Visit to download the full and correct content document: https://testbankbell.com/dow nload/test-bank-for-accounting-information-systems-10th-edition/ Another random document with no related content on Scribd: Muoja la costituzione, Viva il re assoluto, procedette senza ostacolo fino a Siviglia. Carlalberto, combattendo al Trocadero, aveva in faccia ai re lavato la macchia dell’essersi lasciato salutare re d’Italia [195]. La facile caduta di rivolte militari o di popolari sommosse, fecero persuasi i re d’essere sicuri, e che niuna reale efficacia possedesse lo spirito liberale, che amavano confondere col rivoluzionario; bastasse affrontarlo per vincerlo; e pesarono sull’Italia con una taciturna oppressione non ricreata da verun lampo di speranza. CAPITOLO CLXXXIV. La media Italia. Rivoluzioni del 1830.
Nei Liberali questo momentaneo agitarsi sotto le bajonette de’
padroni lasciò scontentezza, ma non sconforto: e poichè, invece di studiar le vere cause della ruina, la spiegavano colla plateale ragione del tradimento, altra lezione non se ne traeva se non d’esecrare i traditori, e non isperare nei principi. Tanti profughi ond’erano piene non solo Francia, Inghilterra e Svizzera, ma Barberia e Turchia, rodendo il pane dell’esiglio rinnovavano que’ tempi del medioevo quando le trame dei fuorusciti decideano le sorti della patria, e co’ loro scritti mantenevano l’irrequietudine, eccitando sdegni che pareano speranze. Giuseppe Pecchio descrisse i proprj viaggi e la vita di Foscolo e la storia dell’amministrazione finanziera del regno d’Italia e quella dell’economia politica nel nostro paese, adulandoci: Giovanni Arrivabene applicavasi all’economia e alla beneficenza pubblica: Camillo Ugoni continuava la critica letteraria, come il Salò: Santarosa ed altri raccontavano la rivoluzione di Piemonte, mentre Pepe e Carascosa duellavano su quella di Napoli: il capitano Bianco insegnava la guerra per bande: Giannone ordiva un poema l’Esule: il conte Alerino Palma sedeva nell’areopago della risorta Grecia, e in quella lingua scriveva delle viti e del vino: le romanze di Giovanni Berchet milanese rendevano popolare l’esecrazione contro l’Austria e contro Carlalberto. I libri che si faceano leggere, erano proscritti o di proscritto; le opere statistiche del Gioja, le giuridiche del Romagnosi, le mediche del Rasori, le filologiche del Giordani e del Foscolo, le storiche del Troya, del Colletta, del Sismondi, le poetiche del Pellico e del Rossetti, le filosofiche del Borelli, prediligeansi perchè d’autori perseguitati; voleano vedersi allusioni e condanne contro l’autorità che le proibiva, e il divieto aguzzava le voglie, e toglieva il criterio di sceverare il vero dal falso. Così crebbe la smania del leggere e scrivere, del ragionare e ragionacchiare di politica e d’economia; e si moltiplicarono i giornali. Era anche questa un’imitazione di Francia, dove i Carbonari, non avendo potuto insorgere nel 1821, si erano diretti a preparare l’opinione sia alla tribuna, sia colle gazzette, lanciandosi in una politica avventurosa, com’è sempre quella che non ha il riscontro della realtà, ed esercitando quell’opposizione negativa, ch’è facilissima perchè ha bisogno solo di collocarsi in un punto di vista differente da quello del Governo, ed è insufflata dalle passioni invidiose e malevole. Di là quei giornali arrivavano in Italia: i Governi che ne capivano la potenza a segno di proibirli, non riuscivano ad opporvene alcuno, il quale alla savia moderazione che concilia anzichè irritare unisse la prudente franchezza che fa rispettare la ragione anche quando contraria, e all’elogio dà valore e dignità col saper disapprovare. Intanto sui Francesi formavasi quel poco di spirito pubblico, creando bisogni e affetti che non erano i nostri; lodando una beneficenza che storpia l’uomo per avere il vanto di dargli le stampelle; erudendosi a una storia tessuta con luoghi comuni e paradossi; allucinandosi ad un liberalismo che abbaja contro ciò che s’ha a distruggere, non ragiona sopra ciò che bisogna sostituire, e vagheggia una democrazia che sconoscendo le parti più vitali delle nazioni e degli individui, condanna ad abdicare ogni valore proprio ed inabissarsi nella così detta opinione pubblica, cioè volgare. Quest’indeclinabile imitazione de’ Francesi, della loro scienza incompleta, della filosofia eclettica, della letteratura improvvisata, della politica rischiosa fu sempre una delle più funeste endemie degl’Italiani. Intanto i principi nostri credevano che i mali si rimediassero col negarli, e se la compressione materiale ristabilì l’ordine esterno, non si provvide all’interna agitazione, cresciuta anzi ne’ paesi dove non s’era dianzi sfogata, e dei quali or ci avanza a parlare. Il papa era stato rintegrato ne’ suoi possessi, eccetto Avignone e il contado Venesino che Francia si tenne, e le fortezze di Comacchio e Ferrara a cavallo del Po, volute dall’Austria ad onta delle proteste pontifizie. Roma aveva esultato nel ricuperare il Laocoonte, l’Apollo, la Corte, le solennità, l’aurifera affluenza dei forestieri. Pio VII, tornando ingloriato dal martirio, non ricercò alcuno per l’operato durante il Governo francese o nell’invasione di Murat; anzi il generale austriaco Stefanini, col fare qualche persecuzione, scemò la propensione che non piccola v’era per gli Austriaci. Col consiglio del cardinale Consalvi e del Bartolucci, il papa con motuproprio (1816 6 luglio) sistemò l’amministrazione pubblica in aspetto di legge generale che tenesse dell’antico senza ripudiare tutto il nuovo, tenendo all’unità e uniformità collo sbandire quelle amministrazioni molteplici, e ridurre a un centro le giurisdizioni. Lo Stato fu diviso in diciannove provincie, oltre la metropoli colla comarca; ogni delegazione in distretti ch’erano quarantaquattro: questi in seicenventisei Comuni sotto delegati prelatizj. Le Comunità regolavansi da un consiglio che deliberava, da una magistratura che amministrava, scegliendone i membri fra il clero, i possessori, i letterati, i negozianti, salva la conferma del delegato. Roma ebbe un senatore e conservatori; e così Bologna. Ai fidecommessi poteasi rinunziare: abolite le servitù e le riserve; abolite le giurisdizioni baronali, eccetto quelle del cardinale decano in Ostia e Velletri, e del maggiordomo papale in Castelgandolfo; aboliti gli statuti municipali, se non in quanto concerne l’agricoltura. Si sistemò l’imposta, alleggerendola d’un quarto, e doveasi erigere il rendiconto annuo, compilare un catasto regolare, un registro di tutto il debito pubblico fruttante il cinque per cento, con una cassa di redenzione. Abolito il codice civile e il criminale francese, le commissioni, i giudizj privati, si accentravano le giurisdizioni, determinando i tribunali collegiali e le loro gradazioni, con appelli a Bologna, Macerata e Roma, e una cassazione detta Segnatura; le cause trattate in italiano, motivate le sentenze criminali, difeso il reo e confrontato coi testimonj, abolita ogni guisa di tortura; indipendente l’autorità giudiziale, responsali i magistrati. Ma regolamenti soggiunti smentirono i preamboli, nè i codici promessi comparvero mai: i fôri vescovili impacciavano col trarre a sè ogni lite ove fosse implicato un ecclesiastico: rinacquero i vecchi tribunali della fabbrica di San Pietro che conosce di qualunque eredità a suffragio delle anime, e della congregazione de’ chierici di camera per le cause demaniali: la Segnatura non giudicava definitivamente, ma rimetteva alla sacra Rota, la quale cogli opinamenti (del resto opportuni a raggiungere la verità) poteva eternare le cause, ripetendo l’audiatur invece dello exequatur. Alla francese continuarono l’ordinamento delle finanze, le ipoteche, il bollo, il registro: ma il commercio era incagliato da privative e protezioni; arbitraria la Polizia, diretta dal governatore di Roma, e che applicava fino la pena del cavalletto. I soldati raccoglievansi per ingaggio: privilegio dei chierici la istruzione e la censura, come a soli prelati la diplomazia, e le supreme magistrature amministrative e giuridiche, e fino il governo delle armi. Il papa ripristinò le accademie della Religione cattolica, d’Archeologia, di San Luca; malgrado le indomabili paure dei re, concesse ospitalità alla famiglia Buonaparte; rielesse cardinali; colle antiche cerimonie canonizzò molti santi, fra cui gl’italiani Andrea da Peschiera, Costante da Fabiano, Antonio da San Germano vercellese, Ranieri da San Sepolcro, Francesco Caracciolo, e le beate Angela da Desenzano, Caterina da Racconigi, Giacinta Marescotti, Bartolomea Bagnesi fiorentina. Alla basilica di San Paolo, fondata da Costantino, arricchita dagl’imperatori e dai pontefici con quadri, musaici, porte di bronzo, cimelj, marmi, s’apprese il fuoco accidentalmente, e que’ tesori d’arte e di devozione e ventiquattro colonne di marmo frigio ne rimasero distrutte. Parve preludere alla fine del pontefice, il quale allora appunto cascando in camera, si ruppe l’osso del femore, e soccombette (1823 20 luglio). Eroe da che la prigionia pose fine alle sue debolezze, nè gradi nè ricchezze attribuì ai parenti; non commise crudeltà, ma non impedì le malversazioni; e inetto al governo, abbandonava il paese più povero, disordinato e bollente di ire. Gli fu dato successore Annibale Della Genga (28 7bre), col nome di Leone XII; il quale congedò il Consalvi, che lascerà buon nome fra i ministri di Stato per lo spirito conciliativo ed opportuna fermezza, e che poco dopo morendo, i molti donativi diplomatici destinò ad erigere una statua al pontefice, di cui era stato sostegno. Leone XII, reputato per moralità non meno che per l’accorgimento politico mostrato come nunzio in Francia, proseguì le cure pastorali contro «l’irruente empietà, e contro la meticolosa politica, invasata dalla paura dei forti ed affettante alterigia coi deboli»; comprò la ricca biblioteca artistica del Cicognara, che l’imperator d’Austria avea ricusata; fece da giureconsulti esaminare il motuproprio del suo predecessore; nominò anche una congregazione di Stato, ma subito la risolse in mera assemblea consultiva. Parve anzi condiscendere ai retrivi col lasciar vivere gli arbitrj di ciascun dicastero: vennero estesi i diritti delle comunità; ma se ne’ consigli entravano tutte le classi, rimaneva separata la nobiltà, con le primogeniture e fedecommessi, credendo «influisca al decoro del principato»: volevasi anche ripristinare le giurisdizioni baronali «come l’unico mezzo di ridonare il lustro alla nobiltà romana», se il concistoro non si fosse opposto. Le femmine dotate furono escluse dalla successione; rimessi i giudizj a singoli, invece de’ collegi; aboliti i tribunali di distretto; introdotto di nuovo il latino ne’ giudizj, e nelle più grandi Università e nelle cinque minori; ad ecclesiastici affidato il condurre anche il processo dei laici; attribuito ai Gesuiti il collegio romano, il museo, e l’osservatorio, con dodicimila scudi di rendita sul tesoro pontifizio; ripristinato il Sant’Uffizio; estesi i privilegi della manomorta. Forza era dunque dar torto al papa di prima o al presente, e facilmente si dava torto ad entrambi, cioè si perdea la fede nell’autorità. Commissioni di preti ed uffiziali sgomentarono le Legazioni, solcate da società segrete, che manifestavansi ad ora ad ora con assassinj di pretesto politico, e contro avversarj che denunciavansi per Sanfedisti: e un tentativo d’insurrezione nel 1825 in occasione del giubileo, costò la testa a un Targhini. Il cardinale Rivarola nella legazione di Ravenna in una sola volta, udito il parere de’ giudici, condannò (1825) cinquecentotto persone; poi ad un tratto perdonò a tutte, assegnò pensioni ai loro parenti, e cercò rappattumare Sanfedisti e Carbonari per via di matrimonj, che riuscirono come Dio vel dica. Essendosi poi attentato alla vita del legato, egli istituì una commissione severissima, moltiplicò le spie, lasciò andare alla forca sette omicidi (1828), che il pubblico compassionò come vittime politiche. Del resto, allorchè si promise perdono a chi spontaneo venisse a far dichiarazioni, a centinaja vi accorsero. Tali erano i governati, tali i governanti. Leone XII aveva divisato di riformare le regole ed il vestire dei frati, riducendoli a tre soli Ordini: uno di regolari, poveri, di scienza discreta e gran cuore, che servissero al popolo sussidiando i parroci e prestandosi agli spedali. Il secondo, tutto all’educazione e istruzione della gioventù, e a sostenere gl’interessi della religione e del buon costume. Il terzo di contemplativi, che salmeggiassero, predicassero, e cercassero l’evangelica perfezione. Non mancavano i Barbareschi di molestare le coste; ma peggior vitupero allo Stato Pontifizio veniva dai briganti. L’antico paese dei Volsci, fra gli Appennini, le paludi Pontine e i monti d’Albano e Tuscolo, fino al 1809 appartenne alla famiglia Colonna, che all’armi addestrava quelle popolazioni per ajutarsene nelle sue emulazioni cogli Orsini e coi papi. E i papi non vi poteano nulla; se non che, alle persone probe dando un brevetto di cherico, le sottraevano alla giurisdizione territoriale. I Francesi abbatterono questa feudalità; ma gli eccessi della coscrizione del 1813 tornarono in armi la popolazione, e bande di politici vi si formarono in opposizione di re Gioachino. Sotto il debole Governo sottentrato crebbero di baldanza: obbedienti a capi quali De Cesaris e Gasparone nelle provincie romane, Furia e Vandarelli nelle napoletane confinanti, e carichi d’armi e di reliquie, a torme fin di cento scorrazzavano la campagna spopolata, e rendeano pericolosissimo il tragitto da Roma al Napoletano; assalirono e taglieggiarono un collegio alle porte di Terracina, i Camaldolesi presso Tuscolo; molte famiglie ridussero sul lastrico; guastarono i commerci, l’agricoltura, la pastorizia. Chi avrebbe osato negare ricovero e vitto a questi formidabili? Assai volte il Governo dovette scendere a patto con essi, pure beato quando qualcuno tornasse a penitenza, e venisse a sospendere a una Madonna il coltello insanguinato. Il Consalvi, fisso di sterminarli, s’accontò col Governo napoletano acciocchè non li ricoverasse nel suo territorio, arse le capanne e i villaggi ove annidavano, e potè consacrare una festa a commemorazione d’averli distrutti. Ma non lo erano così, che molto non restasse a fare. Leone XII spedì il cardinale Pallotti legato a latere con un editto, ove, cessata ogni misericordia o transazione, intimavasi morte immediata ai briganti côlti; pena cinquecento scudi ai Comuni ove succedesse un loro latroneccio. Di fatto si trovarono ridotti aventi, che a Sonnino capitolarono: ed essi furono mandati nelle fortezze, il paese distrutto. Lo Stato romano si estendeva fra il 41 e il 45º parallelo per centrentadue miglia da Ancona a Civitavecchia e ducenquaranta dal Po a Terracina, con due milioni e settecensettantaduemila abitanti, e con fama di sterilità a terreni calcari e vulcanici, che sarebbero ubertosissimi. Il pendìo dell’Appennino che scende al Mediterreneo presenta vaste pianure, esercitate colla coltivazione grande; verso l’Adriatico le varietà della piccola trovansi nelle Legazioni, nelle Marche, nelle valli dell’Appennino. Le Legazioni partecipano della fertilità della Lombardia; e una popolazione intelligente e laboriosa prospera la coltura della seta, del frumento, del riso, del vino, della canapa. Altrettanta è la fecondità delle Marche, ma i possessori meno ricchi s’accontentano delle produzioni meno costose, quali il vino e la seta: il colono è a mezzerìa, non affittajuolo. Lo Stato guadagna assai dalle saline di Cervia e di Comacchio. L’inameno Appennino verso settentrione vestesi di foreste; ma di sotto di Roma restò ignudo, dacchè Sisto V le fece distruggere per togliere il nido ai masnadieri: da quelle che sopravanzano verso il lago di Bolsena e le fonti del Tevere si taglia eccellente legname anche da navi. Le valli interposte si lavorano a piccola coltura, e bellissime quelle della Nera e del Velino: la scabra dell’Anio è atta appena all’ulivo: verso il Napoletano si allargano i piani di Sacco. Le rive del Tevere mostrano la piccola coltivazione fino al monte Soratte, ove comincia l’Agro romano, vastità di ducencinquantamila ettari ubertosissimi, ma che accumulati in possessioni non minori di trecento ettari, e fino di cinquecentomila, spesso con una sola casa rustica, la più parte rimane soda, o soltanto lavorata a lunghissimi intervalli. Nel medioevo le famiglie romane viveano alla campagna e de’ prodotti di questa, e se le guerre private vi recavano guasti, adoperavasi però ogni cura a farle fruttare come unica ricchezza. Quando i papi cominciarono a impinguare i nipoti, questi comprarono i beni de’ piccoli proprietarj, che volentieri li cambiavano contro luoghi di monte, oggi diremo azioni di banca, molto fruttuosi. Nel 1470 Sisto IV permise a qualunque avventiccio di seminare per proprio conto un terzo del terreno che fosse rimasto sodo: tale idea avevasi allora della proprietà! Sisto V nel 1585 con un milione di scudi stabilì una cassa di credito agricola a favore de’ proprietarj dell’Agro romano; ma ben poco vantaggiò. Intanto i Borghesi vi comprarono da ottantamila terre, e Paolo V le decretava immuni da confisca: i Barberini altrettanto, impiegandovi, si disse, cento milioni di scudi. Così sparve la proprietà suddivisa, e molte famiglie di Parma, Firenze, Urbino lasciavano le proprie terre per venire a Roma a goder le rendite dei Monti; ma non tardarono ad accorgersi d’aver ceduto il certo per l’incerto. Alessandro VII cominciò le riduzioni d’interessi: onde il credito ebbe una scossa tanto maggiore perchè la cosa era inusata, i capitali si ascosero o sparvero, e così la terra appartenne a proprietarj cui mancavano i capitali da utilizzarla. Scemata la produzione, si dovette assicurare il vivere alle popolazioni col proibire l’asportazione; laonde l’agricoltura si restrinse a produrre soltanto quant’era necessario per l’interno. Oggimai quell’ampiezza era posseduta da centredici famiglie e sessantaquattro congregazioni: i Borghesi davano a fitto ventiduemila ettare, i Chigi cinquemila seicento, i Cesarini Sforza undicimila, e così via, cavandone da otto a diciotto franchi l’ettare: e i grandi fittajuoli sopperivano alle spese cui non basterebbero i proprietarj. Nella stagione che l’aria è men micidiale, si fa ressa ad ottenere le ricchezze del suolo; centinaja d’aratri, a quattro, a sei, a otto paja di bufali di fronte lo solcano; quella che credevi una sodaglia incolta, in pochi giorni trovasi arata e sementata; poi si dimentica fino all’ora della messe, quando un nugolo di montanari scende alla mietitura; e dove parea un mare di biade ondeggianti, in pochi giorni non rimane spiga in piede, e sottentra aspetto di deserto. La gente degli Abruzzi, compiuta l’opera, riporta a’ suoi monti pochi denari e le febbri. Il resto si abbandona alla pastorizia che frutta senza spese nè pericolo, ed offre un cibo sano e nutritivo alla città: ma neppur le mandre si pensa a moltiplicare, o introdurvi migliori specie di montoni e di cavalli, in modo da farne lontane asportazioni. Un pastore sceso dalla montagna, a cavallo addirizza i numerosissimi armenti, trafiggendo con un lancione il puledro o la bufala che scompigli il branco; e pochi bastano a migliaja d’animali. Di cui in tutto lo Stato contansi oggi quattro milioni ducentomila capi, dove seicentosessantatremila sono bovini, quindicimila muli ed asini, due milioni e mezzo di pecore, trecentoventimila capre, settecentomila majali. Ecco perchè delle 4,166,297 ettare dello Stato Pontifizio, 1,046,861 tengonsi a prati. Le alture d’Albano che fanno cornice all’Agro romano, nutrono una popolazione robusta, e d’uva e frutti provvedono la capitale: ma neppur qui abbastanza si cerca migliorare le produzioni, e il vino e l’olio. Di là da Velletri cominciano le paludi Pontine su quarantadue chilometri di lunghezza per diciotto di larghezza. Pio VI vi sanò ottomila ettare, che furono distribuite in enfiteusi coll’obbligo di coltivarle e mantenere i canali secondarj, ma non che adoprarvi tutta la cura, è assai se s’adempiono i contratti. Principali concessionarj sono le famiglie Massimo, Fiano, Gaetani, e la fabbrica di San Pietro, alla quale appartiene il Campo Morto di ottomila cinquecento ettare, dove, fra gli altri allettativi per attirar gente, i malfattori sono tenuti immuni dalla giustizia purchè subiscano la disciplina prescrittavi. Quel podere alla semenza di mille ettolitri di frumento e quattrocentoventi d’altre granaglie risponde l’annuo ricolto di quindicimila trecento ettolitri; quattrocento giornalieri lavorando alla seminagione, il doppio alla messe, oltre gli ordinarj; trecentoventi bovi con sessantacinque aratri alla coltura; ducencinquanta bovi sonvi ingrassati: ottocento vacche, cento bufali e duemila pecore pascolano nel maggese: cento cavalli servono ai sorveglianti e pei trasporti, oltre ducencinquanta giumenti e i loro piccoli. Eppure non si affitta che tredici franchi l’ettara. Il sistema di far rendere senza intervento d’uomini nè spese di coltura, contentandosi de’ prodotti spontanei, non è dunque generale nello Stato; e la grande coltura è propria solo delle paludi e della campagna: ma insalubrità, spopolamento, mancanza di sfoghi sono reciprocamente cause ed effetti di danno, nè si può riparare ad uno in particolare; e vuolsi ben altro che decreti, fossero anche ben consigliati. Clemente XIII vietò di tagliar legnami nei possessi dei Comuni o della Camera apostolica senza licenza; nel 1789 Pio VI diede un buon regolamento pei boschi, e fece erigere un nuovo catasto; colla libera asportazione de’ grani ne sollecitava la produzione; nel conferire le doti si preferirebbero le figlie d’agricoltori; si stabilirono premj e pene che non ottennero effetto. La dominazione francese brevissima non ebbe tempo di spartire fra operosi proprietarj i latifondi di manomorta che traeva al fisco; e una commissione istituita nel 1810 per migliorare le paludi Pontine, nulla trasse a riva. Nel 1819 una società straniera offerse di prendere in affitto tutto l’Agro romano, retribuendo al fisco un canone annuo, e a ciascun proprietario un fitto pari a quello che allora godeva; e dopo cinquant’anni restituirgli i terreni migliorati: intanto la società avrebbe dissodato il fondo, rasciutte le paludi Pontine e quelle di Macarese ed Ostia, resi navigabili il Tevere e il Teverone per l’intero loro corso, aprendo così una uscita ai prodotti della Sabina; costruito villaggi con chiese, scuole, ospizj, strade; utilizzato le acque minerali e sulfuree; piantato modelli di podere dove introdurre produzioni nuove, l’indago, la cannamele ed altri; tutti questi lavori sarebbero fatti da indigeni, alloggiati in situazioni salubri, congedati ne’ mesi pestilenziali. Erano forse le solite lustre di speculatori: fatto è che la proposizione, dal nuovo papa accolta favorevolmente, fu lasciata cadere forse per opera di chi ne temeva scapito. Il nuovo papa Pio VIII (Saverio Castiglioni) (1829 31 maggio), uomo austero e dotto, lodato del far poco, dopo che Leone XII avea fatto troppo; non arricchì parenti; usò a ministro il cardinale Albani, impinguatosi con appalti e speculazioni, inclinato all’Austria, nè troppo sottile in fatto di religione e amante i piaceri tanto più che non era prete. Di corto il papa moriva (1830 30 9bre), e nell’orazione solita recitarsi nel conclave de eligendo pontifice il dottissimo cardinale Maj diceva ai radunati: — Dateci un papa che sia per la fede Pietro, per costanza Cornelio, per felicità Silvestro, per eleganza Damaso; abbia di Leone la nitida eloquenza, di Gelasio la dottrina, di Gregorio la pietà, di Simmaco la fortezza, di Adriano l’amicizia dei principi; sia per la concordia delle Chiese Eugenio, pel patrocinio delle lettere Nicolò, per grandezza di consigli Giulio, per liberalità Leone, per santità Pio, per vigore d’animo Sisto; e per non ricorrere solo le prische età, dateci un pontefice che non manchino nè l’erudizione di Benedetto XIV, nè la munificenza del sesto Pio, nè la forza e benignità del settimo, nè la vigilanza di Leone XII, nè la rettitudine di Pio VIII». Campione della religione e dell’autorità era Francesco IV di Modena, carattere robusto, mente estesa, operante per fredda ragione e col profondo convincimento nelle idee patriarcali che il popolo fosse roba del principe e da questo dovesse aspettare il bene, e il principe fosse obbligato a farglielo. Ricchissimo di patrimonio, e più dopo che Beatrice d’Este sua madre gli lasciò 50 milioni di lire e la signoria di Massa e Carrara, fu il solo principe che alleggerisse le imposte; nella fame del 1816 tirò grano dall’Ungheria e lo rivendette a basso prezzo, oltre dar minestre gratuite; in quella del 1829 distribuì centomila pesi di canapa da filare, duemila e cento pesi di farina per mano de’ parroci, e cenventimila lire fra limosine e lavori straordinarj; istituì monti frumentarj per sovvenire i piccoli possidenti e gli agricoli. I nobili si amicò, dei perduti diritti feudali compensandoli con carte pubbliche: ripristinò gli Ordini religiosi, e risarcì in parte la Chiesa dei beni confiscatile. Nelle leggi mitigava i rigori della giustizia punitiva, tutelava gl’interessi domestici, migliorava il regime delle ipoteche, accolse la società scientifica dei Quaranta; manteneva alle accademie forestiere giovani che si raffinassero nell’arti e nelle scienze; raccolse libri, quadri, medagliere, museo ricchissimo. Dotato di gran memoria, notava moltissimo; scriveva lunghe dissertazioni, che in parte si hanno, come migliaja di suoi rescritti a petizioni [196]. Viene il tremuoto? imperversa il cholera? esso gli annunzia come castighi di Dio contro i riottosi; tutti i proprj atti motiva dal meglio del popolo; ma vuole che il popolo obbedisca; e perchè la Rivoluzione scassinò la docilità, adopera ogni mezzo per ottenerla a forza. Tutt’occhi a vigilare gl’interessi de’ principi, per lui l’Austria venne informata delle trame de’ Carbonari. Al congresso di Verona offrì un lungo scritto contro le costituzioni, suggerendo come mezzi a impedirle il favorire la religione, rialzare la nobiltà, interessandola negli affari pubblici e alla conservazione dell’ordine; ampliare l’esercizio dell’autorità paterna, correggere la legislazione quanto al crimenlese, e semplificare la procedura in modo che i negativi non isfuggano al rigore delle leggi; migliorare il sistema dell’educazione, adattandola alle condizioni, e restringendo il numero di quelli che applicano agli studj; s’invigilasse la stampa; insieme le imposte fossero fisse e non vessatorie, e libera la circolazione delle derrate. In fatti nel suo paese era gelosissima la censura, di cent’occhi la Polizia, potenti i devoti, tollerati quei soli scrittori che si facessero appoggio a quella che diceasi causa dei troni e degli altari. Orribil fama avanza dei processi fatti dopo il 1821; e Giulio Besini, ministro della Polizia che pareva inasprirli, cadde scannato (1822 17 8bre) da un giovinetto Morandi. Il duca ne restò esacerbato, e sopra quaranta inquisiti e sette contumaci alcuno lasciò andare a morte, fra cui il prete Andreoli di Correggio. Altri processi tesseronsi di tempo in tempo, e un colonnello Cavedoni se ne sottrasse uccidendosi. Per verità l’azione delle società secrete non erasi mai rallentata; e i vanti che se ne menarono dopo la riuscita, accertano che la rivoluzione di Parigi nel 1830 non fu spontanea rivolta contro ordinanze incostituzionali, ma lunga preparazione delle combriccole. Queste aveano fila anche in Italia, onde nel 1829 il papa le colpì di scomunica, e istituì una commissione che processò ventisei Carbonari. Châteaubriand, allora ambasciadore a Roma, scriveva al conte Portalis ministro a Parigi: — Leggete con cautela ciò che vi scriveranno da Napoli e d’altrove. Si reputa cospirazione il malcontento universale, il frutto de’ tempi, la lotta dell’antica colla nuova società, delle istituzioni decrepite contro le giovani generazioni, il confronto che ciascuno fa di ciò che è con ciò che potrebb’essere. I Governi rappresentativi con Governi assoluti non potranno durar insieme. Confini doganali possono oramai dividere la libertà dalla schiavitù? nè un uomo essere impiccato di qua d’un ruscello per principj che al di là sono reputati sacri? Questa, e questa sola è la cospirazione in Italia; ma dal dì che entrerà nel godimento de’ diritti portati dai tempi, sarà tranquilla e puramente italiana. Non sono oscuri Carbonari che faranno sollevare questo paese. Queste sono le condizioni dell’Italia; ma ciascuno Stato, oltre i dolori comuni, è tormentato da qualche malattia sua particolare. Il Piemonte in balìa d’una fazione fanatica; il Milanese divorato dagli Austriaci; i dominj del santo padre rovinati dalla cattiva amministrazione delle finanze, poichè l’imposta si eleva a quasi cinquanta milioni, e non lascia al proprietario l’un per cento delle sue rendite; le dogane non danno quasi niente, e il contrabbando è generale. Il principe di Modena stabilì nel suo ducato (luogo di franchigia per tutti gli antichi abusi) magazzini di merci proibite, che nottetempo fa entrare nella legazione di Bologna. Il Governo delle Due Sicilie è caduto nell’ultimo disprezzo: il vivere della Corte in mezzo alle sue guardie, non offrendo altri spettacoli che cacce ruinose e forche, rende vituperevole la monarchia agli sguardi del popolo. La mancanza di virtù militare prolungherà l’agonia dell’Italia. Buonaparte non ebbe il tempo di far rivivere questa virtù; le abitudini d’una vita oziosa e i prestigi del clima contribuiscono a togliere agl’Italiani del mezzogiorno il desiderio di agitarsi per migliorare. Le antipatie nate dalle divisioni territoriali accrescono le difficoltà degl’interni moti; ma se qualche impulso venisse di fuori, o se qualche principe fra l’Alpi concedesse uno statuto a’ suoi sudditi, avrebbe luogo una rivoluzione, a cui tutto è maturo. Di noi più felici e della nostra esperienza istruiti, questi popoli saranno parchi de’ delitti di cui noi femmo scialacquo». Così, da alto ingegno e da occhio sperimentato giudicavasi la condizione della patria nostra. Così ministri e ambasciadori possono ingannare ed aizzare, peggio che non facciano libellisti scalmanati. Diceasi che Sanfedisti e Concistoriali volessero anche essi l’indipendenza, ma coll’appoggiarsi a principi nazionali, e un nuovo riparto dell’Italia, ove al papa si attribuisse porzione della Toscana e il Polesine di Rovigo, in compenso delle Marche, le quali coll’isola d’Elba andrebbero al re di Napoli; al duca di Modena, parte della Lombardia, Parma, Piacenza, il Veneto col titolo di re; il resto della Lombardia, il Tirolo italiano, Massa, Carrara, Lucca al Piemonte. Queste potean essere aspirazioni, e si disse che qualche capo liberale facesse proposizioni in tal senso al duca di Modena; egli denaroso e potente, egli avveduto e ambizioso, qualora desse mano ad una rivolta potrebbe farsi re di tutta Italia, se non altro, del Piemonte. Se la proposta fu fatta, se egli vi ascoltò, del che mancano prove, fu un intrigo ignobile, dove nessuna delle parti operava di buona fede, ma donde appare che già allora, e nei due campi opposti, il sentimento comune era il desiderio di diventare nazione, appena un impulso esterno desse il crollo ai principati, destituiti del fondamento vero, l’amore dei popoli. E parve venuto allorchè i Francesi (1830), i quali aveano una Costituzione e tutti i mezzi legali di correggerla e svilupparla, si precipitarono alle vie illegittime; e nelle tre giornate di luglio, con grande sacrifizio di vite, cacciarono la dinastia de’ Borboni, e al domani vi sostituirono quella degli Orléans. Non era però soltanto una rivoluzione di palazzo; cambiavasi il diritto pubblico, al re discendente da re, capo de’ nobili, largitore della libertà, surrogandosene uno eletto da una turba parigina che intitolavasi popolo francese; alla dinastia ripristinata dagli stranieri, una che fondava i suoi diritti sulla rivoluzione, cioè sovra ciò che, per l’istesso suo nome, manca di stabilità. Poichè non può scuotersi la Francia senza che tutt’Europa se ne risenta, vi tennero dietro sollevazioni nel Belgio, in Polonia, in Grecia, e commovimenti per tutta Europa. La Francia sta sempre in occhio che l’Austria, sua antagonista, non ingrandisca di troppo in Italia, solletica le aspirazioni nazionali, ostili all’Austria: eppure ripugna dal lasciare che vi si formi uno Stato poderoso, e noi ci diciamo traditi perchè supponiamo gratuitamente che sia generosità disinteressata quel ch’è tornaconto nazionale. Da un pezzo gli accorti denunziano una siffatta politica: eppure coloro che vedono unica salvezza nelle rivoluzioni, ne considerano unica leva la Francia, e perciò l’invocano, e dai movimenti di essa prendono impulso e norma ai proprj; delusi cento volte, cento ricascano, come l’amante coll’amica infedele, o come il naufrago che s’aggrappa a qualunque corpo, foss’anche un altro naufragante. Ora però sembrava affatto al caso nostro il simbolo della nuova rivoluzione francese: perchè, alla Santa Alleanza, ch’erasi arrogato d’intervenire in qualunque paese onde impedire le istituzioni dissonanti dal sistema di lei, Francia contrapponeva il non- intervento, cioè che nessuna nazione potesse impedire che un’altra mutasse gli ordinamenti interni, secondo la volontà del principe o del popolo. Chi sbandì sempre le Costituzioni d’Italia? L’Austriaco, diceano. Ora che la magnanima Francia proclamò il non-intervento, potranno i popoli di essa costituirsi, forse d’accordo coi re: se non resta altra via che l’insurrezione dove mancano rappresentanza e diritto di petizione, la Francia democratica sosterrà certo una rivoluzione democratica; tanto più che così l’Austria sarà costretta occupare in Italia le armi, che affilava contro la nuova rivoluzione. Il ministro Lafitte avea dichiarato alla tribuna: — La Francia non permetterà che il non-intervento sia violato»; e Dupin soggiunse: — Se la Francia, rinserrandosi in un freddo egoismo, avesse detto che non interverrà, sarebbe vigliaccheria: ma dire che non soffrirà s’intervenga, è la più nobile attitudine che possa prendere un popolo forte e generoso» [197]. La Santa Alleanza e i principi nostri sentirono il pericolo, e prepararonsi: il re di Piemonte tolse le armi alla Savoja, mise le fortezze e l’esercito in istato di guerra, ma subito stendeva la mano al nuovo re Luigi Filippo come al solo che poteva allora salvare l’autorità. Al contrario il duca di Modena mai nol volle riconoscere, ebbe sempre come legittima soltanto la linea primogenita, e lasciava che in Parlamento i Francesi minacciassero cacciarlo a colpi di scudiscio. La situazione restava complicata dall’essere allora appunto vacanti i troni di Piemonte, di Sicilia, di Roma. L’interregno papale fu tumultuoso, non solo fra gli ambasciadori che imponevano chi eleggere o no a pontefice, ma nella città dove si tentò una sollevazione (9bre), istigandola principalmente la famiglia Buonaparte colà ospitata; anzi Napoleone e Luigi, figli del già re di Olanda, con alcuni Côrsi e con vecchi soldati corsero gridando Italia e Libertà, ma non trovando consenso, andarono dispersi o furono presi. Tra siffatte irrequietudini era elevato alla tiara Mauro Cappellari, dotto e pio camaldolese di Belluno (1831 2 febb.); e col nome di Gregorio XVI «si assunse liberamente in faccia all’Europa gl’impegni che si rendeano necessarj per la durevole unione tra gl’interessi del trono e quelli della nazione» [198]. La rivolta, che era fallita in Roma mercè l’attenzione del cardinale Bernetti segretario di Stato, meglio riuscì in provincia. I cospiratori, sempre tenendosi sicuri del non-intervento, divisavano far in ciascuno Stato particolari rivoluzioni, salvo poi a fondersi in un solo che avesse centro Bologna. I Menotti di Carpi erano ricca famiglia e industriosa, con estesa fabbrica di cappelli di trucioli; col qual pretesto Ciro viaggiò, ed affiatossi colla propaganda a Parigi e coi Buonaparte a Roma. Ch’egli si facesse intermedio di questi presso il duca di Modena, col quale era associato per negozj, e che il duca lo lusingasse per tradirlo, è smentito da lettere; Enrico Misley riceveva denari dal duca per ispiare i cospiratori a Parigi, mentre da questi faceasi credere devoto alla libertà [199]. La tresca cresceva; ma di mezzo al preparare vien arrestato Nicola Fabrizj modenese, principalissimo fra i cospiratori, sicchè questi non potendo più mettere indugio, raccolgonsi in numero di quindici nella casa Menotti (3 febb.), e spacciano per sollecitare soccorsi dalla campagna e dalle città. Il duca informatone, unisce i pochi soldati, e segnatosi, marcia a capo di quelli, e con pochi colpi obbligatili a rendersi, li caccia prigione, e scrive: «Mandatemi il boja». Al domani però, udendo che anche gli Stati vicini insorgeano, egli non credesi più sicuro, e rifugge sul Mantovano, seco traendo Ciro Menotti, che confida ai carcerieri austriaci. Subito Modena si grida libera, e con un atto di sole settantadue firme proclama dittatore l’avvocato Nardi 1831 con tre consoli Maranesi, Minghelli, Morano. Reggio, dove le trame faceano capo alla Giuditta Sidoli, fece rivoluzione da sè, poi si unì alla modenese, preponendo al governo l’insigne giureconsulto Pellegrino Nobili; e si cominciò a disfare il vecchio, e cacciare i Gesuiti, soliti capri emissarj. A Parma e Piacenza l’austriaca Maria Luigia mostrava cuor buono e generosa carità; istituì un ospizio della maternità; se, come tutti gli Stati, contrasse debiti [200], alle scarse rendite del paese suppliva col proprio lauto appanaggio; in occasione di feste di Corte mandava abiti e ornamenti alle dame; arricchì d’insigni professori l’Università; a disegno del Coconcelli fece costruire i ponti del Taro e della Trebbia, spendendo in questo un milione, quasi due in quello; e conservò i codici, gli ordinamenti amministrativi, la moneta di Francia: ma l’essere austriaca e l’avere rotto fede all’ancor vivo Napoleone screditava la duchessa, di cui solo quando morì lasciando ben fornite le casse, confessaronsi i meriti. Regnante al modo del secolo passato anche pei costumi, un generale austriaco (Neipperg), poi un conte francese (Bombelles) da governatori si fece amanti e mariti; e ad essi abbandonava il paese nelle lunghe sue dimore ai bagni o a Vienna. Non mancarono cortigiani che coll’avidità e l’ignoranza corruppero le benevole intenzioni di essa e il denaro pubblico malversarono, mentre al commercio, all’industria, alle miniere, ad ogni durevole istituto non si badava, com’era naturale in dominio goduto a vita. E di tal condizione provvigionale risentivansi tutte le ordinanze, oggi fatte, domani casse, e mutate le persone. Anche la rivalità della pingue ma abbandonata Piacenza colla preferita Parma seminava zizzania. Nè i sudditi odiavano l’arciduchessa, bensì il ministro Werklein, in cui tutta affidavasi dopo morto lo splendido Neipperg: ed avendo anche i Parmigiani inalberato la bandiera italiana, ed ella dichiarato che i suoi legami le impedivano di fare le chieste concessioni, venne cortesemente accompagnata al confine austriaco, e istituito il Governo con Linati, Casa, Castagnola, Sanvitale, Melegari, Ortalli, Macedonio Melloni. Piacenza fu tenuta in fede dalla rivalità o dalla cittadella. Bologna compiva la sua rivoluzione, incruenta come le altre; e il prolegato rimetteva i poteri ai cittadini che eressero un Governo provvisorio (8 febb.). Il cardinale Benvenuti, legato a latere, fu arrestato; e gl’insorgenti, formato un piccolo corpo sotto Armandi, intitolatosi generale e ministro della guerra, bloccano la fortezza d’Ancona, e l’hanno dopo pochi giorni: il colonnello Sercognani, avendo per commissario Carlo Pepoli, avanza con duemila cinquecento uomini nelle Marche; Perugia, Spoleto, Foligno, tutta l’Umbria rispondono al suo appello, quasi a una festa; e senz’opposizione del Governo, senza riazione di partiti, senz’ombra di pericolo, la bandiera tricolore sventola fin a Orticoli, a Terni, a Ponte Felice, insomma in vista di Roma: dappertutto istituivasi la guardia nazionale, diminuivansi i dazj del sale e del macinato, spandevansi proclami. Faville che traevano importanza dalla conflagrazione di tutt’Europa. Perocchè, sull’esempio di Francia, e forse pe’ suoi incitamenti, la Grecia che da dodici anni combatteva per respingere la mezzaluna dalle fronti segnate dalla croce, ripigliava spiriti alla lotta in cui l’Europa principesca l’avea sfavorita; Spagna e Portogallo rialzavano le abbattute bandiere costituzionali; Germania credea venuto il tempo di ottenere ciò che le era stato promesso e mentito; la Svizzera già prima aveva riformato i suoi statuti in senso popolare; in Inghilterra, al grido dei radicali chiedenti libertà mesceasi terribile la voce della plebe chiedente pane; il Belgio, a nome del cattolicismo conculcato, ribellavasi all’Olanda; la Russia che muoveva gl’innumerevoli suoi eserciti per rimettere la quiete in Europa, vede la vanguardia sua rivoltarsele, cioè la Polonia, che con valore segnalato invoca il nome di Maria e la sua nazionalità. Tutti questi insorti fissavano gli occhi alla Francia, come a promessa salvatrice. Di là, mezzo secolo prima, era venuta una scossa, per cui que’ medesimi che non avevano acquistato la libertà aveano però spezzato la servitù; era fresco il ricordo delle irresistibili vittorie di Napoleone; la bandiera tricolore riuscirebbe meno gloriosa ora che veniva portata, non più da un conquistatore, ma dalla libertà? non per minacciare l’indipendenza dei popoli, ma per restituirla? Tali e più belle speranze vagavano per le menti: ma la Francia non era diretta da una Convenzione, bensì da un re nuovo, rinvenuto più che cercato, accettato più che voluto, e come unica tavola in un naufragio nel quale si temeva perisse l’ordine sociale. Luigi Filippo, intento a farsi soffrire dagli altri re, e assodare la propria dinastia col rispettare le altre, invece di convergere quelle sparse resistenze ad un rimpasto europeo, s’incaricò di eliderle; e per un pezzo vi riuscì. Casimiro Perrier, abile ministro, professa voler fiaccare le fazioni anzichè dar mano ai sollevati, e alle turbolente Camere (8 marzo) intimava: — Noi sosteniamo che lo straniero non ha diritto d’intromettersi a mano armata negli affari interni; ma forse ci terremo obbligati a portare l’armi dovunque non venga questo dogma rispettato? Sarebbe un’intervenzione anche questa. Lo sosterremo per via di negoziati; ma sol l’interesse o la dignità della Francia potrebbero farci prendere le armi: il sangue de’ Francesi appartiene solo alla Francia». Subito si formò a Londra una conferenza di ministri che non rappresentavano le nazioni ma i re, e che si accingeano a ripristinare ciò che le tre giornate aveano abbattuto; e il Governo francese, che avea favorito le sommosse finchè opportune a sviare i nemici minaccianti, s’affrettò a comprimerle. Guglielmo Pepe, il capitano infelice della prima rivoluzione napoletana, e che struggeasi di condurne un’altra, erasi diretto a Lafayette, generale della guardia nazionale e centro di tutte le cospirazioni, chiedendogli duemila uomini, diecimila fucili e due fregate, con cui sollevare le Sicilie. Ebbe le buone parole che colui prodigava a tutti: ma all’atto non trovò che tergiversazioni; onde esso meditò passare in Corsica, reclutarvi a denaro da seicento a mille di que’ robusti, e arrischiare uno sbarco, che fra otto giorni lo renderebbe padrone di Napoli. Tanto sono irrimediabilmente ciechi i cospiratori di professione! Ma quand’egli, solo con due uffiziali, era per salpare, n’ebbe divieto, e fu rimandato a Parigi ad aspettare ancora e sognare per diciassette anni. Altrettanto erasi usato cogli Spagnuoli. L’Austria, irremovibile nel guardare come sua propria la causa di tutti i Governi d’Italia, rise del proclamato non-intervento, e mosse sopra i ducati insorti, o allegando le riversibilità, o l’esservi invitata; assalirebbe anche il Piemonte se i rivoluzionarj vi prevalessero. La insurrezione della media Italia non era costata nè pericoli nè sagrifizj; leggermente abbracciata, fiaccamente sostenuta, nè grandi virtù nè grandi vizj palesò. I rappresentanti delle città di Romagna (26 febb.) dichiarano scaduto dal dominio temporale il papa, e stringonsi in uno Stato solo, con presidente, consiglio di ministri, consulta legislativa [201]; si pongono a moltiplicare atti, come suole ogni amministrazione che si sente di breve durata; e il proclama dell’avvocato Vicini vuolsi confrontare colla dichiarazione degli Stati Uniti per vedere quali guasti faccia tra noi la retorica. È codardo quanto facile il calunniare la sventura, ma perchè farsene adulatore? Certamente al popolo non si mostrò lo scopo d’un’insurrezione, a cui non era spinto da eccesso di sofferimenti; mancarono capi che colla risolutezza e col gran nome abbagliassero e strascinassero gl’indifferenti, che son sempre il numero maggiore; inesperti delle politiche cose, come gente a tutt’altro allevata, i governanti s’impigliavano nelle minime difficoltà; onesti, leali, con quella moderazione che onora ma che non salva, in un mondo il quale compassiona i deboli, ma s’allea solo coi forti, esitavano per paura di compromettere una patria che amavano, una pace di cui sentivano la necessità; e cullandosi nel promesso non-intervento, invece di profittare dell’impeto popolare, assalire Roma, suscitare Piemontesi, Lombardi, Toscani, raccomandavano la quiete come garanzia dell’inviolabilità, rimandavano a casa i campagnuoli chiedenti armi. Nulla dirò delle gelosie rideste fra le città; nulla dei disordini inseparabili da Governi che, nati da vittoria popolare, restano schiavi della moltitudine, guidata da chi più grida, più esagera, più promette. Napoleone e Luigi Buonaparte, falliti in altri tentativi di sollevare Roma, accorsero a infervorare la rivoluzione romagnuola, e scrissero al papa, esortandolo a deporre il temporale dominio prima che le forze giungessero su Roma invincibili [202]. Nuovo pretesto ai nemici di dire l’indipendenza italica minacciata da un’usurpazione napoleonica. Ma di pretesti non facea mestieri dove francamente era stata dichiarata l’inimicizia. Una colonna d’Austriaci guidata da Geppert, passato il Po, ripose in dominio il duca di Modena e Maria Luigia (9 e 13 marzo): il veterano generale Zucchi, che dal servizio dell’Austria era disertato a comandar la rivoluzione della sua Modena [203], ritirasi col piccolo esercito sul Bolognese; ma quel Governo, scrupoloso al non-intervento anche quando il vede conculcato, ricusa ricevere quei fratelli se non disarmati. Quel Gregorio, che fu poi moda di trattar da imbecille, era stato ricevuto dalla plebe romana con applausi strepitosissimi; ma egli da savio non lasciossene lusingare, e «poichè rare sono le clamorose riunioni che disgiunte vadano da qualche discordia», sapendo che allestivasi altra festa, fece pubblicare che «non aveva egli bisogno di tali dimostrazioni per misurare l’attaccamento che gli porta questo suo amatissimo popolo» [204]. Al primo annunzio della sollevata Romagna, la Corte mostrossi disposta a larghi patti, volendo il Bernetti prevenire l’invasione austriaca; intanto erangli venute assicurazioni non solo dall’Austria ma e dalla Francia, dove quel non-intervento che offriva il tema di mille variazioni alla tribuna parigina ed ai giornali, due campi dell’eroismo parolajo, or sottoponeasi ad interpretazioni da casisti: che l’imperatore d’Austria poteva bene prender parte alle vicende della duchessa di Parma sua figlia; anche a quelle di Modena, ducato a sè riversibile; ma quanto alla Romagna, mai non gli si permetterebbe. Per verità, se i Francesi non ajutavano la Polonia col pretesto della lontananza, per l’Italia sarebbe bastato affacciarsi al ciglio delle Alpi. Ma Metternich, che vedeva pericolare o le provincie austriache o l’ingerenza sul bel paese, negò alla Francia il diritto d’impedirgli di ripristinare il dominio papale; — Se si ha a morire, tanto vale un’apoplessia, quanto la lenta soffogazione: faremo la guerra»; ed entrò sul territorio pontifizio. Allora la fragorosa Francia a gridare vilipesa la dignità nazionale e traditi i patrioti, e volersene vendetta; l’ambasciadore Maison da Roma incalzava a gettar il fodero, e spedire un esercito in Piemonte: ma il casismo soccorse di nuovo mostrando che l’Austria non v’interveniva per proprio conto, sibbene a richiesta del papa; e che del resto, guaj a lei se pensasse invadere il Piemonte [205], il quale in fatto non n’avea bisogno. L’ardore esalò in magnanime ciancie, e i Romagnoli videro non poter sostenersi che da sè. «Italiani, all’armi! chi ha un fucile, una spada, una falce, la prenda e venga con noi, che la vittoria non ci può fallire»; ebbero raccozzato un esercito di circa settemila uomini; ma vedendo presa Bologna, si ritirarono innanzi agli Austriaci, che procedeano a passo di carica sulla via Emilia: a Rimini tennero testa (25 marzo) quel tanto che bastasse perchè la loro bandiera fosse vinta, non macchiata; e avendo con quel fatto protetta la ritirata sopra Ancona, lasciato molti morti sul campo e trasportatine i feriti, si rassegnarono ad evitare una resistenza disastrosa quanto inutile. Il Governo, ridottosi in Ancona, dichiarando non essersi mosso se non per fiducia del non intervento, dai Francesi proclamato in pubblico e promesso in particolare, rimette in libertà il legato Benvenuti; il quale promette l’oblio di qualunque atto della rivoluzione, e firma il passaporto de’ capi. Questi s’imbarcano; Ancona è resa pacificamente dal generale Armandi (29 marzo): ma la convenzione viene dichiarata nulla a Roma, giacchè il Benvenuti avea cessato dalla sua carica col divenire prigioniero; s’istituisce processo contro quelli che avessero firmato l’atto di decadenza, o violato il giuramento militare, o pubblicato scritti empj o sediziosi; agli altri intero perdono. Il colonnello Sercognani, ch’era proceduto fin a Rieti, udito quel rovinío, volta per la Toscana, e ben accolto dal popolo e soccorso dal Governo rifugge in Francia. Tre navi portarono altri profughi in Francia, in Inghilterra, a Corfù; ma una fu arrestata da due golette austriache, e ventun pontifizj e sessantasette modenesi che vi stavano furono gettati nelle prigioni di Venezia. Poco poi i pontifizj, più tardi i modenesi furono rimessi in libertà; processati gli austriaci, e Zucchi, come disertore, sottoposto a giudizio militare e condannato in fortezza per tutta la vita. Paolo Costa di sessant’anni e malato della pietra, andò a Corfù ad insegnare filosofia, come l’archeologo Orioli; Pellegrino Nobili di settantasei anni, dopo una fuga piena di pericoli, raggiunse in Francia suo figlio, insigne fisico fuggente anch’esso, sinchè ottennero di ricoverarsi in Toscana. Questi e il filosofo Mamiani, i fisici Amici e Melloni, il medico Sterbini, il poeta Pepoli ed altri colla loro civiltà e sapienza cresceano la pietà per le sventure d’Italia in quella Francia dove i nostri ricevettero ospitalità benevola, stentati sussidj e fallaci promesse [206]. Napoleone Buonaparte era finito di morte violenta: suo fratello Luigi dall’amorevole madre Ortensia fu campato a preparar nuove trame, che doveano portarlo alla prigionia poi al trono. Gli Austriaci tennero occupati i ducati della media Italia e le Legazioni; in Lombardia spaventarono con processi rigorosi, pure mondi di sangue; e Metternich fu decorato dall’imperatore d’Austria «per aver tanto contribuito a mantenere l’indipendenza degli Stati italiani». Maria Luigia, non avendo destinato alcuno a governare in sua vece, non poteva far colpa a chi erasi assunto gli affari; tornata a Parma, presto bandì generale perdono, eccettuandone ventun profughi. L’odio concentravasi sul Mistrali ministro, più ambizioso che tristo [207], sul Sartorio, capo della polizia, che poi fu accoltellato; sui Gesuiti annidati nel collegio di Piacenza, e contro i quali si fece poi una chiassosa dimostrazione; mentre l’arciduchessa pensava a goder la vita, e i resti d’un corpo ch’era stato di Napoleone diede al conte di Bombelles che la ridusse e parca e devota. Francesco di Modena, più irritato perchè avea previsto eppur non ovviato, e persuaso che «i settarj si ostinano a voler abbattere altari e troni, e che un sovrano è responsabile in faccia a Dio se tollera il trionfo dell’irreligione» mandò al supplizio Vincenzo Borelli e Ciro Menotti, il quale salì al patibolo esclamando — Italiani, non lusingatevi a promessa di stranieri» [208]. Coll’editto 18 aprile 1832 sopprimeva le formole giuridiche contro i rei di Stato, abbandonandoli agli sgherri e alle spie; e sparsasi voce d’un attentato contro la vita di esso, i soldati giuravano, «Se l’inferno vomitasse un’anima capace di rinnovare le ribellioni, noi renderemo i concittadini responsali sulla vita loro della sicurezza di Francesco IV con giustizia militare pronta sicura». Da tremilacinquecento volontarj estensi rimanevano alle proprie case ma in armi, vigilando alla pubblica tranquillità, e pronti ad accorrere quando bisognasse. Il duca non curossi che Francia e Inghilterra interrompessero le relazioni diplomatiche con lui, lasciava stampare contro di esse e contro il liberalismo, e francamente si collocava campione de’ Governi assoluti, alla riazione pretendendo imprimere il carattere religioso e patriarcale, dopo sei anni di processi, furono condannate a gravissime pene cenquattro persone, ma tutte contumaci e due morte; e quelle pene stesse ebbero mitigazione. Giuseppe Ricci, guardia nobile del duca, al quale era rimasto fedele nei movimenti del 1831, e che passava pel favorito di esso, accusato che cospirasse ad assassinarlo, fu fucilato: vittima forse d’una ingiustizia, ma non eroe politico. Quel Canosa, che, parendo eccessivo a Napoli, n’era stato rinviato con doni e mortificazioni, viveva oscuro a Genova, allorchè il duca di Modena lo chiamò a capo della sua Polizia, dove per molti anni fu lo spauracchio de’ liberali di tutta Italia. Più tardi ritiratosi a Nizza, si congratulava seco «d’aver processato, imprigionato, frustato, ma non impiccato; d’aver prevenuto le colpe collo sbigottire, ma non ucciso un solo per crimenlese nè stando governatore militare a Ponsa, nè ministro di polizia a Napoli; mentre dappoi abbondarono congiure, sêtte, mandati di morte, e in conseguenza commissioni militari, e un numero estesissimo di esiliati, vera e bestiale misura per chi conosce il mestiere» [209]. In Piemonte Carlo Felice poco avea fatto per rimarginar le piaghe del suo paese; pieno di sè, nè cerimonie volea nè malinconie, ripetendo — Non son re per essere seccato». Ad un capitano di bastimento che avea durato fatica nel salvarlo in una procella, volea dare qualche centinajo di scudi, ma il ministro gli suggerì avrebbe meglio aggradito la croce di san Maurizio e Lazzaro. — Oh che zugo! (esclamò) dategliela subito». Intanto la giustizia era pessimamente amministrata [210], sospetti i pensatori, mesto il paese pei tanti profughi e per gli arbitrj della Polizia. Il re, disgustato di Torino come covile di faziosi, sene teneva lontano; non raccoglieva regolarmente i consigli di Stato, puzzandogli di costituzione, e lasciava far ai ministri e principalmente al Latour. Avrebbe rinnegato la tradizione di tutta la sua stirpe se si fosse accordato coll’Austria, delle cui spoglie par destinata a ingrandire: onde avendogli questa offerto soccorsi contro i faziosi, egli ricusò risoluto, e represse qualche tentativo de’ Savojardi. Non ebbe figli, e con lui terminato (1831 27 aprile) il ramo primogenito di casa di Savoja, appunto nel bollore delle sommosse gli sottentrava il ramo cadetto di Carignano [211] nella persona di Carlalberto, quel desso che vedemmo nella rivoluzione del 1821. Giovane, allevato in mezzo alle armi, partecipe delle speranze se non delle trame liberali, avea subíto gl’insulti dell’Austria, che diceano si fosse adoperata a farlo credere indegno del trono per le macchie del 21, mal lavate al Trocadero, e surrogargli il duca di Modena. Tanto bastava perchè, dimenticando il passato, sopra di lui si fissassero le speranze de’ Liberali, e girò l’indirizzo di un Italiano (Mazzini), il quale gli mostrava come non gli restasse che essere tiranno ed esecrato, o farsi costituzionale e italiano francamente rompendola coi potentati; parziali riforme gli nimicherebbero l’Austria senza amicargli i popoli, mentre con una parola libera e sincera potea ricreare l’Italia, riunirne le membra sparte, e se pronunziasse, «È mia tutta e felice», venti milioni d’uomini esclamerebbero, «Dio è nel cielo, e Carlalberto sulla terra! — Respingete l’Austria, lasciate addietro la Francia, e stringetevi a lega l’Italia; ponetevi alla testa della nazione, e scrivete sulla vostra bandiera, Unione, Libertà, Indipendenza! proclamate la santità del pensiero, liberate l’Italia dai barbari, date il vostro nome ad un secolo, siate il Napoleone della libertà italiana. Or che temete? il Tedesco? gridategli guerra, ardite guardar da vicino questo colosso eterogeneo, forte solo perchè altri è debole. Una voce ai vostri, una voce alla Lombardia, e avanti. Là, nella terra lombarda hanno a decidersi i fati dell’Italia ed i vostri; nella terra lombarda, che non aspetta se non un reggimento ed una bandiera per levarsi in massa: ma siate forte e deciso; rinnegate i calcoli diplomatici, gl’intrighi de’ gabinetti, le frodi dei patti. La salute per voi sta sulla punta della vostra spada... Se voi non fate, altri faranno, e senza voi e contro voi...». Carlalberto re vedeva altrimenti che l’antico granmastro d’artiglieria, e conobbe che un movimento avrebbe posta in compromesso l’indipendenza del suo paese, determinando una nuova invasione austriaca. Nonchè parlare di costituzione, nemmeno l’amnistia concesse; nominò un consiglio di Stato, esprimendo che volea fare miglioramenti, ma «senza scostarsi dagli esempj lasciati da’ suoi maggiori», e «conservando inalterata la dignità della Corona». Si disperò dunque anche di lui; onde molti s’affrettarono a ricoprire la polvere di carbone colla polvere delle anticamere, altri si annoiarono nelle società secrete. Perocchè, mentre le rivoluzioni del 31 eransi fatte a pieno giorno confidando nell’iniziamento del Governo francese, allora i novatori si ridussero a trame sotterranee; e appoggiatisi ai radicali, meditarono sommosse invece dell’insurrezione. Giuseppe Mazzini, nato a Genova nel 1808, ivi fondò l’Indicatore genovese; soppresso questo giornale, andò a piantare l’Indicatore livornese; poi a Genova processato nel 30 e sbandito, ricoverò a Marsiglia, e con Bianchi piemontese e Santi di Rimini istituì la società della Giovane Italia. Suo simbolo un ramo di cipresso; parola d’ordine Ora e sempre. Direttosi a «tutti quelli che sentivano la potenza del nome italiano e la vergogna di non poterlo portare francamente», escludeva ogni uom maturo; confidava nell’insurrezione armata; accennava anche ad una religione da surrogare al cattolicismo, di cui dicea finito il tempo; e d’accordo coi Carbonari nel volere sbrattar la patria dai forestieri, ne discordava nel non chiedere più costituzione ma repubblica, abbattere ogni privilegio, confidare nel popolo a cui quelli non erano ricorsi. Venne sistemata a modo delle guerriglie, giacchè derivava dalla solita fonte; e la dirigevano da Londra Mazzini, da Malta i modenesi Giovanni e Nicola Fabrizj; stampava le sue declamazioni e i suoi intenti; e fin dai primordj apparve una sentenza di morte, eseguita col pugnale contro un preteso traditore. Anche questa società parve più diretta a generare martiri che ad assicurare la vittoria, mostrando perseveranza di moto più che evidenza di meta. Il primo atto importante ne fu la spedizione di Savoja. I nostri rifuggiti comprarono una mano di que’ Polacchi che erano scampati dalla loro patria quando fu anch’essa abbandonata e vinta, e sotto al generale Ramorino, genovese che avea combattuto in Polonia, mossero dal lago di Ginevra e da Grenoble verso la Savoja (1834 gennajo). I proclami dicevano, dovunque è despotismo, essere sacro dovere l’insurrezione; delitto il non seguire la bandiera di questa allorchè il momento sia giunto; non concepire essi l’Italia che repubblicana, una dall’Alpi al Faro, non federativa; aspirare a fondare una Roma del popolo, centro d’una grande e libera unità religiosa, politica, sociale. Ma parte furono arrestati sul territorio svizzero; alcuni entrati in Savoja non incontrarono il minimo assenso nel popolo, nè disertori dalla truppa, e pochi gendarmi li dissiparono. Malissimo concepita, peggio condotta; pure volle spiegarsi colla solita bubbola del tradimento, affisso al Ramorino. Carlalberto avea già prima istituito corti marziali sotto di uffiziali inesorabili, come il generale Galateri governatore d’Alessandria e il Cimella nizzardo, e di cavillosi curiali; processati sessantasette militari dal sergente in giù, dodici furono fucilati, anche alle spalle, trenta alle galere «per aver avuto notizia della congiura, per aver letto o fatto circolare un libro contrario ai principj della monarchia». Coll’avvocato Andrea Vochieri d’Alessandria il Galateri insisteva perchè rivelasse, promettendogli grazia; ed esso gli rispose: — La sola grazia che desidero è che mi liberiate della vostra presenza». Il generale gli dà un calcio nella pancia, e l’inquisito gli sputa in viso. Galateri esacerbò la morte di lui facendolo traversar le vie dove abitava, sicchè la moglie e i figliuoli lo vedessero, e alla fucilazione assistette in grand’uniforme, pippando appoggiato a un cannone [212]. Giacomo Ruffini genovese si ammazzò in prigione: suo fratello fuggì in tempo per narrare, più tardi e ricreduto, le trame e le speranze. E molti furono gli esigliati [213], molti i dolenti, molte le decorazioni al Galateri e ad altri zelanti. Dopo la spedizione di Savoja furono fucilati Volonteri e Borrel caduti prigionieri in quella, ed altri processati; e il non sospetto Gualterio assicura che Carlalberto ne provasse poi dolore e rimorso, e dal bisogno d’espiazione cominciasse la sua vita ascetica. Certo quel re assentiva ai concetti e ai comporti del duca di Modena [214], e lasciò rinnovarsi l’onnipotenza della Polizia: in conseguenza tornò odioso ai Liberali, che gl’imputavano di favorire a Gesuiti e missionarj, aver cercato la beatificazione d’Umberto di Savoja e di Bonifazio arcivescovo, dato ricetto a un prelato Pacca, già direttore della Polizia di Roma, poi scacciatone per sozzure; favoreggiato alla fazione che in Ispagna ed altrove contraddiva alle costituzioni: garantito un prestito di seicentomila lire fatto dai Pallavicini di Genova alla duchessa di Berry per tentare una controrivoluzione in Francia, dove su bastimento genovese sbarcò infelicemente [215]: sicchè Carlalberto fu denunziato per sanfedista con tanta giustizia, quanto una volta per Carbonaro. Anche l’Austria cominciò processi, dove il tirolese Zajotti, già partecipe alle cospirazioni o alle speranze italiche, nel 1815, fu chiamato a tradurre in requisitorie criminali i suoi epigrammi da sala e le sue critiche di giornale: molti furono condannati a morte, a tutti commutata in carcere temporario, poi nella deportazione in America. E di nuovo ne usciva un effetto opposto di quel che i Liberali aveano sperato, crescendo l’influenza dell’Austria sulla penisola. Che essa mirasse a ingrandire di territorio è una baja, accettata da quella credulità ch’è propria de’ tempi di rivoluzione; ma è vero che, sentita necessaria dai principi, e ai popoli non suoi men odiosa, che i principi proprj, essa poteva dirsi arbitra dell’italiche sorti. Nesselrode, Fiquelmont, Ancillon, rappresentanti della Russia, dell’Austria, della Prussia, a Berlino convenivano che i loro sovrani cercherebbero far adottare, che un principe, nel cui dominio scoppiasse una rivolta, ha diritto di chiamar in soccorso il sovrano vicino che sia in grado d’ajutarlo a ristabilire la tranquillità, senza che verun altro Governo possa opporvisi o rimostrare. Francia dichiarò non lascerebbe applicare questo dogma di diritto pubblico al Belgio, alla Svizzera, al Piemonte, ma Metternich incaricava il conte Appony, ambasciadore austriaco a Parigi, di chiarire quel ministero che il suo imperatore era risoluto di portar soccorsi anche al re di Sardegna qualora li domandasse, quand’anche dovesse seguirne una guerra. A ciò risolveasi il proclamato non-intervento. Che che ne blatterino i caffè, la politica pontifizia fu sempre gelosa del predominio austriaco; Leone XII non meno che Pio VII ne stettero in guardia; molto più il cardinale Bernetti, segretario di Stato di Gregorio XVI. S’adoprò egli vivamente perchè gli Austriaci uscissero al più presto: e di fatti non rimasero in Bologna che fino al 15 luglio 1831, quando le varie potenze si furono obbligate a conservare il dominio temporale della santa Sede. Ma persuase che non si otterrebbe mai tranquillità se non adattando il Governo ai tempi, chiesero al papa v’istituisse assemblee comunali e provinciali di elezione popolare; una giunta centrale sindacasse gli uffizj amministrativi; secolarizzate le cariche pubbliche; con cittadini notabili si componesse un consiglio di Stato [216]. Tali promesse arrisero ai Romagnuoli, e confidarono nell’êra nuova che il Bernetti aveva preconizzata pubblicamente: ma ben presto fu disdetta, e negate le riforme che era bello attuare quando non avevano aria d’essere strappate a forza. L’editto del 5 luglio 1831 la nomina de’ consigli comunali e provinciali attribuiva non al popolo, ma al preside di ciascuna provincia; esclusi i secolari dal Governo delle Legazioni; nè consentito d’aggiungere un Consiglio di Stato laico al sacro Collegio [217]. Prendeasi paura de’ moderati quanto de’ sommovitori, e forse più, perchè contro loro non si poteva invocare gli Austriaci. Si dovettero aggravare le imposte, giacchè in que’ tre anni lo Stato ebbe a spendere otto milioni cennovantottomila scudi più dell’entrata: si comprarono due reggimenti svizzeri, il cui impianto costò cinquecentomila scudi, e trecensessantamila l’annuo mantenimento: si ordinò il disarmo delle Legazioni, alle guardie urbane surrogando corpi di volontarj, cerniti alla peggio, che diventarono tiranni e ladri atroci. Inveleniti gli animi, si ripigliarono le coccarde tricolori; la guardia urbana si fece deliberatrice, e