Sei sulla pagina 1di 71

BRUNELLA GASPERINI

NOI E LORO

CRONACHE DI UNA FIGLIA


NOI E LORO

L'ultima pensata dei grandi è che vogliono portarmi dallo psicanalista. Me. Hanno
fatto un sacco di discussioni, detto un sacco di cose strane, fatto un sacco di confusione,
e hanno concluso che mi ci vuole lo psicanalista. A me.
Non che sia molto preoccupata. Lo psicanalista amico della mamma è un signore
coi baffi piuttosto simpatico che parla molto, bla bla bla, con voce morbida e suadente,
così non avrò bisogno di parlare io, e neanche di ascoltare suppongo, basterà che dica
ogni tanto be', bah, bob, come faccio sempre quando parlo coi grandi. Cioè quando i
grandi vogliono parlare con me.
Non sono preoccupata, solo non mi va di buttar via un pomeriggio in bla bla bla
solo perchè i grandi hanno letto dei libri sull'adolescenza. Anzi, sulla "età dello
sviluppo", frase che odio e che i grandi usano sempre nei miei riguardi da un paio d'anni
in qua. Qualsiasi cosa faccia o dica o mi capiti, se piango se rido se parlo se non parlo se
dico boh se scrivo poesie se il reggiseno mi dà fastidio se sono cotta dell'Antonio se
sono stufa dell'Antonio, se qualsiasi cosa, i grandi si guardano tra loro con aria esperta e
dicono: "È l'età dello sviluppo". Qualche volta dicono anche: "Sono fenomeni della
pubertà". La pubertà la odio ancora più dello sviluppo.
Ho quasi quattordici anni, e non mi piace averli. Certe volte mi sembro carina ma
più spesso orrenda. Ancora più spesso, una che non sa di niente. Certe volte sono allegra
ma più spesso triste. Crescere, trovo che è uno schifo. Portare il reggicalze e avere dubbi
su tutto. Quando ero piccola, una cosa bella era bella, una cosa brutta era brutta, io ero
io. Adesso non c’è più niente di sicuro. Una cosa brutta mi sembra bella un minuto
dopo, una cosa bella diventa brutta in men che non si dica, e in quanto a me, è come se
mi corressi dietro nella nebbia. Anche l'Antonio, quando non lo vedo, mi pare tutto fatto
di nebbia: un fantasma su una lambretta. Quando poi lo vedo, è peggio.
Comunque, nebbia o non nebbia, Antonio o no, ecco che i grandi tutto d'un tratto
scoprono che mi ci vuole la psicanalisi. Forse dopo tutto pensano che sia matta. Magari
lo sono, non lo so.
I miei fratelli non hanno l'aria di pensarlo. Che sia matta. Forse perché non sono
ancora del tutto grandi, o forse perché sono matti anche loro, non so. Comunque non
hanno l'aria di pensarlo.
"L'hai proprio beccata brutta" si limita a dire mia sorella, pizzicando la sua
chitarra.
"Beccata brutta cosa?" chiedo con la biro sospesa.
Alza gli occhi celesti: "L'età cretina" dice. "Passare la vita a scrivere poesie e cose
del genere. "
Lei alla mia età passava la vita a disegnare cavalli con le lentiggini. Adesso ha
ventun anni, fa l'università, vince un sacco di borse di studio, e passa la vita a litigare
sempre con lo stesso ragazzo. Per motivi politici. Quando ci son state le elezioni,
giravano insieme per la città a distribuire volantini, uno a destra l'altra a sinistra, senza
rivolgersi la parola e lanciandosi occhiate d'odio. Poi le elezioni sono finite, lui in segno
di pace le ha regalato una chitarra, ma la prima cosa che lei ci ha cantato sopra è stata
una canzone marxista, così hanno ricominciato a odiarsi. Si odiano per telefono, si
odiano per lettera, si odiano di presenza, si odiano sempre, e stanno sempre insieme. Poi
dice che l'età cretina ce l’ho io. Comunque credo di sapere quello che vuol dire. Non che
sono matta. Con mia sorella mi capisco abbastanza, anche se ci parliamo pochissimo, si
e no due parole in tre giorni. È anche la ragazza più bella che conosco, la Bruna. È
bellissima, credo. Ma non è quasi mai odiosa come sono a volte le ragazze belle.
Ricomincia a pizzicare la sua chitarra e io ricomincio a scrivere. Non è che intenda
diventare una specie di scrittrice come mia madre. È che l’estate è ancora lontana, siamo
a Milano, e quando siamo a Milano, scrivere è una delle poche cose che mi piace fare,
oltre sognare la Valsolda e ascoltare La battaglia di Alamo.
"Madonna" dice mio fratello. "Ancora questo frin frin. Quando ti decidi a
raffinare il tuo gusto musicale?"
Lui non parla mai di età, sviluppo, adolescenza, pubertà, credo che odi queste
cose quanto me (anche lui ha avuto una pubertà difficile, dicono i grandi). Se mi rivolge
la parola, di solito è per questioni musicali: visto che di questioni sociali, filosofiche e
letterarie non mi ritiene ancora all'altezza. Però non ha l'aria di credermi scema, anche se
lo dice: "Scema, sei scema, mia sorella è scema. Madonna che scema" lo dice sempre, ma
non credo che lo pensi davvero.
Mio fratello, lui, è il ragazzo più intelligente che conosco. È intelligentissimo,
credo. Anche se ai grandi sembra scemo pure lui certe volte, anzi il più delle volte, credo.
Ha diciassette anni. Fa l'ultimo anno di liceo e si lamenta sempre perché dovendo
studiare per la scuola non gli rimane il tempo di farsi una cultura. Tutti ridono quando
dice cosi, e lui li guarda serio dal fondo dei suoi occhi neri.
È un tipo molto serio, mio fratello, quando non fa cagnara. Quando non fa
cagnara legge, quando non legge suona, quando non suona telefona alla Tessa che è la
sua ragazza. Quando non fa nessuna di queste cose si rotola sul pavimento insieme ai
cani e ai gatti dicendo Usc, Usc, oppure, ma più di rado, si siede di fronte a me, lisciandosi
il mento come se ci avesse sotto una barbetta a punta, e cerca di farmi una cultura
musicale seria. Io ascolto, con la biro sospesa, dico sì e torno a suonare La battaglia di
Alamo. Lui non se la prende. Dice: "O Madonna" e torna di là coi suoi strumenti a fiato.
Il Bao e la Baina abbaiano. Abbaiano sempre, quando il Maurizio suona.
Fino all'anno scorso c’era anche il Bu che abbaiava, ma adesso è morto. Voglio
bene al Bao e alla Baina, ma non come al Bu. Aveva la mia età, che per un cane è tanto;
era vecchio, sordo e quasi cieco, ma stava ancora bene, rubava ancora le pantofole e
rideva con due righe bianche nel muso tutto nero, e adesso è morto. È andato sotto
un'automobile, davanti a casa, per correre incontro alla mamma. Non devo pensarci.
Il Bao e la Baina sua moglie sono due pastori scozzesi, cioè cani da gregge: non
avendo pecore a disposizione, credono che il loro gregge siamo noi e che il loro dovere
sia di tenerci in ordine. Di non lasciarci fare cose irregolari. Quando il Maurizio suona,
per esempio, gli sembra una cosa irregolare. A molti sembra una cosa irregolare. Ma gli
altri non possono abbaiare.
Così quando il papà rientra la sera, tutto intraversato per il traffico schifoso e per
la schifosa banca dove lavora e per moltissime altre cose tutte schifose che sempre gli
capitano, comincia subito a dire, cioè a urlare:
"Che cos'e tutto questo putiferio?" solo che non dice putiferio, dice un'altra parola
ma mi hanno detto che non sta bene scriverla, così scrivo putiferio: è proprio vero, come
dice mio fratello, che si vive nell'ipocrisia.
"Che cos'e tutto questo putiferio?" direbbe dunque mio padre rientrando. "Dischi,
sassofoni, chitarre, cani, ma non senti che razza di putiferio?" grida a mia madre. "Si può
sapere come fai a scrivere con un putiferio simile?"
Mia madre smette di pestare sulla macchina da scrivere e si afferra un ciuffo di
capelli in mezzo alla testa:
"Come?" dice. "È già sera?"
Mio padre, per lei, è una specie di meridiana: sulle sue entrate e uscite lei si regola
per stabilire che ora è.
Mio padre la guarda male: "Non tirarti il capello!" dice. Dice sempre così, al
singolare: "Non tirarti il capello" o: "Lascia stare quel capello" oppure, abbreviato e
tonante: "Capello!"
Mia madre sobbalza, smette di tirarsi i capelli per tre minuti o tre secondi, poi
ricomincia: è come un tic che ha quando è molto stanca o molto assorta. Cioè sempre.
"Guarda come ti sei conciata!" grida mio padre. "Guardati! Guarda lì che roba!"
Con aria vaga lei si alza e va a guardarsi vagamente nello specchio: "E pensare che
una volta ero così carina" dice. Anche la voce è vaga e anche la faccia, ma dentro si
capisce che è triste e stufa e tra poco litigheranno. Litigano sempre. Pare che li cerchino,
i motivi per litigare. E li trovano sempre. E sempre quelli. Lo so che non è veramente
importante. Che in fondo si vogliono bene e tutto quanto. Ma se ne ricordano così di
rado.
Non dovrebbe importarmene. Quando ero piccola non me ne importava, credo,
era come sentire un disco noto. Adesso è ancora un disco noto, ma così noto che viene
voglia di romperlo e basta.
Forse è vero che non sono tanto giusta nella testa. Se no non starei così male
perché due litigano come hanno sempre litigato. però non credo che c’èntri lo sviluppo o
la pubertà o simili schifi. Non so quel che credo.
"Nicolettttta!" dice mio padre affacciandosi. Dice sempre il mio nome cosi. "Tira
giù le tapparelle!" Mi dice sempre di tirar giù le tapparelle. Odio le tapparelle.
"Ti pare bello" dice mio padre "che tutta la gente della casa di fronte ci guardi
dentro? In questo putiferio di casa?"
"Boh" dico.
"Non dire boh! Sai dire solo boh! E smettila di scribacchiare!" grida strappandomi
la biro di mano e scagliandola in terra. "Cos'hai sempre da scribacchiare? Impara a
parlare, invece!"
"Maurizio!" grida. Adesso tocca a mio fratello, posso riprendere la biro.
"Maurizzzzzio! La segatura!"
In casa nostra, per via dei gatti, si fa un gran consumo di segatura; e quello che
deve andare a prendere la scorta in cantina è mio fratello, che fa finta di non saperlo e
continua a suonare Bag's groove. Dice che quando suona non ci sente.
"Metti un po' via quel trombone!" urla mio padre. Chiama "tromboni" tutti gli
strumenti a fiato di mio fratello: sassofono, flauto, clarino, per lui sono tutti tromboni.
Qualche volta, più di rado, pifferi. "Te li butto dalla finestra quei pifferi! Te li spacco in
testa quei tromboni!"
Mio fratello niente.
"Bruna!" grida mio padre. "Bruna, e tu cosa aspetti, l'Aga Khan?" Secondo lui mia
sorella, non essendo capace di far niente in casa, potrebbe sposare solo un miliardario.
"Lo scia di Persia è già sposato!" le grida. "L'Aga Khan è fidanzato! E Marx è morto! "
aggiunge ricordandosi le teorie della Bruna.
"Marx non era poi un gran buon partito" riflette mia madre dubbiosa. La Bruna
continua a suonare la chitarra.
"Rosa!" chiama mio padre, sapendo benissimo che la Rosa non c'è. "Dov'e Rosa?
Dov'è quella debilitata della Rosa?"
Da quando si è sposata, l'anno scorso, con un giovane. veneto (lei è meridionale)
immigrato a Cinisello, la Rosa non l'abbiamo più fissa, viene a giornata e finisce, il suo
disservizio alle sei e mezzo. In tempo per non incontrarsi con mio padre, del quale ha
terrore quasi quanto mio padre ne ha di lei. Quando la Rosa è in casa, mio padre non le
rivolge mai la parola, se non a distanza e a mezzo interprete. Dice che il linguaggio afro-
veneto della Rosa debilita il suo sistema nervoso. Come se non fosse già debilitato. Solo
quando è ben sicuro che la Rosa non c'è, si sfoga a chiamarla e a dirle quel che pensa di
lei e dei suoi disservizi.
"È questo il modo di piegare una camicia? È questo il modo di stirare un
colletto?"
"Signore, se non sda gondendo ga de sdirarseli lu" dice mia madre imitando il
linguaggio afro-veneto della Rosa.
"Non fare la pagliaccia!" dice mio padre. "La casa va a rotoli e lei cosa fa? La
pagliaccia!" Amareggiato, riprende a percorrere l'appartamento a passi di lupo,
impartendo ordini inascoltati. Se la voce gli si addolcisce, vuol dire che sta parlando coi
gatti. Povero gattino lui, Bella gattina lei, e via dicendo. Mio padre va matto per i gatti.
Ne abbiamo tre, adesso. Altri tre. Fino a due anni fa avevamo quattro bellissimi soriani:
la Gion, pigra e sdegnosa, tutta a righe nere e argento, il Miu e il Rififì, suoi figli
matterelloni, e il Giacinto, trovatello sporchino strabichino stupidino prediletto della mia
mamma. Sono morti tutti. I tre maschi di una malattia infettiva, e la Gion di dolore.
"Mai più gatti" ha detto quella volta la mamma. "Non parlatemi più di gatti, mai
più"
Sei mesi dopo avevamo il Pluto e la Giovanna: ovvero, Black Diamond Pluto of
Beautyland e Joanna Dominique de Richmond Bleu; goffi, tonti e pelosi da matti,
due piccoli mammut col pedigree. "I persiani non sono gatti come gli altri" diceva la
mamma, per salvare la faccia. "Non sono neanche veri gatti. Sono tipi casalinghi, non c’è
pericolo che vadano in giro a prendersi bacilli." I due nobilgatti la guardavano di sotto il
pelo, ronfando meditabondi, e poi via in cerca di bacilli. E allora, bacillo più bacillo
meno, l'anno scorso abbiamo raccolto in giardino una gattina plebea neonata e dispersa,
con due bande nere sul musino bianco, piccola come una pulce, furba come la morte,
con un'aria da angel-gattina e una voce da carrettiere ubriaco. "Euh, la Peppa! " diceva il
papà quando la sentiva miagolare; il nome le è rimasto, ed è rimasta anche lei. Sono
abbastanza simpatici, questi nostri gatti. Tutti i gatti sono gente simpatica. Però i miei
gatti sono quelli che stanno sepolti sotto il larice a San Mamete, e non saranno mai altri
che quelli.
I grandi, loro, dimenticano prima.
Dunque, dicevo, il papà va matto per i gatti. E si arrabbia perché invece i gatti
vanno matti per la mamma. Come del resto i cani, i figli, la Rosa, gli amici ed i parenti
tutti, secondo lui. Tutti stravedono per mia madre e tengono in non cale lui. Credo che
pensi cosi. Credo che sia per questo che urla tanto.
Io non lo tengo in non cale. Vorrei solo che parlasse con noi non dico con la voce
flautata che usa per i gatti, ma con una voce normale. Senza tutti quei t dentro il mio
nome. La mamma dice che non è colpa sua. Che ha fatto nove anni di servizio militare, e
gli è rimasto il complesso della caserma. Sebbene odi le caserme e tutto ciò che le
concerne. Boh.
Mi piacerebbe avere un padre come il nonno Emilio, che non alzava mai la voce e
tutti ubbidivano prima che parlasse. Ero molto piccola quando è morto, ma la mamma
ne parla spesso e credo che non conosco nessuna persona viva come conosco il nonno.
Stava su una poltrona a ruote e aveva le mani bellissime e gli occhi che sapevano tutto.
Era un uomo straordinario, mio nonno. Un po' come Atticus Finch nel Buio oltre la
siepe. Mite, ironico e giusto. È il mio migliore amico, il nonno.
Mio padre è mio padre.
Di là vengono i soliti rumori serali di casa mia, acciottolii, scrosci, musica, latrati,
grida, acqua corrente, miagolii, porte sbattute, di nuovo grida. Maurizio-segatura, Bruna-
Agakan, giù le zampe maledizione, oh povero gattino lui, dov'è quella debilitata della
Rosa?, capello!
Mia madre per la casa peregrinando va, col ciuffo in mano, pensando cose tutte
diverse da quelle che fa. Mia madre pensa sempre cose diverse da quelle che fa. Mio
padre dice che un giorno si troverà sul fondo del mare in un sottomarino e vedendo i
pesci fuori dall'oblò dirà sorpresa: "O bella, ma allora non ho preso il tassi! "
Lei dice che di sottomarini al posteggio non se ne trovano, quindi non c'è
pericolo. E poi i sottomarini non hanno oblò. Vero Maurizio?
"Cosa vuoi che sappia il Maurizio" dice mio padre. Per lui il Maurizio non sa mai
niente. E troppo colto per sapere qualcosa.
"Mettete in ordine" dice mia madre spostando un po' di oggetti per far vedere che
a una donna di casa. "Cosa vi ci vuole a mettere in ordine le vostre stanze?"
Come se lei mettesse in ordine la sua.
In casa mia nessuno mette in ordine niente e tutti accusano gli altri di non mettere
in ordine. L'altro giorno, quando si è trovato il sassofono nella lavatrice, la Rosa
accusava il Maurizio di avercelo messo per sabotare i suoi bucati, il Maurizio accusava la
Rosa di avercelo messo per sabotare i suoi assolo, mentre poi si è scoperto che ce l'aveva
messo mia madre in uno dei suoi momenti di trance.
"Credevo di aver messo i calzini nella testa," ha spiegato "e invece ho messo il
sassofono nella lavatrice. "
Mio padre dice che un giorno mia madre crederà di mettere il sale nella minestra e
invece metterà il tritolo sotto il letto.
"Voi non lasciate in giro tritolo,'' dice la mamma "e non succederà niente."
Mio padre non sembra persuaso, da come la guarda. "Non tirarti il capello" dice
macchinalmente, ma si vede che pensa ad altro. Al tritolo, forse. E a me dice:
"Allora, queste tapparelle? Parlo arabo? Tappa-rel-le!"
Le tiro giù e mi sento molto infelice. Per le tapparelle e per mio padre e per mia
madre e per tutto. Siamo tutti così soli. O forse sembra a me, non so. Tutti parlano,
parlano, ma non si ascoltano mica. A me non sembra che la gente ascolti la gente.
Loro dicono che sono io che non ascolto. Che non parlo, che sono astratta, che
non sto mai su questo mondo, e bla bla bla. Dicono che ho le inibizioni e le coazioni e le
nevrosi della pubertà. Bla bla e bla.
Certo che questo mondo non mi piace molto, e se posso non ci sto. Ma non è che
sono astratta. Non so cosa sono. Non mi piace esserlo. però non mi piace neanche
andare dallo psicanalista. Cosa vuoi che sappia lui di me. I grandi non sanno mai niente.
Forse mia madre saprebbe, ma non ha tempo, si distrae e si dimentica di lei e di me.
Forse per capire che cosa sono dovrei psicanalizzarmi da me. Risalire al principio
e così via, ma dov'è il principio? Quando ero piccola, ero libera e felice. Quand'è che ho
smesso di essere piccola? Quand'è che mi sono trovata così, tutta legata e piena di storie?
Reggicalze, reggiseno, reggipensieri, storie su storie? Certe volte le mie storie mi
piacciono, certe volte no. Più spesso no.
Avrei dovuto scrivere questo quaderno tanto tempo fa, quando ero sgrammaticata
e sicura di tutto quel che dicevo e che gli altri lo capissero. Libera. Non sarò mai più
libera. Quando ci penso, è terribile.
Le cinghie delle tapparelle sono dure, a meta si incantano sempre, e anch'io. Fuori
piove. Dalla mia finestra si vedono tante altre finestre. Non è la mia casa, questa. È solo
la casa in cui abito aspettando l’estate. La mia vera casa è piccola, rossa, coi piedi in lago
e i ghiri sul tetto e un vecchio giardino dietro coi tigli il larice i noccioli e un oleandro
bianco. Basta chiudere gli occhi e la vedo. Ricordare. Ricordare mi piace. Molto più che
vivere.
Vivere, trovo che non ha mica molto senso. Ha senso, la vita di mio padre, andare
in ufficio al mattino e tornare a casa la sera a urlare? Ha senso la vita di mia madre, fatica
trance antinevralgici e mucchi di allegria compressi o sprecati?
Forse ci sarà, un senso, ma quando lo capirò sarò vecchia. Non voglio diventare
vecchia.
Meglio tornare indietro. Basta chiudere gli occhi. La darsena, il lago, la valle verde,
il fiume, le montagne su cui volano i nibbi. La voce della Rosella che mi chiama dal molo
e l'Antonio che gonfia il canotto di gomma e dice...
"Nicoletttta!" non è l'Antonio, è mio padre. Le tapparelle, le tapparelle, va bene.
La casa rossa a scomparsa, scomparso il molo, l'Antonio, l’estate. Aspettatemi,
torno.
Giù le tap-pa-rel-le.
CIAO, PRINCIPESSA

"Dai, muovetevi, deficienti, forza, dai! " grida una voce nel corridoio, e questo è il
mio risveglio mattutino.
Svegliarsi, trovo che è uno schifo.
A San Mamete no. E bello svegliarsi, là. La prima cosa che sento sono gli uccelli,
poi il lago che gorgoglia di sotto, e quando apro gli occhi c'è un colore verde nell'aria
rigata dalle vecchie persiane. Poi si sentono le voci. Voci estive, senza fretta, tutte
giovani. Anche la mamma ha una voce giovane, a San Mamete. Qualche volta anche il
papà, quando c'è. Io ascolto le voci, il lago, gli uccelli, e mi sveglio a poco a poco in quel
colore verde.
Poi apro le persiane verso il giardino, e lì sul prato c’è l'Antonio che aggiusta la
lambretta. L'Antonio aggiusta sempre qualcosa. Se non è la lambretta, è il canotto di
gomma, o il ping pong, o qualsiasi cosa gli capiti, e poi tutto risulta più rotto di prima.
"C’è l'hai un cacciavite?" dice pulendosi le mani nella maglietta a righe rosse e blu.
"Se hai un cacciavite, dopo ti porto in lambretta."
Ma non ho il cacciavite. E non voglio andare in lambretta con lui. Tutto è
diventato molto difficile. Fino all'estate scorsa non lo era. Andavamo insieme su per i
sassi del fiume e in barca e sentivamo gli stessi dischi e lui era gentile con me (zulù con
tutti gli altri) e io credevo che bastasse. Poi l’estate è finita e l'ho visto con delle ragazze
più grandi e ho capito che non bastava. È stato brutto, capirlo. Niente è più stato come
prima. Non voglio pensarci.
Preferisco pensarlo lì sul prato che aggiusta la lambretta con la maglietta sporca
d'olio e le cicale che cantano sopra la sua testa, in un'estate immaginaria, sospesa tra il
passato e il futuro.
Comunque non ho tempo di pensare un bel niente, devo alzarmi. Alzarsi, trovo
che è uno schifo.
"lo sono in piedi da un'ora!" grida la voce nel corridoio "e questo deficiente a
ancora lì con una calza in mano.''
Quello che è in piedi da un'ora è mio padre. Quello che ha una calza in mano è
mio fratello. Tutte le mattine.
"Qui finisce a sberle" grida mio padre, che non ha mai preso a sberle nessuno.
"Schiaffoni, schiaffoni!" ribadisce tra un colpo di tosse e l'altro. Siccome fuma
moltissimo, al mattino ha sempre la tosse, e più tossisce e più grida.
"Mgnr nu go nu" risponde mio fratello mentre si infila la calza. Cioè mentre cerca
di infilarsela, a tentoni, con gli occhi chiusi e quei suoni che gli vengono su come da una
caverna.
"Parla chiaro!" grida mio padre. "Non garufare!" Garufare è un verbo che gli
piace molto." Guarda che stamattina non ti aspetto! Non sono il tuo autista! Parto e ti
lascio a piedi!"
Glielo dice tutte le mattine. E tutte le mattine lo aspetta. Mio fratello lo sa.
"Gr no un pgnu" risponde mentre cerca di infilarsi l'altra calza.
"Bruna!" urla mio padre risalendo il corridoio. "E tu cosa aspetti a tirarti fuori?
Carlo Marx?" Quando parla con mia sorella, nomina Marx ogni due frasi.
"Sto studiando" risponde dal chiuso la voce martirizzata della Bruna.
Le lezioni all'università cominciano tardi, la Bruna potrebbe andare avanti a
dormire altre ore, ma mio padre non sopporta che i figli dormano mentre lui è sveglio.
Mia sorella lo sa. Perciò sta seduta sul letto con un libro in mano, probabilmente
capovolto, aspettando che mio padre sia uscito per lasciar cadere il libro e risprofondare
nel letto e nel sonno. Mio padre credo che lo sospetti, ma non ne ha le prove e non sa
come procurarsele, visto che non osa più entrare all'improvviso nella stanza di una figlia
così grande. Si limita a guardare con diffidenza e furore la porta chiusa. Poi viene a
spalancare la mia.
Orc! " dice richiudendola subito: vedendomi alle prese col reggicalze si è ricordato
che sono diventata grande anch'io.
"Com'e che ti stai già alzando?" dice arrabbiatissimo dietro la porta. "Non potevi
stare a letto ancora un po'?"
Stare a letto mi piace. Ma al primo urlo mattutino di mio padre mi alzo subito,
non perché abbia paura di mio padre, ma perché ho paura che mi facciano fretta. I miei
genitori hanno sempre fretta: dai, forza, su, muoviti, avanti, presto. Odio far presto.
Odio la fretta e il forza dai. Deve essere una nevrosi anche quella lì.
I miei fratelli di nevrosi non ne hanno. Hanno sonno e basta.
Mia madre, anche lei ha sonno. Però anche lei al primo urlo si alza, non si capisce
bene perché, dato che non connette e non fa altro che vagare sbadigliando qua e là col
ciuffo in mano e sciami di cani e gatti attorno, dicendo vagamente: non gridare che ho
mal di testa, fate presto, parla piano, su muovetevi, ahi la mia testa. Cosa che manda in
bestia mio padre, e dopo oltre vent'anni di matrimonio lei dovrebbe essersene accorta,
invece no. O forse se n'è accorta, ma si alza proprio per questo, per sviare gli urli paterni
dai figli offrendo se stessa come bersaglio. L'aria eroica ce l'ha.
Il risultato è che mio padre urla anche con lei.
Uscendo di camera la trovo appiattita contro il muro, con la sua vestaglia a puntini
e l'aria da sonnambula, mentre mio padre passa rombando avanti e indietro come una
palla da cannone con la tosse. Il Bao e la Baina, stretti alle gambe di mia madre,
uggiolano perplessi. Fanno sempre così quando mio padre grida. Vorrebbero mettergli
ordine, ma non osano.
Con un terribile GNAU GRRAU AU AU la Peppa gli zompa in spalla dandogli
rapide musate di simpatia. Mio padre le piace molto, alla Peppa: tra urlatori ci si capisce.
Il Pluto invece fugge via per il corridoio, slittando paurosamente, le orecchie indietro, gli
occhi arancione sbarrati, il pelo tutto irto. Grosso e truce com'e, con quell'aria da pantera
nera cotonata, è il gatto più goffo, affettuoso e fifone che abbiamo: eccolo che rotola tra
i miei piedi facendo ih ih, che e il suo modo di miagolare. Grosso gattonero con piccola
voce bianca. "E questo sarebbe il nostro stallone" dice teneramente mia madre. "Con
quella voce lì, come vuoi che faccia a far gattini." Come se i gattini si facessero con la
voce. Sbattendo gravemente gli occhi gialli sotto il pelo grigio, la Giovanna siede come
un mammut in mezzo al corridoio, meditando sulle cose umane. Non fa altro, la
Giovanna. Come la gatta Gumbie Cat di Thomas Eliot " ella siede e siede e siede e
siede - ecco quello che fa". È la gatta più scema che abbiamo. "Cosi scema," dice
amorosamente mia madre "come vuoi che faccia a far gattini." Come se i gattini... boh.
Sulla porta del bagno piccolo mi incontro con mio fratello. Ha tutte e due le calze,
ma gli occhi circa chiusi.
"Usc" dice con gentilezza. Significa che io devo aspettare e lui entrare. Infatti
entra.
Potrei andare intanto nel bagno grande, che è libero, ma tutte le mie robine,
spazzole spazzoline, spugne spugnette, saponi saponcini, pomici pomicine, le ho nel
bagno piccolo, e senza robine come faccio? Mia madre dice che ho la nevrosi delle
robine.
Mi appoggio allo stipite del bagno piccolo, prendo in braccio il Pluto col motore
acceso, e aspetto. Aspettare non mi dispiace. Si può pensare, intanto.
San Mamete, l’estate. Un mattino di luglio qualsiasi. Nell'aria verde della mia
soffitta (la mia stanza è in soffitta) si disegna la voce della Rosella che mi chiama dal
molo. La Rosella ha quattordici anni, gli occhi azzurri, quando ride assomiglia a un
castoro, e passa tutte le estati nel giardino dei suoi nonni, che è quello di fianco al nostro,
al di là del molo.
"Nicoletta!" chiama la sua voce nell'aria verde. " Vieni in barcotto?"
Il barcotto è una vecchia barca corta e grassa che usano la Rosella e i suoi fratelli e
prima di loro usavano i loro genitori, i nonni, i bisnonni e così via. Proprio come noi col
canotto Domokos, prima che l'uragano lo sfasciasse, l'anno scorso, una notte che s'era
slegata la corda e noi non c’eravamo. Aveva cento anni, è stata come la morte di una
persona che si ama. La sua prua sta nel verandone a lago, piena di fiori.
Così noi siamo rimasti senza barca, tranne quelle di gomma che non contano, non
cigolano neanche, non hanno ricordi. Non sono barche.
"Un'altra barca?" dice la mamma quando il papà arrivava a San Mamete pieno di
prospetti e di prezzi di barche. Lei non li guarda nemmeno. Guarda, di sfuggita, la prua
del Domokos piena di fiori e di infanzie lontane. "Noi non vogliamo nessun'altra barca"
dice.
In fondo neanche il papà la vuole, credo. Solo che gli piace parlare di acquisti, di
prezzi e di soldi da spendere. Che non abbiamo. Quando li abbiamo gli piace meno. Li
spende e basta.
Dunque la Rosella mi chiama dal molo per andare in barcotto, e...
"Dudududaa duda dududaaa", non è la Rosella, è mio fratello che esce dal bagno;
con gli occhi aperti, sebbene non molto svegli, e l'astratto canticchiare che gli è proprio e
che mio padre chiama, con disprezzo, duduare. "Smettila di duduare, deficiente! Sei
ancora lì a duduare?''
"Comoda comoda" dice mio fratello indicandomi il bagno, e se ne va duduando.
"Comodi comodi" è una frase che dice sempre il suo preside quando entra in classe, per
dire che si siedano pure. Adesso tutti gli studenti del suo liceo la usano per un sacco di
cose, e anche le famiglie degli studenti.
Io metto giù il Pluto ("comodo comodo") e mi addentro nell'alluvione tra isole di
segatura. La segatura dipende dal fatto che il bagno piccolo è riservato, oltre che a me e
mio fratello, anche ai gatti. L'alluvione dipende dal fatto che ci si è appena lavato mio
fratello. Comunque le mie robine sono a posto, perché se me le toccano ci patisco e mio
fratello lo sa. Non le tocca mai. Nello specchio appannato dal vapore la mia faccia sotto
la fascetta di nailon solito mistero. Faccina tonda, naso all'insu, occhi marrone, un sacco
di capelli nocciola. I pezzi li conosco, ma l'insieme? Cerco di guardarmi come mi
guarderebbe un estraneo ma non ci riesco. Boh. Ha inizio la cerimonia robine.
Fuori sono ricominciati i boati paterni:
"E lui dudua! Sono le otto meno tre e lui cosa fa? Dudiza! Gliene importa assai, a
tuo figlio, se io perdo il posteggio! E digli qualcosa! Sgridalo anche tu, invece di star lì a
dire non gridare. Come si fa a non gridare, in questa casa di lavativi!" Lavativo (lavativa,
lavativi, lavative) è un vocabolo che mio padre usa spesso, la mamma dice che è un
residuato bellico. "Tu tieni sempre per loro!" grida mio padre. "Loro" sono i figli. Per
noi, "loro" sono i genitori. "Tu non li sgridi mai! Per forza va tutto a ramengo! Non c’è
disciplina in questa casa!"
Immagino la faccia sofferente di mia madre alla parola disciplina.
"E già, sei democratica, tu!" interpreta mio padre con voce sardonica. Quando è
sardonico è tremendo. "Sei anticonformista! Qui a furia di anticonformismo democrazia
e altre balle" lui dice così "si finisce nell'anarchia."
"Io sono anarchica" dice la voce di mia madre, flebile ma convinta. "Ahi, la mia
testa."
Adesso sono capaci di andare avanti mezz'ora. Con tutta la fretta che hanno
sempre, perdono tre quarti del tempo a dire e fare sempre quelle cose. Intanto si
dimenticano di far fretta a noi, e questo dovrebbe essere un vantaggio. Lo sarebbe se
fossi sorda. Ma non lo sono. Tutte le mattine la stessa storia, c'è senso? C’è senso anche
a guardare quella mia faccia lì nello specchio, tutte le mattine? Boh.
Lo specchio appannato diventa un lago, la mia faccia una piccola vecchia barca
che cigola via sull'acqua verde.
"Non potete andare in barcotto!" grida dalla riva la voce del Federico, fratello
della Rosella. "Non potete andarci! Fa acqua!"
Da quando sono nata sento dire che il barcotto fa acqua, che non ci si può andare,
e da quando sono nata tutti ci vanno. Era lo stesso col Domokos. Certo anche ai nostri
nonni e bisnonni qualche fratello o cugino avrà gridato dalla riva: "Non potete andarci!
Fa acqua!" e loro saranno sguazzati via tranquilli, come me e la Rosella adesso, una
remando e l'altra vuotando acqua col pentolino, verso la riva opposta, deserta e
frusciante, dove in giugno si trovano le fragole e in agosto le more e in settembre il
profumo dell'olea fragrans e sempre si chiama l'eco della conca (Nicoletta! Etta! Rosella!
Ella! Scemo! Emo!) e si esplorano sentieri selvaggi e si scalano dirupi e si casca in acqua
vestiti e si perdono i sandali, e la nonna della Rosella dice: "Non avrete perso di nuovo i
sandali!", ma certo anche lei cento anni fa ha perso i sandali nella conca della riva
opposta. E certo anche lei ha giocato e inventato storie nella Casa dell'Inglese.
"E mi raccomando, non andate alla Casa dell'Inglese!" ci dice ogni volta.
"Potrebbe crollare la scala! Potrebbe cadervi una trave addosso! Potrebbe mordervi una
vipera! " e non dice la sola cosa che pensa: potrebbe tornare l'Inglese. "Non andateci, vi
raccomando!" ci grida dietro per un po', ma fiaccamente, perchè sa che ci andremo lo
stesso; non per disubbidienza, ma perché quando arriviamo alla conca dell'eco e la Casa
compare dietro gli scogli, antica e segreta, col cielo attraverso i buchi delle finestre, e
impossibile non andarci. È come una voce. La voce dell'Inglese, che era un poeta o un
pazzo e aveva ucciso un uomo.
Noi non l'abbiamo mai conosciuto. Forse è morto, certo non è più tornato. La
mamma sì l'ha conosciuto, e quando ne parla ha una voce strana, giovane e remota,
come una fiaba, ma non è una fiaba, e quando noi corriamo su per le scale diroccate,
tutte coperte d'edera e di felci, ci aspettiamo quasi di trovarlo lì seduto nell'arco della
finestra grande, la pipa tra i denti, il fucile sulle ginocchia, il cane ai piedi, a guardarci coi
suoi chiari occhi di vagabondo, e non abbiamo paura: è un vecchio amico, l'Inglese.
Speriamo sempre che un giorno tornerà. Forse sarà quest'estate. Amava la Valsolda
come noi, se è vivo non può non tornare.
Anche la mamma spera che torni, credo. Lei non ha smesso di credere alle favole,
anche se non ha più tempo di pensarci.
Così, mentre leghiamo il barcotto, la Rosella dice: "In fondo, non abbiamo mica detto:
sta' tranquilla, nonna, non andiamo alla Casa dell'Inglese" e qui fa la voce in falsetto, come
sempre quando riproduce un dialogo, vero o inventato che sia. "Non abbiamo detto niente.
Zitte e basta. Dunque non è reato. Ti pare reato?"
"No" dico. È quasi sempre lei che parla, io dico lo stretto necessario.
"Allora ci andiamo?" dice. "Sì" dico. E ci andiamo.
Le felci frusciano sotto i sandali che non abbiamo ancora perso, e l'eco della conca ci
restituisce la voce del vento.
"Allora, ti sbrighi?", non è la voce del vento, è la voce di mio padre dietro la porta
del bagno. Lo sapevo che finiva così. Nello specchio il lago è scomparso, scomparsa la
Casa dell'Inglese, le felci, la Rosella, l’estate. C'è la mia faccia di tutti i giorni, tondina e
senza sugo. La faccia di una che sta per andare a scuola.
"Cosa ci fai lì dentro" grida mio padre. "Gli esercizi spirituali?" È una frase che
dice sempre quando uno tarda a uscire dal bagno.
A me viene il rallentatore. È una cosa che mi succede sempre quando mi fanno
fretta. Più mi fanno fretta e più rallento e non c'è niente da fare. Col rallentatore apro la
porta, col rallentatore esco, e mio padre mi accoglie con una serie di urli, sempre quelli.
Incantata, lavativa, esercizi spirituali, e così via. Sento che mia madre si intrometterà.
Infatti si intromette: "Non aggredirla sempre!" dice. "Lo sai che Olivieri ha detto
che..."
"Me ne frego di Olivieri!" dice mio padre.
Olivieri è lo psicanalista coi baffi, amico di mia madre. Non di mio padre, che
riversa su di lui il più acuto disprezzo. Cacciaballe, lo chiama. Quel cacciaballe del tuo
Olivieri. La psicanalisi son tutte balle. E per confermare queste sue opinioni mi
aggredisce ancora di più.
"E tu non metterci becco!" grida a mia madre che mi difende. "Sei tu che la rovini!
Tu che le riempi la testa di balle! E poi chi aggredisce nessuno? Io voglio solo salutarla.
Neanche questo vuole, il tuo Olivieri? Non è permesso salutare i figli prima di uscire?"
Lui li chiama saluti, questi.
Vorrei sorridergli, dirgli ciao papà, non prendertela, ciao. Ma non so farlo. Le ho
dentro di me, le cose, ma non mi riesce di liberarle. Mi sembra di essere tutta fatta su nel
fil di ferro.
"Ciao" dico.
"Ciao, principessa" dice. Quando si sforza di essere gentile, ecco che mi parla
come se avessi tre anni e mi chiama principessa. Qualche volta duchessa o contessa.
Preferisco quando urla.
"Ciao" ridico, dalla mia gabbia di fil di ferro.
Sento la sua guancia ispida, il suo odore di sigarette e i suoi nervi logori, poi
marcia di nuovo su mia madre, questa volta per dirle:
"Ciao, Osso". Siccome è magra, la chiama sempre Osso, e adesso la chiamano
Osso anche i parenti, gli amici, i conoscenti e tutti quanti. "C’è la signora Osso?" ci
chiedono qualche volta al telefono. Forse lo credono un nome d'arte.
"Ciao, Osso" e le prende una mano e se l'appoggia su una guancia, che è il suo
modo di salutarla e certe volte mi fa rabbia. Perchè litigano tanto, allora?
La mano ricade e mio padre se ne va, in una nuova ondata di urli. Il Maurizio lo
segue, galleggiando sugli urli come un turacciolo sulla scia, col suo pacco dei libri e il suo
remoto duduare. Passando davanti alla mamma le ammicca rapido dal fondo dei suoi
occhi neri. Mio fratello e mia madre si sono molto simpatici.
Poi il cancello di fuori sbatte fragorosamente sul padre, sulla scia degli urli e sul
figlio turacciolo.
Sploc, si sente dalla stanza della Bruna: è il libro che è caduto per terra.
Buonanotte. Il Bao e la Baina, liberi dalla soggezione del Padrone, si scatenano in urli
frenetici e frenetici caroselli intorno al gregge formato da mia madre, dai gatti e da me.
Mi infilo il soprabito di pelle nera che amo molto e il berretto nero alla fantina che
amavo molto in principio, adesso un po' meno. "Dov'è il cavallo?" mi chiedono per la
strada. Oppure nitriscono.
" Stai bene? " chiede mia madre. D'umore, intende.
Me lo chiede sempre, con voce leggera ma con l'ansia dentro; e io le rispondo
sempre "bene", anche se in realtà non sto bene affatto. Lei lo sa, ma non può fare a
meno di chiedermelo, e poi di farsi venire il nervoso per avermelo chiesto.
Il guaio di mia madre è che capisce troppo, specialmente i suoi sbagli, e non sa
metterci rimedio. Certe volte vorrei che non capisse niente, come quasi tutte le altre
madri.
Che pasticcio, le famiglie. Le madri, i padri, i figli. O forse sono solo io che sono
un pasticcio? E quel che vorrei riuscire a capire. Da me. Senza psicanalisi e altre balle,
come direbbe mio padre.
Ma se non sono balle? Sì che lo sono. Boh.
"È un'età maledetta" sospira mia madre. "La tua, dico." Di colpo sorride: "Anche
la mia non scherza". Quando sorride, è come una tonnellata di allegria che si fa strada
attraverso un passaggio molto stretto. Mamma, ti sono un po' simpatica? Che mi vuoi
bene lo so.
"Ciao" dico.
"Poi passa" lei dice, credo che parli ancora dell'età. "Dovresti solo sforzarti di
stare un po' di più su questa terra."
Come se lei ci stesse.
Le ridico ciao e la lascio lì tra il carosello dei cani, col suo mal di testa e la sua
allegria compressa, e un'altra giornata è in cammino: scuola, lavoro, strade, tutti che
parlano, nessuno che ascolta, fate presto, mettete in ordine, bisogna vivere su questa
terra. Sarà. Per me, è ancora da dimostrare.
QUELLI DELLA MIA ETÀ

Quando esco, le strade sono piene di ragazzi e ragazzini che vanno a scuola. Il
che, secondo la gente, dovrebbe mettere allegria. Non a me. Andare a scuola, trovo che
è un po' uno schifo. I ragazzi che ci vanno, pure. Me compresa, intendo. Da qualche
parte della città anche l'Antonio e la Rosella, ognuno per proprio conto, stanno andando
a scuola; ma non è un pensiero che mi consoli. Anzi. Due pezzi di San Mamete che
vanno a scuola, uno con la cravatta, l'altro con le calze di nailon, che tristezza! Tornerà
mai l’estate?
Devi imparare a vivere nella realtà, dice mia madre. Ma dovrei proprio?
"Salve, Gamberini" dice una voce di naso dietro di me.
Ecco la realtà. La Gamberini sarei io e la voce di naso appartiene a un mollusco
che viene alla mia scuola, coi foruncoletti e la frangia alla Beatles. E pazienza i
foruncoletti, ce li ha anche l'Antonio, e delle volte anch'io, ma odio le frange alla Beatles.
Questo poi si chiama Rodolfo, che sarebbe ancora niente, ma si fa chiamare Rudi, anzi
Rudy con la ipsilon. Odio la ipsilon. E poi non ha mento. Odio la gente senza mento. E
poi è scemo. Non scemo per modo di dire, proprio scemo. Non che l'Antonio sia un
intellettuale. Ma intanto ha il mento. Poi non si fa chiamare Tony e nemmeno Toni. Poi
non ha frange. E poi è l'Antonio.
L'Antonio, le stelle sul molo, le cicale dei giorni di sole. "Cicala, felice te... "
Rieccomi .con le poesie.
Devi imparare a vivere nel presente. E va bene, andiamo avanti con questo
Rodolfo.
"Ciao" gli dico.
"Dove ce l'hai il cavallo" dice. Ecco cosa dice.
Sono sei mesi che porto il berretto alla fantina e sono sei mesi che tutte le mattine
mi chiede dove ce l'ho il cavallo. Lo chiede anche a tutte le altre ragazze col berretto alla
fantina. I molluschi fanno cosi.
I molluschi, per mia sorella e per me che abbiamo letto Charlotte. Bingham,
sarebbero tizietti senza sugo. I tizietti sono i ragazzi dai quattordici ai diciotto anni; dopo
i diciotto diventano tizi e non mi riguardano dopo i venticinque diventano tizioni e non
riguardano piu neanche mia sorella. Tutti comunque, tizi tizietti e tizioni, possono essere
molluschi: se non hanno sugo. Quelli della mia scuola non ne hanno. Questo Rodolfo
poi, neanche una goccia.
Il fatto è che non ha niente da dirmi, nè io a lui. Facciamo la strada insieme tutte
le mattine e tutte le mattine stiamo zittini zittini finchè non incontriamo la Sandra con la
sua aria allegra, la sua voce pronta e i suoi patasgulp. ("Patasgulp!" è il grido che emette
quando inciampa o sbatte o cade, cioè continuamente. "Mio Zio!" è invece il grido di
quando si arrabbia e non vuol nominare il nome di Dio invano). La Sandra è la mia
compagna più simpatica. Le altre parlano solo di scuola e di professori carogne (tutti i
professori sono carogne, per loro), oppure di reggiseni, tacchi, calze di nailon, filarini
loro e altrui, e io mi stufo. Anche loro si stufano con me, credo. I ragazzi lo stesso. Tutto
quello che interessa a me, le poesie, l'antico Egitto, far cagnara, Van Gogh, le bestie, Il
giovane Holden, scrivere, la storia del cinema, essere triste, Il Gattopardo, lo yoga, niente gli
piace. Neanche giocare gli piace, sono troppo vissuti per giocare. Sono dei morti di
sonno, secondo me. Si interessano solo di canzonette, di calcio, di filare o far finta di
filare, con chi gli capita, e farlo sapere a tutti. Boh.
Mia madre dice che sono io che sono intollerante. Che non gli dò spago. Che i
ragazzini non sono così scemi come sembrano.
"È vero" dice mio fratello con la sua voce grave. " Sono più scemi di come
sembrano.''
Anche mio fratello, dicono i grandi, "fa fatica a inserirsi". Inserirsi, se ho ben
capito, significa accettare la gente scema e la vita scema dicendo: oh che bella vita, oh
che brava gente, farò anch'io cosi. Allora, io non voglio inserirmi. Preferisco restare sola.
Non che sia bello esser soli. Vorrei avere degli amici. Ma non dei molluschi.
Veramente, un amico ce l'ho. Non l'Antonio, dico; l'Antonio è un'altra cosa. Il
mio amico si chiama Nicola, ha diciotto anni, è il ragazzo più simpatico, più matto e più
serio che conosco, e lo conosco da quando son nata; passiamo insieme tutte le estati.
Durante l'anno sta in un collegio svizzero dove gli allievi portano il saio e nelle ore libere
vanno a sciare; mi scrive lettere bellissime (certi pezzi li so a memoria), si interessa di
tutto quello che mi interessa, ci scambiamo poesie, parliamo di cinema, di religione e di
tutto. Mi assomiglia anche di fuori, il Nicola, ha il naso in su come me, e gli occhiali a
rettangolo, che mette un po' sì e un po' no, come me. Anche lui non fa che sognare
l’estate e San Manete. Tutte le sue lettere sono piene di ricordi uguali ai miei.
Per esempio scrive: "Ti ricordi il quadrivacco?" e subito io vedo una sera di
fine settembre, tersa e fredda, il fuoco acceso sul molo, e noi quattro (io, i miei fratelli e
lui) seduti intorno a fare il bivacco, e siccome eravamo in quattro (tutti gli altri erano già
tornati a Milano) il Nicola diceva il quadrivacco. Cantavamo "Avevamo vent'anni" e la
chitarra della Bruna era triste e il fuoco rosso crepitava e l’estate moriva, e questo è stato
il quadrivacco.
Un'altra volta ha scritto: "Ti ricordi di là dal lago, la faccia di tua mamma
quando si a rotto il manico del Paiolo?" Il paiolo, anzi il Paiolo, ce l'aveva prestato,
con molte raccomandazioni e dietro molte insistenze, la nonna della Rosella, di cui mia
madre ha una paura terribile, dall'infanzia credo. Ne erano successe di tutte quel giorno,
come sempre quando mia madre organizza o partecipa a una gita: era crollata la tenda,
s'erano rotte le bottiglie per l'acqua (così tutti bevevano vino), i cani avevano mangiato
tutto il burro, erano annegate le scatolette di carne, il fratello della Rosella s'era
sbronzato, nella farina gialla c’erano i bachi, era venuto un acquazzone e il fuoco s'era
spento, mio fratello e il Nicola avevano fatto il bagno sotto la pioggia con l'ombrello il
cappello la pipa e il Nicola aveva pure gli occhiali, diceva che gli tenevano caldo, poi per
asciugarsi s'erano rotolati nel fieno e così c’era fieno dappertutto, nel vino, nei cani, nella
polenta, negli occhi dappertutto, e mia madre niente, anzi, più disastri succedono più lei
se la gode, ma mentre rimestava la polenta sotto l'ombrello canticchiando serafica tra un
vorticare di cani urlanti, salsicce deformi, fieno bruciacchiato, ragazzi alticci, poc!, le si
rompe il manico del Paiolo. A momenti sveniva.
"Che cosa dico alla signora Carla" continuava a gemere mentre riattraversavamo il
lago al ritorno. "Era un paiolo di famiglia! Dovevano ereditarlo i suoi figli! Non avrò più
il coraggio di guardarla in faccia!"
Poi il fabbro Giacomo, in nome dell'antica amicizia (e della comune paura della
signora Carla) ha clandestinamente aggiustato e rilucidato il Paiolo in un'ora, coi ragazzi
che facevano il palo davanti alla bottega, e quando glielo abbiamo riportato la nonna
della Rosella continuava a dire:
"Ma guarda come mi hanno pulito bene il paiolo questi ragazzi. Sono proprio dei
bravi ragazzi. Un po' vivaci, ma bravi".
Era così soddisfatta del paiolo che non s'è neanche accorta che suo nipote
Federico era sbronzo morto e le ciondolava intorno canticchiando con voce sciocca
tiritere come: "Paiolino paiolone m'hai rubato il corazone", "Paioletto paiolotto ci puoi
fare lo stracotto".
Ecco, basta una frase del Nicola per far tornare vivo tutto questo, insieme
all'odore del lago, di polenta bruciata, di cani bagnati, di legna, e il cigolio delle vecchie
barche cariche di ragazzi, e le voci consuete dalla riva: "Non potete andarci! Fanno
acqua!" e l'eco beffardo della conca: "Arci! Acqua".
Sono sicura che il Nicola ricorda tutto quello che ricordo io, uguale. E questo,
credo, a esser amici.
Un'altra volta scrive: "Ti ricordi la faccia della Cuginona la sera del
campanello del farmacista?" ed ecco è una sera di luna, a mezzanotte, i ragazzi sono
tutti in giro, io no perché sono troppo piccola (avevo dodici anni: comunque c’era già
l'Antonio in ballo) e sto con mia madre sulla scaletta a lago a guardare la luna (quando
c’è la luna non andremmo mai a letto), poi si sente la voce stonata del cancello, un gran
parlottare e correre di sandali sulla ghiaia, ed ecco l'orda dei ragazzi, molto eccitati, con la
Cuginona in testa.
La Cuginona è la nostra cugina più grande, ha venticinque anni ma non è
assolutamente una tiziona non è neanche una tizietta, è una bambina, solo molto
cresciuta in lunghezza, larghezza e spessore. Non finisce mai, la Cuginona: tutta grande,
tutta soffice, tutta bionda, con tutti che le fischiano dietro per la strada, le capitano un
sacco di guai, e certi sono stati guai terribili, ha pianto tanto e noi abbiamo pianto per lei,
ma non è cambiata, è sempre la Cuginona pasticciona dai dolci occhi stupiti, che fa
ridere tutti. "È una svitata" dice mio padre. "È una balorda, una cercagrane." Però guai
se lo dice qualcun altro. Una volta che la signora Vailati, anziana villeggiante di San
Mamete, è andata in giro per il paese a dire che la Cuginona, "be' insomma, mi dispiace
per sua zia, ma non ha un comportamento molto serio", mio padre ha detto che la
signora Vailati era una vecchia sgualdrina (lui però ha detto un'altra parola) e che se se la
trovava tra i piedi in paese glielo diceva. E noi tutti lì a sperare che la trovasse, invece
niente. Poi gli è passata. A noi no.
Ma torniamo alla sera del farmacista. Dunque ecco che arrivano i ragazzi, i soliti
quindici o venti, con in testa la Cuginona. Si fermano tutti insieme davanti a mia madre,
e non dicono niente.
"Oh no" geme mia madre, che li conosce. "Cos'è successo stavolta?"
Parla la Cuginona: "Quel fetente di farmacista" dice.
"Oh no" geme mia madre, che conosce il farmacista. (Era uno nuovo,
provvisorio, un tipo di zitello che non gli andava bene niente.) "Cosa gli avete fatto? "
" Mi ha detto un sacco di parolacce!" dice la Cuginona indignata. "Ci è corso
dietro in macchina e voleva picchiarci."
"Oh no" geme mia madre, monotona. "Ma voi, cosa gli avete fatto prima?"
Quando smettono di parlare tutti insieme si riesce a ricostruire, tra gli "oh no" di
mia madre, quanto segue: poco prima di mezzanotte, mentre andavano innocentemente
a spasso, divisi in due scaglioni, su per la salita della farmacia, "qualcuno" del primo
scaglione, per fare uno scherzo a quelli del secondo scaglione, con Cuginona annessa,
senza farsi vedere da nessuno aveva suonato passando il campanello notturno del
farmacista, quello per le chiamate d'emergenza, e aveva proseguito come se niente fosse.
Così quando il farmacista, svegliato nel cuor della notte, e arrivato giù col pigiama e l'aria
eroica a salvare l'umanità, si è trovato davanti la Cuginona che passava ignara, bionda
ridente e pacioccona, e s'è infuriato di maledetto. La Cuginona, che non ne sapeva
niente, trovandosi davanti a questo ometto terribile e ossesso, se l'è data a gambe con
tutta la sua ciccia e il secondo scaglione dietro, fino ai cespugli della galleria fuori del
paese, pressoché inaccessibili a chi non ci abbia giocato da bambino: e lì si sono buttati
alla macchia, trovandoci il primo scaglione già nascosto e morto dal ridere, mentre il
farmacista passava avanti e indietro con la sua seicento frugando invano coi fari i
cespugli e continuando a gridare: "Vi ho riconosciuti, figli di puntini puntini!" (puntini
puntini sta per parola vietata). "Venite fuori, che vi faccio questo e quello! " finché è
rimasto senza voce e forse senza benzina e se ne è andato; così loro sono potuti venire a
casa.
"Oh no" geme mia madre disfatta. Il fatto è che sempre, per tutta l’estate, lei deve
usare tutte le sue arti magiche per rabbonire la gente del paese disturbata, svegliata,
scandalizzata dalle gesta collettive dei "suoi" ragazzi: infatti ci considerano tutti come
suoi; quando passiamo per il paese, quindici o venti che siamo, ci additano ai forestieri
dicendo: "Sono i ragazzi della signora Osso". Lei non rinnega questa sua
sovrabbondante maternità estiva, e se ne accolla anzi tutte le responsabilità. Ma stavolta,
sembrava molto scossa.
"Siete sicuri che non vi ha riconosciuti?"
"Mah, veniva dalla luce e noi eravamo al buio. Quando ha cominciato a
distinguerci stavamo già correndo. Ci ha visti solo per di dietro."
"Il didietro della Cuginona, chi non lo riconosce" dice mia madre affranta.
"Domani andrò dal farmacista a fare le mie scuse. "
"Sei arrabbiata, zia Osso?" dice la Cuginona, inquieta.
"Sono delusa" dice severamente mia madre. "Mi vergogno di voi. Sono cose che
non si fanno" lo dice convinta, e restano tutti secchi: non li sgrida mai, di solito.
" Io sono innocente!" dice la Cuginona con voce di pianto.
"Oh, sicuro, siete tutti innocenti" dice mia madre ironica. "E allora perché siete
scappati?"
"Ma urlava come una sirena!" dice la Cuginona atterrita. "Agitava i pugni! Ho
creduto che fosse diventato matto! Zia Osso, era terribile! Tu cos'avresti fatto? "
"Non sarei scappata" dice mia madre con dignità.
Si alza e sembra, lei così minuscola, molto più grande dell' enorme Cuginona.
"Scappare è indice di viltà. Di povertà di spirito" afferma, e se ne va in casa senza più
voltarsi. I poveri di spirito si sparpagliano avviliti.
"E ti ricordi" scrive il Nicola "la faccia di tua madre la sera dopo?"
Non la dimenticheremo mai, quella faccia e quella sera. E andata così: al mattino
mia madre ci aveva messo un'ora a rabbonire il farmacista, tornando a casa sbuffava e
diceva: "Uffa! La prima volta che scappate davanti alle vostre responsabilità, vi rinnego"
e tutti a giurare che mai più sarebbero scappati, che mai si sarebbero fatti rinnegare,
finche mia madre li ha perdonati e per festeggiare la pace li ha fatti restare tutti a cena
(capita una sera sì e una no, quando non c'è mio padre). Abbiamo mangiato, bevuto,
cantato e lavato i piatti tutti insieme, e poi mia madre ha detto:
"E adesso, per far vedere che siamo dei bravi ragazzi" (si dimentica sempre che lei
non è più una ragazza) "andiamo a fare una passeggiata fino alla farmacia, zittini e
bravini".
Davanti uno scaglione di otto o dieci con la Cuginona, dietro uno scaglione di altri
otto o dieci con mia madre. Arriviamo all'altezza della farmacia.
Passa il primo scaglione, zittino e bravino, e prosegue. Arriva il secondo scaglione,
zittino e bravino, ed eccoti schizzar fuori in controluce un ometto che pare un mulino a
vento e una vocetta stridula che urla: "Di nuovo! Di nuovo voi, figli di puntini puntini!
Ma stavolta vi becco, razza di questo e quello!"
Mia madre, per un momento a rimasta paralizzata. Poi si è ripresa, e sapete cos'ha
fatto?
È scappata.
Via di volata col golf in testa per non farsi riconoscere e noi tutti dietro, a
catafascio nei cespugli della galleria, dove ci aspettava acquattato il primo scaglione in
convulsioni.
"Hai visto che sei scappata?" diceva la Cuginona esultante: era stata lei a suonare il
campanello del farmacista per mettere alla prova mia madre. E tutti in coro: "scappata!
Sei scappata! Che figuuura! La Zia Osso è una vileee! È una povera di spiritooo!"
"Sccc" bisbigliava mia madre, senza fiato per lo spavento e per il ridere, e intanto
il nemico arrivava in ricognizione con gli abbaglianti accesi e la vocetta frenetica, e noi
tutti lì abbarbicati ai cespugli a picco sul lago, in quel fresco odore di mentuccia e di
avventura, a soffocare risate e bisbigli finchè il farmacista se n'e andato continuando a
gridare fiocamente: "Figli di, razza di", e noi siamo tornati a casa quatti quatti via lago
per non farci vedere in paese se no mia madre perdeva del tutto la reputazione, ed e
stato bellissimo. Tutti in fila indiana a sguazzare cauti lungo le rive coi sandali in mano
bisbigliando sccc sccc, zitti che il nemico ci ascolta, sccc sccc, e la luna allungava le
nostre ombre nere sull'acqua, l'Antonio mi teneva per mano e io credevo ancora che
bastasse, e il cielo era così puro e l'estate così dolce da sentirne un dolore.
E basta una frase, anzi una parola del Nicola, quadrivacco, Paiolo, farmacista
perché tutto torni a vivere, intatto, per lui e per me. E tutte le nostre lettere finiscono:
arrivederci quest'estate a San Mamete.
Viene l’estate, ci rivediamo a San Mamete, e non ci diciamo più niente. E che lui è
grande, è quasi un tizione. E io ho solo quattordici anni. Non voglio scocciarlo. Anche
l'Antonio è grande, sebbene certe volte non sembri. Ha diciassette anni, è troppo gran-
de. Per questo forse va con delle altre ragazze intanto che io cresco. Ma non sono mica
sicura di voler crescere, io.
Vorrei avere degli amici della mia età. Ma con quelli della mia età non mi ingrano.
Loro si stufano e io mi stufo, che cosa dovrei fare?
Cercare il loro lato in fiore, dice mia madre. È una parola. Se cerchi il lato in fiore
di questo Rodolfo, ci trovi come massimo Rita Pavone. Che cosa può interessargli di
me?
Una volta ho letto un tema di questo Rodolfo, un tema sul cinema. Cominciava
cosi: "ll cinema non è solo un divertimento, ma anche un'arte molto istruttiva che viene
detta settima arte. I film che io preferisco sono quelli con l'attore Gerry Luis e quelli di
guerre tra popoli antichi". Ho fatto tanto ridere. Lui non capiva perché, aveva l'aria di
credermi tocca. Lo crede tuttora. Tutti i molluschi mi credono tocca, penso.
Un'altra volta, tanto per cercare il lato in fiore, gli ho chiesto se gli piaceva
Neruda, che è il poeta preferito di mio fratello.
"Neruda?" ha detto. "Ah, quella ballerina negra? E molto sexy." Così ha detto:
giuro. I molluschi non ammettono mai di non sapere una cosa.
Quando poi ha letto una poesia bellissima di Neruda che ho trascritto sul mio
quadernino, ha fatto una faccia di spregio:
"Senza rime" ha detto. "Son buoni tutti di far poesie senza rime."
Ecco come sono i molluschi.
O forse sono io che sono una scocciatrice. Che sono tocca e ho bisogno dello
psicanalista. Forse anche il Nicola, se non fosse in collegio, si stuferebbe con me.
La mia età, che strazio. Poi passa, dice mia madre. Ma io non voglio che passi.
Allora? Allora, non so cosa voglio. Boh.
PER PIACERE, NON ROMPETE I CAVALLI

"O deficienti," chiama ogni sera mio padre "venite qua anche voi a guardare la
radio."
La radio, in questo caso, è la televisione; ma potrebbe essere molte altre cose.
Non si sa se per distrazione o per comodità, con l'avanzar degli anni il vocabolario di
mio padre si restringe sempre più: una sola parola gli serve per indicare un'intera
categoria di cose. "Radio", per esempio, non significa solo radio e televisione, ma spesso
anche frigorifero, aspirapolvere, lavatrice e ogni altro possibile elettrodomestico; qualche
volta, per estensione, può significare anche automobile. "C'è ghiaccio nella radio?" capita
di sentirgli dire, oppure: Questa radio mi scassa tutti i colli delle camicie", o anche: "Se
questo deficiente non si sbriga, mai troverò da. parcheggiare la radio".
Se non capiamo subito, si arrabbia da matto e dice che facciamo l'ostruzionismo.
Comunque noi ci abbiamo fatto l'abitudine e capiamo quasi sempre.
Più difficile è capire mia madre, quando scambia le parole. Perché i suoi non sono
scambi fissi e spiegabili per somiglianza, come quelli di mio padre; i suoi sono scambi
sempre diversi e assolutamente inverosimili, che creano un'atmosfera di follia. Per
esempio, una sera a venuta in soggiorno con aria efficiente e ha detto:
"Ragazzi, preparate i cavalli".
Noi ci siamo guardati. Cavalli. Di cavalli in casa è certo che non ne abbiamo, per il
momento. Vediamo, che cosa potrebbero essere questi cavalli? Dopo una rapida
consultazione abbiamo deciso che doveva trattarsi dei cani. Forse voleva portarli un po'
a spasso. Così il Maurizio ha messo il guinzaglio al Bao e alla Baina e li ha portati da mia
madre (cioè loro hanno portato lui, tipo biga di Ben Hur, come sempre fanno quando
sono al guinzaglio), tutti abbaianti e festanti, pronti all'uscita.
Mia madre li ha guardati come se fossero dinosauri:
"Cosa ti viene in mente di bardare i cani!" ha detto nervosamente. "Ti pare il
momento di portarli a spasso? È ora di pranzo, sta per tornare tuo padre, c'è la tavola da
apparecchiare, e lui arriva coi cani bardati".
"Hai detto di preparare i cavalli" si è difeso rispettosamente il Maurizio "e
abbiamo pensato..."
"Ma che cavalli! Ti sembra logico che voglia dei cavalli all'ora di pranzo? Siete
sempre nelle nuvole. Ho detto di preparare i bicchieri. Non vedete che mancano i
bicchieri? Da quando in qua si mettono in tavola i cavalli?"
"Tu però hai detto cavalli" ha insistito cortesemente il Maurizio.
"Ho detto cavalli?" Lei non si arrabbia come mio padre, non nega di aver detto
una parola per un'altra, e nemmeno si stupisce di averla detta. "Cavalli? Ah, è perché sto
leggendo un libro intitolato Il cavallo venduto, così ho detto cavalli" per lei è una cosa
normalissima. "Comunque," conclude in tono ragionevole "i cavalli non sono cani."
Inutile dirle che non sono neanche bicchieri.
Questa abitudine di dire o fare una cosa "pensando di farne o dirne un'altra”, mia
madre l'ha sempre avuta, dice anche quando era giovane. Dice che i suoi c’erano abituati,
e quando lei diceva "questa pistola non spara" invece di dire "questo orologio non va"
(leggeva molti libri gialli, una volta)- suo padre spiegava: "Ha sbagliato casella". Solo che
con gli anni, le fatiche e l'esaurimento cerebrale, i suoi sbagli di casella sono diventati
sempre più frequenti e fantastici. Chi non c'è abituato ci resta secco. Tanto più che poi
noi figli, così per uno scherzo familiare, adottiamo normalmente la casella sbagliata al
posto di quella giusta, dicendo per esempio: "Che ora fa la tua pistola?" oppure: "Vorrei
un cavallo di coca-cola", e mio padre ogni volta chiede allarmato: "Che cavalli? Chi ha la
pistola?" Noi gli spieghiamo la faccenda, ma lui si dimentica la spiegazione o non ha la
pazienza di ascoltarla, così ogni volta ha l'aria di aspettarsi che qualcuno in casa spari o
nitrisca.
Per non parlare delle confusioni che creano gli errori della Rosa, che non sono
errori di distrazione o di comodità, ma di testardaggine, per cui mai si convincerà che
l'idroscalo non è l'uomo che aggiusta i rubinetti e che il corpo umano non si chiama
organista, ma qui ci vorrebbe un capitolo a parte e perderemmo la testa del tutto.
Torniamo dunque alla televisione. Mio padre, non è che adori la televisione. Anzi,
non gli va bene niente, della televisione. Dice che sono tutte fesserie. Che quelli della
radio sono degli incapaci. Che è tutta colpa del governo. Che è tutta colpa dei preti. Che
qui e che là. Però continua a guardare; non solo, ma vorrebbe che tutta la famiglia stesse
lì a guardare con lui. Qualsiasi cosa faccia o non faccia, mio padre ci vorrebbe sempre
tutti intorno. È come una chioccia, mio padre. Una chioccia nevrastenica, che becca
tutti.
Così ogni sera (tranne il sabato) appena finito di mangiare si piazza davanti alla
televisione, e dopo un po' comincia a fare coccodè.
"Osso-Bruna-Maurizio-Nicoletta-deficienti, venite a guardare la radio."
La prima a dargli retta e mia madre. Non perché le piaccia la televisione, ma
perché le piace lavorare a maglia. Mia madre ha sempre qualche pallino. Quest'anno ha il
pallino della maglia. In tutti i momenti liberi, in viaggio, in tassi, al ristorante, in funivia,
al cinema a letto, sempre velocissima sferruzza bisbigliando: una due passata accavalla,
alto basso catenella pippiolino. "Mi riposa la mente" dice, in tono di scusa, oppure: "Ho
della lana da godere". Non so quanti quintali di vestiti, golf, bluse, coperte, soprabiti ha
fatto quest'anno, ma ha ancora e sempre della lana da godere. Cosi, appena cominciano i
coccodè serali di mio padre, eccola che arriva tutta contenta col suo cesto pieno di ferri
piccoli e grossi, uncinetti corti e lunghi, matasse e gomitoli d'ogni misura e colore, più
qualche gatto in mezzo, si rannicchia vicino al papà sul divano della televisione e
comincia a sferruzzare, le ginocchia rialzate, gli occhiali abbassati sul naso, bisbigliando.
"Piantala con 'ste litanie!" dice mio padre. "Sei qui per vedere la radio o per fare
pippiolini?" e ricomincia i suoi coccodè all'indirizzo dei figli.
La prima che gli dà retta, dei figli, sono io. Anch'io mi porto dietro l'uncinetto e le
lane. Non perché abbia il pallino, ma perché voglio fare una coperta per la mia soffitta di
San Mamete, tutta a quadratini. un modo di avvicinarmi all'estate. Ci vogliono
centottanta quadratini e ne ho già fatti centoquindici. Tutti davanti alla televisione.
"Vi assomigliate anche nelle fisse" dice mio padre, col tono goffo che prende
quando si intenerisce. Mio padre si intenerisce per cose strane: una di queste e la
somiglianza, che tutti dicono fortissima, tra me e mia madre. Lei invece protesta:
"Ma che somiglianza! Ma non vedi che bel nasino piccolo ha lei? Non vedi che
begli occhioni languidi? E tutta proporzionata, lei! Non le si vede un osso, a lei! Ero un
rospo al confronto, io!"
Mio padre se la prende come un'offesa personale: "Sicché io avrei sposato un
rospo? E che, son orbo, io? E tutti quei deficienti che ti facevano il filo, per che cosa lo
facevano? Per le tue doti intellettuali?" e fa una risataccia sulle doti intellettuali.
"Comunque, lei è dieci volte più carina" dice mia madre, perentoria. "Non fatele
venire i complessi."
Crede che io abbia paura di assomigliarle. Che abbia paura di diventare come lei.
Ma io non sarò mai, mai come lei. così carica di vita anche adesso che è vecchia, così
allegra anche quando è infelice. Io mai. Tutto quello che faccio per somigliarle è scrivere,
e lavorare all'uncinetto.
Be', dunque mi siedo lì e comincio a far quadratini. L'uncinetto va, la televisione
pure, e io penso a San Mamete, alle sere fresche e fragranti, alla mia soffitta sospesa sulla
voce del lago e delle foglie. Ogni quadratino mi ci avvicina un po'. Intanto i gatti, che
prima stavano seduti tutti e tre in fila a guardare la televisione, cominciano a giocare coi
gomitoli, la Peppa li morde e li scrolla, il Pluto ci si rotola selvaggiamente in mezzo, e la
Giovanna, pur non abbandonando la posizione meditativa, ogni tanto lentamente solleva
la sua zampa da mammut e lentamente la ritira piena di fili provenienti in linea diretta dal
lavoro di mia madre o mio. Alle nostre grida di cordoglio arrivano zompando i cani per
mettere ordine, e in un baleno la zona televisione è un groviglio frenetico di zampe,
code, baffi, gomitoli, latrati, risate, graffi, zoccate, ahi, bu bu, GNAU GRRRAU, finche
mio padre tuona:
"A CUCCIA! ": più che alle bestie, lo dice a mia madre e a me. "Sempre a far
putiferio! Voi e le vostre lane! Appena arrivate voialtre non si capisce più. un tubo." Poi
ricomincia: "E il Maurizio? Cosa fa quel deficiente che non viene? Starà pulendo qualche
trombone! Starà smontando qualche piffero! Maurizio!"
"Mgnu ou pno mu" risponde la voce del Maurizio dal chiuso della sua stanza dove
sta telefonando alla Tessa. Quando lo chiamano mentre telefona alla Tessa emette gli
stessi suoni che emette quando lo chiamano mentre dorme.
"Starà studiando" dice mia madre: mente sapendo di mentire. "Gli esami si
avvicinano, lascialo studiare."
"Tutto il giorno sta dietro ai tromboni, e poi deve studiare di sera! Sai come gli fa
bene! Diventerà orbo! Diventerà scemo! E la Bruna? Cosa fa quella lavativa? Bruna!"
"Momento" risponde la Bruna dal chiuso della sua stanza, dove sta telefonando al
Dario.
"Anche lei sta studiando?" dice mio padre ironico. "O prepara un comizio?"
"Dovresti essere contento che tua figlia abbia degli interessi sociali" dice mia
madre in tono didattico.
"Me ne frego dei suoi interessi sociali" dice mio padre. "E poi lo so io cosa stanno
facendo i tuoi tesorini. Scommetto che stanno telefonando, quei..."
"Ssst!" dice mia madre protendendosi verso il video con subitaneo interesse. "Sta'
un po' zittino, che non si sente più niente. "
Ma mio padre non si lascia imbrogliare. "Lo so che state telefonando!" grida in
direzione dei figli. "Ve lo do io il telefono! Vi strappo le derivazioni! Vi spacco il
ricevitore in testa! Vi faccio mangiare le bollette!"
Lo dice circa tutte le sere. Noi abbiamo due linee telefoniche, con due numeri
diversi. Uno sarebbe per lo studio di mia madre, l'altro per la famiglia. In realtà, uno lo
usa il Maurizio per telefonare alla Tessa, l'altro la Bruna per telefonare al Dario; hanno
un apparecchio con la spina vicino al letto e ci passano ore distesi a mormorare dentro il
microfono. Lo stesso succede in casa della Tessa; anche là il padre urla e la madre tenta
di distrarlo e i figli avanti a mormorare nel microfono. Perché la Tessa, ragazza di mio
fratello, e il Dario, ragazzo di mia sorella, sono fratelli tra di loro. Il terzo fratello, guarda
caso, è l'Antonio.
Hanno anche loro molti gatti; così quando il mese scorso la nostra Giovanna, in
calore per la prima volta, si rotolava per casa come un barattolo coi peli e il Pluto,
abituato a vederla sempre seduta, era troppo sconcertato per pensare a farle la corte,
abbiamo pensato di mandarla a casa loro per vedere se il loro gatto Pugaciof riusciva a
capire che non era un barattolo peloso ma una gatta in amore. L'Avvocato (il loro papà è
avvocato e lo chiamano tutti così anche se gli danno del tu) quando è stato informato
della cosa ha detto: "Pure il gatto! ", col tono di chi si trova davanti a una ineluttabile
fatalità.
"Fortuna che i gatti non si telefonano" ha detto mio padre.
Comunque anche il Pugaciof non ha voluto saperne della Giovanna. Le è girato
un po' intorno con aria dubbiosa e poi si è ritirato: quella cosa non lo riguardava. Il
Dario ha detto che dovevamo raderle i peli e metterle un cartellino con la scritta "Gatta",
perché altrimenti nessun gatto avrebbe mai capito che cos'era.
"Povera la mia Gatta Seduta" ha detto mia madre carezzandola amorosamente.
"Povera la mia mammut-gatta, non farti venire i complessi. E solo perché sei troppo
giovane. Sei ancora una ragazzina, capito?" e avrebbe potuto dire la stessa cosa a me.
Anche l'Antonio, più o meno, si comporta come il Pugaciof. Mi gira intorno dubbioso,
senza capire bene cosa sono.
"Quando lo capirà," dice mia madre "dovremo mettere un terzo telefono."
"Ve lo do io il telefono!" urla mio padre. "Vi faccio tagliare i fili! Vi spacco il
ricevitore in testa! A voi e a quegli altri due al di la del filo! "
In verità, il Dario e la Tessa gli sono molto simpatici, a mio padre. Però non lo
vuole dire. La Tessa gli piace perché è così brusca, sensibile e schietta, ma lui dice: "È
scorbutica! E troppo scorbutica!" Il Dario gli piace perché è intelligente, deciso e serio,
ma lui dice: "È troppo di chiesa!" Poi dice che è troppo giovane.
"Anche tu" lo eri dice mia madre. "E poi lui è quasi architetto."
"Architetto! Architetto' Deve fare ancora il servizio militare! "
"Tu l’hai fatto per nove anni, e cinque in guerra" gli ricorda mia madre.
"Ma se non sanno neanche da che parte comincia, il matrimonio! Tua figlia non sa
neanche cuocere un uovo!"
"Neanche io sapevo cuocere l'uovo."
"Non vorrai citarti a esempio!" dice mio padre.
"No " dice umilmente mia madre. "Forse hai ragione, noi non siamo un buon
esempio."
"Come sarebbe, che non siamo un buon esempio?" dice mio padre offeso
"Abbiamo sempre tirato la carretta da soli, abbiamo tirato su tre bei figli, abbiamo…" si
interrompe, con l'aria di uno che è caduto in un tranello. Ci cade tutte le volte.
"Comunque erano altri tempi!" conclude per salvare la faccia. "E comunque devono
piantarla di stare delle ore attaccati al telefono! Bruna! Maurizio! Piantate
immediatamente quel telefono e venite a vedere la radio." Solo che nell'ira delle volte si
sbaglia e dice: piantate quella radio e venite a vedere il telefono.
Prima o poi, con comodo, mio fratello arriva, accolto da una scarica di urlacci, sui
quali galleggia duduando indisturbato fino al divano.
"Uusc" dice, e gli faccio posto. Si siede, la pipa spenta in bocca, l'aria assorta,
dududa - dudududadudaaaa...
"Sta' un po' zitto!" dice mio padre. "Possibile che non sai stare un minuto senza
duduare?"
Il Maurizio smette di duduare e si accende laboriosamente la pipa, da cui comincia
a trarre profonde boccate con un ritmico, voluttuoso bop bop.
"Non pompare!" dice mio padre. "Te la butto dalla finestra, quella pipa!" Gliel'ha
regalata lui, la pipa, perché non fumasse le sigarette. "La pipa fa bene" diceva. "Rinforza i
polmoni." Però non vorrebbe che la fumasse. "Come si fa a guardare la commedia vicino
a uno che pompa!"
La parola "commedia", per mio padre, serve a indicare tutti i tipi di trasmissioni
televisive, telefilm, inchieste, teleromanzi, riviste, documentari, sono tutte commedie.
Anche tribuna politica è una commedia. "Possibile che non si possa mai vedere una
commedia in santa pace, con voialtri?"
"O che bella commedia" dice mio fratello. "O che bel telefono."
"Commedia? Telefono?" dice smarrito mio padre, che non riconosce negli altri il
proprio eloquio.
"Avrei dovuto battere il piede" dice mia madre.
"Piede? Che piede?" dice mio padre. "Cosa credete, di prendermi in giro?"
Noi non lo prendiamo in giro. Sono solo dei vecchi scherzi un po' scemi, a cui
siamo affezionati. Ma siccome mio padre non capisce i nostri scherzi e noi non capiamo
i suoi, e siccome lo stesso succede in Casa della Tessa, si è stabilito che quando i padri o i
figli dicono una facezia, le madri battono il piede per avvertire che bisogna ridere. Ma
mio padre si arrabbia. "Bello spirito di patate che avete tutti quanti" dice. Però certe
volte gli scappa da ridere, e poi si arrabbia per aver riso. "Rido per le facce da scemi che
avete" dice.
Io a mio padre gli voglio molto bene, in quei momenti. Mi sembra un bambino.
Ma lui non sarebbe contento di sembrarmi un bambino. Gli voglio bene anche quando
fa la chioccia. Ma lui non sarebbe contento di sembrarmi una chioccia.
Tornando ai coccodè serali: l'ultima che gli dà retta è mia sorella. Arriva con le sue
lunghe gambe svogliate, la testa china, i capelli ciondoloni che le nascondono la faccia
tetra. Quando è reduce da una telefonata col Dario, è sempre tetra.
"Non crede nel movimento operaio" dice tragicamente sedendosi, in un angolo
del divano.
"Cosa?" dice mio padre sgomento.. "Che cosa dice?"
Mia madre sorride. "Anche tu non credi in cose in cui il Dario invece crede" dice
alla Bruna. "Basta non pretendere di redimersi a vicenda, e amen. Anche tuo padre non
crede nella psicanalisi e io sì, eppure siamo felicemente sposati da vent'anni e passa."
"Felicemente!" dice la Bruna con voce lugubre.
Mio padre fa una faccia infantile: "Perché, secondo te la nostra non sarebbe una
famiglia felice?" chiede sbalordito.
"Non l'ho mica detto" brontola la Bruna.
"La felicita non è mancanza di litigi" dice la mamma, assorta. "O almeno, non è
solo questo."
Nessuno le chiede che cos'è: neanche il papà, che improvvisamente ha un'aria
spaventata. Poi reagisce: "E smettetela un po' di far discorsi scemi. Lasciatemi un po'
vedere questa commedia".
E così, tra mio padre che si arrabbia, mio fratello che fa bop bop, la Bruna che
medita sul movimento operaio, mia madre che bisbiglia: alto basso pippiolino, io che
faccio quadratini pensando a San Mamete, i gatti che zompano tra i gomitoli, i cani che
giostrano intorno per mettere ordine, si arriva alla fine del programma, di cui nessuno ha
capito niente.
"Che fesseria" dice mio padre girando l'interruttore.
Questo succede, con poche varianti, tutte le sere. Tranne il sabato. Il sabato sera
mio padre e mia madre vanno fuori a mangiare con altri padri e madri, e noi ragazzi
restiamo in casa tutti insieme (una volta a casa degli uni, una volta a casa degli altri) e
facciamo tutto da noi. A mio padre, la cosa non gli va tanto giù.
"Io non so cos'avete in testa voialtre madri!" dice ogni volta. "Tutti quei ragazzi
soli in casa!"
"Se sono insieme non si telefonano, non sei contento?" dice mia madre.
"Chissà che cosa possono combinare!" dice mio padre angosciato.
"Che cosa, per esempio?" chiede mia madre.
Lui quel che pensa non lo dice perché non vuol fare la figura del bigotto (mio
padre odia i bigotti), perciò dice soltanto: "Sporcheranno tutto quanto! Sfasceranno un
sacco di roba!"
"Oh, be'," dice mia madre "anche se rompono un po' di cavalli, cosa vuoi che sia!"
"Cavalli?" dice mio padre con sospetto. "Chi è che rompe i cavalli? A chi li
rompono?"
Mia madre batte il piede. "Bicchieri" spiega. "I cavalli sono bicchieri."
"Ah" dice mio padre con l'occhio vacuo. E va al ristorante per non sapere altro.
I padri, chissà come sono stati da ragazzi. Certo non come credono di essere stati.
"Allora fate i bravi" dice mia madre prima di uscire. "Non rompete troppi cavalli."
LE ORGE DEL SABATO

Sempre per via che è una chioccia in incognito, a mio padre non piace che i figli
escano di sera. Neanche a lui piace uscire di sera. Fa eccezione il sabato, che è dedicato
alle orge.
Durante la settimana, se mio fratello esce di sera è per andare alla scuola del jazz o
a un concerto, e mio padre ce lo accompagna; al Maurizio non è che gli dispiaccia (oltre
tutto gli fa comodo essere portato e riportato in macchina), solo gli scoccia fare la figura
di quello accompagnato dal padre, "sempre col babbino, sempre col babbino", così
escono litigando e rientrano litigando: cioè, è mio padre che litiga, mentre il Maurizio fa
la resistenza passiva, tirando pazzo mio padre.
Mia sorella, invece, se esce di sera è per andare a qualche riunione marxista e il
Dario ce l'accompagna furibondo, furibondo la va a riprendere, furibondo la riporta a
casa e furibonda lei se ne va a letto, sbatacchiando le cose e dicendo che così non si può
andare avanti. Ma io credo che si divertano, quei due lì, a essere furibondi, una specie di
don Camillo e Peppone ma di sesso diverso e molto più seri. Alla Bruna essere
paragonata a Peppone credo che non le piacerebbe niente, ma tanto non lo sa. Col Paolo
(il Paolo è stato una specie di suo primo amore), non litigavano mai, e infatti si sono
stufati. Col Dario sono due anni che sbatacchia le cose e dice che così non si può andare
avanti, ma guai a chi glielo tocca. E più litigano e più si attaccano.
Anche a me piacerebbe litigare così con un ragazzo. Per cose serie, dico. Ma parlo
troppo adagio e nessuno mi starebbe a sentire. L'Antonio men che meno.
Ma questo non c’èntra. Perdo sempre il filo, come mia madre. Dicevo del sabato.
Dunque al sabato sera i babbi (cosi noi chiamiamo per brevità i genitori in massa, madri
comprese) vanno tutti insieme al ristorante, di solito fuori Milano, e noi ragazzi restiamo
a casa tutti insieme. Il che significa che per tutto il tempo, al ristorante, in macchina o
dovunque sia, mio padre forma la disperazione d'ogni altro babbo (mia madre compresa)
col suo stare sulle spine, sbuffare, far andare i piedi e rovinare la digestione a tutti
continuando a pensare chissà cosa mai starà succedendo a casa.
Infatti succede di tutto. Tranne quello che lui pensa, credo.
Certe volte, se i babbi si levano dai piedi un po' prestino, prima di cena vengono
gli amici jazzisti di mio fratello a fare la jam session, che sarebbe poi un concerto, ma
improvvisato e dove ognuno suona quel che gli. pare, se ho ben capito. Gli amici di mio
fratello sono di due tipi: jazzisti (freddi) e filosofi buddisti (zen). I buddisti zen, per
quanto mentecatti possano sembrare, di baccano non ne fanno molto: tutt'al più, se
hanno qualcosa da bere, dopo un po' li trovi seduti per terra o sui lavabi che
filosofeggiano, oppure compongono poemi zen in società, battendoli a macchina un po'
per uno su rotoli di carta igienica. Sono quindi abbastanza ben tollerati dalle madri (dai
padri meno) e si possono invitare anche in giorni qualsiasi. Non così i jazzisti, che a
causa del rumore sono mal tollerati sia dai padri sia dalle madri e si possono quindi
invitare solo in totale assenza dei medesimi. In casa mia, cioè, solo al sabato sera. Mio
fratello ne invita solo due o tre per volta, comunque è come se fossero due o trecento,
perché ognuno suona magari uno strumento solo, ma non fa altro che suonarlo, sempre
lo strumento, tutto lo strumento, nient'altro che lo strumento; le loro madri dicono che
mangiano, dormono e vanno al gabinetto con lo strumento, ma forse esagerano.
Comunque tra loro si chiamano anche col nome dello strumento invece che col nome o
cognome; così capita che si va al telefono e si sente una voce profonda che dice: "Sono
la Tromba. C’è il Clarone?" oppure: "E in casa il Sax Alto? Sono la Chitarra Bassa". Le
prime volte restavo secca. Poi mi sono abituata; anche a sentirli dire, presentandosi a mia
madre: "Buongiorno, signora, siamo la Sezione Ritmica ".
Dunque, quando vengono gli Strumenti non si può fare altro che starli a sentire.
Se ci sono solo il Sax Baritono, il Sax Alto e la Chitarra, starli a sentire mi piace: anche se
è musica troppo difficile, che non capisco ancora bene, mi piace lo stesso, specie quando
fa gli assolo mio fratello, voglio dire il Sax Alto (trasformabile a richiesta in Flauto e
Clarone); ai concerti veri, col pubblico dico, quando fa gli assolo ho sempre una paura
nera che faccia una stecca e sto malissimo; mia madre lo stesso. Ma a casa può fare tutte
le stecche che vuole; comunque non ne fa, credo. Quando ci sono quei tre lì, dicevo, la
jam session viene molto bella. Ma quando c’è la Tromba, un fanatico di uno che tira certi
acuti che uccide, o la Batteria, che se si scatena dentro un appartamento è roba da non
sognarsela neanche, allora la jam session è la fine del mondo; e non serve tapparsi le
orecchie e mettere la testa sotto i cuscini, l'unico modo di sopravvivere e prendere parte
attiva in qualche modo, applaudendo, fischiando all'americana, battendo i piedi, tra latrati
incommensurabili di cani, finche non intervengono i vicini con telefonate, colpi di scopa
e grida isteriche attraverso i muri. Allora, a un segnale di mio fratello, gli Strumenti
-interrompono di botto i loro cerebrali ghirigori e di botto attaccano tutti insieme:
"Mazza la Vecchia - col flit! E se non muore - col gas!", che sarebbe il loro canto
-del cigno con intenzioni polemiche. Dopo di che mettono via gli strumenti e se ne
vanno come sono venuti. Dalle finestre i vicini osservano frementi la loro ritirata;
qualche volta ce n'è uno che manda una raccomandata al padrone di casa, il quale
avendo un figlio Trombone mette tutto a tacere.
Partiti gli strumenti, restiamo noi soliti sei; noi tre fratelli e loro tre fratelli (Dario,
Tessa e Antonio, dico). Noi ragazze mettiamo la tavola, cuciniamo, sprepariamo,
laviamo i piatti, mentre i ragazzi ci danno consigli sul come mettere la tavola, cucinare,
spreparare, lavare i piatti. così litighiamo tutto il tempo: un po' per ridere e un po' no..
Ogni tanto si fanno scioperi, con dimostrazioni cartelli e richieste sindacali, ma le cose
restano come stanno.
Poi il Dario e la Bruna si siedono in un angolo del divano e cominciano, mano
nella mano, i loro litigi privati su quelle che chiamano "questioni di fondo" o "divergenze
di carattere ideologico". Ogni tanto si dimenticano di essere divergenti e allora si
guardano come se fossero l'unico ragazzo e l'unica ragazza della terra, bisbigliano e
ridono, e se sono proprio allegri si picchiano anche.
Il Maurizio e la Tessa, che di divergenze ideologiche non ne hanno, si picchiano
sempre. Cioè, è la Tessa che picchia, mentre il Maurizio, le mani giunte sopra la testa per
ripararsela, declama versi cinesi. Per esempio: "A Yen l'erba pare giada e di seta ahi la
mia testa a Ch'in i gelsi mi fai il solletico chinano i rami verdi piantala disgraziata".
"Era così fin da piccola" dice il Dario guardando sua sorella. "Lei e l'Antonio
erano sempre pieni di cerotti."
"E tu?" chiede la Bruna.
"Io ero ingessato" dice il Dario con voce mesta. Lui ha sempre l'aria di avere
l'aureola. Ma chi ha suonato per primo il campanello del farmacista, quella famosa volta?
Chiedetelo a lui. E chi ha avuto l'idea di mettere il detersivo nella piscina della villa del
Tedesco? Chiedete, chiedete a quello dell'aureola: lui lo sa.
Da voci di famiglia risulta poi che era proprio lui, il piu grande, il perfettone, a
pestare gli altri due. Mentre l'Antonio, che era il più piccolo, si nascondeva dietro i
mobili e di là gridava: "Fra tre anni vi faccio fuori tutti", avesse quattro anni, sei o dieci,
diceva sempre: "fra tre anni". Lui si scoccia un po' quando raccontano questa cosa.
Invece è la prima cosa per cui m'è diventato simpatico: pensarlo nascosto in un angolo,
piccolo e nero e arrabbiatissimo, a urlare minacce a vuoto. Quando mi fa venire il
nervoso (non lo sa, ma me lo fa venire spesso) lo penso così e delle volte mi passa.
Vorrei averlo conosciuto piccolo. O forse no. Se l'avessi conosciuto da sempre, come gli
altri ragazzi di San Mamete, forse non avrei preso quella specie di cotta. Invece è arrivato
che avevo dodici anni, e zac, cotta. Anche mia madre ha preso la prima cotta a undici
anni, per un suo compagno di scuola che si chiamava Bandirali e parlava in erre e altro
non si ricorda.
Tornando all'Antonio, non credo che sia molto cambiato crescendo, e neanche la
Tessa. Si racconta che una volta, quando erano piccoli, l'Antonio per sbaglio ha dato un
colpo sul naso della Tessa facendoglielo sanguinare, e lei infuriata si a messa a morderlo
in testa, tipo conte Ugolino, e siccome intanto continuava a perdere sangue dal naso,
l'Antonio aveva tutta la faccia coperta di sangue che pareva proprio l'arcivescovo
Ruggeri nella bolgia. La madre (da noi detta la capo-mamma per il suo piglio
organizzativo) in quei frangenti mica si spaventava; con urli superacuti si buttava sui figli
menando sberle tutt'intorno: innocenti o colpevoli che fossero, la sua teoria era che, a
guadagno di tempo, conveniva picchiarli tutti. Anche adesso fa così.
Il padre invece (un signore coi capelli grigi, gli occhiali, la voce persuasiva, l'aria
austera), in genere non picchia: lui rompe i piatti. Di solito è a tavola che si arrabbia, per
qualche pietanza che non gli va bene, e slam, slam via i piatti. In sala da pranzo hanno un
mobile stile Luigi Filippo, molto imponente, che chiamano il Filippone; in un tema di
terza elementare sulla famiglia, la Tessa ha scritto così: "Mio papà ha gli occhiali fa
l'avvocato e rompe i piatti sul Filippone". Credeva che fosse uno sport consueto ai
padri. Si racconta che la domenica, quando c’era in tavola il servizio bello e l'Avvocato
cominciava a smaniare per qualche pietanza la moglie ratta gli sostituiva i piatti belli coi
piatti di tutti i giorni, che i figli prendevano dalla credenza e le passavano man mano.
"Vedi che famiglia organizzata" dice mia madre. "Noi non saremo mai così organizzati."
Io di piatti, all'Avvocato, non gliene ho mai visti rompere. Però l'ho visto
arrabbiarsi un sacco di volte, e sempre per cose stranissime; per esempio perché il sugo
della pasta è uguale a quello del giorno prima, oppure perché in un albergo al mare dove
siamo andati a Pasqua, c’erano i castelli, cioè le cuccette, invece dei letti normali. I suoi
l'avevano avvertito: "Guarda che ci sono i castelli", ma siccome certi loro amici si
chiamano Castelli, era nato un equivoco. "Dove sono Gianni e Maria?" ha chiesto
appena arrivato. "Voi mi avete detto che c’erano Gianni e Maria!" e quando poi ha visto
che i Castelli erano in realtà i castelli, ha cominciato a prenderli a pedate, dicendo che lui
lì non ci dormiva, che non aveva mai subito una simile umiliazione e non intendeva
subirla adesso che aveva i capelli grigi, e mio padre ha dovuto portarlo via a forza per
impedire il linciaggio dei castelli.
L'unico vantaggio è che quando l'Avvocato si arrabbia mio padre diventa serafico,
mentre quando si arrabbia mio padre diventa serafico l'Avvocato. Poi ognuno dei due
dice alla moglie: "Però, come s'incavola per niente questo Avvocato", "Però, quel Dino,
farebbe bene a curarsi i nervi". Boh.
Intanto ho perso di nuovo il filo. Stavo dicendo della Tessa che picchia e del
Maurizio che declama.
"Difenditi!" lo incita l'Antonio, per solidarietà virile. "Non farti battere da una
donna! Picchiala, stracciala, fa vedere che sei un uomo!"
"Io non sono un uomo comune" lo informa il Maurizio di sotto le botte. " Io
sono un bodhisattva."
I bodhisattva, se ho ben capito, sono dei tipi che hanno raggiunto il nirvana o
roba del genere. In uno dei poemi su carta igienica che si trovano in giro, sta scritto per
esempio: "Desidero raggiungere il Nirvana / essere tanto buono da far
spavento / e se ci riuscirò sarò un grave pericolo per la società / probabilmente
mi metteranno in manicomio". Questo può forse dare un'idea di che cosa sia un
bodhisattva. Quando è molto contento (cioè quando suona, quando beve, quando va
sott'acqua, quando scia, quando c'è la luna, quando la Tessa lo picchia e in molte altre
occasioni, purché non ci siano i grandi presenti) mio fratello è sempre un bodhisattva. Si
butta nelle imprese più spericolate e nelle cagnare più spaventose conservando la ieratica
calma e l'eloquio rarefatto di un abitante del nirvana. A Bormio, per esempio, lo si vede
arrivar giù sparato dalle discese più pazzesche (mio fratello scia meglio di tutti al mondo,
credo), volare e guizzare tra pini e burroni dicendo: "oh inesprimibile buddità di una
cunetta di neve, heup che la salto, voglio essere vagabondo alla ricerca del darma,
urca la buca crash". Se cade (e quando cade sono voli di metri e metri) tutti accorrono
angosciati, certi di trovarlo fracassato, pronto per la barella e l'autolettiga, e invece lui e lì
seduto sugli sci che si riaccende la pipa dicendo: "Io sono certo un bodhisattva
fortunato bop bop oh incommensurabile buddità di uno zompo nella neve
fresca", e tutti a dirgli parolacce finche lui riparte a razzo seminando panico e massime
buddiste. La sera, quando andiamo a giocare con le slitte di fianco alla funivia, mio
fratello bodhisattva, in piedi sulla slitta,le mani giunte sopra la testa in segno di buddità,
viene giù a catafascio investendo tutti quanti tra grida e divincolamenti immani, finche
scoppia la rivolta e tutti gli sono addosso a pestarlo, e al di sotto della mischia si sente
venir fuori una voce ieratica che dice: "Insieme nell'ora ci ritroveremo lontano ahi
disgraziati lontano nel Fiume delle stelle il solletico no, porco giuda".
Nessuno direbbe, guardandolo, che un tipo così serio, smilzo e taciturno, dedito a
elevate letture e musiche cerebrali, possa essere all'occasione un pericolo pubblico
scatenato; però non picchia mai nessuno, per nessuna ragione. È una questione di
principio, per lui. Mio padre non è d'accordo. Neanche lui picchia, ch'io sappia, però
non è d'accordo.
"E se gli altri picchiano te?" dice. "Se non impari a picchiare, non impari neanche
a difenderti."
"È con la scusa di difendersi" dice mio fratello "che son cominciate tutte le
guerre."
"Cosa ne sai tu delle guerre! Chiudi il becco, va'! Io sì posso parlare! Io l'ho fatta,
la guerra!"
"Appunto" dice mio fratello.
"Come, appunto? Adesso sta' a vedere che siamo entrati in guerra perché io
sapevo picchiare."
"Tutti quelli che picchiano" dice mio fratello "sono najoni in potenza."
Najone, nel linguaggio di mio fratello, significa militarista. Somma offesa, che
manda in bestia mio padre, mentre mio fratello lo guarda quieto dal fondo dei suoi occhi
neri, facendolo sentire sempre più najone.
Anche la Tessa fa finta di arrabbiarsi. "Ah, dunque io sarei una najona! Dunque la
mia famiglia sarebbe una famiglia di najoni!" e giù botte da orbi.
"Compatisci, o Budda, la pochezza mentale di costei" dice mio fratello, e fugge
con la Tessa alle calcagna e i cani che zompano intorno latrando da matti per mettere
ordine.
Comunque hanno l'aria di divertirsi molto, loro. Sia la Tessa e il Maurizio con le
loro botte, sia la Bruna e il Dario con le loro divergenze ideologiche. Credo che tutto
diventi divertente, quando due si vogliono bene davvero.
Intanto io e l'Antonio tapini sentiamo un po' di dischi, cantacronache, Joao
Gilberto, Francoise Hardy, Strawinski e Debussy, tutta una democrazia, ma non è che
ascoltiamo molto né io né lui. Anche sentire insieme i dischi che amiamo, a Milano ci
riesce difficile. Nelle pause tra un disco e l'altro, diciamo a tentoni un po' di parole che
non interessano nessuno dei due, e sembriamo più che mai il gatto Pugaciof con la
Giovanna. Io che faccio il mammut e lui che gira intorno tra incuriosito e scocciato.
Quando ci vediamo a Milano è sempre così. Ha la cravatta, la giacca, le scarpe da città, e
niente che io gli possa dire. È l'Antonio? È lo stesso ragazzo con cui ho contato le stelle
sul molo, ho cercato le pietre focaie sulla rivetta del fiume, ho colto felci e more nella
conca al di là del lago? Lo stesso che mi insegnava il twist in soffitta, che mi portava in
lambretta per le mulattiere, che una sera di settembre sulla prua di una vecchia barca ha
pianto con me perché l’estate finiva? Forse quel ragazzo lì esiste solo a San Mamete. O
forse non è mai esistito, l'ho inventato io, forse tutto è inventato, niente è reale, certe
volte mi vengono di queste idee strane, San Mamete non esiste, la mia soffitta non esiste,
niente lago, niente molo, niente eco della conca, mi sono inventata tutto, so che sono
idee sceme, ma mi vengono e mi fanno star male, come essere sola in un pozzo, senza
un posto dove andare, senza più estati da vivere, senza più nessuno da amare, tutto frana
e si deforma appena lo guardo, è orribile; "sono matta", mi dico allora, "sono matta", ma
non è che sia una gran consolazione essere matta. E pazienza quando 'ste crisi del non-
essere mi vengono di notte, posso piangere dentro il cuscino finché mi addormento, ma
quando mi succede in mezzo agli altri è tremendo. Non posso mica mettermi a piangere
davanti all'Antonio. O dirgli: per piacere, sei vero o ti ho inventato io? Sei lo stesso che
vedo in estate o sei un altro? O non ci sei per niente? Chissà che faccia farebbe. Mi fa
ridere pensarci.
"Perché ridi?" dice.
"Boh" dico.
Se piangessi, direbbe: "Perché piangi?" e io direi: "Boh".
I nostri discorsi sono circa sempre così.
Finisce che per sentirmi meno campata in aria prendo un giornale e mi metto a
leggerlo, e l'Antonio dice: "Be', ciao, andrò al cinema", oppure prende un altro giornale e
si mette a leggere anche lui.
Gli altri quattro intanto continuano a pestarsi e a parlare di ideologie.
Così ci trovano i babbi quando tornano. Le madri ridono. I padri sembrano
sollevati, ma un po' delusi.
"Che deficienti" dice mio padre. "Io ai miei tempi..."
"I ragazzi d'adesso, mica sanno vivere" dice l'Avvocato.
ESAMI E MALATTIE

Io li ho finiti, gli esami, ma i miei fratelli no. Così non si può partire: tutti giorni
d'estate sprecati. Sono stata promossa con la media del quasi otto e per premio mi hanno
regalato una chitarra, grande quasi come quella della Bruna. Pare che Olivieri, lo
psicologo coi baffi della mamma, dica che la chitarra aiuta la favella. A me piace
suonarla, ma favella niente. Negli intervalli tra lo studio, il Dario e la politica, mia sorella
mi ha insegnato un po' di accordi; sono già capace di accompagnare tutti i canti della
Resistenza. Non è mica difficile, basta fare frun frun al momento giusto e col tono
giusto; però mio fratello dice che ho molta disposizione, orecchio, senso musicale e bla
bla bla, e che dovrei studiare il contrabbasso, che è uno strumento più serio.
"E che ci fa col contrabbasso, ci si arrampica sopra?" dice mio padre. "E poi una
donna col contrabbasso, chi l'ha mai vista?"
Mio fratello dice che sono tutti pregiudizi. Che se c’è uguaglianza di diritti deve
esserci anche uguaglianza di strumenti. Che il contrabbasso va benissimo. Che devo
prendere lezioni da Buratti e fare sul serio. Io non so se ho molta voglia di fare sul serio,
come fa a far sul serio una arrampicata sul contrabbasso, però forse se studiassi musica
mio fratello parlerebbe di più con me. Quando eravamo piccoli parlavamo sempre, mi
raccontava un sacco di cose stranissime e me le ricordo tutte, con nessuno stavo bene
come con mio fratello. Anche adesso ci sto bene, però non ci parliamo quasi niente.
Eppure dentro ci assomigliamo, credo; forse e proprio per questo che non riusciamo più
a parlare. Magari la musica ci aiuterebbe. O magari invece suoneremmo soltanto e non
parleremmo più del tutto. Comunque c'è tempo. Per adesso mi basta fare frun frun e ne
avanza.
Dovrei essere contenta che ho finito la scuola, invece è peggio. Mi stufo di
sognare San Mamete quando potrei già esserci. C'è ancora un sacco di tempo prima che
finiscano i loro esami.
La Bruna ne deve fare un fracco perché lei e il Dario hanno deciso di laurearsi
prestissimo e sposarsi subito dopo, politica o no. Chissà che figli verranno fuori, mezzi
rossi e mezzi neri; o forse, come dice mia madre, avranno un colorino medio: Tipo
quello che c’è al governo adesso. Mio padre non lo sa che vogliono sposarsi subito, però
credo che nel subcosciente lo sospetti, perché quando vede la Bruna studiare tanto
comincia a fare quelle che lei chiama le azioni di disturbo.
"Compagna!" da un po' di tempo la chiama compagna, cosa che le dà molto ai
nervi e lui lo sa. "Compagna, tira un po' su quel naso dai libri, vuoi diventare orba!
Compagna, tira un po' indietro quella capelliera, ci vuoi far casa sotto?" La capelliera
sono i capelli di mia sorella, che essendo lunghi, folti e lisci, quando studia le scendono
davanti e la nascondono come dietro un sipario. A lei fa comodo, a mio padre no.
"Compagna, piantala un po' con quei libri della malora! Chi te lo fa fare, Carlo Marx? Se
non sono i libri è la politica, se non è la politica è quel Dario dell'accidente, guarda se è il
modo di vivere a vent'anni."
Di solito mia sorella non alza neanche la testa. Ma l'altra sera improvvisamente
apre il sipario e solleva su mio padre due occhi celestissimi:
“Per vivere bene dovrei dedicarmi ai lavori donneschi, suppongo" dice. Mia
sorella ha sempre avuto una radicata avversione per i lavori donneschi, come lei li
chiama. Più che avversione, mia madre dice che è una specie di allergia.
"Perché, sarebbe un disonore aiutare un po' in casa?" dice mio padre aggressivo.
"Carlo Marx si rivolterebbe nella tomba? I tuoi compagni ti radierebbero?"
La Bruna non raccoglie l'ironia. "Se questo può darti conforto," dice freddamente
"ho imparato a fare le uova al burro e le bistecche alla griglia." Dopo una pausa d'effetto,
butta la con noncuranza: "Ieri ho stirato una camicia del Maurizio".
"O Madonna" dice il Maurizio guardandosi la camicia con aria sconvolta.
Anche mio padre ha l'aria sconvolta. "Cosa le è preso?" chiede a mia madre. "Chi
le ha insegnato? "
Mia madre si stringe nelle spalle: "Avrà preso lezioni private dalla Rosa".
"Proprio adesso? Proprio sotto esami si mette a fare lavori donneschi?"
"Diversivo" dice mia madre con voce amabile.
Mio padre la guarda con sospetto, poi guarda con sospetto la Bruna, che è intanto
riscomparsa dietro il sipario. "E va' un po' a spasso, invece! Va' un po' a ballare! Goditela
un po', finche sei in tempo!" Ma se poi la Bruna andasse a spasso, a ballare e a godersela,
non si sa mio padre cosa direbbe. Cioè lo si sa benissimo. Anche lui lo sa.
Quello che non sa (ufficialmente, almeno) è che tutti i pomeriggi, in sua assenza,
la Bruna e il Dario studiano insieme; un po' da noi e un po' da loro, ma sempre insieme.
Lui fa architettura, lei fa lettere moderne, ma fa niente, gli basta stare vicini. Uno di qua e
l'altra di là del tavolo, studiano come negri, studiano come matti, studiano tanto che non
litigano neanche più. La mamma sospira e dice che si sposeranno prestissimo; che
quando due studiano tanto vuol dire che si sposeranno prestissimo. Attraverso il tavolo
si tengono la mano, si fanno le carezzine, senza mai alzare gli occhi dai libri, e potrebbe
cascare il mondo che non se ne accorgerebbero. Anche a me piacerebbe studiare cosi.
"Ecco i due limonenti" dice la mamma del Dario quando li vede arrivare con tutti
i loro libri e fogli e matite e mani intrecciate. "Largo ai due limonenti" dice sbarazzando
il tavolo.
Anche il Maurizio e la Tessa studiano insieme. Però loro non sono limonenti, non
si tengono per mano, non si fanno carezzine: si pestano e basta. Lei fa la maturità
classica, lui quella scientifica, ma si fanno reciprocamente i ripassi, le interrogazioni
eccetera, lei dice che lui non sa niente di latino, lui dice che lei non capisce un corno di
matematica, e la casa risuona delle loro urla, insulti, inseguimenti e latrati di cani. Anche
così, mi piacerebbe studiare.
Quando la Tessa non c’è, al Maurizio gli viene la psicosi. Dice che è stanco, che
non si ricorda le cose, che non gli vengono le parole, che i luridi (i luridi sono gli
esaminatori) gli chiederanno le notiziole (il Maurizio ha la fissa delle notiziole), che lui le
notiziole non le sa e non le vuole sapere e così i luridi lo bocceranno e lui non riuscirà
mai a uscire da quel lurido liceo per via delle luride notiziole, eccetera eccetera. Dopo di
ché si stende sul letto, un gatto sullo stomaco e il giradischi acceso, a fissare il muro con
gli occhi vacui; e questa sarebbe la psicosi.
"Ma che psicosi!" urla mio padre. "Ha la coscienza sporca, ecco cos'ha! Per tutti i
trimestri sta dietro ai suoi tromboni e ai suoi zen della malora, e poi gli viene la psicosi
degli esami! Gliela do io la psicosi, a quello lì" ma alla mattina è lui che si alza mezz'ora
prima per fargli la bistecca al sangue con l'uovo sopra.
In quanto a me, nessuno mi bada molto in questo periodo, hanno tutti troppo da
fare. Sto quasi tutto il giorno in giardino, povero giardinetto milanese, soffocante,
striminzito, assediato dalla polvere e dalle puzze e dalla gente che strappa la vite
americana della cancellata per guardare dentro e dire: uh guarda, la poltrona senza gambe
(è quella pensile su cui sto seduta, di vimini, appesa con la catena al ramo del ciliegio); uh
guarda, le ciliege; uh guarda, la chitarra; uh senti il giradischi; uh guarda, due cani come
Lassie; uh guarda, quanti gatti! uh mamma, ma l'e un gatt quel lì? (dubbio riferito al
Pluto che ronfa dal suo mucchio di pelo nero). Qualsiasi cosa si faccia in questo
giardino, subito arrivano i commenti dalla cancellata. La mamma dice che è come il coro
nelle tragedie greche. In principio mi scocciavo un po', ma adesso ci ho fatto l'abitudine.
Dunque, sto quasi tutto il giorno in giardino: a leggere, a fare frun frun, a giocare al
riporto col Bao e la Bahia urlanti, a fare quadratini all'uncinetto, a guardare i gatti che
poltriscono nell'erba impolverata; a sognare la Valsolda (tanto per cambiare), a essere
triste (tanto p.c.), a scrivere poesie (t.p.c.). Fa caldo. Il caldo mi piace, ma non qua.
Anche l'Antonio sta preparandosi agli esami, forse sarà bocciato; lui lo è spesso, e io mi
sono messa in mente che abbia il complesso di interiorità nei confronti dei suoi fratelli
che invece sono sempre promossi e bravissimi e tutto, e questa è una delle ragioni per
cui gli ho voluto bene, ma forse lui non si sogna di avere nessun complesso, sta benone
com'è e invece di studiare va a spasso con le ragazze, anzi credo di sicuro, e io sto qui a
fare frun frun e scrivere poesie e pensare che non studieremo mai insieme, io e lui.
"Perché non vai un po' a spasso?" dice ogni tanto mia madre, senza smettere di
scrivere. A spasso dove? Con chi? Da sola non mi piace, la Sandra è partita, coi
molluschi non ci vado, mi restano il Bao e la Bahia, ma tirano da matti al guinzaglio, la
gente mi ride dietro, e dopo un po' mi sento Ben-Hur, mi fanno male le braccia e torno a
casa. "Già tornata?" dice mia madre continuando a scrivere.
Così arriva sera, e a tavola non ho fame. Mia madre mi guarda sopra gli occhiali
abbassati, come guarda i pippiolini del suo uncinetto quando non le riescono.
"Dovrei portarla da Olivieri" ha detto l'altra sera. Sono mesi che lo dice, fortuna
che se ne dimentica sempre.
"Basta con questo Olivieri!" grida mio padre. "Basta con quel cacciaballe! Vuoi
farla rincretinire del tutto?'' Come se mi reputasse cretina a meta. Mica bello da parte sua.
"Ma se ha avuto la media del quasi Otto" protesta mia madre. Dice sempre che i
voti di scuola non contano, ma pur di difendermi è disposta a smentire tutte le sue
teorie.
"Solo a scuola si sveglia! " grida mio padre. "A casa dorme! Tutto il giorno a far
niente, e poi la sera non ha fame! Mandala a lavorare, e vedrai che la fame le viene! È
che è viziata, ecco cos'è! Tutti i tuoi figli sono viziati! Non sanno fare niente di utile! Solo
fesserie sanno fare! Per forza poi hanno la psicosi e le altre balle!" Mi ha guardato con
furore: "E cosa si aspetta a chiamare il Nero Veloce?"
Il Nero Veloce è il nostro medico di casa. Il soprannome gli è rimasto dai tempi
dell'università, quando tra una lezione e l'altra correva già al bar della facoltà e gridava al
barista: "Un nero veloce!" per dire: un caffè alla svelta. Da allora nessuno, dice mia
madre, l'ha più chiamato col suo nome. Tra i tanti medici che mia madre ama consultare,
il Nero Veloce è l'unico che mio padre tolleri e rispetti. Forse perché si arrabbia circa
come lui. Se siamo ammalati si arrabbia perché siamo ammalati ("questo frescone si è
beccato la bronchite!", "l'oca padovana ha le tonsille infiammate! "); se non siamo
ammalati si arrabbia perché non lo siamo: "Vuoi piantarla di chiamarmi per niente?" dice
a mia madre, sbatacchiando irosamente lo stetoscopio. "Ho un sacco di malati seri che
mi aspettano, io, ho mica tempo di star dietro alle tue frescacce!'' Le manie di mia madre
lui le chiama frescacce, mio padre pallini, Olivieri fobie. Mia madre ne ha un sacco, di
fobie: claustrofobia, agorafobia, ma la più grave è la patofobia, che vorrebbe dire paura
delle malattie. Ogni tanto, anzi ogni pochissimo, si mette in mente di avere malattie
terribili e fulminanti, e circola per casa con l'aria di quella che ha un piede nella fossa.
Quest'anno ha avuto un paio di infarti, una mezza dozzina di tumori (ognuno in una
parte diversa del corpo), un'arteriosclerosi galoppante, una volta dopo essersi punta in
giardino potando il rosaio le è venuto in mente che sarebbe potuto venirle il tetano e in
capo a un'ora aveva il tetano, cioè tutti i sintomi, le mascelle serrate, le contrazioni, il
trisma, il risus sardonicus e tutto quanto (dopo ha scoperto che certi dei sintomi che
aveva vengono solo ai cavalli, ma nell'agitazione aveva letto male il dizionario medico e
così le erano venuti pure quelli).
Figuriamoci il Nero Veloce, che la conosce da quando era piccola. Gli altri medici,
dopo averla ascoltata, di solito le danno un sedativo e qualche buona parola in cambio di
diecimila lire, e lei guarisce per incanto. Il Nero Veloce le dice un sacco di insolenze: e lei
guarisce lo stesso. Tutti i sintomi le spariscono in un baleno: sparito il cancro, sparito
l'infarto, sparito il tetano, risanata in un minuto. E felice come una pasqua: perché mia
madre, con tutte le sue disgrazie e i suoi dolori veri, ama moltissimo la vita. E proprio
per questo, credo, che ha tanta paura di morire.
"Quando sarai malata sul serio nessuno ti crederà!' la minacciano in coro mio
padre e il Nero Veloce. "Ti lasceremo morire tra i tormenti, ecco cosa faremo!" Lei li
guarda compunta, con gli occhi che le ridono in segreto, e dice che non lo farà più.
Naturalmente sa che lo farà ancora, e anche loro lo sanno, e sanno anche che si
spaventeranno ogni volta. Per questo sono così inferociti, dopo.
E il bello è che la patofobia non ce l'ha solo per se stessa, mia madre, ma anche
per gli altri; e il suo potere di suggestione è così forte che riesce delle volte a contagiare
anche i più refrattari. Per esempio, qualche settimana fa, una sera, ha cominciato a
guardare il collo di mio padre con un'aria strana. " Stai bene?" gli chiedeva. "Non ti senti
niente?"
"Sto benissimo!" rispondeva mio padre scocciato. "Cosa dovrei sentire?"
"Ma, non so, mi pareva... Mi pareva che avessi un gonfiore sul collo. Come uno
gnocco, lì davanti. Non te lo senti?"
Mio padre si tocca il collo li davanti. Lo ritocca. Dice che, effettivamente, gli pare
di sentirsi uno gnocco, sicuro che c’è uno gnocco, ma guarda che gnocco, cosa sarà 'sto
gnocco. "Adesso che ci faccio caso, mi fa anche un po' male. A pensarci bene, faccio
anche fatica a inghiottire."
"Non sarà niente," dice mia madre "ma è meglio telefonare al Nero Veloce."
Il Nero Veloce, sentita la descrizione dello gnocco, ha detto di andare da lui la
mattina dopo. "Non sarà niente, ma a meglio che ti fai vedere subito."
E cosi, dopo una notte insonne, continuando a dire "non sarà niente'', e a pensare
"cancro del fumatore", sono andati. La mamma ha aspettato in anticamera e il tempo
non passava mai e c’era una pendola che faceva toc, toc, toc (mia madre è molto brava a
descrivere la suspense, non per niente scrive romanzi a puntate), e le pareva di aver
aspettato due secoli, quando dopo due minuti sono usciti mio padre e il Nero Veloce.
"Era un osso" le ha detto mio padre con voce strana.
"Non un osso! L'osso!" ha urlato il Nero Veloce furente. "L'osso del collo!
Credevi che tuo marito non ce l'avesse, l'osso del collo? Tu non ce l'hai forse?"
Mia madre si è toccata il collo. Sì, ce l'aveva.
"Che strano" ha detto. "Non me n'ero mai accorta." Il Nero Veloce non l'ha
ancora digerita.
Mio padre neanche. "Guarda che figura da fesso che mi hai fatto fare! Mai fatta
una figura così da fesso."
“È perché ti voglio bene" ha detto mia madre con voce sentimentale. "Ho avuto
paura per te."
"Se tu sei scema, mica una buona ragione per far scemo me" ma era contento. Gli
ci vorrebbe un finto cancro ogni settimana per convincersi che ci è indispensabile.
Comunque l'altra sera è stato lui a dire che ci voleva il Nero Veloce. "Lo chiami
per tutte le tue fesserie e non lo chiami quando i figli ne hanno bisogno." Ci guardava
come se fossimo improvvisamente macilenti. "Non vedi come sono conciati? E chiama
il Nero Veloce, no?"
Così il Nero Veloce è venuto.
La Bruna l'ha scartata subito. "Via, scio! Non farti neanche vedere da me!" le ha
detto con ira. Effettivamente, si vede che lo studio, la politica e il Dario le fanno da
ricostituente: non è mai stata bella, salda e proterva come adesso. Della psicosi del
Maurizio, ha detto che son tutte frescacce e che pensi a mangiar bistecche; poi gli ha
detto che il giorno degli orali gli darà lui una pilloletta speciale, una sola, mirabolante,
segretissima, che gli farà ricordare tutto, anche quello che non ha studiato, anche i
numeri delle pagine.
"Anche le luride notiziole?" ha detto il Maurizio.
"Anche le più luride" ha promesso il Nero Veloce. "Ti verrà uno scilinguagnolo
mai visto." Mio fratello con lo scilinguagnolo, non riesco a figurarmelo. Comunque
adesso il Maurizio è là che fa le jam sessions e scrive poemi e fa gazzarre con la Tessa,
che tanto gli esami glieli fa la pilloletta. Ci fosse una pilloletta anche per me. Mica per gli
esami, cosa m'importa degli esami, ma per parlare con la gente senza avere il rallentatore
e la sordina e la paura di non so che cosa. Boh.
A me, il Nero Veloce ha detto: "Uei, frescotta. Cosa sarebbe questa storia del
mangiar poco e aver la luna e la faccia verdesina? Piacciono mica 'ste storie, a me. Fai
piacere di far fagotto e menare le ruote" il Nero Veloce parla cosi.
" Menare le ruote dove?" ha detto la mamma.
"A San Mamete" ha detto il Nero, che mi conosce da che son nata. "A San
Mamete le passa tutto."
"Ma gli altri due hanno gli esami" ha detto mia madre. "Il Maurizio ha la psic... si
dico, la maturità, non posso lasciarlo proprio adesso."
"E tu che c’entri?" ha detto il Nero Veloce. "È lei che deve andare, mica tu.
Mandacela con qualche zia, con qualche cugina, che ce n'ha un fracco. Dovrà mica star
sempre attaccata alle tue sottane! Crederai mica di essere insostituibile?"
"No" ha detto la mamma senza sorridere. "Immagino di no. Immagino che starà
benone anche senza di me. Quando lavoro, non è che le faccia molta compagnia.''
Tu mi fai sempre compagnia, avrei voluto dirle. E io non sto bene senza di te. Mi
sarebbe piaciuto proprio dirglielo. Però volevo andare a San Mamete, così non l'ho
detto.
"Con chi ci vorresti andare?" ha detto mia madre.
"Boh.'' Non m'importava con chi. Bastava andarci.
"Non dire sempre boh!" ha detto mia madre. "È troppo comodo dire boh! " Poi
mi ha sorriso, quella tonnellata di allegria attraverso un passaggio stretto stretto. "Sono
un po' nervosina" si è scusata.
Non era solo nervosina, era triste e io lo sapevo e non facevo niente per evitarlo.
Nessuno fa mai niente: I figli, trovo che sono uno schifo.
"Trovero io qualcuno" ha detto allegramente mia madre.
E così domani parto. A quest'ora sarò a San Mamete, nella mia soffitta, sentirò i
ghiri correre sul tetto a salutare la luna, e il lago borbottare contro il molo. Sono
contenta. Ma anche scontenta. Non è che mi dispiaccia lasciare la famiglia. Mi dispiace
che non mi dispiaccia. Credo di essere egoista. Non voglio essere egoista! Ma lo sono,
ecco qua. Forse mio padre ha ragione, se dovessi lavorare per vivere... Ma che colpa ne
ho io se non devo lavorare per vivere? Insomma, tutto questo è molto triste. No, non
molto triste. Solo un po'.
Domani a San Mamete mi passa tutto.
NON SARÀ NOSTALGIA

Forse qualcuno mi ha chiamata. Sono sveglia.


Allora è vero, sono qua. Nella mia casa. Nella mia soffitta. Sotto c’è la voce del
lago e sopra quella degli uccelli. Non sto sognando. Sul letto c'è la coperta a quadratini
fatta da me e nell'aria il colore verde dei risvegli. È un mattino "vero" di luglio. Non me
lo sto inventando io.
A quest'ora a Milano mio padre sta percorrendo il corridoio a passi di lupo,
fumando e tossendo e gridando. "Compagna! Fuori dal letto che il popolo ti chiama!",
"Alzati deficiente, te la do io la psicosi!" e forse dice anche: "Sbrigati principessa",
dimenticandosi che io non ci sono. Oppure è in cucina a friggere la bistecca ricostituente
al figlio esaurito, con la faccia aggrottata, la sigaretta appesa all'angolo della bocca,
l'occhio chiuso per non farci entrare il fumo, scottandosi le dita e levando alte invettive
alla bistecca, alla famiglia e all'umanità. Mio padre.
Strano come si vedono bene le cose quando sono lontane.
È buffo, però. Quando sono a Milano con loro non faccio che pensare di essere
qui, e adesso che sono qui non faccio che pensare a loro che sono là. Boh.
Dal piano di sotto arrivano schianti e scrosci inframmezzati da grida di cordoglio.
È la Cuginona che fa i mestieri di casa. Siamo qui a San Mamete io e lei, sole. Roba mai
vista e sentita. Forse per questo non riesco ancora a persuadermi che sia vero.
Lei è l'unica cugina che di esami non ne ha (ha ventisei anni), in più va matta per
San Mamete (ci veniva da piccola col suo papà) e in più ardeva di prendersi cura di me.
"Non penserai di affidare tua figlia a quella balorda!" gridava mio padre. "A quella
squinternata! A quella cercagrane! Neanche un gatto, le affiderei! Neanche una pulce di
gatto!''
Ed eccoci qua.
È che la Cuginona ci teneva tanto: era una specie di esame di maturità, per lei, una
prova per se stessa e per gli altri prima di sposarsi. Perché dovrebbe sposarsi, la
Cuginona, ed è mezzo morta di felicità e di spavento. Dopo tutte le sue vicissitudini e i
suoi guai, è arrivata in porto, proprio al porto che le ci voleva, e il Franco (lui si chiama
cosi) è lì che aspetta solo che lei si decida a fissare la data, ma lei non si decide, ha troppa
paura. Paura di essere troppo balorda; di far fare brutte figure al Franco; di non saper
educare bene le sue bambine: perché il Franco è vedovo (ma anche giovane e simpatico
e bello) e ha due bambine che la chiamano già mamma con voce e occhi pieni di gioia, e
lei si nasconde dietro le porte a piangere per l'emozione.
Io sono sicura che saranno felici con lei, e lei con loro, ma lei non sa ancora
crederci, ha avuto troppi guai per crederci, continua a ridere e a piangere e non sa
decidersi. Ha bisogno, ma "bisogno" di fiducia.
Credo che mio padre l'abbia capito. Mio padre non sembra, ma tante cose le
capisce. Per questo l'ha lasciata venire qui con me. E adesso m'immagino che sarà la sulle
spine, a fumare come un turco e a beccare tutti, povera chioccia nevrastenica, al pensiero
delle catastrofi cui potrei andare incontro per mano della Cuginona.
Per adesso non ci è capitato niente di sinistro. Solo un po' di vasellame rotto, e un
sacco di spaventi a vuoto della Cuginona. Perché la Cuginona è specialista in spaventi.
Per niente sobbalza e fa cadere tutto e caccia urli da gelare il sangue: il suo sangue,
specialmente.
"Chi è che ha fatto 's-sto urlo?' balbetta atterrita, portandosi la mano al cuore.
"Sei stata tu" le dico.
" Io? S-sei sicura?' chiede incredula, e tira un gran sospiro. "Lo vedi come sono
fatta?" dice poi avvilita. "Sono qui per proteggerti, e caccio gli urli."
"Ma io non mi spavento mica" le dico.
"Ma io sì" geme lei angosciata. "E poi come vuoi che faccia a sposarmi se caccio
sempre gli urli! Caccerò l'urlo anche davanti al prete! "
A me viene da ridere, a pensarci, e allora viene da ridere anche a lei, e va tutto a
posto fino al prossimo urlo. Qualsiasi cosa, anche la più normale, la più solita delle cose,
può all'improvviso suscitarle l'urlo. Una sera, per esempio, stavo entrando dal giardino
col Pluto in spalla, come milioni di altre volte: lei mi vede così col gatto in controluce, e
frac, giù tutti i piatti con un urlo incommensurabile. Boh. "ll gatto" ha spiegato poi con
voce strozzata. "ll gatto!"
Voi potreste pensare che la Cuginona abbia paura dei gatti, che sia allergica o che
so io; nossignori, la Cuginona li ama moltissimo, li cura, gli fa la pappa e li chiama minni-
minni. Ora, che in una casa normalmente piena di gatti una tipa che normalmente li ama
e li vezzeggia venga presa da un attacco isterico perché ne vede uno, era un fatto non
dico strano (niente a strano con la Cuginona) ma per lo meno curioso.
"Ma era alto!" ha spiegato lei indicandolo col dito tremante. "Un gatto alto!" e si
copriva ancora gli occhi per l'orrore, mentre il Pluto la guardava ronfando dalla mia
spalla.
La storia del gatto alto è solo un esempio. Ce ne sono un sacco così. Il fatto è che
la Cuginona, soffice e radiosa com'è, ha il sistema nervoso scassato. Il Nero Veloce lo
dice sempre. "Psicopatica" dice. "Soggetto psicopatico." È che a vederla così grande e
bionda e tutto, una specie di Anitona Ekberg molto più dolce e senza ghiaccio, la gente
si dimentica che non è altro che una povera bambina che adorava il suo papà e l'ha
perduto troppo presto. Ne ha passate di tutti i colori, dopo, povera Cuginona, cose che
a raccontarle uno non ci crede e invece sono tutte vere e tutte capitate a lei. I guai più
recenti e più grossi li ha passati con un tipo molto più vecchio di lei, che s'era messo in
testa di sposarla per forza, (tra parentesi era già sposato, come s'è poi scoperto, ma
voleva sposarla lo stesso) e siccome lei non voleva, la teneva legata minacciandola di
morte, comparendole improvvisamente davanti con la rivoltella puntata e cose del
genere.
Lei dice che il peggio non era quando sparava sul serio, il peggio era aver paura
che sparasse. Infatti una volta le ha scaricato sei colpi di rivoltella un centimetro sopra la
testa, tipo Guglielmo Tell, e lei niente, le è venuto solo un po' di singhiozzo. Un'altra
volta le è andato vicino con una biro in mano, e lei è rimasta svenuta per tre ore.
Questo tipo non era un cattivo tipo, lei dice, aveva solo quella fissa di sposarla per
forza e di sparare. Si chiamava Arturo. Per anni la Cuginona è vissuta col terrore
dell'Arturo; anche quando era con noi e lui era mille miglia lontano, le pareva di
vederselo sempre davanti, e ogni momento sobbalzava, e si portava la mano alla gola
dicendo: "Art", troppo sconvolta per dire anche il turo. Una volta le è venuto un mezzo
collasso al vedere in giardino un innaffiatoio illuminato dalla luna: diceva che le era parso
l'Arturo con una mano sul fianco e la rivoltella nell'altra.
Il guaio della Cuginona è che anche nei momenti tragici fa ridere tutti. Lei poi è la
prima a ridere di se stessa, anche quando è tanto infelice da voler morire. L'ha desiderato
davvero, certe volte. E dice che sarebbe anche morta se avesse trovato un sistema di
morire che non facesse bum e non facesse venire il mal di pancia e non facesse diventare
brutti. Poi anche se l'avesse trovato dice che forse non sarebbe morta lo stesso per via di
un pensiero fisso che aveva, tipo allucinazione: l'idea che non le entrassero i gomiti nella
bara. Si svegliava di notte con quel pensiero fisso, tutta sudata: non mi ci stanno i gomiti,
dove li metto i gomiti; insomma neanche il pensiero della morte poteva darle sollievo per
via di quei fetenti gomiti, come li chiamava. Sono diventati celebri, i gomiti della
Cuginona; mia madre parlando specifica: "Mia nipote, quella dei gomiti" oppure: "Quella
di Guglielmo Tell"; adesso dirà anche: "Quella del gatto alto".
"Squilibrata" dice mio padre. "Famiglia di squilibrati. "
Certe volte mi pare che lo siamo per davvero. Ma mia madre dice che tutte le
famiglie hanno i loro rametti. E che se non li hanno, sono famiglie noiose.
Da quando ha conosciuto il Franco, comunque, la Cuginona è migliorata molto.
Alle bare e ai gomiti non ci pensa più per niente. E noi ragazzi non passiamo più le sere
di pioggia a escogitare sistemi per eliminare l'Arturo senza farlo soffrire (perché la
Cuginona ha pietà di tutti, poverini, poveretti, non vuol fare soffrire nessuno, e la
mamma dice che è per questo che le son capitati tanti guai). È bastata la comparsa del
Franco perché l'Arturo si eliminasse da se, e anche la paura dell'Arturo. Da quando
siamo qua, ha detto "Art" una sola volta, e poi ha fatto le boccacce.
Però di urli ne caccia sempre. Tra un urlo e l'altro pulisce la casa (io faccio su i
letti), fa da mangiare (io metto la tavola), lava i piatti (io asciugo i superstiti) e ci
godiamo San Mamete noi da sole. Senza nessuno che ci sgridi, che ci chiami, che ci
faccia fretta, che ci dica: fa' questo o non fare quello. Noi e San Mamete e basta.
La mattina prendiamo il sole sul molo, e sembra strano non vedere mia madre con
la sua sdraio, il suo cappellone e il suo cestino, con l'aria e l’acqua intorno che si
riempiono di farfalle bianche che sono brandelli di fogli scritti e stracciati, e il Cigno e la
Cigna che vengono a chinarci sopra il lungo collo bianco come se volessero leggere.
A mezzogiorno facciamo il bagno, e sembra strano non vedere mia sorella stesa in
bichini sul canotto di gomma, lunga abbronzata e sdegnosa, a prendere il sole e dare
pacche in testa al Maurizio sommozzatore che affiora improvvisamente a fare azioni di
disturbo e poi riscompare verso gli abissi in una scia di bollicine e versi zen. Mio fratello
è capace di stare sott'acqua un sacco di tempo, e mia madre dovrebbe saperlo, invece si
spaventa tutte le volte. "Maurizio, Maurizio!" grida agitatissima, dal molo "Maurizio
smettila! Maurizio, ti prego! Maurizio torna subito su!" e non si accorge che il Maurizio
riemerso le sta seduto alle spalle, gambe incrociate tipo Budda, mani giunte sopra la testa
e sguardo al nirvana.
Sembra proprio strano non vederli.
Nel pomeriggio andiamo in escursione su per i sassi del fiume e la Cuginona ci
casca a semicupio ogni volta, oppure su per le vecchie mulattiere della valle; la Cuginona
è pigra e ansima da matti ma ci viene "per andar giù di fianchi" dice, e per ricordare tutte
le cose che sono successe per quei sentieri in tante infanzie; da ogni sasso, ogni
cespuglio, ogni svolta, ogni pianta vengono fuori vecchie immagini, vecchie parole, "qui
il mio papà ha detto..., e ti ricordi la tua madre?, lì è dove è caduto dentro il Maurizio
quella volta, ecco il sasso dello zio Pino, qui il nonno Strada ha avuto le vertigini... " e
ritornano, puntuali e precise, frasi e immagini e gesta anche di amici di nonni e bisnonni
che non abbiamo mai conosciuto e che ci sono stati trasmessi dai nostri genitori e
domani si trasmetteranno ai nostri figli: a questo, credo, che ci attacca così a questo
paese, queste lunghe lunghe radici.
Anche i cani ricordano, o così, sembra, perché corrono avanti e indietro
annusando, scodinzolando e uggiolando sottovoce, come se facessero festa a dei
fantasmi.
Ma non sono fantasmi. Ohi dico, adesso non comincerò mica a pensare che mi
sono inventata anche loro. Anche mio padre e mia madre e i miei fratelli. Non potrei
sopportare di pensarlo neanche un minuto.
Beh, dopo aver girato per la valle e per i sassi del fiume, io e la Cuginona torniamo
a casa al tramonto, piene, di fiori, di graffi e di nostalgia. Nostalgia di cosa, se siamo qui?
Boh.
La sera, quando è buio, stiamo sul molo a guardare la luna, che in questo periodo
è una falce sottile sopra il profilo nero del Pinzernone. A quell'ora a Milano i miei stanno
in soggiorno, con la televisione che va e nessuno che l'ascolta, il papà fuma e tossisce e
insolentisce, la mamma fa pippiolini e si tira il ciuffo e prende cachet di nascosto, la
Bruna studia e cerca di conciliare il Dario e Marx, il Maurizio fa bop bop con la pipa e
spera nella pilloletta, e forse sentiranno la mancanza dei gatti che giocano coi gomitoli e
dei cani che fanno il carosello intorno. Chissà se sentono anche la mia. Io parlo così
poco. E come se non ci fossi.
Ma ci sono. Ehi, ci sono.
Ore e ore a guardare il cielo e a sentire questo profumo di tiglio, di lago e di
vecchie infanzie, che non somiglia a nessuno. E far finta di non vedere che la faccia della
Cuginona ogni tanto si bagna di lacrime (il suo papà, gli anni, gli sbagli, e i ricordi e
l'amore e la gratitudine e tutto) e anche la mia faccia delle volte si bagnerebbe, e i miei
perché non li so. Non è nostalgia. Non so cos'è. È estate, sono qui, che altro voglio?
Non lo so. Forse questa è felicità, ma lo saprò quando sarà passata. La luna sta là e non
dice niente.
"Ho deciso" ha gridato improvvisamente ieri sera la Cuginona, così forte che ho
sobbalzato io stavolta. S'è tirata a sedere e ha steso le braccia in un gesto solenne: "Ho
deciso: mi sposerò qui". Il lago e il cielo e l'infanzia ascoltavano. "Sono sicura che
inciamperò e cascherò giù per l'altare e mi verrà un singhiozzo tremendo intanto che
dico 'sì' e la signora Vailati in fondo alla chiesa dirà " 'l'avevo sempre detto che non
aveva un comportamento serio' " e qui ha fatto la voce nel naso per doppiare la
signora Vailati. Si è asciugata gli occhi col dorso della mano, ha riso e ha detto: "Domani
scrivo al Franco che voglio sposarlo subito, qui". Le tremava un po' la voce, ma si capiva
che era decisa davvero e per sempre: aveva passato gli esami di maturità.
Mi ha guardata e so che mi avrebbe baciata se nella nostra famiglia si usasse
baciarsi, ma non si usa. "Grazie" ha detto.
Grazie a me? Boh. Non so grazie di che cosa. Mica ho fatto niente, io. È questo
paese che ha fatto tutto, con tutti quei ricordi vivi di madri e di padri, di zii e nonni e
bisnonni che risalgono alla notte dei tempi e che dovranno continuarsi domani. Noi li
continueremo. I nostri figli, i nostri nipoti troveranno parole, immagini, ricordi precisi di
noi sui sassi del fiume, tra le ombre fresche della valle, nella conca dell'eco, nel cigolio
delle vecchie barche. È quasi come essere immortali.
Questo pensavo ieri sera, e non so se perché sono matta o cosa, neanche me ne
importa molto saperlo.
Adesso è mattina e sono sveglia. Chi mi ha chiamato?
"Nicoletta! Vieni in barcotto?"
È la Rosella! È arrivata. È qui, è vera. Domani arriva l'Antonio e sarà vero anche
lui, e poi arriveranno la mamma il papà e i fratelli e tutti, e sarà tutto vero. Sarò felice, se
avrò tempo di fermarmi un momento a pensarci. Adesso non ce l'ho.
Spalanco le persiane e la Rosella è lì, in piedi sulla prua del barcotto, che si tiene
ferma al molo con le mani e guarda in su coi suoi occhi azzurri e il suo sorriso da
castoro. Un giorno racconterò la Rosella ai miei figli, e loro la racconteranno ai nipoti,
che così incontreranno in ogni angolo della valle cento immagini di Roselle diverse, le
sue risate, le sfuriate, le sue frasi buffe, i suoi spettacolari incidenti, e sarà qualcosa di
vivo, parte del paese e dell'infanzia e di loro, l'amica della nonna Nicoletta.
"Muoviti stupidotta" mi dice adesso, come sempre; e non pare che sia passato
quasi un anno dall'ultima volta che siamo andate in barcotto, ma meno di un giorno.
"Non potete andarci! Fa acqua!" grida la solita voce inascoltata dalla riva, e l'aria
verde-oro si riempie di echi.
Quando ci stacchiamo dal molo, una remando e l'altra vuotando acqua col
pentolino, è come se legioni di nonni bisnonni trisnonni passati, legioni di figli nipoti
bisnipoti futuri venissero con noi, remando e vuotando acqua dal barcotto, verso la con-
ca dell'eco.
POEMA DI UN GIORNO DI PIOGGIA

A una a una, le case si sono aperte, e adesso ci siamo proprio tutti. Tutti i soliti di
tutti gli anni. Piove. Siamo tutti ammucchiati nel verandone tra giradischi magnetofoni
bridge rubamazzetto sassofono ping-pong hully gully, cani bagnati che rubano le palline,
gatti asciutti che rubano le fishes, madre che vaga in cerca di ispirazione seminando
ovunque foglietti di appunti e pastiglie antinevralgiche, padre che circola in giardino
sotto l'ombrello del nonno, fischiettando aggrondato, torso nudo, calzoncini stinti,
sigaretta appesa all'angolo della bocca e moccoli a non finire contro il Santo Mamete che
fa piovere appena arriva lui. Sono tre giorni che è qui e sono tre giorni che piove. Da
quando ho memoria, è sempre stato cosi.
A me la pioggia piace, in Valsolda. Fa una musica in lago e una musica diversa
sulle foglie, i profili aguzzi delle montagne circostanti compaiono e scompaiono tra soffi
leggeri di nebbia, e dal giardino viene un odore fresco, un odore felice.
"Il pino di fronte a tutto bagnato / dove saranno andati gli uccelli?" sta scritto sul
rotolo di carta igienica infilato nella portatile di mio fratello. "Bodhidarma nella sua
grotta / sta bestemmiando per tutta quest'acqua / dice: `porco Tathagata!' "
Tathagata sarebbe una specie di divinità buddista o roba del genere. Bodhidarma sarebbe
una specie di santone vagabondo seguace di Budda o qualcosa di simile, e questo a
l'inizio del poema odierno: quando piove mio fratello scrive sempre poemi su carta
igienica. Mia madre dice che in nessuna famiglia si fa tanto uso di carta igienica come
nella nostra: cosa vuol dire nascere poeti.
Il rotolo di oggi si intitola: "Poema scritto in un giorno di pioggia in
compagnia di Budda, Charlie Parker e Kerouac". Charlie Parker è un sassofonista
che mio fratello ama molto e anch'io: era infelice, malato, poverissimo, suonava meglio
di chiunque al mondo ed a morto giovane. Kerouac è uno scrittore americano beatnik
che piace moltissimo a mio fratello, abbastanza a mia sorella, lascia perplessa mia madre
e manda in bestia mio padre; a me non è ancora permesso leggerlo. Budda è Budda.
Questo rotolo mio fratello l'ha infilato nella macchina stamattina e ogni tanto ci va
a scrivere qualcosa così di getto. Anche gli altri possono scriverci qualcosa di getto
quando gli capita, e alla fine a leggere tutto di fila viene fuori un macello bellissimo e ci si
diverte a riconoscere gli autori. Adesso è pomeriggio, il rotolo è circa a meta e ci si
leggono già cose stranissime, come: "un motoscafo all'arancia / ed un soffitto
rachitico / un copricapo analgesico ed un bicchier di vin", ma anche: "Come mi
piacerebbe andare per i monti / libero libero libero porco giuda / col sacco a
pelo e un fornello da campo e cento salsicce / mentre canta il gallo cedrone" (e
questo è mio fratello di sicuro), "e il Maraja / seduto sul sofa / beve un grappino /
con suo cugino" (e questo mi sa che è l'Antonio) "con suo cugino che è molto
contento / per via dell'aumento / di stipendio / ottenuto per vilipendio / della
liberta" (e qui sono un po' incerta, ma per via della liberta mi pare uno di famiglia).
Comunque mio fratello lo riconosco quasi sempre perché è il più bravo di tutti, secondo
me.
Forse per questo è stato rimandato in italiano. E non per le notiziole di cui aveva
tanta paura, ma pare proprio per lo scritto, di cui era tanto sicuro. Forse si è dimenticato
che stava facendo un tema per gli esami e non un poema su carta igienica. Fatto sta che
quando si a presentato all'orale, tutto arzillo e con la pilloletta del Nero Veloce in corpo,
il professore di italiano l'ha guardato come se fosse un mentecatto, maneggiando il suo
tema come se fosse una bomba in procinto di esplodere, e per difendersi gli ha chiesto
cinquecentomila notiziole. Lui ne sapeva seicentomila. Ma l'hanno rimandato lo stesso.
Adesso dice che è stata colpa della pilloletta, che gli ha fatto ricordare troppe cose. Che
coi luridi (professori) non bisogna sapere troppe cose, eccetera eccetera.
Mio padre non è abituato ad avere figli rimandati, e immaginavamo che alla
notizia avrebbe fatto una scena turca, gridando: deficiente disgraziato, ecco i risultati dei
tuoi tromboni, ecco i risultati dei tuoi buddisti, io l'avevo sempre detto, disgraziato
deficiente. Invece no. Invece ha detto disgraziati deficienti ai professori, "e guarda come
siamo ridotti! Questa è la democrazia! Questo è il rispetto delle opinioni altrui! Popolo di
pecore! Se uno ha delle idee sue lo boicottano! Deficienti, disgraziati! Devi essere
contento che ti hanno rimandato! È un onore essere rimandato da gente simile!" e
ancora un po' il Maurizio diventava un eroe nazionale, un martire della libertà
d'opinione. Mio padre è fatto così.
Comunque mio fratello ha detto che a settembre farà un bel temino graziosino
rispettosino coi concettini ordinatini, così sarà promossino. L'ha detto con voce amara,
inframmezzando le parole con cupi bop bop della pipa. Ma se credete che sia depresso vi
sbagliate. Appena è arrivato qui, gli è passato tutto. Suona strumenti a perdifiato (il
Nicola lo accompagna al pianoforte), nuota a perdifiato, va in montagna a perdifiato, fa
sci d'acqua a perdifiato, si pesta a perdifiato con la Tessa, e quando piove scrive a
perdifiato versi polemici su carta igienica: "Ci sono al mondo tante cose che amo /
l'acqua Charlie Parker il vino / le foglie le radici e tutte le piccole piante / ma c’è
qualcosa che mi opprime / e mi fa correre urlando / sono i notai i banchieri le
istituzioni / i programmi gli occhiali le convenzioni / il raffreddore la morte le
società per azioni / gli schemi i frigoriferi la buona educazione / (cambio mano) /
ma va' a magna' er sapone ".
Tanto per la cronaca, come dice mia madre: anche l'Antonio è stato rimandato in
italiano più in alcune altre materie. Ma neanche lui appare molto depresso: c'è abituato.
Sono io che mi metto in mente che abbia i complessi eccetera eccetera, che i suoi non lo
capiscano e via dicendo. Mia madre dice che tutti i ragazzi che vanno male a scuola
trovano torme di ragazze che li compiangono e li reputano incompresi dai genitori cattivi
e dai cattivi professori. Anche un suo fratello, che a scuola non studiava mai, dice che era
sempre gremito di ragazze che lo consolavano sebbene non avesse alcun bisogno di
essere consolato. Tra l'altro proprio quel fratello lì che tra tutti gli altri bravissimi andava
male a scuola, e poi diventato un mezzo genio dell'elettronica o roba del genere, ed era
sulla strada del premio Nobel quando è morto a meno di quarant'anni.
Conclusione, anche l'Antonio può diventare come niente un candidato al Nobel.
Intanto gioca a pingpong, insegna ai miei cugini più piccoli a fare i Tarzanetti
(arrampicarsi sugli alberi e fare l'urlo), fa acrobazie con la lambretta, canta, litiga, urla,
balla l'hully gully e sta benone: apparentemente. Mi ha insegnato l'hully gully a viva forza,
perché lui è l'unico tra tutti i ragazzi di San Mamete a cui piaccia ballare. Anche a me
piace ballare, specialmente il twist il madison il surf l'hully gully e quelle robe lì, ma non
io e lui soli. Io e lui soli mi vergogno. E siccome gli altri di ballare non hanno mai voglia,
finisce che non balliamo mai. "Almeno quando piove!" grida l'Antonio. "Non si
potrebbe ballare almeno quando piove? Siete tutti dei morti di sonno" e va amareggiato a
scrivere sul rotolo:
"Tutti morti di sonno / questi individui che ballar non ponno", dal che si
vede anche che sta ripassando Dante per l'esame a ottobre.
Dopo di che ricomincia a giocare a ping-pong, a litigare con tutti, a cantare, a
urlare.
Mio padre intanto continua a zappettare in giardino sotto l'ombrello del nonno,
mia madre vaga in trance, col ciuffo in mano, scribacchiando strane parole mozze su
mozzi foglietti che perde immediatamente, e se anche li ritrova è lo stesso perché non
capisce più quel che ci ha scritto, allora per consolarsi inghiotte un paio di pasticche,
oppure si mette a fare lo yoga. Lo yoga è il suo ultimo pallino. Ha studiato le posizioni
sul libro, e poi se le è fatte illustrare praticamente da me, dice che non c’è niente come lo
yoga per riposare il cervello e favorire l'ispirazione, per cui da un paio di settimane la si
può trovare in qualsiasi angolo della casa in posizioni curiose, che dice: "Vrikhasana: o
posizione dell'albero. Aumenta l'equilibrio neuromuscolare. Vajrdsana: o posizione del
fulmine. Favorisce la concentrazione".
Poco fa si è sentito un urlo seguito da uno scroscio di oggetti infranti, ed è
comparsa la Cuginona con gli occhi fuori dalla testa e la mano sul cuore.
"Un gatto alto?" le abbiamo chiesto.
"No, una zia a rovescio" ha risposto indicando col dito tremante la stanza vicina.
Nella quale abbiamo trovata mia madre a testa in giù e piedi in su lungo una parete, che
diceva: "Sirshasana: o posizione capovolta. Utilissima agli intellettuali. Rinforza la
mente. Elimina i disordini cerebrali".
"Non si direbbe" ha detto mio padre.
A proposito di Cuginona, ci sono già esposte le pubblicazioni per il suo
matrimonio; e in attesa che arrivi su il Franco da Roma con le bambine e tutto, lei è qui a
San Mamete in ritiro spirituale, tra fragorose esercitazioni domestiche e cagnare
incommensurabili. Per non parlare degli urli. Noi ci siamo tanto abituati che non ci
facciamo nessun caso, ma mio padre accorre ogni volta stranito, credendo chi sa che
sciagura, e poi blatera furibondo:
"E quella dovrebbe sposarsi fra dieci giorni! Gli verrà l'infarto a quel poveretto!
Lo farà restar secco! "
"Scusa, zio Dino" dice lei avvilita. "Non lo faccio apposta. Mi scappano proprio,
'sti urli."
Lui se ne va smontato, borbottando sotto l'ombrello.
"Il pino di fronte continua a essere bagnato / ormai è diventata
un'abitudine", sta scritto sul rotolo a tre quarti. "Ma la musica sulle foglie a più
sottile / forse tra poco cesserà la pioggia / e salirà il vento dalla conca dell'eco."
Ci siamo andati l'altro giorno a far colazione, alla conca dell'eco: prima che mio
padre arrivando facesse piovere. Al mattino siamo partite in avanscoperta io e la Rosella
col barcotto. Da riva ci inseguivano le solite voci:
"Non potete andarci! Fa acqua" gridava per abitudine la voce del Federico, fratello
della Rosella, da qualche anfratto invisibile del giardino.
"Non andate alla Casa dell'Inglese!" gridava un'altra voce da un altro anfratto, ed
era la nonna della Rosella.
"Non perdete di nuovo i sandali!" e questa doveva essere qualche madre.
"Aspettatemi, vengo con voi!" e questo era l'Antonio e stava sul molo,
visibilissimo, coi calzoncini a righe e le braccia in agitazione.
La Rosella ha fatto finta di non sentire e io di non vedere. La Rosella perché non
può soffrire l'Antonio, come l'Antonio non può soffrire lei, e io perché non so mai come
comportarmi con quei due che non si possono soffrire. Non è che lo dicano, anzi,
mostrano di ignorarsi; ma se io parlo con l'Antonio la Rosella mette il muso e se parlo
con la Rosella l'Antonio fa lo zulù, e la vita diventa molto complicata e mi viene la
malinconia. E poi in tre sul barcotto non ci si sta. Fa troppa acqua.
Così siamo andate via sole, remando e vuotando acqua col pentolino, come tanti
altri giorni di tante estati, e quando siamo approdate alla conca eravamo eccitate e felici
come se fosse la prima volta. "Ciao!" "Ao!" rispondeva l'eco e il verde folto della sponda
frusciava misteriosamente e la Casa dell'Inglese, antica e segreta dietro il suo scoglio
fronzuto, ci chiamava con le sue finestre di cielo.
Stavo esplorando una rampa di scala dove fiorivano enormi ciclamini, quando la
voce della Rosella mi ha chiamata dall'alto: "Nicoletta!" una voce strana, sommessa e
concitata insieme. Era in cima alla Scala e guardava giù verso di me: gli occhi azzurri
parevano verdi tra le lentiggini improvvisamente scurite. Ho sentito un brivido su per le
braccia e tutti gli echi di vecchie fiabe che mi bisbigliavano nella testa.
"Vieni a vedere" ha detto la Rosella sottovoce, come se qualcuno la stesse a
sentire. Sono corsa su.
Non era l'Inglese. Non era neanche il suo fantasma. Non c’era nessuno. Ma
sull'arco della vecchia finestra, dove per tante estati avevamo sognato di trovarlo seduto
con la pipa tra i denti e il fucile sulle ginocchia, c’era qualcosa. Un cappello di paglia, sul
tipo di quelli che portano gli stranieri in Italia d'estate, ma molto vecchio. E una pipa:
molto vecchia, che somigliava al cappello. Che somigliava all'Inglese.
Zitte, tenendoci vicine, abbiamo girato tutta la casa, tutte le stanze invase
dall'edera e dalle felci e dal muschio e dall'oblio, e ci pareva di sentire dei passi seguirci, e
una voce remota mormorare: "Voi ragazzine curiose, mie amiche. Io venuto da molto
lontano. Voi non tradire me".
Non c’era niente altro, nella casa. Niente altro che quel vecchio cappello e quella
vecchia pipa e tutti gli echi delle vecchie favole risvegliati nella nostra testa. Era un
poeta. Era un pazzo. Era una spia. Aveva ucciso un uomo. Amava la Valsolda. Se
è vivo, tornerà.
Su quel bisbiglio di favole è piombata, come una botta in testa, una voce sgraziata
dal lago: "Arribaarriba! Sono io! Uei, dove siete! Arriba-arriba".
Era l'Antonio. "Arribava", remando a pagaja, su un canotto di gomma mezzo
sgonfio, gridando come un ossesso. L'Antonio grida sempre. Soltanto quando è solo con
me diventa muto o circa. Ogni tanto si fermava per dare una pompata al canotto
pericolante, poi riprendeva a remare e a gridare, là sullo sfondo verdazzurro del lago.
Sembrava molto piccolo, visto così a distanza attraverso la finestra dell'Inglese come
attraverso un mirino nascosto. Una istantanea estiva.
"Non lo dirai a quello stupidotto lì" ha detto la Rosella.
Io guardavo quell'istantanea colorata, e mi pareva di essere divisa in due. Da una parte le
favole dell'infanzia, inconsistenti eppure certe; dall'altra l'Antonio, consistente e
incertissimo. Bisogna decidere, ho pensato confusamente. L'infanzia o il resto?
"Se glielo dici non siamo più amiche" ha detto la Rosella.
Non gli ho detto niente.
Abbiamo nascosto il cappello e la pipa sotto un ciuffo di felci nella soffitta
dell'Inglese, e siamo corse giù sulla riva incontro all'Antonio. La Rosella ha messo il
muso, l'Antonio e diventato zulù, e io non ho saputo più cosa dire ne all'uno ne all'altra,
come al solito. Siamo rimasti lì seduti tutti e tre in fila sulla riva, zitti e ingrugnati, lui
fumando sdegnosamente e con la scritta sulla fronte "io con le ragazze piccole mi
stufo", e noi pensando alla pipa e al cappello e alle favole interrotte.
Poi sono arrivati gli altri, e tutto e diventato come doveva essere. Abbiamo
scaricato le provviste; abbiamo fatto il bagno usando come boa il canottino di gomma
rotto, che si sgonfiava sotto di noi con sibili orrendi prendendo forme ancora più
orrende ("non ha più nulla di umano!" gridava il Renato, tipo che parla forbito); abbiamo
fatto i sommozzatori con scontri e cagnare subacquee, mentre il Bao e la Baina credendo
che annegassimo (lo credono tutte le volte) nuotavano come impazziti di qua e là
cercando di salvare il salvabile, prendendoci coi denti dove gli capitava, con conseguenti
rotture di bretelle e di slip e grida e ammaccature varie di arti, poi i pigri si sono asciugati
al sole (io faccio parte dei pigri) mentre gli attivi preparavano il solito fuoco con le solite
vicissitudini e i soliti cani mangiavano la solita razione di provviste e tutti bevevano il
solito vino, e la solita pastasciutta era scotta, l'unica cosa insolita era l'amico tedesco del
Nicola che mangiava le margherite col sale, vitaminen, vitaminen, e il solito vino ha dato
alla solita testa di tutti, specie di mio fratello, che ripudiando la lurida città civilizzata si
arrampicava come una capra in cima a scoscesi dirupi e là, grattandosi tutto per le
ortiche, contemplava il nirvana, ma poi si stufava del nirvana e tornava giù alla civiltà
scivolando sul sedere, così dopo un po' non c’era più il fondo dei blue-jeans, e allora si è
messo la sottana della Tessa e con quella declamava versi zen dagli scogli; dopo di che si
è tuffato con la sottana i sandali e il bicchiere in mano e tutto, e mia madre agitatissima
come al solito gridava: "Maurizio hai appena mangiato! Maurizio torna subito a galla!
Maurizio, ti prego!" così tutti per compiacerla si sono tuffati vestiti per ripescare
Maurizio sottana e sandali, e nel ripescare quelli perdevano i loro, e dopo un po' la
piccola baia era tutta un galleggiare di sandali gonne calzoni che non avevano più nulla di
umano, tra piedi e teste che affioravano e scomparivano di continuo e mia madre dalla
riva che gemeva: "Cosa diranno le vostre madri! Se la prenderanno con me! Un'altra
volta non si porta più il vino!" Lo dice tutte le volte.
E poi siamo tornati, tutti pigiati nelle vecchie barche. La conca verde si
allontanava dietro di noi, coi suoi fruscii, i suoi echi e le favole dell'infanzia, e l'Antonio
mi cercava la mano e io avrei voluto essere felice, dico felice del tutto, ma non potevo.
Non ero più abbastanza piccola.
"Sei arrabbiata?" sussurrava. "Perché sei arrabbiata? "
Non ero arrabbiata. Non lo sono neanche adesso. Anche adesso è qui che ascolta
con me il rumore della pioggia e sono sicura che gli piace, come gli piace insegnarmi
l'hully gully e portarmi in lambretta e tenermi la mano, ma forse è solo perché non ci
sono in giro altre ragazze più grandi che gli diano retta. Dovrei decidermi a diventare
grande io; forse allora... È che non voglio. Mi pare che il giorno che bacerò un ragazzo
l'infanzia sarà davvero finita e anche le favole. Non voglio diventare grande. Ma come si
fa a spiegarglielo? "Boh" gli rispondo.
Non so come faccia a non scappargli la pazienza con me. Forse è rimasta anche
in lui un po' d'infanzia, a consolarlo o a fargli male, a seconda dei momenti. Forse è per
questo.
Fuori gli alberi sgocciolano, e il cielo sopra il San Salvatore sta diventando una
tersa striscia rosa sempre più larga.
"La pioggia è cessata" sta scritto sul rotolo. "Bodhidarma nella sua grotta /
non bestemmia più / adesso dorme / o forse sta cuocendosi le patate / chissà
se gli piace la musica? / gli piacerà Lady Bird? / certo dovrebbe amare Charlie
Parker / forse tiene un sassofono nella sua grotta / da suonare quando è triste /
o forse suona il flauto al tramonto / aspettando le stelle / deve essere molto
felice."
I ragazzi se ne sono andati, torneranno dopo cena. Siamo rimasti soli io e i miei
fratelli sul molo fresco di pioggia. Il cielo è tutto terso, adesso, e la baia dell'eco sembra a
un passo, coi suoi fruscii e il suo mistero. È il tramonto, anzi il dopo tramonto, l’ora più
dolce e triste in Valsolda. Tra poco si accenderanno le stelle. È questa la felicita?
"Sera o notte che sia / quest'ora mi piace / come suonare il flauto" e così finisce il
poema di un giorno di pioggia.
MATRIMONI E COSÌ VIA

E così la Cuginona si è sposata. Non ha incespicato, non ha perso la scarpa, non


ha cacciato l'urlo davanti al prete, non è rotolata giù per l'altare, non le è neanche venuto
il singhiozzo, niente. Mio padre l'ha accompagnata all'altare, tutto aggrondato di fuori e
così emozionato di dentro che è stato lui a prendere un topicco, voglio dire un inciampo,
sui gradini all'entrata della chiesa, e sarebbe finito gattoni se la Cuginona non l'avesse
tenuto su come uno tiene una valigia a cui s'è rotto il manico, chiamando angosciata:
"Zio Dino! Zio Dino!" mentre lui si divincolava furiosamente e tutti lì a sperare che
tirasse qualche bel moccolo da tramandare ai posteri con le fotografie del matrimonio,
invece l'ha ringoiato in tempo; gli si è solo disegnato sulla fronte. Rimettendosi dritto si è
limitato a dire: "Vorrei conoscere quel deficiente che ha messo due gradini proprio lì".
Come se non fossero i due gradini che ha salito per sposarsi lui, una ventina d'anni fa.
Ma è stato l'unico incidente. La Cuginona, lei, è stata bravissima, fin troppo. Noi
cugini stipati come un reggimento in fondo alla chiesa abbiamo aspettato invano che
combinasse qualche bel disastro dei suoi soliti, o almeno un bell'urletto, ci speravamo
proprio; ma poi ce ne siamo dimenticati. La Cuginona era così pallida e bella e nostra
che faceva male al cuore. Il Nicola suonava l'organo, tutti i nostri vecchi canti. in quella
voce mistica e grave, e la vecchia chiesetta era gremita di fiori e facce note e ricordi di
gente che non c’è più.
"Hai visto come bella la mia mamma?" sussurravano a tutti Sandra e Mirca, le due
bambine del Franco, guardandola estatiche.
Lei, appena poteva, si voltava a dar loro uno di quei suoi sorrisi umili e radiosi, e
così a poco a poco un sacco di gente ha cominciato a soffiarsi il naso. Gente che
ricordava il suo papà e anche gente che ricordava solo lei, la ragazza che faceva fischiare i
garzoni per la strada e suonava i campanelli dei farmacisti e combinava guai su guai, ma
in vita sua non aveva mai fatto una briciola di male a nessuno, se non a se stessa: pronta
sempre a restituire gioia e amore e fiducia in cambio delle cattiverie e delle meschinità.
Peccato che non ci fosse il suo papà a vederla, adesso.
Tanti papà mancavano. Tutti i papà di tutti i miei cugini, ho pensato. E di colpo
mi sono sentita atterrita, e così fortunata da averne vergogna. Non lo dimenticherò, ho
pensato. Giuro che non lo dimenticherò. Il mio papà era là davanti, aggrondato e
impaziente, che scalpitava e tossiva per la voglia di fumare, e teneva stretta la mano della
mamma. Il mio papà strillone, nevrastenico, noiosissimo, che ci strapazza e ci protegge e
ci ama. Il mio papà vivo. Giuro che non dimenticherò.
Vedevo il mento della mia mamma tremare, e sapevo perché, e avrei voluto
andarle vicino e dirle: mamma, non ci saranno più guerre. Non ci saranno più rami
spezzati. Mai più. Cresceremo tutti e saremo di nuovo una bella piantona con tutti i suoi
rami.
Ma queste cose in casa mia si possono pensare, o magari scrivere. Dire mai.
Poi la cerimonia è finita e il mio papà ha potuto fumare centomila sigarette in fila.
Abbiamo fatto una colazione in giardino con una tavola che non finiva mai e una russia
da non dirsi, tra brindisi grida risate lanci di carciofini e ancora qualche naso soffiato ma
più di nascosto, e la Cuginona tutta rosa, coi capelli e gli occhi splendenti e le due
bambine sempre appiccicate addosso, era così felice, e completa, e mamma, e non capiva
più niente. Neanche il Franco capiva più niente. Ogni volta che si guardavano andavano
sul pallone e bisognava dargli le gomitate per tirarli giù. Poi sono partiti, con un sacco di
barattoli e pentolini attaccati all'automobile e un sacco di cugini a piedi nudi che li
inseguivano fin fuori dal paese, e poi siamo tornati indietro e niente più Cuginona.
Tornerà, si capisce. Tornerà ogni estate, col Franco e le bambine e saranno anche
loro rami della nostra pianta. però adesso ci manca.
Approfittando dell'atmosfera nuziale, delle commozioni familiari e così via, la
Bruna e il Dario hanno deciso di rendere pubblico il loro proposito di sposarsi
immediatamente dopo la laurea del Dario, in dicembre. "Rendere pubblico" significava
in pratica dirlo ai padri, visto che gli altri lo sapevano da un secolo. Ma i padri! I padri
erano un osso duro.
Dopo un astuto conciliabolo, le madri hanno deciso che era meglio che glielo
dicessero loro, ai padri: loro sapevano come prenderli e scegliere il momento propizio.
Così un giorno (era l’ora morta del pomeriggio, io la Bruna e il Maurizio stavamo
facendo un concerto in soffitta con chitarre e flauto) si son sentiti venire dal di sotto
terribili scoppi di tosse e di urli, incoscienti, deficienti, ma siete impazziti tutti, glielo do
io il matrimonio, disgraziati lavativi paranoici eccetera eccetera.
"La mamma ha scelto il momento propizio" ha detto il Maurizio.
"Lei sa come prenderlo" ha detto la Bruna.
"Boh" ho detto io.
Indi abbiamo ricominciato a suonare.
Ogni tanto si sentiva dal di sotto qualche brano di conversazione, ossia di urlo:
così previsto, che non valeva neanche la pena di ascoltare.
"Mi sai dire, mi sai dire come vivranno?" gridava mio padre.
"Come abbiamo vissuto noi" diceva mia madre. "Lavoreranno. "
"Ah, sì, perché il lavoro gli piove in testa, a loro! Muovono un dito, e zac, ecco
pronti decine di posti meravigliosamente retribuiti che si contendono l’onore di essere
accettati da quei due rammolliti! Da quei due figli di mamma! Ma se tua figlia non sa
neanche da che parte si comincia, a lavorare!"
"Adesso dice che non so cuocere l'uovo" ha detto la Bruna tra due cupi frun frun
di chitarra.
"Se non sa neanche cuocere un uovo!" ha gridato puntualmente mio padre di
sotto.
"Neanch'io alla sua eta..." ha cominciato mia madre.
"Sapevo cuocere l'uovo" abbiamo detto noi tre in coro. Frun frun.
"Non citarti a esempio!" urlava mio padre. "So bene quello che sapevi fare! So
bene quello che eri! E so bene che cosa ne è venuto fuori! Sono venticinque anni che lo
so!"
"Tuttavia sopravvivi" ha detto mia madre. La voce era leggera, ma si capiva
benissimo che era offesa, così mio padre ha perso la trebisonda del tutto, passando armi
e bagagli dalla parte del torto, come sempre gli succede.
Parte che ha ragione, o quasi, e finisce che ha torto del tutto. E come sempre
quando sa di aver torto, di essere ingiusto e villano, diventa sempre più ingiusto e villano
e sempre più dalla parte del torto, in una specie di rovinosa autocombustione. Gli
vengono fuori cose che non pensa assolutamente, cose dell'altro mondo, per esempio
che mia madre è una madre fallita, una moglie incapace, che è una balorda, che non ha
saputo fare mai niente di buono in tutta la sua vita e altre cose del genere, cose di cui si
dovrebbe soltanto ridere. Ma mia madre al momento non ci riesce. Sa benissimo che lui
è spaventato e furioso di quel che sta dicendo, che sono soltanto parole nevrasteniche.
Dice sempre che non bisogna badare alle parole, mia madre, ma poi non è capace di non
badarci. E che quando sono così urlate, le parole, è difficile riuscire a ricordarsi il resto.
Così non ha parlato più, mia madre. Il che significava che era sul fondo dell'abisso, come
dice lei quando è stanca triste stufa al massimo. E dopo un po' si sentito bang!, la porta
del verandone che sbatteva, e il papà che zoccolava via tutto autocombusto per il
giardino, al cancello, in strada, via.
"Partito per la Legione Straniera" ha detto il Maurizio, per alleggerire l'ambiente.
Ma non s'è alleggerito, non molto. Abbiamo messo giù chitarre e flauto, non ci andava
più di suonare. La Bruna ha dato anche un calcio al muro, così.
Avremmo voluto andare di sotto della mamma, ma come a noi non piace essere
visti quando siamo sul fondo dell'abisso, così non piace a lei.
È stata lei a chiamarci, dopo un po', con una voce soffocata che ci ha fatto molto
spaventare. Con la Bruna in testa (era lei la causa di tutto, no?) siamo accorsi.
Mia madre stava inginocchiata a terra, i piedi incrociati al centro, le braccia stese al
cielo.
"Parvatasana, o posizione della Montagna" ci ha informati. "Fa passare le
arrabbiature."
"Ma il papà..." ha detto la Bruna.
"Oh, lui sarà là al bar del Bruno a prendere un grappino e a pentirsi" ha detto la
Montagna. "Tra poco tornerà a casa persuaso che la Bruna sarà una bravissima moglie,
lavoratrice, donna di casa esemplare, madre eroica e angelo del focolare, tale quale sua
madre, e che quando c’è l'amore c’è tutto, e in fondo perché aspettare dicembre?
Potrebbero benissimo sposarsi a novembre, ottobre, settembre, agosto, deng! Vedrete
se non sarà così."
E così è stato. Le parole erano un po' diverse, magari, ma la sostanza a stata
quella. Mio padre, che tipo. Fa tenerezza, più ancora di mia madre. È così indifeso e in
balia di se stesso, e di lei.
In quanto all'Avvocato, sua moglie ha deciso che il momento migliore per dargli il
fatale annuncio era dopo colazione: sia per motivi che mia madre chiama psico-somatici
(stomaco pieno, per intendersi), sia per evitare che ci fossero in giro piatti da lanciare.
Gli aveva fatto una colazione buonissima, antipasti misti, pastasciutta al bacon, arrosto
con un sacco di rosmarino. (Il rosmarino è oggetto di profonde amarezze in casa loro,
perché la moglie si dimentica sempre di mettercelo e l'Avvocato si dispera: "Ti ho
pregata come una santa! Metti il rosmarino!" dice a mani giunte. E lei niente, non ce lo
mette.) Be', stavolta se n'e ricordata e ci ha messo tutta una vegetazione di rosmarino. E
alla fine della colazione, mentre stavano prendendo il caffè sulla terrazza, gli ha dato la
notizia. La loro casa è un po' in alto, e la terrazza guarda la vallata. Ricevuto l'annuncio,
l'Avvocato è rimasto per un po' pensoso dietro gli occhiali a guardare la vallata, con la
tazzina del caffé in mano. Poi ha posato la tazzina sul piattino e il piattino sul vassoio,
vicino alla napoletana. Poi ha preso il vassoio e con passo calmo ha traversato il terrazzo,
si è portato alla balaustra e di lì con calma ha scaraventato giù vassoio, piattino, tazzina e
napoletana. Tornato al tavolo, ha visto che era rimasto il cucchiaino, l'ha preso, a tornato
alla balaustra e ha buttato giù anche quello.
"Era d'argento!" ha detto la moglie. "Un cucchiaino del servizio d'argento! " e
allora tutta la famiglia giù di corsa a cercare il cucchiaino nella vallata, con l'Avvocato che
dirigeva le operazioni dal terrazzo. Trovato il cucchiaino, ha dato il consenso alle nozze.
"Gli daremo l'appartamentino di fianco al nostro" ha detto. "Basta tirar su una
parete, aprire una porta, chiudere una finestra, rifare i pavimenti..." Ha il pallino
dell'edilizia, lui.
Mio padre, che ha il pallino dell'arredamento, ha già disegnato i mobili.
E adesso non fanno altro, i due padri, che parlare di matrimonio, di date, di lauree, di
spese, di porte, di finestre, di mobili, fanno un sacco di progetti, litigano, fanno la pace,
si commuovono, rilitigano, eccetera eccetera.
"E il servizio militare" dice ogni tanto mio padre. Ha la fissa del servizio militare
(non per niente lui ne ha fatti nove anni). "Come si fa per il servizio militare?" si
domanda angosciato.
Loro non se ne preoccupano per niente. Dicono che caso mai andranno in
Uganda. Che in Uganda hanno bisogno di architetti giovani, e che se uno ci va per
quattro anni, può fare a meno di fare il servizio militare. Comodo, no? O forse era il
Tanganika, una cosa così.
"E se intanto vi nasce un bambino?" chiedono le madri.
Loro dicono che il bambino in Tanganika o Uganda che sia ci starà benissimo. Che
imparerà le lingue. Ma le nonne non vogliono sentir parlare di. nipotini in Uganda o
Tanganika.
"E va bene," dice il Dario, tanto per farle stare zitte, "allora faremo il servizio
militare" come se anche la Bruna fosse di leva.
"E il bambino?" chiedono le nonne, come se fosse già nato.
"Seguirà il reggimento" dice il Dario. E ricomincia a bisbigliare con la Bruna.
Altrimenti, soluzione proposta da mio fratello, il Dario potrebbe fare l'obiettore di
coscienza. Oppure potrebbe fare il pompiere: pare che se uno fa il pompiere abbia non
so quali vantaggi su chi invece fa l'artigliere o l'alpino; non ci ho capito molto, e neanche
gli altri credo.
"Prima cosa, non spara" dice mio fratello.
Ma il punto, gli spiegano, non è che il Dario spari o non spari, il punto è che non
debba lasciare soli la moglie e i bambini (nel frattempo si sono moltiplicati). Allora si è
sparsa la voce che, per evitare il servizio militare a un figlio coniugato di fresco, era il
padre che doveva fare il pompiere. E quando già si pregustava l'idea dell'Avvocato con
l'elmetto la pompa e le sirene al vento, si è sparsa la voce che non bastava, che anche il
padre della sposa doveva fare il pompiere; e così si capito che era uno scherzo della
Tessa. La Tessa è specialista nel fare questi scherzi, ha un'aria così competente e
documentata mentre li fa, che riesce a far passare per vere le cose più strane, e dopo tutti
la maledicono.
Certo che era bello pensare ai padri pompieri.
In questo fervore di opinioni e di progetti, i due interessati si disinteressano di
tutto. Servizi militari, Uganda, mobili, appartamenti, pompieri, regali, liste, niente gli
interessa. Si tengono per mano e si fanno le carezzine e discutono sottovoce sulle loro
adorate divergenze, e di tutto il resto non gli importa niente.
Intanto, con tutto questo putiferio di matrimoni e fidanzamenti e così via
l'anniversario di nozze di mio padre e di mia madre è passato via quasi inosservato. Sono
venuti un po' di genitori a prendere l'aperitivo, hanno bevuto un sacco di bitterini e sono
diventati allegrissimi, così a noi ragazzi ci è venuta la tristezza e siamo andati fuori sul
molo. Loro dentro facevano una cagnara tremenda e noi lì, seduti tutti in fila a guardare
la luna e sentire Mozart e parlare di filosofia, politica, poesia e cose del genere. Poi i
genitori sono andati a Lugano tutti insieme e noi siamo ridiventati allegri. Abbiamo fatto
fiera, come dice il Nicola, cioè un sacco di macelli, e quando sono tornati erano loro che
erano tristi. Boh.
Anche dopo, quando noi tre siamo andati a salutarli prima di andare a letto, il
papà e la mamma sembravano tristi. Sul fondo dell'abisso, sembravano. Ci guardavano
come se fossero troppo stanchi e spauriti e vecchi per risalire.
Noi non vi lasceremo mai, avrei voluto dire, ma a parte il fatto che non lo so dire,
non è neanche vero. Noi li lasceremo. Comincia la Bruna, poi sarà il Maurizio, poi io, e
poi saranno soli. E lo stesso succederà a noi, e credo che non ci sia niente che nessuno
possa fare.
Più tardi, quando ero già a letto in soffitta, li ho sentiti uscire sul terrazzino della
loro camera, parlottare e ridere piano, e non sembravano più affatto vecchi nè tristi né
soli, così ho pensato che non ci capisco molto dei grandi, tutto sommato. E neanche dei
ragazzi. Tutto sommato, credo che capisco poco di tutto. Ma non mi dispiace poi molto.
Ho chiuso gli occhi e il lago borbottava di sotto e le favole della sera frusciavano leggere
tra le foglie, e forse l'Inglese era seduto sotto l'arco della finestra diroccata, con la pipa
spenta in bocca, a guardare la luna riflessa sulla conca.
Mi sono addormentata e ho fatto un sacco di sogni.
I TEMPI SONO CAMBIATI

Mio fratello ha compiuto diciotto anni e subito mio padre, che da un pezzo
fremeva, zac, gli ha regalato l'automobile. Piccola, di seconda mano, e a rate, ma sempre
automobile. Mia madre era contraria, naturalmente.
"E anche troppo una Bestia, in famiglia" diceva.
La Bestia è la nostra vecchia automobile. Grossa, pacifica, bofonchiante, una
specie di pachiderma a motore: mia madre le si è affezionata appunto perché, più che a
un'automobile, assomiglia a una bestia. Una delle più spiccate caratteristiche di mia
madre, come si sa, è l'amore per le bestie. Un'altra spiccata caratteristica è la sua allergia
per tutto ciò che è macchine, meccanismi, motori (fa eccezione la macchina da scrivere,
purché sia qualcun altro a cambiarle il nastro). Figurarsi se voleva un'altra auto.
"Non è per te!" le ha detto mio padre. "È per tuo figlio. "
"Peggio. Fai un sacco di urli per i figli viziati, da me naturalmente, e poi sei tu che
gli compri l'automobile. "
"Quante storie! " ha detto mio padre, come sempre quando non sa cosa dire. Poi
gli è venuta in mente qualche fiacca giustificazione: "Tutti i suoi compagni ce l'hanno" ha
detto. "E poi un premio per la maturità glielo dovevamo ben dare."
"Se ben ricordo," ha detto mia madre "la maturità non l'ha ancora finita."
"Perché? Per quella buffonata dell'italiano?" ha detto mio padre, licenziando con
un gesto noncurante la lingua madre. "E come se l'avesse già in tasca, la maturità. Con
due sette, pure. Volevi non fargli il regalo? "
"A te" ha chiesto mia madre "cosa ti hanno regalato, per la maturità?"
Mio padre ha preso per un momento un'aria spaesata. Poi ha reagito: "I tempi
sono cambiati" ha detto.
"Quando si vuol far passare per giusta una cosa ingiusta, si dice sempre che i
tempi sono cambiati."
"Non catechizzare!" ha detto mio padre. "Non sono una tua lettrice."
"Io non catechizzo" ha detto mia madre. "Io constato."
"Posso constatare anch'io" ha detto mia sorella, distogliendosi per un momento
da Marx e dai sogni nuziali. " Io ho compiuto diciotto anni da un pezzo, la maturità l'ho
passata con la media del sette e mezzo, ma non ho avuto nessuna automobile." In realtà
non gliene, importa niente, dell'automobile. Lei ha il Dario, il Dario ha la Bianchina,
altro non chiede alla vita. Le sue rivendicazioni sono solo teoriche. "Neanche un
motorino, ho avuto. Tanto per constatare.''
"Tu sei una ragazza!" ha detto mio padre.
"Oh già. Sicuro. Appunto" ha detto mia sorella con voce sarcastica. "Mamma, a te
la parola."
" Se ti aspetti che mi batta con tuo padre per la parità dei sessi, ti sbagli" ha detto
la mamma. "Non con tuo padre! Ma sentiamo l'interessato. Cosa ne dice,
dell'automobile, l'interessato? "
L'interessato, apparentemente in contemplazione del nirvana, non desiderava
interessarsi. Non gli conveniva. Per essere coerente, infatti, avrebbe dovuto disdegnare
l'automobile. S'è mai visto un bodhisattva in automobile? Ma si sa com'è.
"Mg nou pnu" ha detto.
"Non garufare!" ha gridato mio padre. "Gli offrono un'automobile e lui cosa fa?
Garufa!"
"Maurizio, di' il tuo parere" lo ha incitato mia madre.
La pipa spenta tra i denti, mio fratello ha distolto gli occhi dal nirvana per posarli
gravemente su di loro: "I genitori siete voi" ha detto. Il tono significava: se mi regalate
un'automobile, mica posso tirarvela in testa. Onora il padre e la madre.
La verità era che fremeva di mettersi al volante. Si vede che anche nel nirvana i
tempi sono cambiati. E così mia madre ha ceduto.
"Vuoi mettere" le dice adesso mio padre per confortarla "la comodità di una
macchina piccola, in città? E poi così adesso avrai qualcuno che ti porta in giro, quando
io non ci sono, a fare gli acquisti, dalla sarta, dal parrucchiere, a trovare le amiche..." e a
sentirlo pare che mia madre sia una di quelle tipe che passano la vita, portate dall'autista,
tra canaste, sfilate, istituti di bellezza e boutiques, mentre tutti sanno benissimo che esce
solo mezz'ora alla mattina per fare la spesa alla cooperativa all'angolo e un pomeriggio
alla settimana per andare in redazione.
Mia madre non discute Tanto ormai l'automobile c'è, e lei è del parere che è
inutile piangere sul latte versato. Anzi, sta cercando di affezionarsi anche alla Sottobestia,
come lei la chiama. così piccola, rincagnata e fracassona, dice che le pare uno di quei
botoli ringhiosi che mordono i calzoni a tutti.
Così mio fratello ha fatto scuola guida (studiava molto più che per gli esami), si è
preso la patente in men che non si dica, e adesso scorrazza come niente avanti e indietro
per l'accidentata strada del lago, con grappoli di ragazzi a bordo, guizzando tra macchine
e pullman d'ogni nazionalità e volume, tra grattate tremende e frenate infernali e
spaventevoli cigolii di ruote e poesie cinesi. "La cetra di Chao s'acqueta sta' a destra
cornuto il liuto di Shu la sua voce solleva spostati pirata usc."
E mia madre a casa deve raddoppiare la razione di tranquillanti e cachet per la
paura che ha. Non lo dice, perché non vuole fare la madre noiosa, ma muore di paura;
ogni volta che tardiamo ha la faccia stralunata, e io provo rimorso e anche mio fratello lo
prova, ma che cosa ci si può fare. L'automobile è fatta per usarla.
C'è di buono che, quando è a bordo anche lei, la paura le passa. Viene presa dalla
gazzarra generale e dal suo innato spirito sportivo, e non solo non ha paura, ma si
diverte moltissimo. Come se la sua presenza bastasse a salvaguardarci da ogni pullman,
albero, pirata della strada, muretto, lago.
È che non ha mai tempo di venirci. Quasi mai.
A parte il romanzo che ha in corso con le relative angosce (quando scrive un
romanzo ha sempre le angosce), a parte le corrispondenze, le recensioni, le enciclopedie
e quelle faccende lì, mia madre ha anche tutta la casa sulle spalle, come si dice. Non
abbiamo neanche la Rosa, qui (da quando si è sposata abbiamo perso il suo disservizio
estivo). Altri aiuti non se ne trovano, perché qui le donne vanno tutte a lavorare a
Lugano. L'aiutante capo, mio padre, ha finito le ferie a non si può contare sulla sua
cucina (è un bravissimo cuoco) che per due giorni su sette. La Bruna ha il Dario, Marx e
la tesi di laurea. Il Maurizio ha l'automobile, la Tessa, il nirvana, le cagnare e l'esame di
italiano. Io non si può dire che "abbia" l'Antonio, comunque l'Antonio c'è, e c'è la
Rosella, c'è la conca dell'eco, c'è la Casa dell'Inglese, dove continuano ad accadere cose
misteriose. Il cappello e la pipa sono spariti: qualcuno è venuto a riprenderseli. Giorni
dopo abbiamo trovato altre tracce, una bustina di fiammiferi stranieri, una matita di
marca inglese, un foglio accartocciato con sopra un disegno strano, come la pianta di una
casa, fatto in fretta a matita. Abbiamo nascosto tutto sotto il solito cespo di felci, e sul
foglietto abbiamo scritto con un fiammifero spento: Ciao. La volta dopo il foglietto
c’era ancora, e sotto al nostro ciao qualcuno aveva scritto How do you do, che sarebbe
il saluto degli inglesi; ci tremavano un po' le gambe mentre scrivevamo col fiammifero
Where are you? che vuol dire: dove sei? Abbiamo trovato la risposta due giorni dopo:
Here, c’era scritto, che vuol dire: qui. E più sotto: Bye bye, arrivederci. Dopo non ci
sono più state domande, né tracce tangibili, ma il foglietto era sempre lì (Bye bye,
arrivederci) e noi "sentivamo" qualcosa: nell'aria, nei cespugli di felci piegati come se
qualcuno ci avesse frugato in mezzo, nei fruscii di vento e di foglie tra le finestre
diroccate. Non l'abbiamo detto a nessuno. Le favole, a dirle, sembrano stupide storie.
Ma abbiamo continuato a pensarci.
Adesso la Rosella è partita (ha un sacco di esami a settembre e qui non studia
niente), non ho più nessuno con cui parlarne. Ho provato una sera con mio fratello, ma
lui mi ha guardato in un modo così strano, sono ridiventata subito muta. Mi guardava,
non so, come se cercasse di nascondermi qualcosa, e questo qualcosa fosse... non so.
Noia, forse; o pietà. Forse gli sembro scema, ho pensato, per questo ha pietà? Oppure le
mie storie gli sembrano troppo fantastiche per starle a sentire. Ma allora, allora non crede
più alle favole, ho pensato. Allora la sua infanzia è finita. Lui mi guardava scontroso dal
fondo dei suoi occhi neri, e io non ho parlato più. Ma continuo a pensarci. Specialmente
di sera prima di addormentarmi, quando le foglie frusciano.
Forse ne parlerò con la mamma, un momento che ha tempo. Ci crede ancora, lei,
alle favole, sono sicura. Solo che non ha mai tempo, per le ragioni che dicevo prima, e
anche perché è così di natura, smemorata, caotica, mentre riordina da una parte fa la
rivoluzione cinese dall'altra, complicando enormemente le cose. Anch'io, in quanto a
ordine, sono fatta cosi: uguale. Solo che io vado sempre piano, e lei corre sempre, corre
quando lavora, corre quando cucina, corre quando si ispira, corre ed è sempre allegra, ma
anche stanca e nervosa e prende un sacco di pasticche, e nessuno l'aiuta. Io vorrei, ma
me ne dimentico sempre. E a lei chiedere non piace.
"Fatti aiutare dai figli!" urla mio padre quando al venerdì sera arriva e trova la
rivoluzione cinese. "Ecco cosa vuol dire viziare i figli! Tu lavori e loro oziano.
Incoscienti, disgraziati, lavativi, perché non aiutate vostra madre?''
"Io ho la tesi" dice la Bruna, che sta guardando negli occhi il Dario.
"Io ho tutto l'italiano da ripassare" dice il Maurizio che sta oliando il sassofono
oppure uscendo in automobile con folle di ragazzi a bordo.
"Boh" dico io, che sto pensando all'Inglese.
"Lasciali in pace" dice mia madre. "Sono in vacanza."
"E tu non hai diritto a un po' di vacanza? Loro se la spassano e tu sfacchini! Che
razza di sistemi! Noialtri li aiutavamo e come, i nostri genitori!"
"Non d'estate" dice mia madre. "E poi, i tempi sono cambiati. L'hai detto tu."
" E tu hai detto...''
"Appunto" dice mia madre con un sospiro.

Come se non bastasse, a complicare la vita di mia madre sono nati un sacco di
cuccioli. Prima sono nati i gattini. Nonostante le previsioni, il Pluto e la Giovanna ce
l'hanno fatta. Cinque, ne sono nati: cinque mammuttini nobilissimi e pelutissimi, tre grigi
come la madre, due neri come il padre. La Giovanna, da che sono nati, non è che abbia
perso la sua aria di mammut, ma ha smesso di sedere sempre e passa tutto il giorno a
leccare allattare accudire difendere adorare i suoi mammuttini, li mostra alla gente con
roche voci d'orgoglio e d'amore, e sembra perfino diventata intelligente: potenza della
maternità. Il Pluto invece, della paternità non capisce niente, non ne è per niente fiero,
appena vede i mammuttini, o solo li sente gnaolare da lontano, alza la gobba e sgaloppa
via tutto sbilenco, gli occhi gialli sbarrati e il pelo irto, a rifugiarsi tra le braccia di mia
madre, che tenta invano di spiegargli la situazione.
"Tu sei il babbut" gli dice cullandolo teneramente "e quelli lì sono i tuoi
mammuttini, o babbuttini se vuoi, insomma li hai fatti tu, sono figli tuoi, capito?" Lui
non capisce, ma ronfa tutto contento.
Tre giorni dopo sono nati i baìni. Otto pastorini scozzesi, quattro fulvi come la
madre, quattro neri come il padre, grassocci, stupidi come la luna e simpaticissimi. La
Baìna è una madre brava quasi come la Giovanna. Dico quasi, perché per la Giovanna
prima di tutto vengono i mammuttini, poi tutto il resto; per la Baina invece, prima
vengono i padroni, poi la pappa, poi il bagno in lago, poi il gioco del riporto, e poi, con
comodo, i baìni. Si vede che ha dei sistemi educativi più moderni e sa che non bisogna
star troppo addosso ai figli. Comunque li ama molto. Il Bao, niente. Pure lui, appena li
vede o li sente, sgroppa via con la coda tra le gambe, uggiolando pietosamente, viene a
mettermi il muso in grembo e a dire uh, uh, che cosini terribili ha fatto mia moglie, si
muovono da soli, uh uh, cosa mai sarà di me.
I padri, che cervelloni.
I primi giorni veramente anche le madri hanno fatto un bel po' di confusione, ma
in senso inverso: per eccesso di maternità, cioè. La Giovanna si era messa in testa che
anche i baìni fossero compito suo, pretendeva di portarli nella sua cesta, tirandoli
spaventosamente per la collottola, e la Baìna faceva grrr, grrr, non per vera minaccia
(ama molto la Giovanna) ma per perplessità e rampogna. Lei dal canto suo riteneva che
fosse suo dovere accudire anche ai gattini, faceva irruzione col suo lungo muso nella
cesta, rischiando ogni volta di annegare un paio di mammuttini con un solo colpo di
lingua, mentre la Giovanna cercava di tenerla indietro dandole testate e spingendola con
la zampa (senza unghie però) e diceva au au, che credo significasse fa' piano, sta' attenta,
sei troppo grossa per loro, non vedi? E insomma erano tutte e due molto inquiete,
agitate, facevano un gran correre avanti e indietro tra le due ceste seminando baìni .e
mammuttini, uggiolando, miagolando, facendo grrr grrr e au au, e guardandosi con aria
frastornata, finche una mattina, dopo una notte movimentatissima, le abbiamo trovate
tutt'e due in una cesta sola, stipate come in tram, con tutti i figli attaccati e un'aria
finalmente placata. Avevano deciso di fare tutta una famiglia. così gli abbiamo fatto fare
dal Barelli falegname una cassa bella grande, l'abbiamo foderata con una coperta, e
adesso ci stanno dentro tutti insieme bei comodi, e sono tutti contenti. Madri e figli.
Ogni tanto un mammuttino si perde tra le code dei baìni, ogni tanto un baino piomba
come una bomba razzolante sopra i mammuttini, ma le madri con teneri colpi di lingua li
rimettono sulla retta via, tubando come colombe, e poi si guardano soddisfatte tra loro
emettendo strani versi cino-felini. Mia madre dice che si scambiano consigli di
puericoltura.
Anche la Peppa, quando ritorna dai suoi consueti vagabondaggi coi teddy-gatti del
paese, va a piazzarsi nella cassa, a farsi le pulizie, a fare gli scherzi ai baini, a leccare i
mammuttini con tenera condiscendenza.
"Che brava ziut" dice mia madre.
Adesso i miei cugini chiamano lei ziut. "Ziut Ossut, vieni in barcut? "
Ha poco tempo per venire in barcut, mia madre. Oltre al romanzo, alle
corrispondenze, agli articoli, alla casa sulle spalle e via di seguito, adesso ha pure i
cuccioli, e ci passa ore.
"Si crede nonna" dice mio padre. "Anzi, nonnut."
Tutto il paese è venuto e viene tuttora a vedere questa famiglia eterogenea, è
venuto anche un fotografo da Lugano, e uno da Milano, e mia madre fierissima fa da
cicerone.
"Che cosa straordinaria!" dicono tutti stupefatti. "Cani e gatti insieme! Dunque
non è vero che i cani e i gatti si odiano."
"No di certo" dice severamente mia madre. "Sono bestie, non uomini. "
"Non donne" dice mio padre.
E non solo di giorno mia madre si occupa dei cuccioli, ma anche di notte. Se
appena ne sente piangere uno, zac, corre a vedere che cos'ha, gli dà il biberon (la famiglia
è grossa e bisogna fare l'allattamento misto) e poi rimane lì seduta per terra, in pigiama, a
contemplarli. Se c'è mio padre, lo si sente strepitare dalla stanza vicina:
"Perché non ti ci metti anche tu coi tuoi figli, in quella cuccia, così siamo a posto!
E vieni a dormire, incosciente. Poi dici che hai l'insonnia! Che sei stanca! Che hai mal di
testa! Ma quale testa? Dove ce l'hai, la testa? Passare metà della notte a guardare i
cuccioli!''
"Ma io intanto penso" si difende mia madre. "Guardare i cuccioli mi rinfresca la
mente. Mi facilita la meditazione."
"Guarda che ti confondi con lo yoga" dice mio padre.
"No no, anche i cuccioli" insiste. "Mi favoriscono l'ispirazione. Quando sto un po'
a guardare i cuccioli, dopo mi viene meglio il romanzo."
Che cos'abbia a che vedere un romanzo d'amore a sfondo educativo-sociale con i
cuccioli, non si sa. "Sarà un romanzut" dice mio fratello.
FUOCHI E STELLE

Mio fratello, quando era piccolo, a chi chiedeva che cosa voleva fare da grande,
rispondeva: "L'antico romano" oppure: "Quello che mangia il fuoco".
La passione per gli antichi romani gli è completamente passata. Quella del fuoco
gli è rimasta. Non è che lo mangi, il fuoco. Si limita a provocarlo con ogni mezzo a sua
disposizione, nei luoghi e nelle circostanze più impensate, e poi star lì a guardarlo felice
finchè si spegne. A Milano, mentre studia, incendia scatole di fiammiferi, arde matite, fa
piccoli falò nei posacenere, piccoli lanciafiamme con gli elastici, la sua scrivania è tutta
bruciacchiata e così le copertine e gli orli dei suoi libri. Qui a San Mamete, dove c'è più
spazio e nessun vicino che protesta, i fuochi di mio fratello divampano all'improvviso sul
molo, partono a razzo dalle barche, esplodono fragorosi nello "stanzino Belle
esperienze" tra fumate tremende, bagliori sinistri, zaffate pestilenziali e spaventi di mia
madre.
"Maurizio, sei carbonizzato?" chiede affacciandosi sul suo terrazzino.
"Si" risponde una voce grave dentro una nuvola di fumo.
Questa passione del fuoco ha contagiato anche il Nicola, l'Antonio e molti altri
ragazzi di San Mamete. Ogni sorta di fuoco (purché non sia quello delle armi, odiate
sopra ogni altra cosa da mio fratello), ogni sorta di torce falò razzi petardi fuochi
d'artificio combustioni esplosioni bum, ha il potere di renderli estremamente felici.
Mia madre dice che è una forma di piromania collettiva. Che un giorno
arrostiranno e ci faranno arrostire tutti. Che correremo per il giardino trasformati in
torce umane.
"II fuoco purifica" tenta di persuaderla il Maurizio. "E poi c'è il lago a un passo,
no? Se prendiamo fuoco ci buttiamo a lago e ciao."
"Quando siete belli che esplosi" dice mia madre "vi fa tanto, il lago."
Lui dice che mia madre è una pessimista. Che ha la pirofobia. Ma che stavolta, se
lo lascia fare, lui creerà dei fuochi così belli che ne resterà sedotta e diventerà artificiera
anche lei. Lei lo esclude.
Quest'anno, comunque, si è venuti a un compromesso. Durante tutta l’estate, cioè
durante il romanzo di mia madre, c'è stato divieto di fuoco. A parte i normali fuochi di
carattere utilitario, quelli che servono per i bivacchi quadrivacchi seivacchi etcetera, o per
fare la polenta e la pastasciutta al di là del lago, o per bruciare le foglie secche e gli
arbusti rotti dopo i temporali, ogni altro tipo di combustione era proibita. Mia madre
diceva che una non può scrivere un romanzo con l'idea di essere lì lì per saltare in aria,
trovare torce umane al posto dei figli, rischiare l'asfissia per il fumo o l'infarto per le
esplosioni. Diceva che c’erano già le acrobazie subacquee del Maurizio a minacciarle
l'infarto, per non parlare di quelle automobilistiche; le fosse risparmiato almeno il fuoco.
Soltanto per una sera, e precisamente l'ultima sera d'agosto, prima che cominciassero le
partenze in massa per gli esami, avrebbe tolto il divieto. Fuochi d'artificio, razzi, petardi,
torce, falò, tutto sarebbe stato permesso. Solo per quella sera. Diceva che, per una volta,
era un rischio che bisognava correre. Tanto per lasciar sfogare gli istinti. Perché Olivieri
dice che gli istinti repressi...
"Me ne frego di Olivieri!" la interrompeva mio padre. "Se ti tornano con qualche
arto di meno, gli dici a Olivieri che glielo riattacchi lui con la psicanalisi."
Comunque, mia madre ha mantenuto la promessa. L'ultima sera d'agosto (era un
sabato e c’era anche mio padre) ha avuto luogo la sagra del fuoco. Tanto breve quanto
potente. Io non ci sono andata (di sera non mi mollano) ma sono stata sul molo con mio
padre e mia madre a guardare. Sono partiti con la fiaccolata dalla casa del Nicola, che sta
un po' in alto, e la strada in discesa e diventata una scia luminosa incandescente che
serpeggiava nel buio, sono arrivati al lago, sono saliti in barca, con le fiaccole che
ondeggiavano e si riflettevano rosse nell'acqua nera, e le voci basse che cantavano
cupamente Deguello, era bellissimo e impressionante, io tremavo anche se era un gioco,
pareva un corteo di streghe e stregoni su un lago incantato.
Le barche magiche sono scivolate via fino in mezzo al lago, si sono fermate, il
canto degli stregoni è cessato: cominciava il rito. E lì, tra i riflessi rossi balenanti, streghe
e stregoni hanno cominciato a dire porca miseria, no, ma cosa fai, dammi qua, dov'e la
miccia, ma sei scemo, fa' attenzione, porco giuda, aspe-tta, no, NO, NOO, NOO!
All'ultimo noooo il lago la valle la terra e il cielo hanno tremato per un'esplosione da fine
del mondo, e s'è vista una pioggia di corpi neri e di fiaccole rosse schizzare via a zampillo
dalle barche e sparire nell'acqua scura.
Silenzio. Barche ferme, vuote, che dondolavano appena in mezzo al lago, nere
sull'acqua nera. Noi sul molo paralizzati e senza voce. Poi, mentre la gente cominciava
ad accorrere da ogni parte sulla riva con un brusio spaventato, zic, zic, ecco le teste
riaffiorare a una a una dall'acqua (tre, cinque, nove, dodici, c’erano tutti), le mani
aggrapparsi ai bordi delle barche, le voci. Volevano insultarsi, ma ridevano troppo. Da
schiattare. Mai sentito ridere cosi.
Mia madre si a seduta sul molo come se le gambe non la reggessero più.
"Preparati a contare gli arti" ha detto a mio padre con voce tremula.
"Non avrai mica avuto paura, delle volte!" ha detto lui ancora rococò per lo
spavento. "Paura di cosa? Erano fuochi artificiali. Petardi. Mica cannoni, mica bombe
atomiche."
Poi, mentre il faro della finanza scandagliava le acque e sul luogo del delitto
arrivava rombando il motoscafo delle forze dell'ordine, si è portato una mano alla tasca:
"Invece di contare gli arti" ha detto "prepariamoci a contare le multe."
Ancora oggi non si è riusciti ad assodare per quale straordinaria e imprevedibile
circostanza i singoli razzi dei singoli stregoni si siano messi d'accordo per scoppiare tutti
insieme, in una sola volta. Probabilmente non lo si saprà mai. È già successo qualcosa
del genere un po' di anni fa, e neanche allora si è saputo. Comunque le multe sono state
fraternamente divise.
"Basta coi razzi!" ha concluso mia madre. "Questa è l'ultima sagra del fuoco che
fate in vita vostra! L'ultima, intesi? " Lo dice tutte le estati.
Comunque avrei voluto esserci anch'io. Era bello anche stare a guardarli dal molo,
ma avrei voluto essere là, con la mia fiaccola in mano e il mio razzo e tutto. Spero di
esserci l’estate prossima, e tante altre estati.
Questa sta finendo. Tutto è talmente breve, quando è passato. Passata la sagra dei
fuochi, e più in là passato il mio compleanno (sono quattordici interi, adesso), passato
san Lorenzo con le stelle cadenti e noi tutti stesi sul molo a contarle e a formulare
desideri segreti.
"Che cos'hai chiesto?" sussurrava a ogni stella l'Antonio.
"Boh" dicevo.
Lui chissà cosa chiedeva alle stelle. Forse una ragazza già cresciuta, che non
dicesse boh.
Adesso è partito per gli esami di riparazione, e ha già la leggerezza e la fisionomia
confusa dei ricordi. Preferirei che restasse così, fino all'estate prossima. Invece lo rivedrò
a Milano e dovrò dire altri boh.
Me la ricorderò, questa estate, così uguale alle altre e così diversa. Avrò un. sacco
di anni per ricordarla.
Alla conca dell'eco, il mistero è finito. Ne ho parlato con la mamma, infine. Mi ci
sono decisa una sera d'agosto, i ragazzi erano in giro e mi sentivo sola.
"Mamma" le ho detto. "Mamma, ti piacerebbe che tornasse l'Inglese?"
Lei ha smesso di scrivere a macchina e mi ha guardata con un'aria strana, anche
lei.
"No, non credo" ha detto piano.
Neanche lei crede più alle favole, ho pensato, e per un momento mi sono sentita
sgomenta e tradita e ferita.
"Ma forse è tornato" ho detto parlando molto più forte del solito. E ho
raccontato in fretta tutto, della pipa, del cappello, del foglietto e di tutto, e gli echi delle
favole alitavano intorno e pregavo perché lei li sentisse.
Senza alzare la testa, tristemente, ha detto: " L'Inglese è morto. L'hanno ucciso in
Africa. Tanto tempo fa".
Morto, ucciso. Tanto tempo fa. Ma allora chi era? Sentivo i brividi su per le
braccia.
Mia madre picchiava con un dito sempre sullo stesso tasto della macchina. "Lo si
è saputo solo adesso," ha detto "perché gli eredi, nipoti o altro, hanno venduto il
terreno."
Eredi, venduto, terreno. Stentavo a capire. "A chi?" ho detto.
"A un olandese o tedesco o danese che sia, l'ho visto in paese: un tipo cordiale,
grassoccio. Uno che ha un cappello di paglia e una pipa."
Sono stata zitta. Non c’era niente da dire. Era tutto chiaro: un tipo grassoccio,
cordiale, che si era divertito a fare i giochini con due ragazzette esaltate. Capita
"Sta già demolendo la Casa" ha continuato mia madre, accanita col dito su quel
tasto. "Ne costruirà una nuova. Ha già il progetto, cominceranno i lavori subito." Ha
detto tutto duramente, senza guardarmi, come se fosse arrabbiata con me, ma non lo era.
Non con me.
Dopo un momento, ho detto: "Io non ci andrò mai più". E mi pareva di mettere
in quel preciso momento una pietra sull'infanzia. Le favole erano morte, morte, non
c’erano più favole per me in tutto il mondo.
Finalmente mia madre mi ha guardata: "Adesso vai pure in soffitta," ha detto
dolcemente "e restaci finche vuoi".
Ci sono restata tutta la sera. Quel cretino di guanciale continuava a bagnarsi e
dovevo continuamente rivoltarlo. Poi mi sono addormentata.
Per un bel po' di giorni non ho potuto parlarne.
"Sei arrabbiata?" diceva l'Antonio. "Perché sei arrabbiata?"
Quando mi vede triste mi chiede sempre perché sono arrabbiata. E io gli rispondo
boh. Poi è partito.
Infine, l'altra sera mia madre mi ha chiamata. Stavo dando la pappa ai cuccioli, e
mi ha fatto un cenno.
"Vieni qui" ha detto. "Guardami bene. Ti sembro molto infelice? Molto
sbagliata?"
"Boh" ho detto. Ma non era giusto dire boh. L'ho guardata. Un po' triste, un po'
vecchia, molto svanita, con un mucchio di cuccioli in braccio. Non infelice, e non
sbagliata. "No" ho detto. "Tu no."
"Eppure lo sono stata. Quando ero molto giovane, quando ero una ragazzina
come te, astratta e impastata di favole. La realtà mi pareva stupida e brutta e mi sentivo
spostata e sola. Poi ho imparato."
"A inserirti?" ho detto, ostile.
"Non proprio. Non in quel senso. Ho imparato a voler bene alla vita per quel che
è. Coi padri e le madri che litigano, e la fretta e la fatica, e il dolore anche. E la morte,
anche. E i soldi che non bastano e il lavoro da fare anche quando non ne hai voglia, e la
gente che parla e nessuno che ascolta. E le case col frigorifero e la lavatrice al posto delle
felci e del mistero. E la vita, e io l'amo anche così. "
Dopo un po' ho detto:
"Scommetto che ci farà pure la piscina di marmo con delle orrende statue sopra,
putti e così via".
"Può darsi" ha detto mia madre; il suo sorriso era di nuovo una tonnellata di
allegria attraverso un passaggio stretto, così stretto che doveva farle molto male. "Vuol
dire," ha detto "che andrete nottetempo a metterci dentro quintali di detersivo."
"E farà il bagno nella nostra conca! E l'eco risponderà alla sua voce orrenda!"
"Forse non sarà proprio orrenda. Pare un ometto simpatico."
"Simpatico!" ho detto. " Io... io lo strozzo!"
Mia madre ha sorriso di nuovo. "Hanno detto così anche i tuoi fratelli" ha detto.
E di colpo ho sentito un fiotto caldo dentro, un bene così forte, e radici così profonde, e
non so cosa. I miei fratelli.
"Poi gli è passata" ha detto mia madre. "Passerà anche a te. Pover'uomo, lui che
ne sa? E così ansioso di fare amicizia con voi."
Per questo faceva i giochini coi foglietti. Certo, lui che ne sa?
"Ha quattro figli, tra l'altro" ha detto mia madre con aria noncurante.
" Maschi o femmine?''
"Maschi e femmine. Dai quindici ai venti, mi pare. Passeranno qui tutte le estati,
dalla prossima in su. Forse sapranno accendere il fuoco. E mangeranno le margherite col
sale."
Forse. Quattro ragazzi nuovi, senza radici, alla conca dell'eco. Forse mi ci
abituerò, ci si abitua a tutto, ho pensato; e non sapevo se dovevo esserne contenta o
disperata. Un po' tutte e due le cose, credo.
Di notte ho sognato l'Inglese seduto nell'arco della finestra diroccata, con la faccia
di nebbia e la pipa, che parlava con quattro ragazzi biondi e rossi col cappello di paglia,
seduti sulla riva a mangiare margherite grandi come piatti . Vitaminen, ia, vitaminen,
dicevano; e l'eco rispondeva inen inen. Forse bisognerebbe dirlo a Olivieri, che ci fa uno
studio sopra. Piscine comunque non ce n'erano, nel sogno, e neanche putti.
E adesso è l'ultima sera. È settembre, tutti i ragazzi sono già partiti, c'è profumo
d'olea fragrans nell'aria. Domani torniamo a Milano. M'immagino che razza di viaggio,
con cinque cuccioli di gatto e otto cuccioli di cane, senza contare genitori e ziut, tutti con
le loro sante zampe e le loro sante code e il loro santo mal di mare in ogni dove. E mia
madre con la grande emicrania delle partenze, e mio padre col grande nervoso dei viaggi.
già adesso stanno litigando da matti coi bagagli, di sopra, e fanno discussioni bizantine
per ogni solita cosa.
Fa freddo, abbiamo acceso il fuoco, io e i miei fratelli: l'ultimo trivacco.
Le cose vengono, passano, mica puoi fermare niente. La Cuginona sposata, la
Bruna fidanzata, il Maurizio universitario (non sa ancora se farà l'anatomista, il fisico o il
matematico oltre che il jazzista il bodhisattva e il dio del fuoco), un'altra estate finita, e
io? Sono ancora qua, né piccola nè grande, mezza cotta e mezza no, a chiedere alle stelle
cose che non possono dirmi.
"Si sono accese le stelle" sta scritto su un rotolo di mio fratello. "Le guardi e
non c’è più niente da dire / le stelle spiegano tutto / hanno una risposta per ogni
dubbio. / Tutto sta così / inutile agitarsi /l'erba cresce anche se tu non muovi
un dito / il sole sorge e tramonta / passano e tornano le nuvole / anche se tu
non guardi / le stelle continuano a splendere sul lago / quindi non
preoccupatevi."
Ma io mi preoccupo
Domani ricominceranno la fretta, la scuola, gli urli, le puzze, la televisione, su le
tapparelle, giù le tapparelle, i giorni e le sere, il nostro pezzo di vita da vivere.
Vivere, è una parola.
Ma qualcosa credo di aver capito. Di me e degli altri e di quel pezzo di vita. Non
so esattamente cosa. Ma credo che non avrò bisogno dello psichiatra per sentire che
sono viva e che loro sono vivi. Non avrò più paura d'essermi inventata tutto. Credo
proprio di no.
Le stelle scintillano remote sopra il trivacco d'addio, e le vecchie favole frusciano
leggere tra le foglie. Non sono morte, le favole. Sono, saranno sempre vive. Soltanto
sono favole. E io, io sono un ramo di quel vecchio tronco.
Boh. Credo che mi toccherà volerle bene, a questa vita.

Potrebbero piacerti anche