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PROSE SENZA RESPIRO

7 Febbraio 2015

Un mare di suoni ottenebra la mente, paesaggi lontani, alberi in fiore veloci si consumano, si
sfanno, perdono vita e senso,in un mare di vacuità, la stessa di cui mi parlavi in una calda notte
d’agosto – notte tiepida, rossa d’amore, destinata a spegnersi nel mio cuore, duro come la pietra. Ma
v’è pace nel cuore di noi stessi? Una goccia di speranza distilla l’odore di disperazione che punge il
nostro cuore: tutti ne siamo toccati, anche gli impassibili, ma procediamo. Continuiamo il nostro
lento cammino, all’incedere della luna, della musica della magia. Siamo ingannati e felici in un
mondo insensato. Non esiterai mai al risplendere di questi splendidi fiori: sempre li coglierai,
perché sono belli, belli come la tua anima, belli come le coste dell’Antartide, più magiche d’ogni
deserto: solo a se’ stesso, ma si basta in un mare di sabbia che cela il sereno e ci copre il volto di
sabbia. Sabbia benefica, un odore di lontano Oriente, sfarzoso e molesto, mai raggiunto e per noi
così lontano. Lo spirito non è contemplato nel nostro benestare, nelle nostre belle case che hanno
ancora l’odore insalubre del soldo, del vile lavoro, d’una sorte monotona e falsamente pura.
Coltiviamo un orto di cui non trarremo che fatica. Ritorneremmo a guardare la luna splendente, in
fase crescente, tu si che ci sarai sempre, mentre noi spariremmo in un baleno, in una folata
d’autunno, dove tutto cade per poi ricrescere dove tutto muore per poi rinascere. Battuti dal tempo,
ci annulliamo in questo spavento.

8 Febbraio 2015

Siamo solo dei brutti maiali, sì cazzo degli stupidi maiali. Ah, dimenticavo: alcuni sono più belli ed
importanti di altri. Ma non ci evolviamo da questo stato fetale, no assolutamente no. Lo diceva già
un certo George Orwell. Siamo coinvolti in un sistema che non ci piace e ci andiamo dietro come
pecoroni, non ne possiamo fare a meno. Beviamo per dimenticarne: eh si un bel rosso di Toscana,
la grande regione della poesia, le verdi colline, il sole che picchia come in quelle intense giornate
d’Agosto, lunghe ed interminabili, in cui tra la noia rimembriamo noi stessi, intenti a crederci
migliorati per ricadere nei soliti errori, certi di perdere gli stessi treni, di ripetere gli stessi drammi.
Tutto questo fa schifo: ma lo viviamo e accettiamo, poveracci. Tutto è da reinventare, ma nessuno
ne ha il coraggio, ci vorrebbe una rivoluzione fatta di libri, d’amore, di vecchi tracci e di lavoro
nella terra, quella sacra terra dei nostri avi, che ci ha reso ricchi di soldi e poveri di mente.
Il sacro lavoro della terra, vivere di raccolta, di frutti della natura, staccati da queste macchine, da
questi finti bisogni che ci procuriamo da soli, a perdere il tempo in false opinioni, in falsi interessi,
in false persone. Dobbiamo svegliarci, si : ma l’uomo sembra nato per dormire e in lui non vi trovo
più nulla di poetico. Ammiro sempre con più stupore la vita animale, con i suoi segreti
inconfessabili, con il suo linguaggio comunque decifrabile, mi canta un’altra vita, più sognata che
vissuta, un’latra vita: un sole che non ci riguarda, ma che invece dovrebbe. Invece ricontinuiamo
nella stessa strada polverosa, nello stesso deserto che ripercorriamo, ma la sete non ci ammazza.
Peccato, sarà per un’altra volta.

22/3/2015

Il tuo sol pensiero mi ricorda tempi passati, presto trascorsi, mai scordati, mai tramontati, mai
consumati. La tua semplicità mi conquista, la tua disinvoltura m’avvince, il tuo sorriso mi
sconfigge; non è questione di bellezza – ma che cos’è il bello? Sciocca idea, un Platone
sopravvissuto a metà e solo per sbaglio – non mi distacco da una sensazione così continua, veloce
eppur costante. La vita è un continuo creare, distruggere, stravolgere, ma il primo amore non passa
mai, è quello giusto, è quello indimenticato, sai che non c’è nulla di sbagliato nel credere in un solo
paradiso non realizzato. Un equilibrio mai raggiunto nel viaggio del mio amore disperato, il sole
trafigge le nuvole del tempo, mentre t’attendo nel fuoco del mio tormento. Troverò un giorno la via
della pace: ma a quale scopo? Per sentirmi più felice? Per sentirmi più contento? O per capire che
qualsiasi amore alla fine non cancella il sostrato di non-senso?
Vagheggio in una lirica ai confini dell’universo, musica, arte e libri cancellano questo stato
malinconico in cui affogo, nella speranza d’una risalita che mi riporti ad una vita gradita. La vita mi
scorre sotto i piedi di quella fornace del mio cuore, tutto si mescola in un andirivieni di giudizi e odî
che si sciolgono al primo canto, al primo fiore, al primo sole; mi accontento di una felicità prima,
non seconda ai fini del mio cuore, ma paghe di un mondo che recrimina amore.
Parole vane scorte nel vento, nella dolce armonia del mio sordo lamento. Corro nel vento, non
distante dal sole, sapendo che il mio dolce sanguinare, è invulnerabile al candore del tuo fulgido
fiore.

13/4/2015

Si è deciso che è proibito fallire. Non è mai data una seconda possibilità, bisogna riuscire nella vita:
fallire è sacrilego, ti attende l’oblio, l’infamia e la derisione di chissà quale volgo. La vita sembra
davvero una grande truffa ben congeniata: non si sa con chi prendersela, né da chi farsi aiutare: di
chi è la colpa? Mia? Del mondo? Di Dio? Dell’uomo? Non abbiamo nessun nemico con cui
prendercela e questo ci fa sentire soli, impotenti, nulli: dei morti.
Troppo stufi di vedere sogni trasformarsi in dolci incubi, le ceneri delle nostre primavere non
vedono nessuna fenice ma solo rondini che tornano al loro nido, in questo valzer di noia e
ripetizione: si procede sempre con lo stesso schema, lo stesso copione, insulso, scontato che ci
crediamo vivere, mentre in realtà si recita. Si prova a fuggire un reale che ci torna indietro e non ci
dà nulla se non un pugno di mosche e una valanga di problemi grossi e vuoti.
Dove andare a cercare il fiore smarrito d’una realtà più vera, più sincera ed onesta? Da nessuna
parte, in un mondo altro, forse. La vita fugge nella rabbia di un cuore troppo debole per sopportare
tale angheria: il corpo di una donna non lo soddisfa, i soldi lo incatenano, i libri lo illudono… e la
vita? La vita?! Beh, la vita lo ha deluso. Non si baratta una vita vera con una serenità attonita e
surreale:

“si vive nel dolore


- e come una candela –
zitti zitti bisogna andare
con il proprio segreto,
con la propria natura di mortale,
per stoici morire;
l’ultimo grido sarà il canto del cigno
di chi ha al colmo dell’inferno,
ha trovato il paradiso.”

27 Aprile 2015

Si finisce, nel rinversarsi di qualche bicchiere, di tornare al sogno; le cupe immagini si sciolgono,
un desertico velo appanna i miei stolti affanni di cuore. Tutto è immagine distorta, tutto è pazzia
quando nell’ebbrezza ritrovo santità e progettualità; domani l’inferno ricomincerà con la solita
prosa di pazzia, di annientamento, estraneità, ma in queste ore d’entusiasmo, di futuro, posso
credere che la morte mi sia lontana, scongiurata. L’anima è risorta, risvegliata dopo lungo torpore
che l’amore ha forzato per sentirsi, bello e più forte: vincitore. C’è ancora troppo da correre, da fare,
da esplorare, per gettare la spugna, per l’ultimo drink prima di salpare, per sempre, con questo
stanco mio cuore. C’è sempre un bar in fondo alla strada, una speranza nel quale gettarsi, una madre
alla quale aggrapparsi per vedere ogni tanto, la mia anima “stanca di godere e di soffrire”, rialzarsi
e riprendere il proprio cammino, scongiurando d’inciampare in un nuovo sorriso, che riporti l’anima
mia all’usato declino. E che venga una nuova curva, una nuova svolta che mi riporti ad amare le
stelle e la luna, più belle e affascinanti rispetto alle bare della mia mente.

3-4/5/2015

E come se avessi un piede in un mondo e uno in un altro; due mondi inconciliabili ma che mi
toccano con pari forza: anelito di terra e cielo in un connubio magico e complesso. La vita m’appare
in tutta le sue grazie e in tutte le sue disfatte. Il timore che tutto si sfasci, che questo gioco di parti
più non sia possibile è tanto forte che il coraggio di vivere viene meno. Mi sento nullo di fronte alla
forza del destino, all’immensità di un universo troppo forte per me, piccola formica in un pianeta di
vincitori, mentre il mio masso lo porto da solo e a fatica in cima alla montagna.
Aspetto quindi un calcio che mi ributti dentro. Sì, un calcio, una spinta, un anelito di vita. Mi ributti
nella vita, abbandoni gli istinti di morte per un destino e un universo che non si possono cambiare;
mi ributti nella strada, quella vera, della vita. Un calcio che non arriva mai, se non alla fine della
strada, nella svolta che non aspetti, nella sterzata decisa alla fine del vialone, dove un sole
implacabile ci coglie come al termine di una giornata del primo caldo di maggio. Ed è in questo
incontro col sole che devono spingere le mie gambe, tutto alla fine della strada, verso un’altra luce,
un altro senso fino allora ritenuto impossibile. E sarà il viaggio a darmi il senso tacito dell’esistere,
non l’arrivo; come il ciclista che arrivato ai piedi della montagna ha il cuore grosso per lo sforzo e
per l’inferno lasciatosi alle spalle, ora posso cominciare a respirare una nuova aria in attesa
dell’arrivo delle stelle, nuova luce per i nostri occhi stanchi, consapevoli ora di un domani radioso
ma non più facile: la scalata continuerà sempre ma questa nuova dolce mano, incontrata ai piedi
della strada, sarà quella che mi spingerà sull’erta e che non mi lascerà sprofondare nell’abisso dei
miei fantasmi di morte.

4/5/2015

Amore, fonte di tutte le mie disavventure e del mio patire, ti mostri oggi indispensabile. L’amarezza
è ormai sfiorita, come i fiori più belli nel raggelarsi dell’inverno. L’amore è una vera macchina
verso la strada della vita, del tentare, del senso in un’esistenza dura e indifferente. Porta con sé un
carico di orgoglio e di riuscita incredibile: con lui si stringe un legame fatale, come quello che lega i
patrioti alla loro terra; io, uomo senza patria e pieno di dolore, ho scelto la terra dell’amore. La
speranza aumenta a dismisura, seppure il fantasma dell’illusione è lì vicino ch’attende, ma è proprio
in questo difficile equilibrio, in quella dolce illusione che precede lo sfascio, che anticipa il botto
dell’esplosione come un missile quando tocca terra, è in quel solo istante che si raggiunge lo
splendore più alto d’ogni vero amore. In quel momento ti senti indistruttibile, imprendibile da
alcuna legge celeste o terrestre, ti senti lievitare e infine sublimare in quest’eterna fede, che è
l’amore.
Oggi, orrendo nemico, ti palesi in tutta la tua dolce luce; non lasciarmi l’amaro in bocca di sempre,
ma resta con me, consolami e illudimi ancora un poco: il tuo dolce cullare mi è vitale e cancella i
rantoli d’una vita senza piaceri. Sei fragile e sento che il tuo realizzarti in delusione o successo non
mi porterà gioia più pura e slancio più forte che questo insano dubbio che mi porta a correre, a
inseguire la mia fine, il mio schianto verso il suolo: perderò di nuovo? Fa niente, la prossima amerò
con più forza.

5/5/2015
Come si fa ad accettare una realtà da noi creata che mostra quanto la nostra civiltà sia un cumulo di
ceneri ricoperti di una luce macabra e ingannevole? Come si fa a non dire niente di fronte a un
crimine compiuto e non punito? Quando l’ingiustizia diventa un diritto, la strada dell’uomo si fa in
salita, la solitudine estrema: il valore si tramuta in disvalore, la virtù in vizio, perché è la scaltrezza
il nuovo onore dell’uomo, la vittoria sugli altri; l’empatia, la solidarietà è la virtù di chi vuole
perdere. Tutto si concentra sul risultato nudo e crudo, il viaggio perde d’importanza, conta arrivare
alla meta, alla cima della montagna: non si contano più le morti innocenti di chi, come noi, quella
montagna ha provato a scalarla, ma ci è morto provandoci. Loro sono degni solo del nostro oblio e
del nostro sorriso.
Questa tensione egocentrica ci porta a dimenticarci di noi stessi, ci disumanizziamo e perdiamo il
nostro valore, poiché decidiamo di attribuirlo alle cose, sempre più belle e lucenti del nostro
difficile cuore. Preferiamo chiudere gli occhi su queste verità, meglio riempirci la bocca di grandi
concetti, di grandi ideali ed aforismi di epoche passate e di grandi eroi, tutto splende ed è bello,
tutto appare. Sì tutto appare, esatto; nulla è quello che è, ma in fondo a chi importa?
“Così passerai una vita d’inferno” ti dicono i passanti per le strade, “chi troppo pensa, pazzo
diventa” ti ripetono in famiglia e allora ti sembra sciocco non fidarti di chi ha più esperienza di te e
chini la testa, prosegui sulla stessa via tracciata dagli altri, una via che ha portato a preferire
qualsiasi realtà virtuale rispetto a quella splendida, immensa, reale, ed eterna della natura. Ma la
realtà ti parla e tu, purtroppo, spirito eletto, non può restare sordo a questo richiamo di giustizia: non
è così che dovrebbe essere la vita, ti dici.
Eh sì perché è proprio questo anelito di chi si rivolta, verso il sogno, verso qualcosa di più giusto e
vitale, che porta alla tristezza, la volontà di ribellarsi per credere in qualcosa che è sempre disatteso:
maggiori saranno le tue aspettative, maggiori le tue delusioni. E allora sembra che non resti altra via
che quella che hanno deciso di tracciare gli altri, stringendo un patto demoniaco con il mondo e con
il proprio cuore: mentire a sé stessi, ecco perché ci sentiamo meglio, è così dolce l’illusione di una
vita che scorre via lenta e piena che è difficile resistergli, soprattutto quando si ha tutto e questo
avere ci porta a chiudere un occhio su tutto quello che non siamo e che invece dovremmo essere. E
più facile acconsentire che dissentire, il dissenso comporta fatica e dolore: perché vaneggiare
un’esistenza migliore, quando tutto può essere sepolto sotto la veste di un semplice amore?
“Smettila di sognare, quella non è la vita reale”, forse è questa la risposta al dilemma della vita: ma
non fu scritto nel nostro destino fatale che l’uomo è tale solo nell’atto di sognare? Il sacrificio
dell’essere uomo si consuma forse in questa ricerca di senso, che la sua stessa natura nasconde e
cela: un enigma senza risoluzione, la vita. Ma se invece tutto avesse già un senso e una risposta a
priori, allora che senso avrebbe, l’esistere? Si potrebbe dirsi vivi senza il patire e il gioire? A quel,
punto, forse, la morte avrebbe già vinto la partita, alla prima mossa.

8/5/2015
Il divenire

Questa sete d’infinito mi risucchia e mi tramortisce: la distanza dalle stelle pare sempre infinita e
più la percorro più la sua luce si fa fioca ed impercettibile ed è il buio ad ogni passo. Pulsioni,
pulsioni nient’altro che pulsioni che rendono le giornate pesanti, affamate, di un qualcuno che mi
completi, di un qualcuno che mi capisca e mi distolga da queste fobie del domani. Vorrei sentirmi
ruscello, capace di farsi scivolare le cose sulla propria superficie e non sentirne le vibrazioni sino al
fondale; i pesci, ne morirebbero e così le mie speranze. Vorrei sentirmi ruscello in continuo divenire
senza l’ansia del raggiungimento di qualcosa, ma semplicemente un divenire che sia il gusto del
viaggio, l’odore intenso del trasformarsi in forma nuova, tanto bella perché prima sconosciuta.
Perché dobbiamo sempre raggiungere qualche nuovo porto? Alla fine una volta giunti, la magia
s’estingue nel compimento e tutto il fardello d’emozioni che fin lì ci siamo portati, scompare e
s’estingue, come un’esile fiamma al primo risollevarsi del vento. Non si potrebbe godersi questo
viaggio infinto senza domandarsi dove si va? Via le bussole, via i timoni, via i capitani, non più
padroni di noi stessi ma della vita, assaporarla sino all’ultima goccia, prima che il boccale finisca,
prima che la sete – questa volta davvero – non ci ammazzi, come la natura ha deciso.
Allora sciogliamoci in questa turbine d’infinito, in questa vertigine di precipizio: inutile seguire un
sole che sempre si sposta, forse meglio attenderlo calmi, quando solo e orgoglioso si fa forza e
sradica, seppur per un solo istante, il peso delle mie tenebre; la vita non è, ma diviene.

10/5/2015

L’abisso

Ti ho sempre cercata donna del sole, tu sola che sapevi proteggermi nelle intemperie del mio
deserto; con te nella mano potevo cercare il riparo dall’esistere, un tetto caldo e sicuro che potesse
proteggermi da qualsiasi brutto tempo del mio cuore.
Ti ho sempre voluta, con la tua forza vitale, con il tuo presenziare, con la tua certezza d’una vita
salda e sicura, mentre la mia rotola in una valle di pensieri e dubbi. La tua presenza m’era diversa,
scioglieva la nube del dubbio, mi ributtava in quella del sogno, dove il fardello s’alleggeriva, dove
l’inferno si scioglieva perché ad ogni passo l’anima si elevava in cima alla montagna e il coraggio
di vivere ricominciava, come un’onda che riprende animo all’infrangersi sugli scogli. Tutto
ricominciava in un idilliaco ritorno, la fiamma si alimentava sola, incurante del vento minaccioso
dietro di lei, perché tutto ricominciava a bruciare come nelle giornate afose d’agosto; tutta la terra
scottava, la sabbia ardente mi obbligava a correre con passi più rapidi e sicuri: non potevo più
rifugiarmi nelle mie lacrime, ma dovevo correre, agire, per raggiungere la nuova strada che
bruciasse meno, per saltare il nuovo ostacolo, per confessare a me stesso ciò che non osavo.
Ma la mia mano, a lungo tesa, non l’hai presa. Il mio bacio, rifiutato. Il mio abbraccio, evitato. E
ora è il vuoto ad ogni passo e la caverna è buia e desolante, perché la luce non arriva se non a
sprazzi, quasi per scherzare con il mio destino: una luce d’intermittenza a ricordarmi d’una salvezza
possibile ma che non colgo, perché non la so cogliere – o forse, neppure voglio. Rincaso col cuore
freddo, sicuro di chiudermi per sempre al mondo, di divenire sordo al bussare infernale dell’amore;
ma un nuovo amore ritornerà a farmi sperare in un esistere più conforme e meno ansimante, perché
la stasi non è fase dell’uomo, ma continuo divenire e ricercare, un continuo migliorare che lo porta
al suo logorare. Allora riaprirò la porta per vedere se sarà luce o semplice abbaglio, se sarà vera
vittoria o un nuovo sbaglio.

14/5/2015

Scorre via rapido il tempo da un affetto all’altro mentre le amicizie, quelle vere, quelle durature,
restano senza che sia tu a deciderlo, tu a volerlo. Il mistero dell’amicizia è uno dei più insondabili e
probabilmente il più bello, assieme a quello dell’amore: ignota l’origine, ancor meno il suo
sviluppo. Si perché la vera amicizia non ha origine, non ha alibi, nasce e basta, come lo sbocciare
d’un fiore sul cemento e, contrario a qualsiasi speculazione scientifica, esso dura e perdura e
ostinato decide di non morire, di ribellarsi all’ordine delle cose e della vita. L’amicizia non si crea
mai per quantità ma per qualità, infatti; poche le parole necessarie, pochi gli atti significativi: si dà
più importanza ai silenzi, agli sguardi, a quei momenti di non-detto in cui si dice più di quello che si
potrebbe dire, in cui le due anime si fondono insieme trovandosi e capendosi; nessuno lo dice,
eppure entrambi lo sentono. L’amicizia non si comunica si sente, sempre, ad ogni istante. E un
sentimento vivo, forte, che può si crescere progressivamente, ma una volta giunta a compimento
sembra sia esistito da sempre e nulla può più attaccarlo: perché una volta amici, lo si è per sempre.
Per questo con un amico non basta passarci una vita assieme, essere compagni di banco, scambiarsi
i risultati della verifica, o telefonarsi ogni giorno, uscire ogni fine settimana: ma basta
semplicemente contemplarsi. Camminare sotto il sole cocente di un’estate furiosa e condividere
l’intenso profumo di una birra fresca, frutto di un’unione non detta ma presentita perché condivisa;
risvegliarsi dopo una serata d’inferno e guardarsi negli occhi per capire entrambi la difficoltà della
giornata che li aspetterà e, rassegnati, condividere l’eterna sigaretta dell’amicizia, sapendo che in
quell’oggi, a lottare per sopravvivere, non si è soli. Si potrebbe camminare per l’eternità in questo
silenzio senza scambiarsi una parola, una serie di viaggi interminabili nella pienezza del sentimento.
Questo silenzio parlerà al nostro cuore più che cento lettere d’amore; è nel silenzio,
nell’inesplicabilità dell’esistere e nella difficoltà dei giorni tutti uguali, condivisi e sostenuti
assieme, che l’amicizia fuoriesce, è nell’inverno del nostro cuore che riscopriamo la primavera, mai
nuova eppur sempre dimenticata nel buio del cuore. Sentire lo stesso peso e condividerlo, portare
con sé lo stesso fardello di difficoltà e giocare a rubarselo questo masso pesante quanto l’inferno: un
niente che vale tutto, nella vita.

19/5

L’innamoramento è una tappa della vita che tocca a tutti, nessun uomo ne è escluso, poiché fa parte
della nostra natura di essere umani, è una tappa dell’esistere. L’innamorato per eccellenza soffre
nell’amore: sembra non vi sia soluzione a questo, l’amore ha sempre fatto rima con dolore e mai
con gioia; la lingua ci viene in aiuto, talvolta. E un dolore che ci trasporta lontani a desiderare mete
lontane finalmente raggiungibili, montagne invalicabili facilmente sormontabili, i nostri massi
diventano più leggeri in un istante; la natura e la fatica d’ogni giorno fantasticamente si annientano
perché dei nuovi occhi tutto plasmano. Il tempo perde d’importanza e viene ridimensionato al
momento della prossima possibilità d’incontro: già perché l’innamorato è disposto a tutto pur di
avere un minuto d’incontro con la grazia scesa in terra da chissà quale volta celeste e tutti – dai più
ottimisti ai più nichilisti – ci convinciamo che questo miracolo avvenga per noi soli: in qualche
modo ci sentiamo scelti dal destino e non vogliamo che il miracolo non si compia per una nostra
inadeguatezza e si prova tutte le strade possibili per giungere a quel desiderio che prima era rimasto
assopito nell’ombra, là dietro quella roccia piena di erbacce e ortiche dove non avevamo mai osato
volgere lo sguardo. Già perché tutto nasce all’improvviso (o così noi lo sentiamo) e non possiamo
armarci, perché siamo inermi come la prima volta all’amore: esso ci coglie impreparati, inermi e
non possiamo fare altro che rispondere a questi continui attacchi ch’egli, come un buon legionario
romano, ci infligge di giorno con pensieri costanti e tormentati, di notte con sogni che sormontano
l’onda del possibile e del reale.
Ci troviamo di colpo proiettati in una dimensione altra, alla quale reagiamo sempre in ritardo perché
il cuore soffoca e rallenta ogni pensiero perché ora è lui a dettare legge, non c’è spazio per il
razionale e ogni intelligenza deve lasciare spazio alle sue emozioni, che sperava d’aver nascosto in
un cassetto d’un vecchio armadio, come facciamo con i vestiti, ormai sicuri di non indossare più:
eppure viene sempre la sera in cui, per un motivo o per un altro, siamo costretti a riaprire quel
maledetto armadio, beh quell’armadio l’uomo ha sempre avuto la bizzarra idea di chiamarlo cuore.
Una vera sfida quella dell’amore che ci porta a riflettere molto più spesso e molto più velocemente,
perché la necessità lo esige: si può tranquillamente dire che l’innamorato vive molto più volte di
quanto abbia fatto durante tutto l’anno; o forse è proprio in questo momento che smette d’esistere e
comincia a vivere.
Già perché se poi giudichiamo il tutto retrospettivamente questo periodo appare sempre illogico,
irrazionale, simile a una sbronza micidiale quando non ci si ricorda né l’inizio né la fine d’una
serata sciagurata; ci sembra d’aver scialacquato una quantità di tempo infinita, che non tornerà mai
più; e per che cosa? Per un pensiero, un’idea che abbiamo creduto valesse più dell’universo, per un
sogno che potesse stravolgere la nostra esistenza, per un qualcosa che desse quel tocco decisivo
all’esistenza, quel senso alle nostre azioni, al nostro agire, al nostro pensare.
Allora richiudiamo il nostro cassetto e il bell’abito dell’innamorato speriamo di non doverlo più
indossare, perché l’ultima volta s’è macchiato di sangue e lacrime, di desideri trattenuti, di speranze
illuse e di sogni frantumati che solo il tempo con fatica ha saputo lavare. Le macchie non si vedono
più ma ne restano le tracce nelle pieghe del vestito del nostro cuore e quelle non se ne andranno più,
perché in quel momento non solo ci appartenevano ma sono state noi: in quel momento noi eravamo
quelle pieghe e non possiamo rinnegarle, perché ormai il nostro cuore vive e prende la forma,
soprattutto grazie a queste nostre pieghe, a questi errori.
Allora si spera di non compiere più questi errori, di imparare e di superarsi come uomini, ma la
strada continua lunga e diritta nella valle del sole ardente di un’esistenza talvolta monotona e
ripetuta, perché sulla strada è difficile trovare qualcosa che ci muova l’animo: è un’autostrada verso
l’inferno quella che attraversiamo, un deserto di noia da cui si vuole uscire al più presto ed ogni
pretesto è buono perché anche una chiacchierata filosofica, a notte fonda, con gli ultimi intrepidi del
bar di periferia è fiore nel deserto che mi circonda. Ed è poi nelle notti più nere, quando manca pure
la luna a farci compagnia e le stelle hanno deciso di operare un loro suicidio silenzioso e decidono
di voltarci la schiena, quando la luce non ci tocca più gli occhi, allora sì che ci manca quel dolce
affanno, quel cuore grosso che non si ferma e come una valanga minaccia la nostra vita: increduli
allora resteremo a fissare la nostra anima che urla a gran voce di volerlo riaprire quel maledetto
cassetto e d’indossarlo quel maledetto vestito un altro migliaia di volte.

29/5
Il paradosso dell’amore
E facile credersi innamorati, è facile parlare di amore – soprattutto quello a prima vista – ma in
realtà di cosa stiamo parlando? E molto facile confondere piacere ed amore, ma pochi hanno il
coraggio d’ammettere questa terribile verità, perché allora cosa diventa l’amore? Allora esiste
davvero? Forse no, o comunque di rado. Già perché amare è un atto pericoloso e doloroso: amare
significa fondamentalmente capire. Già bisogna capire prima di amare e se non si capisce è tanto
vano darsi all’altro, perché è un esibirsi davanti a un pubblico vuoto, è come lanciarsi in un mare
aperto perdendo la luce del faro dopo pochi istanti. Amare significa capire nella propria profondità
ma soprattutto scegliere, quindi eliminare il superfluo: senza la scelta non c’è amore, v’è solo
piacere, magari corrisposto, ma innaturale, vuoto, di facciata. Già perché un amore senza
comprensione dell’altro, senza la raffigurazione spirituale non è nulla: è un gran ammasso di
polvere che lanciamo per terra e ci ritorna tutta indietro negli occhi; già una grande sabbia negli
occhi, un infernale illudersi che è invece una caccia infinita che non porterà a nessuna preda; anzi il
raggiungimento di ogni preda si rivelerà vano, insipido e ci manterrà sempre in uno stato turbato ed
inquieto. Non possiamo dirci soddisfatti quando si è scelto di farsi scegliere, invece di scegliere noi
stessi: non possiamo dirci fieri d’un atto non nostro ma voluto dal fato. Ma allora cosa siamo se non
bestie da circo travestite da esseri pensanti e contemplativi? L’uomo si realizza proprio in questo
atto di scegliere, di ribellarsi contro quello che alla sua armonia non si addice e nell’amore - l’atto
che più idealizza ed eleva l’uomo - egli dovrebbe accontentarsi, sulla spinta di piaceri terreni lontani
anni luce, dal vero sentimento celeste, l’unico in grado di farci sentire più divinità che bestie?
L’amore, l’uomo, l’ha sprecato. E continua a farlo, ogni giorno. Si crede evoluto, superato, ma
continua a brancolare in questa selva di impurità e di tentazione che gli preclude ogni vero cammino
soleggiato, perché all’irta salita che porta al sole della vita, preferisce la soffice prateria del non
senso condiviso e accettato.
Si resta sempre alla scorza del limone, il suo odore ne esce appena, la sua asprezza la percepiamo
quasi per sbaglio, mentre il succo resta lì, morto e amorfo, perché non v’è il coraggio d’andare a
fondo: e allora ci meritiamo tutti il destino d’Orfeo, prossimi al raggiungimento dell’estasi eterna
d’amore, siamo investiti da un basso sentimento d’orgoglio, di possesso che rende tutto più pesante
e vizioso e ce ne ritorniamo a casa soli, con un pugno di mosche, perché invece che sentirci umani
abbiamo preferito fare i leoni.

12/6

L’umanità

Ti sembra giusto tutto questo? Ti sembra davvero il meglio che si potesse fare? Non hai nemmeno
un briciolo di rimorso – come un forte dubbio che ti ostacola il tuo dolce sonno eterno – ti pare
davvero di avere spremuto tutto il cuore e la tua grazia nel realizzare quest’acerbo frutto dal
retrogusto amaro? Eh si non si sa con chi prendersela, ma con qualcuno bisogna: non si può stare
zitti. Stare zitti significa essere indifferenti ma l’uomo non è indifferente; può essere codardo,
superficiale ma non indifferente: e c’è qualcosa che non va, ma non sembra voglia dirlo, né
tantomeno pensarlo.
“Bisogna accettarla questa vita e fatta così” ti dicono. Si ma non ci sto e anche se non ho poteri
taumaturgici, io voglio viverla e criticarla l’esistenza, non voglio subirla da rassegnato, con la testa
china, il cuore pieno di sogni finti, di usanze retrograde, di bisogni artificiali: io dissento. Già
dissento, mi ribello; forse questo è già vivere e non più solo esistere. Mostrare fieri il proprio sorriso
beffardo contro le tenebre di un’esistenza che ci puzza d’illogico e casuale.
Il ripetersi delle stagioni destinate al loro morire, le ingiustizie che ci perseguitano non in maniera
ossessiva, ma in maniera calcolata – attendono, loro, lo splendere del nostro viso prima di colpire,
inesorabili, nell’estate del nostro essere, solo così riconosciamo l’inferno; il nostro ricercare è
ossessivo e finiamo per non trovare mai quello che desideriamo ma qualcos’altro; ma questo sgarbo
non basta: non solo non troviamo quel che si cerca ma la nuova scoperta ci ributta in un baratro
ancora più grande, forse. A quel punto bisogna scegliere: la tengo questa margherita nella quale
sono inciampato lungo il mio cammino? Sì, è vero, io cercavo una rosa bianca – bianca come la
purezza che sogno – ma mi ritrovo in mano una semplice e comunissima margherita e che farne?
Tra un fiore dimenticato e uno raccolto ci sta un nulla inesprimibile che vale tanto, un pezzo
d’esistenza, magari anche un po’ di senso, dimenticato da qualcuno mentre si affannava a cercarne
di più e si ritrovava solo, a piangere quella margherita lasciata a marcire, all’angolo della strada
sotto casa.
E un insano sognare – penso – che ci porta al nostro soffrire: difficile accontentarsi di ciò che si ha,
impossibile non sognare qualcosa di migliore. Già perché siamo gli unici animali che non ci
accontentiamo mai del nostro esistere, forse perché ci rendiamo conto che la vita è una sola: alla
vita ultraterrena non ci crediamo davvero, se non come una scaramanzia, una tradizione antica
tramandata di generazione in generazione, sulla quale non ci siamo mai dati la briga di certificarne
la validità, per paura che al primo oscillamento dell’intelletto svanisca la speranza, come quel dolce
sognare un mare d’inverno.
Forse allora a quest’eterno desiderare non c’è rimedio e se di fronte a questo destino inesorabile ci
sentiamo vinti in partenza, che fare?
Non ci resta che unirsi – solidali l’uno all’altro, fratelli gli uni con gli altri, come un grande branco,
quello degli animali più belli del mondo – per affrontare questo terribile nemico che ci rende tutto
così difficile; non vinceremo mai la nostra sorte, ma se condiviso, il dolore, ci farà meno male; già
perché se avremo imparato a essere solidali, a essere tutti gli stessi animali vittime dello stesso
sconosciuto padrone, avremmo vinto la nostra sfida di mortali: l’impero crollerà e cammineremo
tutti insieme, mano nella mano, fino alla città del cuore, bagnati dal sole più vero, quello più
sincero.

I sogni dei poeti 25/6/2015

Come si fa a sognare qualcosa d’impossibile? Come si fa a credere a qualcosa che già a priori
consideriamo come utopico ed irrealizzabile? Come si fa ad illudersi di un’illusione: messa sotto
questa lente fredda e razionale ogni sogno è una follia ed è una vanesia. Proprio sciocchi siamo, ci
verrebbe da dire. Ma purtroppo la realtà non è matematica applicata, i sentimenti non sono,
fortunatamente, formule chimiche e i sogni non sono la forza risultante della gratitudine, della
gentilezza e dell’onestà che riceviamo. I sogni per loro necessità, per sopravvivere devono essere
matti, irrisolti, irrisolvibili e, specialmente, impossibili. E cos’è che spinge il sogno? E chi sogna di
più?
Non c’è forse persona che sogna di più del poeta: il suo è un continuo sognare, agognare nel sogno
che percepisce come vano ma si ostina a inseguirlo. Già perché senza sogno il poeta non vive,
muore: anzi, non è poeta. Già perché la poesia è quasi sempre uno scritto sull’impossibile. La
poesia non è altro che quell’accordare i propri sogni con la realtà ben sapendo della reale difficoltà
di quest’impresa; la poesia è il percepire una realtà che non si sposa con i propri ideali, che non si
sposa con ciò che dovrebbe essere e non lo è, che non si sposa con quello che dovrebbe accadere e
non accade: per questo il poeta scrive. Ed è lì nello spazio di pochi versi che l’impossibile si fa
possibile, l’irreale si colora di tinte reali, è in quel breve momento che la grazia dimenticata si fa
presente. Che senso avrebbe altrimenti il poetare? Nessuno. Se non percepite queste sconfitte
quotidiane, non cominciate nemmeno: è tempo perso.
Il poeta con i suoi sogni è fondamentalmente egoista ed egocentrico, ambizioso e vanitoso: lui vuole
brillare nel buio delle sere tutte uguali, non ci sta a giocare una parte secondaria, non ci sta a seguire
un ritmo monotono, vuole essere lui il solista. E per questo che normalmente il poeta si sente
estraneo alla società, che sovente s’accontenta di ripetere a memoria il proprio spartito; già, perché
una volta imparato, lo spartito, basta ripeterlo all’infinito mentre la cerimonia della vita prosegue:
una bella maschera l’io, una volta indossata e capita basta ripetere la scena e il gioco è fatto,
l’inganno riuscito. Il poeta non ci sta e vuole uscirne da questa coltre di ipocrisia: lui la maschera la
cambia ogni giorno, anzi non la indossa mai; lui la musica la scrive ogni giorno, il suo strumento va
sempre accordato come un vecchio clavicembalo; il suo cuore deve sempre trovare la giusta
temperatura come un termometro dell’anteguerra, non vi è nessun termostato al suo sentire.
La poesia non è che un continuo tentativo – fallito nella sua totalità ma sempre riuscito nell’istante
che dura – di dare un senso a un non senso del reale realmente percepito. La poesia è stronza, amici,
t’illude e ti disillude con una maestria da regista dell’orrore: ma è lì che sta il bello, è li che il poeta
ci casca, è lì la sua droga da cui non riesce a staccarsi, l’ansia dell’impossibile. Lui non ci sta a
questo sostrato di non senso e lo lotta continuamente, forse invano: è lì che continuerà a scavare, là
nell’impossibile alla ricerca dell’Eldorado, perché le sette meraviglie del mondo non sono nulla
rispetto al sogno di scoprirne un’ottava più lucente, proprio perché rispolverata dagli abissi
dell’anima. Perché struggersi nel possibile e nel realizzabile quando si può sperare nell’impossibile?

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