo di lei. Aveva strani occhi, leggermente a
mandorla, quasi come se nel suo dna fosse rimasto un coriandolo
d’Asia non troppo lontana, ma il blu intensissimo riportava l’ago della
bussola verso occidente. Un effetto ottico straordinario. Taceva,
aspettava.
“Signora Lysenko, al momento questo non è un interrogatorio,
certamente lei è la persona più informata relativamente alle ultime
ore di vita della sua datrice di lavoro ed io devo sapere esattamente
cosa è successo la notte di giovedì… Ah, mi interrompa ogni volta
che non capisce qualcosa o se parlo troppo in fretta, va bene?”. Lei
non emise fiato ma fece di sì con la testa.
“Mi ripeta esattamente cosa è successo, anche i particolari che
possono sembrarle poco importanti”, e si appoggiò nuovamente
contro lo schienale della sua poltrona.
“Non è successo niente di diverso di altre sere…”, brutto inizio,
pensò Bartolomeo, visto che qualcosa doveva essere successo di
sicuro, altrimenti Ildebranda sarebbe stata ancora viva e loro non
sarebbero stati lì a parlare.
“Mi racconti comunque cosa è successo partendo dal pomeriggio”,
stava cercando il riscontro.
“È venuto il nipote, il signor Baldo, così dice zia, ma lui si chiama
Guido”.
“E lei dov’era?”.
“Io durante le visite sto per conto mio”, sfumatura impercettibile di
disappunto o era solo una suggestione… “Non credo educato stare lì
a sentire i loro discorsi. Così ho stirato, in fondo ala casa, ne avevo
una pila grossa grossa”.
“E dalla stanza dove si trovava non sentiva di cosa parlassero?”.
“Perché dovevo ascoltare? Cose loro, parenti di sangue io non
c’entro”.
“Ma nemmeno pezzetti di conversazione? Potrebbe essere utile”.
“No, io quando stiro sento sempre la radio”.
“E cosa ascolta” – fatti i cavoli tuoi, che te ne frega?
“Ascolto la radio nazionale, Rai, giusto?, la tre; s’imparano tante
cose, e poi mi serve far fatica di ascoltare in italiano preciso. Bela
musica, classica e parlano di libri. Anche del mio paese certe volte”.
“E dopo aver stirato cos’ha fatto?”.
“Ho servito il tè e poi sono andata a fare piccole spese per la
signora”.
“Quand’è tornata il nipote c’era ancora?”.
“No, era appena andato via”.
“Continui a raccontare”.
“Va bene. Abbiamo cenato. Io aveva cucinato finocchi con la
crosta nel forno e la trota salmona… Si dice così?”. “Salmonata”,
interruppe Bartolomeo, “ma non ha importanza, vada avanti”,
corrispondeva al contenuto gastrico dell’autopsia, anche se i processi
digestivi erano in uno stadio avanzato.
“Poi ho lavato i piatti e abbiamo giocato a carte”.
“Giocato a carte?”.
“Sì a poker, ma senza i soldi. Usavamo i cioccolatini, anche se lei
doveva stare attenta per il diabete. Che perdeva o vinceva, ala fine
mangiava tre cioccolatini. Anche io. Però era molto più brava di me,
mi ha insegnato lei: lei sapeva fare tanti giochi di carte oltre al poker,
giochi che io non sapevo, però so i nomi: ramino, baccarà, chemin
de fer. In gioventù la signora avuto tante avventure, sembrava un
film quando raccontava…”
“E dopo aver giocato? Intanto che ora era?”.
“Undici circa, non ho guardato l’ora, ma ci regolava l’abitudine”.
“Va bene, e poi?”.
“Poi accompagnata per prepararsi per la notte. Ma lei non dormiva
subito, le piaceva guardare la televisione fino a tardi”.
“E lei nel frattempo cosa faceva?”.
“Io andavo in camera mia. Leggevo libri, studiavo italiano, poi mi
addormentavo”.
“E quando lei si addormentava, la signora era sveglia o dormiva
anche lei?”.
“Dipendeva dal film. Se piaceva o no”.
“Ho capito. Ma lei dormiva tranquillamente mentre la persona
anziana, quella a cui doveva badare affinché andasse tutto bene, era
sveglia e poteva stare male?”.
Lì fece un debolissimo sorriso, un tocco di rosa così breve da far
pensare ad un’illusione ottica.
“Mi scusi dottore commissario, ma uno può stare male in
qualunque momento di giornata o di notte. Se lei dormiva meno ore
di me, non vuol dire che io abandonavo lei. Non era malata, non
dovevo fare la notte come a infermo di ospedale. L’importante era
che io andava subito se chiamava o sentivo rumore strano, come
tosse, o fatica di respiro o che cade qualcosa, giusto? E io andava
subito, anche per cose senza importanza…”.
“E come faceva ad accorgersene?”.
“Sonno leggero. È un’abitudine del mio lavoro. E poi Ildebranda
aveva campanelo, ma difficile che chiamava, aveva tutto a portata di
mano: acqua per bere, telefono di casa e telefonino, telecomandi,
occhiali, libro, non doveva alzarsi per prendere queste cose e per
pipì faceva da sola, accendeva lampadina e faceva tutto con calma.
Aveva ottantadue anni, il cervelo era buono e il corpo ancora anche
esso”.
“Allora, torniamo alla notte della morte. Lei è andata nella sua
camera dopo aver sistemato la signora e…”.
“Prima fatto tutto ala signora, poi andata io in bagno, lavata e
fatto mie cose e poi in letto. Le porte sempre aperte, detto
‘buonanotte’ e signora mi ha risposto. mi ricorderò per sempre
ultime sue parole: ‘Non rompere Svieta, che sta per succedere un
casino!’, io ho sorriso, diceva di film ala televisione, non pensavo di
sicuro che il casino poi succede vero!”.
Sì, poi sarebbe successo vero.
“E si è addormentata senza sentire niente di strano fino al
mattino?”, domandò Bartolomeo piantandole negli occhi uno sguardo
fatto a trivella. Lei non capì o finse meravigliosamente e rispose con
la sua voce velata.
“Lo so che sembra impossibile, ma ho dormito fino ale sei, quando
poi ho scoperto tutto”.
“E non si è mai allontanata dall’appartamento?”, sguardo ancora
più appuntito. Lieve incertezza? Un attimo di respiro trattenuto?
Impossibile dirlo con sicurezza, se c’era stato era stato troppo breve.
Ravera gli rimandò una faccia inespressiva.
“No, non sono uscita dottore commissario”, ci mancava solo che lo
chiamasse compagno commissario e gli sarebbero scorsi davanti agli
occhi tutti i film e romanzi di spionaggio degli anni della guerra
fredda!
“Non si è svegliata neppure una volta? per andare in bagno per
esempio?”.
“Quando ho spento mia lampada poteva essere mezzanotte, ma
anche oltre. poi mi sono sveliata ale sei. Troppo poco tempo per
andare in bagno a metà. No, ho dormito fino ale sei”.
“E poi?”.
“Poi ho capito subito che qualcosa non andava. Niente di preciso,
come un presentimento, si dice così? Signora di solito russava un
pochino, invece troppo silenzio”.
“Da quello ha capito?”.
“Capito è troppo forte. Avuto dubio. Chiamata, ancora silenzio.
Così sono andata e ho visto”.
“Ha capito subito che era morta?”.
“Ho già visto dei morti. Hanno un modo di essere immobili diverso
dai vivi, anche quando i vivi dormono forte. E poi aveva li occhi
aperti, vuoti, come il vetro”.
“Ha cercato di rianimarla, l’ha toccata?”.
“No, mi sono vestita in fretta, poi sono andata a suonare ala porta
di Adelina, vicina di sotto. Non sapevo cosa fare…”.
“Era la prima volta che moriva una persona che lei assisteva?”.
“Prima volta che succedeva così, in passato, due anziani erano
morti in ospedale e io non era lì”.
“Va bene, poi cos’ha fatto?”.
“Adele è venuta a vedere, è stata un po’, ha fatto il segno di croce
e poi è andata a casa sua a fare le telefonate”.
“Glielo ha chiesto lei?”.
“No, ha deciso lei, ha detto che era melio così”.
“E nel frattempo cos’ha fatto?”.
“Ho aspettato. Ci siamo fatte compagnia con la gatta. Sapevo che
sarebbe venuta la polizia”.
“Perché?”.
“Perché Adelina è una brava signora, ma io sono straniera, forse
non si fidava tanto di me, forse ha pensato che io ho avvelenato la
mia padrona, magari con le medicine”.
“E lei lo ha fatto?”, e questa volta gli occhi di Bartolomeo erano
grandi, severi. Svitlana si agitò un istante sulla sua seggiola, si
strinse le dita delle mani, ma ritrovò presto la sua apparente calma.
“No, non l’ho fatto, dottore commissario”. E di nuovo quella
sensazione così sovietica…
“Svetlana Mychailivna”, bella mossa con tanto di patronimico, così
la suggestione russo-sovietica era più forte “cosa pensa della polizia?
Che sentimenti evoca in lei la polizia?”.
“In Italia o al mio paese?”.
Sullo sfondo: la faccia interrogativa di Ravera, che in fretta decise
di non mettere a verbale quel pezzo di chiacchierata, preferendo
gustarsi il seguito.
“In Italia non lo so, niente direi… Non ho mai avuto problemi, ho
messo a posto documenti a marzo di 1997, arrivata a Milano.
Qualche anno, poi una mia amica ha detto buona possibilità in
Liguria, paese belo, così trovato lavoro qui dal 2002. Ero proprio
venuta qui. Poliziotto educato, detto cose normali, mai una brutta
parola”.
“Al suo paese?”.
“Al mio paese non era amata la polizia…”.
“Ma io non mi riferivo al KGB”.
“Nemmeno io, io pensavo ala milizia, quela uguale a voi. Non
amata lo stesso, anche se dopo la rivoluzione arancione forse va un
po’ melio, ma non dappertutto”.
“Perché fa paura?”.
“Perché è dura, uno entra per cosa poco importante, fare presto,
dopo detto quelo che serve e invece non lo sa dopo quanto esce e
dele volte insieme con domande arriva qualche botta, non sempre,
ma capita…”.
“Pensa che anche qui le cose possano andare nello stesso modo?”.
“Non lo so, cerco di non pensare mai niente quando non so le
cose”.
“Nessuno dei suoi conoscenti si è mai trovato nei guai con la
polizia italiana?”.
Lei stette un attimo a guardarlo, cercando di capire dove fosse
l’inganno, perché doveva esserci. Avrebbe potuto barricarsi dietro ad
un silenzio ostinato, ma capiva che non sarebbe stata un’idea utile.
Tanto valeva dire quello che pensava veramente.
“Io da dopo essere arrivata in Italia per lavorare, mi sono sempre
tenuta un po’ lontana di gente del mio paese”.
“Perché?”.
“Brava gente, io non mi vergogno dela mia gente, ma capita che
hanno idee sbaliate…”.
“Cosa sono le idee sbagliate?”.
“In Ucraina per comprare una casa, non grande ma giusta per una
familia, basta il lavoro in Italia di un anno. Adesso le cose sono un
po’ cambiate e anche per questo è meno facile, ma non è ancora
cambiato proprio tutto. Però bisogna lavorare, non c’è niente di
regalato. Ci sono tante cose bele qui, ma per comprarle bisogna
lavorare. Ecco, molte persone di Ucraina sono un po’ come bambini,
perdono buon senso, la misura, si dice così?”, cenno di assenso di
Bartolomeo, e credono che sia facile avere le cose, invece non è
vero. Alora capita che possono fare sbali. Così, quando ho capito
come andava, ho deciso di starmene più per conto mio. Io ho un
marito bravo al mio paese e una filia che fa l’università: è per loro, e
anche per me certo, che sono qui. Per ottenere quello che volio devo
stare lontana dale ilusioni, dai sogni di vita facile. E poi troppo bere,
in Ucraina, ma anche qui. Queste sono le cose sbaliate. Ho spiegato
bene?”.
Il suo era un italiano elementare, ma tutt’altro che elementari
erano i suoi pensieri. Rebaudengo faticava a mantenere l’obiettività
verso quella donna così diversa dalle italiane di oggi, pur con le
debite eccezioni, provvista com’era di un buon senso arcaico che
ricordava la generazione appena provata dalla guerra. Gli veniva da
pensare che una persona così ragionevole non potesse aver
commesso un omicidio, per il semplice fatto che un omicidio non è
un atto ragionevole. Esperienza e scuola gli avevano insegnato che
nessuno è al di sopra del sospetto, che chiunque è capace di
qualsiasi atto, dipende soltanto dalle pulsioni personali o, talvolta,
dal livello di esasperazione; quindi nemmeno la bella Svitlana, che
per lui continuava ad essere Svetlana, poteva essere giudicata
innocente, almeno per il momento. Certo faceva fatica ad
immaginarla colpevole.
“Cosa ne pensa del nipote della signora?”. Voleva tornare
sull’argomento, era stato liquidato troppo in fretta.
E qui l’ombra che attraversò la fronte chiara della donna fu
evidente. Non doveva piacerle. farle sputare il rospo sarebbe stata
un’impresa ardua, se non impossibile: sicuramente si sarebbe
trincerata dietro il suo fair play sovietico e lui non ci avrebbe cavato
un ragno dal buco, ma doveva tentare. Il nipote era stato
‘abbastanza’ politically correct nei confronti della bella badante
ucraina, almeno fino allo schizzo di veleno finale: gli sarebbe piaciuto
saperne di più.
“Signore gentile, ma io ho poca confianza”.
“Confidenza. E basta? Non le viene in mente altro da dirmi?”.
“Davvero, non ho mai detto tante parole con lui”.
“Invece lui ha parlato bene di lei, ha dichiarato che lei non
avrebbe mai ucciso la signora”, mentì Bartolomeo, “eh sì perché a
questo punto non ci sono dubbi che la signora sia stata uccisa…”.
“Questo l’avevo capito da subito, anche se così chiaro non me lo
aveva detto nessuno”.
“Da subito, quando?”, chiese il commissario percorso da un brivido
di sospetto.
“Da quando la ispettora mi ha fatto tutte quele domande, ancora
in casa, la mattina. Ho capito solo dopo che la signora ispettora era
la filia di Adelina che lei diceva che in polizia”.
“Ah, scusi, avevo inteso male: lei non ha pensato che la signora
potesse essere stata uccisa già nel momento stesso in cui l’aveva
veduta al mattino, vero?”.
E qui il momento di pausa, paura, organizzazione della risposta
durò quel poco di troppo da apparire innaturale. Doveva tenerlo a
mente.
“No, no, subito ho pensato che era morta come muoiono tanti
vecchi, anche se fino al giorno prima stanno bene e da fuori non si
capisce cosa è successo”.
“Solo dopo le domande dell’ispettore Negri ha cominciato ad avere
dei dubbi?”.
“Ispettore, come uomo anche se è donna?”.
“Ispettore, uguale per donna e per uomo”.
“Dubi? Sì, solo dopo le domande”.
“Torniamo invece all’altra domanda. Lei conosce il nipote della
signora, il quale si è mostrato molto amichevole nei suoi confronti”,
continuò il commissario nella sua menzogna. “A lei però non piace, o
sbaglio?”.
Silenzio lungo, occhi veloci sugli oggetti, come in cerca
d’ispirazione, organizzazione della risposta, un attimo di fame d’aria,
bocca aperta e poi richiusa, ancora un piccolo silenzio.
“Come ho già detto, signore molto educato, ma non mi ha mai
dato molta confidenza. Io sono la badante, non una signora della
sua classe…”, risposta prevedibile e comoda per tutti gli usi.
“Strano, perché lui invece ha parlato di lei con molta simpatia e ha
detto proprio il contrario!”.
“Come contrario?”.
“Sì, ha detto di lei che è proprio una signora”, attesa dell’effetto:
fame d’aria, sguardo inquieto, perdita di controllo, recupero veloce.
“Molto onore per me, ma io non posso cambiare mia risposta: io
non conosco bene lui. Quando veniva in visita, come ho detto e
come è successo proprio giovedì, prima di disgrazia, io andava in
altra stanza per lasciarli chiacchierare bene, senza estranea”.

“Li ha mai sentiti litigare?”.


Silenzio. Mani che trivellavano la finta pelle del manico della
borsetta, uno sguardo al colbacco: forse un desiderio di scappare?
Quelle domande le davano fastidio. Sarebbe stato un lavoro lungo
capire perché, ma ci sarebbe arrivato.
“Se lo hanno fatto, io non posso dire di no, ma nemmeno di sì,
magari è stato mentre io faceva la spesa. Quando veniva il signor
Guido, la padrona qualche volta mi diceva di stirare in fondo ala casa
con la mia radio, o di andare a prendermi un tè al bar o di fare due
passi al mare”.
“E lei lo faceva? E, mi dica, quando era in libertà, incontrava
qualche amica?”.
“Sì, poteva succedere. Vuole sapere il nome per interrogare?”. Boia
faus che freddezza. Rispondere quindi con freddezza.
“Lei me lo dica, poi vedrò se sarà necessario”.
“Roksolana Khryuchenko… Vuole indirizzo di lavoro e casa e
telefono?”.
“Solo telefono”. Lei scandì il numero, Ravera scrisse, Bartolomeo si
mise a sfogliare con indifferenza le carte sulla scrivania, con l’aria
distratta di chi non sta leggendo, ma più che altro tiene occupate le
mani: corrispondeva con quello della conversazione notturna
sottovoce.
“Che aria c’era quando rientrava a casa?”.
“Aria?”.
“Sì, voglio dire, come le sembravano zia e nipote: tranquilli,
oppure si capiva che avevano litigato?”.
“Certe volte lui non c’era già più, altre volte andavano al
ristorante, oppure lui si fermava a mangiare lì, o, se era inverno,
andava a comprare la farinata”.
“E giovedì?”.
“Giovedì lui era già andato via”.
“Sì, me lo ha detto, ma volevo chiederle un’altra cosa: le sembrava
che avessero litigato? La signora era tranquilla?”.
“Piuttosto abbastanza, sì. Se era successo lite, non si capiva, la
signora non faceva mai pesare suoi sentimenti”.
Silenzio. Fuori stava venendo nuvolo, ma il vento non era calato.
“Cosa le manca del suo paese?”.
Lei parve risvegliarsi, sorpresa da quella domanda che non
c’entrava niente. Sembrava sollevata dalla speranza che la parte
difficile fosse finita, ma anche oppressa dal timore che dietro ci fosse
una trappola. Dio, che occhi meravigliosi aveva, e non era male
nemmeno il resto!
“I miei familiari”, risposta scontata.
“A parte quelli. E poi?”.
Ci pensò un attimo:
“Chissà, forse la neve…”.
La risposta dovette piacere molto a Bartolomeo, che sorrise
soddisfatto.
“Senta, Svetlana Mychailivna, ci andiamo a prendere un tè?”.
Ravera fece un salto sulla sedia, perché forse da qualche momento
si era assopito, pur senza essersi perso una parola.
Svitlana lo guardò allibita e se ne uscì fuori con una domanda
assurda.
“Perché mi chiama con il nome e con quelo di mio padre, che c’è
in documenti? Non usa più e se qualcuno lo fa ancora, è con persona
importante, ma è difficile”.
“Perché mi fa venire in mente i grandi scrittori russi che ho letto
da giovane, ha un fascino particolare e non me ne faccio niente che
non usi più e non penso che lei sia una persona comune… Allora,
andiamo a berci un te o no?”.
Quando furono in strada, dopo aver percorso in silenzio le scale ed
essere usciti dal commissariato, l’imbarazzo divenne così spesso da
sembrare quasi una terza persona. Non riuscivano a parlare e si
guardavano intorno come per il timore di star facendo qualcosa di
sbagliato. Cercavano di nascondersi dentro cappotti sciarpe e
cappelli, come lumache nel guscio, per sembrare invisibili. Perché?
Stavano andando a bere un tè, non c’era niente di male nell’andare a
bere un tè, specie con quel freddo. Il commissario le appoggiò con
delicatezza una mano sul gomito per spingerla ad attraversare la
strada e lei sussultò, non avrebbe voluto ma se ne accorsero
entrambi. Cosa voleva quel poliziotto? Sospettava di lei? Era una
tecnica per confonderla e farle dire qualcosa che altrimenti non
avrebbe detto? Voleva qualcosa da lei che non c’entrava niente con
l’indagine ed approfittava del proprio ruolo e della propria forza?
Invitava sempre le persone sospettate di un reato grave a bere un
tè, magari giudicando più vantaggiosa la morbidezza prima di
ricorrere agl’interrogatori ufficiali e alla paura? Intanto camminavano
in direzione della spiaggia; arrivarono in piazza Partigiani, il sole era
già tramontato dietro alle nuvole e faceva un freddo severo, un alito
ghiacciato che sapeva di mare. Strano quel mare, piatto, quasi senza
onde se non proprio sulla battigia, eppure minaccioso. La minaccia
era nel colore, cupo, come l’imbrunire di una notte lunga, e Svieta
sapeva che le sue notti sarebbero state lunghe. Non aveva ancora
avuto il coraggio di telefonare a casa e di raccontare a Evgenij
cos’era successo. Aveva sperato e forse non aveva ancora smesso, di
poterglielo raccontare al passato, come di una brutta avventura
scampata, ma era tutt’altro che sicura che le cose si sarebbero volte
al meglio per lei.
Anche i neuroni di Bartolomeo lavoravano veloci e stavano
cercando di trovare una risposta a quell’impulso poco meditato,
come del resto lo sono sempre gli impulsi, d’invitare quella donna a
bere il tè. Era la prima volta nella sua carriera che deragliava dalla
sua ortodossia sbirresca e forse non soltanto da quella. Quando
sospettava qualcuno di aver commesso un reato, non mostrava mai i
muscoli, aveva altre strategie per intimorire, per togliere certezze e
alla fine per spaventare. Era un maestro degli interrogatori ‘freddi’,
che sono un piatto spesso molto più indigesto di quelli caldi, con urli,
minacce e manate sulla scrivania. Ma uscire a prendere il tè non era
nessuna strategia, era un corteggiamento eh, cazzo, smettiamola di
contarci delle palle!
Ed era una cosa che non andava niente bene, né come poliziotto,
né come fidanzato di una donna intelligente e buona, e anche
carina. Il problema erano quegli occhi caucasico-baltici, la nota
esotica del taglio e la meraviglia del colore! Ma poi non era soltanto
questione di occhi, c’era anche tutto un seguito di cose che lo
turbavano: gli occhi erano stati la password che gli aveva aperto la
porticina segreta del cuore e adesso erano guai! Sarebbe stato
capace, alla bisogna, di metterle un bel paio di manette? Perché se
non ne fosse stato capace, sarebbe stato proprio un bel piciu e
quest’idea gli era insopportabile.
Ognuno dei due in silenzio, assorti com’erano nelle proprie seghe
mentali, approdarono finalmente in un piccolo caffè nel budello.
L’agonia durò ancora il tempo necessario alla cameriera per notarli e
andare a prendere le ordinazioni. A questo punto bisognava parlare.
“Secondo lei, chi era Ildebranda?”.
Svitlana emise un leggero sospiro di sollievo: quello lì non era un
terreno minato. Rimase ancora un attimo in silenzio a riordinare le
idee. Quando doveva dire qualcosa di difficile in italiano, aveva
sempre bisogno di pensarci un attimo su, di organizzare i pensieri in
maniera che le parole arrivassero da sole.
“Era una grande vecchia donna. Io la chiamavo zietta. Tiotia in
mia lingua. Aveva voluto lei, dopo che avevo spiegato che al mio
paese è il modo per chiamare una signora importante, più grande,
ma che anche si vuole bene. Ci ho impiegato più di un anno, ma poi
ho imparato a dare il tu, solo tra noi. Dicevo ‘zietta’ e davo del tu,
invece in mezzo ali altri la chiamavo signora e davo del lei e non
chiacchieravo mai”.
“Sì, ma lei com’era?”.
“Era buono carattere, ma faceva anche i capricci, come tutte le
donne ricche, anche quele che dicono che non l’importa di essere
ricche. Non era colpa sua, era abituata. Ma erano capricci piccoli,
anche divertenti. Cose piccole appunto, di mangiare, di come fare le
cose in casa, di pulizie o di vestire. In tre anni mi ha regalato vestiti
che non mi piacevano e non mi ascoltava se dicevo che mi piaceva
più l’altro, che costava meno soldi. Lei comprava per me il più caro
perché diceva che non mi osavo di volere quelo lì e facevo finta che
volevo l’altro, per non farla spendere troppi soldi…”. Tacque, facendo
oscillare la bustina nella teiera e le venne quasi da ridere, un riso
fragile e sbilenco che finì in un sorriso triste. “E poi mi faceva
impazzire quando voleva che spiegavo la chimica”.
“La chimica?”, domandò Bartolomeo fingendo una sorpresa che
però in parte c’era, perché non avrebbe mai immaginato che ad una
vecchia signora potesse piacere la chimica.
“Sì la chimica. Io sono dottore in chimica. Ero responsabile in una
fabbrica, le chiamate così, no? In una fabbrica grande, zavot, che
faceva cose di plastica per altre fabbriche. Io ero nel laboratorio,
facevo analisi dele nostre cose appena fatte, prima di vendere e
anche di materie prime. Poi dopo fine di soviet e indipendenza, tanta
crisi, niente soldi per li stipendi, sempre meno lavoro e io ho capito
che bisognava cambiare”.
“E la vecchia Peluffo voleva che le spiegasse la chimica?”.
“Sì ma non era facile, perché io ho studiata in russo, ancora in
tempi di soviet in scuola superiore e in università”.
“E allora come ha fatto?”.
“Ho pensato bene il problema e ho comprato un libro di chimica di
scuola per tecnici italiani e ho imparato parole lì: nomi di elementi di
sistema periodico di Mendeleev” che meraviglia, non lo aveva mai
sentito pronunciare così bene in vita sua! “protoni, elettroni,
neutroni, valenze, legami, acidi, anidridi, basi, PH, poi idrocarburi,
polimeri, tutte parole che servono, tutte parole di chimica”.
“E la vecchia capiva?”.
“Capire capiva, donna molto intelighente, ma si stufa presto. Dopo
tanta fatica mia, in quindici giorni finito amore di chimica”.
“E le chiedeva della sua vita?”.
“Oh, sì, ha voluto vedere le foto di Evgenij, di mia filia Irina, di mia
casa vicino a Rivne e sapere piccole cose di tutti i giorni. Però aveva
promesso che non diceva cose mie a nessuno. Lei era mia amica, io
parlava con lei di mie cose, ma solo con lei”.
C’erano un marito e una figlia. Lo sapeva già, glielo aveva già
detto e forse lui l’aveva anche letto da qualche parte, ma sentir
pronunciare i loro nomi da lei, fu come se avessero cominciato ad
esistere solo in quel momento.
“E di sé cosa raccontava?”.
“Oh, lì c’è di scrivere un romanzo!” e sorrise ancora in quella
maniera che sembrava una smorfietta vezzosa. “No, non pensi
dottore commissario che io rido di povera donna morta, no, è che
raccontava sua vita come un film e voleva farmi ridere. Diceva che
bisogna saper ridere anche dela morte. In fondo le sue ultime parole
a me: ‘stai zitta Svieta che sta per succedere un casino’, proprio la
notte che è morta, è capace che se c’è un di là per i morti, adesso
ride di sue stesse parole…”, bevve un sorso e poi riprese: “Ha
sempre giocato con l’amore, con li uomini, anche se forse uno, ma
era ancora ragazza giovane, sedici anni detto lei, lo ha amato così
forte, come s’innamorano i bambini, solo che è morto partizan? Si
dice così?”.
“Partigiano, quasi uguale. Vada avanti”.
“Dopo di quelo lì, che è morto in Piemonte, mi ricordo la sua
storia, ammazzato da SS, anche nel mio paese, storie che somiliano,
ha deciso che non voleva sposare nessuno. Per un po’ rimasta fedele
al ricordo, poi deciso che poteva divertirsi un po’, tanto che
aspettava di morire. E così avuto tanti amanti, era molto bela, ho
visto le foto, fatto viaggi. Avuto anche un filio, senza marito, ma
morto piccolo di malattia in gola, non ricordo il nome. Stata in
Argentina, a Parigi, avuto anche un uomo russo, non so il lavoro, che
stava a Genova per un periodo, durante li anni sessanta. Di sua
familia litigava con tutti. Albenga città piccola, tranquila, anche
adesso, ma quando Ilde era giovane ancora di più e lei faceva
scandali. Aveva letto tanti libri, fumava sigarette, guidava la
macchina: tutte cose che non andavano bene per contadini di
Albenga di cinquanta anni fa, giusto?”.
Eh, giusto? No, giusto no, ma inevitabile e gli vennero in mente i
portici di via Marengo, a Ceva, affollati dai fantasmi dei pettegolezzi
e delle meschinità reciproche…
“Quindi si potrebbe dire che foste amiche”.
“Be’ in un certo modo sì, anche se io sapevo che c’erano anche
regole diverse di amicizia”.
“In che senso?”.
“C’era anche rapporto di lavoro. Io lavavo, stiravo, cucinavo che
non è che sono tanto brava…”.
“Certo, la cucina italiana è complicata!”.
“Ma cosa vuol dire!”, primo momento di vera vivacità: il
risentimento! “Anche cucina ucraina è complicata, e molto buona.
Mai mangiato?”.
“Cucina ucraina? Nnno… no, devo dire di no”.
“Tante cose buone. Chissà, magari un giorno…”, si perse a
tormentare il fondo della tazza con il cucchiaino. “Comunque è che io
non cucinavo nemmeno al mio paese. Io facevo lavoro difficile in
laboratorio, mezzogiorno mangiavo in mensa di fabbrica. La sera un
po’ Evgenij, un po’ io si faceva qualcosa. Mia madre e poi Babulka
cucinava mooolto bene. Per feste sempre da loro, in campagna.
Faceva le conserve con i funghi, anche i ravioli, diversi di Italia e i
varenyky per merenda, buoni! E anche i pampushki, sempre per noi
bambini, con la crema o un po’ di marmelata…”. Qualcosa le fece
male e cambiò subito discorso.
“Certo, rapporto di lavoro importante, ma anche amiche”.
Era ora di andare via, fuori c’era buio, lui però avrebbe voluto
stare lì e farla parlare per ore, non del delitto, non di quella notte,
non dei segreti legati a quella morte, ma di lei, di quand’era
bambina, di quel mondo sconosciuto che ci arriva solo con i
telegiornali e la faccia della Timoshenko con la sua improbabile
treccia arrotolata in testa come una corona.
“Svolge qualche lavoro in questi giorni?”.
“Non ancora, ho qualche piccolissimo risparmio, ma non dura.
Devo pagare mia parte a casa di Tamara. Pensavo di andare a
chiedere per pulizie al Don Bosco, il colegio, mi hanno detto che
cercavano”.
“Buona idea, comunque m’informerò anch’io”.
“Oh grazie dottore commissario!”, e sentì un’incrinatura di pianto
ricacciata in gola. Direttore di laboratorio chimico, posto di prestigio
più che di guadagno, ma in Unione Sovietica con il prestigio si
curavano tante magagne. Avrebbe voluto che gli parlasse della neve.
“Ci vedremo ancora”, le disse sul marciapiede davanti al
commissariato, “non solo per la mia indagine, è ovvio, ma perché
non c’è stato il tempo per parlarmi della nostalgia della neve”.
Lei lo guardò stupita, stringendo il colletto del cappottino.
“Perché vuole sapere?”.
“Perché anch’io ho tanta nostalgia della neve”, e la lasciò lì, basita,
in mezzo a persone infreddolite che avevano tutte un posto dove
andare o dove tornare.
Continuava a soffiare un feroce vento di nord est, un vento che
uno o due giorni prima, non lo avrebbe mai saputo con certezza,
forse aveva sfiorato il tetto della casa di Svieta, in un mondo
lontanissimo.
Si diresse verso il commissariato con la testa incassata tra le spalle
per proteggersi dal freddo e non vide Svitlana incamminarsi verso il
palazzo del comune, non la vide sussultare al passaggio di un’auto
elegante che sfrecciava in direzione di Albenga, mentre lei si trovava
confusa tra le persone che aspettavano alla fermata dell’autobus. Ma
poco dopo, pur senza aver assistito alla scena, scoprì una delle
innumerevoli tessere mancanti nel ritratto di quella donna.
Ravera entrò con la sua faccia color terracotta, segno postumo ed
inequivocabile di vacanza conclusa e gli comunicò che lo volevano gli
uomini delle intercettazioni.
“Ha appena fatto una telefonata con il suo cellulare, ma proprio
due minuti fa”, gli comunicò Martelli appena fu entrato, “Credo che le
interesserà molto il contenuto”.
“Quindi ha parlato in italiano?”.
“Sì, con un signore italianissimo. Ascolti”.
‘Ciao Sergio, sono io’.
‘Cosa vuoi? Ti ho già detto di non chiamarmi mai, potrei essere in
compagnia, sul lavoro o a casa!’.
‘Ma io lo sapevo che in questo momento non disturbavo’.
‘E come facevi a saperlo: hai la sfera di cristallo, adesso?’.
‘Che cosa?’.
‘Lascia perdere. Piuttosto dimmi cosa volevi’.
‘Ho chiamato solo perché ti ho visto in macchina, solo. Mi sei
passato davanti. Non mi hai visto?’.
‘No, scusa, e dov’eri?’.
‘Sul marciapiedi davanti alla fermata dell’autobus, ma non ha
importanza…’.
‘Allora, vuoi dirmi per piacere cosa vuoi?’.
‘Niente di preciso, solo salutarti, sono parecchi giorni che non ti
sento. Mi domandavo se era successo qualcosa…’.
‘Ah, ti domandavi, eh! E non lo sai cos’è successo?’.
‘Non capisco…’.
‘È morta la Peluffo, la vecchia che tenevi tu, sui giornali si parla di
sospetto omicidio, che poi magari è solo che dalla procura non
vogliono dirlo, ma lo sanno benissimo che è stata ammazzata, e tu
mi chiedi se è successo qualcosa? ma sei rincoglionita?’.
‘Sì, va bene, ma…’.
‘Non va bene per niente!’.
‘Sì, ma con noi cosa c’entra?’.
‘C’entra, c’entra. Io credevo che tu fossi abbastanza intelligente da
arrivarci da sola, ma mi sbagliavo e allora visto che non hai capito
una mazza, te lo spiego: non cercarmi più, è finita, capito, finita, fi-
ni-ta, chiaro. Io ho una famiglia, una moglie meravigliosa, due
ragazzi splendidi, non voglio rischiare niente di tutto questo per una
troia dell’est! Ti sei messa nei casini e adesso ti arrangi, chiaro? Da
chi l’hai fatta ammazzare, da qualche zingaro, da qualche
delinquente del tuo paese? Se mi chiami ancora giuro che te la
faccio pagare’. E la telefonata finiva così.
“Chi è questo gentiluomo?”, domandò Bartolomeo dopo aver
ascoltato la registrazione.
“È un’utenza con contratto e non con scheda prepagata. È
intestato allo studio Porrini e Gotta, si occupano di amministrazioni
condominiali, affitti di case estive, e assicurazioni. Porrini si chiama
Sergio, potrebbe essere lui. In giro non sono molto ben visti”.
“E tu come lo sai?”.
“Perché il palazzo dove abito, in via Trieste ad Albenga, per un po’
era stato amministrato da loro, ma facevano un sacco di casini e le
rate condominiali non erano mai state così alte. C’era stata una
specie d’insurrezione, ci eravamo rivolti ad un legale e con molta
fatica ce li eravamo tolti dalle balle. Certo che s’è trovata un bello
stronzo!”. L’altro sovrintendente fece cenno con una mano senza
togliersi le cuffie: stava nuovamente telefonando a qualcuno, ma
questa volta la conversazione era in ostrogoto, pertanto potevano
risparmiarsi la fatica di un ascolto concentrato. L’utenza era quella di
Roksolana Khryuchenko. Bisognava fare due chiacchiere con questa
persona. Le parole erano ovviamente oscure, ma il tono della
Lysenko era accorato, piangeva disperatamente e faceva fatica a
parlare. l’altra le faceva ripetere le frasi, poi quando il resoconto fu
terminato, toccò all’amica iniziare una specie d’incomprensibile
requisitoria da pubblico ministero, il cui contenuto era abbastanza
facile da indovinare e doveva essere una cosa del tipo: ‘hai visto? Te
l’avevo detto che era un bastardo!’.
“Da dove sta parlando la Khryuchenko?”.
“Da Ceriale, lavora nel bar di sua madre, un posto tranquillo, non
ci sono mai stati casini, frequentato da cerialesi per la colazione, ma
anche da tanti ucraini”.
“Dov’è?”.
“Sul lungo mare, un cento metri dopo il Bastione, in direzione di
Loano”.
“Ok, vado adesso”.
“Adesso?”.
“Perché, non posso?”, fece Bartolomeo con faccia interrogativa,
davanti agli sguardi sorpresi dei due poliziotti.
“Come si chiama il bar?”, chiese ancora senz’aspettarsi una
risposta alla sua domanda precedente.
“Taras”.
“Benissimo. Mi fa venire in mente Gogol”.
“Gogol?”.
“Sì, uno scrittore di quelle parti che ha scritto, o meglio riscritto
una leggenda popolare cosacca che aveva per protagonista un certo
Taras Bulba, che vuol dire più o meno Taras Patata”.
Davanti a tanta cultura i due sbirri ammutolirono e si guardarono
in faccia. Perché un interesse così acuto verso quella terra remota da
parte del loro dirigente?
Fuori continuava ad imperversare il Gregà, ormai era quasi buio,
erano da poco passate le sei. Mentre faceva scaldare la sua Fiat
diesel, si accorse che aveva una minuscola puntura, un fastidietto tra
pancia e cuore: che fosse delusione?
Ma boia faus, lui era un uomo di mondo, non era mica rimasto con
il cervello sintonizzato sulla frequenza delle beghine di Ceva, cazzo!
era più che giusto che una donna sola da tanto tempo, con il marito
lontanissimo, il quale probabilmente a sua volta cercava rimedi alla
solitudine, si fosse trovata una relazione in Italia. Certo che se non si
fosse trattato di uno stronzo, magari sarebbe stato meglio.
Il bar Taras era grazioso, piccolo, poco più di una latteria, con
soltanto tre tavolini all’interno, anche se durante la bella stagione
doveva godere di un ampio dehor. Bartolomeo entrò e la
conversazione tra due donne dietro il banco e due sedute
s’interruppe di colpo; riuscì ad ascoltarne quel tanto sufficiente a
capire che doveva trattarsi di russo o ucraino, che per un occidentale
sono indistinguibili. Lo guardarono, lui sorrise. La signora più anziana
che poteva essere la madre di quella più giovane, considerando
l’evidente somiglianza, sorrise a sua volta, ma con cautela. La
ragazza di età tra i trenta e qualcosa di più, lo guardò restando seria.
Roksolana doveva essere lei. Rebaudengo non voleva comportarsi da
sbirro e mettersi a fare domande con piglio poliziesco. Non gli
interessava spaventare quelle donne, non perché gli ispirassero una
particolare simpatia, ma perché ci sono situazioni in cui la paura non
scioglie la lingua, anzi, l’arrotola. Ordinò un orzo in tazza grande e
mentre lo chiedeva ebbe subito il dubbio che la bevanda non fosse
conosciuta, invece la signora ubbidì senza stupirsi. Quella che poteva
essere la figlia, data la somiglianza, lo guardava con una fissità
ostinata, come se avesse voluto entrargli negli occhi. La madre era di
spalle e non notava. L’orzo navigava nella tazza da tè e mandava
vapori vulcanici, lui odiava bruciarsi labbra e lingua. Così, per far
passare qualche minuto, soffiava per rinfrescare la bevanda e
guardava le pareti. Erano affrescate in modo naif ma non privo di
una certa maestria, con disegni semplici, vivacemente colorati che
ritraevano un cosacco da cartoni animati, con baffi nerissimi e lungo
ciuffo che ondeggiava sulla zucca pelata, insieme ad altri due
cosacchi più piccoli, i quali inevitabilmente gli ricordarono proprio la
storia di Taras Bulba e dei suoi due figli. Ma non aveva voglia
d’importunare facendo domande da turista. Se ne rimase zitto
guardando ancora una vetrina ricca di salumi, strane salse e
sottaceti per far panini roventi, giusto buoni per affrontare la steppa.
Pagò e con un cenno garbato del capo salutò le due donne al banco
e poi quelle sedute, le quali in tutto quel frattempo non avevano
smesso un istante di osservarlo, avendo intuito il suo mestiere,
grazie ad una consolidata abitudine alla paura. Vide che sul tavolino
avevano i resti di un caffè e due bicchieretti minuscoli nei quali non
ci voleva molta fantasia ad immaginare un dito avanzato di vodka.
Se fosse stato necessario avrebbe fatto il poliziotto più avanti, quello
era stato poco più che un esperimento, voleva vedere se avrebbe
funzionato. E funzionò. Mentre cercava il telecomando per azionare
l’apertura della portiera del suo cassone sabaudo, sentì un lieve
colpo di tosse alle sue spalle. Era Roksolana che lo aveva raggiunto,
senza cappotto e si stringeva una maglia striminzita intorno alla vita.
“Mi scusi, signore”.
“Mi dica”, e le sorrise con un sorriso il più rassicurante possibile.
“Io credo di sapere chi è lei, ma non volio sbaliare…”.
“Provi”.
“Lei è di polizia, vero?”.
“Vero. Ha indovinato. Allora saprà anche perché sono qui”.
“Penso di sì. Lei è qui per Svetulja, vero?”.
“Vero”.
“Mi aveva avvertito che sarebbe venuto qualcuno…”.
“Posso invitarla a salire sulla mia macchina, così almeno non
stiamo al freddo?”.
Lei fece di sì con il capo e stranamente rise. Quando furono
nell’abitacolo le domandò il perché.
“Qui è diverso, ma mi sono venute in mente storie del mio paese,
storie di qualche anno fa, che uno non saliva, mica matto, a
chiacchierare con polizia in automobile… Poteva non tornare, ma è
cosa di anni fa… Adesso non più… adesso meno…”.
“Stia tranquilla: cinque minuti e se ne può tornare al bar. C’è
qualcosa che mi deve dire?”.
“Sì, anche se ho paura che poi Svieta non mi parla più”.
“Perché?”.
“Perché non voleva che io parlo con lei di questo, ma io non posso
fare diverso”.
“Allora, coraggio, cos’è che mi vuole dire?”.
“La notte che è morta zietta, Svieta non era a casa. Ecco, l’ho
detto”.
“Se n’era andata?”, fece Bartolomeo con espressione il più stupita
possibile. Il sospetto che la badante fosse altrove quella notte,
dettato soprattutto dal bisogno di crederla innocente, forse non era
più soltanto un sospetto e questa possibilità lo rendeva tanto felice,
cosa poco professionale, ma umana.
“Sì, Svietulja aveva un amico, hanno litigato proprio oggi e quella
notte lei è stata con lui”.
“E la vecchietta?”.
“La vecchietta le diceva: ‘vai filia, vai, che non si resta giovani per
sempre… Eughenio’ lei era capace di dire Evgenij ‘non lo sa e
quando torni sarà di nuovo tutto a posto. Tu non fai del male e io
posso stare una notte da sola, no problema, va filia, vai’. Ecco cosa
le diceva”.
“Accadeva spesso?”, fastidietto tra cuore e pancia.
“No, di notte quasi mai, forse due o tre volte in tutta storia. Di
pomeriggio qualche volta”.
“E lei sa… dove?”.
“Facile per lui, aveva tante chiavi di case vuote”.
“E quella notte ha dormito là?”.
“Sì, fino ale sei. Lui aveva raccontato di viaggio di lavoro a Milano
con sua molie, ed era vero, solo che ci aveva attaccato un giorno in
più”.
“Quindi lui potrebbe testimoniare che lei quella notte non era in
casa?”.
“Certo, ma non lo farà mai perché è un gran bastardo!”.
“La vedremo!”.
Quando si salutarono, dopo che Bartolomeo le ebbe consegnato
un suo biglietto con tutti i recapiti, il vento di nord est non era
ancora calato.
Capitolo sei: nel quale alcune cose si definiscono,
ma i dubbi restano
Se l’era fatto raccontare minuto per minuto il prelievo di Sergio
Porrini nel suo ufficio situato in piazza del Popolo ad Albenga. Certo,
quand’era uscito dallo studio aveva ostentato grande disinvoltura,
pur camminando con un poliziotto davanti e uno dietro, perché la
gente che abitava lo stabile era abituata a vederlo in compagnia di
estranei, era il suo lavoro. Erano andati Ravera e Negri, si trattava di
un suggerimento o poco di più, ma se lui avesse campato scuse o
assunto un atteggiamento ostile, lo avrebbero informato che l’invito
successivo sarebbe arrivato per posta, ma non più in ufficio. Se non
fosse bastato nemmeno questo rimedio, eh be’, si sarebbe visto
arrivare a casa, in un orario in cui la famigliola fosse stata riunita,
due agenti in divisa, con un mandato del magistrato. Porrini, che era
stronzo ma non scemo, aveva afferrato di mala grazia la sua giacca
firmata da chissà chi e li aveva seguiti. E adesso Bartolomeo ce lo
aveva davanti questo campione di charme e di cavalleria. Recitava la
parte del vincente, di quello che non ha paura, che supera qualsiasi
avversità, che ottiene sempre il massimo risultato, anche quando
tutto sembra complottare contro di lui, e lo faceva nell’unico modo
che conosceva: quello televisivo. Stava seduto a gambe larghe, con il
braccio appoggiato allo schienale della seggiola parallela alla sua, di
fronte a quella del commissario, guardandosi intorno con aria
scocciata, aspettando impaziente il momento in cui quegli idioti gli
avrebbero chiesto scusa del disturbo e lo avrebbero fatto andare via
spolverandogli i risvolti della giacca. Bartolomeo lo guardava senza
parlare, in genere funzionava, anche se il tipo era un osso duro, non
tanto di carattere quanto di comprendonio. Faticava a capire che il
coltello dalla parte del manico ce l’aveva la polizia e non lui, anche
se non aveva commesso nessun reato.
Ad un certo punto Porrini, esasperato dal silenzio, perse il suo
aplomb e sbottò: “Di cosa mi accusate? C’entra quella troia vero?
Non mi risulta che sia un reato sbattersi una bagascia russa!”.
“Non è un reato, no. A noi risulta che la signora Lysenko abbia
trascorso con lei la notte in cui la sua datrice di lavoro è stata
uccisa”.
“Non è vero! Ve l’ha detto lei? Non crederete a una bagascia
russa?”.
“A parte il fatto che la nostra opinione sulla signora Lysenko è
differente dalla sua, non ce lo ha detto lei e noi crediamo alla
persona che ce lo ha detto. Lei è libero di non testimoniare, siamo in
un paese democratico, è liberissimo di lasciare in gravi difficoltà una
persona che non le ha mai fatto niente di male, ci mancherebbe,
liberissimo. Sarebbe una faccenda che riguarderebbe soprattutto la
sua coscienza, anche se nel suo caso parlare di coscienza, mah…”.
“E allora cosa volete da me?”.
Forse Bartolomeo, in un’altra situazione, non si sarebbe ostinato in
quel modo allo scopo di liberare un possibile colpevole dall’ombra del
sospetto, attraverso una testimonianza come minimo poco
spontanea, ma non aveva voglia di scovolinare il proprio
subcosciente per scoprire cosa differenziasse quella situazione da
qualsiasi altra. Meglio andare avanti. Così riprese il suo tono algido,
sotto lo sguardo esterrefatto del povero stronzo, un po’ meno sicuro
di sé.
“Rovinarla. Noi riteniamo che la signora Lysenko sia innocente”
bluff, non era niente di più che una speranza, magari forte dopo le
parole di Roksolana, ma ancora ben lontana dall’essere certezza “e lo
sa anche lei, perché la notte del delitto vi trovavate insieme in un
appartamento, l’indirizzo del quale ci indicherà con precisione, ma
questo dopo. Siccome a me gli individui come lei, e sono tanti mi
creda, disgustano più di un escremento di cane con la colite, ho
preso l’abitudine nel mio lavoro, di tormentarli fino a quando non
ottengo la verità, fino alle lacrime e oltre se necessario, senza
sfiorarli però, perché noi siamo signori. Le spiego come
procederemo: la sua famiglia inevitabilmente finirà con l’essere
informata della sua vicenda, del suo comportamento reticente,
ovviamente la Guardia di Finanza offrirà con gioia la sua piena
collaborazione per controllare la sua correttezza fiscale presente e
anche passata, in un passato molto remoto… E si sa, scavando nelle
cose vecchie capita di trovare piccole irregolarità, oppure di
disturbare persone che sono state in affari con lei, magari persone
irritabili… A scuola i suoi figli saranno presi in giro forse più per avere
un padre vigliacco che non per la sua colpa di aver avuto una
relazione con una signora straniera. Vado avanti?”. Si piaceva da
matti quando riusciva a demolire la resistenza degli sbruffoni senza
dover alzare la voce di un tono.
Porrini aveva serrato le ginocchia, aveva tolto il braccio dallo
schienale della poltrona accanto alla sua, aveva cambiato
espressione e gli tremava il mento, intanto che minuscole gocce di
sudore untuoso s’erano diffuse sulla pelle sgranata di quello che era
stato un adolescente acneico.
“Ravera, verbalizza la testimonianza del signore, fallo firmare e
quando avete finito chiamami. me ne vado giù da Martelli, c’è puzza
qui dentro, non trovi? Apri le finestre, pazienza se fuori fa freddo”.
E se ne andò di sotto, nella stanza della scientifica. Gli era venuta
una voglia, anche se avrebbe potuto legittimamente tornarsene a
casa. Era da quell’infame giovedì mattina, ed era passata quasi una
settimana, che faceva più ore dell’orologio, che non si concedeva
qualche momento di relax e soprattutto che dedicava pochissimo
tempo alla sua fidanzata. Il fatto era che meno lei si lamentava e lei
si lamentava pochissimo, quasi niente, più lui assecondava i propri
bisogni, i quali erano, d’accordo legati al lavoro, ma si trasformavano
in assenze, sempre e comunque.
C’era una cosa che lo tormentava, sapeva che riguardava la scena
del crimine, la camera da letto di Ildebranda, qualcosa che non gli
era piaciuto, o meglio non lo aveva convinto, – in genere le scene
del crimine non piacciono mai – solo che adesso non si ricordava
cosa riguardasse, o forse non lo aveva mai saputo. La luce nell’ufficio
di Martelli era spenta e lui non c’era, d’altronde erano quasi le sette
di sera: bel casino, avrebbe dovuto cercarsi tutto da solo. Tutto
cosa? Le fotografie della scena del delitto, pezzo per pezzo. Ogni
tessera della storia doveva venir collocata nel giusto ordine, l’esito di
ogni azione, di ogni gesto di quella notte era registrato nelle foto, il
difficile era ricostruire una sequenza inversa che – come una moviola
magica fatta girare al contrario – si concludesse con l’omicidio e un
bel primo piano sulla faccia dell’assassino.
C’era qualcosa che aveva sentito o visto che si collegava con
qualcos’altro che aveva sentito o visto, oppure no, magari era
soltanto nella sua testa? Per avere delle idee così è meglio non
averne, perché poi sono proprio queste sensazioni, non sempre
rispondenti ad un fatto reale, che t’impediscono di ‘vedere’ davvero
quello che bisogna vedere. Seguire un’idea, afferrarla e restarci
attaccati come ad un salvagente, rifiutandosi di accettare che i fatti
vadano in un’altra direzione, è un problema frequente per un
poliziotto. L’inghippo ha anche un nome tecnico: si chiama
pomposamente ‘dissonanza cognitiva’, che in parole povere significa
rifiutare di vedere un elemento nuovo che non s’incastra con le
ipotesi costruite fino a quel momento. Bisognerebbe smontare e
ricostruire tutto in modo che il nuovo particolare trovi la sua
posizione precisa nel disegno. Terribile! E allora cosa fa il nostro
cervello?: semplice, guarda da un’altra parte, non vede il particolare!
Bartolomeo però si trovava ad uno stadio ancora precedente: non
vedeva qualcosa ma non aveva nemmeno il disegno generale! Gli
scienziati di Quantico e dintorni avevano dato un nome anche a
questo? Che parola meravigliosa aveva inventato un suo collega
letterario di tanti anni fa: lo ‘gnommero’, il gomitolo! Si mise a
cercare la cartella che conteneva tutte le fotografie del caso. Non
doveva di sicuro essere sullo scaffale, era roba fresca, arrivata dal
laboratorio di sviluppo fotografico della scientifica di Genova il giorno
prima o al massimo due giorni avanti. E infatti era sulla scrivania di
Martelli, ben in vista sotto la dicitura ‘caso Peluffo’ e lui ci aveva
girato intorno senza vederla. Stava per aprirla quando gli suonò il
cellulare nella tasca dei pantaloni, facendogli vibrare un testicolo. Era
Ardelia: oh cazzo, s’erano mica messi d’accordo per qualcosa e lui
non se ne ricordava più?
“Morto qualcun altro?”.
“No al momento no”.
“La bella badante non è scappata?”.
“Non ci risulta”.
“Le indagini possono aspettare fino a domani?”.
“Potrei dire di no, ma sarebbe un eccesso di zelo”.
“Bene, allora questa sera sei precettato. Si cena fuori, si dorme da
me o da te non fa differenza, magari stiamo un po’ ciccia a ciccia che
aiuta, cosa ne dici?”.
“Messa così sembrerebbe meglio che mangiare un panino della
Coop e bere una birra dalla lattina guardando la tv. Perché tutto
questo interesse nei miei confronti?”.
“Perché oggi ho sbattuto dentro ad un mio amico, non con la
macchina, tranquillo, ero a piedi sul viale Martiri. Il tipo ha un
ristorante dove non vado da una vita, mica solo tu conosci i posti
buoni, e mi ha detto le solite cose, tipo: tutto bene? Quant’è che non
ti fai vedere! Eh certo, adesso sei diventata famosa come Kay
Scarpetta! Io gli chiedo chi è che ha un nome così cretino e lui mi
dice che è un personaggio della Cornwell e io rispondo chi è e lui
dice non fa niente, poi aggiunge, eh certo, adesso con il fidanzato
importante chissà dove andrete a mangiare, io ribatto che lui lo sa
che a me piace cucinare e adesso anche tu stai imparando, lui dice
che però non è giusto, potremmo andare una volta da lui, suoi ospiti
aggiunge, però di sera feriale, così si chiacchiera un po’, io dico non
se ne parla nemmeno, se vengo paghiamo, lui dice, vedremo e alla
fine ci siamo messi d’accordo per stasera. Ti va?”.
“E dove sarebbe ’sto posto?”.
“A Castelbianco”.
“Castelbianco?”.
“Allora, usiamo la provincia di Cuneo che, come è universalmente
riconosciuto è caput mundi: hai presente la strada che va al colle di
Garessio?”.
“Certo!”.
“Ok. Invece di andare verso Zuccarello e d’inerpicarti su per quel
sentiero da capre che per anni hanno chiamato statale, giri a
sinistra, proprio dal distributore e vai per un cinque o sei chilometri.
Lì c’è Castelbianco”.
“Ah sì, sì, ho capito dov’è… Ma scusa, tu che non sei di qui, come
hai fatto a fare amicizia con questo tipo? tra l’altro avrà anche un
nome, o no?”.
“Sì, si chiama Fausto, è forte, un bel miscuglio tra carattere ligure
selvatico e calore emiliano… Ah, come l’ho conosciuto? Per caso, una
volta che mi avevano chiamato per una faccenda. Lui era uno di
quelli che avevano tirato giù un vecchietto triste che s’era impiccato
ad un trave della stalla”.
“Era suo parente?”.
“No, no, lui era poco lontano a fresare un terreno e aveva sentito
la sorella del vecchietto gridare. Pensa che era ancora vivo, ma è
morto pochi minuti dopo che l’avevano tirato giù”.
“E di cosa?”.
“D’infarto. Si vede che voleva proprio morire, pover’ometto!”.
“Certo che tu la gente la conosci sempre in circostanze allegre!”.
“Be’, le tue son mica tanto meglio! Allora, la tiriamo avanti ancora
o muovi il culo e vai a casa a prepararti? perché mi ci gioco le palle
che sei ancora in ufficio”.
“Va bene, va bene, vado a casa a farmi bello… Ma senti, come si
mangia lì?”.
“Ti sembro una che ti porta a mangiare al cinese?”.
“No”.
“E allora piantala”.
Pochi secondi dopo che Bartolomeo aveva avviato il suo
parallelepipedo con le ruote, Porrini, recuperata la tracotanza,
dismessa solo il tempo della paura, si allontanava stizzito dal
commissariato, e Ravera, pur rispettoso della sua caviglia fracassata
l’anno precedente, scendeva le scale con impeto per dire una cosa
importante, ma scopriva che il commissario era già andato via.
Avrebbe voluto dirgli che l’alibi della bella Svitlana funzionava solo a
metà, perché all’una e mezzo, in seguito ad un battibecco, il tipo
raffinato aveva lasciato l’appartamento e se n’era tornato a casa sua,
simulando con la sua mogliettina un amoroso rientro anticipato.
Quindi non poteva testimoniare a che ora la Lysenko avesse lasciato
l’alloggio. L’alibi reggeva dalle dieci di sera fino all’una e mezzo. A tal
proposito il Porrini era stato irremovibile, il che induceva a credere
che fosse la verità, visto che mentendo su questo punto non ne
avrebbe tratto comunque nessun vantaggio. Ravera rientrò
infreddolito in ufficio e giudicò superfluo telefonare a Rebaudengo.
Non era una cosa di fondamentale importanza e avrebbe potuto
dirglielo il mattino seguente.
Mentre guidava verso Albenga il commissario pensava a tre cose
contemporaneamente.
Primo pensiero, che non era proprio un pensiero, piuttosto una
sensazione: ammirava l’intelligenza e la saggezza di Ardelia che,
sicuramente esasperata dalle sue assenze aveva organizzato un
recupero strategico. Consapevole che quella che lei stessa chiamava
‘maneggia’ – che in ligure non vuol dire solo maniglia in tutti
significati materiali, simbolici e clientelari, ma anche rottura di palle
d’impronta squisitamente femminile con: recriminazioni,
rinfacciamenti, lacrime e minacce – sarebbe stata in quel momento
un atto pressoché suicida, aveva optato per una lusinga
gastronomico-amorosa la cui efficacia è incontestabile.
Secondo pensiero: cosa diavolo era quell’elemento volatile, quella
percezione di ripetizione di qualcosa che gli ingarbugliava il cervello
senza rivelare l’inizio del filo?
Terzo pensiero, o meglio più che un pensiero anche questa era
una sensazione: gli mancava Svitlana, che per lui continuava ad
essere Svetlana, e questa non era una bella cosa, non per uno che
ha speso una barcata di soldi in analisi e dovrebbe essere diventato
definitivamente adulto.
Decise di rimandare ad altro momento masturbazioni mentali che
non lo avrebbero portato da nessuna parte. L’analisi, se non altro, gli
era servita a saper aspettare che le emozioni assumessero contorni
più definiti, come fossero state bolle d’aria che risalivano da acque
profonde, prima di cercare di etichettarle e di sforzarsi di trovar loro
una collocazione tra le cose buone o cattive. Si concentrò a pensare
a cos’avrebbe indossato dopo la doccia, evento prossimo al dramma,
perché quasi sempre il risultato della sua vestizione, per lui
incontestabilmente indovinato, risvegliava sorrisi non sempre
benevoli nelle signore.
Due squilli sul cellulare lo avvertirono che la sua bella era già
arrivata nel piazzale davanti al suo portone. Aveva tutto, chiavi,
portafoglio, telefonino, fazzolettini di carta per un naso sempre
inquieto, e s’era perfino ricordato di spruzzarsi un po’ dell’acqua di
colonia che gli aveva regalato lei per il suo compleanno, una roba da
fotomodello milanese che non lo convinceva mica tanto. Al posto di
quel profumo, che doveva essere costato una schioppettata, avrebbe
di sicuro preferito un barattolo di porcini sott’olio. però aveva scelto
la via del silenzio; si profumava e taceva.
All’inizio dell’anno era accaduto un fatto assolutamente
straordinario: Ardelia aveva cambiato auto, aveva abbandonato per
sempre la suo Volvo d’epoca vichinga per sostituirla con un’altra
station wagon, una Mercedes lunga come un vagone ferroviario. A
lei piacevano le macchine grandi, le davano sicurezza, diceva sempre
che le sarebbe piaciuto un fuoristrada di quelli veri, non i suv da
fighetti, solo che non avrebbe avuto il tempo di gustarselo.
Anche lei si era tirata a lucido e quando entrambi furono
nell’abitacolo, lo scontro tra i due profumi si poteva quasi sentire con
le orecchie oltre che con il naso, una specie di raschio d’unghia sulla
lavagna, ma dopo un po’ si abituarono. Lei guidava rapida e sicura,
era una di quelle cose, come frugare nei cadaveri, che le venivano
bene, un dono naturale. In un attimo furono fuori Albenga.
“Sei tanto incasinato con la storia della vecchietta, vero? Sai, per
quando mi compete, l’ho già detto a Bottini, può dare il consenso
alle esequie. Non c’era molto da studiarci su: le hanno messo
qualcosa sulla faccia e buonasera. Secondo te è stata la badante?”, e
senza aspettare la risposta: “Una volta si diceva che era stato il
maggiordomo, se Agatha Christie scrivesse i suoi gialli adesso, come
sospettata ideale ci sbatterebbe la badante, sicuro! Dimmi un po’,
che tipo è quella lì? Ha l’aria da gatta morta, con quegli occhi obliqui,
così ambigui! Brrr, mi mette i brividi!”.
Svitlana non piaceva ad Ardelia!
I sistemi di allarme di Bartolomeo si accesero tutti
contemporaneamente. Dopo un esordio minimalista, solita roba tipo:
‘come stai’, oppure ‘che settimana da cani’, subito, secca, la badante!
Oddio, c’era da dire anche senza enfasi, senz’aria sospettosa, così,
come se fosse stato un parlare del più e del meno. Le ipotesi erano
due: o Ardelia era lontana mille miglia dal timore che l’innegabile
charme della straniera avesse aperto un’impercettibile fessura nella
corazza del poliziotto, oppure sospettava eccome e aveva scelto per
lui un percorso di tranelli. Meglio tenere attivi tutti i recettori di
pericolo, tutte le invisibili antenne che sapeva usare così bene nel
suo lavoro.
“Perché ‘i brividi’?”.
“Mah, sarà che la vecchietta ci ha lasciato le penne, sarà che la
difficoltà della lingua crea sempre delle correnti di diffidenza, devo
dirti che quella donna non mi piace… Non sono gelosa sai, non è
nella mia natura, a parte che poi non servirebbe a niente. No, è
proprio lei che mi dà ansia, non so perché, l’avrò vista si e no per
due minuti di fila… Difficile che una persona mi faccia un effetto così
marcato, però con lei è stato così, subito”, e senza dargli la
possibilità d’inserirsi nel monologo, “e non posso neanche dire di
aver notato qualcosa di preciso che mi desse fastidio, così, una roba
epidermica… E a te che effetto fa?”. Parlava tranquilla, guardando il
grosso disco rosso del semaforo che precede, per chi arriva dalla
costa, il raccordo autostradale e aspettava il verde per riprendere la
guida. A Leca, una frazione di Albenga di case assiepate lungo la
stretta via che una volta portava in Piemonte, il campanile segnava
le otto e mezzo. Lui le rispose con una domanda che non c’entrava
niente.
“Per che ora hai prenotato dal tuo amico?”.
“Per le nove”.
“Ma non sarà un po’ tardi? Nell’entroterra non fanno mica gli orari
dei locali sul mare!”.
“Ma dove credi che ti stia portando, in una trattoria con le tovaglie
a quadretti, il vino servito sfuso a mezzi litri, i vecchietti che giocano
a carte e la televisione in bianco e nero in un angolo?”.
“Non credere di aver detto un’assurdità, a Ceva e dintorni ce ne
sono ancora, ma a parte questo… Non so dove mi stai portando. non
prendi l’autostrada, giusto?”.
“Non ti ricordi che ti ho spiegato: Cisano, la strada per Garessio,
giri a sinistra…? Ma sei stordito!”.
“Ah sì, sì, scusa, mi ricordo, adesso mi ricordo tutto: Castelbianco,
andiamo a Castelbianco, adesso mi ricordo”.
“Però non mi hai ancora risposto: allora?”. Verde, e ci cacciò una
prima e subito una seconda che fecero sudare i pistoni della
Mercedes.
“Allora cosa?”.
“Allora: a te che effetto fa la badante che viene dal freddo?”.
Finse di riflettere intanto che dietro al finestrino scorrevano i neon
di centri commerciali ancora aperti a quell’ora e rare luci di case
spantegate nella campagna buia.
“Nessuno. Non mi fa nessun effetto. Cosa vuoi, con il mio lavoro
ho conosciuto gente regolare e gente strampalata, anche gente
molto peggio che strampalata. Ho imparato a non fissarmi sulle
impressioni, a non esprimere giudizi su persone che poi magari si
rivelano diverse da quel che credevo…”.
“E va bene la cautela amore santo, ma ci avrai parlato, no? È
ignorante, che lavoro faceva al suo paese, ti sembra intelligente,
insomma, qualcosa… Non mi piace, ma a modo suo è affascinante.
Avrai qualche sensazione, no?”.
“In quel senso lì?”.
“E in quale sennò?”.
Stavano arrivando a Cisano, come al solito tirava vento di nord est.
Qualche tempo prima c’era stato un bel morto nell’orto di casa a
Cisano. Era stato l’esordio di Rebaudengo in Liguria e dopo quel
caso, non aveva più conosciuto un periodo di tranquillità che fosse
durato più di venti giorni.
“Allora, cosa ti racconto, vediamo… È sposata, ha una figlia grande
che studia all’università di Kiev, un marito che è rimasto in Ucraina e
fa l’insegnante se non ricordo male. Lei è laureata in chimica…”.
“Cosa? Quella lì laureata in chimica?”.
“Ma guarda che non sono mica analfabete, o per lo meno, molte
avevano un lavoro qualificato prima che al loro paese andasse tutto
a rotoli, specialmente quelle non più giovani. Sì, Svetlana Lysenko
era direttore di laboratorio in un’azienda chimica che produceva
materie plastiche, poi c’è stato lo sfascio dell’economia, niente soldi
per gli stipendi, niente richieste di prodotti. O la miseria o trovare
delle soluzioni…”.
“E lei se n’è venuta di qua lasciando maritino e figliola di là…?
Mmh, ad accudire vecchietti…? Mmh…”.
“Oh Ardelia, cos’hai da fare tanto ‘mmh’: sembra che tu stia
sospettando chissà quali oscure motivazioni! Ti pare che se
trafficasse in armi convenzionali e non o in plutonio, farebbe
pappette e laverebbe dentiere?”.
“Potrebbe essere una copertura!”.
“Ma per piacere! Sta a sentire: se scopro che è un’agente di Putin
inviata a sovvertire l’assetto politico occidentale, sarai la prima a
saperlo. Va bene?”.
“Ma ti senti? Sembri uscito da un film di James Bond anni
sessanta: guarda che, se non te ne sei accorto, il comunismo non c’è
più!…”. Sembrò assorta un istante, come se cercasse di dare parole
ad un pensiero vago e riprese: “No, a parte che non c’è più, ma poi il
comunismo non c’entra con quello che voglio dire… Il fatto è che
l’Europa orientale insieme alle ex repubbliche socialiste, continuano
ad inquietarmi un po’ e penso che abbiano ancora tanti segreti. E,
per finire il concetto, mi sembrano misteriose anche le persone che
arrivano da là”.
“Hai ragione, nemmeno io so cosa sia cambiato davvero, in
profondità, in quei paesi. Inoltre, d’accordo che stavo scherzando,
ma certe volte mi domando quali siano i reali progetti di Vladimir, per
esempio in politica estera, e non riesco a trovare un senso! Sarà che
leggo pochi giornali?”.
“Ma non so se hanno le idee più chiare delle tue nemmeno quelli
che li scrivono i giornali, si ha come l’impressione che certe cose non
siano davvero mai cambiate, non nella sostanza, non so spiegarmi
meglio… E poi come ti ho detto prima, la gente dell’est ha un’aria
misteriosa, sono abituati a nascondere idee e sentimenti, a non
fidarsi di nessuno dopo anni di polizia segreta, soprattutto quelli di
una certa età, forse i ragazzi sono più spontanei. Lei invece è
impenetrabile, algida, non sai cosa pensi, non sai cosa voglia, brrr…
Lo so che potresti obiettarmi che io l’ho vista una volta sola e di
sfuggita per giunta, però ha una fisionomia incisiva, non da l’idea di
avere una personalità banale, m’è rimasta impressa”.
Bartolomeo pensò di non aggiungere niente a quel discorso,
sperando che, senza alimentazione, si esaurisse per conto suo. Così
guardava fuori, la notte, la stretta Val Pennavaire e ruminava,
ascoltando quel che cicalava la sua compagna. Non si perdeva una
parola, nemmeno una sfumatura nel tono della voce, intanto che
srotolava un’invisibile corda con i nodi, uno per ogni metro e con
quell’immaginario batimetro, cercava di sondare le profondità buie
dei propri sentimenti, buie esattamente come quella notte e quella
valle chiusa.
A sinistra il fiume scorreva nel suo letto pietroso sotto la strada,
invisibile per chi, come loro, fosse stato alla guida di un’automobile.
Dall’altra parte del fiume s’innalzava la montagna, una parete di
sterpaglie aggrovigliate. La roccia non si scaldava nemmeno d’estate
perché il sole era breve e obliquo, d’inverno poi non si vedeva
proprio. Il pendio saliva verso l’alto, a incombere come un mammut
pietrificato, anzi una schiera di mammut, che formavano una
muraglia tra questa e l’altra valle. A destra qualche casa, cucine
illuminate da tubi al neon travestiti da vecchi lumi che pendevano
sulle tavole apparecchiate, dietro vetri madidi di vapore. Comignoli
fumavano, le auto posteggiate erano bianche di brina, che scintillava
anche sull’asfalto e assorbiva tutta l’attenzione di Ardelia. Restarono
per un po’ in silenzio, sembrava che non ci fosse tensione tra loro,
ma Bartolomeo non era rilassato come avrebbe voluto, perché
tensione perlomeno dentro di lui ce n’era. Tutto fu spazzolato via
dalla luce dal calore e dai profumi del ristorante, che raggiunsero di
corsa, dopo aver chiuso l’auto: il freddo fuori mozzava il respiro.
Appena entrati furono accolti da un caminetto dove il ceppo
ringhiava con una fiamma chiara, in un atrio tiepido,
provvisoriamente deserto. Sul banco la stramba forma di una
fiaccola olimpica, ed in quel minuto di atmosfera sospesa, Ardelia si
diresse verso il fuoco protendendo le mani. Bartolomeo invece
rimase lì, vicino alla porta, impacciato come gli capitava di tanto in
tanto, nei posti dove non conosceva nessuno e non c’era nessuno a
cui far domande.
“Dottoressa! Che piacere vederti!”. Era entrato con impeto, dalla
cucina alla sala, l’amico che aveva tirato giù dalla corda il vecchietto
disperato.
“Oh Fausto! Ma si gela fuori!”.
“Freddino eh? Venite, venite, datemi i cappotti”, e ci si avviò alle
presentazioni, senza formalismi inutili. Fuori restavano il buio, il
freddo e i pensieri neri.
Fausto era un ragazzone dall’aria sveglia ma bonaria, ricordò
subito a Bartolomeo i volti e i modi delle sue parti, senza l’ingenuità
dei piemontesi e senza la diffidenza dei liguri. Qualche parola, il
tempo, il lavoro, i fragili argomenti che possono condividere persone
che si frequentano poco, ma che non perdono la speranza, prima o
poi, di conoscersi meglio. Rebaudengo in quel momento sentiva
l’ingombro della sua timidezza cuneese: quando era fuori del suo
ruolo e gli capitava d’incontrare gli amici di Ardelia, non gli venivano
in mente le frasi giuste da dire, nella sua testa non prendevano
forma pensieri interessanti, originali, si sentiva rallentato da una
specie di nebbia interna. Allora taceva, rischiando di far la figura
dell’antipatico o dello scemo. Per evitare di riuscire antipatico
sorrideva molto, con il rischio di apparire ancora più scemo. Provò un
chiaro senso di gratitudine verso Fausto che, dopo averli
accompagnati al tavolo ed aver porto loro i menù e la carta dei vini,
non aveva ancora tirato fuori ‘Il delitto del centro storico’, come era
ormai etichettato sui giornali della Liguria e sulla Stampa di Torino.
Ardelia, con gli occhiali sulla punta del naso, studiava le pietanze
indicandole con il dito e domandava ‘cosa c’è qui’, ‘e cosa c’è là’.
L’amico, che doveva essere abituato a tritapalle ben peggiori,
rispondeva, anzi raccontava i contenuti di quei cibi, la loro intima
essenza, senza svelarne la ricetta o la preparazione: sembrava
dicesse tutto e invece non diceva niente. Bartolomeo si guardava
intorno nella grande sala, quasi vuota; in quella sera feriale e
glaciale c’erano soltanto tre tavoli occupati oltre al loro. Non ci si
sentiva spersi nel troppo spazio, perché la luce formava delle bolle
dorate e la penombra allontanava i vuoti. C’era un calore buono, che
sapeva di cucina ed il pavimento di legno accresceva la sensazione di
rifugio, di luogo protetto.
“Sta a sentire dottoressa, se do retta a te, facciamo venir le dieci
prima di aver capito cosa vuoi. Va ben che sai cucinare, ma adesso
rompi! Te lo dico io cosa vuoi, poi lei commissario mi dirà se gradisce
i miei suggerimenti. Allora: visto che conosco la tua filosofia sui
grassi, sul formaggio e sul colesterolo, non ti porto la fonduta”.
E qui il cuore di Bartolomeo diede un balzo: ‘perché niente
fonduta?’ Come se fosse stato un bambino cattivo: lui l’avrebbe
voluta eccome la fonduta! Però attese che venisse proposta
un’alternativa.
“Ho fatto un purè, anche se chiamarlo purè dà un’idea di povero,
però non mi viene in mente un altro modo: allora, purè di fagioli
Giannetti”.
“Giannetti?”, chiese Ardelia.
“Sì, sono dei fagioli di Nasino, sulla strada è il paese subito dopo di
noi, neanche quattro chilometri. Dovreste farci una visita, magari in
primavera: son parecchie piccole frazioni, è proprio bello, c’è
un’atmosfera antica... Torniamo ai fagioli: i Giannetti sono piccoli,
giallini, con la pelle delicatissima, praticamente sono i fagioli perfetti,
non c’è niente di simile al mondo!”.
“Ah be’, se è così!”.
“Esatto! E su questo purè ci mettiamo un bel giro d’olio
extravergine e una grattatina di tartufo, che ne dici?”.
“Eh, potrebbe essere un’idea”.
“Il tartufo da dove arriva?”, domandò Bartolomeo, che sul tartufo il
tizio doveva vedersela con lui!
“Sono tartufi neri, delle nostre montagne. Be’, certo il bianco
d’Alba è altro, ma si fidi, dottore”.
“E poi?”, incalzò Ardelia.
“Poi, se ti va tagliata d’agnello con carciofi e un carpaccio di
asparagi d’Albenga con petto d’anatra al forno”.
“Quello lì lo voglio io, lo voglio io!”.
“Facciamo una bella cosa: io porto abbondante e poi voi vi
azzannate con vostro comodo. Ti sembra una buona idea,
dottoressa?”.
“Sì, buona idea!”.
“Se vi azzannate però, cercate di farlo con garbo: sai, magari gli
altri non capirebbero!”.
‘E il primo? Magari due tagliarin, o una misera manciata di
ravioli...’, gemette in silenzio Bartolomeo, ma siccome nessuno aveva
accennato alla sola esistenza dei primi piatti, evidentemente
argomento tabù, si rassegnò e tacque. Ebbe solo un piccolo sussulto
di delusione quando Fausto chiuse i menù con un’espressione che
non ammetteva repliche, perché lui su quei menù ci aveva visto delle
ricette meravigliose. Il personaggio, prima di scomparire nei suoi
antri, si voltò ancora verso di loro, con un tono che non aveva niente
d’interrogativo:
“Un Ormeasco di Pornassio vi va?”.
Bartolomeo, che aveva accettato tutto senza manifestare una
volontà propria, annuì anche a quello. Non era nemmeno un’ora che
stava con Ardelia e doveva ammettere che l’inquietudine si stava
ammorbidendo, i suoi muscoli assorbivano il calore e avevano
smesso di sembrare strisce di stoccafisso, soprattutto aveva voglia di
stare bene, di non essere triste. Non c’è niente che allontani la
malinconia, la tristezza e l’angoscia come la volontà di non provarle.
Sembra ovvio, ma quando s’impara ad applicare questa regoletta da
strizzacervelli, le prime volte si stenta a credere che sia possibile.
Ardelia non aveva questo dono, quando era di buon umore voleva
dire che non le era costato nessun impegno, era capitato e basta.
Se, al contrario, i suoi sentimenti s’inclinavano verso l’irritazione o la
tristezza, sapeva contagiare tutti quelli che aveva intorno. Quella
sera il barometro indicava alta pressione ed era bene approfittarne,
finché durava.
Trovarono che tutto era buono. Di tanto in tanto Fausto, che
lavorava soprattutto in cucina e raramente lo si vedeva tra i tavoli,
faceva delle apparizioni fugaci, soltanto per loro. Degli altri ospiti si
occupava una cameriera giovane, con un vitino da vespa ed un bel
piercing che le luccicava sopra una narice.
‘Eh, mi Signour’ pensava tra sé Bartolomeo ‘nemmeno più in
campagna, in una valle come questa, ci si libera dalla scemenza
delle mode! D’altronde la ragazzina andrà pur ben ad Albenga,
magari studia all’alberghiero ad Alassio: e come si fa senza piercing?
Si è tagliati fuori, sarebbe insopportabile…’.
Adesso parlavano e non più di Svitlana, ma di cose di casa, del
lavoro, della salute della madre di lei, Ardelia gli chiedeva qualche
aneddoto di commissariato, raccontava una barzelletta sui
carabinieri, sapeva che gli piacevano tanto... erano quelle minuzie
quotidiane che aiutano a non perdere il contatto con la vita, con
l’attesa del giorno dopo senza provarne paura.
La dottoressa aveva voluto concludere con una bourguignonne di
cioccolato nella quale aveva immerso la frutta ed ora parlava
seriamente di un caso controverso tra un assicurato e la compagnia.
Bartolomeo l’ascoltava compitissimo, gli occhi fissi sui due marcati
baffi di cioccolato che le partivano dalle labbra e le arrivavano quasi
a metà guancia.
Quando furono a casa fecero l’amore con quieta semplicità, con la
fidata esperienza di chi conosce i segreti del corpo dell’altro. Erano
due timidi rispettosi delle timidezze reciproche e sapevano godere
senza esibizioni, aiutandosi nel piacere. Al momento di spegnere la
luce, Bartolomeo aveva deciso che adesso la sua mente s’era liberata
della confusione: Ardelia era il perno della sua vita! Svitlana era un
puntolino lontano, come qualcuno lasciato sulla riva opposta… Sì,
però, anche se lui si voltava a guardare altrove, il puntolino c’era.
Decise di trascurare questo aspetto spinoso e si accontentò di
addormentarsi con la convinzione che tutto fosse a posto.
Capitolo sette: in cui le informazioni aumentano e
la confusione anche
Briefing delle sette e venti. E non mollava il Rebaudengo. Gli aveva
preso ’sta mania dell’efficienza scandinava e quando voleva riunire i
suoi uomini e donne per elaborare la strategia della giornata lo
faceva a quell’ora lì, che fiorissero i peschi o che piovesse e tirasse
vento, e per adesso di peschi fioriti non se ne vedevano.
Ravera aveva la faccia sofferente, per tutta la notte gli aveva fatto
male la caviglia fracassata l’anno precedente. Non era accaduto in
servizio, bensì in un attimo di distrazione domestica: era salito in
mansarda a vedere cosa stava combinando uno dei suoi figli ed
aveva posato l’augusto suo piede sopra una macchinina
telecomandata, d’accordo spenta, ma le ruote avevano girato lo
stesso fino al primo gradino della scala. Era arrivato al piano di sotto
velocissimo, con un piede rotto. Al momento ‘x’ che di solito cascava
all’inizio dell’anno, aveva voluto andare comunque a sciare,
adattandosi a causa del trauma, allo sci di fondo. Il dottore s’era
mostrato indulgente, ma nonostante la benedizione del medico,
l’idea s’era rivelata poco furba, perché adesso aveva un male cane,
quasi come al tempo della frattura. E il briefing alle sette e venti non
contribuiva al suo buon umore.
“Prima di parlare del futuro, parliamo delle informazioni
attualmente in nostro possesso. gli apparecchi fisso e portatile della
signora Peluffo non hanno evidenziato un traffico con persone note
alle forze di polizia e nella quasi totalità delle comunicazioni, sia in
entrata che in uscita, è stato possibile identificare gli utenti, sui quali
non c’è niente da segnalare. Due o tre sono risultati sconosciuti, poi
si è scoperto che erano call center che tentavano di venderle
contratti telefonici e un aspirapolvere progettato alla NASA. Peccato
non avere le registrazioni, mi sarebbe piaciuto sentire la risposta
della vecchia. Dei guanti per ora non c’è traccia, ma quasi
certamente non sono nella casa.
Per ciò che riguarda il signore e la signora Peluffo, nelle loro
conversazioni telefoniche e domestiche, grondano innocenza,
toccano raramente l’argomento della morte della zia e, quando lo
fanno, è con cristiana compassione. Anche nel privato del talamo
nuziale. La signora, che si presenterà qui più tardi, non si è mai fatta
scappare una parola malevola verso la vecchia, la quale invece non
faceva mistero della propria antipatia nei suoi confronti. Al momento
non possiamo trarre nessuna conclusione: non possiamo pensare
che recitino, perché dovremmo dedurne che sospettano di essere
ascoltati e nemmeno farci incantare dalla loro profonda correttezza;
quindi bisognerà aspettare ancora un po’. Come ho appena detto, la
signora Peluffo si presenterà questa mattina al nostro commissariato,
diciamo per fare conoscenza”. e qui Bartolomeo fece un lungo
respiro, poi riprese con aria benevola: “Mi ha anticipato al telefono
che, avendo intenzione di scendere in Riviera per le esequie e con la
speranza di dare un’occhiata all’appartamento della zia del marito,
speranza vana per adesso, aggiungo io, ha gradito il mio invito per
una chiacchierata. Il funerale ci sarà oggi pomeriggio. Dominelli e
Canepa, tra l’altro ho apprezzato le vostre relazioni sulle conoscenze
della signora Lysenko, anche se ci sono state di poco aiuto, voi
andrete al funerale. Non so se sarà una faccenda in pompa magna,
trattandosi di un’antica famiglia albenganese o se si sbrigheranno
essendo stata la defunta, ai suoi tempi, un tipo originale. Comunque
voi non mancherete e i vostri occhietti registreranno ogni cosa.
Come sempre ci troverete molta gente che non c’entra un fico secco,
ma che va lì sperando di essere inquadrata da una tv o che gioca a
fare l’investigatore. È inutile che vi spieghi cosa si fa in questi casi,
tanto lo sapete bene. Domani ci sarà la lettura del testamento. La
sorella del signor Peluffo ha inviato una e-mail allo studio notarile
dichiarando che il suo stato di salute le impedisce il viaggio
dall’Australia – deve avere una discopatia o una roba simile – mentre
l’anziana suora, sorella della defunta è inferma, quasi centenaria, in
un convento vicino a Pavia. Nemmeno lei sarà presente alla lettura.
Comunque sono entrambe legatarie. Quindi nello studio del notaio
Rolando Pelosi ci sarà l’erede, cioè il nipote, seduto in pole position,
non so se accompagnato dalla sua metà o solo ed anche la Lysenko,
perché pare che abbia lasciato qualcosina anche a lei. È presto per
dirlo, ma conoscere il criterio con cui Ildebranda Peluffo ha
distribuito i suoi beni, potrebbe rivelarsi interessante. Adesso
cambiamo argomento, pur restando in tema e vediamo cos’ha per
noi Ravera”.
Il fido ispettore capo s’addentrò nel suo taccuino, pieno di appunti
scritti con una grafia minuscola.
“Abbiamo una badante ucraina con una fedina penale che fa luce.
Unico neo una relazione clandestina con un personaggio
albenganese, un amministratore di condomini nonché agente
immobiliare, tale Sergio Porrini, che le fornisce poco
spontaneamente un alibi per la notte del delitto, che però funziona
solo fino all’una e mezzo o le due come limite estremo. La perizia
medico legale dichiara che la vittima è deceduta tra le due e le
quattro, pertanto, considerando che la Lysenko si trovava in un
appartamento a Vadino, di là del fiume Centa, avrebbe potuto
raggiungere la scena del delitto senza correre, far secca la sua
datrice di lavoro e cominciare la sua sceneggiata. All’inizio ha taciuto
i motivi per i quali ha nascosto la sua assenza dalla casa per
parecchie ore di quella notte. Poi ha fornito una spiegazione tutto
sommato credibile, anche se tardiva: trattandosi di una vicenda
sentimentale poco edificante, se ne vergognava e sperava che non
fosse necessario informarci. Non c’è stato verso di spostarla di lì e
credo ripeterà questa versione all’infinito: forse davvero non ce n’è
un’altra… Mah.
Tecnicamente avrebbe potuto farlo, però rimane oscuro il
movente. Dalla casa non è stato asportato nulla, molti gioielli
dell’anziana erano in banca, ma in un portagioie tenuto
negligentemente in lavanderia vicino alla cesta della roba da stirare,
c’erano braccialetti, orecchini e altri ninnoli, anche con pietre per un
valore di molte migliaia di euro. Il fatto che tenesse le sue cose così,
senza protezione, in una stanza dove la badante trascorreva
parecchie ore alla settimana a lavare e stirare, indica che l’anziana
doveva nutrire una grande fiducia nei confronti della sua dipendente.
Non abbiamo un inventario, ma riesce difficile pensare che la
Lysenko possa averne sottratto una parte, sarebbe stato più furbo
prenderli tutti e nasconderli in qualche posto fuori dell’appartamento,
cosa che non è accaduta. I condomini e le persone del quartiere,
anche le più ostili agli stranieri, non hanno espresso commenti
negativi verso la donna ucraina, tutt’al più han detto che era di
poche parole, faceva la spesa, pretendeva lo scontrino, non solo per
farlo vedere alla padrona, ma perché bisogna pagare le tasse, come
aveva dichiarato lei stessa, guadagnandosi una botta di bolscevica
dal padrone di una rosticceria frequentata dai vip ingauni. Nessuno
sapeva un accidente della sua vita privata o delle persone che
frequentava”.
“Bene. Dominelli e Canepa: le ucraine della zona?”.
“C’è una specie di raduno, la domenica pomeriggio ad Albenga, di
là dal fiume, dopo il ponte rosso. Arriva un pullman portando gente
di quelle parti. Ci sono facce nuove e gente che sta qui già da un po’.
Per essere conosciuta, da qualcuno è conosciuta, sono dieci anni e
più che vive in Italia, anche se il suo arrivo ad Albenga è più recente,
dal 2004. È difficile ottenere qualche informazione, son diffidenti…
Però quello che è emerso è stato che non ha mai avuto discussioni o
guai con qualcuno, fa bene il suo lavoro, ma non piace a molti,
perché dicono che è superba, che tiene le distanze, chi si crede di
essere. Questo più o meno è il tenore dei commenti. Una in
particolare, aspetti che mi cerco il nome...”. “Lascia perdere, poi se
mai…”, interruppe Bartolomeo. “Vabbe’, quella lì la conosceva da
prima di partire, da Rivne e dice che era già superba in patria perché
aveva un lavoro importante ed era qualcuno nel partito, anche se
non ha saputo spiegarmi di più. Adesso doveva ‘lavar culi’ –
scusatemi, ma ha detto così – come tutte loro, anche se il marito
insegnava in uno dei licei più prestigiosi della città”.
“Quando però”, in una pausa della Dominelli per riprendere fiato,
s’inserì la Canepa che sbuffava già da un po’, “le abbiamo fatto delle
domande più precise sulla sua vita di allora, s’è abbottonata e ha
cominciato ad avere dei vuoti di memoria, ammettendo che buona
parte delle sue dichiarazioni s’ispiravano a voci riportate e
pettegolezzi. Nessuno, o meglio nessuna, però, ci ha raccontato
episodi negativi sul suo conto, né di uomini o di cattive abitudini”.
“Tu, Battaglia hai sentito qualcos’altro?”.
“Niente di diverso. È una che ha rapporti corretti ed educati con i
connazionali, ma raramente li frequenta, e per questo non gode di
molte simpatie, ma per il resto nessuno mi ha riferito di suoi
coinvolgimenti anche indiretti in faccende poco pulite”.
“Va bene, e fin lì ci siamo. Andiamo avanti: il nipote della vittima?”.
Riprese Ravera:
“Quello ve lo racconto io: cinquantasette anni, studi classici ma
senza laurea, grande rammarico del padre, nonché fratello della
vittima. Vive e lavora a Novi Ligure, dove proprio in centro, insieme
alla moglie manda avanti un’avviata cartoleria che era dei suoceri
prima che morissero, e negli ultimi anni ha aggiornato la merce con
articoli per ufficio e per computer. La moglie, che arriverà tra poco, si
chiama Gioconda Foglino, molto attiva nella parrocchia, non amava
particolarmente l’anziana zia del marito, e non lo accompagnava mai
nelle sue visite in Liguria. La sua vita si svolge soprattutto nel
negozio, anche se non deve aver trascurato le due figlie che son
venute su apparentemente regolari. Fonti informate, in poche parole
un maresciallo dei carabinieri figlio di un maresciallo dei carabinieri
amico di mio padre, lassù non c’è commissariato, detto per inciso, e
poi con Goffredo siamo amici, mi hanno riferito che sono gente a
posto, anche se non piacciono a tutti, per due motivi: entrambi
troppo religiosi, cosa che non sarebbe certo una colpa, se non fosse
che in paese si ridacchia sugli atteggiamenti effeminati del signor
Guidobaldo, e questo è il secondo motivo. La provincia non è molto
aperta come mentalità, e questo si sa, ma un sospetto di
omosessualità intrecciato ad un particolare fervore religioso in
genere non piace alla gente. È importante sapere che non hanno
debiti, dal punto di vista finanziario si possono definire
discretamente benestanti, nessuno gioca, nessuno, figlie incluse è
conosciuto come cliente di qualche spacciatore, non hanno mai
avuto problemi con le banche, i muri del negozio e quelli di casa
sono di loro proprietà. insomma tutto quello che vi ho raccontato fin
qui non vuol dire niente e per il momento non c’è altro. Sono gente
tranquilla, comunque, e quel che sappiamo di loro fino a questo
momento non c’illumina”.
Bartolomeo riprese il timone.
“Allora Martelli illuminaci tu”.
“Be’ qualcosina avrei”.
“Vai!”.
“Dopo la telefonata con il suo amico, che dev’essersi risolta con
una rottura definitiva, perché non si sono più sentiti, ce ne sono
state parecchie con l’amica Khryuchenko. E lì, come sapete abbiamo
bisogno della traduzione dell’interprete…”, attimo di suspense, “Che
ho, ovviamente, calda di ieri sera. Allora, cominciamo. Non sto a
leggere i testi se non me lo richiedete. Le due amiche hanno
ratellato parecchio. Poi però hanno pianto tanto e fatto la pace.
Credo che domani sera la Khryuchenko vada a trovare la Lysenko e
le porti una pizza. Ma tanto lì ci sono le intercettazioni e scopriremo
cosa si diranno, anche se in compagnia della Karachuk magari non si
sbilanciano. Riassunto. La Lysenko ha accusato la Khryuchenko, che
casino ’sti nomi, va be, di aver spiattellato alla polizia la sua storia. E
l’altra, l’amica per capirci, ha detto che sì, lo aveva fatto, che non
aveva niente da nascondere, e d’altronde il suo numero di telefono
glielo aveva dato lei alla polizia, cioè la Lysenko. Poi cose tipo: ‘L’hai
più sentito?. ‘Mi ha chiamato ancora una volta per insultarmi, ha
detto che la polizia lo ha interrogato, è colpa tua!’. infatti a noi
risultava quest’ultima chiamata del Porrini all’utenza della Lysenko,
‘Guarda che ti avrebbe mollato lo stesso, è uno stronzo’, o meglio il
corrispettivo in ucraino che ha un suono più bello ma non ve lo so
ripetere, ‘E poi sono contenta di avergli detto la verità, perché così
almeno hai un alibi!’. ‘Non mi serve a niente quell’alibi lì. Anche se lui
avesse detto che sono stata con lui, ci sono stata fino all’una e
quaranta. Poi abbiamo litigato e lui mi ha mollata lì!’. ‘D’accordo, ma
a quell’ora lì la zietta era già morta!’. ‘E che ne so!’ E lì ho pensato:
se sa di essere ascoltata ha veramente un gran cervello! Poi sono
saltato sulla sedia quando ho letto: ‘Ma devi dirgli al tuo amico’.
‘Quale mio amico?’. ‘Il commissario della polizia, quello che hai detto
che è bello e galante’…”, e lì quel gran bastardo di Martelli tacque un
attimo, per vedere l’effetto, ma tutti si guardarono bene dal
sorridere. “Riprendo il filo del discorso, scusate, ah ecco sì: ‘Io non
l’ho mai detto!’. ‘Sì che lo hai detto! Guarda che l’ho visto anch’io,
non è mica male!’, e…”.
“Martelli, è necessaria all’indagine questa tritata di maroni?”,
chiese Bartolomeo con disagio palpabile.
“No, non è necessaria”.
“Ecco, bravo, allora vieni al dunque!”.
“Va bene, allora salto anche tutto questo pezzo”.
“Cosa c’è da saltare lo decido io: di cosa parlano?”.
“Del colore dei suoi occhi, cioè quelli di lei, dottore: se è più bello
di quello di Misha!’.
“Va bene: salta oltre”.
“Ah, poi la Lysenko piange un po’ e dice che meno male che c’è
kitka Svietulja, che lei sì che le vuole bene, che l’ascolta e che
quando la guarda le si scioglie il cuore”.
“Ci siamo persi qualcuno? E chi è kitka Svietulja?”, domandò la
Negri.
“La gatta”, rispose rapido Bartolomeo. Nessuno osò domandare
come facesse a saperlo.
“Ah, è vero che non molla mai la gatta, me ne dimentico sempre”,
concluse la Negri.
“Riprendi”, ordinò Rebaudengo.
“Riprendo, eh: ‘Devi dirglielo che hai paura!’. Lì ci intercala una
roba che in italiano suonerebbe come ‘o cazzo’, ma forse non vuol
dire proprio la stessa cosa, l’interprete è timido in fatto di parolacce,
poi la Lysenko, dopo la parolaccia domanda: ‘E cosa dovrei dirgli?’…
Sì, dunque, c’è questo pezzo, poi, un attimo che non trovo il
seguito”, e si mise a scorrere velocemente i fogli della registrazione.
“Martelli, boia faus, va avanti!”.
“L’ho trovato, l’ho trovato, tutto a posto. Allora, sì… Ero arrivato a
‘E cosa dovrei dirgli?’. ‘Che tu non hai ammazzato la tiotia Ilde, ma
che quello che invece lo ha fatto pensa che tu sappia che è stato lui
e ti vuole ammazzare anche a te!’.
Ci fu un botto sulle sedie abbastanza generalizzato. Bartolomeo
ruppe il silenzio.
“C’è altro?”.
“Sì, praticamente concludo il sugo del discorso: ‘E come faccio a
dirgli una cosa simile? Io non so niente di preciso, non ho niente in
mano!’. ‘Ma mi hai detto che ti ha seguita’, lì c’è un…”.
“Impossibile! Ce ne saremmo accorti!”, fu il tono perentorio di
Orlando, il quale insieme ad altri tre colleghi, teneva d’occhio i
movimenti della signora ucraina.
“E un attimo, belin, che non ho finito, non saltare subito su come
una molla!”.
“E allora finisci”, concluse Bartolomeo con un cenno della mano
che ricordava vagamente un pontefice benedicente.
“Riprendo, ok, adesso è lei che parla”.
“Lei quale?”, chiese Canepa.
“Se mi fai parlare lo capisci. Dunque: ‘Io non ti ho detto che mi ha
seguito’ e lì di nuovo la parola carina che potrebbe voler dire ‘cazzo’.
‘ti ho detto che le poche volte che sono uscita, ho avuto la
sensazione di essere osservata, ho avuto paura, ma quando mi
voltavo, non c’era nessuno. E bada che non sono mai più uscita di
sera dopo che è successo tutto’. E l’altra le chiede ancora: ‘Ma tu
sospetti di qualcuno?’. e lì la badante diventa cauta, non credo
perché pensi di essere ascoltata da noi, ma forse è perché non si
fida del tutto dell’amica, è troppo giovane, troppo impetuosa. Allora
le dice: ‘Se non sono stata io, e tu non lo pensi, vero?’. ‘Certo che
no’. ‘Bene, allora dev’essere stato qualcun altro e a questo qualcun
altro magari viene molto comodo che la polizia dia la colpa a me’. ‘E
se viene fuori che sei innocente?’. ‘Se mi ammazza prima, magari si
ferma l’indagine, magari la polizia pensa che è stato un mio complice
che mi ha ammazzata, sai noi gente dell’est, tutti delinquenti e l’altro
è tranquillo!’. Poi ricominciano, pian piano a parlare di scemenze,
piangono un po’ e si mettono d’accordo per domani sera, per la pizza
a casa. Ma quella lì è veramente roba che non ci serve”.
C’era parecchio silenzio nella stanza e si sentiva bene il traffico
sull’Aurelia, sotto alle finestre.

Bartolomeo guardava la signora Gioconda, era seduta di fronte a


lui, accanto al marito. Un coso piccolo, coso, al maschile, perché
‘cosa’ con la ‘a’ finale, sarebbe già stato un complimento. Aveva
imparato un aggettivo da Ardelia – lei era bravissima nel coniare
neologismi da lupanare – che dava l’idea più di qualsiasi metafora:
inchiavabile. Oltre i confini della realtà, come una serie televisiva che
andava di moda alla tv in bianco e nero quando erano ragazzi. Il
problema non stava nella bruttezza che, oddio, non era comunque
cosa da poco, ma lei stessa era il problema, quel miscuglio triste di
fattezze, gesti, odori, colori, sguardi, posture, abiti e molto
probabilmente pensieri. Pur usando i participi passati con la
desinenza in ‘a’ ed avendo partorito ben due figlie, non era una
donna, o perlomeno non ne aveva l’aspetto. Quel corpo tozzo, con le
spalle spioventi come un tetto tirolese, il sederone che ricordava lo
scafo dei vecchi televisori a tubo catodico, la ricrescita grigia di
capelli stopposi e raramente in visita da un parrucchiere, l’assenza di
trucco, il cappottino color ruggine o mattone che dir si voglia, la voce
rauca, come di polipo in gola: tutto questo rendeva dolente lo starle
vicino. E Guidobaldo, rampollo di famiglia agiata, con pretese di
nobiltà perlomeno terriera in quella piccola cosa che è la piana di
Albenga, l’aveva sposata. Perché Dio santo? L’unico aggettivo che
poteva associare a quella scelta coniugale era: inquietante!
Bartolomeo avrebbe tanto voluto avere seduta vicino la sua
analista di un tempo, perché solo uno strizzacervelli, nella sua
infinita conoscenza della mente e dell’animo umani con il loro
bagaglio di miserie e perversioni, avrebbe potuto trovare una
risposta. Il fatto straordinario era poi che, la poverina, consapevole
di sé in qualche misura, faceva il possibile per farsi perdonare ed era
amabile, intelligente e garbata.
Dopo dieci minuti di conversazione, Bartolomeo scoprì che la
odiava leggermente meno che dopo il primo impatto, certo che di lì a
sposarla ce ne correva ancora parecchio.
“Sì commissario, mio marito le ha detto la verità: non andavo
d’accordo con la zia. Non era colpa di nessuno. Lei aveva la superbia
delle donne belle. Le donne belle sono sempre superbe, anche da
vecchie. Certo, il tempo dovrebbe essere impietoso con loro come
con tutti gli altri, invece sembra quasi che non sia capace di scavare,
di segnare… Magari è soltanto che il lavoro di demolizione gli riesce
più difficile, quando in giovinezza la natura è stata tanto benevola.
Ma di sicuro non ce l’avevo con lei perché era stata bella, semmai
perché era superba, e la superbia è un peccato mortale. E poi ad
allontanarci c’era un altro peccato mortale: la lussuria. Papino,”
s’interruppe con voce un po’ infantile, rivolgendosi al marito che
dopo le presentazioni non aveva più aperto bocca, “Papino…”
‘Papino?! Ma perché, Santo Dio, un uomo dovrebbe farsi chiamare
papino dalla moglie?’, gemette muto Rebaudengo “non arrabbiarti, la
zia Ilde era stata quello che si dice una poco di buono, lo sanno
tutti”, poi tornò a voltarsi verso il commissario: “Ma io avrei potuto
perdonarle anche questo, anzi, io non sono nessuno per parlare di
perdono, sarebbe stato Nostro Signore a giudicarla. io soffrivo della
sua mancanza di pentimento e del fatto che si divertisse
continuamente a provocarmi, che offendesse il mio pudore con
storielle piccanti che l’avevano vista protagonista in gioventù. Così ho
smesso di venire ad Albenga. Ma certamente questi futili motivi non
vanno ad alleggerire il dolore per la sua morte, oltretutto così
terribile!”.
‘Bene’, rimuginò tra sé Bartolomeo, ‘è riuscita a dirmi le cose che
voleva che io sapessi, senza nemmeno farmi fare lo sforzo di
domandargliele!’. E siccome il suo stupore non era calato, sentì il
bisogno di ripetere a se stesso: ‘Papino! Ma come cazzo fa un uomo
a farsi chiamare papino dalla moglie? Che poi, va bin, moglie...”.
“Dov’era la notte di giovedì 22 febbraio, dalle ventuno alle sei del
giorno successivo, venerdì 23?”.
“Ero a casa mia, a Novi. Un normale giorno lavorativo”.
“E cosa può dirmi di suo marito?”.
“Lui invece era venuto ad Albenga… chi avrebbe mai pensato… Oh
Signore, che dolore…”.
“A che ora è partito per la Liguria?”.
“Mah, papino, che ora sarà stata? Le due, le due e mezzo, sì le
due e mezzo”.
“E a che ora è ritornato?”.
“Con precisione cronometrica non glielo posso dire. Considerando
che io rientro dal negozio verso le otto, massimo otto e dieci, tempo
che tiri fuori la roba dal frigo – sa mi preparo tutto nella pausa del
primo pomeriggio, subito dopo pranzo – io e Caterina, mia figlia
piccola ci eravamo appena messe a tavola, forse avevamo finito la
minestra: credo di non sbagliare se le dico intorno alle otto e mezzo,
nove meno un quarto”.
“Ha detto ‘sua figlia’, l’altra è fuori, vero?”.
“Sì, Chiara, frequenta giurisprudenza a Torino e rientra soltanto il
venerdì sera, durante la settimana è in un convitto religioso, dalle
Sorelle del Cuore trafitto di Gesù”.
Carino come nome, doveva essere un posto allegro!
“E poi suo marito non s’è più mosso”.
“No, non si è più mosso”.
“Le era parso turbato, al suo rientro da Albenga? Ah, tenga
presente signora Peluffo che questo è un semplice controllo di
routine, ma lei non è obbligata, in quanto coniuge, a rispondere e
non sarà considerata reticente per questo. Mi dica, se vuole”.
“Rispondo volentieri, anche se so che la testimonianza di una
moglie o di un marito non hanno un gran valore. C’è comunque
anche mia figlia, e chissà magari… Ti ricordi, papino, se hai fatto il
viaggio in ascensore con qualcuno?”.
Guidobaldo parve tornare all’improvviso sul pianeta terra e
rispose:
“La signora Repetto, del quarto piano, me lo ricordo perché
trafficava nella borsa e non trovava le chiavi di casa”.
“Bene, potrà essere utile. Cambiamo discorso, oggi pomeriggio ci
sarà il funerale e domani la lettura del testamento. Come saprete la
casa è ancora posta sotto sigilli”.
“Oh ma certo, certo, non c’è problema. Abbiamo deciso di
alloggiare in un bed and breakfast nel centro storico, mi sembra che
si chiami ‘Artemisia’, che nome bellissimo: come la pittrice
Gentileschi, creatura geniale e dannata. Conosce l’arte della
Gentileschi?”.
“Dev’essere poco lontana dai modi di Caravaggio, se non sbaglio.
Ricordo una Giuditta e Oloferne impressionante… Mi dica: ho
indovinato?”.
“Straordinario! Non se la prenda, ma è così difficile oggi incontrare
delle persone… Come dire…”.
“Che non siano ignoranti come scarpe?”.
“Oh, non volevo, non volevo…”
‘E magari vorresti aggiungere: tra le forze di polizia, vero,
megera?’, pensò esibendo il suo miglior sorriso alla Harrison Ford.
“Allora dormirete lì questa notte?”.
“Sì, sì: lo ha visto mio marito durante le frequenti visite ad
Albenga e gli è piaciuto tanto”.

Il notaio Rolando Spinosi si mostrò cordiale e disponibile; adesso


erano seduti insieme in una stanza che doveva servire per le riunioni
societarie o per le stesure di atti con molti partecipanti. Bel tavolo di
legno, un quadro di gusto romantico alle pareti, una scena di storia
romana – ‘La sfida tra Orazi e Curiazi’, sembrava, ma forse non la
era… – incombeva nella sua vastità, che ricordò a Rebaudengo
altrettanto cupe immagini di una galleria antiquaria di qualche tempo
prima. La finestra era aperta, la macchinetta del caffè accesa: era la
pausa-sigaretta. Il notaio non aveva niente del notaio, non perché
sembrasse un idraulico, ma perché il suo atteggiamento era
disinvolto, sottilmente ironico, affabile, in poche parole non se la
tirava neanche un pochino e piacque subito a Bartolomeo, o meglio
si piacquero.
“Sa dottor Rebaudengo, io ne vedo veramente di tutti i colori. il
giorno che mi ritirerò, potrei scrivere un libro di aneddoti spassosi o
spaventosi, come preferisce, peccato che d’italiano fossi un disastro!
Però penso che anche lei ne veda delle belle, vero?”.
“Insomma…”.
“Be’ non gliela tiro tanto per le lunghe. Sono andati via che sarà
un’ora, un’ora e mezzo. Sono esausto. Davvero non vuole un altro
caffè?”.
“Davvero, grazie, poi mi viene mal di stomaco. Mi racconti”.
“In due parole: Svitlana Mychailivna Lysenko, nata a Rivne,
Ucraina, il 10 agosto 1963 è erede universale della defunta
Ildebranda Clotilde Peluffo. La sorella Eufemia, la monaca di clausura
di età risorgimentale non è nemmeno citata, o meglio è citata nella
veste di esclusa, ‘tanto lei aveva scelto la vita ultraterrena anche di
qua’ e le ho riferito le identiche parole. Invece il nipote Guidobaldo e
la nipote Benedetta sono legatari. Al nipote è andata parecchia roba,
in un certo senso. una tabacchiera d’argento e madreperla
appartenuta al conte Guidoboni Calandri, amante della signora
durante gli anni ’45-’49 e la guêpière di seta viola e pizzo nero
utilizzata per sedurlo, senza dimenticare l’opera omnia del marchese
De Sade in un’edizione rara del 1892 che vale parecchie migliaia di
euro. Alla nipote Benedetta un’edizione rilegata in pelle del 1950 di
Piccole donne di Mary Alcott e un set completo per il ricamo in avorio
e argento. Lei cosa ne pensa?”.
“E lei, notaio?”.
“Che la vecchietta doveva essere una meravigliosa testa di cazzo,
per dirla in alto linguaggio notarile”.
“Lei era al corrente del contenuto del testamento?”.
“Amavo la vecchia Ildebranda perché era stata una donna
dissoluta, le piace? E molto intelligente, una Lou Salomé ingauna,
non so se rendo l’idea. Nelle case della buona borghesia il suo nome
era fatto con circospezione, ma alla fine dove non ci si inchinava alla
sua virtù, lo si faceva al suo capitale. Lei con gli uomini s’è divertita
parecchio. Che poi, rimanga tra noi, doveva essere un vizietto di
famiglia, perché suo fratello, cioè il padre di Guidobaldo che si
chiamava Agostino, amava i piaceri della carne, con una differenza
però: all’inizio aveva anche lui un patrimonio considerevole, ma lo ha
praticamente prosciugato correndo dietro alle donne. Non ha lasciato
i figli proprio in braghe di tela, ma avrebbe potuto lasciarli molto più
ricchi. Ildebranda invece no, lei era dritta, apriva raramente il
borsellino, lasciava che lo facessero gli uomini. Però negli affari non
era uno squalo, certo nemmeno una santa, ma manteneva il suo
evitando di far danni al prossimo. Mi piaceva… Comunque, per
fargliela breve, a me lo aveva detto il contenuto del testamento che
aveva depositato: ‘Lo lascio a becco asciutto quello stronzo, così
impara, anzi gli farò un bello scherzo… E sai perché? Perché è
buliccio? Ma cosa vuoi che me ne freghi da chi se lo fa mettere in
quel posto. Il motivo è un altro: perché è un ipocrita!’. Ecco, così mi
aveva detto. Ah, io la amavo, quella vecchia era fantastica!”.
Il dottor Rebaudengo rimase qualche istante in silenzio, lasciò che
il notaio assaporasse ancora un po’ il piacere della narrazione
appena conclusa, non dovevano capitargli spesso dei momenti di
puro divertimento con il suo lavoro. Poi riprese:
“Notaio, mi dica ancora una cosa: non è una domanda tecnica, ma
nel mio lavoro hanno importanza anche le sensazioni. Che
impressione le ha fatto la coppia Peluffo quando ha conosciuto le
ultime volontà della zia?”.
“Lei comprenderà bene che il riso non fa parte delle reazioni di un
notaio, certo che il ragazzo pestifero che mi porto dentro nonostante
il grigiore del mio lavoro, si stava rotolando dal ridere, anche se la
mia faccia avrebbe fatto invidia alla sfinge. Che impressione ne ho
tratto? Disappunto all’esterno e un crollo interno. Sono impalliditi
entrambi, si sono guardati in faccia, poi lui si è rivolto verso di me e
con un fil di voce ha sussurrato: ‘Ma dev’esserci un errore… Non è
possibile…’, al che io ho dichiarato serafico che non c’era nessun
errore, che le volontà della defunta erano proprio quelle, che il
testamento era assolutamente legale e che l’unica cosa saggia da
fare sarebbe stata quella di accettarlo senza resistenze”.
“La signora Lysenko come ha reagito? Le ha dato anche solo la
minima sensazione di non essere stupita? In altre parole, secondo lei
la vecchia poteva averle anticipato le sue intenzioni?”.
“Allora, andiamo con ordine. A parte la reazione della badante, che
aveva tutto l’aspetto del più genuino stupore, le dirò di più: so per
certo che la vecchia le aveva taciuto la sua volontà testamentaria,
perché, e lo aveva detto a me senza ambiguità, ‘voleva farle una
sorpresa, se la meritava, povera donna’, così mi aveva detto. Io in
quel contesto le avevo fatto anche le mie obiezioni, ricordandole che
si trattava di una sconosciuta, elemento non trascurabile. Inoltre,
augurandole ancora molti anni sereni, non era assolutamente un
fatto certo che al momento della sua morte, quella badante avrebbe
abitato ancora con lei, sarebbe potuto capitare qualsiasi
inconveniente nel corso del tempo, magari le loro strade si sarebbero
separate. Lei ha ribattuto che sapeva quel che faceva e non
intendeva cambiare idea. Ha precisato, inoltre, che non le avrebbe
mai confessato la sua volontà per due motivi: ha ripetuto che voleva
farle una sorpresa e soprattutto non voleva che lei restasse perché
sapeva di essere erede, voleva che fosse spontanea fino alla fine, la
sorpresa sarebbe stata più bella. Al che io ho smesso di discutere, la
conoscevo e sapevo che sarebbe stato inutile. Quindi credo di non
sbagliare se affermo che la Lysenko fosse completamente all’oscuro
di ciò che l’aspettava”.
Guardò un po’ il quadro cupo, conoscendolo a memoria e forse
senza nemmeno più vederlo e riprese:
“So qual è il suo sospetto. Se la badante fosse stata al corrente
della ricchezza che l’aspettava, avrebbe potuto accorciare un po’ i
tempi. Non lo sapeva, mi creda. Aggiungo ancora questo. quando
abbiamo finito, mi avrebbe quasi fatto pena, non fosse stato per il
fatto che da quel momento poteva considerarsi miliardaria ed i
miliardari di solito non fanno pena. Il punto è che lei sembrava
catatonica, mi guardava con occhi vuoti, pensava di non aver capito
bene, ma era terrorizzata all’idea di proferire parola”.
“E lei cos’ha fatto?”.
“Io ho tagliato corto, riprendendo il mio tono monocorde da notaio
serio e ho concluso con le formule di rito in questi casi, congedando
tutta l’allegra compagnia”.
“E la cosa è andata liscia?”.
“La Lysenko tremava, ma aveva una faccia di pietra, gli altri due
hanno cominciato ad agitarsi, soprattutto lui, e a proferire minacce.
Al che li ho dissuasi dal continuare con quell’atteggiamento e ho
aperto la porta della stanza. Hanno salutato bruscamente e se ne
sono andati in corridoio”.
“La Lysenko?”, ripeté Bartolomeo.
“La Lysenko, come le ho detto, era visibilmente provata e si è
trincerata nel silenzio, un silenzio sovietico, mi intende?”, assenso di
Bartolomeo. “Aveva le spalle un po’ curve. Ho fissato con lei un
appuntamento per lunedì della settimana prossima, le spiegherò che
non può accedere alla sua eredità fino al momento in cui non sarà
risolto il caso della morte della sua datrice di lavoro. Non credevo
fosse il momento adatto... Lei ha annuito parecchie volte e se ne è
andata”.
“Chi le sembrava più sconvolto tra i due Peluffo, lui o lei?”.
“Sicuramente lui. Be’, si metta nei suoi panni: non è carino quello
che ha fatto la zietta, le pare?”.
“La moglie?”.
“La moglie dopo una prima reazione d’indignazione, si è calmata e
ha cominciato ad accarezzare il braccio del marito, che le scostava la
mano stizzito e continuava a parlare di avvocati”.
“A quanto ammonta il patrimonio ereditato dalla signora
Lysenko?”.
“Non saprei dirglielo con precisione…”.
“Lasci perdere la precisione, non c’è niente di ufficiale in questa
conversazione”.
“Intorno ai cinque o sei milioni di euro, a tasse pagate, senza
contare i gioielli, che non sono poca roba”.
“Boia faus!”.
Bartolomeo non aveva voglia di tornare in ufficio, preferì la via di
casa. Si era anche dimenticato di fare la spesa, meno male che
aveva dei ravioli del plin in freezer.

Nel suo commissariato c’erano un sacco di siciliani e la cosa non


disturbava assolutamente la sua padanità, perché latitudine e
longitudine non lo avevano mai aiutato a valutare l’onestà degli
uomini. c’era anche un altro motivo, più peculiare, era gente poco
chiassosa. Ancora adesso si prendeva qualche caffè con il ‘grande’
Pippuzzo Geraci, definitivamente agricolo. Secondo Bartolomeo i
siculi erano così: o grandi delinquenti o grandi poliziotti. Battaglia,
per esempio, gli piaceva, anche perché a prima vista ricordava un
po’ Pirandello, come lui aveva il pizzetto brizzolato e piccoli occhiali
da vista di gusto un po’ antiquato. Quando poi parlava, con voce
pacata e un accento siciliano sottile, evocava memorie mediterranee
dei tempi della scuola. Conosceva perfettamente l’uso del
congiuntivo e questo dava grande gioia a Bartolomeo. Oltre alla virtù
rara della sintassi corretta, quando Battaglia arrivava nell’ufficio del
vicequestore, in genere buona parte delle difficoltà se l’era già risolte
da solo.
“Raccontami tutto quello che devi raccontarmi”, Bartolomeo lo
invitò a sedersi di fronte alla scrivania, mentre lui sorseggiava
lentamente un caffè della solita macchinetta che stava nell’atrio.
Battaglia, Michele per gli amici, si sedette lisciandosi i jeans sulle
ginocchia ed inspirando forte.
“Allora, di sotto, nel mio ufficio, c’è Said el Hawary, ventisette anni,
più un poveraccio che un delinquente, il quale va avanti e indietro tra
qui ed il suo paese in Egitto, è uno di quelli che li cacci via dalla
porta e rientrano dalla finestra. Non sarebbe mai venuto a
raccontarmi spontaneamente la sua storia, strana storia, se non
fosse stato preceduto da Aristide Cazzadori, milanese, maresciallo
della Guardia di Finanza in pensione, residente ormai ad Alassio da
quattro anni. Questo glielo risparmio, più pesante degli arancini fritti.
Però la storia che ha raccontato a Canepa, che ormai sostituisce
Ravera all’ufficio denunce, è avvincente. Gliela faccio breve: ha
dichiarato di aver visto una donna ‘volare’ contro l’autobus, con la
postura del corpo, sempre testuale, come di chi fosse stato spinto,
anche se su questo punto, a domande precise, ha concluso che sì, la
sensazione era quella, ma ha abbassato il tiro dicendo che avrebbe
anche potuto essere inciampata. Così ha corretto in ‘con la postura
di chi sembrava spinto’. In questo frangente, un arabo, non sa
nemmeno se fosse proprio arabo, insomma di quei paesi là, per lui
sono tutti uguali ‘’sta gente’, ha salvato la donna dall’essere
schiacciata. Questo è avvenuto alla fermata di piazza del Popolo ad
Albenga. L’arabo non s’è accontentato di risollevare la donna e
raccoglierle la poca spesa, s’è messo a dare in escandescenze, a
scalmanarsi urlando in arabo naturalmente, che l’avevano spinta, che
lui l’aveva visto benissimo. Allora, siccome né l’arabo né la donna, la
quale dichiarava tra parentesi che non era vero niente, sembravano
intenzionati a venire qui, c’è venuto lui, Cazzadori”.
“Mmh… E tu come hai fatto a risalire a Said?”.
“Perché il maresciallo Cazzadori ha detto che il tizio aveva un
occhio di vetro. Arabi che stazionano in piazza del Popolo,
tambasiando che non si sa di cosa campino, o meglio più o meno si
sa, come pere mature alla fermata della corriera ce ne sono un
esercito, ma con un occhio di vetro c’è solo lui. Se non fosse stato
per la sua speciale condizione di guercio, non ci saremmo mai
arrivati. Così con i miei canali, sono riuscito a convincerlo a fare un
passo qui e a raccontarci la faccenda.
Le due testimonianze sono concordi su un punto: Said ha salvato
la donna dall’essere investita dall’autobus. Ma, se vuole, può parlare
con Said anche subito. L’altro invece, il più cauto Cazzadori, è
arrivato appena sceso dalla corriera, ieri poco dopo mezzogiorno ed
è sparito subito dopo aver firmato, aveva fretta, quella fretta
incurabile che hanno certi pensionati che non sanno come fare a far
venir notte”.
“Con Said ci parlo dopo: anticipami”.
“Said ha dichiarato, e su questo punto è stato irremovibile, che la
donna è stata spinta e lui l’ha trattenuta con il braccio, proprio
perché, da un po’, lei si guardava continuamente indietro, anche se
non era chiaro perché lo facesse. Aveva osservato anche lui nella
stessa direzione, ma non aveva notato niente di particolare. Però ha
ripetuto che se l’aspettava che potesse succedere una cosa simile,
quando l’ha vista quasi volare, con le braccia aperte contro il muso
dell’autobus. Lui non aveva mai incontrato prima quella donna,
anche se quando l’ha aiutata a tirarsi su e a raccogliere le cose
uscite dalla borsa della spesa, gli è sembrato di avere davanti un viso
famigliare, un viso non giovane, ma molto bello.
E qui viene lo scoop: Cazzadori che invece legge i quotidiani,
soprattutto la cronaca locale, anche se non si fa mancare le notizie
milanesi, e che non si perde una trasmissione spazzatura, ha
dichiarato che la donna che stava per essere schiacciata, salvata
dall’extracomunitario con l’occhio di vetro, era indiscutibilmente la
badante della vecchietta assassinata, perché aveva notato la sua
fotografia su un settimanale dal barbiere. Gli ho messo sotto il naso
una foto della donna che abbiamo noi, mischiata con delle altre, ho
cercato di confonderlo, ma non c’è stato verso: lui era ed è
sicurissimo di averla riconosciuta, tanto che ha firmato la denuncia
arricchita da questa informazione”.
“Vengo giù, vengo giù immediatamente. Sei sicuro che l’arabo ci
sia ancora?”.
“E dove vuole che sia andato? Ormai io e lui siamo quasi vecchi
amici!”.
Una canzone di De André recita: Gli uomini della sabbia hanno
profili da assassini, rinchiusi nei silenzi di una prigione senza
confini… e De André non voleva certo far della propaganda anti-
araba o anti-islamica, esprimeva solo una suggestione poetica, la
poesia del deserto, delle carovane e dei predoni. Ebbene Said el
Hawary era un uomo della sabbia. La sua magrezza aveva un
sentore di antichità, era una magrezza che affondava nella notte dei
tempi e la sua faccia affilata era del colore della terracotta. I denti
non c’erano proprio tutti, i capelli folti e ricciuti erano tagliati corti, i
baffetti erano due fili neri. Il bianco dell’occhio di vetro era troppo
bianco, lo sguardo troppo fisso e si capiva che era finto lontano un
miglio. Le scarpe un po’ scalcagnate, le braghe con le sacche sulle
ginocchia, la giacchetta informe, tutto ti diceva che era un
poveraccio che in Italia non aveva ancora trovato l’America e non
l’avrebbe trovata mai. Lo stesso uomo, magro nello stesso modo,
con lo stesso profilo affilato, fotografato in una via del suo paese,
con le case calcinate di bianco e la polvere ocra sui sandali, avrebbe
avuto una dignità storica. Così, su quella seggioletta di
commissariato, l’aria da carovaniere s’era proprio persa. Quando
sentì i due sbirri aprire la porta alle sue spalle, schizzò in piedi come
se avesse avuto uno scorpione attaccato alle chiappe secche.
“Avanti Said, racconta al dottor Rebaudengo la tua storia, ma
piano, con calma. Non hai niente da preoccuparti, tu non hai fatto
niente di male, anzi, hai salvato una persona. Solo che tra come la
racconti tu e come la racconta il signore milanese c’è un po’ di
differenza e vogliamo capire se uno dei due s’è sbagliato, per noi è
importante. Ricomincia e non aver paura”.
Quando si giunse all’esito era passata già da un pezzo l’ora di
andare a pranzo. Battaglia tirò fuori dal portafoglio un biglietto da
cinquanta e lo diede a Said: “Vai a comprarti qualcosa da mangiare
e, mi raccomando, non dimenticarti mai di me: noi due siamo amici,
ok?”.
“Ok, noi amici. Grazie amico!”.
Michele ed il commissario erano esausti, però il poveretto era stato
irremovibile, un monolito; la donna era stata spinta. Lui non aveva
visto le mani o le maniche di una giacca, tanto meno la faccia della
persona che l’aveva ‘aiutata’ a finire sotto l’autobus, ma era
sicurissimo che fosse andata così. Primo: perché la donna continuava
a girarsi indietro con un’espressione angosciata. Secondo: perché il
modo in cui il suo corpo si era lanciato in avanti, con le braccia tese
e le dita larghe dopo aver mollato le borse della spesa, non era stato
un modo naturale, si era capito benissimo che doveva aver preso un
colpo bello secco in mezzo alla schiena, lì in mezzo alle scapole,
gesticolava l’egiziano, da lì era stata spinta! Questo era stato il
racconto di Said, un’arrampicata affannosa alla ricerca delle parole,
annaspando tutti e tre come scemi, con tanto di mimi e ricostruzione
della scena: se qualcuno fosse entrato nell’ufficio di Battaglia in quel
momento, non avrebbe capito subito cosa stava succedendo e
avrebbe richiuso la porta, pieno di strambi pensieri. Said non sapeva
leggere e scrivere nemmeno in arabo, e le approssimazioni
linguistiche erano state tante, s’erano aiutati con un misto di italiano,
siciliano, arabo, cebano e inglese, quest’ultimo difficilmente
riconoscibile; sul contenuto della vicenda però la fermezza del
testimone non aveva ceduto davanti a nessuna obiezione. Dopo aver
tirato su ‘bella signora, anche se non più ragazza’, s’era guardato
intorno. C’erano tante facce chine su di loro, soprattutto studenti
perché quella era l’ora dell’uscita da scuola. Tra tutte dominava
quella dell’autista, impegnato in una sequenza di maledizioni per
sbollire lo spavento. Said e la donna erano caduti, si trovavano
seduti per terra e lui non era riuscito a vedere oltre la selva di gambe
e di busti, così quel ‘cane’ era potuto scomparire senza nemmeno
dover correre, e lui non se ne dava pace.
Battaglia tirò di nuovo fuori la foto della badante, era formato
tessera, ma nitida e la mescolò con altre tre o quattro fotografie di
donne slave: nessuna incertezza, la bella signora, non più ragazza,
era proprio lei, Svitlana Lysenko.
“Vedi, ci siamo fidati troppo, abbiamo sospeso il pedinamento
serrato perché la Lysenko se ne stava ore ed ore chiusa in casa e
usciva solo per far la spesa. Le intercettazioni non hanno dato grandi
risultati, e così abbiamo avuto la bella idea di seguirla solo se da
qualche conversazione fosse saltato fuori un elemento interessante.
E siamo stati dei balenghi, ecco, dei balenghi! Se ci fosse stato
qualcuno dei nostri, non dico che non sarebbe successo, ma almeno
avremmo una pista da seguire, qualcosa avrebbero visto boia faus! E
invece così niente! Cazzo!”. Tacque qualche secondo, poi riprese.
“Senti, cerca l’autista che stava facendo quella linea a quell’ora.
Magari dall’alto può aver notato qualcosa”.
“Chiamo immediatamente la SAR per farmi dare il nome”, rispose
solerte Battaglia, anche se entrambi avevano il presentimento che se
l’autista avesse notato qualcosa, sarebbe stato lui stesso a cercare
loro, ma tentare non costava nulla. Poi il sovrintendente aggiunse:
“Be’ dottore, a questo punto non vedo molte alternative ad un
interrogatorio, magari la scuote un po’!”.
Bartolomeo guardava fuori dalla finestra dell’ufficio di Battaglia.
Dire ‘fuori’ non era corretto, perché il fuori era un muro di cemento a
mezzo metro dai vetri. La sua finestra offriva la vista di una specie
d’intercapedine vuota, munita a terra di un canale di scolo per le
acque piovane che separava la parete dell’edificio dalla proprietà
confinante, il cui giardino si trovava più in alto. Rimanere ottimisti
facendo gli sbirri è dura, ma con quel panorama poteva diventare
difficilissimo, non per Battaglia però, che si portava dietro da sempre
la sua pacata dose di speranza.
“Ci arriveremo, perché qui non si va avanti di un passo ed il tempo
vola. Dimmi, piuttosto, come vanno gli ‘ascolti’ in casa Peluffo?”,
chiese Bartolomeo, il quale pian piano stava cambiando
atteggiamento verso Guidobaldo. Se all’inizio non gli era del tutto
dispiaciuto, con il trascorrere del tempo, sentiva crescere verso di lui
un’avversione sorda.
“Niente di significativo. Al cellulare parla con la moglie, le rare
volte in cui non sono insieme sul lavoro o in casa e non c’è niente
che attiri l’attenzione: in relazione all’argomento che c’interessa, si
tratta, tutt’al più di espressioni di rincrescimento e di amarezza.
Tornando ai telefoni, ci sono state conversazioni con qualche
fornitore, con la figlia grande, Chiara mi sembra che si chiami, la
quale studia fuori, a Torino, poi con il parroco, un certo don Cosimo
Triglia, abbiamo controllato, esiste e non è uno pseudonimo, con altri
amici e conoscenti, ma non abbiamo riscontrato elementi che
possano far pensare a qualche accordo, a qualche codice per dire
cose diverse da quelle che sembrano. Un vita grigia”.
“Ma non si è sfogato in merito all’oltraggio di quel testamento
bislacco? Non ha lanciato invettive contro la defunta?”.
“Guardi, è meglio che chieda a Orlando, è lui che si sciroppa ore e
ore di stronzate. Pare di no, comunque. Ne ha fatto menzione, ma
con garbo, con rassegnazione insomma, credo una volta con la figlia
grande e una con il parroco: capisce che con la figlia o con il parroco
non poteva di sicuro lasciarsi andare a maledizioni e parolacce, che
poi non mi sembra neanche il tipo, visto che non l’ha fatto nemmeno
in situazioni più riservate. Però chieda a Orlando, ne sa sicuramente
più di me. Penso che se ci fosse stato qualcosa d’importante glielo
avrebbero già detto”.
“Mmh, vero… vero”.
“Allora, glielo facciamo un bell’interrogatorio, così, per smuovere le
acque, per vedere se dopo confidano qualcosa, o s’incontrano con
qualcuno?”.
“Non adesso, prima devo fare una cosa…”, e se ne uscì dall’ufficio
del sovrintendente Battaglia, immerso nelle sue sempre strambe
riflessioni.
Capitolo otto: nel quale sguardi e silenzi risvegliano
atmosfere dei film con le spie
Ardelia stava guardando la tv, il telecomando in mano, la presa
sempre più molle perché le stava venendo sonno. Anche le sue
palpebre scivolavano verso il basso, se ne stavano appiccicate a
quelle di sotto per qualche secondo, poi tornavano su di botto,
rivelando un occhio sgranato che in realtà non vedeva niente. Aveva
le gambe raccolte sulla poltrona, per Bartolomeo restava un mistero
come facesse a trovare confortevole quella posizione, e fingeva di
guardare Crossing Jordan, ma era evidente che stava dormendo,
perché non imprecava e non strillava ad ogni presunto difetto
tecnico della sceneggiatura. Di solito imprecava e strillava in
continuazione, con grande gioia di Rebaudengo, che non riusciva mai
a capirci un tubo. Se voleva farla stare brava più a lungo doveva
cercare Dr. House. Con quel telefilm innescava la sua forte vena
competitiva e la sentiva bisbigliare tra sé, come quelle vecchiette che
recitano il rosario a fior di labbra, così hanno l’impressione di essere
più concentrate. E Ardelia se ne partiva in solitaria per un viaggio
fantastico, appesa alla mongolfiera meravigliosa della sua
immaginazione diagnostica. Enumerava i segni, li collegava,
avanzava ipotesi, e siccome non poteva essere lì a visitare, ascoltava
più i commenti dei medici che non i racconti dei pazienti, abituata
com’era al fatto che i morti non avevano l’abitudine d’illustrarle i loro
sintomi; pertanto osservare ed interpretare era per lei il metodo più
naturale. Qualche volta si agitava, ma sommessamente, per non
perdersi neanche una parola. Questo accadeva quando compariva
una complicanza stravagante ed improbabile, oppure solo alla fine si
scoprivano pregressi eventi patologici che avrebbero potuto essere
indicativi. Tornava indietro con la memoria mentre il telefilm andava
avanti, tentando di mantenere il controllo sulla vicenda, sempre
sottovoce, borbottando, e cercando di battere House sul tempo, ma
era difficile, lui era troppo bravo, soprattutto perché era un dottore
finto! E che cazzo, certo che ci azzeccava sempre! Anche Superman
salva il mondo, sai che sforzo, è Superman. Quando sbagliava o ci
arrivava troppo tardi, smetteva di mormorare ed attaccava terrificanti
requisitorie a piena voce contro gli sceneggiatori e questo accadeva
dopo le dieci, qualche volta dieci e mezzo: era stata una sera
tranquilla! Una volta Bartolomeo per distrarla dall’insuccesso, le
aveva detto: ‘Ma non ti sei ancora accorta che il Dr. House è
Sherlock Holmes, stessa intelligenza deduttiva, misogino,
tossicodipendente e che Wilson, pedante, grigio ma ragionevole è
Watson!”.
“Ma va’? Ma veramente?”.
“Sì e non è nemmeno un’idea mia, l’hanno detto una volta su
radio 3”.
“Oh belin, non ci avevo mai pensato!”, poi era rimasta un attimo
zitta e aveva concluso: “Non so però se ’sto fatto me lo rende più
simpatico o più antipatico! Sherlock Holmes da ragazzina mi stava
terribilmente sulle palle… Mmh, ci devo pensare…!”.
Non tutte le sere guardavano la televisione, qualche volta
chiacchieravano ascoltando musica, oppure trafficavano al computer.
La tv era la risorsa per i fine giornata in cui erano troppo stanchi per
dedicarsi a qualcosa di creativo. Quando decidevano di abbandonarsi
alla condizione di utenti televisivi, scattava nella testa di entrambi il
desiderio di rivedere cose che, pur nella simulazione approssimativa
di soggettisti e sceneggiatori, somigliassero al loro vero mestiere.
Era un fatto misterioso sul quale s’erano interrogati qualche volta,
poi avevano smesso, visto e considerato che la soluzione andava
bene a tutti e due. Naturalmente erano due diversi fruitori di brivido
poliziesco, ognuno aveva preferenze e modalità partecipative sue
tipiche. Il commissario per esempio, più distaccato, non sviluppava
empatia con la vicenda, Ardelia invece sì, che fosse un giallo, noir o
un medical thriller, perché trovava sempre qualche errore.
Proverbialmente nella serie Dr. House sbagli veri e propri non
c’erano, sebbene le situazioni patologiche dei personaggi fossero
sempre di una complessità estrema e gli esiti fossero a dir poco
arditi. restava il fatto che le avventure del medico più intrattabile
d’America piacevano alla dottoressa e la facevano stare brava ‘quasi’
fino all’ora di andare a dormire. Unico neo: le repliche, perché,
purtroppo, Ardelia aveva una memoria di ferro. Quando la sua
fidanzata non riconosceva volti o malattie, Bartolomeo tirava un
sospiro di sollievo.
Ma quella sera non c’era stato verso di trovarlo, il Dr. House
sembrava migrato, scomparso, estinto e la caduta su Crossing
Jordan era stata inevitabile.
“Lascia lì, lascia lì!”, aveva ordinato lei ancora in cucina, appena
finito di lavare i piatti e Rebaudengo aveva provato un brivido,
perché ‘…è la serie con più errori, più disinformativa’, diceva la
dottoressa dei morti.
“Ma allora perché la vuoi guardare?”.
“Perché mi piace sentire le cazzate che sparano!”. Lui aveva
tentato di cercare qualcos’altro, ma Ardelia, sistemandosi in
poltrona, non aveva voluto saperne. Fortunatamente la quiete
domestica non s’era infranta, perché la povera donna aveva presto
dimostrato di non essere in grado di distinguere il televisore acceso
da una lavatrice in funzione.
Era bella la sua dottoressa, con i capelli lunghi e ondulati che
portava sempre raccolti e scioglieva solo alla sera: arrivava in casa,
metteva le pantofole e scioglieva i capelli, perché quelli erano i segni
del riposo, del ritrovarsi, della dimensione intima. Non era alta e il
viso paffuto la faceva sembrare più giovane. Brontolava sempre di
essere grassa e forse qualche chilo di troppo c’era davvero, ma il suo
era un accenno di pinguedine, talmente lieve da essere aggraziato.
Poi, a parte i brontolamenti e qualche digiuno di severità eremitica,
ma di durata circadiana, amava cucinare e mangiare, faceva con arte
tutt’e due le cose, dimostrando così la sua voglia di vivere e di
accudire il prossimo.
Bartolomeo la guardava mentre sullo schermo scorrevano
immagini di un improbabile cadavere, lei si era definitivamente
addormentata ed aveva reclinato la bella testa sullo schienale della
poltrona. Il gatto Baciccia, le ronfava in grembo, da sempre
perdutamente innamorato di lei, del suo modo di cucinare e
inguaribilmente nemico del commissario. Bartolomeo era stato
fortunato ad incontrare quella donna, bella, di buon cuore,
intelligente, con il senso dell’umorismo e molto preparata sia tra le
pentole che tra i defunti. Allora perché raccogliendo dal tappeto il
telecomando che le era scivolato dalle dita, pensava a Svitlana?
Ma perché era la protagonista del caso che lo stava tormentando
in quel momento, non c’era nessun altro motivo! E subito il suo abile
inconscio gli confezionò un pensiero alternativo sul quale spremersi
le meningi: ‘cos’era stata quella sensazione di disagio e di allarme
che lo aveva preso una sera della settimana precedente, poco prima
di andare al ristorante, a Castelbianco? La famosa dissonanza
cognitiva o più terra terra: idea fasulla?’. E di colpo gli venne in
mente: ‘c’era qualcosa che non andava, qualcosa di sbagliato nelle
fotografie della scientifica sulla scena del crimine ed era qualcosa
che si collegava a qualcos’altro, ma cosa?’. Non riusciva a compiere
un percorso logico, sapeva che il problema era lì, in quelle foto,
avrebbe voluto averle sotto gli occhi in quel momento, ed invece
erano là, ad Alassio, in un cassetto di Martelli. E pensare, boia faus,
che aveva avuto cento, mille occasioni di andarsele a rivedere!
Dovevano venirgli in mente proprio adesso? Cazzo! Avrebbe dovuto
svegliare Ardelia, e dirle che sarebbe andato ad Alassio a guardare
delle foto, magari pretendendo anche che lei gli credesse, oppure far
finta di niente, aspettare che sorgesse il sole di un nuovo giorno e
passare la notte sveglio. Decise per la prima soluzione, perché se
c’era qualcosa che odiava era proprio fissare i ghirigori delle tende
illuminati dal lampione.
“Ciccia… ’more… psss… tesoro, potresti svegliarti un secondino?”.
Niente, come cercare di risvegliare un orso all’inizio di dicembre.
Provò a scuoterla delicatamente, continuando a darle nomignoli
cretini, ma l’encefalogramma restava piatto. Rese la voce più sonora,
senza per questo strillare, e la chiamò.
“Ardelia, amore, ho bisogno di parlarti un secondo, Ardelia,
potresti svegliarti solo il tempo che io ti dica una cosa?”.
“Eeh? Oddio, cos’è successo?”, fece lei facendo un salto sulla
poltrona e guardandosi intorno come se avesse appena scoperto che
era scoppiato un incendio.
“Tranquilla, tranquilla, non sta succedendo niente, è tutto a posto.
Devo solo dirti una cosa, ma devo dirtela adesso. Mi senti?”.
“Certo che ti sento, non sono mica sorda!”, ok, Ardelia era tornata.
“Devo andare un attimo in ufficio, mi sono ricordato una cosa”.
“Ma che ore sono? Proprio adesso ci devi andare?”.
“Sono le dieci e venti. No, non ci devo andare proprio adesso”.
“E allora perché ci vai?”.
“Perché se non ci vado, ci penso tutta la notte e non dormo”.
“Posso sapere di cosa si tratta o è un segreto d’ufficio?”.
“No, figurati. Riguarda il caso Peluffo. Devo assolutamente
guardare le foto scattate dalla scientifica dopo che è sorto il sospetto
che la vecchietta fosse stata fatta secca. C’eri, per te non c’è nessun
segreto”.
“Va bene. E di cosa si tratta?”.
“Ecco, il punto è proprio questo, non so di cosa si tratti, proprio
per questo devo vederle. Ho una specie di malessere, qui, nella
pancia e se non riesco a capire so già che saran dolori”.
“E devi per forza capire alle dieci e mezzo di sera?”.
“Tu vuoi che mi giri e rigiri nel letto, insonne per tutta la notte? Tu
vuoi questo per me, amore mio?”.
“Ma vaffan… stronzo!”.

In commissariato c’erano in tre, dopo l’arrivo di Rebaudengo, più i


due della volante sparsi sul territorio. Il piantone si teneva sveglio
guardando una piccola tv ed il collega trafficava al computer. L’ufficio
della scientifica era deserto e chiuso a chiave, naturalmente.
Bartolomeo sapeva dov’erano le chiavi, entrò, accese la luce e
richiuse la porta con le spalle. Sarà stato il neon o la stanchezza,
certo che la stanza era gelida. Accese anche la lampada da tavolo
sulla prima scrivania e gli sembrò che quell’antica lampadina a
filamento lo scaldasse un po’.
Dopo pochi minuti le foto erano piazzate sul ripiano di inox di una
piccola scrivania da ambulatorio, dal quale aveva tolto tutti i papiri,
penne e carabattole varie, e sembravano le carte di un solitario.
Aveva avuto il presentimento giusto: quelle foto erano strambe, non
perché il fotografo fosse ubriaco al momento dello scatto, ma perché
esprimevano qualcosa di anomalo. Una scena del crimine non è mai
un luogo ordinato, ci sono i segni del disastro appena compiuto, la
lotta, materia organica, oggetti spezzati, sangue: passata la
tempesta su tutto si posa la quiete senza ritorno della morte. Quelle
foto ritraevano sì un cadavere, ma la sua postura nel letto, le mani, il
volto e gli oggetti che avevano fatto parte della sua quotidianità,
tutto era a posto, come se la povera Ildebranda si fosse spenta nel
sonno… Anzi, di più, perché le ciabatte erano affiancate tra la
sponda del letto ed il comodino, le due punte, perfettamente
parallele, lambivano la striscia di graniglia di marmo che ornava il
perimetro del pavimento, non sporgevano di un millimetro, nessuna
delle due. I telecomandi erano appoggiati con cura sul comò, sui
giornali il cellulare acceso, e dei giornali s’intravedeva parte della
copertina. La vecchietta leggeva ‘L’espresso’: strana vecchietta
davvero. Le medicine stavano vicino alla specchiera, sulla parte
opposta rispetto al piccolo televisore e al decoder, ed erano
sistemate in ordine decrescente di grandezza della confezione. Il
cadavere non presentava segni di colluttazione, non un’ecchimosi,
una smorfia. L’unico particolare che impediva di scambiare quel
corpo per quello di una persona quietamente addormentata erano gli
occhi aperti, senza espressione. Le mani posavano sul risvolto
ricamato di un lenzuolo prezioso e perfino i capelli sembravano
ravviati per il fotografo.
Bartolomeo aveva già visto molte scene del crimine e qualche
volta se l’era anche sognate di notte a causa dell’orrore di ciò che
s’era trovato davanti, specialmente i primi anni, a Torino. Ma una
situazione come quella incontrata a casa Peluffo non la ricordava
proprio. Però non voleva fissarsi su quell’idea, voleva confrontare la
sua sensazione con quelle degli altri che erano stati sul luogo del
delitto, non solo Martelli, Bottini e Negri, ma anche Ardelia. Avrebbe
cercato di combinare un incontro entro breve per parlarne tutti
insieme, un piccolo brain storming su scala ridotta. Gli sarebbe
piaciuto risolvere subito la faccenda, ma non poteva esagerare con le
rotture di coglioni, era mezzanotte meno dieci. Anzi, visto che il suo
tarlo s’era rivelato giusto, poteva tornarsene a casa e cercare di
dormire.
Quando con la sua Fiat percorse l’Aurelia in direzione di Albenga,
non poté non rivolgere uno sguardo alla sua destra. Oltre la muraglia
di edifici che si affacciano sulla strada principale, c’è una stretta via
parallela più vicina al mare che si chiama via Garibaldi, la quale va
ad esaurirsi in prossimità degli ultimi alberghi, prima della discesa
verso il porto. In quella via, in un sottotetto grazioso e minuscolo,
abitava Svitlana, la ‘sua Svetlana’, sospettata di omicidio e di aver
aperto una piccola crepa nel suo cuore.

Eran passati due giorni e c’era un bel sole: la Liguria è così,


imprevedibile, come una bella donna. L’inverno sembrava finito,
odore di mimosa nell’aria, primi cinguettii al tramonto, cirri sfilacciati
nel cielo chiaro dell’inizio di marzo. Durante il sabato e domenica
cominciavano ad arrivare i turisti, fiorivano le prime scottature da
esibire al lunedì sul lavoro, il mare si vestiva di blu pavone, complice
anche lui dell’assessorato per il turismo.
E quella mattina l’aria era mite e profumava di pollini. Per questo
motivo, stranamente e per la prima volta nella sua vita, il naso del
dottor Rebaudengo prese a somigliare ad un rubinetto con la
guarnizione rotta e gli occhi gli diventarono rossi e gonfi. Qualche
fastidio nel corso degli anni l’aveva già avuto, ma episodi di breve
durata, presto dimenticati.
‘Sarò mica diventato davvero allergico a qualcosa?’, fu la questione
geniale che si pose al quattordicesimo starnuto di una raffica
sconquassante, che lo aveva travolto appena in piedi, alla fine di una
notte in cui aveva creduto che gli fossero scomparse le narici dal
naso. No, le narici all’apparenza c’erano ancora, anzi funzionavano
tantissimo, non per far andare l’aria in su però, piuttosto per far
colare l’acqua in giù. Questa novità alla quale non era abituato lo
mise di pessimo umore. Ma, forse, la colpa non era tutta della
novità, ma anche di quello che lo aspettava in ufficio. Aveva fatto
convocare formalmente Svitlana – non avrebbe mai capito che per
far contenta la sua indipendente anima ucraina sarebbe bastata un ‘i’
– non per un interrogatorio vero e proprio, ma per una di quelle
chiacchierate che si chiamano ‘sommarie informazioni’ e che spesso,
alla prima negazione o affermazione sbagliata diventano
interrogatori. All’interrogato e all’inquisitore si aggiunge un’altra
allegra coppia: l’avvocato difensore da una parte ed il magistrato
dall’altra e tutto si complica parecchio. Fino a quel giorno nessuno le
aveva ancora indicato di cercarsi un legale e, siccome lei questo lo
aveva imparato, forse sperava di uscire da quell’incubo passando
attraverso la porta del commissariato e non quella del carcere dopo
un buon numero di anni.
Bartolomeo, quella notte, aveva dormito da solo nella sua vecchia
casa perché i suoi rumori rinofaringei non avrebbero lasciato riposare
Ardelia, e poi piaceva a tutti e due fare, di tanto in tanto, vita da
single. Mentre si radeva e ascoltava un notiziario radiofonico, senza
sentirlo veramente, guardava fuori l’incerta luce di quell’inizio di
giornata. Il cielo era terso come una coppa di cristallo capovolta sul
mondo, e nella parte più blu scintillavano stelle tardive, l’alba
avanzava con la sua paranza di arancio e porpora lievitando dal
mare. L’unico neo di tanto splendore era un vento allucinante che
scuoteva le chiome degli alberi, sospingendo carta e rumenta in
piccoli vortici polverosi lungo la via, strapazzando le rotte degli
uccelletti. E che portava pollini da terre lontane sparandoli
direttamente nei nasi degli allergici. A quell’idea starnutì e fece
appena in tempo a spostare il rasoio dalla punta del naso. Gli venne
il nervoso e di colpo non gliene fregò più niente della primavera,
della gloria dell’alba e dello splendore del cielo pieno di pollini e
profumi: tutto il suo campo mentale fu occupato dall’appuntamento
con Svitlana, che non aveva proprio niente di romantico. Non
avrebbe voluto vederla in quel modo, ma non poteva e non doveva
vederla in nessun altro, per un mucchio di motivi.
Andò in cucina, ghermì una fetta di pane, aprì il frigo e con
precisione chirurgica tagliò tre fettine di lardo di Arnad che distese
sul pane. Fece intiepidire al microonde, una bella coupa d’café che
sembrava un beverone caldo da vitelli, giacca a vento, scorta di
fazzolettini e se ne partì per le ‘sommarie informazioni’.

Stessi occhi da tartara, blu baltico, più enigmatici di quelli di un


gatto siberiano, silenzio, atteggiamento tra il timido e l’elusivo.
Mistero. Aveva o no ammazzato la vecchietta? Bella domanda.
Svitlana non sorrideva, non aveva voluto un caffè, Ravera era seduto
ad una scrivania, poco più che un tavolinetto in fondo alla stanza.
Non scriveva, aspettava che si levasse in aria la bacchetta del
direttore d’orchestra.
“Signora Lysenko, lei ci deve dire parecchie cose che ci ha taciuto,
altrimenti noi possiamo pensare che ce ne nasconda molte altre e
più pericolose”.
Silenzio, sguardo concentrato negli occhi di Bartolomeo, eppure
distante, quasi assorto.
“Signora Lysenko, se lei continua così non va mica bene. Io non
sono sempre di buon umore, anzi, questa mattina non lo sono per
niente; ho il raffreddore e mi dà fastidio, è naturale. Ma mi dà
ancora più fastidio essere preso in giro”.
Battito di ciglia, ancora un momento di riflessione, poi un leggero
colpo di tosse, uno schiarimento della voce. Cos’avrebbe detto
adesso?
“Cosa vuole sapere, dottore commissario?”.
“Lasci perdere il ‘dottore’, in Italia non si dicono insieme.
Cominciamo allora. Lei non ci ha raccontato, quando doveva, della
relazione con Porrini che è stata poi la causa della sua assenza nella
notte del delitto”.
Movimento infastidito delle dita intorno ai manici della solita
borsetta. Leggero sospiro.
“Io già detto una volta, non ricordo se con lei o altro poliziotto”.
“Me lo ripeta allora, anche se lo ha già detto. Io non me lo
ricordo”.
Sguardo impersonale, pieno d’indifferenza. Non gli piaceva essere
guardato in quel modo. Gli era già successo tante volte. Su quella
seggiola, la gente si difendeva come poteva, anche a colpi di sguardi
inespressivi. Ma non gli piaceva che lo facesse Svitlana.
“Allora?”.
“Lo ripeto: non credevo che serviva”.
“‘Servisse’, ma va bene lo stesso. E infatti non sarebbe servito se
non fosse stato per il fatto che quella notte è stata uccisa la sua
datrice di lavoro. Buona parte di quella notte, lei non è stata in casa
e non ce lo ha detto. Perché? Avrebbe potuto costituire un alibi: lei
sa cos’è un alibi? Me lo dica”.
“Alibi?”, domandò lei sbattendo le belle ciglia. Quella ‘l’ di ‘alibi’ era
stata così liquida che era parsa una goccia in una fontana.
“L’alibi è la condizione che ci permette di dimostrare la nostra
presenza in un luogo diverso da quello in cui è stato commesso un
crimine, nell’ora in cui quel crimine è stato commesso. Ha capito
cosa voglio dire?”.
“Sì, alibi, sì, capito. Io non detto perché il mio funziona poco. Il
signore mi ha lasciato sola nela casa verso l’una e mezzo e poi
nessuno può aiutarmi. E poi sapevo che lui non diceva parole buone
per me, così ho lasciato lui fuori e non detto niente”.

“Sì, ma mia cara, quando si parla con la polizia, quando c’è stato
un omicidio, non si deve decidere da soli cosa dire e cosa non dire. si
dice tutto quello che si sa, che si è fatto, anche se magari non ne
siamo orgogliosi o se pensiamo che non ci servirà. Lei lo lasci
stabilire a me, va bene?”.
Battito di ciglia: “Va bene”.
“A che ora ha lasciato l’appartamento nel quale s’incontrava con il
Porrini?”.
“Ho aspettato che non era proprio notte notte, mi spiego? Casa di
Tiotia Ilde è in mezzo di centro storico e un po’ mi fa paura,
camminare da sola, nel buio. C’è buio anche ale sei di mattino, in
questo mese, ma io ho idea che è già un po’ mattino e ho meno
paura. Passano uomini di spazzatura, tirano i giornali, apre qualche
bar, è meno brutto. Sono arrivata in casa ale sei e dieci, forse un
quarto”.
“Bene. Dopo cos’è successo?”.
“Fatto piano, per non disturbare Tiotia Ilde. Lei conosceva mia
storia, adesso finita, non uomo buono, ma io già sapevo, solo che
non volevo dire a me stessa. Ala sera prima io ho detto che avevo
appuntamento con Sergio, lei riso e detto che fa bene ala salute, io
divento rossa quando dice cose così”, e divenne rossa. “Noi abbiamo
telefonini, lei non era malata, tutto a posto, ci vediamo domani
mattina presto. Ho baciato Tiotia Ilde e andata”.
“Che ora era?”.
“Dieci e mezzo, sì, massimo dieci e mezzo. E lei detto veramente
‘Non rompere Svieta che sta per succedere un casino’, parlando di
film in tv e io ho riso, perché disturbavo, ripetevo di chiamare per
qualsiasi cosa, anche piccolissima. Quele parole è l’ultima cosa di
lei”.
“Quando è rientrata in casa al mattino, ha capito che c’era
qualcosa che non andava?”.
“Non subito, porta chiusa bene. Luci spente, tutto a posto. Io ero
arrabbiata, perché avevo litigato e sapevo anche che era brutta
storia e dovevo piantare lì. Io volio bene a Evgenij, anche se tanti
anni lontani, ormai. Non è questione di fedeltà, è questione di
rispetto e io mancavo di rispetto prima ancora a me che a lui: Sergio
è uomo cattivo. Forse anche per questo io mi vergognavo e non ho
detto a lei, commissario”, e abbassò gli occhi con una grazia tale da
far crepare d’invidia perfino Bambi di Walt Disney. Bartolomeo
avrebbe voluto non notarla, ma la notò.
“Vada avanti a raccontare di quella mattina”.
E lei raccontò di come si era mossa nella casa, piano per non
disturbare, ma dopo il rito di pappa e coccole a Svetlana felina, s’era
resa conto che il silenzio nella casa era totale, questo l’aveva
inquietata e aveva chiamato la signora. Non c’era stata risposta, era
subito andata a vedere se Ilde stesse bene, e così aveva fatto la
scoperta. Niente urli, niente gesti stupidi. Aveva aspettato un po’ ed
era andata dalla vicina. Somigliava molto alla prima versione.
“Avete cenato insieme la sera precedente?”.
“Sì, trota salmona…”.
“Salmonata e finocchi gratinati al forno. Le è sembrata contrariata,
spaventata?”.
“Ci ho pensato tanto dopo… forse un po’ diversa era: scherzava
come al solito, ma sembrava che rideva con un po’ di fatica. Io ho
anche chiesto se non stava bene, ma lei mi ha detto di andare, che
poi da vecchie il letto serve solo per dormire o morire. Aveva questo
modo un po’… Non so la parola…”.
“Irriverente?”.
“Non so cosa vuole dire…”.
“Che sembrava che non prendesse le cose troppo seriamente?”.
“Ecco, sì, giusto”.
Rebaudengo se ne stette un po’ a tamponarsi il naso, ormai rosso
pomodoro.
“E durante la visita del nipote, tutto ok? Lo so che gliel’ho già
chiesto prima, ma adesso siamo un po’ più in confidenza, giusto?”.
Sembrò che una nuvola spessa avesse attraversato un cielo estivo,
ma Rebaudengo fece finta di niente.
“Se hanno litigato è stato mentre stiravo e alora hanno litigato
piano, perché io non ho sentito niente, oppure quando io ero fuori
per piccola spesa di pomeriggio”.
Bartolomeo tamponava e meditava. Poi decise che era venuto il
momento per colpire.
“Allora, visto che siamo in vena di confidenze: chi è che ha cercato
di buttarla sotto l’autobus tre giorni fa?”.
E lì si rese conto che prendere alla sprovvista una persona che
arrivava dalle fredde terre del KGB era speranza vana. Lo sguardo si
spense, il cerbiatto se ne tornò nella foresta e davanti a Rebaudengo
si strinsero a fessura due occhi più freddi dell’azoto liquido.
“Nessuno”.
“Eh, eh, Svetlana Mychailvna, non mi faccia arrabbiare, non deve
dire le bugie!”.
“Io non dico bugie”.
“Sì, va be’, lasciamo perdere. Ho un testimone”.
Avvenne una strana metamorfosi: lo sguardo rimase alla
temperatura dei refrigeranti, ma le labbra si schiusero in un sorriso
sovietico.
“Ah, ma lei vuole dire quando io sono caduta davanti autobus che
ero andata ad Albenga per piccole spese?”.
“E brava, la mia signora Lysenko: proprio quella volta lì”.
Allora rise di un riso breve e falso come una moneta da tre euro.
“Ma io caduta da sola!”.
“Niet, niet, lei non caduta da sola, lei spinta!”.
“Chi lo dice?”.
“Il mio testimone”.
“Si sbalia”.
“Niet, niet, non si sbaglia. Ci ha visto benissimo”, e gli sembrò un
ottimismo esagerato, tenendo conto dell’occhio sguercio.
“Bene, alora diciamo che forse sì, magari spinta, ma da qualcuno
che lo ha fatto per la fretta, per paura di perdere il bus, per sbalio,
insomma!”.
Ecco, beccatela lì: e adesso? E adesso urgeva scaltrezza per
improvvisare una strategia, facendo finta di avere le idee chiare su
come quel discorso dovesse precedere, anche se non ne aveva la più
pallida idea.
“No, signora Lysenko e sa perché dico di no?”, Bartolomeo certe
volte scivolava nelle domande inutili.
Svitlana sapeva aspettare e non s’intromise nell’argomentazione
del suo antagonista.
“Le dico di no, perché forse lei sa chi l’ha spinta e sa anche perché
lo ha fatto, e se proprio non lo sa con sicurezza, lo sospetta
fortemente. Tutti e due, sia io che lei sappiamo che c’entra qualcun
altro in questa storia. Ora bisogna vedere se lei con il suo silenzio
intende proteggere questa persona, ma non credo, perché non si
protegge qualcuno che cerca di ammazzarci. Pertanto ritengo che lei
ne abbia paura. La sua è una paura inutile, perché la polizia può
proteggerla”.
Lei non disse niente ma cambiò sorriso, questo somigliava ad una
smorfia triste. Rebaudengo la guardò e ci mise un attimo ad
afferrare, sentì subito un bisogno di risponderle con rabbia, per farle
capire che aveva colto l’ironia, e che lei stava sbagliando.
“Sì lo so che al suo paese fino a poco tempo fa la polizia non
proteggeva, e forse nemmeno oggi le cose vanno meglio. Magari al
vostro paese non c’è l’abitudine di chiedere aiuto alla polizia, ma qui
è diverso: di me… di noi si può fidare! Se ha dei sospetti su
qualcuno, deve dirmelo!”.
Svitlana guardò fuori della finestra il mondo oltre il vetro. C’era un
sole scintillante, quasi rabbioso, che sparava raggi limpidissimi dopo
tanta acqua e tante nuvole. A complicare tutto, il vento; un vento
che portava tepori primaverili ma con l’energia dell’inverno,
schioccando veloce contro i bucati stesi ed i rami degli alberi.
Bartolomeo la lasciò rimuginare il giusto, poi vide che la donna non
stava cercando le parole, semplicemente non aveva intenzione di
aprir bocca.
“È qualcuno che conosceva la vecchia signora, qualcuno che la
odiava per motivi ignoti che, però, possiamo immaginare essere il
denaro o qualche antico torto o un odio famigliare mai dimenticato?
Oppure è qualcuno che fa parte del ‘suo’ passato, Svetlana, o del
suo presente, qualcuno che ha chiuso la bocca ad una povera
vecchietta perché ha visto o sentito qualcosa che non doveva? Non
ci sono molte altre possibilità e lo sa anche lei. Considerando poi che
questo qualcuno ha cercato di spingerla sotto un autobus durante
l’ora di punta, nascondendosi in mezzo agli studenti, forse non
sarebbe una pessima idea raccontarmi qualcosa, che ne dice?”.
La signora Svitlana non aveva niente da dire e fece un accenno di
alzarsi dalla sua poltroncina. Bartolomeo le appoggiò una mano
sull’avambraccio e la spinse di nuovo sulla seggiola.
“No, mia cara, sono io che decido quando concludere questa
conversazione e sono sempre io che decido se portarla avanti nella
forma di una conversazione, oppure trasformarla in un
interrogatorio”.
A molte donne, nel suo passato professionale, alla parola
interrogatorio era tremato il mento. Il commissario ebbe il sospetto
che per far tremare ‘quel’ mento ci sarebbe voluto un sequestro
notturno e ritrovarsi in un discreto sotterraneo della Lubianka.
Fu a quel punto che gli venne un’idea azzardata, una possibilità
così estrema da non poter far parte del bagaglio genetico di un
piemontese di provincia, eppure gli venne, lui stesso ne rimase
esterrefatto. Non ne fece parola e si ripromise di analizzarla ed
elaborarla sotto la doccia.
“Va bene, per adesso vada”.
Svitlana Mychailivna Lysenko rimase interdetta, forse si aspettava
modi più severi, più cattivi per estorcerle i suoi segreti, ma si guardò
bene dal frapporre un solo secondo tra il permesso di alzarsi e l’atto
di salutare ed uscire dalla stanza.
Rebaudengo e Ravera rimasero qualche istante a fissarsi a
vicenda, non sapendo cosa pensare.
“Perché l’hai lasciata andare?”, domandò Ravera, che da qualche
tempo aveva ricevuto da Rebaudengo l’ordine di dargli del tu. Una
mattina nuvolosa e bigia il commissario si era accorto all’improvviso
che il suo ispettore e amico non aveva mai smesso di dargli del lei.
“Perché non ci avremmo cavato niente. Questa non ha vent’anni, è
una tosta, è nata sotto Kruschev, è sopravvissuta a Breznev,
conosciamo ben poco della sua storia famigliare, ma certamente è
abituata a sistemi ben diversi dai nostri per far dire le cose alla
gente. Se anche avessi optato per la linea dura, non avrei fatto
molta strada…”. Il punto era che non aveva nemmeno voluto
tentarla, quella strada.
Ravera rimuginò qualcosa per conto suo, poi vedendo che il
commissario taceva, pensò di riempire quel buco con qualche
riflessione fresca.
“Forse è la prima volta che ci troviamo con due sospettati, la
domestica ed il nipote e nessuno dei due fa un passo falso, dice una
parola di troppo. Confidavamo nelle intercettazioni in auto, invece
Peluffo quando guida in compagnia della moglie, parla del più e del
meno, nemmeno lì si lascia andare. E che di solito la gente, anche la
più cauta, considera l’auto una specie di zona franca, pensa che,
chissà perché sulle macchine non si possano mettere microfoni…
Non l’ho mai capita”.
Poi, saltando di palo in frasca, visto che Rebaudengo sembrava
inceppato sul tasto ‘pausa’, ricominciò.
“Tu credi che l’egiziano si sia inventato tutto, o meglio, magari non
tutto, visto che un pezzo è confermato dal finanziere in pensione, ma
pensi che ci abbia ricamato sopra?”.
“Così vinceva un giro in commissariato? Non credo proprio. Quello
anche se ha un occhio di vetro, con l’altro ci vede benissimo. Non so,
non ho proprio idea di chi possa avere interesse ad uccidere la
Lysenko. Peluffo? Potrebbe essere così scemo da pensare che se
tirasse i gambini la badante, il patrimonio della zia prenderebbe la
via delle sue tasche? Non può non sapere che in caso di morte
dell’ucraina, andrebbe tutto alla figlia di lei. Se è vero che qualcuno
l’ha spinta per toglierla di mezzo, ed io sono incline a ritenere di sì,
potrebbe essere qualcuno che fa parte del suo passato e magari per
una vicenda che non c’entra un tubo con la nostra storia… E la
vecchia faccenda è confluita dentro quest’altra che conosciamo noi
per un disgraziato caso e confonde tutto… Una coincidenza
insomma… No eh? Le coincidenze non esistono: sono isole di un
arcipelago che sembrano terre separate, ma sotto il pelo dell’acqua
si vede che sono solo le punte di una catena montuosa sommersa…
Non mi ricordo chi l’abbia detto o scritto, però è un paragone
azzeccato. Non pensi anche tu, Ravera?”.
“Bartolomeo, io non penso niente. Questo è uno di quei casi in cui
esami scientifici e tecnologie non ti portano più avanti di quanto
avrebbero fatto i metodi antichi, quelli dei tempi prebellici, per
capirci. Sono demoralizzato. Qualunque idea potrebbe andare bene e
poi non ne va bene nessuna…”, e non aggiunse altro.
“È per domani pomeriggio il nostro brain storming ristretto per le
foto?”.
“Sì, verso le cinque. Viene giù anche Bottini?”.
“Sì credo di sì. Poi io e lui ci andiamo a mangiare qualcosa da
single. Vuoi venire anche tu, sono sicuro che gli farebbe piacere”.

Erano a mangiarsi una pizza al ‘Candidato’ che poi chissà perché


aveva quello strano nome: forse era stato scelto in periodo
elettorale, forse era per la vicinanza del locale con il palazzo del
comune di Albenga, fatto sta che si chiamava così, e le tovagliette di
carta sottopiatto erano simili a schede elettorali. Comunque alla
gente piaceva e c’era sempre pieno, anche perché il padrone o
l’oste, per dirla all’antica, era un tipo burlone e affabile. Bartolomeo
amava quel localino nel centro storico perché amava tutto del centro
storico.
I carruggi bui e angusti, le minuscole piazze dove faticava a trovar
posto una 500 di quelle antiche, gli archi, le chiavi di volta, le pietre
angolari che ammiccavano tra i restauri maldestri, gli odori, i silenzi:
Albenga vecchia gli sembrava un’altra città, anzi, un altro paese, e
quando l’attraversava, nelle rare occasioni in cui non gli toccava
correre, si sentiva un turista del tempo.
Aveva ordinato un piatto di pesce in carpaccio con aggiunta di
insalata di seppie, qua e là acciughe marinate, una roba
terribilmente salutista, con verdure cotte al vapore, mentre Bottini
era riuscito a trovare i tortellini con un bel condimento butirroso e
ricco; per finire, Ravera aveva mantenuto una linea neutra: pizza con
melanzane gratinate. Esordì Bartolomeo:
“Abbi pazienza Ugo, ma perché mangi ’sta roba che è come colarsi
del cemento a pronta presa nelle arterie? Pesce, ancora pesce, e poi
verdure e olio di oliva, frutta, niente formaggi: alla nostra età non
possiamo più ingurgitare qualsiasi schifezza come quando avevamo
vent’anni!”.
“Guarda che i tortellini con il ragù non sono mica una schifezza!
Sono un piatto che c’invidia tutto il mondo, tra un po’ si metteranno
ad imitarli anche i cinesi”.
Uno era il suo diretto superiore, l’altro un magistrato, ma Ravera
capì che doveva mettersi in mezzo, altrimenti da lì non ne sarebbero
più venuti fuori. Così, senza rivolgersi a nessuno in particolare
domandò: “Cosa ne dite, adesso che siamo in territorio neutro, di
quelle fotografie?”.
Partì Bartolomeo:
“Evidenziano una manipolazione della scena del crimine. Subito
dopo l’atto omicidiario, la situazione non doveva essere certo quella
che abbiamo trovato noi. Qualcuno, prima di andarsene ha messo le
cose in ordine, per confondere e per eliminare eventuali tracce utili
alla sua identificazione”.
Bottini masticava gioioso, per nulla disturbato dall’eventualità di
una salita del colesterolo, minacciata dall’amico piemontese
convertito al minimalismo mediterraneo. Si gustava quei tortellini
come se fossero stati una merce preziosissima e ogni tanto
socchiudeva gli occhi ricordando un gatto felice. Bartolomeo
masticava le seppie fredde, le acciughe marinate, il carpaccio di
pesce spada trovando tutto ottimo ma vagamente penitenziale.
Invidiava bestialmente il suo amico, ma sarebbe morto piuttosto che
ammetterlo. L’oste, sotto i baffi se la rideva, guardando quella
scenetta che rivelava come anche a cinquant’anni, anche dietro la
protezione di un lavoro autorevole, davanti al cibo ed anche a
parecchie altre cose, si resti perennemente bambini.
Ravera tagliava la sua pizza con metodo e mangiava ostentando
serenità; non si sentiva in colpa perché non infliggeva al suo corpo
un’overdose di lipidi e nemmeno si fustigava con una bella porzione
di pesce freddo e salutare. Di tanto in tanto spiava lo sguardo che
Bartolomeo rivolgeva alle verdurine: fagiolini, zucchine e carotine.
Tutto sanissimo. Ardelia avrebbe dovuto premiarlo per quella serietà.
Peccato che non ci fosse. Aveva presenziato anche lei al brain
storming, anche il suo parere era stato concorde: qualcuno aveva
deliberatamente messo tutto a posto per indebolire l’efficacia del
lavoro della scientifica. Certo che è possibile capire la natura del
manipolatore studiando il suo modo di manipolare, e risalire alla sua
identità attraverso un’altra via, ma la faccenda si aggroviglia
parecchio.
Alla fine del loro summit, la dottoressa Spinola, ricordando che il
giorno successivo sarebbe partita presto per Genova, in visita alla
madre, aveva preferito tornarsene a casa e lasciare che Bartolomeo
si gustasse quella serata, che non era più di lavoro ma di piacere,
all’osteria con gli amici. Anche Martelli se n’era andato, aveva un
figlio con la febbre, acciacchi di bambini, ma non gli era sembrato
carino lasciare la moglie a casa con il piccolo malato. Così erano
rimasti soli, loro tre.
Fu Bottini ad esprimere il pensiero di tutti: “Che poi mettere tutto
a posto non è un modo per evitare di essere scoperti, anzi, in molti
casi è lo stesso tentativo di depistare che indica la direzione giusta
agli investigatori, non pensate anche voi? L’assassino crede di
togliere un indizio e, magari, ne mette un altro e più efficace,
giusto?”.
“Giusto, giusto: bisogna solo capire il criterio, il metodo con cui
confonde le tracce. Certo, fossimo bravi come quelli di Criminal
minds lo avremmo già preso, o no?”, e pian piano la conversazione
scivolò verso altri orizzonti: le serie poliziesche televisive che
guardavano tutti – per criticarle s’intende! – la caccia, Bottini era un
grande cacciatore, infine, ever green, il calcio. I minuti passarono
rapidi e si accumularono fino ad indicare il momento di andarsene a
dormire.
Quando Bartolomeo fu solo, seduto nella sua Fiat diesel, rivide lo
sguardo obliquo della signora Lysenko e si sentì un buco tra pancia e
cuore.
Capitolo nove: in cui la soluzione si mantiene
lontana, ma le crepe nel cuore di Rebaudengo si
fanno più serie
S’erano avvicendati parecchi uomini e donne del commissariato
alassino, alle costole della signora Lysenko, e non avevano
individuato nessun losco figuro che la seguisse né da lontano né da
vicino. Eppure Bartolomeo era convinto che il suo amico Said non
avesse mentito e nemmeno gonfiato la notizia: gli immigrati con
qualche problema di uscite forzate e rientri laboriosi, di solito non
hanno l’abitudine di andare a caccia di scoop da raccontare ai
poliziotti.
Svitlana, dal canto suo, s’era presentata sua sponte un giovedì
pomeriggio per sapere se poteva lavorare o se la sua condizione di
sospettata glielo impediva. Battaglia l’aveva rassicurata in tal senso:
se qualcuno le aveva offerto un lavoro regolare, anche temporaneo,
che le permetteva di guadagnarsi di che vivere in quel periodo
difficile, la polizia non era certo interessata ad impedirglielo.
D’altronde lei aveva anticipato in una chiacchierata di qualche tempo
prima, il desiderio e la speranza di lavorare un po’. E così al Don
Bosco, un collegio d’antica fama ad Alassio, l’avevano assunta come
donna delle pulizie, nonostante la sua posizione delicata. Lei non
sapeva che dietro quell’assunzione c’era stata una breve telefonata
di Bartolomeo al direttore.
Le sue giornate cominciavano presto, sia che andasse a lavorare al
mattino, sia che facesse il turno successivo. C’era da sgobbare in
quell’edificio immenso, sebbene non fosse certo da sola a lavorare;
quando poteva pranzava con Svetlana, baci e fusa, piccole parole
d’amore in ucraino misto russo, alla solita maniera. Nel pomeriggio,
quando non le toccava lavorare, se ne restava a casa, cucinava
qualcosa anche per Tamara e sua figlia, stirava e ogni tanto
piangeva. due volte aveva telefonato a Evgenij, gli aveva raccontato
la storia, ma lo aveva fatto in modo che lui si preoccupasse il meno
possibile e, soprattutto, non dicesse nulla alla loro figlia. Usciva
raramente e ancor più raramente vedeva la sua giovane amica
Roksolana Khryuchenko.
Sull’opposto fronte della nipotanza della povera vecchietta, calma
piatta, nessuno diceva niente di compromettente o forniva il minimo
appiglio per avanzare di un passo.
Un giorno in cui s’era sentito ispirato, Bartolomeo aveva fatto una
chiacchierata telefonica con il signor Guidobaldo, al solo scopo di
domandargli quale spiegazione si fosse dato di quel testamento burla
che, di fatto, lo privava di una cospicua parte del patrimonio di
famiglia. Con la sua cadenza piemontese tanto garbata gli aveva
suggerito, mentendo, che forse avrebbe potuto minare la posizione
dell’erede straniera, magari quelle disposizioni erano state forzate in
qualche modo… Forse c’era uno spiraglio, una crepa in quella
situazione. Ma il buon uomo era stato fermo e pacato.
“Commissario, se dovessi prendermela con qualcuno, me la
prenderei con l’unica persona che ha creato una situazione tanto
grottesca: mia zia. Svitlana non ha forzato proprio niente, non ne
aveva gli strumenti, considerando la cocciutaggine della buonanima,
ma nemmeno il carattere perché è una donna fiera, povera di sicuro,
soprattutto per i nostri parametri, ma orgogliosa. Io stimo quella
donna, non la credo proprio capace di far del male!”. ‘Boia faus che
cambio di rotta! Ma non aveva detto che una mano nel fuoco,
eccetera eccetera… La badante ha fatto un bel salto di qualità nell’hit
parade di Guidobaldo’ notò Rebaudengo, che non interruppe e si
gustò il seguito: “No, commissario, lì la colpa, se vogliamo parlare di
colpa è stata della mia vecchia zia, la quale non mi ha mai perdonato
il mio matrimonio, la mia religiosità ed il fatto che fossi andato ad
abitare fuori, esercitando il modesto mestiere di cartolaio, di
venditore di quaderni e righelli. Io avrei dovuto essere avvocato e
piazzare una bella targa d’ottone sulla porta massiccia di uno dei
nostri, cosa dico?, suoi palazzi del centro storico di Albenga”.
“Lei crede davvero che il testamento sia l’esito di una ripicca?
Perché avrebbe dovuto punirla a causa delle sue scelte di vita
quando, diciamocelo, la signora Ildebranda aveva sempre fatto ciò
che le era piaciuto, senza curarsi dei giudizi altrui?” e a Bartolomeo
venne in mente quell’accusa d’ipocrisia che gli aveva riferito il notaio
Spinosi e che con il profilo psicologico della Tiotia Ilde ci stava
benissimo.
“Non le è mai capitato, oh, le sarà capitato certamente,
commissario, d’incontrare nella sua attività persone che sembrano
illuminate e controcorrente per ciò che riguarda i propri bisogni, e
poi si rivelano ottuse e grette per ciò che riguarda quelli altrui? I
parametri con cui la zia giudicava la sua vita e quelli con cui
giudicava la mia non erano esattamente gli stessi. Ma che il Signore
abbia pietà di lei, non si deve parlare male dei morti e non sta a me
giudicare una persona che ha perso la vita ed in quel modo!”.
Una versione impeccabilmente confezionata, sarebbe stata
credibile se Bartolomeo non avesse saputo che non c’entrava un fico
secco con la verità.
“Si sarà fatto un’idea, avrà qualche sospetto intorno all’identità
dell’assassino, o no?”.
Ci fu un lungo silenzio: Guidobaldo stava costruendo la sua
strategia di uomo pavido, sempre ossessionato dal timore di non
riuscire a spiegarsi e di essere frainteso. Ma non durò tanto,
evidentemente aveva immaginato che prima o poi quella domanda
gli sarebbe stata posta.
“Sinceramente?”.
“Sinceramente, certo, le pare che un funzionario di polizia le
chiederebbe di mentire?”.
“Oh no, non volevo dire questo!”.
“Lo so benissimo, stia tranquillo: mi dica sinceramente, senza
nessun timore”.
“Non è che voglia insegnarle il suo mestiere, magari ci sarete già
arrivati per conto vostro, oppure siete in possesso di informazioni
importanti che io ignoro, non lo so, io dico così, col cuore”.
“E dica col cuore!”.
“Secondo me Svieta non c’entra proprio niente. Può sembrare, può
indurre in cattivi pensieri il fatto che lei abbia ereditato, ma quello
non c’entra. Se non ci fosse stata lei, la zia avrebbe lasciato tutto al
gatto, che poi sempre Svetlana si chiama, o al canile municipale, di
sicuro non alla parrocchia, lei non poteva soffrire la chiesa… Ma
questo non c’entra. Comunque se così aveva deciso, e lo aveva
deciso molto tempo fa, a me non avrebbe lasciato niente, punto e
basta. Quindi io credo, sono fermamente convinto che Svieta sia del
tutto estranea. È una donna seria, io non so niente della sua vita
sentimentale, ma non è il tipo da uccidere un’anziana signora per
ereditare o da mettersi con qualche balordo del suo paese per far
fare a lui il lavoro sporco. No, proprio no, lei è ad un altro livello”. ‘E
di nuovo! Ma nel frattempo s’è proprio affezionato alla badante!’,
considerò Bartolomeo, che come prima non interruppe e lasciò che
Peluffo continuasse: “Se vuole la mia opinione, è stato qualcuno che
faceva parte della vita passata di mia zia, qualcuno a cui deve averla
combinata grossa e che lei ha fatto entrare in casa quella notte,
ignorando che fosse venuto a vendicarsi. Ecco, questo è quello che
penso. Scavate nel suo passato e sono sicuro che la pista salterà
fuori!”.
“Lei non può aiutarci?”.
“Ai tempi in cui mia zia ne combinava più di Bertoldo in Francia, io
ero un bambinetto, cosa vuole che ne sappia! Lo so che sembra
grottesca, anche ridicola l’idea di un vecchietto con la protesi che
viene a farsi giustizia di qualche offesa dimenticata, ma proviamo
invece ad immaginare che sia un figlio o, perché no una figlia di
qualcuno che ha avuto la vita rovinata dai ghiribizzi o dalla finanza
allegra della zia! Non è mica impossibile, sa commissario! L’idea è
molto meno grottesca di quanto non appaia ad un primo esame. Dia
retta a me. Scavate nel suo passato, nelle sue torbide storie di letto,
nei suoi investimenti originali e lì troverete il bandolo. Se ricorda,
commissario, le avevo detto all’inizio che la zia non era avida, e non
mi smentisco, ma qualche volta incosciente ed egoista sì,
specialmente da giovane, questo mi è stato raccontato. Ma, ripeto,
lasciate stare quella povera creatura di Svitlana, che, stia pur certo,
non c’entra davvero niente!”.
Una storia che riaffiorava dal passato… Certo non appariva un’idea
del tutto improbabile, tanto più che le persone maggiormente
sospettate, Svitlana e Guidobaldo in quasi un mese, non avevano
agito in modo da far avanzare le indagini di un solo millimetro.
Avrebbe dovuto mettere in atto, prima o poi, il piano B, l’idea folle
della cui efficacia peraltro non poteva assolutamente dirsi certo.
L’idea di cominciare un desolante lavoro archeologico nella vita
della vecchia Peluffo, per spiegare una vendetta recente con un torto
antico, lo demoralizzava. E quand’era demoralizzato, gli venivano
delle idee cretine, tipo: ‘visto che ormai era stato accertato che
l’arma del delitto era stato il cuscino, chissà, magari se lo era
premuto da sola sulla faccia fino a suicidarsi!’. Non era la prima volta
che gli capitava lo stallo, quella condizione di bonaccia infame in cui
l’indagine langue come un’oloturia sul bagnasciuga. Era un’immagine
pittoresca di Ardelia, lui era arrivato quasi ai cinquant’anni senz’avere
la più pallida idea di cosa diavolo fosse un’oloturia, d’altronde in
Piemonte sono più che rare. Durante una passeggiata sul mare
d’inverno la sua frugamorti gli aveva fatto vedere quel cilindro
turgido e inanimato sulla sabbia, una specie di berodo, aveva detto
lei, usando la forma ligure per indicare il sanguinaccio. E da quella
volta, qualche mese prima, l’oloturia gli era sembrata la
rappresentazione migliore della stasi, dell’inerzia, della passività,
sebbene la sua fidanzata la usasse soprattutto nella valenza della
scarsa intelligenza: ‘Ha il cervello di un’oloturia’ e potevi star
tranquillo che quella persona sarebbe stata archiviata per sempre tra
i dementi.
Più di una volta aveva sentito sostenere da qualche personaggio
cinematografico o televisivo che se le indagini non si risolvono nelle
prime quarantott’ore o, al peggio, in una settimana, si possono
considerare ormai irrisolte. Che idiozia! Delle volte ci vogliono mesi
per ricostruire i fatti e, soprattutto, per ottenere delle prove! Ed in
quei mesi ci sono appunto i giorni nel Mar dei Sargassi, come li
aveva sempre chiamati lui prima dell’oloturia, quei giorni in cui la
chiglia della nave sembra trattenuta in uno stato di lentezza surreale
e vagamente angosciante.
E tornava l’idea pazzesca: che fosse arrivato il momento di dare la
scrollata? Che poi, domanda da un milione di dollari: sarebbe riuscito
davvero a scrollare qualcosa?
Qualche volta non è bene riflettere troppo perché altrimenti le
cose non si fanno più, ci si fa prendere dalla prudenza, si valutano in
modo maturo e ragionevole le conseguenze di un atto ardito, così la
prudenza diventa paura, s’incomincia a parlare con se stessi
d’irresponsabilità e ci si ritira nuovamente nel guscio come un
paguro Bernardo.
Erano le nove e dieci di sera di un giovedì della seconda metà di
marzo, ma avrebbe dovuto guardare il calendario per saperlo con
certezza, minacciava acqua, c’era buio e sarebbe stata la serata
ideale per restarsene a casa a guardare la tv senza i commenti
tecnici di Ardelia che era a Genova dalla madre, la quale s’era
aggravata ed in quel periodo era ricoverata.
Invece dopo aver coperto d’acqua calda e schiuma i pochi piatti
della sua frugale cena, quasi monastica, nasello bollito e spinaci, si
cacciò addosso la sua giacca a vento dei giorni feriali, afferrò le
chiavi della vettura sabauda e si fiondò fuori dell’appartamento, con
il cuore in tumulto per ciò che s’apprestava a fare e che aveva paura
di non riuscire a fare.
Guidò nella notte fino ad Alassio incontrando poche auto
sull’Aurelia, alla sua sinistra un mare di tenebra, a destra la
montagna incombente.
Posteggiò lontano dal commissariato e dovette anche girare un po’
a vuoto per trovare un buco in piazza S.Francesco. Gli era piaciuta
subito quella statua, con gli uccelletti, la fontana, la piccola chiesa
accanto. Il suo cristianesimo non era sopravvissuto oltre i tempi delle
medie e delle partite nel campetto della parrocchia, ma quel posto lo
invitava ad una raccolta riflessione perfino nel fracasso estivo. Era
difficile immaginare, in quella sera di strade solitarie e vuote, con un
vento umido di mare, come anche quello scorcio appartato si
sarebbe trasformato in un gran bailamme di gente ustionata in
ciabatte e prendisole, materassini, ragazzini con il cono gelato o il
pezzo di pizza ciondolante per il troppo pomodoro. Meglio adesso,
uh, meglio adesso, pensò Bartolomeo schiacciando il pomellino del
telecomando, chiudendosi la giacca a vento e partendo con passo da
bersagliere in direzione di un minuscolo appartamento dove, a
quell’ora, Svitlana stava guardando la tv capendoci poco e baciava la
gatta, godendoci tanto.
Bartolomeo sapeva benissimo che, non appena lui fosse apparso
sulla soglia ed avesse aperto la bocca, la sua voce sarebbe stata
intercettata e registrata, sotto gli occhi allibiti degli sbirri in ascolto,
se in quel momento ci fosse stato qualcuno attaccato alle macchine.
Doveva stare bene attento a non dire idiozie e a non fare la figura
del piciu. Non stava infrangendo nessuna legge, ma nemmeno si
stava comportando secondo prassi consolidata, diciamo che stava
interpretando una nuova possibilità di far parlare una persona
reticente e misteriosa. L’unico neo deontologico era che quella
conversazione voleva gestirsela a modo suo e non voleva che
colleghi e subalterni si piazzassero in quella stanza dove il fumo si
sentiva appena, ma si sentiva, ed incominciassero a darsi di gomito
alle sue spalle.
Quando la bella ucraina si fosse trovata davanti un funzionario di
polizia, il dottore commissario come lo chiamava lei, che la invitava a
prendersi un cappotto e uscire, lo avrebbe seguito senza fare storie
o avrebbe piantato un quarantotto, a beneficio e divertimento di
quelli che stavano altrove con le cuffie in testa? Il rischio di una
reazione se non ostile, perlomeno lenta e forzosa c’era, ma molto
sarebbe dipeso dal modo in cui lui fosse riuscito ad impostare la
faccenda. Aveva finito le tre rampe di scale, inspirò due o tre volte
profondamente e suonò il campanello. Alè, era andata, ormai era
tardi per darsela a gambe, o meglio, magari avrebbe ancora potuto
ma sarebbe stata una pessima soluzione, soprattutto si sarebbe
vergognato con se stesso per tutta la vita.
Tamara Karachuk non gli piacque. Aveva i capelli tinti di un biondo
incredibile, con due dita di ricrescita grigio topo e una dentatura
cubista: i denti c’erano tutti, anzi forse perfino di più, dovevano
essere una cinquantina, e sistemati da madre natura senza nessun
criterio né estetico né di masticazione. Sopra a quest’ingiuria
genetica stavano posati due occhi chiarissimi, di una bellezza
straordinaria… ma per nulla benevoli. L’effetto finale era quello di un
animale selvaggio e carnivoro, incerto tra la fuga e l’attacco alla
gola. Bartolomeo non dovette nemmeno aprire bocca. La
dimestichezza con la paura fece sì che la donna non avesse bisogno
di una sola parola per capire che Rebaudengo non era un
innamorato, ma un funzionario di polizia.
“Chiamo subito”, e lo lasciò lì, sul minuscolo pianerottolo ad
aspettare, mentre gli giungeva all’orecchio un sommesso parlottio.
Svitlana apparve con un accenno di sorriso così flebile che quello
della Gioconda sarebbe sembrato una sghignazzata. Aveva già il
cappotto sul braccio e la sua inseparabile borsetta. Si voltò a
salutare l’amica, che richiuse la porta alle loro spalle. Bartolomeo si
rese conto solo allora che non aveva aperto bocca, ma la sua
iniziativa si sarebbe scoperta comunque, nel momento in cui
l’interprete avesse tradotto il parlottio precedente e quelli che
sarebbero stati i commenti successivi al rientro a casa di Svitlana.
Pazienza, d’altronde se l’era messo in conto.
“Mi porta in commissariato?”, domandò non appena furono fuori
del portone. Per tutta la discesa delle scale non si erano scambiati
una parola.
“No”, rispose Rebaudengo stringendosi il collo felpato della giacca
intorno al collo. Dal mare arrivava un respiro freddo e salato, ma
almeno c’era il vantaggio che gli era diminuita un poco l’allergia.
Svitlana a quel ‘no’ s’era irrigidita, poi aveva ripreso a camminargli al
fianco, dopo essersi risposta che il fatto di non andare in
commissariato non doveva per forza essere interpretato come un
cattivo segno, ma non fece domande, tanto se avesse voluto glielo
avrebbe spiegato lui stesso dove stavano andando.
Chissà cosa stava pensando dietro a quello sguardo enigmatico:
che lui era un poliziotto corrotto, che voleva approfittare del proprio
potere, magari facendole intravedere la salvezza per portarsela a
letto? Che la stava accompagnando in qualche luogo segreto per
sottoporla ad un interrogatorio ‘severo’? No, non sarebbe andato
personalmente, avrebbe mandato due poliziotti giovani, meno
importanti.
Chissà, forse invece la donna stava pensando a quali menzogne
inventare, oppure stava studiando una strategia per sedurlo e non
dirgli la verità… Erano tutte stronzate: stava di sicuro pensando
qualcosa e difficilmente erano pensieri allegri, ma non li avrebbe
scoperti mai, a meno che non glieli avesse raccontati lei stessa.
“Accetta di salire sulla mia macchina?”.
“Posso rispondere no?”.
“Certo che può: mica la sto portando alla Lubianka!”.
Lei lo guardò sorpresa e per la prima volta sorrise veramente.
“Va bene, salgo”.

Erano posteggiati davanti alla splendida chiesa di Diano Castello,


rintoccavano le undici, c’era silenzio. Per quasi mezz’ora era stato
terribile. Bartolomeo non sapeva come cominciare, forse non aveva
mai elaborato una vera e propria strategia, anche se dopo quella
telefonata con Guidobaldo Peluffo, erede mancato, gli si erano
affacciate alla mente nuove possibilità e nuovi sospetti. Il problema
era stato rompere il ghiaccio che, data anche la provenienza della
sua interlocutrice era parecchio spesso. Per un dono inaspettato del
destino era stata lei a farlo, dopo averci rimuginato per più di venti
minuti di assoluto silenzio, e lo aveva fatto in maniera del tutto
imprevedibile.
“Mi ha detto che le manca la neve. Strano, voi italiani amate il
sole, il mare, io ho visto la neve in Italia, ma a nessuno piace, a
parte la vacanza, no? Invece a lei, dottore, manca la neve, perché?
Cosa vuol dire la neve per lei?”.
Cosa voleva dire la neve per lui? Oddio! E come faceva a spiegare
un’emozione che a stento era riuscito a comunicare alla sua analista?
La neve, la neve! Si fa presto a dire neve: aveva ragione quel danese
che aveva scritto Il senso di Smilla per la neve! Non esiste una neve,
ma tante, diverse e non tutte belle. C’è la neve ammucchiata in
cumuli nerastri negli angoli dei piazzali, gialla di urina di cani, e non
solo di cani, piena di ghiaia e marrone di fango, rosicchiata dal
tempo che passa. Una nuova nevicata nasconde lo sporco, e il
bianco ritorna, per il tempo che precede lo spazzaneve. C’è la neve
che di giorno appassisce e si raggruma per il gelo notturno, fatta di
tanti grani vetrosi che annunciano la primavera. C’è quella che si
spiaccica a terra gravida d’acqua, quando d’inizio inverno non fa
abbastanza freddo e può trasformarsi in pioggia se il termometro
sale o in vera farina se scende. È quella lì che va bene, la neve che
sembra farina, quando il cielo è pacificamente grigio, come se fosse
dipinto a tempera, e nevica in silenzio, non ci sono più spigoli nel
mondo, i tetti diventano tondi, i rami degli alberi pesano, i passi non
fanno rumore, solo qualche pala che raschia il suolo, per liberare la
strada di casa. Quella è la Neve, quella gli mancava! Come fare a
spiegarglielo?
“La neve è quand’ero bambino…”.
Lei aveva capito, aveva annuito ed aveva cominciato a parlare, con
voce velata di spazi lontani.
“Rivne non è tanto grande città, meno di Genova, ma più di
Savona. C’erano tante fabbriche, ma Babulka Nastia, Anastasìa si
chiamava, non abitava in città, viveva nela sua chata davanti a
grande kolchoz, ai tempi di soviet. E miei genitori con me e mio
fratelo Andrej andavamo spesso da Babulka Nastia, c’era posto per
dormire e si stava bene. D’inverno si dormiva na peci che vuol dire
sula stufa, una grande stufa che prendeva un angolo dela casa e
sopra si metteva tutto, coperte e cuscini e si stava caldi la notte,
anche se fuori c’era tanto freddo sotto zero. Poco fuori di città, ma
un altro mondo: campi coltivati con patate, barbabietola, quela rossa
per fare bortscˇh, grano, fabbriche indietro, verso la città. Invece lì
c’era la foresta con animali, caprioli, volpi, anche lupi e poi i fiumi,
tutto molto belo.
Quando c’erano vacanze di Natale, noi non si pregava in chiesa,
poco in chiesa, ma cose vecchie di contadini si facevano: alora noi
bambini si andava per il paese cantando i koliadka di Natale,
portando il presepe, un piccolo presepe e si faceva soldini, per noi.
Una volta fino a settanta rubli, tantissimo! Ala sera si mangiava la
kutia, che si fa con il grano bolito, i semi di papavero, le noci tritate,
abbiamo le noci, sa, latte e si mangia la sera del 6 gennaio, perché
noi Natale è spostato, diverso che vostro. Ecco, alora c’era la neve,
tutto bianco, tutto che riposa, solo i nostri giochi, i bambini strilano,
ma non sentivamo freddo, si cantava, era festa, non avevamo ancora
paura del mondo. Questo è quando manca la neve, vero? Quela
bianca che sembra zucchero fine ed è quasi dolce in bocca e brucia
la lingua mentre sciolie, quela bianca di prima di scoprire il dolore e
la paura, vero?”.
Bartolomeo rimase immobile, l’unica cosa viva di sé era il battito
del cuore, disordinato, in tumulto. Chi era quella donna? Cosa voleva
da lui? Come faceva a sapere le cose perdute di quel tempo puro
che mai più s’era ripetuto?
“Ho detto qualcosa di brutto, dottore? Io non voleva fare male!”.
Recitava o era così veramente? Perché se stava recitando voleva dire
che sapeva leggere nel pensiero ed il suo pensiero doveva essere
diabolico. Se invece era onesta e raccontava cose sue per
condividere un’emozione, per mettere le basi di un rapporto di
fiducia, quello che stava succedendo sembrava un miracolo uscito da
una commedia rosa all’americana, e Bartolomeo detestava le
commedie rosa all’americana.
“Vada avanti. Mi racconti ancora”.
“Cosa?”.
“Quello che vuole”.
“Dido, nonno si dice qui, vero? Nonno è morto ammazzato da
Stalin. Tanti ucraini morti ammazzati da Stalin. Era un ufficiale
del’armata rossa, papà di papà. Per Babulka Irina, che era l’altra
nonna, e per mio padre Mychail è stato difficile, però lavorato lei e
studiato tanto lui, così riuscito a toliere marchio di traditore. Ma poi è
stato tradito lo stesso, mio padre”.
“Da chi?”.
“Dala vodka”.
Silenzio, la piazza immobile di Diano Castello, l’ombra del
campanile, l’alone chiaro dei lampioni, qualche macchina
posteggiata, coperta di umidità. Silenzio.
“E poi?”.
“Io orgoliosa, io credevo che Dido Konstantin sbaliato, io volevo
credere in soviet, tutti a scuola parlava bene di soviet, Stalin aveva
fatto cose brutte, ma solo lui e adesso Stalin non c’era più. Così
sempre studiato forte per avere voti alti, molto alti, volevo che papà
era contento di me, che poteva vantare di me, capito? Anche Andrej
entrato nell’esercito, scuola ufficiali, proprio come Dido. Ma papà
aveva già scelto la vodka, io non volevo vedere. Avevo imparato a
studiare il pianoforte e suonavo anche la domra”.
“Cos’è?”.
“È uno strumento con corde, popolare, molto belo, voi conoscete
balalaica, ma domra mi piace di più, suono e forma diversa, per
nostre bele canzoni. Mio cognome è proprio uguale a quello di
Mykola Lysenko, compositore ucraino famoso, ma non siamo parenti.
Insomma ero proprio una brava ragazza. Anche di studio politico, sa,
io ci credevo, ci ho creduto fino a un certo giorno. Ero giovane,
piena di volia di lavorare, fiducia nel futuro: siamo stati educati in
spirito di sacrificio per la comunità e la comunità era Unione
Sovietica, il milior posto del mondo. Ho conosciuto Evgenij, grande
amore, poi arrivata Irina, lavoro buono, fabbrica andava bene, piano
piano anche i fantasmi del passato sono diventati più sottili, come un
filo di fumo di candela spenta. Amavo la mia vita, anche se vedevo
cose che non andavano proprio tutte bene, però pensavo che tutti i
governi hanno i loro malanni ed il nostro aveva meno malanni che
quelli di occidente, così ci dicevano”.
“Cosa ricorda con maggiore intensità, sì, insomma il ricordo più
forte, qualcosa che anche a distanza di tanti chilometri le fa battere
forte il cuore?”.
“È logico che io dico mia bambina, ma so che lei vuole che io dica
anche altre cose. È naturale che io penso a lei più forte che a
Evgenij, perché dopo tanta distanza e tanti anni la nostra è ormai
amicizia e non più quel’amore della gioventù, cosa normale, no? Io
già stata fortunata che Evgenij è uomo di studio, professore di
scuola superiore, suona pianoforte, conosce il greco antico, sa? E
soprattutto non beve. Questa la mia grande fortuna! Non importa se
lui ha qualche donna intanto che io sono qui, quelo che conta è che
lui è svelio, non si addormenta per il troppo bevuto, non fa botte,
non ruba, non picchia con la macchina, non butta via nostri soldi:
queste sono cose importanti, davvero. Alora io so che posso contare
su di lui, anche se magari lui s’innamora un po’, pazienza, è uomo
buono e sua filia viene prima di donne, perché non si rovina con la
bottilia. Ma è raro, sa, dottore! Da noi tutti i nostri uomini bevono,
per il freddo, per lavorare, per digerire il lardo troppo grasso, per
digerire la fatica dei campi dicevano: per digerire una tristezza
antica, dico io… Cosa mi aveva chiesto, perdoni, ma non ricordo,
perso il filo, come dite voi…”.
“Cosa le fa battere forte il cuore, a parte la figlia e la neve?”.
Lei lo guardò con un sorriso pieno di dolcezza. Nella penombra
dell’abitacolo dell’auto, dove di tanto in tanto Bartolomeo accendeva
il motore ed il riscaldamento, perché con l’avanzare della notte il
freddo era aumentato, si vedeva quel sorriso e si vedevano quei
dentini regolari, un po’ da bambina e un po’ da lupa. Che donna
strana, rassegnata eppure determinata, abituata al dolore, alla
corruzione, alla paura ed insieme a tutto questo riusciva a
mantenere viva la sua grande dignità e la forza di sperare ancora,
magari non più per sé, magari soltanto per sua figlia.
“Io non sono tanto religiosa, sa dottore, ma le chiese di Ucraina
sono le più bele del mondo, almeno per me. Voi italiani avete cose
meraviliose, le ho studiate non solo a scuola ma per mio piacere, voi
solo a Roma, Firenze, Venezia e Magna Grecia avete più meravilie
che tutti li altri messi insieme, le so queste cose, ma le chiese di
Ucraina… Sono di legno, tutti pezzi incastrati, senza chiodi di ferro e
hanno il tetto d’oro. Alora le devi vedere nel bianco dele mattine
azzurre d’inverno, l’oro come un altro sole, tonde le cupole, cupole,
si dice così? Sì? Le cupole come cipole preziose e grandi, grandi sulo
sfondo del cielo… E a primavera l’aria è piena di profumi dei ciliegi e
i petali volano, come nel Giardino di ˇ Cechov e polini di fiori…”,
Bartolomeo ebbe un brivido lancinante in una narice. “E ci sono
ancora contadini con i cavali, dei bei cavali biondi e tondi che tirano
l’aratro, oppure con il carretto che raccolie il latte nele campagne e
lo porta al kolchoz per fare panna e formaggi, nel kolchoz anche si
lavora il latte, e non solo, anche cose di verdure. Adesso non
funzionano più, adesso funziona più niente.
E il cuore ti batte forte per il colore del’erba e dele prime folie di
bereze, voi dite betule, e l’acqua dei fiumi è azzurra: a primavera che
sciolie neve e ghiaccio è pulito e l’erba è così verde e grassa che
sembra colorata.
Alora ricorda, dottore commissario: l’oro delle chiese, quele che ci
sono ancora dopo che tante chiese bruciate da Stalin, l’azzurro del
cielo, l’azzurro dei fiumi, il verde del’erba, la foresta con li animali e
le chate, le case dei contadini, tu conosci magari con nome di izba,
ma quello è russo, di legno pitturato di tanti colori, ognuno il suo
colore preferito e i fiori nei piccoli giardini, e cani, tanti gatti, ogni
Babulka ha il suo gatto, e oche che vanno al fiume, e vento
profumato…
Poi anche noi grandi città, fabbriche, inquinamento, come qui, ma
quelo non mi fa battere forte il cuore, di quelo non si può avere
nostalghia”.
No, di ciminiere e capannoni, di viaggi in treno nel buio gelido
prima dell’alba, con la testa che ciondola per il sonno arretrato, un
sonno di secoli, delle verdure lesse della mensa, dei rumori qualche
volta ottusi, ma spesso assordanti delle fabbriche, di quello,
effettivamente, non si può avere nostalgia.
Bartolomeo ascoltava la voce cadenzata di Svieta e la sua
pronuncia che superava la prova di quasi tutte le ‘doppie’, a parte le
‘ll’, mentre gli raccontava il suo mondo sconosciuto, facendolo
suonare dolcemente famigliare. Le parole della donna riuscivano a
fargli vedere quei luoghi anche se non c’era mai stato, gli sembrava
di condividere con lei i giorni e gli anni, e le stagioni. Nemmeno per
un attimo avevano parlato del caso Peluffo e questo non era bene,
perché in linea del tutto teorica lui aveva voluto incontrarla proprio
per quello.
La guardò nel poco chiarore dell’abitacolo e la sentì straniera e
vicina, misteriosa eppure facile da comprendere, come lo sono i libri
di poesia, anche quando sono di paesi lontani. Lei annuì e socchiuse
gli occhi, poi li riaprì con lo stesso atteggiamento del gatto. Anche in
quella luce incerta si vedeva che erano blu.
“Mi faccia le domande che deve fare il poliziotto, le risponderò”.
“Qualcuno l’ha spinta contro l’autobus?”.
“Sì”.
“Secondo lei è stato un urto accidentale, di qualcuno che aveva
fretta, qualche studente maldestro?”.
“Urto… accidente…accidentale?”.
“Sì, di qualcuno che l’ha fatto ber sbaglio?”.
“Per sbalio? No, non per sbalio, no”.
“L’ha fatto apposta?”.
“Sì, credo di sì”.
“E lei sa anche perché?”.
“Sì, o melio, forse può essere per quelo che penso”.
“E lei cosa pensa?”.
“Che quela persona crede che io so che lui ha ucciso Tiotia Ilde”.
“Lui?”.
“Sì, lui”.
“Ed è vero?”.
“Proprio vero no, io non sono sicura”.
“Ha dei sospetti, diciamo”.
“Ho dei sospetti”.
“Lei lo ha visto in faccia poco prima di essere stata spinta o subito
dopo?”.
“No, non l’ho proprio visto, mai. Se suo testimone, che è l’arabo
con occhio di vetro, vero? Va bene, non importa, tanto so che è lui,
alora se lui le ha detto che mi voltavo sempre è vero, non ero
tranquila, ma non ho visto nessuno”.
“Lei si aspettava di vedere una persona precisa?”.
Silenzio tombale, quei silenzi contro i quali non c’è niente da fare,
sarebbe come scavare nelle mura dei Piombi di Venezia con un
cucchiaino da caffè. Decise di lanciarsi a capofitto, spinto da una
qualche infantile fiducia.
“Lei non ha ucciso Ildebranda Peluffo?”.
“No, dottore commissario: io non ho ucciso Ildebranda Peluffo”.
“Però sospetta una persona”. Non glielo chiese, lo affermò
direttamente: poteva fare più effetto.
“Sì”.
“Mi dica il suo nome”.
“No”.
Se gli avessero domandato in quel momento quanto lo avesse
sorpreso quella risposta, avrebbe ammesso facilmente che se
l’aspettava. E sapeva anche che quel rifiuto aveva due cause: paura
per se stessa e sfiducia verso la polizia, come sempre, tutto il mondo
è paese.
“Lo sa che il suo è un comportamento reticente ed è punito dalla
legge?”.
“Non so cosa vuole dire reticente, ma credo che vuole dire che io
so qualcosa e sto zitta con la polizia, giusto?”.
“Proprio così”.
“Mi porti pure in prigione, non ho poi così tanta paura. Magari
rischio di finirci per omicidio, per questa cosa, ‘reticente’ sì? ci sto
meno, è meno grave”, e sorrise ripetendo quel trucchetto gattesco
del battito di ciglia, che aveva mandato il commissario in brodo di
giuggiole.
“Perché non mi vuol dire di chi sospetta?”.
“Primo”, e si prese il pollice destro tra indice e pollice della mano
sinistra, “io ho solo sospetto, non sono per niente sicura, è mio
dubio. Quindi non volio mettere in testa a voi un’idea che magari è
sbaliata. Se ci arrivate da soli è melio. Secondo”, cambio di dito, “se
è proprio lui, io non sono mica tanto contenta, per me volio dire,
potrebbe vendicarsi, perché sì che è lui, ma magari mancano le
prove e lui resta libero e non mi piace che sa che io ho detto il suo
nome come assassino di Tiotia Ilde. Non c’è terzo: ho finito, quindi io
non dico!”.

Aveva convocato una conferenza stampa, che era una tra le


situazioni che gli risultavano più insopportabili, seconda solo ai
postumi di una sbronza. Ormai beveva con moderazione, era
diventato grande, ma da ragazzo le sue scemenze le aveva fatte e
quel mal di testa e quella nausea più di una volta gli avevano fatto
invocare una morte rapida. Avere tanti microfoni davanti alle labbra,
con il rischio di sfiorarli e prendersi il tifo come minimo, vedere tutte
quelle bocche che sbatacchiavano domande di cui ne afferrava
manco la metà, gli faceva venire nausea e mal di testa, con un
sintomo in più: l’insopportabile disagio di essere al centro
dell’attenzione e di sentirsi osservato. Però le cose quando s’hanno
da fare si fanno, e quella conferenza stampa aveva uno scopo
preciso, che non era quello d’informare il pubblico in merito alle sue
indagini, cosa di cui non gliene poteva fregar di meno, bensì quello
di mandare un messaggio forte e chiaro all’assassino: Svitlana (che
per lui restava sempre Svetlana, perché ’sta faccenda della ‘i’ e della
‘e’ gli sembrava una ripicca nazionalistica), Mychailivna Lysenko, che
non era mai stata iscritta nel registro degli indagati, si era rivelata
del tutto estranea alla morte della sua datrice di lavoro.
Dichiarazione che in quel preciso momento, pur non essendo
lontanissima dalla verità, non rappresentava ancora una certezza
matematica, però Bartolomeo aveva bisogno che l’assassino si
sentisse un po’ più traballante. Naturalmente aveva anche dovuto
dichiarare che le indagini se proprio non si potevano dire in fase
risolutiva, non erano poi così in alto mare e questa era una vera,
autentica balla. L’ipotesi avanzata dal signor Peluffo che ad uccidere
Ildebranda fosse stato qualcuno appartenuto al suo passato
sentimentale o economico, non era da buttare via. ma fino a quel
momento non era venuto fuori niente, e dire che aveva messo alla
gogna del lavoro archeologico i suoi martiri preferiti: Ravera, la
Negri, Sciarra e la Dominelli. Naturalmente dopo aver fatto credere a
Peluffo di essere fuori della rosa dei possibili colpevoli ed averlo
rassicurato che anche nei confronti della ‘povera’ badante era stata
sospesa ogni attività investigativa, i controlli s’erano rafforzati nei
confronti di tutti e due. La vita della Lysenko aveva mantenuto i suoi
riti quotidiani ed il tono delle conversazioni domestiche o telefoniche
non aveva presentato cambiamenti. E nemmeno a casa di Peluffo e
della moglie erano mai volate parole azzardate, a parte qualche
riferimento amareggiato alle scelte testamentarie della vecchietta.
Bartolomeo s’era già ritrovato in quella bagna, non gli piaceva
eppure sembrava che le sue indagini avessero quasi un itinerario
obbligato, che comportava la giacenza di un mesetto nello stato di
oloturia. In genere, dopo tale periodo d’incubazione, gli veniva
un’idea geniale, oppure succedeva qualche casino che sbilanciava la
situazione verso il suo esito più o meno naturale. Ma questa volta la
faccenda gli sembrava più statica del solito.
Optò per un brain storming con i suoi martiri.
E lì ne vennero fuori delle belle. Almeno una decina di persone
avevano desiderato far secca la Peluffo, sette di queste erano fuori
questione, essendo cinque di esse defunte e due ricoverate, una in
sedia a rotelle e l’altra con l’Alzehimer. Le tre viventi che
completavano i dieci nemici giurati, erano due donne e un uomo,
tutti più che capaci di schiacciare un cuscino sulla faccia di una
vecchia nel suo letto. Però, però, c’erano parecchi però…
Sulla scrivania di Rebaudengo c’erano carte di panini
appallottolate, lattine di coca e di birra vuote, un avanzo di pizza
freddo in un piattino, e si stava aspettando che la Canepa salisse con
i caffè della macchinetta del piano di sotto.
“Che impressione ti ha fatto Fossati quando sei andato a parlarci?”,
Bartolomeo cominciò da Ravera. Avevano unanimemente deciso di
mangiare prima di cominciare la battaglia dei cervelli, perché alle
otto e mezzo di sera, con una giornata di lavoro sulle spalle, qualche
genere di conforto si rendeva indispensabile.
“Non saprei dire… Con le faccende di guerra, di armistizio e di
partigiani non sai mai dove vai a parare, soprattutto è difficile
ricostruire i fatti, se non sono sostenuti da prove. Comunque il sugo
della faccenda è questo: Ildebranda era una rampolla di famiglia
illustre e immanicata con le gerarchie fasciste, quindi anche con i
tedeschi, che a lei però non piacevano tanto, con le dovute eccezioni
di quelli giovani, biondi e belli. E questa era un’ombra grave nel
clima dell’armistizio. In poche parole, dopo l’otto settembre, il papà
di questo Erminio Fossati, detto Lillo e va a sapere perché, che
adesso ha sessantasei anni, mese più mese meno, ma è un
marcantonio che potrebbe atterrare un mulo con un cazzotto, allora
il padre, dicevo, e cioè Giosuè, Giosuè Fossati, che aveva venticinque
anni e un bambino piccolo, cioè il nostro amico, al momento di
scegliere tra S. Marco e la clandestinità aveva scelto quest’ultima.
Dove? Si diceva sotto o forse anche dentro il letto d’Ildebranda. Ma
non poteva starci in eterno e quando s’era deciso a scappare insieme
ai partigiani, nemmeno tre ore dopo fu preso e deportato in
Germania. La madre di Lillo lo ha cresciuto nell’odio verso la Peluffo
la quale, oltre ad essere stata la probabile amante di suo marito, a
sentir lei, fu certamente una spia e ne causò la morte, visto che
Giosuè non è mai ritornato dalla Germania. Secondo me non
c’entrava un cazzo, ma lo dico così, senza fondamento, però ne son
convinto. Il figlio ha dichiarato di essere stato contento quando ha
saputo che quella ‘gran baldracca’ era stata ammazzata, gli
dispiaceva solo che sua madre fosse morta da dieci anni, ma
certamente s’era goduta la scena da lassù. Conclusione: l’odio fossile
è genuino, il movente non manca, alibi per quella sera non ne ha
perché la moglie è a S. Corona per un femore rotto e sta facendo la
riabilitazione, ma manca l’opportunità, perché dubito assai che la
vecchietta avrebbe aperto la porta ad un uomo praticamente
sconosciuto, per tornarsene con lui nella propria camera a far
conversazione sui tempi andati. Tu cosa ne dici?”, e Ravera aveva
finito.
“Perché uno dovrebbe dar fuori di matto a sessantotto anni o giù
di lì, quando avrebbe potuto far secca la presunta colpevole della
deportazione e morte del proprio padre almeno venti volte in questo
mezzo secolo dalla fine della guerra?”, chiese la Canepa,
sospendendo di succhiare il tappo della bic.
Rebaudengo rispose senza nessuna ironia nella voce: “Perché ha
sbarellato a sessantotto anni o giù di lì e non prima: tu sei giovane,
Canepa, ma la gente è stramba, lo imparerai. La tua obiezione ad un
suo coinvolgimento è debole, mentre la mancanza di opportunità mi
sembra quella più valida, almeno per adesso. Altro giro, altro regalo.
Tu Negri cos’hai?”.
“Un’altra faccenda di eredi. La persona che ha subito il torto è,
anche questa volta, un uomo suicidatosi una decina d’anni fa dopo
uno sfratto e quindi non può essere lui. Chi ha giurato odio eterno
alla Peluffo è la figlia. Abitavano in una cascina dietro via Otto Marzo,
non so se hai presente, sempre in Albenga. Adesso la città s’è
allargata, ma una volta era campagna schietta, articiocche d’inverno
e tomate d’estate. E lì c’era questa cascina, abbastanza grande, dove
abitavano due famiglie di mezzadri. Terreni, casa, era tutto della
Peluffo, alla quale naturalmente non rendevano un tubo e ha
venduto il pacchetto ad un palazzinaro che ha sfrattato, raso al suolo
e costruito un bel palazzone o due, o tre, che ne so. Naturalmente i
mezzadri sono stati sistemati in appartamenti di proprietà del
palazzinaro. Ad una famiglia la cosa è andata benissimo, gli altri,
marito, moglie e una figlia non l’hanno mandata giù e, naturalmente
non se la sono presa con il palazzinaro, che magari gli faceva anche
paura, ma con la Peluffo che aveva venduto. Probabilmente il
defunto, il suicida, tale… aspetta che non me lo ricordo e devo
andare a vedere ah, ecco, sì: Antonio Mancuso, immigrato dal sud,
come tanti alla metà degli anni sessanta, era un depresso, aveva
avuto problemi di relazione un po’ con tutti, era convinto che il
mondo intero ce l’avesse con lui, vessava moglie e figlia in ogni
modo. Insomma, l’hanno trovato impiccato in bagno,
nell’appartamento nuovo, nuovo si fa per dire, nuovo per lui, in
realtà un condominio in via Dalmazia che avrà avuto già allora una
ventina d’anni. La moglie è una povera donna che in cinquant’anni di
Liguria parla a stento l’italiano, la figlia, Crocetta, ha una quarantina
d’anni mal portati, è sposata con un tizio dei bricchi, di Vellego se
non ricordo male ed è una vera vipera. Ha ereditato la mania di
persecuzione del padre, ma è tutt’altro che depressa, ce l’ha con il
mondo e la sua personale lista di quelli che dovrebbero morire fra
atroci tormenti e patire le fiamme dell’inferno per sempre, è lunga
come un elenco del telefono. Inutile che ti dica chi c’era all’inizio
della lista”.
“Movente c’è. Alibi e opportunità?”.
“L’alibi ci sarebbe: il marito dichiara che quella sera Crocetta
Mancuso non ha messo il naso fuori di casa, però vale poco, perché
il tizio dichiarerebbe perfino che le mucche volano per paura della
moglie, e poi è il marito. L’opportunità è minima se non inesistente,
perché non credo che la Peluffo le avrebbe mai aperto la porta, e di
notte per giunta. Ricordiamoci che la badante, sempre che non sia
stata lei, se ne è andata alle dieci passate e che la signora stava
guardando la tv in camera sua. È stata uccisa in un momento di
relax, anzi, forse a quell’ora dormiva già da un pezzo e di certo non
si aspettava dell’ostilità”. E anche la Negri aveva fatto bene i compiti,
ma non era soddisfatta di quel che aveva trovato.
La Dominelli, che invece non aveva concluso le sue indagini con
un possibile colpevole, intervenne presa da un dubbio.
“Dottore, magari sono io che adesso non ricordo, oppure non è
mai capitato il discorso in mia presenza, ma nel cellulare o nel fisso
della vecchietta non sono state trovate comunicazioni, o numeri che
possano offrire qualche possibilità d’indagine?”.
“Dominelli, ti pare che saremmo ridotti a questo punto se sui
tabulati della vecchietta avessimo trovato una pagliuzza, un minimo
appiglio intelligente?”.
“Ok, era una domanda idiota. Però ne avrei un’altra”.
“E vai!”.
“Siamo riusciti a conoscere il numero esatto delle chiavi
dell’appartamento della vecchietta?”.
“Abbiamo quelle della badante, quelle della vecchia, che erano
due, una era di riserva e l’abbiamo trovata in un cassetto del suo
comò, ed il mazzo del nipote; in tutto quattro del portone di sotto e
quattro della porta, comprensive di quella elettronica. Questo non
esclude che possano esistere dei doppioni di cui non siamo a
conoscenza, ma non vedo cosa possiamo farci. Perché me lo
chiedi?”.
“Perché nei due casi illustrati fino a qui abbiamo escluso che la
vecchietta avrebbe aperto loro la porta, ma se in qualche modo
fossero stati in possesso delle chiavi, avrebbero potuto entrare
autonomamente”.
Ci fu un momento d’incertezza, sì era una possibilità, ma nessuno
dei presenti sembrava tanto convinto.
“Ok, ma non vedo come, delle persone che per anni non hanno
intrattenuto nessun rapporto con la vittima, sarebbero riuscite a
duplicare le sue chiavi…” rispose Bartolomeo e dopo aver detto le
ultime parole in tono decrescente, si bloccò all’improvviso, come se
gli si fosse inceppata una carica interna.
“Oh cazzo! Ravera, chiama immediatamente la Lysenko e
passamela!”.
“A quest’ora?”.
“E che sarà mai, son neanche le dieci!”.
“Agli ordini!”, e si alzò per andare a cercare nelle carte del caso
Peluffo il numero di cellulare della donna. Tornò dopo pochi secondi
e fece cenno a Rebaudengo di sollevare il ricevitore del telefono sulla
sua scrivania.
“Mi scusi il disturbo, signora Lysenko, sono il commissario
Rebaudengo. Devo farle una domanda velocissima, però è una cosa
che ho bisogno di sapere”.
“Sì, mi dica”, rispose lei con la voce inclinata verso un invisibile
punto interrogativo.
“Quando lei è rientrata all’alba, dopo aver trascorso la notte fuori,
l’impianto di allarme era inserito?”.
“No, adesso che mi ci fa pensare…”.
“Era già capitato che lei dormisse fuori, qualche volta?”.
“Qualche volta… sì”, rispose con evidente imbarazzo.
“E come lo aveva trovato?”.
“Qualche volta acceso, qualche volta spento, dipende se signora
era già in giro o ancora nel letto”.
“Mi spieghi meglio”.
“Se io metto alarme uscendo, tutta casa protetta, porte, finestre e
spazi di camere, come se dentro c’è una nuvola invisibile che vede i
ladri. Questo va bene solo se in casa non c’è nessuno, altrimenti se
persona si alza di letto per fare pipì, la nuvola vede e alarme suona e
arrivano carabinieri. Ok? Per questo noi, quando uscivamo insieme,
mettevamo Svetlana gatta in una stanza senza la nuvola elettronica,
elettronica è sbaliato, li elettroni non c’entrano, possono essere
ultrasuoni, infrarossi o i due sistemi combinati, scusa io spiego
particolari tecnici non chiesti, torno ala gatta: anche crocchette,
acqua e sabbietta, perché avesse tutte sue cose, così potevamo
accendere alarme completo da fuori. Quando invece persona è
dentro e vuole stare tranquila lo stesso, lo mette da dentro. Così
protette porte e finestre, ma nuvola è spenta e persona può
muoversi, andare avanti e indietro, fare tè, andare in bagno e non
suona, basta che non apre porte e finestre”.
“E come vi regolavate lei e la signora?”.
“Che lei, proprio prima di dormire, se io non c’ero metteva
l’alarme. Altrimenti era una cosa che facevo io tutte le sere”.
“E lei poteva toglierlo dall’esterno, indifferentemente che fosse
stato inserito dall’interno o dal pianerottolo?”.
“Certo, per staccare era uguale”.
“E quando lo ha trovato spento, quella mattina non si è
insospettita?”.
“No, forse ho pensato che magari Tiotia Ilde andata in bagno,
spento, perché sapeva che io arrivavo e poi riaddormentata, può
capitare, no?”.
“Sì, può capitare. E lei non si è insospettita?”, ripeté Rebaudengo.
“No, non subito, solo dopo un poco che ero nela casa, quando ho
sentito tutto quel silenzio”.
“Va bene, la ringrazio e le chiedo scusa. Ah, un’ultima cosa:
magari me lo ha già detto ma io non me lo ricordo più. Quando è
ritornata quella mattina, la porta era chiusa con tutti i giri di chiave o
solo con lo scatto?”.
Un piccolo silenzio. Magari se lo ricordava, ma era come se ad
ogni domanda dovesse ragionarci un po’, per stabilire se la risposta
poteva rivelarsi pericolosa.
“Tutti i giri, sono quattro, è una porta blindata con tutti i cilindri di
acciaio che vanno nel muro. Impossibile buttarla giù”.
“Le auguro la buonanotte e grazie”.
“Buonanotte”.
Il discorso era stato chiarissimo e tutti aspettavano che
Bartolomeo prendesse la parola.
“Allora le possibilità sono queste. La vecchia, diciamo a
mezzanotte, va un’ultima volta in bagno e poi mette l’allarme. Allora
vuol dire che l’assassino ha le chiavi, e con quella elettronica lo
disinserisce, oppure citofona, la vecchia si fida e lo toglie… Oppure
che la vecchia è rimasta addormentata, si è dimenticata di metterlo,
ma questo non cambia la storia: l’assassino ha le chiavi e entra,
l’assassino non ha le chiavi e convince la vecchia ad aprire. La
differenza sta nell’uscita: a questo punto sappiamo che l’assassino
ha le chiavi, perché ha chiuso con tutte e quattro le mandate…
Mmh… E qui un pochino si complica: verrebbe da pensare che ne
possedesse un paio suo, sappiamo che non ha portato via quelle
della defunta, né quelle di riserva e neppure quelle della Lysenko,
che le aveva con sé e, per finire, il Peluffo ce le ha consegnate
quando glielo abbiamo chiesto, tutti gli attori del dramma avevano le
loro, nessuna è andata smarrita o è stata sottratta. Non è
impossibile, ma è altamente improbabile che il nostro assassino si sia
messo a cercarne un paio di riserva per casa dopo aver soffocato la
vecchietta: perché? Per chiudere a chiave? E che interesse ne aveva,
gli sarebbe bastato tirarsi la porta dietro, o no? Non abbiamo la
certezza che le avesse all’inizio della sua impresa, ma sappiamo con
certezza che le aveva alla fine. Tutto però ci spingerebbe a pensare
che le avesse già all’inizio e che abbia chiuso a chiave per lasciare
come aveva trovato. Resta da vedere se il mancato inserimento
dell’allarme sia stato volontario oppure obbligato, cioè se tra le sue
chiavi quella lì non c’era, oppure aveva paura di fare qualche errore
per mancanza di dimestichezza”.
“L’idea della chiave separata da quella elettronica, non potrebbe
far venire in mente una chiave prestata, magari all’idraulico, ad un
muratore, a qualcuno andato lì in passato per un lavoro, che abbia
avuto in concessione la chiave di casa per potersi muovere e che, al
momento di riconsegnarla, disonestamente se ne sia fatto fare un
duplicato?”, chiese la Canepa dopo un ragionamento che doveva
essere stato faticosissimo.
“Non sarebbe male come ipotesi, ma questo indicherebbe senza
possibilità di dubbi la rapina, che invece possiamo escludere per due
motivi: non mancava niente ed era tutto in ordine”, rispose Ravera,
liberando Bartolomeo dal peso delle risposte ovvie.
“E allora?”.
Rebaudengo rispose con una voce piatta, la voce che gli veniva
quando era arrabbiato con il destino avverso e infame.
“E allora niente. Rimaniamo sempre allo stesso punto, o meglio
torniamo sempre allo stesso punto, come in quei labirinti di siepi,
dove ti accorgi che sei già passato di lì eppure sbagli sempre e ci
ritorni. Noi stiamo sbagliando, quasi certamente il modo, l’angolo o
la prospettiva con cui guardare la storia. Il fatto è che al di là di
domandarci chi avesse il movente, l’opportunità e la chiave non
possiamo fare niente. È ovvio che questa persona esiste, ma noi non
la vediamo, o meglio la vedremmo anche, ma non abbiamo la
certezza. Perché, poche balle, lì con opportunità e chiave, e anche
movente, considerando la beffa dell’eredità, ci sono soltanto il nipote
e la Lysenko…”.
“Non è che l’assassino non ha rimesso l’allarme dall’esterno,
perché avrebbe dovuto chiudere la gatta in una stanza, altrimenti al
primo movimento sarebbe suonato tutto?”, domandò la Negri, che si
era improvvisamente ricordata della gatta.
“Sì, certo, perché no, ma questo restringe ulteriormente il campo:
a maggior ragione può essere solo uno di quei due lì, solo che vallo
a dimostrare!”.
Per un po’ nella stanza ci fu soltanto silenzio, a parte il rumore di
qualche rara auto sull’Aurelia. Era presto per le transumanze estive,
la gente se ne stava ancora in casa a guardare la tv.
“Torno a ripetere che il tizio potrebbe non averlo rimesso non per
la gatta, che magari nemmeno aveva incontrato, oppure nemmeno
sapeva che esistesse, ma perché, come abbiamo detto non aveva la
chiave, oppure ce l’aveva ma era troppo sconvolto, e questo non
indica per forza i due maggiori sospettati, o no?”, chiese Martelli che
aveva finito l’aeroplanino con il tovagliolo di carta.
Bartolomeo sospirò e sbatacchiò la biro sulla scrivania, si
abbandonò contro lo schienale e sentenziò: “Tutta ’sta faccenda
dell’allarme, non ci ha risolto un cazzo! Sciarra, raccontaci il terzo e
ultimo possibile assassino, che magari ci porti un po’ d’entusiasmo”.
“Mica tanto, dottore, perché anche questa storia sta arrampicata
sugli specchi, comunque è quanto di meglio sia riuscito a trovare,
visto che le altre sette persone con cui la vecchia aveva avuto liti in
passato, sono fuori gioco. Lei, perché femmina è, si chiama Nuccia,
Giuseppina Raimondo. Storia di corna fu, è meglio se lo dico con
l’accento del mio paese?, e non è tanto più giovane della vittima.
Ecco perché, ripeto, è arrampicata sugli specchi, perché è una
vecchia di settantadue anni, cioè dieci di meno della defunta. Oddio,
la forza di sbatterle il cuscino sulla faccia avrebbe anche potuto
tenerla, non è grossa, ma nemmeno mingherlina, non è di quei
donnini che uccelletti sembrano. Una vecchia sana, direi. La storia è
presto detta. Il marito di lei, che manco a farlo apposta è morto,
aveva la stessa età della moglie, o meglio avrebbe, perché a
settanta, cioè due anni fa, gli ha preso un coccolone è c’è rimasto
secco sulla sua Ape Piaggio portando le piantine aromatiche
all’Ortofrutticola, il mercato all’ingrosso, quella in fondo a via
Dalmazia. Ha perso il controllo del motocarro, s’è fatto una mezza
dozzina di auto posteggiate e quando finalmente s’è ribaltato, lui era
già volato all’altro mondo per un infarto di quelli tosti. Una ventina
d’anni fa il tizio in questione, Bartolomeo, eh, mi scusi, commissà,
Bartolomeo si chiamava, pace all’anima sua, ha mollato la moglie per
la Peluffo, che aveva già virato la boa dei sessanta, ma restava
ancora una gran figa. Uno scandalo fu, gente all’antica, tutta casa e
chiesa, non la Peluffo, gli altri. E lei, la nostra vecchietta pestifera,
dopo manco tre mesi, lo mise alla porta: s’era già rotta i cabasisi.
Bartolomeo Raimondo fece il barbone, letteralmente, per qualche
tempo, poi la moglie tradita e offesa se lo riprese, soprattutto perché
nessuno potesse accusarla di essere sprovvista di pietà cristiana. Lo
mise a lavorare in campagna come un negro, cosa che d’altronde
avevano fatto tutta la vita. L’unica differenza con le altre storie è che
le due si salutavano e sembravano intrattenere rapporti cordiali,
saltuariamente finché si vuole, ma qualche volta si vedevano”.
“E dove succedeva?”.
“Nell’anticamera del dottore, dal parrucchiere, entrambe andavano
a far messa in piega e permanente da due sorelle che avevano un
negozietto nel centro storico. qualche volta capitava che se
s’incontravano per Albenga, scambiassero quattro chiacchiere o
facessero un pezzo di strada insieme”.
“La Raimondo aveva perdonato?”.
“Così diceva lei, soprattutto alle beghine amiche sue, ma nessuno
le credeva veramente, perché era ed è tuttora considerata una
persona invidiosa e piena di rancore”.
“Figli?”.
“Due che, guarda caso, hanno messo parecchi chilometri tra le
loro vite e quella di mammà: uno sta a Varese e l’altra s’è sposata
addirittura in Belgio”.
“E la Peluffo credeva a questo perdono cristiano?”.
“Probabilmente non gliene fregava un accidente, non la
considerava di sicuro pericolosa e alla fin fine doveva divertircisi
parecchio. Questa però è l’unica che sarebbe riuscita ad indurre la
vittima ad aprire il portone a ora tarda; resta ‘soltanto’, si fa per dire,
da chiarire come sapesse che quella notte Ildebranda era sola”.
“Sì, ma con questa sarà meglio parlarci. Riferitemi solo se viene
fuori qualcosa di sensato. Potrebbe essere che non si arrivi da
nessuna parte, tanto ormai ci siamo abituati, come che magari ci si
spalanca davanti un’autostrada verso la soluzione del caso”.
Capitolo dieci: Cappon Magro e lacrime
Il piatto di portata era ovale, di quelle porcellane della nonna che
Bartolomeo ricordava nei pranzi cebani dei lunghi Natali, e che non si
discostavano troppo dagli stessi piatti in uso nelle case genovesi. Ciò
che era profondamente diverso era quel che c’era dentro. A Ceva
erano ravioli del plin o tagliarin, conditi con sugo di funghi o di
brasato al barolo, quei sughi densi da ricordare il caramello e che
parevano fatti apposta per insinuarsi molto bene anche nella
compattezza della polenta. A Genova le cose andavano molto
diversamente, Genova è una città strana, abitata da gente strana, un
po’ scorbutica e proprio per tener lontano lo scorbuto, qualche
verdura a ’sti marinai bisognava pur farla mangiare: eccoti inventato
il Cappon Magro (che un genovese lo pensa maiuscolo, perché sta al
vertice della piramide). Il Cappon Magro è un capolavoro
d’architettura e gusto, dove l’aspro si abbraccia con la dolcezza del
cavolfiore e della carota, del fagiolino, dell’asparago e del carciofo, in
cui la polpa fine della coda di rospo o dell’ombrina si frange nel
biscotto imbibito che fa da fondamenta. E su questa costruzione
superba, come Superba è la città, sta posata l’aragosta con le sue
damigelle in madreperla, la sua corte d’ostriche o di gamberi, a
discrezione dell’artista. Ardelia s’era presa un giorno di ferie per fare
il Cappon Magro, perché dal primo istante di lavorazione, quando si
cominciano a pestare le foglioline del prezzemolo nel mortaio, con lo
spicchio d’aglio e quaranta grammi di pinoli, capperi e un pezzo di
mollica di pane imbevuto nell’aceto bianco, intanto che le gallette da
marinaio si gonfiano d’acqua, aceto e sale, ebbene da quel momento
lì, a quello in cui il piatto finito e guarnito vien posto in tavola,
passano ore ed ore ed ore, pressoché un’eternità. un’eternità che le
donne genovesi di una volta avevano in abbondanza e che quelle di
oggi si ricavano solo prendendosi un giorno di ferie, come Ardelia,
che si augurava che per quel giorno non venisse in mente a nessun
cadavere di farsi trovare in qualche posto assurdo di sua
competenza.
Ardelia era femmina d’intelletto fine, nel quale l’uso della ragione
ben s’amalgamava, come in una ricetta perfetta, con intuito, istinto e
quel pizzico d’irrazionalità che permette a taluni di arrivare veloci
dove invece altri, di mente logica e deduttiva arrancano.
E la dottoressa Spinola, intanto che lessava in acqua salata tutte le
sue verdurine tagliate a tocchetti, le scolava e le condiva, ognuna
nella sua scodelletta con olio e aceto, affinché s’insaporissero e non
si squamassero a contatto con l’aria, pensava e non le piaceva punto
quel che stava pensando: Rebaudengo stava per deragliare. Forse
non era ancora pronto, ma lei poteva sentire le vibrazioni dei bulloni
che s’allentavano, le ganasce che non stringevano più come
avrebbero dovuto, lo spazio crescente tra ruota e rotaia che faceva sì
che l’andamento non fosse più perfettamente rettilineo, ma un
tantinino caracollante, un accenno, d’accordo, ma segno
inequivocabile di disastro prossimo.
Il flemmatico, razionale, psicoanalizzato, maturo dottor
Bartolomeo Rebaudengo si stava prendendo una cotta per la
badante. Sull’oggetto avrebbe potuto giurarci, se lo sentiva che si
stava andando a picchiare lì, che il trenino che portava il suo cuore
palpitante, stava viaggiando sinistramente e pericolosamente verso
l’Ucraina.
Ci volevano anche i pistacchi, non soltanto i pinoli e quattro
acciughe salate per fare la salsa, che poi sarebbe andata a coprire,
come un delicato manto di seta verde, l’intera costruzione. Che poi:
quaranta pinoli, quattro acciughe? Genovesi va bene, ma forse era
meglio mettercene un po’ di più, altrimenti l’insieme sarebbe
risultato scipito, quella scipitezza tipica della cucina degli spilorci.
Se n’era accorta subito, era stata come una corrente elettrica,
inavvertibile per una persona poco attenta a certe sensazioni
minime, eppure già quella mattina, in quella elegante casa
albenganese con defunta, aveva percepito un palpito nel suo
fidanzato, un palpito d’incertezza che non avrebbe dovuto esserci.
Era arrivato il momento di prendere il famoso piatto ovale e di
stenderci le fondamenta di gallette imbibite, poi le fette finissime di
musciame e le rotellette di carota, i carciofi scottati e denudati delle
foglie stoppose, il sedano e le altre verdure, qualche cappero,
spizzichini di acciughe salate e polpa del pesce lessato; sopra a tutti
gli ingredienti il primo strato di salsa a spatola, ma fine. Lui ne era
consapevole, oppure stava impersonando lo ‘struzzo con la testa
sotto la sabbia’ costruendo il classico castello di frottole per eludere
l’eventualità di un confronto, neanche tanto con lei, quanto con se
stesso? Ardelia immaginava che il suo monologo fosse pressappoco
di questo tenore: ‘Io sono una persona equilibrata ho trovato una
mia collocazione nel mondo conosco i miei bisogni e le mie paure
non sento la necessità di controllare ogni cosa perché rispetto la mia
natura e le mie pulsioni quindi sto bene io sto bene non andrò mai
più a cacciarmi nei casini non devo dimostrare niente a nessuno e
poi non ho niente da cui fuggire perché so risolvere i miei problemi
quando ne ho e se ne ho soprattutto non scappo più sono
consapevole sono diventato grande!’. Sarebbe stato così codardo ed
infantile da credere alle proprie parole o di pretendere che ci
credesse lei? Certo che sì. E lei glielo avrebbe permesso? Certo che
no. Il punto era: scegliere una strategia e per sceglierla era
necessario comprendere bene la natura dei problemi.
Cosa non aveva funzionato nel loro rapporto? Perché qualcosa
doveva pur ben esserci stato. Bartolomeo non era il tipo macho che,
semplicemente, s’interessava alle gonnelle e soprattutto a quel che
ci stava sotto, allo scopo di confermare a sé e agli altri la propria
virilità. Era piuttosto timido, se era narcisista, e lo era, la livrea da
esibire era l’intelletto e non il fisico da palestra. E così era per le
donne che lo attiravano: gli piaceva soprattutto scoprire il mistero
che si nascondeva dietro ad un’apparenza e, tra parentesi, la spia
dell’est di mistero ne aveva da vendere, porca puttana! Certo un bel
paio di tette lo attraevano come qualsiasi altro uomo, ma la sua
conquista del mondo non partiva dal sesso. Insomma, sensuale ma
riservato, sabaudo anche a letto. Forse lei era stata troppo distratta
sotto questo punto di vista? O sbrigativa, o spesso stanca e presa
dalle sue preoccupazioni. Lo aveva veramente accolto, lo aveva
veramente ascoltato? O il problema non era nemmeno lì, era fuori
delle lenzuola, nel suo modo di rapportarsi con lui, nella sua arietta
da prima della classe, che né l’uso delle parolacce né l’abuso d’ironia
erano riusciti a sciacquarle del tutto? Doveva decidere se guarnire
anche con gli stecchi, come una specie di mostro marino abissale.
Con quegli stecchi avrebbe dovuto infilzare i gamberi, i pezzi di
anguilla e di merluzzo precedentemente fritti. Era una variante che
sua madre e sua nonna non praticavano. Naaah, i gamberi andavano
cotti al vapore, mica fritti! Eppure qualcuno l’aveva tramandato
anche così. Meglio un’eleganza più austera, meglio la grazia pelagica
dell’aragosta distesa in cima alla piramide, con il suo colore di
tramonto sul mare, arancio e vermiglio, posati sul verde fresco della
salsa e le ostriche dattorno, alternate ai gamberi, qualcuna ancora
con il guscio.
Per quella volta che il Conte di Cavour non tritasse i coglioni con
qualche vino rosso eh! Bianco delle Cinque Terre, che le portava un
collega, un radiologo amico carissimo, finito ad Albenga chissà come
da Vernazza. Le ostriche sarebbero state bene anche sul bordo del
piatto, aperte, con il loro tremulo gioiello in bella vista, ma quelle le
avrebbe messe proprio all’ultimo momento, per adesso era meglio
tenerle ancora sul loro letto di ghiaccio, con le valve chiuse. Sarebbe
stata una cena veramente principesca, e dire che non era nessuna
festa particolare. Voleva solo che Bartolomeo riflettesse su quanto si
deve amare un uomo per fargli il Cappon Magro, considerando il
fatto che lui non era di ritorno da un viaggio in Cocincina e penisola
di Malacca, non se l’era vista con i pirati e non aveva rischiato lo
scorbuto per mancanza di vitamina C. Ma stava rischiando di partire
per un altro viaggio, un viaggio al ritorno del quale, se mai ci fosse
stato un ritorno, niente sarebbe stato più uguale a prima e le
cicatrici non si sarebbero rimarginate tanto presto. Lei non voleva
che lui partisse. Certo, se per debellare il mistero e l’entusiasmo di
un innamoramento fuori binario, fosse bastato il Cappon Magro,
quante unioni si sarebbero salvate nel corso della storia! Il Cappon
Magro non sarebbe bastato, ma sarebbe stato comunque un buon
punto di riflessione, un linguaggio non verbale, un modo per
esternare amore e dedizione senza cadere nel pericolo terribile della
lagna e del piagnisteo. Ormai siamo diventati capricciosi, viziati e
obesi ipercolesterolemici, quindi consideriamo il Cappon Magro un
antipasto, ma tenendo conto di tutta la roba che c’è dentro, può far
benissimo da piatto unico. Così aveva deciso Ardelia che aveva
preparato come alternativa soltanto il vassoio di ostriche in
eccedenza alla guarnizione. Erano le otto meno venti. Guardò il suo
capolavoro, poi guardò Baciccia che dalla mensolina di marmo sopra
il termosifone anche lui lo stava guardando, e socchiudeva i suoi
occhi smeraldini di minuscola belva addomesticata solo all’apparenza
e alla convenienza. Dal punto di vista di Baciccia, il pesce era
rovinato da un sacco di rumenta inutile, tipo verdure, aceto, capperi
e gallette imbibite, ma con un lavoro meticoloso di zampe, unghie e
lingua, raspando e leccando ostinatamente, si poteva riportare il
pesce alla sua primitiva perfezione. Lui e Ardelia si dissero tutte
queste cose in un lungo sguardo senza amore, e lei decise di
prendere il grande piatto di portata e d’imboscarlo in alto nella
credenza, niente frigo, era già piuttosto freddo così. Baciccia sospirò,
la guardò con commiserazione, per nascondere la propria delusione,
e prese a fare un minuzioso bidè ai testicoli che da tempo non
c’erano più, dandole ostentatamente le spalle. In un cestello termico
di gusto vagamente etnico stava la prima bottiglia di vino delle
Cinque Terre, quello che produceva ancora il papà di Max, l’amico
radiologo, sebbene ogni anno in numero sempre minore. Se ci
pensava, sentiva più sua la riviera di là che non questa di qua, anche
se amava la sua casa, andava d’accordo con i suoi collaboratori e
colleghi e dopo due anni poteva considerare Albenga un luogo più
che accettabile dove vivere e lavorare. Il fatto era che da quando era
stata assalita da quelle brutte sensazioni di perdita, non le piaceva
più niente ed il suo stato d’animo non migliorava di certo quando
andava a trovare sua madre, la quale ormai alternava momenti di
delirio ad altri di catatonia, in cui con lo sguardo perso, fissava un
nulla che si rivelava solo a lei. La badante, Amparo Gutierrez y
qualcos’altro, era di una bruttezza totemica, un’inespressiva divinità
precolombiana: perché la sorte aveva disposto che la badante di sua
madre si presentasse come un monolito dello Yucatan, ed invece
quella in cui si era imbattuto il suo fidanzato era un gran tocco di
mussa? Giunta alla boa dei quarantacinque anni poteva fare invidia
ad una trentenne, ma se questo non fosse bastato, i suoi modi
misteriosi risvegliavano le affascinanti atmosfere di un film di spie
con Sean Connery. Perché eh? Perché, cazzo? Non poteva essere
una ciofeca di contadina con la silhouette di una matrioska, la
mascella quadrata di Krushev, le sopracciglia di Breznev e non solo,
anche i peli dello Yeti? No, perché lei Ardelia Spinola, nonostante
grinta, coraggio e palle da vendere, si portava dietro una sfiga
karmica, peggio del peccato originale!
No, no, doveva cambiare al più presto tenore di pensieri, doveva
spazzare via quell’autocommiserazione distruttiva, perché se andava
avanti così, quando fosse arrivato Bartolomeo gli avrebbe tirato il
Cappon Magro, piatto e tutto sulla faccia e avrebbe dolorosamente
goduto nel vedergli pendere sulla fronte le chele dell’aragosta.
Allora, la cosa migliore da fare era una doccia, non c’è niente di
più salutare e catartico che farsi una bella frignata sotto il getto
dell’acqua calda, dopodiché ammorbidire tutto con un bagno
schiuma alla papaia, incremarsi con burro di karité profumato al
bergamotto ed indossare qualcosa di sofficioso, dolcemente
confortevole senza cascare nel ‘casalinga sciatta’, che ne so, quel
completo gonna e blusa in maglia grigio fumo di Londra, metterci
insieme la collana di perle chiare e scure, quella con gli orecchini
uguali e tirarsi su i capelli, in modo da mostrare lo scintillio dei
pendenti. Un po’ di trucco, ma poca roba, perché Bartolomeo era di
quelli che non amavano ‘le pitture sulla faccia’, una goccia di ‘Coco’
Chanel: a questo punto poteva rilassarsi sul divano giusto quei
trenta secondi prima che facesse il suo ingresso il guerriero in crisi.
Sì, perché prima che fosse riuscita a fare tutta ’sta ristrutturazione, i
cinquanta minuti che la separavano dalle otto e mezzo, ci sarebbero
voluti tutti.
A Baciccia, nel frattempo, era passata l’offesa e aveva ripreso la
sua comunicazione Morse con il mondo: un miaauu lungo e due
brevi, uno strofinio intorno alle caviglie, un altro miaauu lungo,
guardando fisso in direzione della credenza: cos’avrà voluto dire?
E Bartolomeo arrivò, con il viso tirato, stanco, le braccia ingombre
di un gigantesco mazzo di rose rosa e iris, gli stessi colori del suo
primo regalo, la collana di ametiste e quarzo rosa. Era la prima volta
che le regalava un mazzo di fiori: cos’avrà voluto dire?
Lei lo abbracciò e trotterellò per la casa in cerca di un vaso adatto,
uno grosso, perché il mazzo era davvero gigante. Qualunque cosa
avesse significato quel mazzo, fosse anche stata la peggiore delle
ipotesi, e cioè che lui si sentiva colpevole, andava presa come un
fatto positivo: sarebbe stato peggio se lui non si fosse sentito
nemmeno colpevole. Perché sia chiaro: la colpa c’era, una colpa
forse solo, anzi ‘certamente’ solo allo stato potenziale, un tradimento
astratto come un sogno notturno che non si è di certo premeditato,
ma che, in quanto tradimento rappresenta pur sempre un
deragliamento dalla retta via.
Mentre trafficava con forbici e cordicelle, mentre appallottolava il
cellofan che è la cosa più incomprimibile del mondo dopo l’acqua,
pensava vorticosamente a come impostare la serata. Un bicchiere,
un bicchiere del vino del papà di Max, subito, come trinitrina alle
prime avvisaglie di angina. Una ragionevole quantità di vino avrebbe
dilatato altri tubi, diciamo le coronarie dell’anima e li avrebbe
inclinati ad una languida dolcezza. Parlarne o non parlarne? Si
poteva parlare, certo, ma dopo aver creato una condizione
psicologica di tranquillità e fiducia. Intanto che l’uomo si rilassava,
illustrando le sue vicende ed i suoi rovelli, lei con la mano leggera di
un artificiere che stabilisce quale filo tagliare, lo avrebbe fatto
scivolare verso le confidenze più personali, meno razionali, più
notturne. A quel punto avrebbe avuto finalmente modo di sondare
con grazia impalpabile i suoi sentimenti verso ‘quella là’. Decise che
era un buon piano e cominciò.
“Da quant’è che non dormi una notte come si deve, eh? Hai la
faccia stropicciata. Come va con la storia della vecchietta? È una vita
che non stiamo insieme e che non ce la raccontiamo un po’… Oh, se
però non ce ne hai per il belino, e vuoi distrarti, possiamo parlare
d’altro, di quello che vuoi”.
Lui, dopo essersi tolto il giaccone, si lasciò cadere sul divano
facendo rimbalzare il gatto arrotolato su un bracciolo, che da un po’
lo stava studiando con evidente ostilità; l’ostilità si trasformò subito
in odio e con ostentazione Baciccia se ne andò, scomparendo
nell’oscurità del corridoio.
“Mah, cosa vuoi che ti dica Ninin, non lo so nemmeno io di cosa
voglio parlare. Non ti dico che vorrei che non succedesse mai niente
perché il mio lavoro diventerebbe inutile, andrebbe giusto bene un
po’ di movimento, qualche rogna di ordinaria amministrazione, come
per esempio quelle belle esecuzioni della criminalità organizzata,
oppure le vendette tra clan, tra bande, un po’ di pestaggi razzisti da
una parte e dall’altra, spaccio e soffiate: la normale vita dello sbirro,
ma non questa roba... Mi spiego?”.
“Sì, come diceva un qualche scrittore americano degli anni trenta
che non mi ricordo più, una volta che se l’era presa con il genere
poliziesco da salotto alla Agatha Christie: restituiamo il delitto alla
strada, ai delinquenti veri”.
“Esatto, ed io invece proprio lì sono andato a finire, nel delitto da
salotto. Ero arrivato da poco qui che mi è capitato il primo caso di
omicidio, che poi erano di più di uno, di criminalità se non
domestica, chiamiamola privata, all’interno di incubi che da fuori non
si vedono, nascosti dietro una facciata di buona educazione
borghese. E già lì lo stallo, poi alla fine, quando perdi le speranze, la
soluzione del caso arriva per una classica botta di culo, come diresti
tu quando parli come un ‘camallo’. Dopo manco sei mesi, o forse un
po’ di più, non mi ricordo, mi ci voleva il delitto fotocopia, l’emulo,
fuori come un poggiolo. Settimane, mesi a menarsela senza andare
avanti di un millimetro, e poi con quella tritamaroni della Cotroni,
che fa anche rima: te la ricordi?”.
“E come potrei averla dimenticata!”.
“E adesso ’sta storia, con la vecchietta che dev’essere stata una
peste da giovane e forse anche da vecchia, e la badante” invisibile
sussulto di Ardelia “che arriva da chissà dove e parla che sembra una
spia da film e non devo pensarci, altrimenti, povera donna” altro
invisibile sussulto di Ardelia “rischio di riderle in faccia mentre la
interrogo, e che non ci ho ancora capito veramente un accidente di
quanto c’entri, di quanto sappia, se vuole nascondere qualcosa o
qualcuno, se ha paura o se mi piglia in giro. Intanto, se viene fuori
che è innocente come un bucaneve, si porta a casa cinque milioni di
euro, hai in mente?”.
“Cooosa?”, e le cadde lo strofinaccio di mano.
“Sì, mia bella patatina, cinque milioni di euro!”.
“E tu come fai a saperlo?”.
“Be’, sai, io a tempo perso faccio il poliziotto, e i notai amano far
pettegolezzi con gli sbirri”.
“Porco belino, ma è un’enormità!”.
“Abbastanza!”.
“E la vecchietta le ha lasciato tutto ’sto mucchio di soldi? E ai suoi
eredi?”.
“I suoi eredi non esistono. L’erede è la Lysenko, gli altri sono
legatari e gli ha lasciato degli oggetti che sono vere e proprie prese
per i fondelli, anche cattive!”.
“Ma perché avrebbe lasciato tutto alla russa, che in fondo era ed è
un’estranea, che arriva da casa del diavolo per giunta?”.
“A parte che non è russa, ma ucraina e se ti sente sì che ti sorride
con educazione, ma sotto sotto s’incazza” sussulto quasi visibile di
Ardelia “La vecchia le ha lasciato tutto perché faceva parte della sua
burla contro quelli che si credevano eredi, ed è stato anche un modo
per offrire l’opportunità di una vita migliore ad una persona giudicata
più meritevole di altre”.
“Ma erano amiche la vecchia e l’ucraìna?”, e lo disse accentando
violentemente la ‘i’ per far capire che aveva registrato il fatto che
non fosse russa.
“A sentire la Lysenko sembrerebbe di sì, anche se non ho nessun
riscontro, perché lei stessa aveva fatto divieto alla sua datrice di
lavoro di divulgare le sue confidenze relative alla vita privata. Quindi
non c’è nessun altro che possa confermare questa dichiarazione”.
“E il nipote, il buliccio tondarello che sta in Piemonte?”.
“È proprio uno di quelli ai quali la vecchietta non avrebbe
raccontato mai niente della sua badante se non qualche dettaglio
poco intimo, tipo provenienza o livello d’istruzione, mi spiego? E lì c’è
una nota stonata, perché la Lysenko parla con rispetto del nipote
Peluffo, ma non ci vuole la scienza di Cavour per capire che non le
piace. Lui invece ha subito una strana metamorfosi: all’inizio
commenti corretti e gentili e in fondo al discorso una sparata di
veleno, un commento acido e sospettoso che smentiva tutta la
sbrodolata precedente. Poi, dopo la lettura del testamento, soltanto
parole di lode… Mi sfugge l’intento, perché è ovvio che qualcosa
dovrà pur ben significare, o no?”.
“Tu come spieghi questa inversione di rotta?”.
“So troppo poco di queste persone per spiegarmi qualcosa. Prima
di pensare a sentimenti spontanei ed istintivi, preferisco ipotizzare
che abbiano tutti e due dei buoni motivi per agire come agiscono: lei
non vuol dimostrare ostilità verso un uomo che evidentemente non
le piace, anche se non sappiamo perché, e lui vuol farci credere di
trovare di suo gusto una straniera con la quale certo non si perdeva
in amene conversazioni. Credo che alla fine, sperando di arrivare ad
una fine, sarà possibile chiarire anche questo. E poi c’è la faccenda
della spinta”.
“Quale spinta?”.
“Ma dai, possibile che non ti ricordi, ma sì che te l’ho raccontato:
qualcuno l’ha spinta cercando di mandarla sotto l’autobus!”.
“Forse… ah sì, sì, adesso m’è venuta in mente, solo che non so più
cos’è successo dopo”.
“Niente, dopo non è successo niente”.
“Lei non vi ha detto chi è stato?”.
“Sostiene di non averlo visto in faccia”.
“Ma avrà dei sospetti!”.
“Sì, dei sospetti li avrà anche, ma s’è ben guardata dal condividerli
con me e con i miei uomini”.
“E perché?”.
“Lei dice che non vuole gettare ombre su qualcuno che potrebbe
rivelarsi estraneo, oppure che non vuole peggiorare la propria
posizione agli occhi di questa persona, facendo il suo nome alla
polizia e scatenando un rancore peggiore di quello attuale. Insomma
è qualcuno che le fa paura… È un po’ mafioso come atteggiamento e
non mi piace”.
“Be’ i russi ce l’hanno anche loro la mafia”.
“È ucraina”.
“Anche gli ucraìni ce l’hanno! E così non sai a cosa aggrapparti”.
“Esatto, perché secondo me lei non è stata, fisicamente, ma ci
sono troppe zone oscure nelle sue dichiarazioni. Potrebbe essere
stato un piano del quale era al corrente e che non ha attuato, ma lo
ha fatto qualcun altro, magari con la sua collaborazione indiretta, lo
stesso personaggio che adesso le fa tanta paura e le dà le spintarelle
davanti alla fermata dell’autobus. Il notaio sostiene che lei fosse
all’oscuro della decisione testamentaria della vecchia e
probabilmente è così, ma la certezza matematica non c’è. Potrebbe
non essere vera una sola parola di quanto mi ha raccontato fino ad
oggi, e mi dispiacerebbe” consistente disagio di Ardelia con
minuscola smorfia dell’angolo destro della bocca “Sì, mi
dispiacerebbe e mi sembrerebbe quasi impossibile, perché lei si
presenta come una donna diretta, leale e intelligente, una che ha
conosciuto dolore e delusione, paura per il futuro, rinunce, che ha
umiltà e capacità di adattamento” Ardelia aveva un po’ nausea, ma
da fuori non si vedeva “E una così non mi sembra tanto scema da
mettersi con qualche balordo delle sue parti per fargli fare il lavoro
sporco di ammazzare per denaro. Poi c’è il nipote che sembra un
buon uomo, eppure nemmeno lui mi convince. Insomma è una storia
piena d’incognite”.
“Anche la mia credenza”, chiuse Ardelia che dopo aver fatto lo
sforzo d’interessarsene, s’era rotta le scatole di parlare di quel caso
di omicidio, i cui esiti avrebbero potuto deviare il corso delle sue
aspettative future.
“E cosa contiene la tua credenza?”.
“Una cosa che si mangiava a Genova fin dai tempi della più illustre
marineria” alé’, pensò Bartolomeo, alé, tourna roba subacquea! “e
che ne rappresenta un simbolo, forse ancora più del pesto, ma di
certo meno conosciuto nel mondo”.
“Oh mi Signour, una roba piena di spine?”.
“Ma ti pare, monsù Rebaudengo, che ti farei mangiare delle spine?
Dimmi, ti ho mai fatto ingoiare delle spine?”.
“No, se è per quello no, però non si sa mai”, e intanto si era tirato
su dal comodo divano e si era diretto verso la credenza incriminata,
curioso di vedere cosa ci fosse nascosto, d’indovinarlo dall’odore, ma
nessun effluvio gli venne in aiuto.
“Le donne di Genova lo preparavano ai loro uomini di ritorno da
lunghe navigazioni. Era un piatto che portava via ore e ore di
lavorazione, credo che una volta ci si mettessero in parecchie,
perché ti garantisco che io da sola, che ne ho cucinato solo per tre,
massimo quattro, porzioni, quindi una quantità davvero moderata, è
da stamattina che traffico, e non lo dico per caricarti di
responsabilità, ma per farti capire che l’arte della cucina non accetta
fretta, proprio come l’arte dell’investigazione”.
“Oh amore mio, ma non dovevi!”.
“Infatti non l’ho fatto perché dovevo, ma perché avevo voglia di
farlo. Erano anni, ma tanti sai, che non lo mangiavo!”.
“Allora voglio vederlo ’sto piatto, per quanto me lo farai sospirare
ancora!”.
“Eccolo lì!”.
Bartolomeo rimase pietrificato alla vista dell’aragosta. Non furono
gli strati delicatamente colorati delle verdure, né il verde vellutato
della salsa, nemmeno le ostriche sul bordo, né il profumo di
prezzemolo, pesce e limone, non fu niente di tutto questo ad
atterrirlo: fu la vista dell’aragosta! Non ne aveva mai mangiato una
in vita sua! L’idea di trafficare con strumenti molto simili a quelli di
un’operazione chirurgica ortopedica allo scopo di estrarre la
muscolatura del crostaceo dalla sua corazza, gli fece venire le
ginocchia molli e dovette sedersi. Ardelia prese quell’atto come un
momento di debolezza causato dalla gratitudine e ne fu commossa.
“Si chiama Cappon Magro: ne hai mai sentito parlare?”. Forse sì,
ma aveva sempre creduto che fosse quel che sembrava voler dire:
un cappone magro, un bipede oviparo terricolo, con i polmoni e le
ali, il petto ed altre parti, ottime arrosto, anche se quel ‘magro’ in
coda poteva intristire un pochino, ma si sa, al giorno d’oggi è meglio
mangiare magro.
“Ah è questo il Cappon Magro?”, chiese con un filo di voce.
“Sì, è questo, cosa credevi, che facesse chicchirichì?”.
Si sedettero a tavola e cominciarono a cenare, dopo aver bevuto il
secondo o terzo bicchiere fresco di bianco di Vernazza.
Bartolomeo nella testa aveva un vortice d’emozioni intrecciate e
confuse, proprio come gli indumenti dopo una centrifuga di lavatrice:
se pensava ad un aspetto della sua vita in quel momento, fuori
dell’immaginario oblò rotolava anche il resto, tutto aggrovigliato. Il
risultato era un’ansia che gli schiacciava il petto come un’armatura
medioevale.
C’era questo nuovo inaspettato cimento d’amore, il Cappon Magro
che doveva essere nell’immaginario atavico della donna genovese
una sovrumana testimonianza d’amore. Poi c’era lo sguardo
gattescamente obliquo della bella Svitlana, innocente sospetta e
colpevole incerta, che quando gli si accendeva nella memoria gli
dava una zampata nella pancia che non andava niente bene. Il guaio
era che subito dopo la zampata dell’eros, arrivava quella caliginosa
del senso di colpa verso la bella e innocente genovese, la quale
aveva lavorato ventiquattr’ore per esprimergli il proprio amore con
un gesto d’antica cucina. E lui non era sicuro di ben comprendere
tutta la portata dell’antica cucina, perché, sebbene quella pietanza
fosse particolarissima e di certo non cattiva al palato, nemmeno
poteva dire d’esserne intimamente attratto. c’era qualcosa d’asprigno
e severo, un sentore di fredda salsedine, di mareggiata che s’andava
a frangere contro la dolcezza della verdura e la sommergeva.
Sebbene non si potesse dire che la misteriosa pietanza portasse in
bocca una tristezza di frigorifero, Bartolomeo non amava i piatti
freddi e quello era algido nella sua intima essenza. Non ti sentivi
avvolto da una sensazione di fiducia e confidenza come capita
arrotolando sulla forchetta i tagliarin al sugo di lepre, era tutta una
roba diversa, questa volta davvero straniera. Eppure sorrideva
volenteroso e pieno di tenerezza, cantando le lodi di questo cappone
senz’ali che non aveva mai conosciuto lo spolverio di luce della
cascina, nelle lunghe giornate estive. Chiacchieravano, e lui vantava
le meraviglie di quel piatto ostico e straniero, perché guai se non lo
avesse fatto, fin lì c’era arrivato, e Ardelia sorrideva soddisfatta;
nemmeno più gli chiedeva se fosse contento perché era sicura che lo
fosse. Certamente non era debellato il pericolo proveniente dalle
steppe, ma quello era un momento di serenità che nessuno le
avrebbe potuto portare via, a meno che lei stessa non si fosse messa
a fare domande cretine. Cosa che fece, quando furono circa a metà
della cena.
“Ma sentì un po’, Bartolomeo, però devi dirmi la verità: non è che
la russa un pochino ti piace?”.
In quel momento squillò il cellulare e lui posò la forchetta e le
strinse la mano con tenerezza, per chiederle un istante di tolleranza.
“Eh, sì, dimmi Negri”, Ardelia sospirò, oppressa da una cupa
sensazione di catastrofe imminente.
“Sì, sono da Ardelia, perché?”. Seguì un silenzio abbastanza lungo
nel quale dall’altra parte gli stavano dicendo cose importanti.
“Va bene, vado immediatamente. Tu chiamala e dille di non fare
cretinate, che se ne stia ben chiusa in casa”. Altro silenzio. “Sì, va
bene la volante, ma niente lampeggianti e sirene dall’ingresso in
Albenga, solo prima, per farsi strada. Tu dove sei, adesso?”. Piccolo
silenzio: “Oh boia faus, vengo giù immediatamente!”.
La catastrofe non era più imminente, era arrivata. Ardelia guardò
la metà restante del Cappon Magro, scavato come una collina erosa
da una cava di pietra, stessa desolazione. Bartolomeo s’era già
alzato e aveva già afferrato il giaccone.
“La madre dell’ispettore Negri, che abita sotto all’appartamento
dove aveva vissuto la vittima Peluffo, ha telefonato alla figlia dicendo
che c’è qualcuno che cammina di sopra. Devo andare, mi sta
aspettando in strada”.
La baciò distrattamente e dopo meno di un secondo era già
scomparso, senza averle nemmeno dato il tempo di alzarsi e
accompagnarlo. La porta d’ingresso si richiuse e nell’appartamento
rimase solo il silenzio della solitudine. Baciccia si materializzò e disse
miao.
Ardelia si prese la testa fra le mani, guardò il Cappon Magro
avanzato e pianse.

Simonetta Negri era imbacuccata nel cappotto e batteva i piedi


uno contro l’altro. Non aveva paura del buio del Lungo Centa, luogo
noto per furti, scippi e spaccio. Sentiva la durezza della Beretta ben
piazzata sotto al maglione e questo era sufficiente a rassicurarla.
Bartolomeo la raggiunse subito.
“Spiegami tutto”, esordì stringendosi il colletto del giaccone contro
il mento, sorpreso da un freddo che doveva essersi svegliato da
poco, perché due ore prima, l’aria era primaverile. La Negri brontolò
un ‘dopo’ e partì di corsa. Percorsero correndo il tratto di lungofiume
che separava la casa di Ardelia dalla via Medaglie d’Oro, dove aveva
abitato tutta la vita la signora Peluffo. Ripresero a parlare solo
quando arrivarono davanti al portone, ansando e bisbigliando come
due ladri.
“C’è poco da spiegare. Mia madre mi ha telefonato dieci minuti fa
per dirmi che sentiva un rumore di passi nell’appartamento del piano
di sopra e per chiedermi se volevo che andasse a vedere. Mi son
venuti i capelli dritti in testa e le ho ordinato di barricarsi in casa. Lei
mi ha risposto a malincuore che avrebbe ubbidito, ma che avrebbe
controllato attraverso lo spioncino qualsiasi movimento sulla scala.
Le ho risposto di sì, purché stesse con la luce spenta in corridoio,
perché altrimenti si sarebbe visto dall’esterno. Lei ha ribattuto
testuale: ‘Veggia va ben, ma nu sun miga nescia!’. Hai capito o devo
tradurre?”.
“Non sono mica scemo! Ok, adesso basta, apri”.
Il portone era chiuso, la Negri aprì con la sua chiave personale
facendo meno rumore possibile. Nessuno dei due aveva notato
un’ombra addossata al muro, dietro l’angolo dell’arco che conduceva
in piazza Arroscia, la piazzetta degli antichi lavatoi, e non avevano
visto nemmeno un’altra ombra, schiacciata contro il sedile di una
piccola utilitaria posteggiata nel buio, così vicino ai cassonetti della
rumenta da potersi quasi confondere con essi. Intanto i due sbirri
camminando in punta di piedi, con le pistole in pugno, avevano
iniziato a salire i gradini nella semioscurità dell’androne. Quando
arrivarono al pianerottolo della signora Adelina, lei con gran fracasso
aprì la porta e li investì con la luce proveniente dall’ingresso.
“Ma cazzo, mamma, cosa ti salta in mente!”.
“Nu sta a di’ ’ste parole lì che nu me piaje! Mi scusi, dottore: è che
su non c’è più nessuno!”.
“Come più nessuno?”.
“Ti m’hai ditu de tegnì a porta serà e de nu sta a fa’ a nescia,
giustu?”.
“Sì, e allora?”.
Adelina decise di passare all’italiano, a beneficio del commissario
che era foresto.
“E allora io non potevo tenere accesa la luce delle scale, che dopo
un po’ si spegne da sola. Di sopra ha chiuso la porta, son stata a
sentire, con tutti e quattro i giri, ha aspettato che si spegnesse la
luce della scala, forse era entrato qualcuno dai Trebbia di sotto e poi
con la luce spenta è sceso come un furetto e s’è tirato dietro anche il
portone. Mi è passato davanti e io non sono riuscita a vedere niente,
porca miseria! Un’ombra, ma un attimo, senza nessun rumore, come
se avesse avuto le scarpe in mano, come te quando tornavi da
ballare da ragazza” la Negri guardò un attimo Bartolomeo con
imbarazzo “e l’ho visto solo perché sapevo che doveva passare,
altrimenti non lo avrei neanche notato”.
“Era un uomo o una donna?”.
“E che ne so. Ho solo visto un’ombra che per un attimo ha fatto
una macchia scura davanti allo spioncino e non ho più visto quello
che c’era dietro, ma proprio un attimo eh! Basta, stop, non so dire se
era uomo o donna, alto o basso, magro o grasso, niente vi dico”.
“Quando ha sentito i passi di sopra, le sono sembrati prodotti da
qualcuno con i tacchi o con una corporatura pesante?”.
“Con i tacchi direi di no, perché fanno proprio tic tac, danno
fastidio, però nemmeno con le scarpe da ginnastica, perché quelle
non le senti proprio. Un paio di scarpe normali, con il tacco di cuoio.
Però oltre non posso andare”.
Si sentì una sirena in lontananza che si smorzò quasi subito: la
pattuglia era uscita dalla galleria S. Martino e stava per entrare in
Albenga. Su quella pattuglia, oltre a due agenti armati c’erano anche
le chiavi della casa al piano di sopra. Dopo tre o quattro minuti si udì
scattare il portone d’ingresso. Era Martelli, con l’armamentario,
insieme ad Ardoino, un sovrintendente biondastro, affidabile e
musone, con il quale, in tre anni, nessuno era riuscito a fare
amicizia.
Salirono tutti le due rampe di scale, dopo che la Negri ebbe
imposto alla mamma di chiudersi in casa.
La porta era perfettamente integra, visto che non era stato
compiuto nessun tentativo di scasso, anzi, il visitatore si era
premurato di chiudere al momento di andarsene, e non solo, aveva
anche rimesso l’allarme! Certo, i sigilli erano rotti e penzolavano, ma
a quello non sarebbe riuscito a porre rimedio. Dopo che Rebaudengo
ebbe disinserito l’allarme e aperto la porta, entrarono con le armi in
pugno e molta circospezione. Sapevano che dentro non c’era più
nessuno, ma era già capitato più di una volta di trovarsi davanti una
faccia atterrita in un appartamento che si era creduto deserto. Dopo
una perlustrazione rapida, Bartolomeo organizzò il lavoro: cosa era
andato a fare il misterioso personaggio in quella casa a distanza di
quasi un mese dal delitto? Di sicuro non aveva ubbidito ad un
impulso di nostalgia: era andato a prendere qualcosa o a rimettere a
posto qualcosa. Cosa? Non era proprio un lavoretto facile: con
inventario alla mano, avrebbero dovuto controllare cassetto per
cassetto, armadi, camere da letto, bagno e cucina se c’era qualcosa
di diverso da quella mattina in cui erano entrati là dentro per la
prima volta. Una menata disumana! Perché oltretutto non avevano la
minima idea di cosa cercare, di cosa potesse mancare o essere stato
aggiunto. Rimasero nell’alloggio cristonando, intanto che Martelli
ricominciava a fare fotografie per confrontarle con quelle del giorno
del delitto, gli altri tre armeggiando con i guanti di lattice;
Bartolomeo odiava i guanti di lattice, gli sudavano le mani, le tirava
fuori bagnate come se le avesse messe sotto il rubinetto e con una
brutta puzza. Aprivano e chiudevano cassetti, armadietti, ante, porte
e porticine, spostavano oggetti dai ripiani, controllando gli aloni di
polvere, che ormai s’era uniformemente posata ovunque. Non solo
non arrivarono a niente, ma verificarono anche che il visitatore non
aveva spostato nulla, perché le superfici lucide che stavano sotto ad
un vaso, o ad un soprammobile erano perfettamente definite, senza
sbavature. Solo uno scaffale della dispensa in un punto peraltro
scomodo da vedere e raggiungere con le mani, si rivelò vuoto
nell’angolo in basso: non trovarono scritto da nessuna parte cosa
avesse contenuto, o se avesse contenuto qualcosa, magari era già
vuoto in origine. Per guardarci era necessario mettersi carponi e
forse durante la prima perquisizione nessuno era andato a ficcare la
testa là sotto. S’interrogarono per un po’, ma a nessuno venne in
mente, e nessuno lo ricordò nemmeno nei giorni successivi, così
smisero di pensarci.
“Allora, chi è entrato ha le chiavi, ovvio, non solo, sa anche come
spegnere ed accendere l’impianto d’allarme. Dal momento in cui è
stato notato dalla signora Adelina, al momento in cui lei lo ha visto
scivolare come un’ombra davanti alla sua porta, sono passati dai
cinque ai dieci minuti, non di più, quindi è stato nell’alloggio il tempo
necessario a portare o prendere qualcosa che sapeva esattamente
dove mettere o trovare. Ha rotto i sigilli, ha rischiato di essere visto,
quindi deve trattarsi di qualcosa di maledettamente importante.
Appena rientrati in commissariato controlleremo tutte le fotografie
della scena del crimine per fare un confronto e le intercettazioni di
eventuali telefonate o conversazioni della Lysenko. Dovremo
verificare inoltre se il Peluffo è a casa: in caso affermativo, potremo
escludere che sia stato lui, perché non s’impiega lo stesso tempo
Albenga e Novi Ligure che impiegheremo noi per arrivare ad Alassio,
è ovvio”.
La delusione fu grande quando si scoprì che le foto non erano di
nessun aiuto, le ultime sembravano praticamente delle fotocopie
delle prime, dalle intercettazioni telefoniche non si riuscì ad
individuare alcun elemento utile ad identificare nell’uno o nell’altra il
misterioso visitatore di casa Peluffo. E nemmeno dai rilevamenti
ambientali. A casa Peluffo si erano sentiti stralci di conversazione e la
voce di entrambi, marito e moglie era riconoscibile. A casa della
Lysenko, dopo una serie di saluti in ostrogoto che avevano preceduto
l’uscita di due delle tre donne, furono chiaramente udibili parole
amorose della badante nei confronti dell’unica creatura rimasta, e
cioè la gatta Svetlana: questo voleva dire che erano uscite le
Karachuk madre e figlia. Anche la traduzione, che arrivò solo il
giorno successivo, non fu particolarmente illuminante: Ketziunha
moja, che doveva suonare come ‘amore mio’ poteva stare tranquilla,
perché Svietka, ed in questo caso la donna si riferiva a se stessa,
avrebbe fatto di tutto per farla contenta e non l’avrebbe mai
abbandonata. La gatta aveva risposto con un ronronnamento che
non si era più interrotto. Su tutto ciò s’era poi messa a borbottare la
televisione. Il tecnico aveva detto che pochi minuti prima del rientro
di Bartolomeo e dei suoi in commissariato, c’era stato qualche nuovo
stralcio di conversazione con la gatta, seguito da un rumore di
linguetta di lattina, un cozzo leggero di metallo contro metallo ed un
ronronnamento molto più forte: la gatta stava cenando. In tutto
quell’intervallo di tempo, nessun rumore di porta di casa che venisse
aperta o richiusa.
A Rebaudengo sembrava d’impazzire: chi di quei due era stato
nell’alloggio della Peluffo? E se non era stato nessuno dei due,
badante e nipote, chi diavolo era la terza, forse unica e vera
incognita di quell’equazione?
E adesso cosa doveva fare: tornare da Ardelia, immaginando di
trovarla se non arrabbiata, perché era donna solida e poco incline ai
capricci, ma di sicuro un tantinino amareggiata, se non altro per la
brusca interruzione e per il poco omaggio che aveva ricevuto la sua
impresa culinaria? Oppure limitarsi a chiamarla, scusarsi dell’assenza
e andarsene a dormire a casa propria? Vagolare per le vie della città
deserta in quella fine di marzo fredda ed incerta, sperando che un
consumo inutile di gasolio stimolasse la sua intelligenza e gli
permettesse d’intravedere qualcosa che fino a quel momento non
aveva visto? Andare da Svetlana, trascinarla fuori di quella minuscola
casa infestata di cimici e pulci più di un can barbone, e portarsela
dietro a condividere riflessioni e consumo insensato di gasolio?
Quest’ultima era l’idea più cretina: un poliziotto non trascina via per
mano una sospettata, come fa Dustin Hoffman con la sposa
nell’ultima scena de Il laureato, portandola fuori a chiacchierare
perché la casa è piena di microfoni che ha fatto mettere lui! E poi
non chiacchiera con una persona che non può essere ancora
considerata innocente! Gli era venuta un’idea davvero scema! Ma
perché gli era venuta? Perché gli era venuta voglia di guidare a
vuoto per la città e magari anche per la riviera addormentata, con
Svetlana, seduta al suo fianco, i suoi occhi di gatta dell’est posati su
di lui, come un’invisibile carezza? Non andava mica tanto bene quella
cosa lì, considerando il fatto, gravissimo, che l’aveva già fatto una
volta e non ci aveva cavato un ragno dal buco. E subito si ricordò di
Ardelia, del modo affettuoso e discreto con il quale lo riempiva di
attenzioni, senza brontolare mai, senza tirare fuori i problemi che
l’assillavano e non erano pochi, sempre attenta ai bisogni di lui,
come una moglie di quelle di una volta, come una vera signora
Maigret. E lui, stronzo, andava a pensare a quell’altra, alla spia
venuta dal freddo! Eppure non poteva farci niente: appena gli
tornava in mente quella donna, ecco che la sua pancia veniva
strizzata dall’artiglio di una tigre siberiana.
Aveva cercato di dormire, ma non era stato un gran riposo, aveva
cambiato fianco almeno settecento volte, sprimacciato il cuscino,
guardato l’ora sulla sveglia: le due, le due e cinque, le due e sette, le
due e dodici, le due e quaranta, doveva essersi addormentato
mezz’ora e così fino alle quattro. Dopo le tre, che aveva sentito
rintoccare in lontananza da qualche campanile non ben individuato
in tre anni di domicilio, aveva smesso di guardare quei numeri
azzurri e un po’ sinistri che continuavano a scorrere sul suo
comodino, accorciando sempre di più il tempo che lo separava dal
risveglio. Aveva mandato un sms alla fidanzata, pieno di scuse e di
amorose parole, promettendole di andare a finire il Cappon Magro
avanzato l’indomani sera ed aveva ricevuto una risposta che non
poteva nemmeno essere definita una sillaba, perché non la era: Ok.
Va bin, meglio che niente.
Alle quattro saltò sul letto come se fosse stato punto da uno
scorpione messicano: la chiavetta, cazzo, la chiavetta! Ma come non
gli era venuto in mente prima, deficiente che non era altro! Si alzò,
inciampò nelle pantofole, accese la luce e si precipitò nell’ingresso
dove il suo inseparabile giaccone da boscaiolo stava appeso di
sghimbescio allo schienale di una poltrona. L’intero mazzo di chiavi di
casa Peluffo adesso era lì, tra le sue mani. Tra la chiave pesante e
stravagante della porta blindata e quella di gusto ottocentesco del
portone, c’era una roba strana, di plastica nera, con una piccola
impugnatura triangolare e una specie di stecca, una barretta
abbastanza flessibile che non finiva ad angolo retto, ma con un
taglio diagonale.
Quell’oggettino anonimo che ad un esame esterno sembrava un
pezzo di plastica dalla forma rudimentale di chiave, come se l’avesse
disegnata un bambino di quattro anni, era gonfio d’informazioni più
di un libro di scuola e tra queste informazioni ce n’era una
fondamentale: il tecnico dell’impianto di allarme, controllando nella
centralina, avrebbe saputo dire non solo a che ora era stato messo e
tolto, ma anche da chi, perché ogni chiave aveva una sua
denominazione. Se anche non fosse stato indicato il nome del
destinatario e fossero state indicate semplicemente come chiave 1,
2, 3 e 4 quella di riserva, sarebbe stato il mazzo al quale era legata a
rivelare l’identità di chi ne aveva fatto abitualmente uso. E questo
elemento sarebbe stato fondamentale non soltanto per rispondere
alla domanda: ‘Chi se n’è andato a fare un giro in casa Peluffo
questa notte?’, ma avrebbe anche illuminato sull’identità di chi era
entrato la notte dell’omicidio, perlomeno nella duplice ipotesi che
fosse provvisto di chiavi e che avesse disinserito l’impianto
dall’esterno, prima di aprire la porta. Naturalmente se era stata la
vittima ad aprirgli, sarebbero stati punto e a capo. Però un cinquanta
per cento di possibilità erano decisamente meglio che niente! Quello
che aveva tra le mani era il mazzo di chiavi di Guidobaldo Peluffo.
Oltre alla porta di casa, c’era il portone, l’allarme appunto, una
chiavetta minuscola che doveva essere quella della cassetta delle
lettere ed un’altra chiave che poteva appartenere ad una soffitta o
ad una cantina. Quando fosse arrivato in commissariato avrebbe
confrontato il mazzo del nipote con quello che era appartenuto alla
vittima, con quello sequestrato a Svitlana e con quello di riserva.
Prima di dirigersi verso Alassio sarebbe passato dall’appartamento di
Ildebranda per segnarsi il nome della ditta che aveva installato
l’impianto, di solito sta scritto nella porta interna della cassetta
blindata che contiene la centralina elettronica. Con quei pensieri
dormire era fantascienza, ma boia faus, non poteva mica tirare fino
alle sei, prima o poi la notte insonne si sarebbe fatta sentire. Si
rimise a letto e, contrariamente ad ogni previsione, precipitò in un
sonno plumbeo nel quale la sveglia lo afferrò con la grazia di un
forcipe infernale.

Il tecnico della ditta Hermes – Dio dei ladri, avevano senso


dell’umorismo e cultura i tizi! – era un finferlo lungo e secco, viso
enigmatico, naso ‘importante’ e storto, capelli a spazzola, parole
pochissime, ma dava l’idea di conoscere il suo mestiere piuttosto
bene. Con tutti e quattro i mazzi di chiavi in mano si accinse a dare
loro le risposte di cui avevano tanto bisogno. Stava in piedi davanti
alla centralina aperta, con Rebaudengo appollaiato a spiare dietro
alle sue spalle, come un gufo.
“Allora, non so se quello che ho da dirle le piacerà”, esordì con un
sorriso gentile. Bartolomeo aveva l’orrendo presentimento che tutto
quell’ambaradan non sarebbe servito ad un accidente, sebbene l’idea
originaria fosse stata ottima.
“Lei me lo dica lo stesso”.
“Allora: le chiavi sono cinque e non quattro, di riserva ce n’erano
due. Le prime tre corrispondono alle persone che le utilizzavano,
cioè, una è definita come ‘badante’, una con il nome del nipote, cioè
Guido, un’altra è indicata come Ilde P. quelle di riserva sono R1 e R2.
R1, me la dia ancora una volta, ecco, grazie, viene riconosciuta dalla
centralina, vede? R2 non c’è, cioè tra le chiavi che mi avete
presentato non c’è ed è esattamente quella che è stata usata questa
notte tra le 10 e 47 e le 10 e 58. Quindi qualcuno non vi ha restituito
esattamente questa chiave, oppure è in possesso di una persona che
non conoscete. La signora Peluffo ne aveva chiesto una in più perché
non è possibile duplicarle o clonarle e, quindi, preferiva averne due
di riserva piuttosto che una”.
“Ma se l’avesse smarrita o le fosse stata rubata?”.
“Mi avrebbe immediatamente telefonato ed io sarei arrivato qui
come una lippa a modificare il codice d’identificazione della
centralina. Con il codice modificato, l’uso di una chiave dotata di
quello precedente avrebbe provocato due possibili esiti, a mia scelta:
o non disinserire l’allarme e basta o farlo partire. La signora aveva
voluto che in questa eventualità l’allarme fosse predisposto per
entrare in funzione immediatamente, sia con le sirene che con il
combinatore telefonico, come per un’effrazione vera e propria”.
“E non è mai successo?”.
“No, era una possibilità di cui avevamo parlato, ma non era mai
successo”.
“Quindi queste quattro, più quella mancante presentano ancora il
codice originario?”.
“Esattamente”.
“Di chi sono i recapiti telefonici segnati nel combinatore?”.
“Ci sono quelli del cellulare della signora, del nipote, della badante
e quello dei carabinieri”.
“Il combinatore è collegato al telefono di casa?”.
“No, troppo facile da isolare: è collegato ad un cellulare che ha
questo solo scopo”.
Mmh…
“La notte tra il 22 ed il 23 febbraio a che ora è stato inserito e poi
disinserito l’allarme?”, e nel fare questa domanda gli batteva forte il
cuore, perché se la risposta fosse stata chiara, sarebbe stato come
avere l’assassino già in manette.
“Un attimo che controllo”, e si mise a trafficare con un computer
portatile che era stato collegato alla centralina elettronica.
“Nella notte tra il 22 ed il 23 febbraio?”.
“Sì”.
“Non è stato inserito per tutta la notte. L’ultima volta è stato alle
23 e 12 del 21 febbraio. Successivamente è stato inserito e
disinserito più volte, nei giorni successivi al delitto, ma credo che sia
stato fatto da voi”.
“È possibile comunque avere una stampata degli orari?”.
“Certo, basta che mi colleghi ad una stampante o se vuole glieli
posso mandare per e-mail in ufficio”.
“È lo stesso, poi vediamo, anche se è una precauzione inutile,
perché ogni volta che andavamo via apponevamo i sigilli”.
“Sì, ma poi non è un granché, sono… tre volte ed è sempre la
stessa, quella del nipote, cioè quella che usavate normalmente voi”.
“Allora, siamo sicuri: la notte del delitto l’allarme era staccato?”.
“Posso metterglielo per iscritto. Non è stato inserito”.
Quindi la rosa dei possibili sospettati non aveva perso un petalo. O
persona sprovvista di chiavi o persona provvista di chiavi che però
non aveva usato, perlomeno quella dell’allarme, perché… La
vecchietta s’era addormentata dimenticandosi che non era inserito!
Merda! E chi aveva la quinta chiave? E cos’era andato a fare la notte
precedente in quella casa? Gli venne improvviso il desiderio di
cambiare lavoro, che ne so aprire un negozio di frutta e verdura o
una gelateria, fare l’imbianchino, il garzone da un ferramenta!
Qualsiasi cosa che comportasse un utilizzo naturale del cervello, ma
non quella tritata di maroni che lo avviliva e lo faceva sentire scemo,
più scemo dell’assassino certamente.
Capitolo undici: dal quale si può evincere che certe
volte le cose vanno come devono andare e non si
può fare niente per contrastare il caso
C’era stata una medicazione nel rapporto tra Ardelia e Bartolomeo,
sulla ferita era stato spalmato un linimento a base di pazienza e
moderato ottimismo, ma sotto alla garza il ricordo di quella sera
bruciava ancora. Chi stava male era lei, perché lui non aveva subito
nessuna offesa dall’interruzione della cena, anzi, dopo qualche breve
riflessione, aveva deciso che il Cappon Magro non era il massimo
delle sue aspirazioni gastriche.
Ardelia s’era presa due giorni di permesso ed era andata a Genova
dalla madre, che alternava periodi di relativa presenza a
peggioramenti drastici che facevano temere il peggio.
Erano le tre di pomeriggio, faceva un caldo di libeccio che si
sarebbe mangiato la poca neve caduta durante l’inverno. Bartolomeo
era stanco e triste e decise che per quel giorno non ne aveva più
voglia, anche se era presto, anche se la defezione avrebbe
rappresentato un gesto poco sabaudo. Non è che il sole fosse del
tutto assente, un po’ c’era, come un pulviscolo pallido dietro alla
nebbia che saliva dal mare. Quella mattina s’era anche sciroppato un
viaggio a Savona dal questore, il quale non era per niente contento
di come stavano andando le cose. Gli aveva ripetutamente proposto
di affiancargli la mobile, il che avrebbe significato avere Germanà tra
i piedi e la sola idea l’aveva completamente demoralizzato. Non
aveva potuto obiettare niente, il questore gli aveva offerto tre giorni:
se in tre giorni non fosse riuscito a scoprire il colpevole, sarebbe
arrivato in suo soccorso Vitaliano Germanà con tutta la sua
arroganza e il suo machismo. Una prospettiva terrificante. Con
questo peso sul cuore, aveva detto ai suoi uomini di non sentirsi in
forma e si era incamminato verso la sua vetturetta.
All’ultima fermata dell’autobus in direzione Albenga, tra le facce
delle poche persone in attesa, c’era il viso indimenticabile di Svitlana.
Era lì, con il suo solito cappottino, i capelli raccolti in uno chignon
sulla nuca e le mani strette intorno al manico della borsetta.
Bartolomeo ebbe un tuffo al cuore, scalò di marcia, mise la freccia
ed accostò.
“Va ad Albenga?”.
“Oh, buongiorno dottore commissario; no, vado a Ceriale, da mia
amica Roksolana. tanto tempo che non vedo”.
“Posso darle un passaggio?”.
“Ma non volio disturbare. Lei magari ha fretta, per lavoro…”.
“No, fossi in servizio non potrei nemmeno darle un passaggio. Me
ne sto andando a casa: sono stanco e ho un filo di mal di testa”.
“Mi dispiace…”.
“Coraggio, salga, su!”.
Si sedette e subito agganciò la cintura di sicurezza. Sorrise, non
sapendo cosa dire. Tra loro due era difficile cominciare con un ‘come
va’, perché bene per uno avrebbe potuto significare la rovina per
l’altra: erano legati dal sospetto, dalla diffidenza reciproca, da una
brutta storia, che però li aveva fatti incontrare.
“Ha fretta?”.
“No, certo che no. Se aspettavo il pulman, partivo più dopo sicuro.
Perché mi chiede questo?”.
“Perché sto per fare una cosa che non ho mai fatto in vita mia e
che non avrei mai creduto di fare, una cosa che fa a pugni con tutte
le mie convinzioni e con i miei doveri professionali”.
Lei tacque trattenendo il respiro.
“Non ho più voglia di andare a casa a prendere l’aspirina contro il
mal di testa: le va di andare a pestare l’ultima neve, prima che si
sciolga del tutto?”.
Lei annuì senza parlare e guardò fuori del finestrino rossa di
vergogna, lui non disse più niente, con il cuore in tumulto per il
proprio coraggio o momentaneo ottenebramento della ragione.
Bartolomeo ci cacciò una terza che fece fare un sussulto ai pistoni,
poco abituati a richieste così perentorie, e si mise a fissare la strada
davanti a lui, guidando ben oltre i limiti consentiti: aveva fretta di
lasciarsi Alassio alle spalle e con Alassio il commissariato, l’indagine,
la rabbia e la stanchezza. Il mal di testa, quando inforcò la via verso
Pieve di Teco, gli era quasi passato. Alle quattro e un quarto erano
fermi, appoggiati al cofano della macchina, in contemplazione del
Mongioje che si stagliava contro un cielo limpidissimo, perché lì il
libeccio con le sue nuvole salmastre non arrivava di sicuro. Davanti a
loro si snodava la strada tutta curve e baratri che portava a Upega,
attraverso una gola che Bartolomeo avrebbe voluto farle vedere
subito, come se fosse stato il salotto buono di casa, ma aveva
dovuto cedere davanti alla richiesta di fermarsi qualche istante a
guardare quella montagna. Così erano scesi, lei aveva freddo nel suo
cappottino alla buona e lui s’era subito tolto la giacca a vento da
boscaiolo e gliel’aveva messa sulle spalle. Lei lo aveva guardato
grata e aveva sorriso. Forse era l’aria fredda, ma i suoi occhi erano
pieni di lacrime… Sì sì, doveva essere l’aria fredda, non c’era proprio
nessun motivo di piangere. Lui pur non avendo voglia di piangere, si
sentiva qualcosa di urgente, d’incomprensibile ed ingombrante che
gli occupava tutto, la persona ed i pensieri.
“Al mio paese non ci sono montagne così, un po’ verso Romania,
verso i Carpazi, ma io non sono mai stata là. Però assomilia l’odore
del’aria, il profumo del vento che passa nei boschi, no? Posso
toccare la neve con le mani?”.
“Certo che può”, le disse con la stessa dolcezza che avrebbe usato
per una bambina. Lei tenendosi stretta la giacca con una mano, fece
qualche passo, superò il cumulo di neve nerastra e pieno di ghiaia
che era stata ammassata dallo spazzaneve e s’inoltrò verso la riva
erta e buia che scendeva verso il Negrone, prima che con l’affluente
Tanarello diventassero Tanaro. Affondò i piedi perché la temperatura
era abbastanza alta e non sarebbe gelato prima del crepuscolo. Si
accucciò e strinse un pugno di neve granellosa, la neve di primavera
che scioglie e ghiaccia tante volte, ed ogni sera ne manca un po’.
Lasciò il bavero del giaccone e se la passò nell’altra mano, intanto
che si tirava su.
“Com’è bela la neve”, e una lacrima, per l’aria fredda, le scivolò
sulla pelle arrossata. Bartolomeo si piantò le unghie nel palmo e si
morse l’interno della guancia, inspirò profondamente e aspettò di
avere il pieno controllo di sé prima di parlare.
“Non ha freddo, non vuole tornare in macchina?”.
“Fa fresco, sì, ma mi piace, era tanto che non sentivo l’aria così,
pulita, sa? Com’è grande questa montagna, con tutta questa pietra
che va in alto! Sembra uno spirito che dorme… Dico cose stupide, mi
scusi, dottore commissario… È che qui è tutto diverso. In poca
strada, dal mare a qui: è un altro mondo!”.
“E quale le piace di più?”.
“Oh questo, questo! Non solo perché c’è neve e inverno; è inverno
anche adesso che è primavera e intorno al’acqua c’è il ghiaccio. Non
solo perché queste cose sono come al mio paese, che per me è il
paese più belo del mondo, ma perché qui sembra che non c’è dolore,
che si può vivere senza avere paura”.
E a lui venne da dire che anche lì, sotto quel cielo di vetro blu,
c’erano stati il dolore e la paura durante la guerra, e gente era morta
ammazzata, brutte storie di tedeschi, imboscate e partigiani, storie
con le quali era venuto grande, ma non glielo disse, le lasciò credere
che quello fosse un posto buono per le fiabe, dove la musica della
Sheherazade di Rimsky-Korsakov si sarebbe intonata ai faggi ancora
nudi e alle forre piene di neve e di magia.
“Saliamo in macchina, voglio farle vedere ancora una cosa”.
E rimasero in silenzio fino a quando lui non accostò e non
posteggiò sotto ad una pensilina costruita per proteggere la strada
dalle valanghe e dai massi. Davanti a loro si apriva uno spettacolo
incomparabile: il sole era tramontato dietro al Pertegà, era già
espatriato in Francia e di lui restava la polvere d’oro che volteggiava
sul precipizio azzurro. Laggiù in fondo, ma proprio in fondo, il
torrente s’inabissava e percorreva oscuri passaggi pieni di tonfi e
gorgoglii, si stendeva in pozze limpide e buie prima di riapparire un
poco più a valle, sbucando fuori da una specie di fontana in fondo
alla parete opposta alla loro. Verso il cielo s’alzavano due muraglie
perpendicolari e sopra gradini di roccia poco più larghi di un palmo,
dove il vento aveva portato un po’ di terra, crescevano incredibili
larici.
Lei scese, senza giacca, rabbrividendo nel suo poco cappotto,
aveva voluto che Bartolomeo si coprisse, e si sporse a guardare
l’abisso, poi si ritrasse perché sentì una specie di formicolio dietro
alle ginocchia, come se le gambe fossero state sul punto di non
reggere. Si voltò verso di lui, sorridendo con gli occhi dello stesso
colore del cielo. Adesso non c’era più soltanto una lacrima, adesso
piangeva.
“È il freddo, non piango, è il freddo. Anche da bambina, il vento
neli occhi mi fa piangere”.
Bartolomeo fece qualche passo, allungò la mano per tirarla in qua
dal precipizio, ma non la lasciò, la tirò ancora e l’abbracciò e si sentì
ubriaco quando si accorse che anche lei stringeva. Arrivò una folata
di vento gelido che sembrava emergere dalle profondità del fiume
sommerso, e si strinsero ancora di più, come due naufraghi. Poi si
cercarono gli occhi, sperando che l’altro avesse una risposta per
quello che stava succedendo, ma la risposta non c’era, allora
cercarono un’assoluzione, ma non c’era nemmeno quella. E allora si
baciarono famelici, con un bisogno rimandato che era diventato così
forte da spegnere le buone intenzioni ed i propositi di essere giusti.
E le mani correvano, con le braccia si serravano l’uno all’altra per
aderire di più, e gli stracci, maglie e maglioni non bastavano a
nascondersi il desiderio reciproco. Non c’era un’anima e rimasero lì,
a mangiarsi le bocche come due adolescenti scappati da scuola,
sospirando e respirandosi, dimenticandosi il freddo intorno. Il silenzio
totale della montagna portò un’eco di motore ancora lontano e
d’intesa, senza parlare, si sciolsero e s’infilarono in auto, come due
fuggiaschi. Bartolomeo mise in moto e riprese la guida, non aveva
voglia che qualcuno potesse notare quella vettura sul ciglio con due
persone dentro. Partì in direzione di Upega. Aveva già in mente di
attraversare il magnifico bosco di conifere che ricopriva la montagna
tra Upega e Piaggia, l’altra frazione del minuscolo comune dell’Alta
val Tanaro, ma di sicuro non aveva previsto di farlo con quello stato
d’animo. Davvero non l’aveva previsto? Davvero non aveva pensato
che sarebbe potuto succedere quello che era successo? Non lo aveva
pensato o non lo aveva sperato? Aveva inventato quella gita senza
pianificazione, era stato il caso che lo aveva fatto passare davanti
alla fermata dell’autobus proprio mentre Svieta era in attesa, ma il
caso era finito lì. Nel momento in cui aveva deciso di portarla a
vedere l’ultima neve prima del disgelo, in un rigoglio di acqua e di
minuscole gemme ancora impellicciate, sapeva che cosa voleva fare
e avrebbe cercato di farlo, a meno che non fosse stata lei ad
opporsi. Non si stava comportando bene, ne era perfettamente
consapevole e lei non aveva nessuna colpa, perché era in una
condizione di evidente svantaggio strategico: sospettata di omicidio,
straniera, povera, senza punti di riferimento, perlomeno vicini.
Nessuno dei due aveva la forza di parlare e quando arrivarono
davanti ad una minuscola chiesa di pietra, la Madonna della Neve, lui
rallentò per prendersi una vista di quell’anfiteatro ancora bianco,
sebbene qua e là affiorassero rive d’erba secca e bruna. Oltre il
crinale del Pertegà, che lassù in cima veniva chiamato ‘Selle vecchie’,
c’era l’invisibile massiccio del Marguareis, luogo arcano di solitudine
aspra e d’insondabili caverne. Lei ruppe il silenzio e gli chiese di
fermarsi.
“Mi scusi, posso scendere?”, e quel ‘lei’ suonò doloroso.
“Certo che può scendere”, rispose Bartolomeo, rispettando lo
sforzo con cui Svitlana stava malamente cercando di annullare
l’intimità di poco prima.
S’incamminò nella neve pesticciata dai gitanti domenicali e si
fermò proprio davanti alla minuscola costruzione. Il vento le faceva
volare i capelli scuri e lei si stringeva le braccia intorno al corpo,
aveva dimenticato il cappottino in auto, ma lui non la raggiunse,
perché aveva intuito il suo bisogno di breve solitudine. Quanto era
bella quella figura sottile che si stagliava nel riflesso dorato del sole
scomparso da poco, ma impresso ancora nel bianco della neve che
stava languendo… Tra lei e la montagna, in quella gola da valanghe,
era posata la piccola chiesa, una stanzetta di pietre, con la sua
minuscola croce, che impetrava clemenza ai cupi spiriti dell’inverno.
Svitlana se ne stette un poco in meditazione, respirando quel
vento freddo e chiaro, con gli occhi voraci riempiendo la memoria di
tanta bellezza.
Tornò da Bartolomeo che l’aveva aspettata in piedi, appoggiato
alla portiera aperta, con un sorriso triste. C’era più malinconia che
gioia in quella storia che non sarebbe proprio dovuta cominciare, ma
che già era cominciata, loro malgrado, in una fredda mattina del 23
febbraio.
“Volevo che la fotografia di questo luogo mi resta per sempre,
anche quando sarò… non so dove sarò, ma queste montagne, la
neve, il colore del cielo, nessuno potrà mai più portarli via a me.
Grazie, commissario”.
“Mi chiamo Bartolomeo”.
“Bartolo… meo. Nome lungo. Cognome lo so, perché sembra del
mio paese: Rebaudenko!”.
Lui rise, non per schernirla, ma di tenerezza: “Non Rebaudenko:
Rebaudengo. Non ucraino, piemontese!”.
Si sedettero in macchina un po’ più rilassati, lui avviò il motore e
subito la ventilazione mandò un soffiò d’aria calda.
“Quanto è tutto belo, qui, sa dottore comm…”.
“Allora, io sono sì dottore, nel senso che ho una laurea in
giurisprudenza, e anche commissario, perché dirigo un
commissariato, ma in italiano non si dicono insieme. O uno o l’altro.
Anche perché mi fa venire in mente i film di spie di quando c’era
ancora il muro, la cortina di ferro, quando i comunisti, che erano
sempre cattivi e anche un po’ tonti, nelle nostre traduzioni dicevano:
compagno commissario”.
“Perché comunisti tonti e cattivi?”, chiese lei con un filino di
risentimento nella voce.
“E perché, invece nei vostri film gli inglesi e gli americani come li
dipingevate?”.
“Tonti e cattivi”, e si mise a ridere.
Stavano meglio, non volevano pensare ai guai e alle lacrime
future, volevano prendersi, di quelle ore di fuga, il sapore dolce.
Mentre la macchinetta si arrampicava tra i tornanti nella foresta,
Svieta si guardava intorno e spesso le uscivano delle esclamazioni di
meraviglia in ostrogoto, ma Bartolomeo non chiedeva che gliele
spiegasse con parole italiane, perché quella era la lingua di pancia-
cuore, dell’infanzia e le emozioni patiscono quando si prova a
tradurle.
A Pieve di Teco comprarono il pane, un pezzo di toma d’alpe, un
salame e delle arance: quella sarebbe stata la loro cena, il vino a
casa c’era già e di quello buono.
Fu una cosa strana far l’amore con una donna che non era Ardelia,
gli affiorarono nella memoria sensazioni giovanili, sfumature
trasgressive che aveva rimosso da tanto tempo e che scopriva, in
quei momenti, quanto gli fossero mancate. Svieta era più magra di
Ardelia, non aveva quelle convessità arrendevoli che sembravano
fatte apposta per accogliere il suo corpo, si sentivano invece i
muscoli sotto la pelle ed era una sensazione eccitante, perché gli
trasmetteva la forza del suo desiderio, il modo in cui lo guidava
dentro di lei, assorta, con gli occhi socchiusi, a godersi ogni
movimento, ogni respiro di lui. Ogni tanto li apriva, quei suoi occhi
obliqui da gatta siberiana e lui provava un capogiro, un momento di
totale ubriachezza, come quello provato in cima al precipizio, nel
passo delle Fascette, tra Viozene e Upega. Durò tanto l’amore,
perché lei aveva arte nel rallentare, quasi nel distrarsi, per spegnere
l’urgenza e poi, all’improvviso, si risvegliava e negli occhi aveva un
barbaglio feroce, che lo faceva sentire desiderato come forse mai gli
era accaduto.
I freddi numeri azzurri sulla sveglia cambiavano, la notte avanzava
e solo quando il solito campanile ignoto suonò le due, la tempesta si
placò.
Era arrivato il momento delle parole, delle giustificazioni, dei buoni
propositi, delle strazianti rinunce, dei sensi di colpa, in pratica le
scemenze che gli esseri umani tirano fuori dal loro cilindro di
illusionisti, quando devono confrontarsi con un’azione che la loro
piccola, buona coscienza dovrebbe scrivere sulla pagina di quelle
cattive. Bartolomeo, sazio e stanco guardava il soffitto, Svieta si era
seduta, con la schiena appoggiata alla testiera del letto e gli
accarezzava i capelli sudati. Ancora non s’erano scambiati una
parola, non era cominciato il sacro rito dei rimorsi. All’improvviso lei
si alzò e, nuda come un verme, con la disinvoltura di una finlandese
in sauna, sparì in direzione della cucina.
Tornò con i loro due bicchieri di vino riempiti a metà e due
sigarette accese. Bartolomeo la guardò allibito.
“Come facevi a sapere che fumo, va bin fumo pochissimo, quasi
niente, ma una ogni tanto me l’accendo”.
“Non lo sapevo. Ho pensato: se fuma è un piccolo piacere insieme
a me, se non fuma butto in gabinetto, semplice, no?”.
Semplice. Non doveva per forza aver dedotto il suo raro vizio
attraverso contorsioni mentali alla Poirot. Aveva agito seguendo una
logica molto più semplice ed efficace.
“Ti ricordi oggi quando ho detto che nei film di quand’ero ragazzo,
i russi, che per noi voleva dire comunisti facevano sempre la figura
dei cattivi e anche tonti?”.
“Certo che mi ricordo: come Inglesi e Americani nei nostri. E poi?”.
“In Italia, io parlo dell’Italia perché nel resto dell’Europa non lo so,
l’Unione Sovietica era vista in due modi opposti. Le persone che
preferivano il sistema americano, quelli che non si riconoscevano
nella vostra ideologia, rifiutavano completamente tutto quello che
aveva a che fare con voi, dalla politica interna a quella estera, la
mancanza di libertà intellettuale, l’impossibilità di gestire la propria
esistenza secondo un criterio di realizzazione personale ed
individuale; gli altri, cioè la sinistra accettava supinamente tutto,
evitando con abili manovre verbali di riconoscere anche gli errori più
evidenti. Il risultato qual era? Che noi non si sapeva quale fosse
davvero la vostra situazione. per gli uni eravate demoni che
mangiavano i bambini, per gli altri il miglior governo del mondo. Alla
fine nessuno sapeva chi foste veramente e come viveste nella realtà,
al di là di tutta la retorica di destra e di sinistra. C’è qualcosa che non
hai capito del mio discorso?”.
“No, tranquilo, ho capito tutto. Vai avanti”, finalmente aveva
smesso con il ‘lei’.
“Tu hai studiato, dirigevi un laboratorio in una zavot chimica,
giusto?”, e lei annuì, “Tu ci credevi nel partito?”.
“All’inizio sì. Tutti, ognuno a modo suo, chi più chi meno,
credevamo, o melio, credere non è parola giusta, forse eravamo
abituati fin da asilo e scuola, a pensare che da noi andava bene così,
che il male, il pericolo, l’ingiustizia era fuori dei nostri confini. Poi
qualcosa che non andava bene la vedevo, sai? Per esempio, perché
noi non si poteva partire con valigia e, che ne so, andare a visitare
Parigi, o Venezia, o Londra? Perché proibito? E se per lavoro uscivi,
tu sapevi che dovevi fare tutto per bene, perché mentre eri fuori,
comunque marito e filia, o genitori, frateli e amici, a casa, in Unione
Sovietica e non vedevi l’ora di tornare, per sapere se era andato
tutto bene. Poi non è che non c’era ingiustizie. C’era ingiustizie
anche ai tempi di soviet, c’era personaggi importanti che aveva cose
bele e magari ingegnere o dottore di medicina stipendio piccolo.
Però, a parte questo, si stava abbastanza bene, io era giovane e
tanta volia di dimostrare mia gratitudine al mio paese che mi ha fatto
studiare, prendere laurea difficile senza un soldo dei miei genitori,
tutto lo stato, però tu devi prendere voti altissimi”.
“Poi però mi hai detto che ad un certo punto è cambiato tutto? Me
lo vuoi raccontare?”.
“Però è lungo, viene domani mattina… Sicuro che vuoi sapere?”.
“Sì, voglio sapere”.
“Ti ho parlato di Andrej, mio fratello Andrej?”.
“Sì, mi hai detto che era nell’esercito”.
“Sì, ufficiale carrista nell’Armata Rossa! Era belissimo con la sua
divisa e tutti i gradi sul petto!”, e gli occhi le brillarono di orgoglio e
nostalgia.
“E poi?”.
“E poi amore di sua patria, ma anche stipendio non tanto alto, così
accettato di andare a fare liqvidatore nel lulio del 1986”.
“Liquidatore?”.
“Likvidator. Sì a pulire la ‘Zona’”.
“La ‘Zona’?”.
“Sì, ˇCernobyl’, la centrale!”.
Capitolo dodici: nel quale, tra altri eventi,si
racconta la storia di Andrej Mychailovic Lysenko
“Era maggiore, nell’esercito, quelo che voi conoscete come Armata
Rossa, che aveva fermato Hitler, che era una macchina perfetta,
efficiente, con la sua Marina, i suoi sommergibili, la sua aviazione, le
sue armi che facevano paura al’America. Andrej era molto orgolioso
del suo lavoro, si sentiva importante, con l’uniforme e il colbacco e i
suoi stivali sempre lucidi, come brilavano i suoi occhi! All’inizio,
quando aveva trovato molie, Tatiana, io era un po’ gelosa, fino a
quel giorno mio fratelo solo mio, dopo quel giorno solo suo. Poi la
mia ragione ha capito, lui aveva la sua vita io la mia, lui non aveva
mica brontolato quando io ho sposato Evgenij, no?
Stato anche in Afghanistan e già di lì tornato diverso, con dei dubi
che prima non aveva, dubi su dove sta la cosa giusta, su quale il
dovere di soldato di servire il suo paese e quale diritto di uomo di
pensare con la sua testa: aveva scoperto di avere una testa e quela
testa pensava cose diverse di quele che doveva pensare un buon
ufficiale di soviet: mi ho spiegato bene?”.
Bartolomeo assentì parecchie volte con aria assorta e lei continuò.
“Al’inizio noi non sapeva niente di ˇCernobyl’ e di Pripiat’”.
“Pripiat’?”.
“Sbali a dire la ‘t’, ma non importa. Pripiat’, con la ‘t’ dolce, era una
città bela dove c’era tutto, scuole, dottori, piscina, biblioteca,
cinema, giochi, ristoranti, bele case, tutto per gente che lavorava in
centrale. Il fiume Pripiat’ scorre per lungo pezo in Belarus, voi dite
Bielorussia. All’inizio nessuno sapeva cosa era veramente successo in
centrale, parlavano di incidente, ma anche di sabotaggio, si dice
così?”, e senza aspettare, riprese: “Le informazioni arrivavano piene
di confusione, arrivavano pulman con gente di ˇCernobyl’ che aveva
perduto tutto, casa, lavoro, scuola e poi perso anche salute ma non
lo non sapevano ancora e che credeva, qualche giorno, poi
tornavano... I bambini, che poi dopo settimane o un mese li vedevi
bianchi e senza più capeli, mancava le medicine per la tiroide, lo
iodio, perché se tu da ala tiroide iodio buono, non prende più quelo
cattivo dal’ambiente, l’isotopo radioattivo e neanche li altri
radioisotopi, ma non ce n’era, in ospedali non sapevano cosa fare e
la gente, i vecchi, non volevano lasciare la chata, con li animali,
l’orto, con barbabietole, e cavoli e patate… Paesi interi messi sotto
terra quando poi si è capito cosa era successo davvero, gente che
piangeva, che voleva portare via più cose e non capiva che era tutto
contaminato, c’erano iodio, uranio, stronzio, cesio, anche plutonio,
tutto era pieno. La radioattività non fa una luce che occhio può
vedere, e la gente non capiva i Roentgen, guardava i dosimetri e
voleva portare via lo stesso, anche se andava tutto in fondo scala. I
bambini giocavano nei campi, nella sabbia dei cortili del’asilo,
sul’erba, tutto pieno di radiazioni. Il fiume Pripiat’ dava acqua per
raffreddare il reattore, poi quando tutto è scoppiato, c’era grafite
dappertutto, pezzi di barre fuse, polveri volate in acqua del fiume,
ma anche scaricato acqua, e fiume radioattivo, non si poteva usare
per lavare e tutto doveva essere lavato, ma cisterne venivano da
lontano, con acqua pulita. La gente soffriva di vedere bele mele e
non poter mangiare e latte di mucche, piangevano le mucche e
nessuno poteva mungere.
Andrej conosceva la fisica, anch’io per mio lavoro, ma io lasciato
andare perché non pensato guaio così spaventoso, più piccolo, ecco,
poi belo stipendio, più di mile rubli e lui in arrivo secondo bambino.
Andato come dosimetrista, ma poi là fatto di tutto, usato pala e
piccone, guidato camion carico di terra da portar via, andava,
misurava e dava ordine di buttare tutto giù e coprire con le ruspe.
Telefonava e diceva ‘tutto bene’, sempre ‘tutto bene’, ma io non era
più tanto tranquila. Mia cognata di più perché non sapeva nemmeno
cosa è un atomo. Ma io so e io so cos’è reazione nucleare, so che poi
tutta la materia perde sua stabilità, tu capisci, sì? E anche corpo
umano e fisiologia cambia, prima ghiandole poi tutto il resto.
Dipende quanto ne prendi. Morte di radiazioni, come i pompieri
andati a spegnere quelo che credeva incendio, vestiti normale:
quattordici giorni. Poi dipende, qualche mese, molti mesi, un anno,
due anni, anche cinque o sei, sempre cancro. E bambini che nascono
sbaliati, anche dopo molto tempo, con male formazioni, ma tanti sai?
Insomma, dopo due mesi Andrej cominciato febbre e sangue dal
naso. Ospedale a Kiev, ma non basta, poi Mosca, reparto apposta
per i liqvidatori e gente di centrale, e noi non potevamo stare con
lui, solo e sempre dietro un vetro, e lui sapeva, a questo punto
sapeva che era come già morto, e anche io. Sua molie Tatiana voleva
stare con lui, con pancia già grossa e io ho litigato con lei, tirato
anche due schiaffi perché andava via, doveva andare a casa, lontano
da Andrej e lei urlava e diceva che ero gelosa, che dicevo cose
brutte e le sapevo dire perché avevo studiato la chimica e alora
sapevo spaventare con parole difficili. Mia Irina era piccolissima,
tenuto lontana di me con Evghenij a casa, tutto il tempo che io
guardato mio fratelo morire.
Ha vissuto ancora tre mesi, suo filio nato sano, anche per miei
schiaffi, perché lei stata via, ma di questo filio sano lui mai saputo,
perché cancro gli ha mangiato la gola, la faccia e le orecchie, non
sentiva più.
Alora ho capito che qualcosa non andava bene nel mio paese.
Quando poi in Italia, cercato in Internet, in un café, io non ho
computer e nemmeno Tiotia Ilde aveva, e ho saputo che poteva
essere evitato, che stato esperimento di bassa potenza voluto da
Mosca, ma non imaginato che proprio con bassa potenza acqua di
raffreddamento si è scaldata troppo, poi ritardo di discesa delle barre
di grafite e reazione diventata troppo veloce, poi scoppiato tutto, il
tetto saltato per aria, tutto fuso. Di qua ho imparato queste cose, di
là nessuno diceva che sbalio di uomini, sbalio di governanti e silenzio
ancora più colpevole, perché malattie e morti per colpa di silenzio e
di niente rimedio, niente organizzazione, e poi rifiuto di aiuti
occidentali, per vergogna, per paura di spie, come per Kursk, gioielo
della Flotta del Nord.
Sono dolori che non vanno mai più a posto, tu ti senti tradito dal
tuo paese, tu che hai creduto, studiato, lavorato per il bene tuo ma
anche di tutti li altri, di tutta Unione Sovietica. Poi capisci che non
esiste più, che per te, per i tuoi dolori non sa, non può o non vuole
fare niente, il ‘Grande Impero’, che tu solo formichina che finché è
servita, va bene, poi basta, poi sei solo”.
E nel silenzio delle tre del mattino, la sua unica lacrima scese lenta
sul viso stanco. Bartolomeo aveva voglia di abbracciarla e lo fece. Si
scolarono l’ultima goccia di vino, fecero ancora una volta l’amore,
questa volta lento e tenero, più breve e si addormentarono. Il
commissario sabaudo però, in un ultimo guizzo di coscienza, riuscì a
puntare la sveglia, che dopo poco più di due ore suonò con
l’efficienza di un trapano da dentista in una tempia.
Svieta si coprì la testa con il cuscino e non si mosse più, lui con
coraggio risorgimentale si diresse in bagno e dopo una minzione
liberatoria, si cacciò sotto l’acqua della doccia, senza aspettare che si
scaldasse. Certe cose, a quasi cinquant’anni, sono molto rischiose,
ma farle, se si sopravvive, da un gran senso di potenza e di
giovinezza.
Quando l’uso del bagno per i lavacri toccò a Svitlana, Bartolomeo
dopo averle posato un bacio leggero sulla nuca, si diresse in cucina a
preparare caffettiera e generi di sostentamento quali: fette
biscottate, burro, marmellata di Ernestina, un pezzo di raschera,
pane un po’ stantio ma pazienza, frutta e succo d’arancia. Proprio
nel momento in cui, con lestezza da scoiattolo aveva sistemato tutto
questo ben di dio sulla tavola, gli cascò l’occhio di sbirro sulla
borsetta con i manici consunti dalla quale la signora Lysenko non si
separava mai. Fece una puntatina dietro alla porta del bagno e sentì
che l’acqua della doccia scorreva abbondante, quindi, sempre con
passo felpato in perfetto stile ‘gatto Silvestro’ si allontanò e si diresse
verso la famosa borsetta. Per quanto possa essere innamorato,
sedotto, ottenebrato dal fascino femminile – lo stesso discorso ha
valore anche con i generi capovolti, cioè quando il soggetto del
discorso è donna – in genere uno sbirro resta sempre sbirro,
pertanto il buon Bartolomeo non seppe resistere alla tentazione di
dare una sbirciatina proprio in quella piccola borsa, anche perché
nonostante gli amorosi abbandoni, un dubbio aveva continuato a
fargli un solletico da acqua gassata proprio nel profondo della testa.
Eccola lì la quinta chiave, apparentemente una semplice barretta
di plastica nera, ma inconfondibile, tanto più che se ne stava in
compagnia di quella del portone e di quella in acciaio inossidabile un
po’ avveniristica della porta blindata dell’appartamento, che
Rebaudengo avrebbe riconosciuto tra mille. Le aveva sistemate in
una busta laterale protetta da una cerniera sgangherata che non
costituiva certo un ottimo sistema di dissuasione per i troppo curiosi.
Perché tanta ingenuità da parte di una donna che arrivava dalla terra
dei più temuti servizi segreti della storia? Gli venne quasi il dubbio
che avesse voluto essere scoperta. Dunque era stata lei che era
andata a fare quella visita notturna nella casa della vecchietta
assassinata! Boia faus, e adesso? Il flusso d’acqua nel bagno si
arrestò. Tempo cinque minuti e Svitlana sarebbe apparsa sulla soglia
con il suo malinconico sorriso, forse un po’ meno malinconico, e a lui
sarebbe spettato l’amaro compito di denunciarla e portarsela in
commissariato, per verbalizzare un interrogatorio vero e proprio. Si
sentiva da schifo, perché gli sarebbe piaciuto molto di più se non
avesse trovato quello che aveva trovato e che aveva avuto il
presentimento di trovare. Lei doveva spiegare e senza perdersi in
chiacchiere, cos’era andata a fare nella casa, infrangendo la legge e
con un intento evidentemente illecito. S’era ben guardata, al
momento in cui le era stato richiesto, di riconsegnare quella quinta
chiave, di cui era al corrente soltanto il tecnico e certamente la
vecchia Ilde, la quale non aveva potuto dirlo a nessuno. Decise
all’improvviso di rimandare a dopo, perché sarebbe stato poco furbo
rovinarsi anche la colazione, tanto più che in vita sua non aveva mai
allestito una simile paranza da grand hotel.
Si stupiva, con il trascorrere dei minuti, di quanto gli venisse facile
chiacchierare del più e del meno, sapendo che, al momento di salire
in auto, le avrebbe detto la verità. Svitlana comunque era triste,
meno triste del suo trend abituale, ma non sprizzava di certo
allegria. Era stata una bella parentesi, ma era una faccenda che
faceva acqua da tutte le parti, lo sapevano benissimo entrambi. Non
era soltanto il senso di colpa verso la fidanzata quasi moglie a far
male, ma anche tutto il resto: lei sospettata di omicidio, sebbene
nessuna prova fosse emersa fino a quel momento ad indicarla
colpevole, lui il funzionario che stava svolgendo l’indagine. No, non
era stata una bella idea quella di finire a letto assieme, pertanto la
situazione andava corretta al più presto.
Fu Svitlana, mentre lui risciacquava tazze, bicchieri e piattini della
colazione britannica, che cercò d’introdurre il penoso argomento, ma
lui la guardò con uno sguardo così strano che dopo poche parole lei
s’inceppò. E il commissario, in quella tregua, trovò il coraggio di
partire.
“Cosa sei andata a fare a casa della signora Peluffo l’altra notte,
un po’ prima di mezzanotte?”.
“Tu ha trovato la chiave segreta in mia borsa?”.
“No, è la chiave che ha trovato me!”.
“Non è possibile, io teneva dentro piccola tasca con cerniera!”.
“Mentre venivo in cucina, ho inciampato nel tappeto, una reazione
a catena, il tappeto ha dato uno strattone, s’è rovesciata la seggiola
dove sopra c’era la tua borsa, la borsa è caduta ed è uscito tutto
fuori. Nel rimettere le cose a posto, ho trovato questa!”.
“Tu lo sai che non è vero, ma tu non puoi dire che hai frugato in
mia borsetta, perché la prova non conta più, giusto?”.
“Davvero, è volata fuori!”.
“Tu sei poliziotto sempre, vero?”.
“Sì, è un po’ come essere preti”.
“Va bene, è giusto lo stesso, in fondo sei bravo uomo e io so che
con morte di Tiotia Ilde non c’entra, non è grave quelo che ho fatto,
lasciamo perdere dov’era la chiave. Io ti voleva chiedere permesso,
poi pensato che tu mi dici che non era possibile, piuttosto mi dai i
soldi che mi servono e questo non mi piace, così io ho deciso di fare
di nascosto, usando la chiave segreta”.
“Un pezzo per volta. Perché te la sei tenuta e non hai detto
niente?”.
“Per emergenza, come questa”.
“E qual era l’emergenza?”.
“Svetlana Vladimirovna…”.
“Svetlana chi?”.
“Kitka, gatta Svetlana Vladimirovna, suo padre di pedigree si
chiama Vladimir, io lo so, mi aveva detto Tiotia Ilde... alora, kitka
aveva finito pappe buone e non mangiava quele che potevo
comprare io con miei pochi soldi, ma in casa di Albenga c’erano
quele buone, per gatti ricchi, e ce n’era tante. Così ho deciso di fare
tutto di nascosto, anche se aveva dubio che signora di sotto poteva
sentire, ma ho sperato che no. Quando ho visto tu e ispettora filia di
vicina di sotto ho capito che aveva sentito, ma ormai era fatta. Vi ho
visto entrare, io ero dietro di un arco, nel buio e fatto in tempo a
scappare”.
“E come sei arrivata ad Alassio, con il pullman? Ci sono ancora a
quell’ora?”, le chiese con ironia.
“Tu puoi pensare quelo che vuoi: io era sola, punto e basta”.
“Va bene, eri sola. Lo sai, balenga, che io ti devo denunciare e non
l’ho fatto fino adesso, ma ora proprio non posso non farlo?”.
“Balenga?”, domandò lei un po’ risentita, forse pensando che fosse
una parola volgare.
“È il mio dialetto: vuol dire sciocca, imprudente, che non ragiona
prima di fare le cose. Tu hai compiuto un atto ‘penalmente
perseguibile’ per una gatta, ma ti rendi conto, e in una situazione in
cui sei già abbastanza nei casini per altro? Ma ti rendi conto, boia
faus? Andiamo a casa tua e fammi vedere ’ste cazzo di pappe, che
poi le cerchiamo nell’inventario nostro, quello che abbiamo steso
dopo l’omicidio”.
Ciò che non era stato visto, imboscato là sotto, e nemmeno
annotato durante la prima perquisizione, erano una trentina di buste
e scatolette dai nomi sconosciuti, almeno per Bartolomeo, che non
aveva mai visto pubblicità di quei prodotti. Doveva trattarsi di
qualcosa di talmente sopraffino da non aver bisogno di essere
reclamizzato in tv o sui giornali, forse anche per il prezzo proibitivo.
Gli venne da pensare ai bambini che morivano di fame in varie parti
del mondo, ma quell’idea non gli bastò a condannare una vecchietta
che poteva permettersi di abituare il proprio gatto meglio di quelli
della regina Elisabetta: la vecchiaia, si sa, ammorbidisce qualche
spigolo e indurisce le pareti del cuore.
Conclusione: Svitlana Mychailivna Lysenko s’era beccata una bella
denuncia a piede libero con parecchie imputazioni, tra le quali
spiccava la violazione di sigilli a luogo posto sotto sequestro
giudiziario perché scena di un crimine. La legge non prevedeva tra le
attenuanti, l’appetito di una gatta troppo elegante per nutrirsi con
scatolette da supermercato. La mancanza di flagranza di reato la
salvava dall’arresto, ma ormai la sua bella fedina penale scintillante,
alla quale sembrava fosse molto affezionata, aveva bisogno di un bel
lavaggio la cui data non sarebbe stata tanto prossima.
E Rebaudengo quel giorno ed i pochi successivi, prima che il caso
fosse chiuso in una tiepida notte d’inizio aprile, stava male. Dopo
aver comunicato in procura, con tanto di ameno viaggio a Savona, la
scaltra performance di Svieta, per quel pomeriggio rimase chiuso
nello studio, occupato soprattutto a stare male. Oltre a quest’attività
poco produttiva, scribacchiava la sua firma su cumuli di papiri che
Ravera gli metteva sotto il naso. Il buon ispettore capo, avendo
capito molto più di quanto non ritenesse ragionevole comunicare,
evitava di proferire verbo, per non tendere corde già tese.
Bartolomeo sembrò due o tre volte sul punto di parlare, aveva preso
fiato, aveva guardato l’amico negli occhi e poi aveva ricominciato a
scribacchiare la sua firma. D’altronde, cos’avrebbe mai potuto dirgli?
‘Mi sono portato a letto una sospettata e non saprò mai se lei c’è
stata per convenienza o per desiderio, e lei non saprà mai se io ho
approfittato della mia posizione di potere o se l’ho fatto con il cuore.
In più io dovrei definire me stesso come persona sentimentalmente
e sessualmente appagata e invece scopro che non è proprio così,
perché se fosse stato proprio così, quei due fanali blu non sarebbero
riusciti a dirottarmi dalla giusta via. Vuol dire che io mi sto rifiutando
di osservare con onestà la mia situazione, e soprattutto non sto
agendo con onestà nei confronti di quella santa donna di Ardelia.
Adesso che è nei casini, che ha sua madre che ‘sbatte i coperchi’, io
mi prendo una cotta per una sconosciuta che potrebbe benissimo
avermi usato. E se non mi ha usato, è liberissima di pensare che lo
abbia fatto io.
Complimenti Rebaudengo: sei riuscito a mettere su un
bell’ambaradan!’.
Bartolomeo era della religione: non confessare mai! Soprattutto
per un motivo: se un rapporto sentimentale ha qualche flebile
possibilità di rianimazione dopo un deragliamento, una confessione è
come aspergere una ferita beante con una manciata di sale grosso.
Certo, uno si sgrava la coscienza ottenendo il risultato discutibile di
gravare il cuore dell’altro con una dolorosa certezza al posto di un
fastidioso rovello. Un tradimento è una perdita e, nella fortunata
ipotesi che non ci sia la complicanza della gelosia mediterranea, la
parte lesa abbisogna pur sempre dei suoi tempi per elaborare il
trauma che assomiglia ad un lutto. Il silenzio o la garbata
dimenticanza da parte del colpevole permettono che al vaso del
sospetto resti appesa la speranza: forse non è stato proprio un
tradimento, magari si è frainteso qualcosa, non bisogna
drammatizzare e, al limite, proprio al limite, ci si può buttare tutto
alle spalle. Ma se arriva il macigno della confessione, tutti questi
fragili passaggi s’inceppano e la speranza cade dal bordo del vaso di
Pandora. Se proprio uno deve confessare, bene la via migliore è un
piccolo ritorno dallo strizzacervelli: chi meglio di un analista, può
ascoltare, far comprendere al paziente che esistono dentro di lui le
risorse per tirarsi fuori dai guai e, soprattutto, non soffrire per la
confessione visto che, tra l’altro, è profumatamente pagato?
La decisione era presa: avrebbe telefonato all’analista e lasciato
campare in pace la sua povera fidanzata.
Capitolo tredici: nel quale tutto precipita
Trascorsero un po’ di giorni e Bartolomeo avrebbe saputo quanti
solo se avesse dato un’occhiata al calendario, cosa che non fece,
preso com’era dalla sensazione che il tempo fosse sospeso,
comunque qualcosina in più dei tre che gli aveva concesso il
questore, il quale peraltro non aveva ancora telefonato.
Ci fu anche il temuto incontro con Ardelia, il primo dopo il suo
ritiro genovese e la stramba serata con il Cappon Magro. Il terrore di
Rebaudengo stava racchiuso in un pensiero: avendo deciso di tacere,
gli sarebbero bastati tutti i suoi studi polizieschi e le sue conoscenze
malavitose, altra ottima scuola, per nascondere la propria colpa?
Doveva riuscirci, non c’erano altre possibilità. Ardelia era strana, ma
era davvero strana o era lui che la vedeva tale? Il suo sguardo
incerto, sofferente, la sua aria distratta avevano come unica ragione
l’aggravamento della madre, oppure stava percependo che qualcosa
era accaduto, qualcosa d’ingiusto? Attaccare a bombardarla con una
serie infame di: ‘Amore, a cosa pensi, ti vedo assente…’, non
rientrava nella filosofia di Bartolomeo, il quale aveva sempre
detestato questo approccio quando l’oggetto era stato lui, quindi,
non sarebbe mai caduto nella tentazione di propinarlo a qualcun
altro. Il motivo non era soltanto il fastidio che gli procurava l’idea,
ma anche il sospetto che, non essendo per lui un comportamento
naturale, potesse risvegliare nella sua compagna dei sospetti che
forse non aveva, presa com’era dai pensieri suoi. Sentiva anche che
lo sforzo di imbastire una cena come già aveva fatto, con la
coscienza ancora nivea, gli sarebbe stato impossibile perché sarebbe
mancato l’entusiasmo e la voglia. Che voglia aveva? Se lo domandò
guardando i fogli con i turni della settimana successiva che aveva
preparato Ravera, senza nemmeno soffermarsi ad ammirare la
precisione con cui aveva svolto il lavoro, sapendo quanto gli fossero
antipatici quegli incarichi. Di niente, non aveva voglia di niente:
avrebbe voluto schiacciare un magico pomello e trasferirsi in un
universo parallelo dove la gente fosse capace, lui compreso, di vivere
senza combinare casini. Era un’idea originale di paradiso, ma non era
all’aldilà che stava pensando, piuttosto ad una dimensione di
maturità e responsabilità che il genere umano, lui compreso, non
avrebbe mai raggiunto.
E venne la sera da trascorrere con la fidanzata. Mai una pasta con
rana pescatrice e cime d’asparago gli era sembrata tanto scipita,
inconsistente il profumo del vino, uggioso il colore del cielo. La
domenica successiva sarebbe cambiato l’orario, si sarebbe passati da
quello solare a quello legale, altra cosa che detestava. Quest’ora in
più di luce che faceva dichiarare trionfalmente ad inizio autunno
quanti milioni di euro di corrente elettrica erano stati risparmiati dal
Bel Paese, a lui era semplicemente odiosa. Bartolomeo amava
l’imbrunire, gli piaceva cenare con la luce accesa, non andava pazzo
per gli estenuanti tramonti estivi che non finiscono mai, non era un
sostenitore dell’ozio vespertino in pasto alle zanzare, lappando una
granita, con il mal di mare su un dondolo. Ma tant’è, visto che non
poteva decidere da solo e quand’anche lo avesse fatto non avrebbe
potuto vivere con un’ora di ritardo rispetto al resto del mondo, non
gli restava altra possibilità che quella di adeguarsi. Ci avrebbe
impiegato all’incirca una settimana, ma alla fin fine non sarebbe
stata una gran tragedia… Però anche quella piccola cosa, l’ora legale
imminente, l’aveva messo di cattivo umore.
Era la prima volta, da quando era cominciata la loro storia che non
sapeva di cosa chiacchierare e sembrava che nemmeno Ardelia
morisse dalla voglia di far conversazione. Al posto delle loro voci si
sentiva quella della tv con l’edizione serale del telegiornale.
“Vuoi un caffè o preferisci l’orzo”, domandò lei intanto che caricava
la lavastoviglie.
“Un caffè? Da quando siamo tornati alle cattive abitudini, non era
stato soppiantato appunto dall’orzo, molto più ecologico e salutare?”,
e si detestò per quella nota polemica, ma non era riuscito a stare
zitto.
“Perché dici così?”, chiese Ardelia piantando lì il suo lavoro e
voltandosi verso di lui con un’espressione irritata.
“Vedi, io apprezzo un casino le tue ansie salutiste, sei un medico
che traffica con i morti e mi piace che tu non mi voglia come
paziente, però ’sta storia dell’alimentazione sana, poco olio, poco
sale, poco alcol, niente formaggio, niente caffè, guai ad una
sigaretta, mi sta cominciando a pesare”.
“Ma come fai ad accusarmi di questo: se c’è una che ama la buona
cucina sono io, però con il mio lavoro so che rischi si corrono quando
si eccede… Oppure stai cercando di farmi capire qualcos’altro, per
esempio che sono una rompicoglioni?”, la voce era leggermente
stridula.
“Non è proprio così, certo che un po’ rompi, sì, un po’ rompi”.
“Non me lo avevi mai detto”.
“Non me lo avevi mai chiesto”.
“Non pensavo di dovertelo chiedere”.
“Ecco, forse è questo il punto”.
“Quale punto?”.
“Tu sei il medico, quindi sai cosa fa bene e cosa fa male, poi mi
ami tanto e quindi stabilisci, senza chiedermelo ovviamente, le robe
che posso o non posso mangiare, se posso bere e quanto, di una
sigaretta manco a parlarne”.
“Perché, da quando in qua fumi?”.
“Non ho mai proprio smesso, una ogni tanto me la schioppo”.
“E cosa fai d’altro, che non so?”.
Brivido veloce, mantenere il controllo! Controllo ristabilito.
“Per esempio, dopo la colazione salutista, quella roba che si ingoia
recitando un mantra buddista e respirando incenso tibetano, appena
arrivo ad Alassio, mi vado a comprare al bar sotto il commissariato
un bel pezzo di focaccia unta e bisunta, malsana!”.

“E ti sembra una cosa furba?”.


“Assolutamente no, è questo il punto: non si può vivere solo di
cose furbe!”.
“Di cosa è morto tuo padre?”.
“D’infarto, e allora?”.
“E non ti vengono dei dubbi che foste parenti, e che magari non ti
ha trasmesso solo il cognome ma anche un eredità cardiopatica?”.
“Certo, e con questo?”.
“Come ‘e con questo?’, ma dico, sei scemo? Ma lo sai a quanto hai
il colesterolo?”.
“Sì, amore, a 237, e l’HDL a 65, vuoi anche il resto?”.
“Ma io non so cosa ti abbia preso…”.
“Lo sai cosa ha fatto venire l’infarto a mio padre, oltre
all’ipertensione e forse, ma non lo so, la colesterolemia alta?”.
“Dimmelo tu che adesso te ne intendi anche di medicina!”.
“No, non me ne intendo di medicina, ma mi ricordo benissimo di
casa mia: mia madre, ecco cosa gli ha fatto venire l’infarto! Quella
che tu consideri un’adorabile vecchietta, che cucina benissimo anche
se ha le idee poco chiare su come sia fatto un pesce diverso dalla
trota, che fa le marmellate e che ti colma di tenerezze quando la vai
a trovare, è stata ed è ancora, ogni volta che può, una terrificante
tritamaroni che cerca di organizzare la vita degli altri minuto per
minuto. Diciamo che ormai sono diventato grande, forse, ma le
poche volte che accorcio le distanze, i suoi dispositivi di controllo
ripartono a pieno regime, perché lei sa sempre cos’è bene o male
per me e poi io in quanto figlio, si sa, ho la tendenza a non farne
mai una giusta!”.
Ardelia ascoltò tutto lo sfogo contro la quasi-suocera, ma a lei
interessava riportare l’attenzione sul loro rapporto.
“Quindi anch’io sarei una tritamarroni?”.
“No, onestamente per assomigliare a mia madre hai da fare
ancora parecchi corsi di perfezionamento e forse non la
raggiungeresti, è proprio il dono naturale che ti manca, perché sei
una brava persona e molto più intelligente. Non hai l’intima essenza
della tritamarroni, non aspiri a controllare le vite degli altri e men
che meno la mia, di questo ti riconosco ampi meriti. Ma il vezzo di
presentarti come modello virtuoso ce l’hai, sei una ragazza giudiziosa
e matura, che sa rinunciare a tutto quello che non è ragionevole e
sembra, a chi ti osserva dall’esterno, che non ti costi nessuna fatica.
La ragionevolezza, l’essere giudiziosi è certamente un percorso
vincente rispetto all’autodistruzione, su questo sono d’accordo
anch’io, altrimenti non potrei fare il lavoro che faccio. Però io non
sono autodistruttivo e nemmeno depresso, amo la vita e nella vita
mi piace ogni tanto mettere un pizzico d’irragionevolezza, altrimenti
mi sento vecchio. È proprio così sbagliato?”.
Lei stette zitta per qualche minuto che sembrò un’eternità, poi,
con calma inesorabile, riprese a mettere i piatti e le pentole nella
lavastoviglie. Taceva e questo era un brutto segno. Bartolomeo si
alzò dalla seggiola e la raggiunse alle spalle. Si sentiva colpevole e
scemo. Era vero che il suo ruolo di prima della classe da un po’ di
tempo gli stava pesando, ma avrebbe potuto parlarne, con calma,
molto tempo prima, prima che il suo senso d’isolamento e la sua
insoddisfazione lo spingessero, come un adolescente, a cercare un
altro amore. Era lui quello che l’aveva combinata grossa, non lei, che
dal canto suo, aveva continuato a comportarsi con la ragionevolezza
e la prevedibilità che tanto gli erano piaciute all’inizio, perché ne
aveva avuto bisogno: dopo i capricci della sua ex moglie sentiva di
preferire l’affidabilità. Oh se era per quello, Ardelia era affidabile,
affidabilissima, come un elettrodomestico tedesco, ma con la sola
affidabilità non si può costruire un amore, bisogna metterci dentro
anche un sacco di altre cose, comprese le marachelle, le piccole
trasgressioni, e di questo Bartolomeo non aveva nemmeno mai osato
parlare, aveva avuto paura che lei potesse sgridarlo, come una
madre, una maestra, una figura più adulta, perché era così, al di là
del suo umorismo e dell’indulgenza verso le parolacce, che la
dottoressa Spinola si presentava.
“Ardelia…”, e cercò di abbracciarla. Lei si voltò di scatto con la
pinza per gli spaghetti in mano e parlò, con voce piatta.
“Io credo che ci siano parecchie cose che devi rivedere dentro di
te. Non le voglio nemmeno sapere, so soltanto che così non va e lo
sai anche tu. Hai detto delle cose giuste. Io sono una rompicoglioni,
ma prima di tutto con me stessa, ho sempre preteso l’eccellenza e
quando non era trenta e lode stavo male, non avevo fatto il mio
dovere, sia a scuola che nella vita. Mi rendo conto che non tutti, e tu
sei di sicuro tra questi, possono o vogliono apprezzare il mio sistema
di valori; è pesante e, soprattutto, terribilmente noioso. Io non ho
capito che tu avevi degli altri bisogni, compreso quello di sognare,
perché magari non hai sognato abbastanza. Io non me lo sono
permesso prima e non credo di esserne più capace adesso, chissà
perché non mi è nemmeno mai venuto in mente. Forse non potrei
fare il lavoro che faccio se sognassi, perché avrei gli incubi. Però,
anche se avevi le tue ragioni, di sicuro le hai esposte nel peggior
modo possibile”.
“Ti chiedo scusa, non so cosa mi abbia preso”, e cercò di
accarezzarle il viso. Lei brandì le pinze per gli spaghetti e gliele
avvicinò ad un centimetro dall’occhio sinistro. Lui istintivamente si
tirò indietro, ricordando all’improvviso un discorso di ‘ablazione di
palle…’ che lei aveva fatto, ‘scherzando’, qualche tempo prima.
“Adesso non ne ho voglia. Mia madre è praticamente al capolinea.
Mi sono presa una settimana di permesso e domattina rientro a
Genova. Lei è al Galliera, entra ed esce dal coma, ogni tanto ha una
crisi respiratoria, poi si riprende, ma non può durare più tanto.
Lasciami andare e fare quello che devo fare. Non ho tempo e
nemmeno testa per i tuoi problemi, lo capisci, vero?”. Lui fece di sì
con il capo, non si era mai sentito una merda come in quel
momento. Lei concluse per tutti e due: “Allora, facciamo una cosa
ben fatta. Adesso tu te ne vai a casa, o dove vuoi. Quando torno,
comunque sia andata con mia mamma, mi faccio viva io. Stare
separati per un po’ non può che farci bene. D’accordo?”.
Bartolomeo aveva pensato di aver raggiunto il massimo
dell’abiezione e della disistima di sé, quando lei gli aveva spiegato le
condizioni della madre, ma quando si accorse, mettendo in moto la
sua vetturetta sabauda, di star provando oltre al dispiacere per la
situazione che s’era creata, anche un senso di sollievo, si sentì
ancora più merda di prima. Non aveva percorso nemmeno tutto il
ponte rosso che divideva la città dal quartiere dove abitava lui, che
stava già pensando a Svitlana e al fatto che anche quella storia fosse
finita. Negli ultimi tempi, oltre a non fare un passo nelle indagini,
stava combinando anche parecchi disastri. Naturalmente quella notte
dormì poco e malissimo, e non riuscì a capire se la cattiva digestione
fosse provocata dalla colpa o dall’aver mangiato nervosamente
troppa pastasciutta.
Passò la domenica, l’ultima domenica di marzo, cambiò l’ora, la
cosa lo irritò parecchio, soprattutto dopo un tentativo di
riconciliazione telefonica con Ardelia che lo aveva zittito bisbigliando,
perché l’aveva chiamata al capezzale della madre. Bartolomeo attese
ma la dottoressa non si rifece viva, e lui non poté far altro che
adeguarsi alla sua volontà.
Poi tutto precipitò nel giro di un niente.

“Cazzo, ve l’avevo detto che non poteva essere lui, a parte che è
qui, non solo non è il suo numero, ma non è nemmeno il suo stile!”,
e Martelli entrò nel suo ufficio, sbraitando verso invisibili interlocutori
oltre il muro, così contento di trovarlo lì da esibire uno sguardo
trionfante e un po’ demente.
“Cosa succede eh? Chi non poteva essere? Cosa? Dove?”.
“Venga dottore, venga a sentire! Sta succedendo qualcosa…
Venga!”.
Adesso era seduto nella stanza delle intercettazioni e ascoltava un
messaggio appena registrato.
“Pronto, signora Lysenko”, era una voce maschile, bel timbro, con
un accento inconfondibilmente piemontese, ma si sentiva male,
piena di scariche, con un’eco metallica, come se la chiamata fosse
partita da un luogo dove il segnale fosse scarso.
“Sì, sono io”, curiosità, ma anche incertezza.
“Sono Bartolomeo Rebaudengo”. Sei occhi si voltarono verso di lui
e lui, a sua volta, li guardò perplesso.
“Sì?”, il senso d’incertezza era più forte.
“Ho urgente bisogno di parlarle, ma non nel mio ufficio. Ho un
dubbio… solo lei…” scarica, silenzio “solo lei può sapere”.
“Cosa?”.
“Non adesso. Questa sera, lavoro fino a tardi, posso solo a
mezzanotte, minuto più minuto meno. In fondo al Lungo Centa di
Albenga, dove c’è il ponte della ferrovia”.
“Ma c’è buio, è brutto posto!”.
“Non si fida di me?”.
“No, non è che non mi fido, però buio, pericoloso!”.
“Quando lei arriverà io ci sarò già, stia tranquilla. È una cosa
delicata che potrebbe risolvere il caso e non voglio che per nulla al
mondo qualcuno ci noti insieme, perché farebbe sorgere dubbi sulla
mia imparzialità. So di poter contare sulla sua collaborazione.
D’altronde se non fosse una situazione particolare non la disturberei
con una simile richiesta, ma, mi creda, è la cosa migliore!”. E la
comunicazione, dopo una scarica metallica, cadeva.
Silenzio sepolcrale, occhi pieni di dubbi e paure. Chi era lo stronzo
che si faceva passare e neanche male tra l’altro, per Rebaudengo?
Non poteva essere un amico o un complice di Svitlana, perché non
avrebbe avuto bisogno di un trucco simile, a meno che… a meno che
non avesse scelto quella messinscena proprio per confonderla e
persuaderla a presentarsi a quell’appuntamento! Comunque le
intenzioni di costui non erano di sicuro benevole!
“È un’utenza sconosciuta, non risulta essere nessuna di quelle che
abbiamo incontrato nel traffico telefonico finora, sia suo che di altri
più o meno periferici a questa storia”, specificò subito Martelli.
“Allora, ascolta, fax ai gestori telefonici, porca puttana, è un’ora
del cazzo, non troviamo più nessuno! Dobbiamo sapere il prima
possibile a chi appartiene il numero che ha chiamato! Porca paletta,
non c’è tempo per andare a Genova e fare un raffronto elettronico
con le voci che abbiamo registrato in questo maledetto caso.
Facciamo così: Sciarra, trovati una donna, Dominelli, Canepa, Negri,
chi vuoi, e andate immediatamente a prelevare la Lysenko, la voglio
qui tra niente! Anzi, prima chiamatela sul suo cellulare, a quest’ora
potrebbe essere ovunque. Questa conversazione non risulta nelle
registrazioni ambientali? No? Me l’aspettavo. Allora non era in casa.
Trovatela! Si comincia ragazzi! Ravera, campami più uomini per
questa sera a mezzanotte: là dal Centa ci devono essere più sbirri
che pioppi o querce o quel che cazzo sono gli alberi che ci sono!”.
“Capo, è spento o non prende!”, era la Dominelli, andava matta
per chiamarlo ‘capo’ anche se sapeva che gli dava un fastidio bestia,
ma quando la vide comparire vestita di tutto punto e pronta a
partire, non ebbe né tempo né voglia di attaccare una filippica,
anche perché quello che aveva appena detto era semplicemente
spaventoso. Erano le sette e venti di sera anche se c’era ancora
chiaro come se fossero state le cinque, maledetto orario legale, e
avevano cinque ore per trovarla e per costruire un piano.
“Bisogna trovarla lo stesso!”.
Tanto per cambiare c’erano lavori in corso, alla foce del Centa, ad
Albenga, ci sono sempre lavori in corso. Dopo qualche esperienza
alluvionale abbastanza catastrofica, gli Ingauni hanno dedicato
tempo e denaro per fare in modo che il capriccioso torrente, un
fantasma estivo pieno di erbacce e rumenta, non si scateni più in un
fiume di melma e rumenta, (che non è stagionale) durante le piogge
invernali. Così ruspe e transenne non mancano quasi mai, e non
mancavano nemmeno quella sera. A parte un triceratopo di ferro
giallo con una benna appoggiata a terra e qualche papera
addormentata, era il deserto. I campeggi ancora chiusi, il transito
automobilistico interrotto che non invogliava l’andirivieni di auto con
le coppiette, nemmeno l’ombra di un tossico, insomma la scena era
immobile come una fotografia. L’unico movimento, peraltro
silenzioso, era quello del fiume che scorreva lento verso il mare. Era
presto anche per le rane.
Una figura di donna camminava avanti e indietro con la sigaretta
che brillava ad ogni tiro. Quell’andare avanti e indietro fumando, non
faceva venire in mente una puttana moderna, ma piuttosto
rimandava ad immagini vecchie, sfumate, sullo sfondo un boulevard
e una storia triste da feuilleton. Aveva i capelli scuri arrotolati in un
basso chignon, un cappottino aderente e casto, una borsetta
modesta e l’unica nota davvero sensuale erano le scarpe con il tacco,
che esaltavano due belle gambe dalle caviglie sottili. Intorno a lei
non c’era nessuno. Andava così, avanti e indietro a scandire i secondi
ed i minuti che passavano, davanti a quella rete di plastica arancione
che delimitava lo scavo della ruspa e che interrompeva la viabilità:
chi stava da questa parte non aveva nessuna possibilità di andare
dalla parte opposta, a meno che non si fosse azzardato a farlo
camminando nel fiume freddo e sporco. Nel suo andirivieni, di tanto
in tanto sostava vicino all’acqua, guardando il buio che regnava in
quella specie di foresta a lato del torrente, dove non si riusciva a
distinguere niente. Un airone cinerino fuori orario lanciò il suo verso
sghembo, stridente e con un fruscio d’ali si andò a posare
sull’isoletta di ciottoli poco distante. Un attimo dopo l’airone fuggì via
di nuovo, insieme ad altri uccelli acquatici, poco prima che la scena
fosse illuminata da schegge di luce in fuga, mentre l’urlo del treno
sul ponte di ferro sbrindellava la quiete della notte. Quando il
fracasso del rapido si spense, lasciando solo il ricordo rosso dei suoi
fanalini di coda che svanivano verso Alassio, gli occhi tondi di due
fari lontani, che sembravano essere usciti dal mare, illuminarono la
strada. Percorsero una cinquantina di metri e si spensero, poco dopo
anche la vettura si fermò, anche la donna che passeggiava si fermò
e lanciò il mozzicone ancora ardente della sigaretta nell’acqua, anche
il tempo si fermò. Passarono forse due minuti che sembrarono
un’eternità, poi il mezzo riaccese i fari e riprese ad avanzare. La
donna non cambiò posizione, sempre in mezzo alla strada, come un
bersaglio inquadrato dal mirino, ma la vettura non accelerò. La
donna continuò a rimanere immobile fino a quando l’auto non fu ad
una decina di metri davanti a lei. Le belle gambe erano illuminate
dagli anabbaglianti e un occhio sensibile avrebbe potuto notare il
fremito che aveva percorso i polpacci, che aveva predisposto i
tendini allo scatto, ma nemmeno allora si mosse. Ci si sarebbe potuti
aspettare un’accelerazione improvvisa, invece il veicolo concluse il
suo percorso e l’unico rumore, il ronfare al minimo del motore, si
quietò del tutto. Scesero due sagome nere, illuminate dalle sole luci
di posizione, due ombre indistinte, infagottate nei cappotti. Una
aveva le mani visibili, era quella che aveva guidato, l’altra le aveva
dietro la schiena.
La donna sussurrò: “Dottor Rebaudengo è lei? Non vedo la sua
faccia! Con chi è? In questo modo mi fa paura! Perché ha voluto che
io vengo qui?”, ed incominciò a guardarsi ai lati cercando una via di
fuga, come se si fosse resa conto solo allora di essere caduta in una
trappola e che quello, o meglio, quelli non potevano essere tutti e
due il dottor Rebaudengo.
Fu un attimo: la figura che aveva le mani libere in due balzi le fu
addosso, sebbene la sua sagoma avesse qualcosa di goffo e pingue
e l’altra brandì verso l’alto un oggetto lungo che poteva essere un
tubo o una spranga di ferro. E fu in quell’attimo che i fari di tre auto
invisibili riempirono il buio intorno, mentre Rebaudengo, quello vero,
diceva, con un accento piemontese quasi grottesco: “Non muovetevi,
siete sotto tiro. Non fate un movimento altrimenti spariamo. Non
avete nessuna via di fuga”. Intanto la Dominelli, che andava avanti
nel suo corso di Krav Maga, si lanciò sulla figura armata di spranga e
in una frazione di secondo nella quale non fu possibile capire di chi
fossero braccia e gambe, la disarmò e la ridusse faccia a terra, con il
proprio sedere sulla sua schiena. Svitlana Mychailivna Lysenko fu
presa per un braccio da Ravera e portata via da lì. Bartolomeo uscì
dall’ombra, ancora impugnando la sua Beretta 9mm parabellum,
tenendola puntata verso il basso e si avvicinò al grazioso quartetto
formato dalla Dominelli seduta sulla schiena di un personaggio e
Sciarra che teneva la canna della pistola ad un metro dalla fronte
dell’altro personaggio; le loro facce erano stupite, sebbene un vero
sbirro non dovrebbe mai stupirsi, in teoria sapendo prevedere
l’imprevedibile, perché i due personaggi erano Gioconda e
Guidobaldo Peluffo. Gioconda, donna economa più dei liguri, aveva
le mani inguantate: perché buttarli via, avrebbero potuto servire
ancora, no?
Svitlana piangeva e fumava, appoggiata al cofano di un’auto
azzurra e bianca posteggiata nel buio fitto di canne e continuava a
ripetere: “Lo sapevo, ma non ci volevo credere, non volevo credere
che era vero”, e giù nuovo fiume di lacrime.

Il solito campanile ignoto suonava l’una e quando una campana di


chiesa batte l’una, o si sta attenti, oppure quel solitario rintocco
sfugge. Ma a casa di Bartolomeo nessuno notò quel suono lontano.
Lui ed il suo ospite erano seduti sul divano. No, ‘seduti’ non va bene:
bivaccavano sul divano, come due guerrieri dopo la battaglia ed era
vero. Sul tavolino di mogano scuro davanti a loro, un po’ di briciole
gialle testimoniavano che s’era mangiato qualcosa di giallo, e ce
n’erano anche per terra e in un piatto ovale, dove stavano due
tovaglioli di carta appallottolati e parecchio unti, in attesa di volare
nel bidone. Una bottiglia era vuota e l’altra era a metà. Era un
dolcetto di Dogliani di alto livello, perché il dolcetto non è tutto
uguale: c’è quello da osteria, da partita a canasta mentre fuori è
nebbia, ma c’è anche quello da elevazione più che degustazione, e
quello era da elevazione: dopo un po’ si comincia a galleggiare in un
sogno morbido, immemori del dolore e della fatica, una specie di
‘canna’, alla maniera piemontese.
Era la prima volta che Ravera trascorreva una serata con
Rebaudengo a casa sua, da amici. Di ritorno dal lavoro, aveva
baciato frettolosamente la moglie, dato una spettinata alle zazzere
dei due piccoli cannibali, s’era staccato il volpino dalla caviglia e
aveva spiegato alla famigliola riunita che il suo capo aveva bisogno
di lui: non era salutare che, alla conclusione positiva di un caso di
omicidio, fosse la malinconia a dominare sulla soddisfazione, e che il
pover’uomo trascorresse da solo quella che avrebbe dovuto essere
una sera di festa. Oddio, non è che di quella solitudine non avesse
proprio nessuna responsabilità, i suoi casini ultimamente li aveva
combinati, anche se Ravera non avrebbe dovuto saperne niente. Il
fido ispettore capo comunque, colpe o non colpe, non voleva lasciare
l’amico da solo, perché quella sera non era il suo superiore, era il suo
amico. Così aveva spiegato che avrebbe fatto molto tardi e di non
aspettarlo in piedi, sicuro che la sua famigliola sarebbe stata solidale.
La moglie lo investì subito con una frana di parole tra le quali egli
colse qualcosa come: ‘assemblea di condominio, mia madre vuole,
Matteo il piccolo ha le placche in gola – strano, dagli urli non si
sarebbe detto! – deve venire l’idraulico perché la calderina, la
macchina fa un rumore…’. Al profluvio materno facevano da
contrappunto le vocette dei due cannibali, che avevano cominciato a
strillare perché avevano capito che il padre sarebbe uscito
nuovamente e per di più subito. La famiglia non era stata solidale, e
ancora dall’ascensore sentì le minacce della moglie, che cercava
invano di assumere un ruolo autoritario con i piccoli guerrieri tartari
e come sfondo i latrati striduli del volpino.
Fu felice di essere uscito. All’inizio c’era stato un po’ d’imbarazzo.
Bartolomeo gli aveva detto che sarebbe passato lui da via Torlaro a
prendere la farinata e Ravera aveva risposto che allora lui avrebbe
pensato al vino. Così era corso dal suo amico Salvatore, al ristorante,
perché ormai il negozio di vini era chiuso, e si era fatto dare quei
due gioielli.
“Dammi un vino piemontese ma da urlo, che il mio amico sui vini
piemontesi è un rompicoglioni!”.
“Ma chi è, il commissario?”, domandò Salvatore con il naso per
aria, essendo molto più basso dell’ispettore.
“E chi vuoi che sia!”.
“Allora prendi queste e digli che gliele mando io”, e tornò
trotterellando dal fondo del locale, porgendogli due bottiglie.
“E cosa sono?”.
“Questo è un Pelaverga di Verduno del Colle e questa è una
Barbera d’Asti, Mora di Sassi si chiama. Roba da signori: digli che
gliele mando io”.
“Ma come, gliele mandi tu, che figura mi fai fare!”.
“Allora, guagliò, facciamo contenti tutti: me ne paghi una sola,
così una gliela regali tu e una gliela regalo io, ma glielo dici che gliela
manda Salva, capito? E sta tranquillo, che ti faccio fare un figurone.
L’ho visto passare prima, dev’essere andato a prendere la farinata.
Che faccia aveva! Pareva di ritorno da un rosario! Ma sta bene?”.
“Sì, sì, per stare sta bene. Ha un po’ di preoccupazioni e non le ha
prese per il verso giusto. Figurati che ieri notte abbiamo anche
messo dentro due, non lo hai ancora sentito?”.
“Ma che avevano fatto?”.
“Eh, avevano ammazzato la vecchietta!”.
“Ma chi la Peluffo? Miii, e raccontami!”.
“Adesso non ho tempo. Dai, una sera te lo porto a cena e ti
raccontiamo tutto quello che non dicono i giornali, va bene?”.
“Ci conto eh!”.
“Contaci, contaci, adesso però fammi andare!”.
E così arrivò a casa di Bartolomeo con i due gioielli in saccoccia.
Una bottiglia partì quasi subito. Parlarono poco mangiando la
farinata, con la scusa che ‘guai se si raffredda e se la riscaldi nel
microonde fa schifo’. Dopo un primo assalto vorace, decisero di
mettersi comodi e continuarono a sbocconcellare e a sorseggiare,
spaparanzati sul divano. Era arrivato il momento delle chiacchiere.
“Guarda che nella sfiga per quella povera donna, hanno avuto un
culo pazzesco quei due bastardi, almeno all’inizio, e per ben due
volte…”, cominciò Ravera.
“Sì, il Peluffo che va al cesso, così riesce a sentire al telefonino la
badante che si mette d’accordo con quel burino di fidanzato che
aveva, e scopre che la vecchietta quella notte è sola!”. Gli dava un
fastidio marcato ricordare che Svieta era andata a letto con quella
specie di Cro-magnon, ma Ravera lo fece subito pensare ad altro.
“E non soltanto: anche una seconda volta, cioè quando arrivano e
trovano il sistema d’allarme non attivato. Se fosse stato inserito,
Peluffo si sarebbe limitato ad infilare la propria chiavetta per poter
aprire la porta, lasciando una firma indelebile, come dire ‘l’ho
ammazzata io’. E invece arriva e se ne va senza toccarlo, perché per
precauzione lo lascia come l’ha trovato. Dimmi te se quella povera
donna doveva dimenticarsene proprio quella sera: delle volte… il
destino! È vero che il tizio, lì il cartolaio ti ha detto che quando ha
capito che la badante quella sera sarebbe uscita, non ha dato
importanza alla cosa?”, e l’ispettore ripiegò una fetta di farinata
ormai tiepida, forse ci stava ancora.
“No, erano soltanto le quattro del pomeriggio. Allora niente
avrebbe fatto pensare alla catastrofe che sarebbe arrivata di lì a
poche ore. I due, nipote e zia intendo, hanno cominciato a litigare
quando la badante era fuori a fare le commissioni, anche se aria
cattiva tirava già da prima. Solo alle sei la zia gli ha comunicato
sghignazzando ‘come una vecchia megera’, che se lui non avesse
cambiato stile di vita, lei non gli avrebbe lasciato un fico secco”.
“E cosa intendeva per ‘cambiato stile di vita’?”.
Bartolomeo si scolò il bicchiere, un bel pallone di cristallo, perché
lui a certe cose ci teneva e si versò un altro po’ di vino dalla seconda
bottiglia appena aperta.
“Ti dà fastidio se fumo una sigaretta?”.
“Assolutamente no, va avanti”.
Aspirò, sparò il fumo verso l’alto con faccia da peccatore
soddisfatto e riprese.
“La vecchia era sempre stata una gran testa di cazzo, non gliene
era mai importato un fico secco, appunto, di convenzioni e abitudini
borghesi. Il prezzo della sua indisciplina era stato rimanere zitella,
ma credo che la cosa non le abbia mai fatto paura, considerando la
sua situazione economica. Era il tipo da stare sei mesi in India,
visitare l’Argentina e passare in Perù attraverso le Ande, non da far
minestre e lavar calzini. T’ho dato l’idea?”.
“Oh belin, me l’hai data sì! Va’ avanti, che mi piace il tuo modo di
raccontare i personaggi di un caso, quando è finito”.
“Questo nipote gay per vocazione e coniugato con prole per
mancanza di coraggio, le appariva involontariamente molto comico,
anche perché sapeva benissimo che gliele faceva buone, con le sue
visite e le sue premure soltanto per farsi lasciare l’eredità. Ma di
questo aspetto della faccenda non si preoccupava, anche se come
abbiamo visto, faceva male. In un certo senso Guidobaldo la
divertiva, lui si confidava con lei perché, considerandola una ex
zoccola, poteva raccontare le sue trasgressioni senza timore di
giudizi bigotti, e allora lei lo stuzzicava per sapere tutto delle sue
avventure. Lui stesso, durante l’interrogatorio, ad un certo punto è
sbottato e ha ammesso che di notte veniva fino in riviera per non
correre il rischio di essere riconosciuto, a cercare incontri occasionali,
a calarsi i pantaloni dietro una siepe. Ascoltando questi racconti la
zia partecipava con vivo divertimento, senza ombra di condanna.
Andava in bestia però quando pensava che lui il giorno dopo sarebbe
stato nella prima panca della chiesa a gorgheggiare le lodi del
Signore, e glielo diceva anche, spingendolo a tagliare i ponti con una
vita schizofrenica, dissociata, e a vivere liberamente la sua natura.
La vecchia aveva l’ingenuità rigorosa di un’adolescente: ammetteva
la libertà sessuale ma non l’ipocrisia. Ben altro invece scandalizzava
lui: Baldo inorridiva davanti all’ipotesi di un futuro omosessuale
dichiarato e consapevole. E non solo, dalle frequenti sue divagazioni
in relazione alla vita della zia, ho capito anche che è un fottuto
bastardo che fustiga gli stili di vita altrui e che, se può, danneggia in
ogni modo le persone che vivono secondo proprio desiderio senza
far male ad alcuno, ed è schifosamente attaccato ai soldi, quindi
anche vile ed invidioso”.
“E tutte queste chicche te le ha dette lui?”.
“Nessuna nel dettaglio, vengono fuori dal suo modo di esprimersi,
dal suo rancore latente, ma sempre presente, dalle sue maniere
falsamente cortesi, dallo sguardo elusivo, dal suo bisogno patologico
di controllo, che deve nascondere magagne ben grosse”.
“Ma all’inizio non te l’eri intagliata tutta sta roba, o no?”.
“No che non me l’ero intagliata, o meglio, dall’avvertire un vago
malessere al pensare che uno sia un assassino, ce ne passa”.
“Che poi non l’ha ammazzata lui, vero?”.
“No, come lui non avrebbe ammazzato Svetlana. La moglie, la cara
Gioconda aveva premuto il cuscino sulla faccia della zia, sorpresa di
trovarseli lì alle due di mattina e, a quel punto, decisamente
allarmata, ma inerme e sola. E anche ieri sera, sarebbe stata la dolce
Gioconda a spaccare il cranio della Lysenko, se non li avessi fermati”.
“Levami una curiosità: lì non c’era nessun bisogno di usare i
guanti, non c’era nessun problema d’impronte. Allora perché li aveva
addosso?”.
“La mente umana in certi casi è una specie di discarica
d’immondizia, dove tra gli orrori trovi delle isole d’ingenuità e di
scemenza infantile. Non voglio fare il profiler, cerco d’improvvisare: si
piaceva nella veste di assassina; chi decide la sopravvivenza altrui si
sente potente, e gli assassini, specie quelli dei film si sa, hanno
sempre i guanti di pelle scura. Avrebbe potuto buttarli via dopo il
primo uso, che era stato più che sensato, perché si era protetta le
mani dalle graffiate della vittima, ma non ha potuto, li ha conservati
e li ha utilizzati di nuovo, anche se non sarebbero serviti. Alcuni
assassini malati di mente, mi riferisco soprattutto ai serial killer,
anche se questo non è il nostro caso, raccolgono trofei dalla vittima
o sulla scena del crimine. Gli strizzacervelli la definiscono ‘fase
totemica’: quegli oggetti, talvolta sono veri e propri reperti
anatomici, altre volte sono materiali tra i più disparati, svolgono la
funzione di protrarre nel tempo il senso di potenza del momento
della morte della vittima. Quindi la bella Gioconda non ha
semplicemente usato i guanti senza necessità perché, possiamo dire:
‘le piacevano le sue mani inguantate’, ma ha usato ‘quei guanti’ e
non un paio nuovo, perché testimoniavano il suo momento di potere
di vita e di morte, il suo momento di onnipotenza”.
Ravera rimuginò qualche secondo, poi annuì e riprese: “Prima hai
detto ‘bisogno patologico di controllo’: in che senso?”.
“Ma ti riferisci al marito, non a lei?”.
“Sì, sì, al marito”.
“È proprio un disturbo psichico di tipo ossessivo-compulsivo, come
dicono gli psichiatri, ma non so se riferisco la definizione giusta, a
me però piace. La prima volta che è stato nel mio ufficio s’è messo a
spostarmi le cose sulla scrivania, a lustrare le superfici dove notava
delle ditate, vedevi che era un comportamento abituale, qualcosa di
cui non poteva fare a meno, anche se si trovava in un ambiente dove
non avrebbe avuto nessun diritto di farlo. Lì per lì mi ha solo irritato,
poi m’è ritornato in mente quando ho studiato meglio la scena del
crimine: quando ammazzi una persona, anche se non c’è
spargimento di sangue, rimane una situazione di disordine, oggetti
capovolti, soprammobili rovesciati, il letto, perché in questo caso
l’omicidio s’è verificato in un letto, avrebbe dovuto essere disfatto,
con le coperte scomposte dalla colluttazione, perché per quanto
anziana, la poverina si sarà ben dibattuta, no? E invece niente, tutto
perfettino, addirittura le pantofole appaiate, i telecomandi sul comò,
che non aveva nessun senso perché uno alla sera, quando gli cala la
palpebra mica si alza e va a posarli sul comò, ti pare? Quello che mi
ha fuorviato è che tutti abbiamo creduto che fosse stato fatto
apposta, per cancellare eventuali tracce e invece no, lo scopo non
era stato quello, ma piuttosto l’orrore del Peluffo per il disordine. In
un punto molto profondo dell’imbuto della mia coscienza, questa
cosa l’avevo percepita subito, ma non me ne rendevo conto, non me
ne sono reso conto per un bel pezzo. Quando poi ho cominciato a
vedere la cosa sotto la luce giusta, l’imprudenza della telefonata a
nome mio ha fatto precipitare tutto. Avevo le mani legate, senza uno
straccio di prova come si dice nei gialli, ma ormai ero sicuro che
fosse stato lui, anche se mi sbagliavo, di poco, ma mi sbagliavo”.
“Sì, appunto, perché l’atto omicidiario è stato compiuto dalla
moglie. E perché lei gli ha lasciato riordinare la camera come se ci
fosse passata una governante svizzera?”.
“Perché era talmente abituata a vedergli fare simili gesti che non
se ne è nemmeno resa conto. Considera che anche lei, per quanto
stronza, aveva appena subito una bella scarica emotiva, e non è
detto che a sua volta fosse perfettamente lucida e consapevole di
quello che avevano appena combinato”.
“Potrebbero ritrattare?”.
“Bella domanda… Una volta, tanto tempo fa ti avrei detto di no.
Adesso non saprei. Mi viene da farti un esempio, un po’ macchinoso,
ma rende bene quel che penso possa accadere ed in linea generale
accade ormai abbastanza di frequente. Isola deserta, due naufraghi,
uno morto con un foro in mezzo alla schiena e uno vivo con la
pistola fumante in mano. Il vivo dichiara che il morto ha
inavvertitamente attraversato la traiettoria del proiettile: secondo
che magistrato becchi, puoi incontrare il superstite a passeggio
senza che abbia fatto manco un quarto d’ora di galera. Averli
incastrati non vuol dire che li vedremo in prigione. Però, di sicuro,
l’immane cazzata di aver usato il telepass per venire in Liguria nel
cuore della notte, a compiere la loro spedizione punitiva, non li
aiuterà. Sempre che non arrivi dalla scientifica, e ci giurerei, la
mazzata definitiva che quelli tolti dalle mani della Foglino sono gli
stessi guanti usati per premere il cuscino sulla faccia della vittima. Le
ci vorrebbe l’avvocato, come si chiama più quello là?”.
“Messina, avvocato Messina…”, sentenziò Ravera con aria
compunta.
“Guarda che l’avvocato Messina era quello del programma di
Fiorello su radio 2”.
“Va be’, adesso non mi viene, sarà il vino”. E se ne versò ancora
un dito, sospirò e riprese la sua chiacchiera un po’ ebbra.
“Come può essergli venuta l’idea cretina di usare il telepass? E poi
un’altra cosa: perché dopo aver scoperto che la vecchietta l’aveva
preso in giro ed il testamento l’aveva già modificato e non solo
minacciato di farlo, il Guidobaldo o la signora hanno avuto la bella
pensata di far secca la badante?”.
“Allora, prima domanda: hanno usato il telepass, perché in quel
momento si sentivano con un ampio margine di vantaggio,
praticamente insospettabili. Guidobaldo, dopo aver confessato alla
moglie la lite del pomeriggio con la zia, si è lasciato convincere da
Gioconda dell’urgenza di eliminare l’anziana, prima che questa
cambiasse idea in merito al testamento, di cui credeva essere l’unico
beneficiario. Per ignoranza erano entrambi certi che non si sarebbe
individuata la causa criminale nella morte per soffocamento. Hanno
pensato: ‘un conto è strangolare qualcuno o tirargli una botta in
testa, ma un guanciale sulla faccia non lascia tracce, è vecchia,
sembrerà che sia morta nel sonno. E poi nell’ipotesi che se ne
accorgano, loro, i poliziotti, cioè noi, daranno la colpa alla badante
straniera, è la colpevole ideale!’. Così hanno imboccato l’autostrada
com’erano soliti fare, cioè usando il telepass: è tanto comodo!”.
Silenzioso assenso di Ravera, che sospirò e riprese i suoi rovelli.
“Chissà cos’hanno provato quando hanno scoperto che erano
cominciate le indagini intorno al delitto, quindi ‘buonanotte alla
morte naturale’, poi che la badante non aveva funzionato come
parafulmine e, dulcis in fundo era addirittura erede della vecchietta!”,
e si stiracchiò sbadigliando, con un mezzo sorriso divertito a
quell’idea.
“Eliminare la badante, e rispondo alla seconda domanda,
facendolo passare per un regolamento di conti tra ‘delinquenti
dell’est’, voleva dire rientrare nell’asse ereditario e riprendersi il posto
che era stato loro usurpato. Però non hanno considerato, o forse non
sapevano una cosa, e cioè che quand’anche Svetlana fosse morta,
non avrebbero beccato neanche un centesimo, perché l’intera
eredità sarebbe andata alla figlia di lei. O sono molto ignoranti in
materia, oppure erano all’oscuro dell’esistenza della figlia della
Lysenko”. Tacque un po’, rimirando il vino e aggiunse, quasi più a se
stesso che all’amico:
“E pensare che sarebbe bastato dirglielo, voglio dire noi sbirri,
così, facendosela uscir di bocca come una cosa poco importante, che
la straniera aveva una figlia… Invece non ci è venuto in mente… La
conoscenza di questo fatto, insieme a qualche elemento di diritto,
forse li avrebbe fermati, avrebbero compreso l’inutilità di un altro
omicidio. Il rischio che la passassero liscia però sarebbe stato più
alto… Oddio, in questo modo la Lysenko ha rischiato parecchio, ma
per lei è finita bene lo stesso. No, pensandoci adesso, anche se è
stato solo un caso, è stato meglio non aver menzionato l’esistenza di
Irina: la mancanza di questo pezzo li ha spinti a fare l’ultima
cazzata”.
“È stato Peluffo a spingerla sotto l’autobus?”.
“No, sempre madama Gioconda, per due motivi: il primo è che lui
non aveva le palle, il secondo è che avrebbe potuto essere notato,
mentre l’ucraina non aveva mai visto sua moglie”.
“La quale moglie è venuta in Riviera quel giorno, lasciando il
marito in negozio, ma non ha usato il telepass, perché la sua auto
non era predisposta. Tosta, comunque la tipa, eh?”.
“Certo, a modo suo. Era un artificio indispensabile, perché
entrambi sapevano che Peluffo era sospettato dalla badante. Il che
poi ci è confermato dalle parole di Said, il quale aveva dichiarato che
‘bela straniera non più ragazza’, si girava sempre indietro e aveva la
faccia spaventata!”.
“Probabilmente si aspettava qualcosa di simile: tieni conto che lei
forse ha cominciato a sospettare del nipote molto prima di noi!”.
“E non ci ha detto niente!”.
“Mettiti nei suoi panni. È una che Stalin le ha fucilato il nonno,
ufficiale dell’Armata Rossa! Non si fida della polizia, ne ha paura, e
non solo di quella del suo paese, ma di tutte le polizie del mondo.
Cos’avrebbe potuto dirci: ‘guardate che è stato il nipote e vuole
ammazzare pure me’? Come poteva pensare, dal suo punto di vista,
che le avremmo creduto!”.
Seguì un lungo silenzio, segnato dal rumore di una sirena che
svanì in lontananza.
“Mi è spiaciuto, sai, oggi non essere stato presente
all’interrogatorio di Peluffo!”.
“D’altronde non si poteva stare tutti lì. Stai sereno che il tuo
giretto a Savona prima della fine di questa storia te lo farai anche tu.
Grande, eh, Bottini quando interroga! Lo guardi e non gli dai due
lire, sembra un orsacchiotto pacioccone, ed è lì la sua forza. Quando
fa le domande e aspetta la risposta, e poi la rifà in un altro modo per
farti sbagliare, gli vengono due occhietti sottili e freddi come il
ghiaccio! Passa dalla lusinga al disprezzo, mitico! Dai che domani si
ricomincia, magari ti faccio assistere al replay di quello di Gioconda”.
“Sai che bella roba. Però è strano, non ha mai accusato il marito di
aver compiuto il delitto, se ne è sempre presa la colpa!”.
“Eh tontolone il mio Ravera: perché per lei non è stata una colpa,
ma un atto di cui andare fiera! Scaricarlo sul marito le sarebbe
sembrato di concedergli un onore completamente immeritato. Ad un
certo punto lo ha definito: ‘pederasta eunuco’ che vuol dire finocchio
senza palle, ma fa più colto, e poi non è volgare!”.
“Come sarà riuscito a farselo venir duro da far due figlie, dio solo
lo sa!”.
“Certo che adesso a quelle due poverine cascherà in capo una
bella tegola!”.
“Avrebbero dovuto pensarci prima alle loro figlie, alle quali
comunque non mancava nulla, studiavano e magari cominciavano ad
innamorarsi… Tra l’altro pensa al rischio: se la piccola durante quella
maledetta notte si fosse svegliata e non li avesse trovati in casa?”.
“Era un rischio remoto: a quell’età lì i ragazzi dormono come
pietre, specie quando si alzano presto per andare a scuola. E poi,
famiglia rigidamente cattolica, la poverina non avrebbe mai osato
entrare in camera dei suoi… Tanti rosari e poi guarda che eredità
lasciano quei due schifosi… Che marciume!... Cosa sarà meglio:
avere una famiglia marcia o non averne proprio? Mah…”.
Rebaudengo giocherellava con il bicchiere e aveva lo sguardo
perso nel vuoto. “C’è ancora una possibilità”, bofonchiò più a se
stesso che all’amico, “che poi è la peggiore in assoluto: assistere alla
distruzione di una famiglia marcia…”, e si mise a guardare il fondo
del bicchiere, pensando alla piccola Candida Di Blasi che non vedeva
da qualche mese, doveva telefonarle, accidenti. Anche lei aveva
subito lacerazioni e crolli. Sì, sì, l’avrebbe chiamata al più presto, e
sperò in cuor suo che non fosse troppo arrabbiata. Ma no, non era
arrabbiata, lo sapeva che lui era un poliziotto e i poliziotti sono
sempre nei casini… Si voltò a guardare la faccia inespressiva di
Ravera e gli domandò:
“A cosa pensi?”.
“Quando Peluffo, dopo il funerale e la lettura del testamento ha
cominciato a tessere le lodi della povera badante, non mi sono
insospettito, non mi sono domandato cosa fosse cambiato. Sì lo so
che il suo intento era quello di nascondere i suoi progetti omicidi nei
confronti della donna e per ottenere questo doveva per forza
parlarne bene, però non mi sono ricordato che all’inizio qualche
pulce nell’orecchio contro di lei aveva cercato di mettercela”.
“Mah, cosa vuoi, poteva anche non essere notato, non l’ha fatto in
modo marcato. Non mi fidavo della sua cordialità, ma non posso
nemmeno dire di averlo detestato o sospettato a prima vista; come ti
ho detto prima, di lì a pensare di avere davanti un assassino… E poi
con il nostro lavoro è sempre così: devi dubitare di tutti e non puoi
accanirti su nessuno in particolare, perlomeno finché non hai dei
sospetti fondati, e lì non ne avevamo. Aggiungerò ancora una cosa:
abbiamo avuto a che fare con due personaggi patologici, forse non
psicotici, ma, e lo dico alla mia maniera, matti di sicuro, che
alternavano scaltrezza e ingenuità. Parlare bene della badante aveva
due scopi. Il primo era mostrarsi amichevoli nei suoi confronti, visto
che ormai pareva svanita la speranza di vederla in manette e l’altro
quello di non farci più dubitare di lei”.
“Scusa, ma non ti seguo”.
“Quando hanno capito che forse non l’avremmo arrestata e che lei
si sarebbe portata via il ‘loro’ patrimonio, sono giunti alla
conclusione, o forse ci è giunta solo Gioconda e Guidobaldo si è
adeguato, che se allentavamo il controllo, loro due avrebbero avuto
il campo libero per farla secca. La premeditazione era arrivata al
punto da spingere Baldo, il quale d’accordo che è dominato dalla
moglie, ma una sua mente diabolica ce l’ha anche lui, ad
argomentare durante una telefonata con me, su qualche possibile
movente tra le vecchie conoscenze della zia Ilde. In questo modo,
mentre noi ci davamo all’archeologia tra i vecchi albenganesi,
cercando fuori del seminato, dove non avremmo trovato niente – e
lui questo lo sapeva benissimo – loro potevano eliminare la donna.
La brusca sterzata provocata dall’omicidio della Lysenko, ci avrebbe
imposto di orientarci verso est, tra gli immigrati e loro avrebbero
potuto finalmente ereditare. Comunque, dalle loro intercettazioni
non è mai uscita una sola parola che potesse incastrarli o metterci
sulla loro pista”.
“Quindi tu pensi che loro sapessero di essere controllati?”.
“E certo! Perché altrimenti comprarsi un altro cellulare. Se quello
della badante non fosse stato controllato, il piano avrebbe potuto
funzionare, ci pensi?”.
“E dove elaboravano i loro progetti?”.
“Esclusivamente all’aperto, nemmeno in macchina. Dritti eh? Lo
sbaglio è stato credere che noi avessimo smesso di intercettare le
comunicazioni della Lysenko, magari persuasi da Guidobaldo che
aveva cercato di rimbambirci a furia di ripetere che la donna era
innocente! Te l’ho detto: scaltrezza e ingenuità, a corrente alternata!
Anche l’idea di farsi passare per me, è quasi geniale. Era sicuro che
Svetlana avrebbe ubbidito, proprio per la paura della polizia. Bisogna
poi vedere di chi è stata l’idea”.
“Mi ha fatto effetto quella sbarra di ferro brandita in aria e poi
trovare nel bagagliaio il sacco nero da rumenta, di quelli giganti,
dove avevano deciso d’infilare il cadavere, per andarlo poi a
scaricare in qualche recanto abbandonato… Brrr, povera donna… Che
bastardi!”.
“Beh, si sono trovati. Credo comunque che non avrebbero
occultato il cadavere, ce lo avrebbero fatto trovare”.
“Perché? Ah, giusto, perché senza cadavere l’eredità sarebbe
rimasta bloccata!”. E Ravera assentì soddisfatto della propria
conclusione, ma Bartolomeo non aveva ancora finito.
“Hanno anche un’altra stranezza nella loro dinamica di coppia”.
“Quale?”.
“Nelle coppie assassine il leader di solito è il maschio e la donna
svolge un ruolo, come dire, accessorio, di manovalanza o di
adescamento delle vittime, soprattutto negli omicidi seriali. Nel caso
di delitti finalizzati ad un vantaggio pratico o ad una vendetta, può
accadere che la donna comandi, ma l’atto omicidiario lo faccia
compiere al maschio, sia per forza fisica che per la falsa idea che il
mandante sia meno colpevole di chi compie l’assassinio con le
proprie mani. In questo caso, invece, lo schema è anomalo: il leader
è lei, chi uccide è lei e lo fa fisicamente, attribuendosene tutto il
merito, il marito si comporta come una specie di zavorra, si occupa
di public relation. Con il fatto che lui è gay, mi viene quasi il dubbio
che il maschio in casa fosse la signora Gioconda e non escluderei,
messe e benedizioni a parte, una forte componente lesbica nella sua
personalità; me l’ha fatto venire in mente l’assenza di qualsiasi
ornamento femminile: ha qualcosa più di virile che di religioso…
Forse finiranno in qualche rivista specialistica. Inoltre sono molto
sbilanciati, nel senso che lui è più fragile della moglie. Baldo ha
subito un serio colpo non adesso, molto tempo fa: quando ha
scoperto che suo padre gli aveva lasciato poco o niente rispetto alle
sue aspettative. Da allora ha cominciato a corteggiare la vecchia zia,
non sperando ma proprio contando su una specie di risarcimento.
Nel momento in cui Ilde lo ha minacciato di lasciarlo con un pugno di
mosche in mano, la paura ha risvegliato il primo trauma e la sua
struttura si è scompensata. Gioconda invece è lucida, è una sadica
perfettamente consapevole di ciò che fa. Il suo delirio sta altrove e,
cioè, nella convinzione di essere nel giusto, anche quando uccide”.
Suonarono le due e questa volta le sentirono. Era da un po’ che
tacevano, forse per la stanchezza, per il vino, o perché avevano
sviscerato per dritto e per traverso l’intera faccenda. Fu l’ispettore
capo a parlare.
“E la storia delle pappe?”.
“Delle pappe?”.
“Sì, la violazione dei sigilli per andare a prendere le pappe alla
gatta nobile?”.
“Ah, quella? Bottini è santo, perché ha deciso di derubricarla e
d’imporle un’ammenda, tanto adesso è tutto meno che povera”.
“Bartolomeo…”.
“Eeehh!”.
“Per il resto come va?”.
“Di merda”.
“Ok”.
Capitolo quattordici: in cui tutto finisce, ma in
realtà non finisce niente
“Sei sicura di non volere che ti accompagni?”.
“Davvero, Bartolomeo, non sono arabiata, non sono nemmeno
triste e non ce l’ho con te, come dite voi. È solo che volio gustarmi
tutto di questo viaggio e devo farlo da sola. Non credevo che
tornavo in mio paese in questo modo, con aeroplano, sempre fatto
viaggio con pulmino, una cosa lunga, molto lunga, di fatica e
qualche volta anche di paura, tante frontiere, controli, documenti
che li guardano, e poi li guardano ancora, e ti guardano in faccia e
fanno domande, anche se sai che è tutto a posto, ma hai paura lo
stesso, è una paura di secoli. Adesso vado a Milano e prendo aereo
di linea, Aeroflot, come gente importante, uomini di affari e torno a
Rivne. Prima vado a Kiev, mia filia non sa niente, capisci, io ho detto
Evgenij di non dirle niente fino a che ero a casa o in prigione, era
inutile fare stare lei male, no?”.
“Hai mai avuto paura davvero di finire in prigione?”.
“Tu hai mai pensato davvero che avevo amazzato Tiotia Ilde?”, gli
domandò lei con un sorriso un po’ sbilenco che le aveva visto
qualche volta.
“Sorridi storto”, disse lui stupidamente.
“Sì lo so, ho sempre sorriso storto, mi succede da tanto tempo,
non tutte le volte, ma spesso. Si vede poco perché sorrido poco”.
“Perché?”.
“Perché sorrido poco o perché sorrido storto?”.
“Tutt’e due”.
“Sorrido poco perché fino ad oggi ho avuto poco da sorridere. Il
mondo in cui ho creduto è morto, morto con mio fratelo, con tante
persone come lui, morto con mio nonno, Dido Konstantin, perché
anche se io non potevo capire e nessuno in casa parlava, non mi
sembrava cosa giusta, non mio nonno, capisci? Mio mondo è morto
con il lavoro perduto, con stipendio finito, con Evgenij che insegnava
in scuola e non lo pagavano mai e nei negozi non c’è niente, meno
male che ancora chata in campagna e un po’ di verdura c’è. E io
venuta in Italia a fare badante, non mi vergogno, buono lavoro, ma
io sapeva tante cose e nessuno interessa un chimico di Ucraina. Irina
lontana, suoi studi, suoi sogni, suoi amori, non so niente, non
ascolto i suoi pensieri, passa il tempo e noi sempre più straniere.
Cos’ho di sorridere?”.
“Non un granché, effettivamente… E per la faccenda che sorridi
storto?”.
“Tu vede qui, piccolo talio, non si vede quasi, ma lo vede?”.
“Momento che prendo le baricole!”.
“Le cosa?”.
“Lascia perdere, gli occhiali. Ecco, fammi vedere? Ma cosa, quel
robino lì minuscolo?”.
“Eh sì, quelo lì. Caduta di faccia a pattinare su ghiaccio, io era
brava, facevo le gare da piccola, anche in Italia sempre guardato
Plushenko, grande campione! Comunque, ragazzina, caduta, talio,
dato punti il dottore, dato bene, non si vede quasi niente, ma se
sorrido, tira”.
“Sai che bisogna proprio guardare con il microscopio, e poi non ti
sta nemmeno male?”. E gli venne in mente che non ci aveva fatto
caso in quella notte trascorsa insieme. Fu una serie d’immagini che
gli fece malissimo, e cercò subito di concentrarsi su altro, qualsiasi
cosa, anche i ciuffi della gatta potevano andare bene.
“Dici? Io ho fatto abitudine, certo che i primi tempi soffrivo, ero
giovane e sorridevo molto di più”.
“Dicono che quando si sa andare in bicicletta non si dimentica più,
anche se si sta tanto senza pedalare. Vedrai che sorriderai di nuovo,
magari storto, ma non importa”.
E lei sorrise reclinando appena il capo da un lato, con un piccolo
atteggiamento vezzoso che la fece somigliare straordinariamente alla
gatta, la quale ronfava come se avesse avuto un motorino
incorporato, proprio sulle sue ginocchia. Svetlana pelosa era di una
bellezza quasi fiabesca, con quei due ciuffetti d’oro che le ornavano
le orecchie, le zampotte bianche e la coda che sembrava una stola di
zibellino, da vera nobildonna dei tempi dello zar.
“E di lei cosa ne farai?”.
“Llleei? Lei Ketzjunha moia, pezzo di mio cuore, lei sarà sempre
con me!”.
“Sì, ma adesso che dovrai andare avanti e indietro per un po’,
come farai?”, avrebbe voluto dirle ‘lasciala a me’, ma gli sembrava
davvero troppo: forse con Ardelia era finita, forse no, per adesso era
sicuramente sospesa, e non voleva che dovesse subire la gatta
sovietica alla prima fragile visita a casa sua.
“Tanto in questo primo viaggio, io mi fermo a casa più di un mese,
tante cose da vedere e se torno in Italia è solo per mettere a posto
tutte cose di eredità. Dovrò andare avanti e indietro più di una
volta”.
“Allora hai deciso, non ti porti i tuoi di qua?”.
“Dì qua, di là, tu parla ancora come ai tempi di soviet! Ucraina non
è di là, di là di cosa?”.
“Be’, è lontana!”.
“Per quelo sì, vero, è lontana, ma si può prendere l’aereo. Vede,
Bartolomeo, io non stata male in Italia, io venuta per lavorare e
lavorato e i miei soldi a casa sono serviti. Quindi tutto a posto. Io ho
rischiato, si dice così, sì? Io rischiato prigione, ma meno male,
scoperto i veri assassini, io libera. Bene. Polizia italiana con me non è
stata cattiva. Qualche volta sbalia, mette dentro i bravi e lascia liberi
i delinquenti, capita, sì, a me non è capitato e quindi non mi
lamento. Ma mio paese è Ucraina. Italia è bela, belissima,
monumenti antichi, montagne, mare, tante cose da comprare,
macchine sportive, bele case, bei vestiti, ma non è casa mia. Io
adesso ha tanti soldi, non mi rendo bene conto quanti, e posso
cambiare mia vita e quela di mia filia e di Evgenij, ma non qui, non
da stranieri, no, a casa nostra, va come va, staremo a vedere”.
Tacque un attimo, giusto il tempo di sollevare Svetlana e baciarla
sulla zucchetta, in mezzo a quei capolavori di orecchie, lei fece un
miao lamentoso e stizzito, e la rimise giù, dove l’animale riprese il
ronfamento.
“Non ha risposto a mia domanda”.
“Quale?”.
“Tu ha mai davvero creduto me assassina?”.
“Creduto mai, avuto paura sì, all’inizio, anche se qualcosa dentro
di me si ribellava all’idea. E tu hai mai avuto paura di finire in
prigione?”.
“Sì, e non solo: in prigione e anche amazzata”.
“Tu sospettavi di Guidobaldo?”.
“Tu ha detto che lui parlava bene di me e io so che impossibile: a
te credevo, ma sapevo che diceva lui bugia, perché mi odiava.
Perché mi odiava? Perché è cattivo, ma non è scemo e sapeva che
Tiotia Ilde mi voleva bene. Ero un pericolo”.
“Alla fermata ti hanno spinto, vero?”.
“Io ho proprio sentito botta in mezzo ala schiena, però non ho
mentito quando ho detto che poteva essere per sbalio, di studente
sgarbato, magari con zaino, per salire subito in autobus. E poi non
riconosciuto nessuno. Io tra le facce di gente cercava faccia di
Guidobaldo, non pensato a sua molie”.
“Non mi hai detto cosa farai con la micia?”.
“Ti ho risposto: lei sempre con me!”.
“Già da questa volta?”.
“Prenotato aereo anche per lei. Viene e resta con Evgenij finché io
smetto di fare qua e là come dici tu”.
“Hai già deciso cosa farai?”.
“Sì, potrei mettere su piccola attività, io laurea in chimica, anche
se un po’ di polvere c’è!”.
“Ruggine”.
“Ruggine?”.
“Sì, quando non si ricorda più bene una cosa o come si fa, si dice
‘mi sono arrigginito’, come il ferro”.
“Ah, capito Fe2O3, come vecchio chiodo!”.
“Cosa ti ha lasciato tutta questa storia?”.
“Dentro me non è cambiato niente, io già sapeva che cuore
umano può essere un buco nero pieno di miseria. Intelighenza senza
umanità è come una pentola vuota. No cambia se c’è comunismo o
non c’è, se è nord o sud, è uguale. Il male non sarà mai tolto tutto,
come pianta cattiva, sarà sempre guerra, sarà sempre violenza, ma
per me importante è non accettare, si dice così, sì? Vero male è
accettare che dolore e violenza ci sono sempre: è vero, ma ogni
mattino si ricomincia, come le pulizie di casa, mica pensa che
domani niente sporco e niente da lavare, no? Tu sa che domani di
nuovo lavare, e straccio, e mandare via polvere. Ricordo tempi di
scuola: l’universo tende al disordine, all’aumento di entropia. Non
importa se io con mia fatica produco energia che aumenta entropia,
pazienza, io pulisco, io metto a posto. Così è la vita; male, dolore,
guerre, ci sono e ci sono anche dopo, ma io non accetto, mai
indifferenza. Ecco perché fucilato Dido Konstantin, morto Andrej,
successo ˇ Cernobyl’, sparato Politkovskaya, in Russia non Ucraina,
ma stessi guai anche in Ucraina e Belarus e Georgia, in tutti i posti, e
poi silenzio su tutte cose che non vanno bene, non importa, io torno
al mio paese e lì ricomincio. Tu dici ‘facile adesso sei ricca!’, vero,
sono stata fortunata anche se non è belo fortuna da morte di brava
persona, ma è andata così. Poi, tu pensa, è più facile qui, in questo
paese che è Italia, meno pericolo. E invece no, non accettare il male
vuol dire tornare di là, come dici tu e rischiare di là”.
Bartolomeo non sapeva cosa dire e non disse niente.
Fuori pioveva.
Ringraziamenti
Dietro alle mie chicche medico-legali c’è sempre lo zampino della
dottoressa Giuliana Sanguineti, ma non soltanto, perché ho
telefonato in cerca d’illuminazione improvvisa al dottor Renzo Contin,
alle ore più assurde, specie dopo una giornata di lavoro in ospedale.
Questa volta c’è da ringraziare di cuore una signora ucraina, vera,
che guarda caso si chiama proprio Svitlana, Svitlana Aronets, la
quale con pazienza e dolcezza mi ha insegnato molte delle cose che
vi ho raccontato sul suo paese, anche la differenza tra russo ed
ucraino in merito al suo nome e che Bartolomeo non si è mai
ricordato.
C’ero io e non il commissario Rebaudengo nella stanza con il cupo
quadro tardo neoclassico o protoromantico, a bere caffè e ad
ascoltare le spiegazioni notarili del notaio, per me soprattutto amico
d’infanzia, Roberto Ricci. La gatta sovietica esiste ed è un pezzo
fondamentale della mia famiglia, una creatura meravigliosa che ha
sonnecchiato con eleganza vicino al mio computer per quasi tutto il
tempo che io ho dedicato alla scrittura di questa storia.
Guai a dimenticarmi dei miei amici del commissariato: il
vicequestore quello vero, Ravera, Battaglia, Negri eccetera, che non
si chiamano così, ma esistono veramente.
Non voglio dimenticare mio marito Vittorio che non solo nei miei
confronti ha una pazienza tibetana, ma si è anche messo a spiegarmi
come funziona e come può non funzionare un reattore nucleare,
partendo da protone, neutrone ed elettrone, come con i bambini
delle elementari. Nemmeno la mia ‘piccola’ Laura va dimenticata, con
i suoi suggerimenti e le sue critiche, che mi danno fastidio sempre e
qualche volta sono azzeccate. Lo ripeto per sicurezza: ogni
riferimento a fatti e persone è puramente casuale.
L’Autore
Cristina Rava è nata ad Albenga e vive a Cisano, un paese
dell’entroterra savonese. Ha pubblicato per Fratelli Frilli Editori I
giovedì di Agnese. Donne in guerra (2006), Commissario
Rebaudengo. Un’indagine al nero di seppia (II ed. 2007), Tre trifole
per Rebaudengo. Un’indagine ad Alassio (2007) e il racconto
Festeggiamenti alternativi nella raccolta Donne. Storie al femminile
(2009).
È un’ottima cuoca.

Finito di stampare nel giugno 2009


dalla tipografia Me.Ca – Recco (GE)
per conto della Fratelli Frilli Editori srl – Genova
Printed in Italy
DigiLibris
DigiLibris
Creazione ebook a cura di Moriano Selene
per conto della Fratelli Frilli Editori srl - Genova
www.digilibris.it
Table of Contents
Capitolo uno: nel quale si scopre che in una casa ligure vivono non
una Svetlana, bensì due
Capitolo due: in cui appare evidente che in tutte le storie c’è il giorno
prima
Capitolo tre: nel quale accade che grandi perturbamenti vengano
annunciati da eventi minimi
Capitolo quattro: in cui Rebaudengo conosce un nuovo personaggio
che risveglia il suo interesse
Capitolo cinque: nel quale il vento di Gregà evoca fantasie di terre
sconosciute
Capitolo sei: nel quale alcune cose si definiscono, ma i dubbi restano
Capitolo sette: in cui le informazioni aumentano e la confusione
anche
Capitolo otto: nel quale sguardi e silenzi risvegliano atmosfere dei
film con le spie
Capitolo nove: in cui la soluzione si mantiene lontana, ma le crepe
nel cuore di Rebaudengo si fanno più serie
Capitolo dieci: Cappon Magro e lacrime
Capitolo undici: dal quale si può evincere che certe volte le cose
vanno come devono andare e non si può fare niente per
contrastare il caso
Capitolo dodici: nel quale, tra altri eventi,si racconta la storia di
Andrej Mychailovic Lysenko
Capitolo tredici: nel quale tutto precipita
Capitolo quattordici: in cui tutto finisce, ma in realtà non finisce
niente
Ringraziamenti
L’Autore
DigiLibris
Table of Contents
Capitolo uno: nel quale si scopre che in una casa ligure vivono non
una Svetlana, bensì due
Capitolo due: in cui appare evidente che in tutte le storie c’è il giorno
prima
Capitolo tre: nel quale accade che grandi perturbamenti vengano
annunciati da eventi minimi
Capitolo quattro: in cui Rebaudengo conosce un nuovo personaggio
che risveglia il suo interesse
Capitolo cinque: nel quale il vento di Gregà evoca fantasie di terre
sconosciute
Capitolo sei: nel quale alcune cose si definiscono, ma i dubbi restano
Capitolo sette: in cui le informazioni aumentano e la confusione
anche
Capitolo otto: nel quale sguardi e silenzi risvegliano atmosfere dei
film con le spie
Capitolo nove: in cui la soluzione si mantiene lontana, ma le crepe
nel cuore di Rebaudengo si fanno più serie
Capitolo dieci: Cappon Magro e lacrime
Capitolo undici: dal quale si può evincere che certe volte le cose
vanno come devono andare e non si può fare niente per
contrastare il caso
Capitolo dodici: nel quale, tra altri eventi,si racconta la storia di
Andrej Mychailovic Lysenko
Capitolo tredici: nel quale tutto precipita
Capitolo quattordici: in cui tutto finisce, ma in realtà non finisce
niente
Ringraziamenti
L’Autore
DigiLibris

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