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Io sono quello che non ce la faccio.

Io sono stanco, anzi, stanchissimo. La vita moderna ha dei ritmi e delle


pretese che tenerci dietro, io non ce la faccio. Oppure no.
Io sono esaurito. Ho finito, nel breve volgere di sette lustri, l’energia
vitale che mi è stata concessa. Sono scarico. Sembro vivo, ma sono morto.
Oppure no.
Io sono un martire della letteratura. Ho scritto un romanzo che è
piaciuto molto a due editori, uno dei quali molto importante. Molto colpiti.
Originale, mi han detto. Ti chiamiamo entro fine luglio, mi han detto. Oggi
è l’otto di agosto e sono qui in casa che aspetto. Non succede niente. Questo
niente mi ammazza. Oppure no.
Io sono deperito da una lunga dieta e dalla delusione che l’ha seguita.
Non entravo più nelle braghe e mi son messo a dieta. Sono stato a dieta otto
mesi. Dimagrivo pochissimo, ma costantemente: un chilo al mese. Un bel
giorno, sono entrato nel paio di braghe più stretto che avevo. Sono uscito di
casa, la cintura stretta nell’ultimo buco, e vedevo riflessa nelle vetrine
l’immagine di un uomo agile e fresco. I pantaloni fasciavano elegantemente
una vita sottile. Il ventre piatto del pugilatore. Ero diventato cordiale e
piacevole, parlarmi insieme. Se ne accorgevano tutti, quelli che mi
incontravano. Ma come stai bene, come sei in forma. Sono stato magro tre
giorni. È lì che mi sono abbattuto. Oppure no.
Io sono sotterrato da una storia sentimentale, finita male. Bassotuba è
andata via con un sociologo e io non ho retto al distacco. Che ancora
adesso, sui muri di casa, ci sono appesi i biglietti che mi lasciava. Non
buttare le cicche nella tazza del water!!! Io guardo quei tre punti esclamativi
e torno indietro e spengo la cicca nel portacenere. Come se adesso servisse
a qualcosa. Come se un’azione potesse in qualche modo cambiare la mia
condizione presente. Invece no.

Io faccio un lavoro che solo parlarne, mi fa stare male. E anche quel


lavoro lì, se lo possiamo chiamare lavoro, a volte non basta per sbarcare il
lunario. Adesso, per arrotondare, mi son messo a fare il magazziniere. Due
ore al giorno. Dei giorni, se c’è molto traffico, anche tre ore.
Io suono la tromba in un gruppo, e non solo. Col nostro gruppo
recitiamo anche delle poesie, nei nostri concerti. Poesie rovinate, si
chiamano. Allora una sera c’era la festa dell’unità, c’era un concerto di un
gruppo che si chiamano Stiron River.
Questo gruppo, ci hanno invitato, me e Mario, a leggere delle poesie sul
palco, durante il loro concerto. Allora han chiamato Mario e Mario è andato
su e ha letto. Dopo han fatto due o tre canzoni e han chiamato me, ma io
non me la sentivo. Non ce la facevo, in questa atmosfera che tutti si
divertivano.
Allora ho detto, al microfono, Scusate, ma non me la sento, di leggere
delle poesie. Mi sono appena lasciato con la morosa. Scusate.

Io sono uno scrittore, che due balle questi scrittori.


Ne ho conosciuti una dozzina, forse di più. Diciamo quindici. Ecco,
diciamo, di questi quindici, quasi tutti mi sono simpatici. Tutti coi loro tic,
le loro manie. Tutti col loro autore preferito. Tutti con le loro storie con gli
editori. Nessuno chiede mai la prima cosa che gli interessa: Ti è piaciuto il
mio libro? Ipocriti.
Io, degli scrittori che conosco, quando qualcuno mi chiede È bello il suo
libro? dico sempre che fa cagare. Un libro osceno. Dovrebbero bruciarlo
nella piazza centrale. A me mi succede così, invariabilmente: quando mi
avvicino a un libro che me ne hanno parlato bene, alla fine sono deluso. Sì,
niente male, dico. Ma non c’è il fuoco che mi aspettavo. Quando invece
sono incuriosito da una critica che stronca il libro da cima a fondo, trovo
sempre che, al contrario, non è così male. Che stronzo, quel critico, penso.
Così mi sacrifico per i miei amici scrittori. Non so se loro farebbero
altrettanto per me. Non credo. Io, del resto, di libri non ne ho pubblicati.

Se dovessi campare con la letteratura, sarei già morto da tempo.

Io, pare, sono un esperto di letteratura russa. Laureato in lingue e


letterature straniere, specialista in lingua e letteratura russa.
E allora mi chiedono Ma come mai hai studiato russo, ti piacerà
tantissimo la letteratura. Io, la letteratura russa, non so niente.
Chissà quanti romanzi ti sei letto, mi dicono, laurearti in letteratura
russa. Io ho letto tre volte I fratelli Karamazov. Non ci ho capito un cazzo.
Mi chiedono Ti piacciono le traduzioni di Andolfi? Traduce bene dal
russo? Io, questo Andolfi, non so neanche chi sia. Io, già la parola
traduttore, mi fa venire il nervoso.
Il traduttore, dicono, è come uno specchio.
Il traduttore, dicono, dev’essere una superficie riflettente.
Io sono d’accordo.
I traduttori, per me, sono delle superfici. Io, i traduttori, ci passo sopra.
Altro che Andolfi.
Io, nei libri, le cose scritte in piccolo ci bado poco. Mi piace solo andare
a vedere di chi è l’immagine che c’è in copertina. Incisione di Frans
Masereel. Acquerello di Anders Zorn. Copertina di Teresa Pomodoro. Il
traduttore, ci passo sopra come uno zerbino. Allora pensi che smettono,
macché.
Ma chissà che miniera, la letteratura russa, chissà che ricchezza, chissà
che cultura che ti sei fatto.
Io mi ricordo un poeta che viveva in un cimitero. Io mi ricordo un poeta
che stava sempre da solo, nel suo cappotto, passava i giorni sui dizionari.
Mi ricordo. Gigantesco pagliaccio del mondo solare, diceva. Andava nei
boschi, quando veniva la bella stagione. Non comprava i vestiti, non aveva
mai niente da mettersi.

Stanotte ho dormito per tutta la notte sul braccio sinistro. Quando mi


sono svegliato, il braccio sinistro era addormentato completamente. Non
riuscivo a muoverlo. Quando mi sono svegliato ho pensato E adesso, cosa
ne faccio, di questo braccio? Mi sono alzato da letto, il braccio mi veniva
dietro come un pezzo di carne attaccato al mio corpo. Mi ha seguito in
bagno. Mi ha seguito in cucina. Poi si è svegliato.

Il magazzino dove lavoro, c’è della gente strana. Tra loro si chiamano
tutti “lupo”, tra loro. Ciao lupo, come stai? Ciao lupo, ci vediamo. Anche a
me mi chiamano lupo. Oppure tra loro si chiamano come nei film. Il capo,
che si chiama Paolo, loro lo chiamano Pol. Il vicecapo, che si chiama
Nicola, Nic, lo chiamano loro. Andrea lo chiamano Èndi, Giacomo: Gièc.
Pol, il capo, ha un carattere remissivo. Quando a qualcuno sul lavoro gli
è successo qualcosa che l’ha fatto incazzare, o cià la luna storta di suo, per i
fatti suoi, va da Pol e gli fa un cazziatone. Non cià le palle, dice Anfrando.
Che ce n’è uno, di questi corrieri, che si chiama Anfrando. Un nome che
non ha mai sentito nessuno. Che io sono andato a vedere sul dizionario dei
nomi d’Italia di Emidio De Felice, Anfrando non c’è. Allora non ci credevo,
che si chiamava così, e gliel’ho detto. Lui mi ha fatto vedere i documenti. Si
chiama Anfrando davvero. Loro lo chiamano Ènfri. Come Bogart.
In questo posto c’è da stare attenti.
In questo posto mi ha fatto entrare un mio amico che ci lavora da un
po’. I primi giorni, dopo un’oretta che lavoravo, vedo comparire una rossa,
con dei vestiti attillati, tutta pettinata con dei riccioli rossi ondulati. Solo,
appena appena un po’ sovrappeso. Ma elegantissima. Tutta profumata.
Stonava. Allora ho chiesto al mio amico Ma chi è, quella lì? È la donna del
capo.
Non del capo remissivo, del supercapo, Mark, che si vede solo una volta
ogni tanto. Gli ho detto, al mio amico, Dovrebbe smetterla con quelle
minigonne, che la gente sta lavorando. Eh, mi ha detto, le piace farsi
vedere. Sai quanti giri si è fatta con i corrieri? Solo, mi ha detto, dopo un
po’, questi corrieri scompaiono misteriosamente.

Tutti, ci sono periodi che sono simpatici e periodi che sono antipatici,
invece. Solo, è difficile capirlo, quando stanno arrivando questi periodi.
Che delle volte ti vengono delle battute bellissime, che ti fan ridere
anche te che le hai dette. Ma invece di ridere, quelli ti guardano con una
faccia, chissà cosa pensano. Come se fossi un fastidio, ti guardano.
Io, da qualche tempo, ho uno strumento in casa che mi serve per
misurare quanto sono simpatico. Si chiama segreteria telefonica.
Se sto via tutto il giorno e trovo sette messaggi: simpaticissimo; cinque
messaggi: simpatico; tre messaggi: insomma; un messaggio: la morosa;
zero messaggi: un fastidio.
Io sono dei giorni che non trovo neanche un messaggio.

Io e Bassotuba abbiamo perso del tempo. Abbiamo perso un sacco di


notti a parlare, che potevamo impiegarle un po’ meglio. Non solo io, che
potevo passarlo a scrivere, tutto quel tempo, e diventare finalmente uno
scrittore come si deve. Anche lei.
Lei, non so, poteva studiare. Avrebbe potuto leggersi l’enciclopedia.
Che tu potresti pensare Per forza che è andata via, la prendi in giro. Invece
no. È stata lei che mi ha detto che le piace leggere le enciclopedie. Però, a
pensarci, mai una volta che l’ho vista leggere l’enciclopedia. Credo anch’io,
passavamo tutte le notti a parlare.
Di solito succedeva così: lei mi diceva Io voglio un bambino. Io le
dicevo Io non lo voglio. Lei mi chiedeva Perché non lo vuoi? Io le dicevo
Perché no. Lei mi diceva Perché no non è una risposta. Io le dicevo Invece è
una risposta. Lei mi diceva Invece non è una risposta. Io le chiedevo Perché
non è una risposta? Lei mi diceva Perché no. Io le dicevo Perché no non è
una risposta. Lei mi diceva Invece è una risposta. Io le dicevo ok,
ricominciamo. Poi mi ha lasciato.
Io le dicevo Aspetta un momento, che divento uno scrittore come si
deve. Lei non diceva niente, ma faceva una faccia che mi sembrava che non
ci credeva. Allora io mi arrabbiavo e le dicevo Va bene, vai pure. È andata.

Torno a casa, una sera, trovo un messaggio in segreteria. Voce maschile,


accento emiliano, dice Ciao Learco, indovina chi sono. Facciamo così, se
indovini, mi chiami. Ok?
E chi sarà?
Riavvolgo il nastro, riascolto il messaggio. Mah. Mi faccio un caffè, mi
arrotolo una sigaretta. Sono stato qualche giorno in Irpinia, in un paese in
montagna a leggere dei testi con degli altri scrittori, in un castello dove era
andato anche il Tasso, Torquato, quando era malato, per curarsi la malattia
nella testa che aveva. Nella tabaccheria di quel paese non avevano sigarette
senza filtro. Il primo giorno ho fumato sigarette col filtro. Dopo sentivo in
bocca una specie di odore di plastica, di colla. Di chimica, in bocca.
Avevano il tabacco: ho preso il tabacco e le cartine e ho cominciato a
fumare sigarette fatte da me, a riempirmi le braghe di tabacco. Io non sono
bravo ad arrotolare. Quando mi alzavo dai bar, si conosceva il posto dove
ero stato seduto.
Chissà, chi sarà stato.

Dici che scrivi, che cosa scrivi?


Io ultimamente mi sto specializzando in un genere particolare: i
riassunti.
Riassunti?
Riassunti.

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