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Cappon Magro Per Il Commissario. Commissario Rebaudengo 3
Cappon Magro Per Il Commissario. Commissario Rebaudengo 3
impaginazione
Michela Volpe
editing
Nicole Pezzolo
layout copertina
Sara Chiara
isbn 978-88-7563-757-6
Cristina Rava
“Sì, ma mia cara, quando si parla con la polizia, quando c’è stato
un omicidio, non si deve decidere da soli cosa dire e cosa non dire. si
dice tutto quello che si sa, che si è fatto, anche se magari non ne
siamo orgogliosi o se pensiamo che non ci servirà. Lei lo lasci
stabilire a me, va bene?”.
Battito di ciglia: “Va bene”.
“A che ora ha lasciato l’appartamento nel quale s’incontrava con il
Porrini?”.
“Ho aspettato che non era proprio notte notte, mi spiego? Casa di
Tiotia Ilde è in mezzo di centro storico e un po’ mi fa paura,
camminare da sola, nel buio. C’è buio anche ale sei di mattino, in
questo mese, ma io ho idea che è già un po’ mattino e ho meno
paura. Passano uomini di spazzatura, tirano i giornali, apre qualche
bar, è meno brutto. Sono arrivata in casa ale sei e dieci, forse un
quarto”.
“Bene. Dopo cos’è successo?”.
“Fatto piano, per non disturbare Tiotia Ilde. Lei conosceva mia
storia, adesso finita, non uomo buono, ma io già sapevo, solo che
non volevo dire a me stessa. Ala sera prima io ho detto che avevo
appuntamento con Sergio, lei riso e detto che fa bene ala salute, io
divento rossa quando dice cose così”, e divenne rossa. “Noi abbiamo
telefonini, lei non era malata, tutto a posto, ci vediamo domani
mattina presto. Ho baciato Tiotia Ilde e andata”.
“Che ora era?”.
“Dieci e mezzo, sì, massimo dieci e mezzo. E lei detto veramente
‘Non rompere Svieta che sta per succedere un casino’, parlando di
film in tv e io ho riso, perché disturbavo, ripetevo di chiamare per
qualsiasi cosa, anche piccolissima. Quele parole è l’ultima cosa di
lei”.
“Quando è rientrata in casa al mattino, ha capito che c’era
qualcosa che non andava?”.
“Non subito, porta chiusa bene. Luci spente, tutto a posto. Io ero
arrabbiata, perché avevo litigato e sapevo anche che era brutta
storia e dovevo piantare lì. Io volio bene a Evgenij, anche se tanti
anni lontani, ormai. Non è questione di fedeltà, è questione di
rispetto e io mancavo di rispetto prima ancora a me che a lui: Sergio
è uomo cattivo. Forse anche per questo io mi vergognavo e non ho
detto a lei, commissario”, e abbassò gli occhi con una grazia tale da
far crepare d’invidia perfino Bambi di Walt Disney. Bartolomeo
avrebbe voluto non notarla, ma la notò.
“Vada avanti a raccontare di quella mattina”.
E lei raccontò di come si era mossa nella casa, piano per non
disturbare, ma dopo il rito di pappa e coccole a Svetlana felina, s’era
resa conto che il silenzio nella casa era totale, questo l’aveva
inquietata e aveva chiamato la signora. Non c’era stata risposta, era
subito andata a vedere se Ilde stesse bene, e così aveva fatto la
scoperta. Niente urli, niente gesti stupidi. Aveva aspettato un po’ ed
era andata dalla vicina. Somigliava molto alla prima versione.
“Avete cenato insieme la sera precedente?”.
“Sì, trota salmona…”.
“Salmonata e finocchi gratinati al forno. Le è sembrata contrariata,
spaventata?”.
“Ci ho pensato tanto dopo… forse un po’ diversa era: scherzava
come al solito, ma sembrava che rideva con un po’ di fatica. Io ho
anche chiesto se non stava bene, ma lei mi ha detto di andare, che
poi da vecchie il letto serve solo per dormire o morire. Aveva questo
modo un po’… Non so la parola…”.
“Irriverente?”.
“Non so cosa vuole dire…”.
“Che sembrava che non prendesse le cose troppo seriamente?”.
“Ecco, sì, giusto”.
Rebaudengo se ne stette un po’ a tamponarsi il naso, ormai rosso
pomodoro.
“E durante la visita del nipote, tutto ok? Lo so che gliel’ho già
chiesto prima, ma adesso siamo un po’ più in confidenza, giusto?”.
Sembrò che una nuvola spessa avesse attraversato un cielo estivo,
ma Rebaudengo fece finta di niente.
“Se hanno litigato è stato mentre stiravo e alora hanno litigato
piano, perché io non ho sentito niente, oppure quando io ero fuori
per piccola spesa di pomeriggio”.
Bartolomeo tamponava e meditava. Poi decise che era venuto il
momento per colpire.
“Allora, visto che siamo in vena di confidenze: chi è che ha cercato
di buttarla sotto l’autobus tre giorni fa?”.
E lì si rese conto che prendere alla sprovvista una persona che
arrivava dalle fredde terre del KGB era speranza vana. Lo sguardo si
spense, il cerbiatto se ne tornò nella foresta e davanti a Rebaudengo
si strinsero a fessura due occhi più freddi dell’azoto liquido.
“Nessuno”.
“Eh, eh, Svetlana Mychailvna, non mi faccia arrabbiare, non deve
dire le bugie!”.
“Io non dico bugie”.
“Sì, va be’, lasciamo perdere. Ho un testimone”.
Avvenne una strana metamorfosi: lo sguardo rimase alla
temperatura dei refrigeranti, ma le labbra si schiusero in un sorriso
sovietico.
“Ah, ma lei vuole dire quando io sono caduta davanti autobus che
ero andata ad Albenga per piccole spese?”.
“E brava, la mia signora Lysenko: proprio quella volta lì”.
Allora rise di un riso breve e falso come una moneta da tre euro.
“Ma io caduta da sola!”.
“Niet, niet, lei non caduta da sola, lei spinta!”.
“Chi lo dice?”.
“Il mio testimone”.
“Si sbalia”.
“Niet, niet, non si sbaglia. Ci ha visto benissimo”, e gli sembrò un
ottimismo esagerato, tenendo conto dell’occhio sguercio.
“Bene, alora diciamo che forse sì, magari spinta, ma da qualcuno
che lo ha fatto per la fretta, per paura di perdere il bus, per sbalio,
insomma!”.
Ecco, beccatela lì: e adesso? E adesso urgeva scaltrezza per
improvvisare una strategia, facendo finta di avere le idee chiare su
come quel discorso dovesse precedere, anche se non ne aveva la più
pallida idea.
“No, signora Lysenko e sa perché dico di no?”, Bartolomeo certe
volte scivolava nelle domande inutili.
Svitlana sapeva aspettare e non s’intromise nell’argomentazione
del suo antagonista.
“Le dico di no, perché forse lei sa chi l’ha spinta e sa anche perché
lo ha fatto, e se proprio non lo sa con sicurezza, lo sospetta
fortemente. Tutti e due, sia io che lei sappiamo che c’entra qualcun
altro in questa storia. Ora bisogna vedere se lei con il suo silenzio
intende proteggere questa persona, ma non credo, perché non si
protegge qualcuno che cerca di ammazzarci. Pertanto ritengo che lei
ne abbia paura. La sua è una paura inutile, perché la polizia può
proteggerla”.
Lei non disse niente ma cambiò sorriso, questo somigliava ad una
smorfia triste. Rebaudengo la guardò e ci mise un attimo ad
afferrare, sentì subito un bisogno di risponderle con rabbia, per farle
capire che aveva colto l’ironia, e che lei stava sbagliando.
“Sì lo so che al suo paese fino a poco tempo fa la polizia non
proteggeva, e forse nemmeno oggi le cose vanno meglio. Magari al
vostro paese non c’è l’abitudine di chiedere aiuto alla polizia, ma qui
è diverso: di me… di noi si può fidare! Se ha dei sospetti su
qualcuno, deve dirmelo!”.
Svitlana guardò fuori della finestra il mondo oltre il vetro. C’era un
sole scintillante, quasi rabbioso, che sparava raggi limpidissimi dopo
tanta acqua e tante nuvole. A complicare tutto, il vento; un vento
che portava tepori primaverili ma con l’energia dell’inverno,
schioccando veloce contro i bucati stesi ed i rami degli alberi.
Bartolomeo la lasciò rimuginare il giusto, poi vide che la donna non
stava cercando le parole, semplicemente non aveva intenzione di
aprir bocca.
“È qualcuno che conosceva la vecchia signora, qualcuno che la
odiava per motivi ignoti che, però, possiamo immaginare essere il
denaro o qualche antico torto o un odio famigliare mai dimenticato?
Oppure è qualcuno che fa parte del ‘suo’ passato, Svetlana, o del
suo presente, qualcuno che ha chiuso la bocca ad una povera
vecchietta perché ha visto o sentito qualcosa che non doveva? Non
ci sono molte altre possibilità e lo sa anche lei. Considerando poi che
questo qualcuno ha cercato di spingerla sotto un autobus durante
l’ora di punta, nascondendosi in mezzo agli studenti, forse non
sarebbe una pessima idea raccontarmi qualcosa, che ne dice?”.
La signora Svitlana non aveva niente da dire e fece un accenno di
alzarsi dalla sua poltroncina. Bartolomeo le appoggiò una mano
sull’avambraccio e la spinse di nuovo sulla seggiola.
“No, mia cara, sono io che decido quando concludere questa
conversazione e sono sempre io che decido se portarla avanti nella
forma di una conversazione, oppure trasformarla in un
interrogatorio”.
A molte donne, nel suo passato professionale, alla parola
interrogatorio era tremato il mento. Il commissario ebbe il sospetto
che per far tremare ‘quel’ mento ci sarebbe voluto un sequestro
notturno e ritrovarsi in un discreto sotterraneo della Lubianka.
Fu a quel punto che gli venne un’idea azzardata, una possibilità
così estrema da non poter far parte del bagaglio genetico di un
piemontese di provincia, eppure gli venne, lui stesso ne rimase
esterrefatto. Non ne fece parola e si ripromise di analizzarla ed
elaborarla sotto la doccia.
“Va bene, per adesso vada”.
Svitlana Mychailivna Lysenko rimase interdetta, forse si aspettava
modi più severi, più cattivi per estorcerle i suoi segreti, ma si guardò
bene dal frapporre un solo secondo tra il permesso di alzarsi e l’atto
di salutare ed uscire dalla stanza.
Rebaudengo e Ravera rimasero qualche istante a fissarsi a
vicenda, non sapendo cosa pensare.
“Perché l’hai lasciata andare?”, domandò Ravera, che da qualche
tempo aveva ricevuto da Rebaudengo l’ordine di dargli del tu. Una
mattina nuvolosa e bigia il commissario si era accorto all’improvviso
che il suo ispettore e amico non aveva mai smesso di dargli del lei.
“Perché non ci avremmo cavato niente. Questa non ha vent’anni, è
una tosta, è nata sotto Kruschev, è sopravvissuta a Breznev,
conosciamo ben poco della sua storia famigliare, ma certamente è
abituata a sistemi ben diversi dai nostri per far dire le cose alla
gente. Se anche avessi optato per la linea dura, non avrei fatto
molta strada…”. Il punto era che non aveva nemmeno voluto
tentarla, quella strada.
Ravera rimuginò qualcosa per conto suo, poi vedendo che il
commissario taceva, pensò di riempire quel buco con qualche
riflessione fresca.
“Forse è la prima volta che ci troviamo con due sospettati, la
domestica ed il nipote e nessuno dei due fa un passo falso, dice una
parola di troppo. Confidavamo nelle intercettazioni in auto, invece
Peluffo quando guida in compagnia della moglie, parla del più e del
meno, nemmeno lì si lascia andare. E che di solito la gente, anche la
più cauta, considera l’auto una specie di zona franca, pensa che,
chissà perché sulle macchine non si possano mettere microfoni…
Non l’ho mai capita”.
Poi, saltando di palo in frasca, visto che Rebaudengo sembrava
inceppato sul tasto ‘pausa’, ricominciò.
“Tu credi che l’egiziano si sia inventato tutto, o meglio, magari non
tutto, visto che un pezzo è confermato dal finanziere in pensione, ma
pensi che ci abbia ricamato sopra?”.
“Così vinceva un giro in commissariato? Non credo proprio. Quello
anche se ha un occhio di vetro, con l’altro ci vede benissimo. Non so,
non ho proprio idea di chi possa avere interesse ad uccidere la
Lysenko. Peluffo? Potrebbe essere così scemo da pensare che se
tirasse i gambini la badante, il patrimonio della zia prenderebbe la
via delle sue tasche? Non può non sapere che in caso di morte
dell’ucraina, andrebbe tutto alla figlia di lei. Se è vero che qualcuno
l’ha spinta per toglierla di mezzo, ed io sono incline a ritenere di sì,
potrebbe essere qualcuno che fa parte del suo passato e magari per
una vicenda che non c’entra un tubo con la nostra storia… E la
vecchia faccenda è confluita dentro quest’altra che conosciamo noi
per un disgraziato caso e confonde tutto… Una coincidenza
insomma… No eh? Le coincidenze non esistono: sono isole di un
arcipelago che sembrano terre separate, ma sotto il pelo dell’acqua
si vede che sono solo le punte di una catena montuosa sommersa…
Non mi ricordo chi l’abbia detto o scritto, però è un paragone
azzeccato. Non pensi anche tu, Ravera?”.
“Bartolomeo, io non penso niente. Questo è uno di quei casi in cui
esami scientifici e tecnologie non ti portano più avanti di quanto
avrebbero fatto i metodi antichi, quelli dei tempi prebellici, per
capirci. Sono demoralizzato. Qualunque idea potrebbe andare bene e
poi non ne va bene nessuna…”, e non aggiunse altro.
“È per domani pomeriggio il nostro brain storming ristretto per le
foto?”.
“Sì, verso le cinque. Viene giù anche Bottini?”.
“Sì credo di sì. Poi io e lui ci andiamo a mangiare qualcosa da
single. Vuoi venire anche tu, sono sicuro che gli farebbe piacere”.
“Cazzo, ve l’avevo detto che non poteva essere lui, a parte che è
qui, non solo non è il suo numero, ma non è nemmeno il suo stile!”,
e Martelli entrò nel suo ufficio, sbraitando verso invisibili interlocutori
oltre il muro, così contento di trovarlo lì da esibire uno sguardo
trionfante e un po’ demente.
“Cosa succede eh? Chi non poteva essere? Cosa? Dove?”.
“Venga dottore, venga a sentire! Sta succedendo qualcosa…
Venga!”.
Adesso era seduto nella stanza delle intercettazioni e ascoltava un
messaggio appena registrato.
“Pronto, signora Lysenko”, era una voce maschile, bel timbro, con
un accento inconfondibilmente piemontese, ma si sentiva male,
piena di scariche, con un’eco metallica, come se la chiamata fosse
partita da un luogo dove il segnale fosse scarso.
“Sì, sono io”, curiosità, ma anche incertezza.
“Sono Bartolomeo Rebaudengo”. Sei occhi si voltarono verso di lui
e lui, a sua volta, li guardò perplesso.
“Sì?”, il senso d’incertezza era più forte.
“Ho urgente bisogno di parlarle, ma non nel mio ufficio. Ho un
dubbio… solo lei…” scarica, silenzio “solo lei può sapere”.
“Cosa?”.
“Non adesso. Questa sera, lavoro fino a tardi, posso solo a
mezzanotte, minuto più minuto meno. In fondo al Lungo Centa di
Albenga, dove c’è il ponte della ferrovia”.
“Ma c’è buio, è brutto posto!”.
“Non si fida di me?”.
“No, non è che non mi fido, però buio, pericoloso!”.
“Quando lei arriverà io ci sarò già, stia tranquilla. È una cosa
delicata che potrebbe risolvere il caso e non voglio che per nulla al
mondo qualcuno ci noti insieme, perché farebbe sorgere dubbi sulla
mia imparzialità. So di poter contare sulla sua collaborazione.
D’altronde se non fosse una situazione particolare non la disturberei
con una simile richiesta, ma, mi creda, è la cosa migliore!”. E la
comunicazione, dopo una scarica metallica, cadeva.
Silenzio sepolcrale, occhi pieni di dubbi e paure. Chi era lo stronzo
che si faceva passare e neanche male tra l’altro, per Rebaudengo?
Non poteva essere un amico o un complice di Svitlana, perché non
avrebbe avuto bisogno di un trucco simile, a meno che… a meno che
non avesse scelto quella messinscena proprio per confonderla e
persuaderla a presentarsi a quell’appuntamento! Comunque le
intenzioni di costui non erano di sicuro benevole!
“È un’utenza sconosciuta, non risulta essere nessuna di quelle che
abbiamo incontrato nel traffico telefonico finora, sia suo che di altri
più o meno periferici a questa storia”, specificò subito Martelli.
“Allora, ascolta, fax ai gestori telefonici, porca puttana, è un’ora
del cazzo, non troviamo più nessuno! Dobbiamo sapere il prima
possibile a chi appartiene il numero che ha chiamato! Porca paletta,
non c’è tempo per andare a Genova e fare un raffronto elettronico
con le voci che abbiamo registrato in questo maledetto caso.
Facciamo così: Sciarra, trovati una donna, Dominelli, Canepa, Negri,
chi vuoi, e andate immediatamente a prelevare la Lysenko, la voglio
qui tra niente! Anzi, prima chiamatela sul suo cellulare, a quest’ora
potrebbe essere ovunque. Questa conversazione non risulta nelle
registrazioni ambientali? No? Me l’aspettavo. Allora non era in casa.
Trovatela! Si comincia ragazzi! Ravera, campami più uomini per
questa sera a mezzanotte: là dal Centa ci devono essere più sbirri
che pioppi o querce o quel che cazzo sono gli alberi che ci sono!”.
“Capo, è spento o non prende!”, era la Dominelli, andava matta
per chiamarlo ‘capo’ anche se sapeva che gli dava un fastidio bestia,
ma quando la vide comparire vestita di tutto punto e pronta a
partire, non ebbe né tempo né voglia di attaccare una filippica,
anche perché quello che aveva appena detto era semplicemente
spaventoso. Erano le sette e venti di sera anche se c’era ancora
chiaro come se fossero state le cinque, maledetto orario legale, e
avevano cinque ore per trovarla e per costruire un piano.
“Bisogna trovarla lo stesso!”.
Tanto per cambiare c’erano lavori in corso, alla foce del Centa, ad
Albenga, ci sono sempre lavori in corso. Dopo qualche esperienza
alluvionale abbastanza catastrofica, gli Ingauni hanno dedicato
tempo e denaro per fare in modo che il capriccioso torrente, un
fantasma estivo pieno di erbacce e rumenta, non si scateni più in un
fiume di melma e rumenta, (che non è stagionale) durante le piogge
invernali. Così ruspe e transenne non mancano quasi mai, e non
mancavano nemmeno quella sera. A parte un triceratopo di ferro
giallo con una benna appoggiata a terra e qualche papera
addormentata, era il deserto. I campeggi ancora chiusi, il transito
automobilistico interrotto che non invogliava l’andirivieni di auto con
le coppiette, nemmeno l’ombra di un tossico, insomma la scena era
immobile come una fotografia. L’unico movimento, peraltro
silenzioso, era quello del fiume che scorreva lento verso il mare. Era
presto anche per le rane.
Una figura di donna camminava avanti e indietro con la sigaretta
che brillava ad ogni tiro. Quell’andare avanti e indietro fumando, non
faceva venire in mente una puttana moderna, ma piuttosto
rimandava ad immagini vecchie, sfumate, sullo sfondo un boulevard
e una storia triste da feuilleton. Aveva i capelli scuri arrotolati in un
basso chignon, un cappottino aderente e casto, una borsetta
modesta e l’unica nota davvero sensuale erano le scarpe con il tacco,
che esaltavano due belle gambe dalle caviglie sottili. Intorno a lei
non c’era nessuno. Andava così, avanti e indietro a scandire i secondi
ed i minuti che passavano, davanti a quella rete di plastica arancione
che delimitava lo scavo della ruspa e che interrompeva la viabilità:
chi stava da questa parte non aveva nessuna possibilità di andare
dalla parte opposta, a meno che non si fosse azzardato a farlo
camminando nel fiume freddo e sporco. Nel suo andirivieni, di tanto
in tanto sostava vicino all’acqua, guardando il buio che regnava in
quella specie di foresta a lato del torrente, dove non si riusciva a
distinguere niente. Un airone cinerino fuori orario lanciò il suo verso
sghembo, stridente e con un fruscio d’ali si andò a posare
sull’isoletta di ciottoli poco distante. Un attimo dopo l’airone fuggì via
di nuovo, insieme ad altri uccelli acquatici, poco prima che la scena
fosse illuminata da schegge di luce in fuga, mentre l’urlo del treno
sul ponte di ferro sbrindellava la quiete della notte. Quando il
fracasso del rapido si spense, lasciando solo il ricordo rosso dei suoi
fanalini di coda che svanivano verso Alassio, gli occhi tondi di due
fari lontani, che sembravano essere usciti dal mare, illuminarono la
strada. Percorsero una cinquantina di metri e si spensero, poco dopo
anche la vettura si fermò, anche la donna che passeggiava si fermò
e lanciò il mozzicone ancora ardente della sigaretta nell’acqua, anche
il tempo si fermò. Passarono forse due minuti che sembrarono
un’eternità, poi il mezzo riaccese i fari e riprese ad avanzare. La
donna non cambiò posizione, sempre in mezzo alla strada, come un
bersaglio inquadrato dal mirino, ma la vettura non accelerò. La
donna continuò a rimanere immobile fino a quando l’auto non fu ad
una decina di metri davanti a lei. Le belle gambe erano illuminate
dagli anabbaglianti e un occhio sensibile avrebbe potuto notare il
fremito che aveva percorso i polpacci, che aveva predisposto i
tendini allo scatto, ma nemmeno allora si mosse. Ci si sarebbe potuti
aspettare un’accelerazione improvvisa, invece il veicolo concluse il
suo percorso e l’unico rumore, il ronfare al minimo del motore, si
quietò del tutto. Scesero due sagome nere, illuminate dalle sole luci
di posizione, due ombre indistinte, infagottate nei cappotti. Una
aveva le mani visibili, era quella che aveva guidato, l’altra le aveva
dietro la schiena.
La donna sussurrò: “Dottor Rebaudengo è lei? Non vedo la sua
faccia! Con chi è? In questo modo mi fa paura! Perché ha voluto che
io vengo qui?”, ed incominciò a guardarsi ai lati cercando una via di
fuga, come se si fosse resa conto solo allora di essere caduta in una
trappola e che quello, o meglio, quelli non potevano essere tutti e
due il dottor Rebaudengo.
Fu un attimo: la figura che aveva le mani libere in due balzi le fu
addosso, sebbene la sua sagoma avesse qualcosa di goffo e pingue
e l’altra brandì verso l’alto un oggetto lungo che poteva essere un
tubo o una spranga di ferro. E fu in quell’attimo che i fari di tre auto
invisibili riempirono il buio intorno, mentre Rebaudengo, quello vero,
diceva, con un accento piemontese quasi grottesco: “Non muovetevi,
siete sotto tiro. Non fate un movimento altrimenti spariamo. Non
avete nessuna via di fuga”. Intanto la Dominelli, che andava avanti
nel suo corso di Krav Maga, si lanciò sulla figura armata di spranga e
in una frazione di secondo nella quale non fu possibile capire di chi
fossero braccia e gambe, la disarmò e la ridusse faccia a terra, con il
proprio sedere sulla sua schiena. Svitlana Mychailivna Lysenko fu
presa per un braccio da Ravera e portata via da lì. Bartolomeo uscì
dall’ombra, ancora impugnando la sua Beretta 9mm parabellum,
tenendola puntata verso il basso e si avvicinò al grazioso quartetto
formato dalla Dominelli seduta sulla schiena di un personaggio e
Sciarra che teneva la canna della pistola ad un metro dalla fronte
dell’altro personaggio; le loro facce erano stupite, sebbene un vero
sbirro non dovrebbe mai stupirsi, in teoria sapendo prevedere
l’imprevedibile, perché i due personaggi erano Gioconda e
Guidobaldo Peluffo. Gioconda, donna economa più dei liguri, aveva
le mani inguantate: perché buttarli via, avrebbero potuto servire
ancora, no?
Svitlana piangeva e fumava, appoggiata al cofano di un’auto
azzurra e bianca posteggiata nel buio fitto di canne e continuava a
ripetere: “Lo sapevo, ma non ci volevo credere, non volevo credere
che era vero”, e giù nuovo fiume di lacrime.