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John Fowles

LA DONNA DEL
TENENTE FRANCESE

Traduzione di Ettore
Capriolo.
Copyright 1969 by
John Fowles.
Copyright 1970
Arnoldo Mondadori
Editore S.p.A., Milano.
Titolo dell’opera
originale “The French
Lieutenant’s Woman”.
4 edizioni Scrittori
italiani e stranieri.
Prima edizione Oscar
Mondadori agosto 1974.
Prima ristampa Oscar
Mondadori novenbre
1981.
Su concessione
Arnoldo Mondadori
Editore.
“Ogni emancipazione è
un ricondurre il mondo
umano
e i rapporti umani
all’uomo stesso”.
Marx, “Zur
Judenfrage”. (1844)
L’Autore e l’Editore
assicurano i lettori
che non vi sono errori
di impaginazione
nell’ultimo capitolo
del romanzo.

1.
“Stretching eyes west
Over the sea, Wind foul
or fair, Always stood
she Prospect-impressed;
Solely out there Did
her gaze rest, Never
elsewhere Seemed charm
to be”.
Hardy, “The Riddle”.
“Allungando gli
occhi verso occidente /
Di là dal mare, / Fosse
il vento contrario o
propizio, / Sempre lei
stava / Attratta da
quella vista, /
Soltanto laggiù / Il
suo sguardo si posava,
/ Mai altrove /
Sembrava esserci
fascino”. [Nota del
Traduttore].
Il vento dell’est è
il più sgradevole di
Lyme Bay - che è il più
grande incavo nella
parte inferiore di
quella gamba
dell’Inghilterra che si
tende verso sudovest -
e una persona provvista
di curiosità avrebbe
potuto subito fare
deduzioni altamente
probabili sulla coppia
che incominciava a
percorrere il molo di
Lyme Regis, il piccolo
ma antico eponimo di
quell’insenatura, in
una mattinata
incisivamente rigida e
tempestosa verso la
fine di marzo del 1867.
Il Cobb aveva
incoraggiato una certa
familiarità per almeno
settecento anni, e i
veri Lymers lo vedevano
puramente come un lungo
artiglio di vecchia
muratura grigia che si
inarca contro il mare.
Di fatto, poiché è
nettamente staccato
dalla cittadina,
minuscolo Pireo di una
microscopica Atene,
sembra quasi che gli
voltino la schiena.
E’ costato loro
abbastanza in
riparazioni, attraverso
i secoli, per
giustificare un certo
risentimento.
Ma agli occhi di chi
è un po’ meno
contribuente e un po’
più obiettivo, esso è
senza dubbio il più bel
bastione marino della
costa meridionale
inglese.
E non soltanto
perché, come dicono le
guide, evoca
immediatamente
settecento anni di
storia d’Inghilterra,
perché di qui salparono
le navi che andavano
incontro all’Armada,
perché qui vicino
sbarcò Monmouth (James
Scott, duca di Monmouth
figlio naturale di
Carlo Secondo Stuart,
tentò nel 1685,
sbarcando a Lyme Regis,
una rivolta contro il
re Giacomo Secondo.
Monmouth venne
giustiziato e con lui
molti dei suoi seguaci.
[Nota del
Traduttore])… ma perché
è un superbo esempio di
arte popolare.
Primitivo e insieme
complesso, elefantiaco
ma delicato; pieno di
curve squisite e di
volumi come un Henry
Moore o un
Michelangelo; e puro,
limpido, essenziale; un
modello di massa.
Esagero? Forse, ma
ciò che dico può essere
controllato, perché il
Cobb è cambiato
pochissimo dall’anno di
cui scrivo; la città di
Lyme invece è mutata, e
la verifica non sarebbe
leale se guardaste
verso la terraferma.
Se tuttavia vi foste
voltati verso nord e
verso la terraferma nel
1867, come fece l’uomo
quel giorno, avreste
avuto sott’occhio un
panorama armonioso.
Una pittoresca
congerie di una dozzina
di case, più un piccolo
cantiere navale - nel
quale, come un’arca
sulla sua impalcatura,
stava lo scafo di un
bragozzo - era
ammassata nel punto in
cui il Cobb degrada
verso l’interno.
Mezzo miglio più a
oriente, oltre una
serie di prati in
declivio, c’erano i
tetti di paglia e di
ardesia di Lyme, una
città che aveva avuto
il suo massimo fulgore
nel Medio Evo e da
allora aveva continuato
a decadere.
Verso occidente,
dalla spiaggia
ciottolosa dove
Monmouth aveva iniziato
la sua stupida
avventura, si levavano
a picco delle scogliere
grigio scure che gli
indigeni chiamavano
Ware Cleeves.
Più in alto e più
oltre, penetrando
decisamente
all’interno, salivano
altre scogliere
nascoste da folti
boschi.
Sotto questo aspetto
il Cobb appare
soprattutto un ultimo
baluardo contro quella
selvaggia costa in
erosione verso
occidente.
Anche su questo punto
le mie parole possono
essere controllate.
In quella direzione
non si vedeva allora
nessuna casa e non la
si vede neanche oggi, a
parte un breve
squallore di capanni
sulla spiaggia.
La spia indigena - e
una effettivamente
c’era - avrebbe quindi
potuto dedurre che quei
due erano forestieri e
persone di un certo
gusto, che non
rinunciavano a godersi
il Cobb per un po’ di
vento.
D’altro canto,
mettendo ancor meglio a
fuoco il suo
telescopio, avrebbe
forse intuito che a
loro interessava più la
solitudine che
l’architettura
marittima; e avrebbe
sicuramente notato che
erano persone di gusti
decisamente superiori
per quanto concerneva
il loro aspetto
esteriore.
La signorina vestiva
all’ultimissima moda,
perché nel 1867 stava
soffiando anche un
altro vento: l’inizio
di una rivolta contro
la crinolina e la
grande cuffia.
L’occhio al
telescopio avrebbe
potuto scorgere una
gonna magenta quasi
audace tanto era
aderente e corta,
poiché sotto il ricco
soprabito verde e sopra
gli stivaletti neri che
calpestavano
delicatamente il
selciato si vedevano
due bianche caviglie; e
sullo chignon avvolto
in una retina era
appollaiato un piatto e
impertinente cappellino
con cupola bassa, ala
rialzata e un delicato
ciuffo di piume
d’aigrettes su un lato,
secondo uno stile di
modisteria che le
signore di Lyme non
avrebbero mai osato
adottare almeno per un
anno; mentre l’uomo, in
un grigio chiaro
impeccabile, teneva
nella mano libera un
cappello a cilindro e
aveva decisamente
ridotto le sue basette,
che un anno o due prima
gli arbitri della
miglior moda maschile
inglese avevano
definito un po’ troppo
volgari, cioè ridicole
agli occhi di uno
straniero.
Oggi i colori degli
indumenti della
signorina ci
sembrerebbero troppo
stridenti, ma il mondo
era allora nel pieno
dell’eccitante scoperta
delle tinte
all’anilina.
E ciò che la femmina
chiedeva a un colore,
forse per compensare
tanti altri aspetti del
comportamento che ci si
aspettava da lei, era
lo splendore, non la
discrezione.
Anche l’uomo dal
telescopio sarebbe
stato però
completamente
disorientato dall’altra
figura presente su quel
cupo molo ricurvo.
Stava sulla punta
estrema e sembrava
appoggiarsi a una
vecchia canna di
cannone rivolta
all’insù e utilizzata
come bitta.
I suoi vestiti erano
neri.
Il vento li agitava,
ma la figura rimaneva
immobile e continuava a
guardare il mare, più
come un vivente
monumento agli
annegati, come il
personaggio di un mito,
che come un appropriato
frammento di una
qualunque giornata in
provincia.
2.
“In quell’anno (1851)
c’erano in Gran
Bretagna 8155000
femmine dai dieci anni
in su, contro 7600000
maschi.
E’ dunque evidente
che se la carriera
consentita a una
ragazza vittoriana era
di diventare moglie e
madre, ben
difficilmente ci
sarebbero stati uomini
a sufficienza per
accontentare tutte”.
E.
Royston Pike, “Human
Documents of the
Victorian Golden Age”

l’Il spread sail of


silver and l’Il steer
towards the sun, l’Il
spread sail of silver
and l’Il steer towards
the sun, And my false
love will weep, and my
false love will weep,
And my false love will
weep for me after l’m
gone”.
Canzone popolare del
West-Country, “As
Sylvie was walking”.
“Spiegherò una vela
d’argento e farò rotta
verso il sole, /
Spiegherò una vela
d’argento e farò rotta
verso il sole, / E il
mio amore sleale
piangerà e il mio amore
sleale piangerà, / E il
mio amore sleale
piangerà per me che me
ne sarò andato”. [Nota
del Traduttore].
Mia cara Tina, ormai
l’omaggio a Nettuno lo
abbiamo reso.
Egli dunque ci
perdonerà se ora gli
voltiamo le spalle.
Non sei molto
“galant”.
Che cosa intendi
dire? Pensavo che fosse
tuo desiderio
prolungare un’occasione
nella quale puoi darmi
il braccio senza
commettere
scorrettezze.
Come siamo diventati
delicati.
Non siamo più a
Londra.
Siamo al Polo Nord,
se non sbaglio.
VORREI passeggiare
sino alla punta.
E così l’uomo, con
una fredda occhiata di
disperazione, come se
fosse stata l’ultima,
verso la terraferma,
tornò a voltarsi e la
coppia continuò la sua
passeggiata sul Cobb.
Vorrei sapere cosa vi
siete detti tu e papà
giovedì scorso.
Tua zia mi ha già
strappato di bocca
tutti i particolari di
quella piacevole
serata.
La ragazza si fermò
per guardarlo negli
occhi.
Charles! Con tutti
gli altri puoi
comportarti come meglio
ti pare, ma con me non
devi essere viscido.
Come faremo allora,
mia cara, a restare
appiccicati insieme nel
santo matrimonio?
Riservale al tuo club
queste volgari battute.
Lo costrinse con
sussiego a proseguire.
Mi è arrivata una
lettera.
Proprio quello che
temevo.
E’ di tua mamma? So
che è successo
qualcosa… al momento
del “porto”.
Fecero ancora qualche
passo prima che lui si
decidesse a rispondere;
per un attimo Charles
diede l’impressione di
voler parlare
seriamente, ma poi
cambiò idea.
Confesso di aver
avuto con il tuo
stimabile padre una
piccola discussione
filosofica.
Hai fatto molto male.
Volevo solo essere
molto sincero.
E qual era
l’argomento della
conversazione? Tuo
padre ha espresso
l’opinione che Darwin
dovrebbe essere esposto
in una gabbia al
giardino zoologico.
Nella gabbia delle
scimmie.
E io ho cercato di
spiegargli alcune delle
basi scientifiche della
posizione darwiniana.
Ma non ci sono
riuscito. “Et voila
tout”.
Come hai potuto,
sapendo come la pensa
papà? Sono stato
estremamente
rispettoso.
In altre parole, sei
stato estremamente
odioso.
Ha detto che non
avrebbe mai permesso a
sua figlia di sposare
un uomo che ritiene suo
nonno uno scimmione.
Ma credo che,
ripensandoci, si
ricorderà che nel caso
mio si tratta almeno di
uno scimmione titolato.
Continuarono a
camminare, e lei lo
guardava spostando
lateralmente la testa
in un curioso movimento
scivolato che era il
suo tipico modo di
mostrarsi preoccupata;
in questo caso per
quello che, a suo
giudizio, era stato
effettivamente il
maggior ostacolo al
loro fidanzamento.
Suo padre era molto
ricco ma suo nonno era
stato un semplice
negoziante di tessuti,
mentre quello di
Charles era un
baronetto.
Egli sorrise e
strinse la mano
guantata che si era
delicatamente appesa al
suo braccio.
Carissima, è una
questione che abbiamo
già risolto tra noi.
E’ perfettamente
giusto che tu abbia
paura di tuo padre.
Ma io non devo
sposare lui.
E poi non dimenticare
che sono uno
scienziato.
Ho scritto una
monografia e quindi
devo esserlo.
E se tu sorridi in
quel modo dedicherò
tutto il mio tempo ai
fossili senza avanzarne
per te.
Non sono disposta ad
essere gelosa dei
fossili.
Fece una pausa ben
calcolata.
Dal momento che ci
stai camminando sopra
da almeno un minuto, e
non ti sei ancora
degnato di dar loro
un’occhiata.
Egli abbassò
bruscamente gli occhi e
altrettanto bruscamente
si inginocchiò.
Certe parti del Cobb
sono pavimentate da
pietre contenenti
fossili.
Guarda questa, per
Giove. “Certhidium
portlandicum”.
Questa pietra
proviene certamente
dall’oolite di
Portland.
E se non ti rialzi
subito io ti condannerò
a lavorare in perpetuo
nelle sue cave.
Egli le obbedì con un
sorriso.
Non sono stata
gentile a portarti qui?
E ora guarda.
Lo condusse su un
fianco del bastione,
dove una fila di pietre
piatte inserite di
traverso formava una
sorta di rudimentale
scalinata diretta a
un’altra passeggiata
più in basso.
Sono gli stessi
gradini dai quali Jane
Austen fa cadere Louisa
Musgrove in
“Persuasione”.
Come è romantico.
Gli uomini erano
romantici… allora.
Adesso invece sono
scientifici? Vogliamo
farla questa pericolosa
discesa? Quando
torneremo indietro.
Ripresero di nuovo a
camminare.
E soltanto allora
egli notò la figura
ferma al limite del
molo, o almeno
s’accorse a quale sesso
apparteneva.
Santo cielo, credevo
che fosse un pescatore.
Ma non è una donna?
Ernestina guardò, ma i
suoi occhi grigi, i
suoi graziosissimi
occhi grigi, erano
miopi e riuscivano a
scorgere soltanto una
sagoma scura.
E’ giovane? E’ troppo
lontana perché si possa
capirlo.
Ma credo di sapere
chi è.
Deve essere la povera
Tragedia.
Tragedia? E’ un
soprannome.
Uno dei suoi
soprannomi.
E gli altri quali
sono? I pescatori le
hanno dato un nome
molto volgare.
Carissima Tina, tu
puoi certamente…
La chiamano la… donna
del tenente francese.
Davvero? Ed è
talmente al bando che
deve trascorrere qui le
sue giornate? E’… un
po’ matta.
Ma torniamo indietro.
Non mi piace andarle
vicino.
Si fermarono.
Lui continuava a
fissare la figura in
nero.
Mi incuriosisce.
Chi è questo tenente
francese? Un uomo che,
a quanto si dice, lei
avrebbe…
Amato? Peggio.
E lui l’ha
abbandonata? C’è anche
un figlio? No, non
credo che ci sia un
figlio.
Sono soltanto
pettegolezzi.
E che cosa fa lì?
Dicono che aspetti il
suo ritorno.
Ma… non c’è nessuno
che si occupi di lei?
E’ una specie di
domestica della vecchia
Mistress Poulteney.
Noi non la vediamo
mai quando andiamo in
quella casa ma è lì che
vive.
Torniamo indietro, ti
prego.
Non voglio vederla.
Ma lui sorrise.
Se ti salta addosso
ti difenderò io e ti
darò una prova della
mia modesta galanteria.
Andiamo.
Si avvicinarono così
alla figura accanto al
cannone-bitta.
Si era tolta la
cuffia e la teneva in
mano; portava i capelli
tirati indietro nel
bavero del suo cappotto
nero, un curioso
indumento che
assomigliava più a una
giubba maschile da
cavallerizzo che a
qualunque soprabito
femminile venuto di
moda negli ultimi
quaranta anni.
Rifiutava anche lei
la crinolina, ma era
evidente che lo faceva
per negligenza e non
perché fosse al
corrente del più
aggiornato gusto
londinese.
Charles pronunciò ad
alta voce qualche frase
banale per avvertirla
che non era più sola,
ma lei non si voltò.
La coppia raggiunse
un punto dal quale
poteva vedere il suo
profilo e il suo
sguardo puntato come un
fucile verso un lontano
orizzonte.
Poi arrivò una più
impetuosa folata di
vento, che costrinse
Charles a cingere con
un braccio la vita di
Ernestina per
sorreggerla e obbligò
la donna ad aggrapparsi
ancor più saldamente
alla bitta.
Senza sapere bene il
perché, forse per
insegnare a Ernestina a
non aver paura, egli si
fece avanti non appena
il vento glielo
permise.
Buona donna, non
possiamo lasciarla qui
senza temere per la sua
sicurezza.
Una raffica un po’
più forte…
Lei si voltò a
guardarlo; o meglio,
tale almeno fu
l’impressione di
Charles, a guardare
attraverso di lui.
Non era tanto ciò che
vide sul suo volto che,
dopo questo primo
incontro, sarebbe
rimasto impresso nella
sua memoria, ma ciò che
non era quale lui si
aspettava; in
quell’epoca infatti il
personaggio femminile
preferito era la
pudica, l’obbediente,
la timida.
Charles si sentì
subito un usurpatore,
come se il Cobb
appartenesse a quel
viso e non all’antico
borgo di Lyme.
Non era un viso
grazioso come quello di
Ernestina.
Non era certamente un
bel viso secondo i
criteri estetici e i
gusti di qualsiasi
epoca.
Ma era un viso
indimenticabile, un
viso tragico.
Sgorgava dolore con
la stessa purezza,
naturalezza e
inarrestabilità con cui
sgorga l’acqua da una
sorgente nei boschi.
Non c’era artificio
in esso, né ipocrisia,
né isterismo, né
maschera; soprattutto
non c’era la minima
traccia di pazzia.
La pazzia era nel
mare vuoto, nel vuoto
orizzonte,
nell’irragionevolezza
di quel dolore; come se
la sorgente fosse stata
naturale in sé ma
innaturale in quanto
sgorgava da un deserto.
Più di una volta
Charles avrebbe poi
ripensato a quello
sguardo come a una
lancia; e pensare così
non significa
ovviamente limitarsi a
descrivere un oggetto
ma prenderne in
considerazione gli
effetti.
In quel breve attimo
si sentì come un nemico
ingiusto: trafitto e
insieme meritatamente
ridimensionato.
La donna non disse
nulla.
La sua occhiata durò
al massimo due o tre
secondi; poi riprese a
guardare verso sud.
Ernestina tirò la
manica di Charles ed
egli venne via con un
sospiro e un sorriso.
Poi quando si erano
ormai avvicinati alla
terraferma, le disse:
Vorrei che tu non mi
avessi raccontato
quella sordida storia.
E’ questo
l’inconveniente del
vivere in provincia.
Si conoscono tutti e
non c’è più mistero.
Né fantasia.
Lei allora lo prese
in giro: lo scienziato,
quello che disprezzava
i romanzi.

3.
“Ma una
considerazione ancor
più importante è che la
parte fondamentale
dell’organizzazione di
ogni essere vivente è
dovuta all’eredità; e
di conseguenza, sebbene
ogni essere sia
certamente ben adattato
al suo posto nella
natura, molte strutture
non hanno oggi nessun
stretto e diretto
rapporto con le attuali
abitudini di vita”.
Darwin, “L’origine
della specie” (1859)

“Fra tutti i decenni


della nostra storia, un
uomo saggio
sceglierebbe per
trascorrervi la propria
giovinezza quello tra
il 1850 e il 1860”.
G.
M. Young, “Portrait
of an Age”.
Rientrato dopo
colazione nel suo
alloggio al White Lion,
Charles andò a
guardarsi allo
specchio.
I suoi pensieri erano
troppo vaghi perché si
possa descriverli.
Ma includevano anche
elementi misteriosi: un
oscuro sentimento di
frustrazione che non
aveva nessun rapporto
con l’incidente sul
Cobb, bensì con certe
frasi banali che aveva
pronunciato a colazione
da zia Tranter, con
certi sotterfugi cui
era ricorso, con il
dubbio che l’interesse
per la paleontologia
non fosse uno sfogo
sufficiente per le sue
naturali capacità, con
la domanda se Ernestina
sarebbe mai riuscita a
capirlo veramente come
lui capiva lei, con una
sensazione generale
d’incertezza, forse
provocata - finì per
concludere - puramente
dalla minaccia di un
lungo pomeriggio, ora
piovoso, da
trascorrere.
In fondo era soltanto
il 1867.
Lui aveva soltanto
trentadue anni e aveva
sempre rivolto alla
vita troppe domande.
Charles amava
considerarsi un giovane
dalla mentalità
scientifica, e non si
sarebbe sorpreso se dal
futuro gli fosse
arrivata notizia
dell’aeroplano, del
motore a reazione,
della televisione e del
radar, ma ciò che lo
avrebbe effettivamente
sbalordito sarebbe
stato il nostro diverso
atteggiamento nei
confronti del tempo.
Il grande presunto
tormento del nostro
secolo è la mancanza di
tempo; è per questo, e
non per un
disinteressato amore
per la scienza, e men
che meno per saggezza,
che dedichiamo una così
alta percentuale
dell’ingegnosità e dei
redditi della nostra
società a trovare modi
più rapidi per fare le
cose, come se
l’obiettivo supremo
della specie umana non
fosse quello di
avvicinarsi a una
perfetta umanità, ma
alla perfetta
istantaneità del
fulmine.
Per Charles invece,
come per tutti i suoi
contemporanei dello
stesso livello sociale,
l’indicazione di tempo
dell’esistenza era
decisamente l‘“adagio”.
(In italiano nel testo.
[Nota del Traduttore])
Il problema non era di
trovarvi il posto per
tutto ciò che si aveva
voglia di fare, ma di
tirare in lungo ciò che
si faceva in modo da
occupare i vasti
colonnati di tempo
libero a disposizione.
Oggi uno dei sintomi
più abituali della
ricchezza è la nevrosi
distruttiva; nel suo
secolo era una
tranquilla noia.
E’ vero che dietro
quel periodo stavano
come ombre cupe
l’ondata rivoluzionaria
del 1848 e il ricordo
degli ormai estinti
cartisti; ma per molti
Charles compreso - la
caratteristica più
significativa di quel
rombo lontano era stata
la sua incapacità di
entrare in eruzione.
Il decennio in corso
era indiscutibilmente
prospero: era arrivata
una certa opulenza sia
per gli artigiani sia
per le stesse classi
lavoratrici, e questo,
almeno in Gran
Bretagna, aveva
allontanato, sin quasi
a farle scomparire, le
possibilità di una
rivoluzione.
Naturalmente Charles
non sapeva nulla di
quel barbuto ebreo
tedesco che proprio
quel pomeriggio stava
tranquillamente
lavorando nella
biblioteca del British
Museum, e il cui lavoro
tra quelle fosche
pareti avrebbe prodotto
un così splendente
frutto rosso.
Se gli aveste
descritto questo
frutto, o i successivi
effetti del suo futuro
indiscriminato consumo,
Charles quasi
certamente non vi
avrebbe creduto, anche
se in quel marzo del
1867 mancavano soltanto
sei mesi alla
pubblicazione ad
Amburgo del primo
volume del “Capitale”.
C’erano inoltre
innumerevoli ragioni
personali che rendevano
Charles inadatto alla
piacevole posizione del
pessimista.
Suo nonno, il
baronetto, aveva
appartenuto alla
seconda delle due
grandi categorie in cui
si dividevano i
signorotti di campagna
inglesi, che possono
essere tracannatori di
chiaretto e cacciatori
di volpi o eruditi
collezionisti di ogni
cosa sotto il sole.
Egli aveva
soprattutto raccolto
libri, ma negli ultimi
anni della sua vita
aveva dedicato un
mucchio del suo denaro
e una dose assai
superiore della
pazienza dei suoi
familiari agli scavi
delle innocue
collinette che
costellavano come
foruncoli i suoi
tremila acri di
Wiltshire.
Aveva cioè cercato
spietatamente cromlech
e menhir, utensili di
selce e tombe
neolitiche; e
altrettanto
spietatamente il suo
primogenito aveva
cacciato di casa questi
trofei portatili appena
entrato in possesso
della sua eredità.
Ma il cielo aveva
punito, o benedetto,
questo figlio facendo
in modo che non si
sposasse mai.
Anche il
secondogenito del
vecchio, il padre di
Charles, era stato
abbondantemente
provvisto di terre e di
denaro.
In tutta la sua vita
aveva conosciuto
soltanto una tragedia:
la morte simultanea
della giovane moglie e
di una bimba nata morta
che sarebbe stata la
sorella di Charles, il
quale aveva allora un
anno.
Superò comunque il
suo dolore.
Al figlio, che tutto
sommato amava appena un
po’ meno di se stesso,
elargì se non un grande
affetto una serie di
precettori e di
sergenti istruttori.
Vendette la sua parte
di terre e investì
astutamente il ricavato
in azioni delle
ferrovie e poco
astutamente nei tavoli
da gioco; visse insomma
come se fosse nato nel
1702 anziché nel 1802,
soprattutto per il
piacere… e morì,
soprattutto per questo,
nel 1856.
Charles era dunque il
suo unico erede, erede
non soltanto della
ridotta fortuna del
padre - il baccarat
alla fine era stato più
forte del boom delle
ferrovie - ma, col
tempo, anche di quella
assai cospicua dello
zio.
E’ vero che nel 1867
costui, nonostante una
decisa tendenza al
chiaretto, non dava
alcun segno di voler
morire.
Charles aveva
simpatia per lui e lo
zio aveva simpatia per
Charles.
Ma ciò non risultava
per nulla dai loro
rapporti.
Benché accettasse di
fare dello sport quanto
bastava per tirare alle
pernici e ai fagiani
quando lo invitavano a
farlo, Charles
rifiutava ostinatamente
la caccia alla volpe.
Non gli interessava
che la preda fosse
immangiabile, ma
detestava il
comportamento
inqualificabile dei
cacciatori.
Non solo: era
talmente anormale che
preferiva il camminare
all’andare a cavallo, e
il camminare non era
passatempo degno di un
gentiluomo eccetto che
sulle Alpi svizzere.
Non che avesse
qualcosa contro i
cavalli in sé ma,
naturalista nato, non
sopportava di non poter
guardare le cose da
vicino e con calma.
Tuttavia la fortuna
lo aveva aiutato.
Un giorno d’autunno
di parecchi anni prima,
aveva sparato a uno
stranissimo uccello che
si era alzato dal
limite di uno dei campi
di frumento di suo zio.
Quando scoprì che
cosa aveva ucciso, e la
sua rarità, si irritò
un poco con se stesso,
perché si trattava di
una delle ultime grandi
otarde abbattute nella
piana di Salisbury.
Ma suo zio era
felice.
L’uccello venne
impagliato, e da
allora, simile a un
tacchino un po’
imbastardito, rimase
per sempre a guardare
con i suoi occhi di
vetro, da una vetrina
del salotto di
Winsyatt.
Lo zio annoiava
interminabilmente i
suoi nobili ospiti
raccontando come
l’impresa era stata
compiuta, e ogni volta
che si sentiva tentato
di diseredarlo - idea
che bastava a farlo
avvampare perché la
proprietà era in
vincolo maschile - gli
bastava alzarsi e
contemplare l’immortale
otarda di Charles per
ritrovare la tenerezza
d’animo del perfetto
zio.
Il fatto è che
Charles aveva qualche
difetto.
Non scriveva
regolarmente una volta
la settimana; e aveva
una sinistra
predilezione per
trascorrere i suoi
pomeriggi a Winsyatt in
biblioteca, stanza dove
suo zio metteva
raramente piede per non
dire che non c’entrava
mai.
Ma aveva commesso
colpe anche più gravi.
A Cambridge, dopo
essersi debitamente
ingozzato di classici e
aver aderito ai
Trentanove Articoli,
(1) a differenza di
quasi tutti i giovani
della sua epoca aveva
cominciato
effettivamente a
imparare qualcosa.
Ma durante il secondo
anno d’università si
era messo a frequentare
una cattiva compagnia e
aveva finito, in una
nebbiosa notte
londinese, per
possedere carnalmente
una ragazza indifesa.
Poi da queste
grassocce braccia
cockney era andato a
gettarsi in quelle
della chiesa, facendo
inorridire poco dopo il
padre con l’annuncio
che voleva prendere gli
ordini.
C’era soltanto una
soluzione per una crisi
di tanta gravità: il
giovane peccaminoso
venne subito mandato a
Parigi.
Qui la sua verginità,
già macchiata, venne
presto annerita sino a
non essere più
riconoscibile, e con
essa, come suo padre
aveva sperato, si
dissolse anche il
progettato matrimonio
con la chiesa.
Charles capì che cosa
c’era dietro le
seducenti attrattive
del Movimento di
Oxford, il
cattolicesimo romano
“propria terra”.
E si rifiutò di
mescolare la sua
scettica ma
confortevole anima
inglese metà ironia e
metà convenzione - con
l’incenso e
l’infallibilità
pontificia.
Tornato a Londra,
sfiorò e assaggiò una
dozzina di teorie
religiose alla moda, ma
uscì da queste
esperienze (“voyant
trop pour nier, et:
trop peu pour
s’assurer”) come un
sano agnostico. (2)
Quel poco Dio che
riusciva a trarre
dall’esistenza, lo
trovava nella natura e
non nella Bibbia; cento
anni prima sarebbe
stato un deista, forse
anche un panteista.
Quando era in
compagnia andava alle
funzioni della domenica
mattina, ma da solo lo
faceva di rado.
Rientrò, dopo sei
mesi trascorsi nella
Città del peccato, nel
1856.
Suo padre era morto
tre mesi prima.
La grande casa di
Belgravia venne
affittata e Charles
andò a stabilirsi a
Kensington, in una
dimora più piccola e
più adatta a un giovane
scapolo.
Badavano a lui un
domestico, una cuoca e
due cameriere, un
personale di quasi
eccentrica modestia per
un uomo con la sua
ricchezza e le sue
relazioni.
Ma ci si trovava bene
e inoltre dedicava
molto tempo ai viaggi.
Divenne collaboratore
di riviste alla moda
con un paio di articoli
sui suoi soggiorni in
luoghi particolarmente
remoti, e un
intraprendente editore
gli propose addirittura
di scrivere un libro
sui nove mesi trascorsi
in Portogallo, ma la
cosa a Charles era
sembrata un po’ troppo
“infra dignitatem” - ed
esigeva inoltre un
troppo duro lavoro e
una troppo prolungata
concentrazione.
Si baloccò un poco
con questo progetto ma
finì per lasciarlo
cadere.
Baloccarsi con vari
progetti fu di fatto la
sua principale
occupazione per tutto
il terzo decennio della
sua vita.
Perfettamente
inserito nella lenta
totalità dell’epoca
vittoriana, non era
però un giovane
essenzialmente frivolo.
L’incontro casuale
con un tizio al
corrente della mania di
suo nonno gli aveva
fatto scoprire che solo
in famiglia le
interminabili giornate
trascorse dal vecchio
sorvegliando squadre
sbalordite di rustici
scavatori erano viste
come un gioco.
Altri invece
ricordavano Sir Charles
Smithson come un
pioniere
dell’archeologia della
Britannia preromana e
certi oggetti della sua
dispersa collezione
erano stati accolti con
gratitudine dal British
Museum.
E Charles si era
lentamente accorto di
essere più vicino per
temperamento al nonno
che ai due figli di
costui.
Negli ultimi tre anni
si era sempre più
interessato di
paleontologia e aveva
deciso che questo era
il suo campo.
Incominciò a seguire
le “conversazioni” (3)
della Società
geologica.
Suo zio non vedeva
con favore lo
spettacolo di Charles
che usciva a piedi da
Winsyatt munito di
martelli appuntiti e di
un sacco - secondo lui
il solo oggetto che un
gentiluomo era
autorizzato a portare
in campagna era un
frustino o un fucile -
ma se non altro era già
meglio questo che i
maledetti libri di
quella maledetta
biblioteca.
C’era tuttavia in
Charles un’altra
mancanza d’interesse
che allo zio garbava
ancora meno.
I nastri gialli e i
narcisi selvatici,
emblemi del partito
liberale, erano anatema
a Winsyatt.
Il vecchio era il più
azzurro dei Tories, e
ci si appassionava.
Ma Charles respinse
cortesemente tutti gli
inviti a presentare la
sua candidatura al
Parlamento.
Si dichiarava privo
di convinzioni
politiche.
Ma in segreto era un
ammiratore di
Gladstone, che a
Winsyatt era il
supertraditore,
l’innominabile.
In tal modo il
rispetto per la
famiglia e la pigrizia
sociale chiusero
prematuramente quella
che per lui sarebbe
stata una carriera
naturale.
La pigrizia, temo,
era la caratteristica
peculiare di Charles.
Come molti suoi
contemporanei, sentiva
che il senso di
responsabilità
dell’inizio del secolo
si stava trasformando
in semplice arroganza;
ciò che muoveva la
nuova Inghilterra era
in misura sempre
maggiore il desiderio
di apparire
rispettabile e non
quello di far bene.
Egli si rendeva conto
di essere troppo
esigente.
Ma come si poteva
scrivere storia con
Macaulay alle spalle?
Narrativa o poesia nel
mezzo della più grande
galassia di talenti
dell’intera storia
della letteratura
inglese? Come era
possibile essere uno
scienziato creativo,
quando erano ancora
vivi Lyell e Darwin? O
uno statista con
Disraeli e Gladstone
che occupavano tutto lo
spazio disponibile?
Come vedete, Charles
aveva grandi mire.
I pigri intelligenti
le hanno sempre per
giustificare la propria
pigrizia alla propria
intelligenza.
Aveva insomma tutto
l‘“ennui” byroniano
senza nessuno degli
sbocchi di Byron: il
genio e l’adulterio.
Ma se la morte può
essere in ritardo, come
ben sanno notoriamente
le madri con figlie da
marito, alla fine è
sempre talmente cortese
da arrivare.
Anche se Charles non
avesse avuto quelle
prospettive per il
futuro, era comunque un
giovanotto
interessante.
Purtroppo i viaggi
all’estero avevano
asportato in parte
quella patina di
mancanza di senso
dell’umorismo (che i
vittoriani chiamavano
serietà, rettitudine
morale, probità e con
mille altri nomi
egualmente ingannevoli)
che era richiesta ad
ogni gentiluomo inglese
rispettabile
dell’epoca.
C’era nei suoi
atteggiamenti una punta
di cinismo, sintomo
inconfondibile di
un’intrinseca decadenza
morale; ma non andava
mai in società senza
essere adocchiato dalle
madri, trattato a
pacche sulla schiena
dai papà e accolto con
sorrisetti affettati
dalle ragazze.
A Charles le belle
ragazze piacevano - e
non era contrario a
incoraggiare sia loro
sia i loro ambiziosi
genitori.
Si era così
acquistato fama di uomo
freddo e distaccato,
ricompensa non
immeritata per il modo
perfetto prima dei
trent’anni in questo
campo era diventato
abile come una puzzola
- con il quale fiutava
l’esca e voltava i
tacchi davanti ai denti
nascosti delle trappole
matrimoniali che
ingombravano il suo
cammino.Lo zio spesso
lo rimproverava per
questo ma, come Charles
gli faceva subito
notare, le sue erano
polveri bagnate.
Al che il vecchio
cominciava a
brontolare.
Non ho mai trovato la
donna giusta.
Sciocchezze.
Non l’hai mai
cercata.
Sì invece.
Quando avevo la tua
età…
Vivevi per i tuoi
cani e per la stagione
delle pernici.
Il vecchio
contemplava con
tristezza il suo
chiaretto.
Non gli dispiaceva
molto di non avere
moglie, ma soffriva
dolorosamente di non
avere dei figli per i
quali acquistare pony e
fucili.
Vedeva sparire senza
lasciare tracce la sua
maniera di vivere.
Ero cieco.
Cieco.
Io invece, carissimo
zio, ho una vista
eccellente.
Consolati.
Anch’io sto cercando
la ragazza giusta.
E non l’ho ancora
trovata.

NOTE.
Nota 1.
I Trentanove Articoli
costituiscono il
documento dottrinario
fondamentale della
chiesa anglicana. [Nota
del Traduttore].
Nota 2.Ma non si
sarebbe mai definito
tale, per la
semplicissima ragione
che il termine fu
coniato (da Huxley)
solo nel 1870; epoca
nella quale se ne
sentiva davvero il
bisogno.
Nota 3.
In italiano nel
testo. [Nota del
Traduttore].

4.
“What’s DONE, is what
remains! Ah, blessed
they Who leave
completed tasks of love
to stay And answer
mutely for them, being
dead, Life was not
purposeless, though
Life be fled”.
Mistress Norton, “The
Lady of La Garaye”
(1863).
“Ciò che si FA, è ciò
che rimane! Oh,
fortunati coloro / Che
lasciano amorevoli
opere completate
sopravvivere / E
dichiarare
silenziosamente in loro
nome, dopo la morte, /
Che la Vita non fu
inutile, anche se la
Vita è svanita. [Nota
del Traduttore].
“Quasi tutte le
famiglie britanniche
della classe media e di
quella superiore
vivevano sopra la loro
latrina”…
E.
Royston Pike, “Human
Documents of the
Victorian Golden Age”.

La cucina nel
seminterrato della
grande casa Reggenza di
Mistress Poulteney che
sorgeva, chiara ed
elegante similitudine
della sua condizione
sociale, in posizione
dominante su una delle
ripide colline dietro
Lyme Regis, oggi
indubbiamente
apparirebbe quasi
intollerabile a causa
della sua inadeguatezza
funzionale.
Anche se per coloro
che la occupavano nel
1867 doveva essere
abbastanza ovvia
l’identità del tiranno
della loro vita,
l’autentico mostro, per
un’epoca come la
nostra, sarebbe stato
senza dubbio l’enorme
fornello che occupava
tutta una parete di
quello stanzone male
illuminato.
Aveva tre fuochi,
ognuno dei quali doveva
essere alimentato due
volte al giorno e
sbraciato altrettante;
e poiché il buon
andamento domestico
della casa dipendeva
dal suo funzionamento,
non ci si poteva mai
permettere di lasciarlo
spegnere.
Per quanto fosse
opprimente una giornata
estiva e benché tutte
le volte che c’era
vento di sudovest il
mostro soffiasse nuvole
nere di soffocante
fumo, lo spietato
fornello doveva essere
nutrito.
E il colore di quei
muri! Reclamavano a
gran voce una
tinteggiatura chiara,
un po’ di bianco.
Ed erano invece di un
bilioso verde plumbeo
che, benché i suoi
occupanti lo
ignorassero (e, ad
essere equi, lo
ignorasse anche il
tiranno del piano di
sopra), era carico di
arsenico.
Forse era una fortuna
che la stanza fosse
umida e che il mostro
sprigionasse tanto fumo
e tanto unto.
Serviva se non altro
a disperdere un poco
quella polvere
micidiale.
Il sergente maggiore
di questa palude stigea
era una certa Mistress
Fairley, una donna
piccola e magra che
vestiva sempre di nero
più per temperamento
che per vedovanza.
Forse la sua severa
melanconia derivava
dalla vista di quel
flusso interminabile di
infimi mortali che era
calato come una cascata
sulla sua cucina.
Maggiordomi, lacchè,
giardinieri, stallieri,
cameriere per il piano
di sopra e per quello
di sotto sopportavano
solo fino a un certo
limite le esigenze e le
abitudini di Mistress
Poulteney e finivano
sempre per fuggire.
Cosa da parte loro
vergognosa e codarda.
Ma quando devi
alzarti alle sei,
lavorare dalle sei e
mezzo alle undici, e
poi ancora, dalle
undici e mezzo alle
quattro e mezzo, e poi
di nuovo dalle cinque
alle dieci, e questo
tutti i giorni, cento
ore la settimana, le
tue riserve di grazia e
di coraggio possono
anche non essere molto
cospicue.
Un’ormai leggendaria
sintesi dei sentimenti
della servitù era stata
espressa a Mistress
Poulteney dal
quintultimo
maggiordomo:
“Preferirei, signora,
trascorrere il resto
della mia vita
all’ospizio piuttosto
che vivere ancora una
settimana sotto questo
tetto”.
C’era chi dubitava
che qualcuno avesse
davvero osato
pronunciare parole
simili davanti alla
terrificante dama.
Ma lo stato d’animo
che le aveva suggerite
era condiviso da tutti
quando l’uomo scese con
i suoi bagagli e
sostenne di averle
dette.
Come avesse fatto
l’altrettanto
vituperata Mistress
Fairley a sopportare
per tanto tempo la sua
padrona era uno dei
prodigi locali.
Molto probabilmente
perché, se la sorte
avesse deciso
altrimenti, sarebbe
stata anche lei una
Mistress Poulteney.
Era l’invidia a
tenerla lì, e anche una
gioia sinistra per le
catastrofi domestiche
che si abbattevano con
tanta frequenza su
quella casa.
Insomma le due donne
erano delle sadiche
incipienti e tornava a
loro vantaggio
tollerarsi
reciprocamente.
Mistress Poulteney
aveva due ossessioni, o
due aspetti della
medesima ossessione.
La prima era la
sporcizia - anche se
faceva in un certo
senso un’eccezione per
la cucina dove viveva
soltanto la servitù -
la seconda
l’immoralità.
In entrambi i settori
non c’era nulla di
sconveniente che
potesse sfuggire ai
suoi occhi di aquila.
Sembrava un grasso
avvoltoio, che
volteggia
interminabilmente nel
suo interminabile tempo
libero, ed era dotata
nel primo settore di un
sesto senso miracoloso
per quanto si riferiva
a polvere, impronte
digitali, biancheria
insufficientemente
inamidata, odori,
macchie, rotture e
tutti gli inconvenienti
cui le case sono
soggette.
Un giardiniere poteva
essere licenziato se lo
si vedeva entrare in
casa con le mani
sporche di terra; un
maggiordomo per una
macchia di vino sul
colletto; una cameriera
perché si trovavano
peli di cagna sotto il
suo letto.
Ma la cosa più
abominevole era che
persino fuori di casa
non ammetteva limiti
alla propria autorità.
Il non andare in
chiesa la domenica, al
mattutino e al vespro,
equivaleva a dar prova
del più imperdonabile
rilassamento morale.
E che il cielo
aiutasse la cameriera
vista a passeggio per
strada in uno dei suoi
rari pomeriggi di
libertà - uno al mese
era la riluttante
concessione - con un
giovanotto.
E che il cielo
aiutasse anche il
giovanotto talmente
innamorato da cercare
di accostarsi in
segreto a Marlborough
House per un
appuntamento; il parco
infatti era una vera e
propria foresta di
trappole umane, dove
“umane” significa
puramente che le grandi
mascelle in attesa
erano prive di denti,
pur essendo
sufficientemente
vigorose per spaccare
la gamba di un uomo.
Questi servi di ferro
erano i preferiti di
Mistress Poulteney.
QUELLI non li aveva
mai licenziati.
La signora avrebbe
trovato subito un posto
nella Gestapo: aveva
una maniera di
interrogare che nel
giro di cinque minuti
poteva ridurre in
lacrime la ragazza più
vigorosa.
A modo suo, era
un’epitome di tutti gli
elementi più
grossolanamente
arroganti dell’Impero
britannico in ascesa.
La sua sola idea di
giustizia era che lei
aveva sempre ragione; e
la sua sola idea di
governo era un
cannoneggiamento
rabbioso
dell’impertinente
plebaglia.
Tuttavia nel suo
ambiente, una cerchia
assai limitata, era
famosa per la sua
carità.
E se aveste messo in
dubbio questa fama, gli
oppositori vi avrebbero
citato una prova
incontrovertibile: la
cara, gentile Mistress
Poulteney non aveva
forse accolto la donna
del tenente francese?
Non credo di aver
bisogno di aggiungere
che la cara gentile
signora conosceva
allora soltanto l’altro
soprannome, quello più
greco.
Questo singolare
avvenimento si era
svolto nella primavera
del 1866, esattamente
un anno prima
dell’epoca sul la quale
scrivo; e aveva stretti
rapporti con il grande
segreto di Mistress
Poulteney.
Era un segreto molto
semplice: credeva
nell’inferno.
Era allora vicario di
Lyme un uomo
relativamente
emancipato sul piano
teologico, ma che
sapeva perfettamente da
quali santi dipendesse
la sua tranquilla
agiatezza.
Andava benissimo per
Lyme, una congregazione
che tradizionalmente
aderiva alla Low
Church. (1) Aveva il
dono di una certa
fervida eloquenza nei
suoi sermoni, e teneva
la chiesa sgombra di
crocifissi, immagini,
ornamenti e di tutti
gli altri segni del
cancro romano.
Quando Mistress
Poulteney gli espose le
sue teorie sulla vita
futura, egli non fece
obiezioni, perché i
depositari di un
beneficio non
particolarmente pingue
non discutono mai con i
ricchi parrocchiani.
La borsa di Mistress
Poulteney era aperta
alle sue richieste
quanto era strozzata
quando entravano in
discussione i salari
dei suoi tredici
domestici.
Nell’inverno
dell’anno precedente
(che era stato anche
l’inverno della quarta
grande epidemia di
colera dell’Inghilterra
vittoriana), Mistress
Poulteney era stata un
po’ malata, e il
vicario era venuto a
trovarla con la stessa
frequenza dei medici, i
quali avevano dovuto
ripetutamente
garantirle che soffriva
di un banale mal di
stomaco e non del
temuto morbo orientale.
Mistress Poulteney
non era una stupida;
aveva anzi acume nelle
questioni pratiche, e
la sua futura
destinazione, come
tutte le cose
concernenti il suo
benessere, era un
problema estremamente
pratico.
Se mai si prospettava
l’immagine di Dio, Egli
aveva pressappoco
l’aspetto del duca di
Wellington, ma il suo
carattere assomigliava
di più a quello di un
abile avvocato, una
specie per la quale
aveva un enorme
rispetto.
Sdraiata nella
propria camera,
rifletteva sul
terribile dubbio
matematico che la stava
sempre più
ossessionando: se il
Signore valutava la
carità basandosi su ciò
che si era dato o su
ciò che ci si sarebbe
potuto permettere di
dare.
Su questo punto aveva
informazioni più
precise che non il
vicario.
Certo aveva donato
somme cospicue alla
chiesa, ma sapeva
benissimo che erano
molto al disotto di
quel decimo prescritto
per i seri candidati al
paradiso.
Certo aveva regolato
il proprio testamento
facendo in modo che il
conto venisse
abbondantemente rimesso
in pari dopo la sua
morte; ma forse Dio non
sarebbe stato presente
alla lettura di quel
documento.
Inoltre il caso volle
che Mistress Fairley,
la quale ogni sera le
leggeva brani della
Bibbia, scegliesse
proprio la parabola
dell’obolo della
vedova.
A Mistress Poulteney
era sempre parsa una
parabola
grossolanamente
ingiusta, e ora le
rimase in cuore molto
più a lungo di quanto
sarebbero rimasti nel
suo intestino i bacilli
dell’enterite.
Un giorno, durante la
convalescenza,
approfittò di una delle
tante visite del suo
premuroso vicario per
compiere un cauto esame
di coscienza.
In un primo momento
egli cercò di dissipare
le sue preoccupazioni
spirituali.
Mia cara signora, i
suoi piedi sono sulla
Roccia.
Il Creatore vede
tutto e sa tutto.
Non dobbiamo dubitare
della Sua misericordia
o della Sua giustizia.
Ma supponiamo che mi
chieda se ho la
coscienza limpida. Il
vicario sorrise.
Lei risponderà che è
torbida.
Ed Egli, nella Sua
infinita compassione…
Ma supponiamo che non
lo faccia.
Cara Mistress
Poulteney, se lei parla
in questi termini dovrò
rimproverarla.
Noi non dobbiamo
dubitare della Sua
comprensione.
Ci fu una pausa.
Quando era con il
vicario, Mistress
Poulteney aveva
l’impressione di
trovarsi con due
diverse persone.
Una era socialmente
un suo inferiore, e un
inferiore che dipendeva
da lei per molti
piaceri della sua
tavola, per una
sostanziosa percentuale
dei costi d’esercizio
della sua parrocchia e
anche per il felice
adempimento dei suoi
doveri non liturgici
tra i poveri; l’altra
era il rappresentante
di Dio davanti al quale
doveva metaforicamente
inginocchiarsi.
Perciò il suo
atteggiamento aveva
spesso qualcosa di
bizzarro e di
incoerente.
Era un momento “de
haut en bas” e “de bas
en haut” nel momento
successivo, e a volte
riusciva a esprimere
entrambe le posizioni
in un’unica frase.
Se almeno il povero
Frederick non fosse
morto, avrebbe potuto
consigliarmi.
Certo.
E il suo consiglio
sarebbe stato simile al
mio.
Può esserne certa.
So che era un
cristiano.
E ciò che io dico è
solida dottrina
cristiana.
E’ stato un monito.
Una punizione.
Il vicario le lanciò
un’occhiata solenne.
Attenta, cara
signora, attenta.
Non si usurpano alla
leggera le prerogative
del nostro Creatore.
Mistress Poulteney
cambiò tattica.
Nemmeno tutti i
vicari del creato
avrebbero potuto
giustificare ai suoi
occhi la morte
prematura del marito.
Era una cosa che
restava tra lei e Dio;
un mistero simile a
un’opale nera, che a
volte splendeva come un
presagio solenne e a
volte appariva una
specie di somma già
versata sull’ammontare
della penitenza di cui
ancora poteva essere in
debito.
Sì, ho dato.
Ma non ho compiuto
opere buone.
Dare è un’opera
ottima.
Io non sono come Lady
Cotton.
Questo brusco
passaggio dal mistico
al secolare non fu una
sorpresa per il
vicario.
Egli sapeva
benissimo, da
precedenti allusioni,
che Mistress Poulteney
si rendeva conto di
avere parecchie
lunghezze di svantaggio
in questa corsa per la
pietà.
Lady Cotton, che
viveva a qualche miglio
da Lyme, era famosa per
la sua dedizione
fanatica all’elemosina.
Faceva visite di
carità, era
presidentessa di una
società missionaria,
aveva persino fondato
una casa per le donne
perdute, dove però la
severità era così
rigorosa che quasi
tutte le beneficiarie
di questa Società
Maddalena si
affrettavano appena
potevano a ripiombare
nella fossa
dell’ignominia, cosa
che Mistress Poulteney
ignorava come ignorava
il soprannome più
volgare di Tragedia.
Il vicario tossì.
Lady Cotton è un
esempio per tutti noi.
Era come gettare olio
sulle fiamme, e forse
se ne rendeva conto.
Dovrei fare qualche
visita di carità.
Sarebbe magnifico.
Il fatto è che le
visite di carità mi
affliggono troppo.
Il vicario rimase
impassibile.
Lo so che è orribile
parlare così.
Su, su.
Sì.
Proprio orribile.
Seguì una lunga
pausa, nel corso della
quale il vicario meditò
sul proprio pranzo,
ancora un’ora lontano,
e Mistress Poulteney
sulla propria
malvagità.
Propose poi, con
timidezza inconsueta,
una soluzione di
compromesso per il suo
problema.
Se lei conoscesse una
signora, una persona
raffinata che si trova
in circostanze
sfavorevoli…
Non ho ben capito che
cosa intende.
Vorrei assumere una
dama di compagnia.
Da qualche tempo mi
riesce difficile
scrivere.
E Mistress Fairley
legge così male.
Sarei contenta di
accogliere in casa una
persona di questo tipo.
Benissimo.
Se così desidera,
cercherò d’informarmi.
Mistress Poulteney
recalcitrava un poco di
fronte al progetto di
buttarsi freneticamente
nel grembo della vera
cristianità.
Bisogna però che la
sua moralità sia
irreprensibile.
Devo pensare ai miei
servi.
Ma naturalmente, mia
cara signora,
naturalmente.
Il vicario si alzò.
E preferibilmente non
deve avere parenti.
I parenti dei
dipendenti possono
diventare molto
fastidiosi.
Stia certa che non le
presenterò nessuno che
non sia adatto.
Le strinse la mano e
s’avviò verso la porta.
E, Mister Forsythe,
che non sia troppo
giovane.
Egli s’inchinò e
lasciò la stanza.
Ma a metà della scala
si fermò.
Ricordò.
Rifletté.
E forse un sentimento
non del tutto disgiunto
dalla malignità, nato
da tante lunghe ore di
ipocrisia - o almeno di
non sempre totale
franchezza di fronte al
lugubre eloquio di
Mistress Poulteney, o
comunque un impulso, lo
indusse a voltarsi e a
tornare in salotto.
Si fermò sulla
soglia.
Mi è venuta in mente
una persona che farebbe
al caso suo.
Si chiama Sarah
Woodruff.

NOTE.
Nota 1.
Low Church, o “chiesa
bassa”, è quella
corrente della chiesa
anglicana che minimizza
l’importanza degli
aspetti ecclesiastici,
liturgici e sacerdotali
e considera la Bibbia
fonte unica di autorità
in materia di fede, in
ciò avvicinandosi a
certe confessioni
protestanti. [Nota del
Traduttore].

5.
“O me, what profits
it to put An idle case?
If Death were seen At
first as Death, Love
had not been, Or been
in narrowest working
shut,

Mere fellowship of
sluggish moods, Or in
his coarsest Satyr-
shape Had bruised the
herb and crush’d the
grape, And bask’d and
batten’d in the woods”.
Tennyson, “In
Memoriam” (1850).
“Ahimè, che serve di
supporre / Un vano
caso? Se la Morte fosse
apparsa / Alle prime
come Morte, Amore non
sarebbe stato, / O si
sarebbe chiuso in un
campo d’efficienza più
ristretto, // Mera
amicizia di torbidi
modi, / O in ruvida
forma di satiro /
Avrebbe calpestato
l’erba e pigiato le
uve, / E si sarebbe
scaldato al sole e
pasciuto nei boschi”.
[Traduzione di Umberto
Norsa, Carabba,
Lanciano 1933, Nota del
Traduttore].
I giovani erano tutti
impazienti di vedere
Lyme.
Jane Austen,
“Persuasione”.
Ernestina aveva
esattamente il viso che
andava bene per
quell’epoca, cioè
ovale, col mento
piccolo, delicato come
una violetta.
Potete ancora vederlo
nei disegni dei grandi
illustratori di allora,
nell’opera di Phiz o di
John Leech.
Il grigio degli occhi
e il pallore della
pelle non facevano che
accentuare la
delicatezza del resto.
A un primo incontro
sapeva abbassare gli
occhi con molta grazia,
quasi avesse temuto di
svenire se un uomo le
avesse rivolto la
parola.
Ma c’era una
minuscola inclinazione
all’angolo delle
palpebre, cui ne
corrispondeva un’altra
all’angolo delle labbra
- per conservare la
stessa similitudine,
lieve come la fragranza
delle violette di
febbraio - che
smentiva,
sottilissimamente ma
inconfondibilmente, la
sua apparente
obbedienza totale al
grande dio Maschio.Un
vittoriano ortodosso
avrebbe forse diffidato
di quell’impercettibile
indicazione di una
Becky Sharp; ma per un
uomo come Charles
appariva irresistibile.
Assomigliava
moltissimo a una di
quelle compite
bamboline, le Georgina,
le Victoria, le
Albertina, le Matilda,
che sedevano ai balli
in dozzine strettamente
sorvegliate; ma non del
tutto.
Quando Charles lasciò
la casa di zia Tranter
in Broad Street per
percorrere quel
centinaio di passi che
lo separava dal suo
albergo, e qui
solennemente - gli
innamorati confessi non
sono forse lo zimbello
del mondo? - salire le
scale sino alla sua
camera e interrogare
allo specchio il suo
bel volto, Ernestina si
scusò e si ritirò nella
sua stanza.
Voleva scorgere
ancora una volta
l’amato attraverso le
tendine di pizzo, e
voleva anche stare
nella sola camera in
tutta la casa della zia
che non le apparisse
insopportabile. Dopo
aver debitamente
ammirato la maniera in
cui lui camminava e
soprattutto la maniera
con la quale si tolse
il cappello davanti
alla cameriera di zia
Tranter, uscita per una
commissione; e averlo
detestato perché aveva
fatto questo, in quanto
la ragazza possedeva
gli occhi vivaci di una
contadina del Dorset e
una provocante
carnagione rosea, e a
Charles era stato
severamente proibito di
posare gli occhi su una
qualsiasi donna al
disotto della
sessantina condizione
alla quale zia Tranter
sfuggiva fortunatamente
per un solo anno -
Ernestina tornò a
voltarsi verso la
camera.
Era stata arredata
per lei e secondo il
suo gusto, che era
decisamente francese,
cioè pesante come
l’inglese ma un po’ più
dorato e capriccioso.
Il resto della casa
era inesorabilmente,
massicciamente,
irrefutabilmente nello
stile di un quarto di
secolo prima; cioè un
museo degli oggetti
creati nella prima
nobile reazione a tutte
le cose decadenti,
lievi e graziose cui
potevano essere
associati il ricordo o
la morale dell’odioso
Prinny, Giorgio Quarto.
Nessuno avrebbe
potuto trovare
antipatica zia Tranter
e era persino assurdo
prospettarsi l’ipotesi
di essere in collera
con quel viso che
sorrideva e parlava -
soprattutto parlava -
con tanta innocenza.
Aveva l’ottimismo
profondo delle zitelle
riuscite: la
solitudine, infatti,
quando non inacidisce,
insegna ad aver fiducia
in se stessi.
Zia Tranter aveva
cominciato con
l’adattarsi
mirabilmente alla
propria situazione; e
aveva finito per
mettere perfettamente a
suo agio anche il resto
del mondo.
Ernestina faceva
tuttavia del suo meglio
per arrabbiarsi con
lei: per
l’impossibilità di
pranzare alle cinque,
per la funebre mobilia
che soffocava le altre
stanze, per l’eccessiva
preoccupazione della
zia per il suo buon
nome (mai avrebbe
immaginato che due
futuri sposi potessero
voler star soli o
uscire da soli), e
soprattutto per il suo
forzato soggiorno a
Lyme.
La povera ragazza
aveva dovuto soffrire i
tormenti di tutti i
figli unici dall’inizio
dei tempi: cioè uno
schiacciante e
inesorabile baldacchino
di paterna e materna
sollecitudine.
Sin dalla nascita il
più piccolo colpo di
tosse faceva accorrere
i medici; sin dalla
pubertà, il più piccolo
capriccio convocava
sarti e arredatori; e
in ogni momento il più
piccolo corruccio
causava a papà e mamma
ore segrete di
recriminazioni.
Ora tutto andava
benissimo finché si
trattava di nuovi
vestiti o di nuovi
soprammobili, ma c’era
un argomento sul quale
le sue “bouderies” e le
sue lamentele erano del
tutto inefficaci.
Ed era la sua salute.
I genitori erano
convinti che soffrisse
di consunzione.
Bastava che
sentissero odore di
umido in una cantina
per cambiare casa e
bastavano due giorni di
pioggia durante una
vacanza per fare i
bagagli.
Mezza Harley Street
l’aveva visitata senza
trovare niente; non
aveva mai avuto una
malattia seria in vita
sua; non aveva certo la
letargia e la debolezza
cronica di quella
infermità.
Era in grado - o lo
sarebbe stata se glielo
avessero permesso - di
ballare tutta una notte
e di giocare al volano,
senza il minimo
inconveniente, la
mattina dopo.
Ma la sua capacità di
dissipare l’idea fissa
dei suoi adoranti
genitori era pari a
quella che ha un bimbo
di abbattere una
montagna.
Oh, se avessero
potuto leggere nel
futuro! Ernestina
infatti sopravvisse a
tutta la sua
generazione.
Nata nel 1846, morì
il giorno in cui Hitler
invase la Polonia.
Parte indispensabile
di queste precauzioni
del tutto superflue era
l’annuale soggiorno a
Lyme dalla sorella di
sua madre.
Di solito ci veniva
per riprendersi dalle
fatiche della stagione
mondana, ma quest’anno
vi era stata mandata un
po’ prima per
raccogliere le forze
alla vigilia del
matrimonio.
Le brezze della
Manica indubbiamente le
giovavano, ma quando
scendeva dalla carrozza
a Lyme era triste come
un prigioniero che
arriva in Siberia.
La buona società
locale era aggiornata
quanto gli ingombranti
mobili di mogano di zia
Tranter, e di svaghi,
per una signorina
avvezza a quanto di
meglio poteva offrire
Londra, ce n’era meno
di niente.
Perciò i suoi
rapporti con zia
Tranter erano quelli di
una ragazzina molto
vivace, di una
Giulietta inglese con
la sua nutrice dai
piedi piatti, e non
quelli che ci si
aspetterebbe tra nipote
e zia.
Di fatto, se
nell’inverno precedente
non fosse
provvidenzialmente
entrato in scena Romeo,
e non le avesse
promesso di spartire la
sua penale solitudine,
lei si sarebbe
ammutinata; o almeno
era quasi convinta che
lo avrebbe fatto.
Ernestina aveva
certamente una forza di
volontà superiore a
quella che le
permettevano le persone
che aveva attorno, e
superiore anche a
quella che autorizzava
la sua epoca.
Ma per fortuna aveva
anche un giusto
rispetto per le
convenzioni, e
condivideva con Charles
un senso di autoironia
che non era la ragione
meno importante
dell’attrazione che
avevano provato l’uno
per l’altra.
Senza questa, e senza
il suo senso
dell’umorismo, sarebbe
stata un’insopportabile
bambina viziata; e a
redimerla era
certamente il fatto che
spesso si apostrofava
proprio in questi
termini (“Ehi tu,
insopportabile bambina
viziata!”).
In camera sua quel
pomeriggio si sbottonò
il vestito e rimase
davanti allo specchio
in camicia e sottana.
Per qualche istante
si smarrì in
un’autocontemplazione
estremamente
narcisistica.
Il collo e le spalle
rendevano giustizia al
suo viso; era davvero
molto graziosa, una
delle ragazze più
graziose che lei
conosceva.
E, come per provarlo,
alzò le braccia e si
sciolse i capelli,
sapendo che era una
cosa vagamente
peccaminosa, e tuttavia
necessaria come un
bagno caldo o un letto
tiepido in una notte
d’inverno.
In un momento ancor
più peccaminoso
immaginò di essere una
creatura del vizio,
un’attrice o una
ballerina.
Ma a questo punto, se
voi foste stati lì a
guardare, avreste visto
qualcosa di molto
curioso.
Improvvisamente
infatti smise di
voltarsi e di ammirare
il proprio profilo e
levò bruscamente gli
occhi verso il
soffitto.
Le sue labbra si
mossero.
E s’affrettò ad
aprire uno dei
guardaroba e a
infilarsi un
“peignoir”.
Ciò che le era
passato per la mente -
poiché mentre
piroettava i suoi occhi
avevano casualmente
incontrato nello
specchio un angolo del
letto - era un’immagine
sessuale; una fantasia,
una sorta di
laocoontico
intrecciarsi appena
intravisto di arti
nudi.
A spaventarla non era
soltanto la sua
profonda ignoranza
delle realtà della
copulazione; ma quel
tanto di dolore e di
brutalità che l’atto
pareva richiedere, e
che sembrava smentire
la delicatezza dei
gesti e la discrezione
delle carezze
autorizzate che
l’avevano così attratta
in Charles.
Aveva assistito una
volta o due ad
accoppiamenti di
animali e la loro
violenza continuava a
ossessionarla.
Aveva pertanto
inventato una specie di
comandamento personale
- quelle impercettibili
parole erano
semplicemente “Non
devo” - per tutte
quelle occasioni nelle
quali le implicazioni
fisiche del suo corpo
di donna, sesso,
mestruazioni o parto,
cercavano di penetrare
di forza al livello
della sua
consapevolezza.
Ma si ha un bel
rinchiudere i lupi
fuori della porta: essi
continuano a ululare
nel buio.
Ernestina voleva un
marito, voleva che
questo marito fosse
Charles e voleva dei
figli; ma lo scotto che
intuiva confusamente di
dover pagare per
ottenere tutto questo
le sembrava eccessivo.
Si domandava a volte
come Dio potesse aver
permesso che una
versione così bestiale
del Dovere guastasse
un’aspirazione tanto
innocente.
Quasi tutte le donne
del suo tempo la
pensavano nella stessa
maniera, e quasi tutti
gli uomini.
Non stupisce quindi
che il dovere sia
diventato un concetto
chiave nella nostra
interpretazione
dell’epoca vittoriana…
o un tale guastafeste
nella nostra. (1)
Domati i lupi,
Ernestina s’accosto al
tavolino da toletta, ne
aprì un cassetto chiuso
a chiave e tirò fuori
il diario, legato in
marocchino nero con un
fermaglio d’oro.
Poi trasse da un
altro cassetto la
chiave che vi aveva
nascosta e lo aprì.
Passò subito
all’ultima pagina dove,
il giorno del
fidanzamento con
Charles, aveva copiato
tutto il calendario
sino alla data fissata
per il matrimonio.
Erano già state
tracciate delle linee
eleganti sui primi due
mesi e restava soltanto
una novantina di
numeri.
Ora Ernestina
estrasse dal diario la
matita con la punta
d’avorio e cancellò il
26 marzo.
Ne rimanevano ancora
nove ore, ma lei aveva
l’abitudine di
concedersi questo
piccolo imbroglio.
Poi tornò alle prime
pagine, o quasi, dato
che il diario le era
stato regalato per
Natale.
Dopo una quindicina
di fogli fitti fitti
c’era uno spazio vuoto
sul quale aveva
schiacciato un
ramoscello di
gelsomino.
Lo guardò un momento
e si chinò ad
annusarlo.
I suoi capelli
sciolti caddero sulla
pagina e i suoi occhi
si chiusero nel
tentativo di rievocare
ancora una volta il
giorno più delizioso,
quello in cui aveva
creduto di morire di
gioia e aveva pianto
all’infinito, il giorno
ineffabile…
Ma udi i passi di zia
Tranter sulle scale e
s’affrettò a mettere
via il diario per
cominciare a pettinarsi
i morbidi capelli
castani.

NOTE.
Nota 1.
Le stanze di “In
Memoriam” che ho citato
all’inizio di questo
capitolo sono a questo
proposito molto
significative.
In questa lirica (35)
è sicuramente svolta la
più strana di tutte le
strane argomentazioni
di questa celebre
antologia sull’ansia
per la vita
ultraterrena.
Sostenere che, senza
l’immortalità
dell’anima, Amore
poteva solo assumere
forma di satiro è
chiaramente una fuga
terrorizzata da Freud.
Il paradiso per i
vittoriani era tale
soprattutto perché ci
si lasciava dietro il
corpo, insieme con
l’Id.

6.
“Ah Maud, you
milkwhite fawn, you are
all unmeet for a wife”.
Tennyson, “Maud”
(1855).
“Oh Maud, tu
cerbiatta bianca come
il latte, tu sei del
tutto inadatta al ruolo
di moglie. [Nota del
Traduttore].
Il viso di Mistress
Poulteney, il
pomeriggio in cui il
vicario tornò indietro
a fare il suo annuncio,
esprimeva una totale
ignoranza.
E con signore del suo
tipo, un inefficace
appello alla memoria è
il più delle volte un
invito efficace alla
disapprovazione.
Il viso in sé si
adattava mirabilmente a
questo sentimento:
aveva occhi che non
erano per niente le
case di una muta
preghiera di cui
parlava Tennyson, e la
parte inferiore delle
guance, quasi una
pappagorgia, serrava le
labbra in un drastico
rifiuto di tutto ciò
che poteva minacciare i
suoi due principi
vitali, uno dei quali
(usando la sarcastica
formulazione di
Treitschke) era
“Civiltà è sapone” e
l’altro “Rispettabilità
è ciò che non mi dà
offesa”.
Assomigliava un poco
a un bianco pechinese,
più esattamente a un
pechinese impagliato
perché nascondeva in
seno un sacchetto di
canfora come
profilattico contro il
colera… e perciò,
ovunque andasse, c’era
sempre un delicato
effluvio di antitarme.
Non la conosco.
Il vicario si sentì
mortificato e si chiese
che cosa sarebbe
accaduto se il buon
samaritano, invece del
povero viandante,
avesse incontrato
Mistress Poulteney.
Non pensavo che la
conoscesse.
E’ una ragazza di
Charmouth.
Una ragazza? Ecco,
non so bene che età
abbia, è una donna, una
signora sui trent’anni.
Forse di più.
Non voglio azzardare
un’ipotesi.
Il vicario si rese
conto di aver
cominciato male la sua
arringa per l’imputata
contumace.
Ma è un caso assai
doloroso.
Del tutto meritevole
della sua carità.
Ha un’istruzione? Sì,
certo.
Ha studiato per
diventare governante.
Era una governante.
E adesso che cos’è?
Credo che sia
disoccupata.
Perché? E’ una lunga
storia.
Vorrei proprio
ascoltarla prima di
procedere.
Allora il vicario
tornò a sedersi e le
raccontò ciò che
sapeva, o meglio una
parte di ciò che sapeva
(perché nel coraggioso
tentativo di salvare
l’anima di Mistress
Poulteney aveva deciso
di mettere in pericolo
la propria), sul conto
di Sarah Woodruff.
Il padre era un
fittavolo di Lord
Meriton, nei pressi di
Beaminster.
Un semplice
agricoltore, ma anche
un uomo di ottimi
principi e assai
rispettato dai vicini.
Fu talmente saggio da
fornire alla figlia
un’istruzione superiore
a quella che ci si
sarebbe potuto
aspettare.
E’ deceduto? Alcuni
anni fa.
La ragazza divenne
governante della
famiglia del capitano
John Talbot di
Charmouth.
Le daranno una
lettera di referenze?
Cara Mistress
Poulteney, se non ho
male interpretato la
nostra conversazione
precedente, stiamo
parlando di un’opera di
carità e non di una
candidata a un impiego.
Ella chinò il capo,
ed era la massima
approssimazione a una
offerta di scuse cui
fosse mai riuscita ad
arrivare.
Comunque non dovrebbe
essere impossibile
ottenere delle
referenze.
La ragazza lasciò la
casa di propria
iniziativa.
Ed ecco che cosa
accadde.
Ricorderà il caso di
quel brigantino
francese salpato,
credo, da Saint-Malo -
che venne spinto a riva
sotto Stonebarrow
durante lo spaventoso
uragano dello scorso
dicembre.
E ricorderà anche,
senza dubbio, che tre
membri dell’equipaggio
furono salvati e
ospitati da persone di
Charmouth.
Due erano semplici
marinai.
Il terzo, mi si dice,
era un tenente.
Al primo urto gli si
era schiacciata una
gamba, ma riuscì ad
aggrapparsi a un albero
e l’acqua lo trascinò a
riva.
Ne avrà certamente
letto qualcosa.
E’ molto probabile.
Ma non mi piacciono i
francesi.
Il capitano Talbot,
essendo anche lui un
ufficiale di marina,
affidò molto
gentilmente alla
propria famiglia il
compito di curare il…
l’ufficiale
straniero.
Costui non parlava
inglese.
E Miss Woodruff venne
invitata a fargli da
interprete e a
provvedere alle sue
necessità.
Parla francese?
Davanti alla reazione
allarmata di Mistress
Poulteney a questa
spaventosa rivelazione,
il vicario per poco non
si sentì mancare, ma
riuscì ad inchinarsi ed
a sorridere
urbanamente.
Mia cara signora,
quasi tutte le
governanti lo parlano.
Non è colpa loro se
il mondo gli richiede
tali cognizioni.
Ma per tornare al
gentiluomo francese, mi
dispiace dire che non
meritava questo
appellativo.
Mister Forsythe! Si
raddrizzò, ma senza
esagerare, perché
temeva di ridurre al
silenzio quel
pover’uomo.
Voglio subito
aggiungere che a casa
del capitano Talbot non
accadde nulla di
sconveniente.
E, per quanto
concerne Miss Woodruff,
nemmeno in altri luoghi
o in altri momenti.
Su questo punto ho la
parola di Mister
Fursey-Harris, che
conosce i particolari
assai meglio di me.
La persona alla quale
alludeva era il vicario
di Charmouth.
Ma il francese riuscì
a conquistarsi
l’affetto di Miss
Woodruff.
E quando la sua gamba
guarì prese la
diligenza per Weymouth
dove intendeva, tale
almeno era l’opinione
generale, imbarcarsi
per tornare in patria.
Due giorni dopo la
sua partenza, Miss
Woodruff domandò a
Mistress Talbot, in
termini particolarmente
insistenti, il permesso
di lasciare il suo
posto.
Mi dicono che
Mistress Talbot cercò
di farsi spiegare le
ragioni di questo
comportamento.
Ma senza successo.
Se ne andò senza
preavviso? Il vicario
approfittò abilmente
dell’occasione.
Sono d’accordo con
lei: fu una cosa assai
sciocca.
Non avrebbe dovuto
agire così.
Non dubito che se
Miss Woodruff fosse
stata al servizio di
una persona più saggia,
questa triste storia
non si sarebbe mai
verificata.
Fece una pausa per
permettere a Mistress
Poulteney di cogliere
il suo implicito
complimento.
Per farla breve, Miss
Woodruff raggiunse il
francese a Weymouth.
Il suo comportamento
fu assai riprovevole,
ma mi risulta che andò
ad alloggiare a casa di
una cugina.
Ai miei occhi ciò non
è sufficiente a
scusarla.
No di certo.
Ma voglio ricordarle
che non è nata signora.
Le classi inferiori
non badano
scrupolosamente alle
apparenze come ci
badiamo noi.
Inoltre mi ero
dimenticato di dirle
che il francese aveva
impegnato la propria
parola.
Miss Woodruff dunque
partì per Weymouth
credendo di andare a
sposarsi.
Ma non era un
cattolico? Mistress
Poulteney si vedeva
come una pura Patmo in
un oceano di papisti.
Ho paura che il suo
comportamento dimostri
che non aveva alcuna
fede cristiana.
Ma indubbiamente le
raccontò di essere uno
dei nostri sventurati
correligionari in quel
traviato paese.
Qualche giorno dopo
egli tornò in Francia,
promettendo a Miss
Woodruff che, non
appena avesse rivisto
la famiglia e si fosse
trovato un’altra nave -
una delle sue tante
bugie era che al
ritorno lo avrebbero
promosso capitano -
sarebbe tornato qui,
proprio a Lyme, per
sposarla e portarsela
via.
Da allora essa ha
continuato ad
aspettare.
L’uomo era senza
dubbio un vile
ingannatore.
A Weymouth sperava
evidentemente di
compiere qualche
abominio su quella
povera creatura.
E quando i saldi
principi cristiani di
Miss Woodruff gli
rivelarono la futilità
dei suoi propositi,
s’affrettò a
imbarcarsi.
E poi cosa le è
successo? Non se la
sarà ripresa Mistress
Talbot? Signora,
Mistress Talbot è una
dama piuttosto
eccentrica.
Si offrì di
riassumerla.
Ma adesso devo
esporle le dolorose
conseguenze di questa
storia.
Miss Woodruff non è
pazza.
Tutt’altro.
E’ perfettamente in
grado di svolgere
qualsiasi compito si
voglia affidarle.
Ma soffre di gravi
crisi di melanconia, in
parte dovute
indubbiamente al
rimorso.
Ma anche, temo, alla
fissazione che il
tenente sia un uomo
d’onore e finisca un
giorno per tornare da
lei.
Per questa ragione la
si può spesso vedere
bazzicare nei pressi
del porto della nostra
città.
Mister Fursey-Harris
si è seriamente
sforzato di spiegarle
l’inutilità, per non
dire la sconvenienza,
di questo
comportamento.
Ma, signora, se
vogliamo esprimerci in
termini non troppo
raffinati, questa Miss
Woodruff è un po’
suonata.
Ci fu una pausa.
Il vicario si affidò
a un dio pagano, quello
della fortuna.
Intuiva che Mistress
Poulteney stava
calcolando.
L’opinione che aveva
di se stessa esigeva
che si mostrasse
scandalizzata e
allarmata alla sola
idea di introdurre a
Marlborough House una
simile creatura.
Ma bisognava fare i
conti anche con Dio.
Ha parenti? Non mi
risulta.
Come ha vissuto da
quando…
Assai miseramente.
Mi dicono che abbia
fatto qualche lavoro di
cucito.
Cose che le aveva
affidato Mistress
Talbot.
Ma si è mantenuta
soprattutto con i
risparmi fatti nel suo
impiego precedente.
Ha dunque
risparmiato.
Il vicario tornò a
respirare.
Se lei l’accoglierà,
signora, penso che
potrà veramente
salvarsi.
E a questo punto
giocò il suo “atout”.
E forse, benché non
spetti a me ergermi a
giudice della sua
coscienza, potrà a sua
volta salvare.
Mistress Poulteney
ebbe improvvisamente
una visione inebriante
e paradisiaca: quella
di Lady Cotton con un
palmo del suo santo
naso.
Si accigliò e abbassò
gli occhi sullo spesso
tappeto.
Mi piacerebbe che
Mister Fursey-Harris
venisse a farmi visita.

Una settimana dopo


egli venne a farle
visita, accompagnato
dal vicario di Lyme,
sorseggiò del madera e
raccontò - e omise -
seguendo i consigli del
suo collega
ecclesiastico.
Mistress Talbot fornì
un’interminabile
lettera di referenze
che fece più male che
bene perché trascurava
scandalosamente di
condannare il
comportamento della
governante.
Una frase in
particolare irritò
molto Mistress
Poulteney: “Monsieur
Varguennes era persona
di notevole fascino e
il capitano Talbot
vuole che io le ricordi
che la vita del
marinaio non è certo la
migliore scuola di
morale”.
Non le interessava
neanche che Miss Sarah
fosse “un’insegnante
abile e coscienziosa” o
che “i miei bambini
hanno molto sentito la
sua mancanza”.
Ma l’evidente
rilassatezza morale di
Mistress Talbot e il
suo sciocco
sentimentalismo
finirono col giovare a
Sarah agli occhi di
Mistress Poulteney:
costituivano una sfida.
Così Sarah venne per
un colloquio,
accompagnata dal
vicario.
E sin dal primo
momento Mistress
Poulteney ne fu
segretamente
soddisfatta perché
appariva così
abbattuta, così
annientata dalle
circostanze.
Era vero che
dimostrava in modo
sospetto gli anni che
effettivamente aveva,
più vicini ai
venticinque che ai
“trenta o forse più”.
Ma c’era il suo
dolore sin troppo
evidente che additava
in lei una peccatrice,
e Mistress Poulteney
non voleva avere nulla
a che fare con chi non
dimostrasse chiaramente
di appartenere a questa
categoria.
C’era anche un
riserbo che Mistress
Poulteney decise di
interpretare come muta
gratitudine.
La vecchia signora,
ricordando i tanti
domestici che si erano
congedati da lei in
passato, detestava
soprattutto
l’impertinenza e la
prontezza eccessiva,
termini che secondo la
sua esperienza
equivalevano
rispettivamente al
parlare senza essere
stati interrogati e al
prevenire le sue
richieste, il che le
sottraeva il piacere di
protestare perché non
erano state prevenute.
Poi, su suggerimento
del vicario, le dettò
una lettera.
La scrittura era
ottima e l’ortografia
impeccabile.
La sottopose anche a
una prova più sottile.
Le passò la sua
Bibbia e la fece
leggere.
Mistress Poulteney
aveva riflettuto un
poco sulla scelta del
brano ed era stata
dolorosamente
combattuta tra il Salmo
119 (“Beati i puri”) e
il 140 (Liberami, o
Signore, dall’uomo
malvagio”).
Ma aveva finito per
scegliere il primo e
ora non soltanto
ascoltava la voce che
leggeva, ma stava
all’erta in attesa di
un qualunque segno atto
a indicare che la
lettrice non prendesse
molto a cuore le parole
del salmista.
La voce di Sarah era
ferma e piuttosto
profonda.
Conservava tracce di
cadenza campagnola, ma
a quell’epoca l’accento
signorile non era
quella grande
discriminante sociale
che divenne in seguito.
C’erano membri della
Camera dei Lord, e
persino duchi, che
parlavano con un vago
accento della loro
provincia, e non per
questo erano stimati di
meno.
Forse per contrasto
con il prosaico
incespicare di Mistress
Fairley, la voce
piacque subito a
Mistress Poulteney.
E finì per
incantarla, come la
incantò l’atteggiamento
della ragazza nel
leggere: “Oh siano le
mie vie dirette
all’osservanza dei tuoi
statuti!”.
Restava da rivolgerle
una breve domanda:
Mister Forsythe
m’informa che lei
conserva una certa
affezione per quella
persona straniera.
Non ho intenzione di
parlarne, signora.
Ora se una qualunque
cameriera avesse osato
dire una cosa simile a
Mistress Poulteney, ne
sarebbe seguito il
“Dies Irae”.
Ma Sarah pronunciò
questa frase
apertamente, senza
timore ma anche con
rispetto; e una volta
tanto Mistress
Poulteney si lasciò
sfuggire un’occasione
d’oro per tiranneggiare
una dipendente.
Non voglio libri
francesi in casa mia.
Non ne posseggo.
E neanche inglesi,
signora.
Non ne possedeva
alcuno, voglio
precisare, perché li
aveva venduti tutti, e
non perché fosse una
lontana precorritrice
di McLuhan.
Avrà almeno una
Bibbia? La ragazza
scosse il capo.
Intervenne il
vicario: Provvederò io
a questo, cara Mistress
Poulteney.
Mi risulta che lei
segue costantemente le
sacre funzioni.
Sì signora.
Continui così.
Dio ci consola in
ogni avversità.
Cerco di avere la sua
stessa fede, signora.
Mistress Poulteney
pose allora la domanda
più difficile, quella
che di fatto il vicario
le aveva chiesto di non
porre.
E se… quella persona
tornasse? Ma ancora una
volta Sarah scelse la
miglior risposta
possibile: non disse
nulla.
Si limitò a chinare
il capo e a scuoterlo.
E Mistress Poulteney,
di umore sempre più
benevolo, considerò
questo un segno di muto
pentimento.
In tal modo iniziò la
sua buona azione.
Non aveva pensato
ovviamente di chiedere
perché Sarah, dopo aver
rifiutato offerte di
lavoro da anime meno
rigidamente cristiane
di Mistress Poulteney,
avesse accettato di
venire a casa sua.
C’erano due motivi
semplicissimi.
Il primo che da
Marlborough House si
godeva una splendida
vista di Lyme Bay.
Il secondo era ancora
più semplice.
A Sarah rimanevano in
tutto esattamente sette
pence.

7.
“La straordinaria
produttività
dell’industria moderna…
permette l’impiego
improduttivo di una
parte sempre più grande
della classe operaia, e
il conseguente
riprodursi, in
proporzioni
costantemente maggiori,
degli antichi schiavi
sotto il nome di una
classe servile
comprendente domestici,
domestiche, lacchè,
eccetera”.
Marx, “Il Capitale”
(1867).
Quando Sam tirò le
tendine, la luce del
mattino inondò Charles
nella stessa misura in
cui Mistress Poulteney
- ancora rumorosamente
addormentata - avrebbe
voluto essere inondata
dalla luce del paradiso
al momento della morte,
dopo una pausa
appropriatamente
solenne.
Una dozzina di volte
all’anno il mite clima
della costa del Dorset
produceva giornate come
queste, che non erano
soltanto giornate
piacevolmente miti
fuori stagione, ma
incantevoli frammenti
del tepore e della
luminosità del
Mediterraneo.
In queste occasioni
la natura sembra
impazzire un poco.
I ragni che
dovrebbero essere in
ibernazione corrono
sulle rocce arrostite
dal sole di novembre, i
merli cantano in
dicembre, le primule
s’affrettano a
sbocciare in gennaio e
marzo imita giugno.
Charles si rizzò a
sedere, si strappò dal
capo il berretto da
notte, ordinò a Sam di
spalancare le finestre
e, sostenendosi su
entrambe le mani, fissò
la luce del sole che
affluiva nella stanza.
La lieve melanconia
che lo aveva oppresso
il giorno prima era
stata soffiata via
insieme con le nubi.
Sentì l’aria tiepida
della primavera
accarezzargli la gola
nuda attraverso la
camicia da notte
semiaperta.
Sam stava affilando
il rasoio e dalla
brocca di rame che
aveva portato si levava
invitante il vapore con
una forza evocativa di
tipo proustiano: tanti
giorni felici, tanta
certezza della propria
posizione e ordine,
calma e civiltà.
Da basso, sulla
strada acciottolata, un
cavaliere zoccolava
placidamente verso il
mare.
Una brezza lievemente
più ardita agitava le
logore tende di velluto
rosso alla finestra, ma
in quella luce
sembravano belle anche
loro.
Tutto andava a
meraviglia.
Il mondo sarebbe
stato sempre così, e
come in questo momento.
Ci fu trapestio di
piccoli zoccoli
accompagnato da una
serie di belati
irrequieti.
Charles si alzò e si
affacciò alla finestra.
Di fronte stavano
chiacchierando due
vecchi che indossavano
delle tuniche
pieghettate.
Uno era un pastore
appoggiato al suo
bastone.
Dodici pecore e un
numero ancor maggiore
di agnelli sostavano
nervosamente in mezzo
alla strada.
Nel 1867 questi
relitti folcloristici
di un’Inghilterra più
antica erano ormai
divenuti pittoreschi,
ma non rari: in ogni
villaggio c’era almeno
una dozzina di anziani
in tunica.
Charles avrebbe
voluto saper disegnare.
La campagna era
davvero incantevole.
Si voltò verso il suo
servo.
Parola d’onore, Sam,
in una giornata come
questa mi verrebbe
voglia di non mettere
più piede a Londra.
Se continua a stare
nella corrente,
signore, non ce lo
meterà mica.
Il padrone gli gettò
una rapida occhiata.
Lui e Sam stavano
insieme da quattro anni
e si conoscevano meglio
che non i membri di
molte coppie legate da
rapporti teoricamente
più intimi.
Sam, tu hai di nuovo
bevuto.
No, signore.
La nuova camera è
migliore? Sì, signore.
E la sala comune?
Molto acetabile,
signore. “Quod est
demonstrandum”.
Sei di malumore in
una mattina che farebbe
venir voglia di cantare
a un avaro. “Ergo” hai
bevuto.
Sam saggiò la lama di
quell’affilatissimo
rasoio sull’orlo del
pollice, con
un’espressione tale da
suggerire che da un
momento all’altro
avrebbe potuto cambiare
idea e provarlo sulla
propria gola, o forse
anche su quella del suo
sorridente padrone.
E’ tuta colpa di
quela ragaza che lavora
nella cucina di
Mistress Tranter,
signore.
Fammi il piacere di
posare quell’aggeggio e
di spiegarti.
Io la vedo.
Proprio lì.
Indicò con il pollice
la finestra.
Dal’altra parte della
strada che grida.
E cosa grida? Il viso
di Sam si abbuiò
ulteriormente per
l’ormai prossimo
oltraggio.
“Ci ha mica un saco
di fuligine? Una pausa
dolente e poi: Signore.
Charles sogghignò.
Conosco la ragazza.
E’ quella vestita di
grigio? Così brutta a
vedersi? Non era
gentile da parte sua,
dal momento che si
riferiva a una persona
davanti alla quale si
era tolto il cappello
il pomeriggio del
giorno prima, una
piccola creatura tra le
più maritabili che Lyme
potesse vantare.
Bruta mica tanto.
Almeno a vederla.
Ah, ah.
Cupido dunque è
ingiusto con i cockney.
Sam gli gettò
un’occhiata sdegnata.
Quela non la tocherei
neanche con un remo! E’
una maledeta vacara!
Sam, tu puoi anche
essere nato, come così
spesso asserisci, in
una bettola…
Vicino, signore.
MOLTO vicino a una
bettola, ma io non ti
permetto di usare un
simile linguaggio in
una giornata come
questa.
E’ per l’umiliazione,
signore.
Han sentito tutti gli
stalieri.
Ma poiché “tutti gli
stalieri” erano
esattamente due, uno
dei quali sordo come
una campana, Charles
non mostrò molta
comprensione.
Sorrise, poi fece
cenno a Sam di versare
l’acqua calda.
E adesso fa’ il bravo
e preparami la
colazione.
Stamattina mi rado da
solo.
E fammi trovare una
doppia dose di
“muffin”.
Si, signore.
Ma Charles bloccò
l’irritato Sam sulla
soglia puntando il
pennello contro di lui.
Queste ragazze di
campagna sono troppo
timide per dire cose
tanto villane a un
distinto gentiluomo
londinese, a meno che
non siano state
gravemente provocate.
Sospetto seriamente,
Sam, che tu ti sia
comportato come un
libertino.
Sam rimase a
guardarlo con la bocca
aperta.
E ora se non ti
sbrighi a prepararmi la
colazione, lascerò
l’impronta del mio
stivale sulla porzione
posteriore del la tua
miserabile anatomia.
A questo punto la
porta si chiuse senza
eccessiva delicatezza.
Charles si strizzò
l’occhio allo specchio.
E improvvisamente
aggiunse un decennio al
proprio viso, divenuto
tutto gravità, da
giovane e solenne
paterfamilias.
Poi sorrise con
indulgenza alle sue
facce e alla sua
euforia e si dedicò a
una ponderata
affettuosa
contemplazione dei
propri lineamenti.
Che erano veramente
regolari: fronte ampia
e baffi neri come i
capelli, ora arruffati
per la rimozione del
berretto da notte, che
lo facevano apparire
più giovane.
La sua pelle era
convenientemente
pallida, ma meno di
quella di molti
gentiluomini londinesi,
perché quella era
un’epoca nella quale
un’abbronzatura non era
per niente un ambito
“status symbol” sociale
e sessuale, ma al
contrario un segno di
basso rango.Tuttavia, a
guardarlo bene, era in
quel momento un viso
leggermente sciocco.
Gli piombò addosso un
minuscolo residuo
dell‘“ennui” del giorno
prima.
Un viso troppo
innocente, una volta
privato della maschera
ufficiale indossata per
le sue uscite; troppo
poco compiuto.
In fondo c’erano
soltanto il naso dorico
e i freddi occhi grigi.
Comunque aveva
evidentemente buone
maniere e conoscenza di
sé.
Incominciò a coprire
quel viso ambiguo di
schiuma.
Sam aveva una decina
d’anni meno di lui;
troppo giovane per
essere un buon
domestico, per di più
distratto, litigioso,
vanitoso e convinto
della propria
intelligenza; troppo
proclive a oziare e a
fare il buffone, a
starsene tranquillo con
un filo di paglia o un
ramoscello di
prezzemolo nell’angolo
della bocca; a recitar
la parte
dell’intenditore di
cavalli o a cogliere
passeri sotto una rete
quando lo chiamavano a
gran voce da sopra. A
noi naturalmente un
servo cockney di nome
Sam fa subito pensare
all’immortale Weller; e
certo il nostro Sam
aveva le stesse radici.
Ma erano trascorsi
trenta anni da quando
“Il circolo Pickwick”
aveva cominciato a
risplendere nel mondo.
L’amore di Sam per
gli equini non era in
realtà molto profondo.
Egli assomigliava
piuttosto a un moderno
membro della classe
lavoratrice il quale
considera una profonda
competenza in fatto di
auto un indice del
proprio progresso
sociale.
Conosceva persino
l’esistenza di Sam
Weller, non per il
libro ma per una sua
versione scenica; e
sapeva che i tempi
erano cambiati.
I cockney della sua
generazione erano un
tantino più avanti, e
se lui frequentava le
stalle lo faceva
soprattutto per
mostrare questo
progresso a stallieri e
mozzi.
Alla metà del secolo
era apparsa in
Inghilterra un tipo del
tutto nuovo di dandy:
quelli dell’antica
specie aristocratica,
sbiaditi discendenti di
Lord Brummel, venivano
chiamati “swells”, ma
sul piano dell’eleganza
dovevano affrontare la
concorrenza dei giovani
artigiani di successo e
dei domestici con
qualche pretesa come
appunto Sam.
Erano stati gli
stessi “swells” a
chiamarli “snob” e Sam
era un buon esempio di
snob in questa
particolarissima
accezione del termine.
Aveva un acutissimo
intuito per quanto
riguardava la maniera
di vestirsi, quasi come
un “mod” dei nostri
anni sessanta, e
spendeva gran parte del
suo salario per seguire
la moda.
Un altro segno del
suo recente passaggio
di classe era la lotta
per diventare veramente
padrone della lingua.
Nel 1870 la famosa
incapacità di Sam
Weller di pronunciare
la v se non come w,
caratteristica secolare
del popolano londinese,
era ormai spregiata
dagli snob quanto dai
romanzieri borghesi che
pure continuavano per
qualche tempo, con
singolare imprecisione,
a inserirla nei
dialoghi dei loro
personaggi cockney.
Gli snob si battevano
soprattutto con le
aspirate, in una lotta
accanita che, nel caso
del nostro Sam, si
concludeva più spesso
con una sconfitta che
con una vittoria. (1)
Ma in realtà questi
errori non erano per
niente comici; erano il
segno di una
rivoluzione sociale,
anche se Charles non se
ne rendeva conto.
Forse perché Sam
forniva qualcosa di
assolutamente
necessario alla sua
vita, un’occasione
quotidiana per
conversare, nello
spirito degli anni
della scuola, e
soddisfare il suo
deplorevole gusto per
le facezie e le
allusioni elaborate
secondo un umorismo
fondato, con una
evidenza singolarmente
repellente, sui
privilegi
dell’istruzione.
Tuttavia, benché si
possa avere
l’impressione che
l’atteggiamento di
Charles aggiungesse
l’insulto al sopruso
già clamoroso dello
sfruttamento economico,
devo far notare che i
suoi rapporti con Sam
mostravano una sorta di
affetto, un vincolo
umano, decisamente
preferibile alla
frigida barriera che
tanti nuovi ricchi, in
un’epoca inzuppata di
nuove ricchezze,
stavano allora erigendo
tra se stessi e i
propri domestici.
Certo Charles aveva
alle spalle parecchie
generazioni di persone
avvezze a trattare con
i servi, e i nuovi
ricchi no, spesso anzi
erano essi stessi figli
di servi.
Non avrebbe potuto
concepire un mondo
senza servitù.
I nuovi ricchi sì, e
ciò li portava ad avere
esigenze molto più dure
nella loro nuova
posizione.
Cercavano cioè di
trasformare i loro
servi in macchine,
mentre Charles sapeva
benissimo che erano
anche in parte dei
compagni, dei Sancio
Panza che fornivano gli
intermezzi farseschi
atti ad alleviare il
suo culto spirituale
per Ernestina-Dulcinea.
Si teneva Sam,
insomma, perché spesso
lo divertiva, e non
perché non si trovavano
in commercio “macchine”
migliori.
Ma la differenza tra
Sam Weller e Sam Farrow
(cioè tra il 1836 e il
1867) era questa: il
primo era soddisfatto
della sua posizione, il
secondo ne soffriva.
Weller avrebbe
risposto al sacco di
fuliggine con vivaci
invettive verbali.
Sam si era
irrigidito, aveva
corrugato le ciglia e
si era allontanato.

NOTE. Nota 1.
Arbitrariamente nella
traduzione si è
sostituita alla
difficoltà con le
aspirate, impossibile a
rendersi in italiano,
quella con le doppie.
[Nota del Traduttore].

8.
“There rolls the deep
where grew the tree.
O earth, what changes
hast thou seen! There
where the long street
roars, hath been The
stillness of the
central sea.
The hills are
shadows, and they flow
From form to form, and
nothing stands; They
melt like mist, the
solid lands, Like
clouds they shape
themselves and go”.
Tennyson, “In
Memoriam” (1850).
“Fluttua il mare là
dove crebbe l’albero. /
O terra, quanti
cambiamenti hai veduto!
/ Là dove la lunga via
strepita, regnò / La
quiete dell’alto mare.
// I monti sono ombre e
mutano / Da forma a
forma, niente permane;
/ Si fondono come
nebbia le solide terre,
/ Come nubi si formano
e scompaiono.
[Traduzione citata;
Nota del Traduttore].
“Ma se al giorno
d’oggi volete non fare
nulla ed essere
egualmente
rispettabili, il
pretesto migliore è
dire che state
lavorando a qualche
profondo studio”.
Leslie Stephen,”
Sketches from
Cambridge” (1865).

Quella di Sam non era


la sola faccia buia che
ci fosse a Lyme quel
mattino.
Ernestina si era
svegliata di un umore
che le brillanti
promesse della giornata
erano soltanto riuscite
a peggiorare.
Si trattava di un
disturbo abituale, ma
non poteva
assolutamente
infliggerne le
conseguenze a Charles.
Perciò quando egli si
presentò
coscienziosamente alle
dieci a casa di zia
Tranter, trovò ad
accoglierlo soltanto la
signora: Ernestina
aveva trascorso una
notte leggermente
agitata e preferiva
riposare.
Non poteva tornare a
prendere il tè nel
pomeriggio quando lei
si sarebbe certamente
ripresa? Dopo che le
sue premurose domande -
non era meglio chiamare
un medico? - ottennero
risposte cortesemente
negative, Charles prese
congedo.
E una volta ordinato
a Sam di acquistare
quanti più fiori poteva
e di portarli alla casa
dell’incantevole
inferma, con il
permesso e il consiglio
di donarne un paio alla
signorina così avversa
alla fuliggine,
offrendogli a
risarcimento di questa
lieve incombenza
l’intera giornata
libera (non tutti i
datori di lavoro
vittoriani furono
direttamente
responsabili del
comunismo), Charles si
trovò davanti un certo
numero di ore da
riempire.
La scelta non era
difficile: egli sarebbe
ovviamente andato
ovunque glielo avesse
imposto la salute di
Ernestina, ma bisogna
riconoscere che il
fatto che la meta fosse
Lyme Regis aveva reso
deliziosamente
sopportabili i suoi
doveri pre-coniugali.
Stonebarrow, Black
Ven o Ware Cliffs sono
nomi che per voi magari
significano poco. Ma
Lyme è situata proprio
al centro di uno dei
rari affioramenti di
una pietra, la lias
blu, che al semplice
fanatico dei paesaggi
non presenta molte
attrattive.
Di un colore grigio
eccessivamente smorto e
di una struttura tipo
fango pietrificato, è
assai più repellente
che pittoresca.
E’ anche traditrice,
perché i suoi strati
sono friabili e tendono
a franare, con il
risultato che nel corso
della storia questa
dozzina di miglia di
lias blu ha ceduto al
mare più terra che
qualsiasi altro tratto
equivalente in
Inghilterra.
Ma il suo carattere
estremamente
fossilifero e la sua
mobilità ne fanno una
Mecca per il
paleontologo
britannico.
In questi ultimi
cento anni l’animale
più comune su queste
spiagge è stato l’uomo,
con in mano un martello
da geologo.
Charles aveva già
visitato quello che
allora era forse il più
famoso negozio di Lyme,
l’Old Fossil Shop,
fondato da quel
personaggio singolare
che fu Mary Anning, una
donna priva di
istruzione regolare ma
un genio nello scoprire
buoni esemplari, il più
delle volte non ancora
classificati.
Fu la prima persona a
vedere gli ossi
dell‘“Ichtyosaurus
platyodon”; e una delle
più deplorevoli
vergogne della
paleontologica
britannica è che,
benché molti scienziati
dell’epoca avessero
approfittato dei suoi
reperti per crearsi una
fama, nessun fossile
locale porta
l‘“anningii” specifico.
Charles aveva già
reso omaggio a questa
illustre gloria locale,
e portando quattrini
per acquistare ammoniti
e “isocrina” che
desiderava per le
vetrinette del suo
studio londinese.
Ebbe tuttavia una
delusione, perché in
questo periodo si stava
specializzando in un
ramo di cui l’Old
Fossil Shop aveva in
vendita pochi
esemplari.
Il suo campo era
quello degli
echinodermi
pietrificati, che sono
anche chiamati testi
(dal latino “testa”,
che significa tegola o
vaso di terra) o, dagli
americani, dollari di
sabbia.
I testi possono avere
forme diverse, ma sono
sempre perfettamente
simmetrici e hanno in
comune delle delicate
decorazioni circolari.
A parte il loro
valore scientifico (una
serie verticale
raccolta a Beachy Head
poco dopo il 1860 fornì
una delle prime
conferme sicure della
teoria
evoluzionistica), sono
degli oggettini assai
belli, e hanno in più
il fascino delle cose
difficili da trovare.
Potete anche cercare
per giorni senza mai
incontrarne uno, e una
mattina in cui ne
trovate due o tre è
veramente degna di
memoria.
Forse inconsciamente
era proprio questo che
attirava Charles,
dilettante nato e uomo
con tanto tempo a
disposizione; aveva
però naturalmente anche
motivi scientifici e,
come tutti coloro che
condividevano lo stesso
hobby, era pronto ad
affermare indignato che
gli echinodermi erano
stati “vergognosamente
trascurati”,
giustificazione
abituale per chi dedica
troppo tempo a un
settore troppo
limitato.
Qualunque fossero i
suoi motivi, aveva
comunque messo il cuore
sui testi.
Ora i testi non si
trovano tra le lias
blu, ma in strati
sovrapposti di selce, e
il direttore dell’Old
Fossil Shop gli aveva
consigliato di svolgere
le sue ricerche a ovest
della cittadina, e non
necessariamente sulla
spiaggia.
Così, mezz’ora dopo
la visita a casa
Tranter, Charles era
tornato al Cobb.
Quel giorno il gran
molo era tutt’altro che
deserto.
C’erano pescatori che
incatramavano le
barche, rammendavano le
reti e riparavano i
vasi per i granchi e le
aragoste.
C’erano persone di
classe più elevata,
turisti fuori stagione
o gente del posto, che
passeggiavano lungo il
mare ancora ingrossato
ma ormai calmo.
Della donna con lo
sguardo fisso
all’orizzonte, notò,
non c’era traccia.
Ma non si soffermò a
pensare a lei o al Cobb
e s’avviò deciso, a
passi rapidi ed
elastici assai diversi
da quelli del suo
consueto languido
gironzolare per le vie
cittadine, verso la
propria meta
percorrendo la spiaggia
sotto i Ware Cleeves.
Vi avrebbe fatto
sorridere la cura con
la quale si era
attrezzato per questa
escursione.
Portava scarponi
chiodati e ghette di
tela che salivano a
cingere completamente
delle pesanti brache
alla zuava di flanella.
Ad esse
s’accompagnavano una
giacca aderente e
assurdamente lunga; un
cappello di tela
floscio ad ala larga di
un vago color beige; un
massiccio bastone di
frassino che si era
comprato prima di
arrivare al Cobb; e un
voluminoso zaino nel
quale avreste potuto
trovare un pesantissimo
campionario di
martelli, carta da
imballo, taccuini,
scatolette di pillole,
asce e il cielo sa
quali altre cose.
Per noi non c’è
niente che sia
incomprensibile quanto
la metodicità dei
vittoriani; la si vede
nella sua espressione
migliore (e più
ridicola) nei consigli
generosamente elargiti
ai viaggiatori dalle
prime edizioni dei
Baedeker.
C’è da chiedersi
quale spazio restasse
loro per divertirsi.
E nel caso di
Charles, come non
poteva non capire che
indumenti leggeri
sarebbero stati più
confortevoli? Che un
cappello non era
necessario? Che gli
scarponi chiodati erano
adatti a una spiaggia
cosparsa di ciottoli
come pattini da
ghiaccio? Be’, noi
ridiamo.
Ma forse c’è qualcosa
di ammirevole in questa
dissociazione tra le
cose più confortevoli e
quelle più
raccomandate.
Abbiamo di fronte
ancora una volta questo
pomo della discordia
tra i due secoli: è il
dovere (1) a guidarci o
no? Se consideriamo
questa ossessione di
vestirsi secondo il
personaggio, di tenersi
pronti ad ogni
eventualità, puramente
come esempio di
stupidità o
insensibilità alle cose
empiriche, commettiamo,
mi pare, un grave, o
meglio frivolo, errore
di giudizio sui nostri
antenati; in quanto
furono proprio uomini
non molto diversi da
Charles, imbacuccati e
superequipaggiati come
lo era lui quel giorno,
a gettare le basi della
nostra scienza moderna.
La loro follia in
questo settore era
soltanto un sintomo
della loro serietà in
un settore molto più
importante.
Essi intuivano che le
spiegazioni del mondo
allora comunemente
accettate erano
insufficienti, in
quanto avevano permesso
che le finestre sulla
realtà venissero
appannate dalla
convenzione, dalla
religione e dal
ristagno sociale;
sapevano, insomma, che
c’erano cose da
scoprire e che la loro
scoperta avrebbe avuto
un’estrema importanza
per il futuro
dell’uomo.
Noi tutti (se non
viviamo in un
laboratorio di ricerca)
pensiamo che non ci sia
più nulla da scoprire e
che per noi la sola
cosa estremamente
importante sia il
presente dell’uomo.
Tanto meglio per noi?
Forse.
Ma non siamo i soli
cui toccherà il compito
di dare un giudizio
definitivo.
Io quindi non avrei
avuto un’eccessiva
voglia di ridere quando
quel giorno Charles,
martellando, chinandosi
ed esaminando a poco a
poco l’intera spiaggia,
tentò per la decima
volta di superare uno
spazio eccessivo tra
due massi e scivolò
ignominiosamente sulla
schiena.
Egli del resto non se
la prese molto, perché
la giornata era bella,
i fossili liassici
abbondanti e la sua
solitudine totale.
Il mare scintillava e
i chiurli stridevano.
Gli volò davanti uno
stormo di ostricai,
neri, bianchi e rossi
corallini, ad
annunciare il suo
arrivo.
Ogni tanto incontrava
seducenti pozze tra le
rocce, e spaventose
eresie attraversavano
il suo povero cervello:
non sarebbe stato più
divertente, anzi no,
scientificamente più
valido, occuparsi di
biologia marina? Magari
abbandonare Londra e
stabilirsi a Lyme…
Ma Ernestina non lo
avrebbe mai permesso.
Venne poi il momento,
e mi fa piacere dirlo,
un momento
profondamente umano,
nel quale Charles si
guardò attorno con
circospezione, si
assicurò di essere
completamente solo e
poi si tolse con cura
scarponi, ghette e
calze.
Un momento da
scolaretto, e cercò di
ricordare un verso di
Omero che ne avrebbe
fatto un momento
classico, ma venne
distratto dalla
necessità di cogliere
un granchiolino che si
era tuffato nel punto
in cui la gigantesca
ombra subacquea cadeva
sui suoi occhi vigili.
Se potete disprezzare
Charles per il
sovraccarico del suo
equipaggiamento, lo
disprezzate forse anche
per la sua mancanza di
specializzazione.Ma
dovete tener presente
che il termine storia
naturale non aveva il
senso peggiorativo che
ha oggi di fuga dalla
realtà e troppo spesso
di rifugio nel
sentimentalismo.
Charles era anche un
buon ornitologo e un
buon botanico.
Sarebbe forse stato
meglio se avesse chiuso
gli occhi davanti a
tutto ciò che non era
echinodermi fossili o
avesse dedicato la vita
alla distribuzione
delle alghe, ammesso
che a noi interessi
proprio il progresso
scientifico.
Ma pensate a Darwin,
a “The Voyage of the
Beagle”. “L’origine
della specie” è un
trionfo della
generalizzazione, non
della specializzazione;
e anche se poteste
dimostrarmi che
quest’ultima sarebbe
convenuta maggiormente
a Charles, scienziato
non molto dotato, io
sosterrei egualmente
che la prima era meglio
per Charles essere
umano.
I dilettanti non
possono permettersi di
occuparsi di tutto, ma
dovrebbero farlo e
mandare al diavolo
quelle vestali della
scienza che tentano di
rinchiuderli in qualche
ristretta “oubliette”.
Charles si definiva
un darwinista, ma non
aveva mai capito
Darwin.
Vero è che sino
allora neanche Darwin
aveva capito se stesso.
Ciò che quel genio
aveva buttato all’aria
era la “Scala naturae”
di Linneo, la cui
pietra angolare,
essenziale quanto la
divinità di Cristo
nella teologia, era il
principio nulla
“species nova”: non può
apparire nel mondo una
nuova specie.
Questo principio
spiega la mania di
Linneo di classificare,
dare un nome e
fossilizzare quanto già
esisteva.
Oggi possiamo
considerarlo un
tentativo, condannato
in partenza, di fissare
e stabilire quello che
in realtà è un flusso
continuo, e sembra
perfettamente logico
che lo stesso Linneo
sia impazzito; egli
sapeva di essere in un
labirinto ma non che le
pareti e i corridoi
avrebbero continuato a
cambiare per
l’eternità.
Nemmeno Darwin si
sbarazzò del tutto di
queste pastoie svedesi,
e quindi non si può far
gran colpa a Charles
dei pensieri che
attraversavano la sua
mente mentre levava gli
occhi verso gli strati
di lias sulle scogliere
sovrastanti.
Egli sapeva che
“nulla species nova”
era una stupidaggine,
ma vedeva in quegli
strati un ordine
dell’esistenza
immensamente
rassicurante.
Avrebbe forse potuto
scorgere un simbolo
sociale eminentemente
contemporaneo nella
maniera in cui quelle
sporgenze grigio-
azzurre si stavano
sfaldando; ma ciò che
soprattutto vedeva era
una sorta di solida
permanenza del tempo,
nel quale leggi
inesorabili (e quindi
beneficamente divine,
perché chi poteva
sostenere che l’ordine
non fosse il bene
supremo dell’uomo?) si
associavano nel modo
più opportuno per
assicurare la
sopravvivenza del
migliore e del più
adatto, “exempli
gratia” Charles
Smithson che, in quella
bella giornata di
primavera, solitario,
impaziente e curioso,
capiva, accettava,
annotava ed era
soddisfatto.
Ciò che gli mancava,
ovviamente, era il
corollario del crollo
della “Scala naturae”,
e cioè che se può
venire alla luce una
nuova specie, una
vecchia specie deve
spesso sparire per
lasciarle il posto.
Ora Charles era
consapevole della
propria estinzione
personale, nessun
vittoriano avrebbe
potuto non esserlo; ma
il concetto di
un’estinzione generale
era lontano dalla sua
mente, come la più
piccola nube dal cielo
che quel giorno lo
sovrastava, anche se,
quando finalmente si
rimise calze, ghette e
scarponi, gliene capitò
in mano un
concretissimo esempio.
Era un frammento
molto sottile di lias
con impronte di
ammoniti, squisitamente
chiare, microcosmi di
macrocosmi, turbinanti
galassie che eseguivano
le loro girandole su
venticinque centimetri
di roccia.
Dopo aver
coscienziosamente
scritto su un’etichetta
la data e il luogo del
reperto, egli di nuovo
sgattaiolò fuori della
scienza, stavolta per
passare all’amore.
Decise di farne dono
a Ernestina al suo
ritorno.
Era abbastanza
grazioso perché potesse
piacerle e in fondo lo
avrebbe presto
ricuperato insieme con
lei.
Inoltre il peso
accresciuto sulla sua
schiena ne faceva una
fatica oltre che un
dono.
Il dovere, un
piacevole conformarsi
alle leggi dell’epoca,
levava la sua mano
severa.
E insieme la
consapevolezza di aver
vagabondato a passo più
lento di quel che aveva
previsto.
Si sbottonò la giacca
e ne trasse un orologio
d’argento.
Le due! Allora si
voltò indietro di
scatto e vide le onde
lambire un tratto di
spiaggia a circa un
miglio di distanza.
Non rischiava di
perdersi perché poteva
già scorgere davanti a
sé un sentiero ripido
ma sicuro che conduceva
su per la scogliera ai
fitti boschi
sovrastanti.
Non sarebbe però
potuto tornare lungo la
spiaggia.
Quel sentiero era
sempre stato la sua
meta, ma aveva
progettato di arrivarci
rapidamente per salire
poi al livello dove
affioravano gli strati
di selce.
Come per punirsi del
ritardo, lo imboccò un
po’ troppo in fretta e
dovette sedersi un
minuto per riprendersi,
sudando copiosamente
sotto quell’abominevole
flanella.
Udì però un
ruscelletto vicino che
servì a placare la sua
sete; vi inzuppò il
fazzoletto e se lo
passò sulla faccia; poi
cominciò a guardarsi
attorno.

NOTE.
Nota 1.
A questo punto, per
ricordare che
l’agnosticismo e
l’ateismo del
mediovittoriano (a
differenza di quelli
moderni) avevano uno
stretto rapporto con il
dogma teologico, avrei
fatto bene a citare il
famoso epigramma di
George Eliot: “Dio è
inconcepibile,
l’immortalità è
incredibile, ma il
dovere è perentorio e
assoluto”.
Tanto più perentorio,
si potrebbe aggiungere,
a causa di questa
duplice e terribile
perdita di fede.

9.
“… this heart, I
know, To be long lov’d
was never fram’d; But
something in its depths
doth glow Too strange,
too restless, too
untamed”.
Matthew Arnold, “A
Farewell” (1853).
“… questo cuore, lo
so, / Non fu mai fatto
per essere amato a
lungo, / Ma c’è
qualcosa che arde nelle
sue profondità, /
Troppo strano, troppo
irrequieto, troppo
indomito”. [Nota del
Traduttore].
Ho citato le due
ragioni più ovvie che
portarono Sarah
Woodruff a offrirsi
all’ispezione di
Mistress Poulteney.
Era tuttavia l’ultima
persona al mondo che
avrebbe fatto, anche
solo istintivamente, un
elenco di ragioni,
senza contare che ce
n’erano molte altre, e
non potevano non
esserci, poiché non
ignorava la fama che
Mistress Poulteney si
era acquisita nei
“milieux” meno elevati
di Lyme.
Dopo essere rimasta
indecisa per tutta una
giornata, era andata a
chiedere consiglio a
Mistress Talbot.
Ora costei era una
giovane signora
estremamente buona ma
non molto perspicace;
sarebbe stata
dispostissima a
riprendersi Sarah -
anzi glielo aveva
ripetutamente offerto -
ma la sapeva ormai
incapace di quelle
prolungate diuturne
attenzioni per i
bambini a lei affidati
che sono parte
integrante dei doveri
di una governante.
Tuttavia desiderava
ancora moltissimo di
aiutarla.
Sapeva che Sarah era
ormai ridotta in
miseria e stava sveglia
di notte a evocare
scene della letteratura
più romantica della sua
adolescenza, nelle
quali eroine affamate
giacevano raggomitolate
su gradini coperti di
neve o febbricitanti in
una squallida soffitta
piena di fessure.
C’era poi un’immagine
- una vera
illustrazione di uno
dei racconti edificanti
di Mistress Sherwood -
che riassumeva le sue
peggiori paure.
Una donna inseguita
che si gettava da una
rupe.
Il balenio dei lampi
rivelava più in alto le
facce crudeli dei
persecutori; ma la cosa
peggiore era l’urlo
d’orrore sul pallido
viso della sventurata
creatura, e la maniera
in cui si gonfiava il
suo mantello, nero,
enorme, una
precipitante ala di
corvo testimone di una
morte orribile.
Perciò Mistress
Talbot nascose i suoi
dubbi su Mistress
Poulteney e consigliò a
Sarah di accettare.
L’ex governante si
congedò con un bacio
dai piccoli Paul e
Virginia e tornò a
Lyme, come una
condannata.
Si fidava
dell’opinione di
Mistress Talbot; e una
donna intelligente che
si fida di una stupida,
sia pure buona, non può
aspettarsi che il
peggio.
Sarah era
effettivamente
intelligente, ma la sua
intelligenza era di un
tipo particolarissimo e
non verrebbe mai
individuata dai test
delle nostre facoltà
universitarie.
Non era per nulla
analitica né sapeva
risolvere problemi: è
sicuramente sintomatico
che la sola materia il
cui apprendimento le
era costato fatica
fosse stata la
matematica.
Non si manifestava
nemmeno in una vivacità
particolare o in
qualche forma di
spirito, neanche nei
suoi giorni migliori.
Era piuttosto una
strana capacità -
strana in una persona
che non era mai stata a
Londra e aveva sempre
vissuto fuori del mondo
- di valutare i meriti
altrui, e di
comprendere il suo
prossimo nel senso più
pieno di questo verbo.
Aveva insomma una
sorta di equivalente
psicologico
dell’abilità di un
esperto mercante di
cavalli, che sa
distinguere, quasi a
prima vista, una buona
bestia da una cattiva;
o si potrebbe anche
dire, soltanto avanti
di un secolo, che era
nata con un cervello
elettronico in cuore.
Parlo di cuore,
perché i valori che
elaborava appartenevano
a questa area più che a
quella del cervello.
Intuiva subito le
debolezze di un
ragionamento vacuo, di
una falsa dottrina, di
una logica zoppicante
ogni volta che se le
trovava davanti; ma
capiva le persone anche
in modi più sottili.
Senza poter dire
come, e quindi incapace
quanto un computer di
spiegare i propri
processi, le vedeva
quali erano e non quali
cercavano di apparire.
Non basta dire che
sapeva dare un buon
giudizio morale del
prossimo.
La sua comprensione
era più vasta, e se la
sua pietra di paragone
fosse stata soltanto la
moralità non si sarebbe
certo comportata in
quel modo: perché la
verità era che a
Weymouth non aveva
alloggiato a casa di
una cugina.
Questa istintiva
profonda perspicacia
era la prima disgrazia
della sua vita; la
seconda era la sua
istruzione.
Non una grandissima
istruzione, solo quella
che si poteva avere a
Exeter, in un collegio
di terz’ordine per
giovinette, dove aveva
studiato durante il
giorno e pagato per
questo di sera - a
volte anche fino a
tarda notte rammendando
e svolgendo altri
lavori servili.
Non andava molto
d’accordo con le
compagne.
Loro la disprezzavano
e lei le valutava per
ciò che erano.
Era così accaduto che
leggesse assai più
romanzi e assai più
poesie, i due tipici
rifugi dei solitari, di
quasi tutte le sue
coetanee.
Le servivano da
surrogato
dell’esperienza.
Senza rendersene
conto giudicava il suo
prossimo sia secondo i
criteri di Walter Scott
e di Jane Austen sia
secondo quelli che
aveva empiricamente
scoperto per suo conto:
vedeva nelle persone
che la circondavano dei
personaggi da romanzo e
ne dava giudizi
poetici.
Ma purtroppo ciò che
aveva imparato in
questo modo era stato
in gran parte annullato
da quel che le era
stato insegnato.
Dandole la vernice di
una signora, ne avevano
fatto la vittima
perfetta di una società
divisa in caste.
Suo padre l’aveva
costretta a uscire
dalla sua classe, ma
non poteva elevarla a
una classe superiore.
Era diventata troppo
schizzinosa per sposare
un giovane del mondo
che aveva appena
abbandonato, mentre i
giovani di quello al
quale aspirava la
giudicavano troppo
plebea.
Il padre, lo stesso
che il vicario di Lyme
aveva definito “un uomo
di ottimi principi”,
era esattamente il
contrario, cioè un uomo
con una collezione
quasi completa di
principi sbagliati.
Non fu l’interesse
per l’unica figlia che
lo indusse a mandarla
in collegio, ma
l’ossessione della
nobiltà della propria
schiatta.
Quattro generazioni
addietro da parte di
padre si incontrava
infatti un autentico
gentiluomo.
C’era persino una
lontana parentela con i
Drake, fatto in sé
irrilevante che con gli
anni si era però
gradatamente
fossilizzato
nell’affermazione di
una diretta discendenza
lineare da Sir Francis.
Certo la famiglia era
stata un tempo padrona
di una specie di
maniero nella fredda e
verde terra di nessuno
tra Dartmoor e Exmoor.
Tre volte il padre di
Sarah era andato a
vederlo con i suoi
occhi, tornando poi
alla piccola fattoria
che aveva preso in
affitto dalla grande
proprietà Meriton, per
riflettere, tramare e
sognare.
Forse rimase deluso
quando a diciotto anni
la figlia tornò a casa
dal collegio - chissà
quali miracoli si
aspettava gli
piovessero addosso? -
si sedette alla tavola
d’olmo di fronte a lui
e lo guardò ascoltando
le sue vanterie, con un
pacato riserbo che lo
stimolava, ma come un
pezzo di macchina
inutile (perché era un
autentico uomo del
Devon e per gli uomini
del Devon conta
soltanto il denaro), lo
spinse infine alla
pazzia.
Rinunciò al contratto
di locazione e si
comprò una fattoria; ma
la pagò troppo poco e
quello che a suo
giudizio doveva essere
un grande affare
risultò assolutamente
disastroso.
Per qualche anno si
batté per mantenere sia
l’ipoteca sia una
ridicola facciata di
signorilità; ma finì
letteralmente per
impazzire e venne
rinchiuso nel manicomio
di Dorchester, dove
morì un anno dopo.
A quell’epoca Sarah
si guadagnava da vivere
già da un anno,
lavorando presso una
famiglia di Dorchester
per essere vicina al
padre.
Poi, dopo la sua
scomparsa, era stata
assunta come governante
dai Talbot.
Era una ragazza
troppo attraente per
non avere
corteggiatori, anche se
era del tutto priva di
dote.
Ma ogni volta entrava
in gioco la sua prima
innata disgrazia:
capiva troppo bene i
suoi troppo sprovveduti
pretendenti.
Notava la loro
meschinità; le loro
degnazioni, le loro
debolezze, le loro
stupidaggini.
Di conseguenza
sembrava
ineluttabilmente
condannata a quella
sorte che la natura
aveva evidentemente
dedicato alcuni milioni
di anni di evoluzione
per evitarle: lo
zitellaggio.
Proviamo a immaginare
l’impossibile, e cioè
che Mistress Poulteney
avesse compilato un
elenco di pro e di
contro a proposito di
Sarah, proprio il
giorno che Charles
dedicò a una evasione
assolutamente
scientifica dai pesanti
doveri del
fidanzamento.
E’ almeno concepibile
che potesse averlo
steso quel pomeriggio
perché Sarah, la Miss
Sarah di Marlborough
House, era uscita.
Cominciamo dunque in
allegria con la parte
positiva del bilancio.
La prima voce sarebbe
stata senza dubbio la
meno prevedibile
quando, un anno prima,
si era stipulato il
contratto.
La si poteva
formulare in questi
termini: “Una più
serena atmosfera
domestica”.
Il fatto stupefacente
era che nessun servo, o
serva (statisticamente
in passato si era
soprattutto trattato di
queste ultime), era
stato licenziato.
Questo inaspettato
cambiamento era
cominciato una mattina,
poche settimane dopo
che Miss Sarah aveva
assunto le sue
funzioni, vale a dire
la sua responsabilità
per l’anima di Mistress
Poulteney.
La vecchia aveva
scoperto con il
consueto fiuto una
grossolana negligenza:
la cameriera del piano
di sopra che aveva il
compito di innaffiare
infallibilmente ogni
martedì le felci del
secondo salotto
Mistress Poulteney ne
aveva uno per sé e uno
per ricevere - si era
dimenticata di farlo.
Le verdi felci
sembravano disposte a
perdonare; la livida
Mistress Poulteney no.
Venne mandata a
chiamare la colpevole.
Essa confessò la sua
dimenticanza, sulla
quale Mistress
Poulteney avrebbe
potuto pesantemente
chiudere un occhio, se
la ragazza non avesse
commesso nel suo
recente passato due o
tre peccatucci dello
stesso genere.
La campana aveva già
dato i primi rintocchi,
e Mistress Poulteney
s’accingeva, con lo
stesso senso del dovere
di un bulldog che sta
per affondare i denti
nei polpacci di un
ladro, a suonarla a
distesa.
Posso tollerare molte
cose ma non questa.
Non lo farò mai più,
signora.
Puoi star sicura che
non lo farai più in
casa mia.
Oh, signora.
La prego, signora.
Mistress Poulteney si
concesse il lusso di
assaporare per alcuni
seri e didattici
secondi le lacrime
della ragazza.
Mistress Fairley ti
darà il tuo salario.
A questa
conversazione era
presente anche Miss
Sarah, perché Mistress
Poulteney le stava
dettando una serie di
lettere in gran parte
indirizzate a vescovi,
o almeno dettate con
quel tono di voce con
il quale di solito ci
si rivolge ai vescovi.
A questo punto essa
fece una domanda, che
ebbe un effetto
singolare.
In primo luogo era la
prima volta che,
presente Mistress
Poulteney, chiedeva
qualcosa che non aveva
un rapporto diretto con
le sue mansioni.
In secondo luogo
contraddiceva
implicitamente il
giudizio della vecchia.
In terzo luogo era
rivolta non a Mistress
Poulteney ma alla
ragazza.
Stai bene, Millie?
Non si sa se per
effetto di quella voce
comprensiva in quella
camera o per le sue
condizioni, la ragazza
sbalordì Mistress
Poulteney buttandosi in
ginocchio e nello
stesso tempo scuotendo
il capo e coprendosi il
viso.
Miss Sarah le andò
subito vicino e nel
giro di un minuto
scoprì che la ragazza
effettivamente non
stava bene, che era già
svenuta due volte
nell’ultima settimana e
che aveva troppa paura
per confidarsi con
qualcuno…
Quando, qualche tempo
dopo, Miss Sarah
rientrò dalla stanza
dove dormivano le
cameriere e dove ora
era stata messa a letto
Millie, fu Mistress
Poulteney che le
rivolse una
stupefacente domanda.
Che cosa devo fare?
Miss Sarah la guardò
negli occhi, e in
quello sguardo c’era
qualcosa che fece delle
parole che seguirono
una pura concessione
alle convenzioni.
Ciò che ritiene più
opportuno, signora.
Così il fiore
rarissimo del perdono
trovò un precario
terreno a Marlborough
House, e quando il
medico venne a visitare
la cameriera e la
dichiarò affetta da
clorosi, Mistress
Poulteney scoprì la
gioia sottile
dell’apparire veramente
generosa.
Seguì un altro paio
d’incidenti che, se non
furono altrettanto
drammatici, ebbero
tuttavia lo stesso
svolgimento; ma uno o
due soltanto, perché
Sarah si preoccupava di
sventarli
tempestivamente con
opportuni giri
d’ispezione.
Aveva dunque capito
Mistress Poulteney e
avrebbe presto imparato
a manovrarla, come fa
un amabile cardinale
con un debole papa, ma
con fini più nobili.
La seconda, e più
prevedibile, voce
positiva dell’ipotetico
elenco di Mistress
Poulteney sarebbe
stata: “La sua voce”.
La vecchia poteva
trascurare di
soddisfare i bisogni
più terreni dei suoi
servi, ma si
preoccupava
immensamente del loro
benessere spirituale.
Oltre all’obbligo
della doppia visita
alla chiesa la
domenica, c’era ogni
mattina una funzione -
un inno, una lezione,
qualche preghiera - cui
presiedeva pomposamente
di persona.
Ma l’aveva sempre
infastidita il fatto
che neanche le sue
occhiate più terribili
riuscissero a ridurre i
suoi domestici a quello
stato di docilità e di
pentimento assoluti
che, secondo lei, il
loro Dio (per non
parlare del suo) doveva
esigere.
Nel loro
atteggiamento normale
la paura per la padrona
si mescolava a una
stolida incomprensione:
sembravano pecore
intimidite più che
peccatori convertiti.
Ma Sarah cambiò
completamente questa
situazione.
Aveva senza dubbio
una bellissima voce,
chiara e controllata,
anche se perennemente
velata di melanconia e
spesso di un’intensa
emozione; ma era
soprattutto una voce
sincera.
Per la prima volta
Mistress Poulteney nel
suo piccolo mondo
ingrato vide
espressioni
effettivamente attente
e a volte decisamente
pie sui visi della
servitù.
Questo era già un
bene, ma il programma
quotidiano comprendeva
anche un secondo
periodo di devozione.
I servi erano
autorizzati a dire le
loro preghiere serali
in cucina, sotto gli
occhi indifferenti e la
voce sbrigativamente
legnosa di Mistress
Fairley.
Di sopra intanto
Mistress Poulteney si
faceva leggere la
Bibbia da sola; ed era
in queste cerimonie più
intime che la voce di
Sarah raggiungeva gli
effetti migliori e più
efficaci.
Una volta o due aveva
ottenuto risultati
incredibili, strappando
una lacrima a quegli
indomabili occhi gonfi.
Questo effetto non
era per niente
intenzionale, ma
scaturiva da una
differenza profonda tra
le due donne.
Mistress Poulteney
credeva in un Dio che
non era mai esistito;
Sarah conosceva un Dio
che esisteva.
Non creava con la sua
voce, come tanti
rispettabili preti e
dignitari invitati a
leggere la lezione, un
inconsapevole effetto
di straniamento di tipo
brechtiano (“Qui è il
vostro sindaco che vi
legge un brano della
Bibbia”), ma
esattamente l’opposto;
parlava direttamente
delle sofferenze di
Cristo, di un uomo nato
a Nazareth, come se
nella storia non ci
fossero passato o
presente, e a volte,
quando la luce era
particolarmente bassa,
sembrava dimenticarsi
della presenza di
Mistress Poulteney e
leggeva come se vedesse
davanti a sé il Cristo
sulla croce.
Un giorno arrivò al
brano “Eli lamma
sabactani”; e mentre
leggeva balbettò e
ammutolì.
Mistress Poulteney si
voltò a guardarla e
s’accorse che il suo
viso era rigato di
lacrime.
Quel momento valse a
riscattare un’infinità
di incomprensioni
successive; e forse un
giorno il fatto che la
vecchia si fosse alzata
a toccare la spalla
curva della ragazza,
riscatterà l’anima
ormai ben arrostita di
Mistress Poulteney.
Sto rischiando di
presentare Sarah come
una bigotta. Ma essa
non aveva preconcetti
teologici e, come
capiva la gente, così
capiva le follie, i
volgari vetri istoriati
e la ristretta
prosaicità della chiesa
vittoriana.
Vedeva le sofferenze
e pregava perché
avessero termine.
Ho già detto che cosa
sarebbe forse stata
nella nostra epoca; e
credo che in un periodo
molto anteriore forse
sarebbe stata una santa
o l’amante di un
imperatore.
Non perché c’erano in
lei religiosità da un
lato e sessualità
dall’altro, ma per
quella rara
potentissima fusione,
che era la sua essenza,
tra comprensione ed
emozione.
C’erano poi altre
voci: la capacità -
straordinaria e quasi
unica - di non dare
spesso ai nervi a
Mistress Poulteney,
l’accollarsi silenzioso
di varie responsabilità
domestiche senza
apparire invadente,
l’abilità nel cucito.
Per il suo
compleanno, Sarah
regalò a Mistress
Poulteney un
coprischienale - non
che in casa ci fossero
seggiole che avevano
bisogno di una simile
protezione, ma a
quell’epoca tutte le
sedie prive di questo
accessorio sembravano
più o meno nude -
squisitamente ricamato
con un orlo di felci e
mughetti.
Piacque moltissimo a
Mistress Poulteney, e
servì astutamente e
definitivamente - forse
in Sarah c’era davvero
qualcosa dell’abile
cardinale - a ricordare
a quell’orca, ogni
volta che si sedeva sul
trono, gli aspetti più
amabili della sua
“protégée”.Nel suo
piccolo fece per Sarah
ciò che l’immortale
otarda aveva fatto per
Charles.
Infine - e per la
vittima era stato il
cimento più crudele -
Sarah aveva superato la
prova degli opuscoli.
Come tante solitarie
vedove vittoriane,
Mistress Poulteney
aveva una grande
fiducia nel potere
degli opuscoli.
Non importava che
neanche uno su dieci di
coloro che li
ricevevano sapesse
leggerli - anzi molti
non sapevano leggere
nulla - e non importava
che neanche uno su
dieci che sapevano
leggere e di fatto li
leggevano capisse cosa
volevano dire i
reverendi autori…
ogni volta che Sarah
partiva con un fascio
di opuscoli da
consegnare, Mistress
Poulteney vedeva un
numero equivalente di
anime salvate e segnate
a suo credito sul conto
che aveva in cielo, e
come ulteriore
consolazione, vedeva la
donna del tenente
francese fare pubblica
penitenza.
Lo stesso pensavano
gli altri abitanti di
Lyme, o della Lyme più
povera, ed erano più
gentili di quanto
Mistress Poulteney
potesse immaginare.
Sarah inventò una sua
formuletta. “Da parte
di Mistress Poulteney.
Lo legga per favore e
ne faccia tesoro.”
Contemporaneamente
fissava negli occhi il
destinatario.
Quelli che
sorridevano con l’aria
di chi la sa lunga
ridiventavano seri; e i
loquaci sentivano
spegnersi le parole
nella loro bocca.
Credo che imparassero
più da quegli occhi che
dagli opuscoli
fittamente stampati che
venivano loro messi in
mano.
Dobbiamo ora passare
alla parte negativa di
quel bilancio.
La prima voce, e la
più importante, sarebbe
stata indubbiamente:
“Esce da sola”.
L’accordo iniziale
era che Miss Sarah
dovesse avere un
pomeriggio libero la
settimana, cosa che
Mistress Poulteney
considerava un
riconoscimento troppo
generoso della sua
posizione superiore a
quella delle cameriere
e che tollerava solo
per la necessità di
diffondere gli opuscoli
e perché così aveva
consigliato il vicario.
Per due mesi tutto
sembrò andare bene.
Ma un giorno Miss
Sarah non comparve alle
preghiere mattutine di
Marlborough House, e la
cameriera che era stata
mandata a chiamarla
scoprì che non si era
ancora alzata.
Allora andò da lei
Mistress Poulteney.
Sarah stava di nuovo
piangendo, ma stavolta
la sua padrona provò
soltanto irritazione.
Mandò comunque a
chiamare il medico che
rimase a lungo con
Sarah.
Quando scese, tenne
all’impaziente Mistress
Poulteney una breve
lezione sulla
melanconia - per la sua
epoca e per la sua
posizione, era un uomo
avanzato - e le ordinò
di concedere alla sua
peccatrice più libertà
e più aria fresca.
Se lei insiste nel
dire che è
assolutamente
necessario.
Insisto, cara
signora.
E con la massima
decisione.
Altrimenti non mi
assumo responsabilità.
E’ molto inopportuno.
Ma il medico rimase
brutalmente in
silenzio.
Allora farò a meno di
lei per due pomeriggi.
A differenza del
vicario, il dottor
Grogan finanziariamente
non dipendeva molto da
lei; a dirla tutta, non
ci sarebbe stato in
tutta Lyme un
certificato di morte
che avrebbe firmato con
meno tristezza del suo.
Ma soffocò la propria
bile, ricordandole che
lei, per sua precisa
ingiunzione, andava a
dormire ogni
pomeriggio.
Così Sarah si
conquistò una
semilibertà quotidiana.
La seconda voce
negativa era questa:
“Non è sempre presente
quando ci sono visite”.
A questo proposito,
Mistress Poulteney
veniva a trovarsi in un
dilemma davvero
intollerabile.
Voleva ovviamente che
la sua beneficenza
fosse visibile, il che
significava che doveva
essere visibile anche
Sarah.
Ma il suo viso
esercitava sulla
compagnia effetti
estremamente negativi.
La sua tristezza era
un rimprovero; i suoi
rarissimi interventi
nella conversazione -
invariabilmente
istigati da qualche
domanda cui bisognava
rispondere (i più
intelligenti tra i
visitatori abituali
impararono presto a
rivolgere cortesemente
alla segretaria - dama
di compagnia soltanto
domande palesemente
retoriche per natura e
intenti) - avevano un
inquietante carattere
conclusivo, non perché
Sarah desiderasse
troncare l’argomento ma
puramente per
l’innocente intervento
della semplicità o del
buonsenso in
discussioni che
traevano vita dalle
qualità opposte.
In un tale contesto
essa ricordava anche
troppo a Mistress
Poulteney una di quelle
figure che rammentava
vagamente d’aver visto
sulla forca negli anni
della sua giovinezza
Ancora una volta, Sarah
mostrò le proprie doti
diplomatiche.
Con certi visitatori
abituali rimaneva; con
altri o si congedava
dopo pochi minuti o si
ritirava con
discrezione nel momento
stesso in cui venivano
annunciati e prima che
fossero introdotti.
Per questo Ernestina
non l’aveva mai
incontrata a
Marlborough House.
Ciò almeno permetteva
a Mistress Poulteney di
dilungarsi sulla croce
che era costretta a
portare, ma il fatto
che la croce si fosse
congedata o fosse
addirittura assente
sottintendeva una certa
sua inabilità nel
portarla, cosa molto
fastidiosa.
Sarebbe però stato
difficile gettarne la
colpa su Sarah.
Ho lasciato per
ultima la voce più
grave: “Mostra ancora
segni di attaccamento
al suo seduttore”.
Mistress Poulteney
aveva fatto molti
tentativi per farsi
confidare sia i
particolari del peccato
sia l’attuale misura
del pentimento.
Nessuna madre
superiora aveva mai
così ardentemente
desiderato di ascoltare
la confessione di un
membro errante del suo
gregge.
Ma su questo punto
Sarah era sensibile
quanto un anemone di
mare.
Mistress Poulteney
aveva un
bell’affrontare
l’argomento in maniera
tortuosa: la peccatrice
intuiva ogni volta a
che cosa tendevano i
suoi discorsi, e le sue
risposte alle domande
dirette erano sempre
identiche, nel
contenuto se non nella
formulazione, a quella
che aveva dato durante
il primo
interrogatorio.
Mistress Poulteney
usciva raramente, e mai
a piedi, ma sempre in
calesse per recarsi
alle case delle sue
pari, e quindi per le
informazioni sulle
attività di Sarah fuori
di casa doveva fidarsi
degli occhi altrui.
Per sua fortuna
questi occhi
esistevano; per di più
la mente che stava loro
dietro era guidata
dalla malignità e dal
rancore, ed era quindi
felice di presentare
frequentemente rapporti
alla sua frustrata
padrona.
La spia, ovviamente,
era Mistress Fairley.
Leggere non le
piaceva per niente, ma
si era sentita offesa
quando le avevano tolto
questa incombenza; e
benché Miss Sarah la
trattasse sempre con
cortesia scrupolosa e
si preoccupasse di non
usurpare le sue
funzioni di governante
di casa, qualche
conflitto era
inevitabile.
Mistress Fairley non
era contenta di aver un
po’ meno lavoro, perché
ciò comportava anche
una leggera diminuzione
di autorità.
Il fatto che Sarah
avesse salvato Millie -
e altri suoi interventi
più discreti l’avevano
resa popolare e
rispettata ai piani
inferiori; e forse la
rabbia maggiore di
Mistress Fairley era di
non poter sparlare
della segretaria - dama
di compagnia con i suoi
sottoposti.
Era una donna
stizzosa, che provava
piacere soltanto nel
conoscere o
nell’aspettarsi le cose
peggiori; e arrivò
quindi a nutrire per
Sarah un odio che
giunse lentamente a
un’intensità quasi da
vetriolo.
Ma era una donna
troppo astuta per non
celare questo odio a
Mistress Poulteney.
Fingeva anzi di
essere molto
dispiaciuta per la
“povera Miss Woodruff”
e i suoi rapporti erano
copiosamente conditi di
“Io temo” e “Ho paura”.
Aveva comunque ampie
possibilità di fare il
suo lavoro di spia,
perché non soltanto
andava spesso in città
nello svolgimento delle
sue mansioni, ma
disponeva di un’ampia
rete di relazioni e di
conoscenze.
A queste ultime fece
capire che Mistress
Poulteney era ansiosa -
ovviamente per le più
oneste e cristiane
delle ragioni - di
essere informata del
comportamento di Miss
Woodruff fuori delle
alte mura di pietra del
parco di Marlborough
House.
Di conseguenza, Lyme
Regis era ora
crivellata di
pettegolezzi come un
tamburo di Blue Vinny
di larve, e ogni
movimento o
atteggiamento di Sarah
nelle sue ore libere -
maliziosamente
esagerato e
copiosamente chiosato -
veniva subito portato a
conoscenza di Mistress
Fairley.
Quando non doveva
distribuire opuscoli,
lo schema dei suoi
movimenti era molto
semplice; faceva ogni
pomeriggio la stessa
passeggiata, scendendo
per la ripida Pound
Street sino alla ripida
Broad Street e
raggiungendo di qui la
Cobb Gate, che è una
terrazza quadrata
affacciata sul mare che
non ha niente a che
vedere con il Cobb.
Qui si fermava
davanti al muricciolo a
guardare il mare, ma
generalmente non vi
restava molto - solo il
tempo necessario per
un’attenta valutazione
come quella che fa il
comandante di una nave
quando sale sul ponte -
e dopo un po’ scendeva
per il Cockmoil o si
avviava nell’altra
direzione, verso
occidente, percorrendo
il mezzo miglio di
sentiero che gira
attorno a una graziosa
baia sino a raggiungere
il Cobb.
Quando scendeva per
il Cockmoil, entrava
spesso nella chiesa
parrocchiale a pregare
per qualche minuto
(fatto che Mistress
Fairley non ritenne mai
degno di menzione)
prima di imboccare il
vialetto accanto alla
chiesa che conduceva al
giardino di Church
Cliffs.
Qui il prato saliva
verso le cupe mura del
Black Ven.
Si poteva vederla
camminare su questo
tappeto erboso, con
frequenti deviazioni
verso il mare, sino al
punto dove il sentiero
sfociava nella vecchia
strada per Charmouth,
dal quale iniziava il
suo ritorno a Lyme.
Faceva questa
passeggiata quando il
Cobb sembrava
affollato, ma se il
maltempo o le
circostanze lo
spopolavano, voltava
spesso in quella
direzione sino a
fermarsi nel luogo dove
Charles l’aveva vista
per la prima volta e
dove, a giudizio
comune, si sentiva più
vicina alla Francia.
Tutto questo,
convenientemente
deformato e dipinto a
tinte fosche, veniva
riferito a Mistress
Poulteney.
Essa però si trovava
allora nella prima fase
di godimento possessivo
del nuovo giocattolo ed
era incline a mostrarsi
comprensiva per quanto
glielo permettevano
l’acidità e la
sospettosità della sua
vetusta natura.
Non esitò tuttavia a
rimproverare il
giocattolo.
Mi dicono, Miss
Woodruff, che lei
quando esce va sempre
negli stessi luoghi.
Sarah abbassò il capo
davanti a quegli occhi
accusatori.
Lei guarda il mare.
Sarah rimase in
silenzio.
Sono convinta che lei
sia in una fase di
pentimento.
Non credo del resto
che potrebbe non
esserlo nella sua
attuale condizione.
Sarah capì al volo.
Gliene sono grata,
signora.
Non mi interessa la
sua gratitudine nei
miei confronti.
C’è Qualcuno Lassù
che ha diritti di
precedenza.
Come potrei
ignorarlo? mormorò la
ragazza.
All’ignorante può
sembrare che lei
perseveri nel suo
peccato.
Se conoscessero la
mia storia, signora,
non potrebbero
pensarlo.
Comunque lo pensano.
A quanto mi si
racconta, dicono che
lei stia aspettando le
vele di Satana.
Allora Sarah si alzò
e andò alla finestra.
Era l’inizio
dell’estate e il
profumo delle serenelle
e dei lillà si
mescolava al canto dei
merli.
Contemplò per un
attimo quel mare di cui
le si chiedeva di
privarsi e di nuovo si
voltò verso la vecchia
che sedeva implacabile
sulla poltrona come la
regina sul trono.
Vuole che me ne vada,
signora? Mistress
Poulteney rimase
segretamente turbata.
Ancora una volta la
semplicità di Sarah
aveva saputo far
sbollire il suo
crescente rancore.
La voce e le altre
doti cui si era tanto
abituata! Peggio
ancora, rischiava di
buttar via gli
interessi maturati per
lei sui registri del
cielo.
Moderò dunque il suo
tono.
Vorrei che lei
mostrasse che questa…
persona è stata
definitivamente
cancellata dal suo
cuore.
Io so che è così.
Ma lei deve
mostrarlo.
In che modo? Andando
a passeggiare altrove.
Non esibendo la sua
vergogna.
Se non ci sono altre
ragioni, lo faccia
perché glielo chiedo
io.
Sarah rimase a capo
chino e in silenzio.
Poi guardò negli
occhi Mistress
Poulteney e, per la
prima volta da quando
era entrata in quella
stanza, comparve sulle
sue labbra il più
impercettibile dei
sorrisi.
Farò come lei
desidera, signora.
Era stato, in termini
scacchistici, un
accorto sacrificio,
poiché Mistress
Poulteney aggiunse
cortesemente che non
voleva negarle
completamente i
benefici dell’aria
marina e che poteva
ogni tanto passeggiare
lungo il mare, ma non
tutte le volte, “e per
favore non si fermi a
guardare in quel modo”.
Si concluse insomma
un compromesso tra due
ossessioni.
Il fatto che Sarah
avesse proposto di
andarsene aveva portato
entrambe a guardare in
faccia la realtà,
ciascuna alla sua
maniera.
Sarah rispettò
l’accordo, almeno per
quella parte che si
riferiva all’itinerario
delle sue passeggiate.
Ora andava molto
raramente al Cobb,
anche se quando lo
faceva si permetteva a
volte di fermarsi a
guardare il mare come
nel giorno che abbiamo
descritto.
In fondo, la campagna
intorno a Lyme abbonda
di passeggiate, e sono
poche quelle che non
offrono una vista sul
mare.
Se erano soltanto
queste le aspirazioni
di Sarah, le bastava
passeggiare per i prati
di Marlborough House.
Dopo di che Mistress
Fairley se la passò
male per parecchi mesi.
Non trascurò di
riferire neanche una
delle occasioni nelle
quali Sarah si fermava
a guardare il mare, ma
esse non erano
frequenti e nel
frattempo Sarah aveva
acquistato con le sue
rinunce uno speciale
ascendente su Mistress
Poulteney che la
proteggeva da ogni
severa critica.
E dopo tutto, come
spesso si ripetevano
spia e padrona, la
povera “Tragedia” era
matta.
Voi avrete senza
dubbio intuito la
verità, e cioè che era
assai meno matta di
quanto sembrava… o
almeno non era matta
nel senso che
generalmente si
riteneva.
L’esibizione della
sua vergogna aveva uno
scopo; e chi ha uno
scopo capisce benissimo
quando l’ha raggiunto
in sufficiente misura e
può permettersi di
restare tranquillo per
un poco.
Ma un giorno, neanche
due settimane prima che
cominciasse la mia
storia, Mistress
Fairley si era
presentata a Mistress
Poulteney con il suo
busto scricchiolante e
la faccia di chi si
prepara ad annunciare
la morte di un intimo
amico.
Ho qualcosa di
spiacevole da
comunicarle, signora.
La frase era ormai
familiare a Mistress
Poulteney come i
prodromi di una
tempesta a un
pescatore; ma essa
rispettò le
convenzioni.
Non riguarderà Miss
Woodruff? Volesse il
cielo che non la
riguardasse, signora.
La governante fissò
solennemente la sua
padrona, come per
comunicarle senza
equivoci la sua
personale
costernazione.
Ma temo sia mio
dovere raccontarle
tutto.
Non dobbiamo mai aver
paura quando si tratta
del nostro dovere.
No, signora.
Tuttavia la sua bocca
rimaneva ermeticamente
chiusa, e un eventuale
osservatore avrebbe
avuto tutto il diritto
di chiedersi quale
orrore stava per essere
annunciato.
Come minimo Sarah
doveva aver ballato
nuda sull’altare della
chiesa parrocchiale.
Si è messa a
passeggiare nei Ware
Commons, signora.
Quale delusione! Ma
Mistress Poulteney non
sembrava pensarla così.
Anzi la sua bocca
fece qualcosa di
straordinario.
Si spalancò.

10.
“And once, but once,
she lifted her eyes,
And suddenly, sweetly,
strangely blush’d To
find they were met by
my own…” Tennyson,
“Maud” (1855).
“E una volta, solo
una volta alzò gli
occhi, / E
improvvisamente,
dolcemente,
curiosamente arrossì /
Nell’accorgersi che si
incontravano con i
miei…” [Nota del
Traduttore].
“…con le sue voragini
verdi tra romantiche
rocce, dove gli alberi
sparsi della foresta e
i frutteti
lussureggianti mostrano
che molte generazioni
devono essere passate
da quando la prima
parziale caduta delle
scogliere cambiò
totalmente il terreno,
e dove si gode un
panorama così
meraviglioso che
eguaglia qualsiasi
vista della famosissima
isola di Wight…” Jane
Austen, “Persuasione”.
Tra Lyme Regis e
Axmouth, sei miglia a
occidente, c’è uno dei
più strani paesaggi
costieri
dell’Inghilterra
meridionale.
Visto dall’alto non è
molto impressionante;
si nota soltanto che
mentre altrove i campi
si estendono sino al
limite delle scogliere,
qui s’interrompono
circa un miglio prima.
La scacchiera
coltivata a quadretti
verdi e rossastri si
spezza, con una specie
di gaia indisciplina,
in una cupa cascata di
alberi e cespugli.
Non ci sono tetti.
Continuando a volare,
si vede che è piuttosto
scosceso, tagliato da
profonde voragini e
accentuato da strani
contrafforti e torri di
gesso e selce che sopra
quel lussureggiante
fogliame sembrano mura
di castelli in rovina.
Dall’alto… ma a piedi
questa selva
apparentemente
trascurabile acquista
una curiosa estensione.
C’è gente che vi si è
perduta per ore e che
non può credere,
vedendo sulla carta
dove si è persa, che il
suo senso di isolamento
- e in caso di maltempo
di desolazione - possa
esserle stato così
grande.
L’Undercliff, o
sottoscogliera - perché
questa terra è in
realtà un declivio
lungo un miglio
prodotto dall’erosione
dell’antica faccia
verticale della
scogliera - è molto
ripido.
I punti in piano sono
rari quanto i
visitatori.
Ma la sua ripidezza
inclina praticamente
l’Undercliff e la sua
vegetazione verso il
sole; e questo, insieme
con l’acqua sgorgata da
innumerevoli sorgenti
che ha provocato
l’erosione, rende
strano il terreno sotto
l’aspetto botanico:
corbezzoli selvatici,
lecci e altri alberi
che si trovano
raramente in
Inghilterra; frassini e
faggi enormi; verdi
voragini di tipo
brasiliano colme di
edera e di liane di
clematide selvatica;
felci alte fino a due
metri o due metri e
mezzo; fiori che
sbocciano un mese prima
di tutti gli altri
fiori della regione.
D’estate è quanto ci
sia di più simile a una
giungla tropicale in
tutto il paese.
Inoltre, come tutte
le terre dove l’uomo
non ha mai vissuto né
lavorato, ha i suoi
misteri, le sue ombre,
i suoi pericoli, questi
ultimi geologicamente
autentici, poiché ci
sono crepacci e bruschi
strapiombi che possono
provocare disastri, e
in punti dove un uomo
con una gamba rotta
potrebbe urlare per una
settimana senza che
nessuno lo senta.
Per quanto strano
possa sembrare, cento
anni fa era terra un
po’ meno solitaria di
oggi.
In tutto l’Undercliff
ora non c’è neanche un
cottage, mentre nel
1867 ce n’erano
parecchi e vi abitavano
guardacaccia, boscaioli
e qualche guardiano di
porci.
Il capriolo, sintomo
sicuro di una
sterminata solitudine,
deve aver trascorso
allora giornate meno
pacifiche.
Oggi l’Undercliff è
tornato a uno stato
completamente
selvaggio.
Le pareti dei cottage
sono crollate e ridotte
a ruderi coperti
d’edera, i vecchi
sentieri sono
scomparsi; non c’è
automobile che si
avvicini e il solo
viottolo che ancora
l’attraversi è spesso
impercorribile.
Ed è così per legge
del Parlamento: una
riserva naturale
nazionale.
Non tutto viene
sacrificato al
principio dell’utile.
Fu in questo
frammento inglese
dell’Eden che entrò
Charles il 29 marzo
1867 dopo aver salito
il sentiero che partiva
dalla spiaggia di
Pinhay Bay; e la parte
orientale di questo
luogo era chiamata Ware
Commons.
Placata la sete e
rinfrescatosi la fronte
con il fazzoletto
bagnato, Charles
cominciò a guardarsi
attorno seriamente.
O almeno lo tentò; ma
il piccolo declivio sul
quale si trovava, la
prospettiva che aveva
davanti, i suoni, gli
odori, la selvatichezza
assoluta della
vegetazione e la sua
rigogliosa fertilità lo
spingevano con forza
all’antiscienza.
Intorno a lui il
terreno era tempestato
dell’oro e del giallino
di primule e celidonie,
e affiancato dal bianco
nuziale di una fitta
fioritura di prugnoli;
e dove i sambuchi dalle
cime trionfalmente
verdi ombreggiavano le
rive muschiose del
ruscelletto al quale
egli aveva bevuto,
c’erano gruppi di erbe
fumarie e di
acetoselle, i più
delicati tra i fiori
primaverili inglesi.
Più in alto sul
pendio egli vedeva le
bianche corolle degli
anemoni, e di là da
queste, verdi e
profonde masse
fluttuanti di foglie di
campanule.
In lontananza un
picchio tamburellava
sui rami di qualche
alto albero e a
mezz’aria
fischiettavano
tranquillamente i
ciuffolotti; in ogni
cespuglio e sulla cima
di ogni pianta
cantavano luì piccoli e
luì grossi arrivati da
poco.
Voltandosi, vide il
mare azzurro che ora
sciabordava molto più
in basso; e l’intera
baia di Lyme che si
allargava tutto
attorno, scogliere
digradanti che
scendevano a picco
sulla sterminata
sciabola gialla di
Chesil Bank, la cui
punta più lontana
toccava quella strana
Gibilterra inglese che
è Portland Bill, una
sottile ombra grigia
incuneata tra gli
azzurri.
Soltanto un’arte è
riuscita a cogliere
questi paesaggi: l’arte
rinascimentale.
E’ su questo terreno
che camminano le figure
di Botticelli, è
quest’aria che
racchiude le canzoni di
Ronsard.
Non ha importanza
quali siano stati gli
obiettivi consapevoli
di quella rivoluzione
culturale, le sue
crudeltà e i suoi
insuccessi; in sostanza
il Rinascimento fu
soltanto la verde
conclusione di uno dei
più rigidi inverni
della civiltà.
Era la fine delle
catene, dei vincoli,
delle frontiere.
Il suo motto era
puramente: “ciò che è,
è bene”.
Era stata insomma
tutto ciò che l’epoca
di Charles non era; ma
non crediate che lui
non lo sapesse.
E’ vero che, per
spiegare la sua oscura
sensazione di
malessere, di
incompatibilità, di
limitatezza egli
risaliva a epoche più
vicine, a Rousseau e ai
miti infantili dell’età
dell’oro e del buon
selvaggio.
Cercava cioè di
superare le
insufficienze della
maniera in cui la sua
epoca si accostava alla
natura supponendo che
si potesse esumare una
leggenda.
Si considerava troppo
viziato dalla civiltà
per poter tornare a
vivere nella natura, e
ciò lo rendeva triste
in un modo dolceamaro
non del tutto
sgradevole.
Dopo tutto era un
vittoriano.
Non possiamo
aspettarci che vedesse
ciò di cui soltanto
adesso - con tante
conoscenze in più e le
lezioni della filosofia
esistenziale a nostra
disposizione cominciamo
a renderci conto: che
il desiderio di
possedere e quello di
gioire si distruggono a
vicenda.
La sua parola
d’ordine avrebbe dovuto
essere: “Io posseggo
questo adesso, e quindi
sono felice”, ed era
invece,
vittorianamente: “Non
posso possedere questo
per sempre e quindi
sono triste”.
In seguito la scienza
riaffermò la propria
egemonia, ed egli
incominciò a cercare
testi tra i giacimenti
di selce lungo il corso
del torrente.
Trovò un grazioso
frammento di conchiglia
fossile, ma niente
echinodermi.
Attraverso gli alberi
si spostava a poco a
poco verso occidente,
chinandosi ed
esaminando
accuratamente il
terreno, poi facendo
qualche passo e
ripetendo il medesimo
comportamento.
Ogni tanto rivoltava
con la punta del
bastone una selce che
gli sembrava
promettente.
Ma non ebbe fortuna.
Trascorse un’ora, e i
suoi doveri verso
Ernestina cominciarono
a pesare più della sua
passione per gli
echinodermi.
Diede un’occhiata
all’orologio, soffocò
un’imprecazione e si
avviò verso il luogo
dove aveva lasciato lo
zaino.
Risalendo un poco il
pendio, con il sole al
tramonto dietro le
spalle, s’imbatté in un
sentiero e proseguì in
direzione di Lyme.
Questo sentiero
saliva e si incurvava
leggermente all’interno
accanto a un muro di
pietra coperto d’edera
e poi - con la tipica
scortesia dei sentieri
- si biforcava senza
indicazioni.
Egli esitò, poi
percorse una
cinquantina di metri
sul sentiero più basso,
incavato in una gola
trasversale, e già
profondamente in ombra.
Ma a questo punto
trovò una soluzione per
il suo problema -
quello di non sapere
esattamente quale fosse
la disposizione del
terreno - perché
all’improvviso trovò un
altro sentiero che si
diramava alla sua
destra e tornava verso
il mare, arrampicandosi
su una ripida
collinetta coronata
d’erba, da dove egli
poteva orientarsi senza
difficoltà.
Egli perciò si fece
largo attraverso i rovi
- era un sentiero
percorso solo di rado -
sino a raggiungere quel
piccolo e verde
pianoro.
Si apriva in modo
molto piacevole, come
un praticello alpino.
Le code bianche di
tre o quattro conigli
spiegavano perché
l’erba fosse così
corta.
Charles si fermò
nella luce del sole.
L’erba era costellata
di eufrasie e
serradelle, e già si
preparavano a sbocciare
verdi cespugli di
maggiorana.
Poi si avviò verso il
bordo del pianoro.
E qui, sotto di sé,
vide una figura.
Per un terribile
attimo pensò di essersi
imbattuto in un
cadavere.
Ma era soltanto una
donna che dormiva.
Aveva scelto il punto
più strano, una larga e
inclinata sporgenza
erbosa circa un metro e
mezzo più in basso,
tale da nasconderla
alla vista di chiunque
non si fosse spinto,
come Charles, fin sul
bordo.
Il muro di gesso
dietro questo piccolo
balcone naturale lo
trasformava in una
trappola solare, perché
il suo asse più largo
puntava verso sudovest.
Ma non molti
l’avrebbero scelto.
Il bordo esterno
s’affacciava,
attraverso un
precipizio di dieci o
dodici metri, su un
brutto groviglio di
rovi, e subito dopo la
scogliera scendeva a
strapiombo sulla
spiaggia.
Il primo istinto di
Charles era stato di
tirarsi indietro per
uscire dal campo
visuale della donna.
Non aveva visto chi
fosse.
Rimase lì smarrito,
guardando senza vederlo
il bel paesaggio che si
dominava da quel punto.
Esitò un poco e fece
per allontanarsi, ma la
curiosità lo spinse
ancora avanti.
La ragazza giaceva
supina nell’abbandono
totale di un sonno
profondo.
Il soprabito si era
aperto su un vestito
indaco di cotone la cui
severità era alleviata
soltanto da un piccolo
colletto bianco alla
gola.
Il viso della
dormiente era rivolto
dall’altra parte, il
braccio destro spinto
indietro e piegato come
quello di un bimbo.
Intorno sull’erba era
stata disseminata una
manciata di anemoni.
Nel modo in cui
giaceva c’era qualcosa
di estremamente tenero
e insieme di erotico,
che ridestò in Charles
la pallida eco di un
momento del suo
soggiorno parigino.
Aveva visto dormire
in quel modo, in una
camera affacciata sulla
Senna, un’altra ragazza
di cui non riusciva a
ricordare nemmeno il
nome, forse perché non
l’aveva mai conosciuto.
Percorse il bordo
ricurvo del pianoro per
vedere meglio il viso
della dormiente, e
soltanto allora
riconobbe la persona
che aveva disturbato.
Era la donna del
tenente francese.
I suoi capelli si
erano in parte sciolti
e le coprivano metà
della guancia.
Sul Cobb gli erano
sembrati castano scuri,
ma adesso vedeva che
avevano riflessi ramati
e toni caldi senza la
lucentezza, allora
indispensabile, della
brillantina.
La pelle, in quella
luce molto bruna,
pareva quasi rubizza,
come se la ragazza si
preoccupasse della
propria salute più che
di avere secondo la
moda una carnagione
pallida e languide
guance.
Un naso severo,
sopracciglia folte… la
bocca non riusciva a
scorgerla.
Era curiosamente
infastidito dal fatto
di vederla capovolta,
poiché il terreno non
gli permetteva di
passare dall’altra
parte dove avrebbe
avuto una prospettiva
migliore.
Rimase lì senza poter
far altro che guardare,
quasi ipnotizzato da
questo strano incontro
e sopraffatto da un
sentimento altrettanto
strano, non erotico, ma
fraterno, forse
paterno, la certezza
dell’innocenza di
questa creatura,
dell’ingiustizia della
sua messa al bando, che
a sua volta era parte
integrante
dell’intuizione di una
solitudine spaventosa.
Non riusciva a
immaginare che cosa, se
non la disperazione,
potesse averla spinta
in quel luogo selvaggio
in un’epoca in cui le
donne erano pressoché
statiche, timide e
incapaci di sforzi
fisici prolungati.
Arrivò finalmente al
limite estremo del
bastione sopra di lei,
esattamente sopra il
suo viso, e qui
s’accorse che tutta la
tristezza che vi aveva
notato prima era
scomparsa; nel sonno
quel viso era dolce, e
forse c’era addirittura
l’ombra di un sorriso.
Fu proprio allora,
mentre Charles
allungava il collo per
guardarla, che lei si
svegliò.
Alzò subito gli
occhi, e con tanta
rapidità che il suo
immediato arretramento
risultò inutile.
Una volta scoperto,
era troppo gentiluomo
per nascondersi.
Perciò quando Sarah
balzò in piedi,
stringendosi nel
cappotto, e gli
restituì l’occhiata da
quella sporgenza, egli
si tolse il cappello e
si inchinò.
Lei non disse nulla,
ma continuò a fissarlo
con un’espressione
sbalordita e
scandalizzata, forse
non del tutto priva di
vergogna.
Aveva dei bellissimi
occhi scuri.
Rimasero così per
parecchi secondi, uniti
da una reciproca
incomprensione.
Gli sembrava così
piccola, lì in piedi
sotto di lui, nascosta
dalla vita in giù, con
una mano stretta sul
colletto come se, al
suo primo passo verso
di lei, intendesse
voltarsi e lanciarsi
dove non poteva più
essere vista.
E allora egli ritrovò
il senso delle
convenienze.
Mille scuse.
L’ho disturbata senza
volerlo.
Poi si voltò e si
allontanò.
Non si guardò più
indietro, ma ridiscese
a fatica il sentiero
per cui era venuto,
tornando poi al bivio e
chiedendosi perché non
aveva avuto la presenza
di spirito di chiederle
quale viottolo
imboccare, e attese
mezzo minuto per vedere
se lei lo seguiva.
Ma non la vide
apparire.
Ben presto salì a
passo fermo il
viottolo più ripido.
Charles lo ignorava,
ma in quei brevi
secondi sospesi sopra
il mare in attesa, in
quel luminoso silenzio
della sera spezzato
soltanto dal quieto
sciabordio delle onde,
si era perduta l’intera
epoca vittoriana.
E non è detto che
avesse imboccato il
sentiero sbagliato.

11.
“With the form
conforming duly,
Senseless what it
meaneth truly, Go to
church - the world
require you, To balls -
the world require you
too, And marry - papa
and mama desire you,
And your sisters and
schoolfellows do”.
A.H Clough, “Duty”
(1841).
“Rispettando
debitamente
l’etichetta, / Divenuta
assurda benché
autentici fossero i
suoi intenti / Va’ in
chiesa - il mondo te lo
impone, / Ai balli - il
mondo ti impone anche
questo - / E sposati
papà e mamma lo
desiderano. / E lo
fanno anche le tue
sorelle e le tue
compagne di scuola”.
[Nota del Traduttore].
“Oh, no, what he!”
she cried in scorn, “I
woulden gi’e a penny
vor’n; The best ov
him’s outzide in view;
His cwoat is gay
enough, ‘tis true, But
then the wold vo’k
didden bring En up to
know a single thing…”.
William Barnes,
“Poems in the Dorset
Dialect” (1869).
“Oh! lui no!” esclamò
lei sprezzante, / “Non
darei neanche un penny
per lui; / Il meglio di
lui è tutto in vista, /
La sua giubba è
abbastanza vistosa, è
vero, / Ma la sua gente
non lo ha ancora
portato al punto da
sapere almeno
qualcosa…” [Nota del
Traduttore].
Pressappoco nello
stesso momento che
aveva visto questo
incontro, Ernestina si
alzava irrequieta dal
letto e andava a
prendere dal tavolino
da toletta il suo
diario legato in
marocchino nero.
Per prima cosa
rilesse imbronciata ciò
che aveva scritto al
mattino, che non era
sicuramente molto
ispirato da un punto di
vista letterario:
“Scritto lettera a
mamma.
Non ho visto il caro
Charles.
Non sono andata fuori
benché facesse molto
bello.
Non mi sento felice”.
Era stata una
giornata molto negativa
per la povera ragazza,
che aveva soltanto zia
Tranter con cui
sfogarsi.
C’erano stati i
narcisi e le
giunchiglie di Charles
di cui ora aspirava il
profumo, ma anch’essi
in un primo tempo
l’avevano infastidita.
La casa era piccola e
lei aveva sentito Sam
che bussava alla porta
da basso; aveva udito
la maliziosa e
irriverente Mary andare
ad aprirgli, poi un
mormorio di voci, un
inconfondibile e
soffocato gorgoglio di
risate e una porta
sbattuta.
Un sospetto odioso e
abominevole le
attraversò la mente:
che da basso ci fosse
stato Charles a
flirtare con la
cameriera, e questo la
faceva pensare a uno
degli aspetti che più
la spaventava in lui.
Sapeva che aveva
vissuto a Parigi e a
Lisbona e che aveva
viaggiato molto; sapeva
che aveva undici anni
più di lei; sapeva che
piaceva alle donne.
Alle domande,
discrete e scherzose,
sulle sue conquiste
passate, egli aveva
sempre dato discrete e
scherzose risposte; ed
era proprio questo il
guaio.
Intuiva che le si
nascondeva qualcosa,
una tragica contessa
francese o
un’appassionata
marchesa del
Portogallo.
Non si permetteva
assolutamente di
scendere a una
“grisette” parigina o a
una locandiera di
Cintra con gli occhi a
mandorla che sarebbero
state molto più vicine
alla verità.
Ma in un certo senso
il problema che egli
fosse andato a letto
con altre donne la
preoccupava meno di
quanto preoccuperebbe
una ragazza moderna.
Ernestina pronunciava
automaticamente il suo
autocratico “Non devo”
ogni volta che le
venivano in mente
queste peccaminose
riflessioni; ciò di cui
era veramente gelosa
era il cuore di
Charles.
Non sopportava
l’ipotesi di doverlo
spartire, né nel
passato né nel
presente.
Non conosceva l’utile
rasoio di Occam.
E quindi il semplice
fatto che egli non
fosse mai stato
veramente innamorato
diventava per
Ernestina, nei suoi
giorni più cupi, prova
evidente del fatto che
un tempo aveva amato
con passione.
Scambiava il suo
aspetto tranquillo per
il terribile silenzio
di un recente campo di
battaglia, Waterloo un
mese dopo, senza vedere
ciò che realmente era,
un luogo senza storia.
Una volta chiusa la
porta d’ingresso,
Ernestina permise alla
dignità di riprendere
il controllo della sua
persona esattamente Per
un minuto e mezzo: dopo
di che la sua fragile
manina si protese a
tirare perentoriamente
il cordone dorato
accanto al letto.
Dalla cucina giungeva
uno scampanellio
piacevole e insistente;
e subito dopo ci fu uno
scalpiccio, una bussata
e la porta si aprì
inquadrando Mary con
una vera e propria
fontana di fiori
primaverili.
La ragazza venne a
fermarsi accanto al
letto, con il viso
nascosto dai petali.
Sorrideva e per un
uomo sarebbe stato
impossibile arrabbiarsi
con lei; la reazione di
Ernestina fu quindi
esattamente l’opposta:
un cipiglio irritato e
severo davanti a questa
sgradita immagine di
Flora.
Delle tre giovani
donne che passano per
queste pagine, Mary, a
mio avviso, era di gran
lunga la più graziosa.
Aveva infinitamente
più vitalità e
infinitamente meno
egoismo; e doti fisiche
che s’accompagnavano a
queste qualità morali…
una carnagione
squisitamente pura,
anche se rosea, capelli
color grano e occhi
grigio-azzurri
piacevolmente grandi,
occhi che sollecitavano
la provocazione
maschile e la
restituivano con la
stessa gaiezza con cui
l’avevano ricevuta.
Sprizzavano
irrefrenabili come le
bollicine del miglior
champagne.
Neanche i tristi
abiti vittoriani che
era così spesso
costretta a indossare
riuscivano a nascondere
le promesse graziose e
grassocce del suo
corpo.
No, l’aggettivo
“grassoccio” è
sbagliato.
Poco fa ho citato
Ronsard: questa figura
esigeva un aggettivo
del suo vocabolario per
il quale non esiste un
equivalente in inglese:
“rondelet”, cioè tutto
quello che è attraente
nella floridezza senza
sacrificare tutto
quello che è piacevole
nella snellezza.
La trisnipote di
Mary, che ha ventidue
anni nel mese in cui
sto scrivendo,
assomiglia molto alla
sua ava, e ha un viso
noto in tutto il mondo,
essendo una tra le più
celebri attrici
cinematografiche
inglesi.
Ma non era, temo, un
viso per il 1867.
Non era stato per
esempio un viso gradito
a Mistress Poulteney,
che aveva avuto modo di
conoscerlo bene circa
tre anni prima.
Mary era nipote di un
cugino di Mistress
Fairley, e costei aveva
indotto Mistress
Poulteney ad accogliere
la giovanissima
apprendista nella sua
detestabile cucina.
Ma tra Marlborough
House e Mary c’era la
stessa compatibilità
che può esserci tra una
tomba e un cardellino;
e un giorno in cui
Mistress Poulteney,
mentre contemplava cupa
il proprio dominio,
assistette dalla
finestra di sopra allo
spettacolo disgustoso
di un mozzo di stalla
che impetrava un bacio
senza incontrare una
resistenza
particolarmente
efficace, il cardellino
venne immediatamente
rimesso in libertà e
volò subito da Mistress
Tranter, nonostante i
solenni avvertimenti di
Mistress Poulteney a
questa dama sulla
temerarietà di
albergare una così
palese dissolutezza.
In Broad Street, Mary
era felice.
A Mistress Tranter
piacevano le belle
ragazze, e più ancora
le belle ragazze
sorridenti.
Ernestina era sua
nipote e a lei,
naturalmente, andavano
le sue cure maggiori;
ma Ernestina la vedeva
soltanto una volta o
due all’anno, Mary
tutti i giorni.
Sotto un’apparenza
incostante e leggera,
la ragazza nascondeva
una tenera
affettuosità, e non
lesinava nel restituire
il calore che le veniva
dato.
Ernestina ignorava
uno dei terribili
segreti della casa di
Broad Street; in certe
occasioni, quando la
cuoca aveva la giornata
libera, Mistress
Tranter sedeva a
mangiare sola con Mary
in cucina, e non erano
le ore più infelici
delle loro giornate.
Mary non era
perfetta, e uno dei
suoi difetti era una
certa invidia per
Ernestina.
Non solo perché
quando arrivava da
Londra la signorina,
lei cessava di essere
tacitamente la cocca di
casa; ma perché la
signorina arrivava con
bauli pieni degli
ultimi modelli di
Londra e Parigi, non
certo la
raccomandazione
migliore per una serva
che possedeva soltanto
tre vestiti, e neanche
uno che veramente le
piacesse, anche se il
migliore in realtà lo
detestava soltanto
perché le era stato
passato dalla giovane
principessa della
capitale.
Pensava inoltre che
Charles fosse un
bell’uomo, anche troppo
per una pallida
creatura come
Ernestina.
Per questo Charles
godeva frequentemente
del beneficio di quegli
occhi grigi e pervinca,
quando Mary andava ad
aprirgli la porta e lo
incontrava per strada.
La maliziosa realtà
era che questa creatura
faceva in modo che le
sue entrate e le sue
uscite coincidessero
con quelle di Charles;
e ogni volta che egli
si toglieva il cappello
davanti a lei per la
strada, Mary faceva
mentalmente un bel
marameo a Ernestina,
perché conosceva
benissimo le ragioni
che spingevano la
nipote di Mistress
Tranter a precipitarsi
di sopra non appena
Charles si congedava.
Come tutte le
“soubrettes”, osava
pensare cose dalle
quali la sua giovane
padrona rifuggiva, e se
ne rendeva conto.
Dopo aver debitamente
e maliziosamente
lasciato che l’inferma
prendesse nota della
sua buona salute e
della sua allegria,
Mary sistemò i fiori
sul comodino da notte.
Da Mister Charles,
signorina.
Con i lui
complimonti.
Mary parlava un
dialetto famoso per il
suo disprezzo dei
pronomi e dei suffissi.
Mettili sul tavolino
da toletta.
Non mi piace averli
troppo vicini.
Mary, obbediente, li
portò dove le era stato
ordinato e,
disobbediente, cominciò
a riordinarli un poco
prima di voltarsi per
sorridere alla
sospettosa Ernestina.
Li ha portati lui?
No, signorina.
Dov’è Mister Charles?
So mica io.
Non ce l’ho chiesto.
Ma teneva le labbra
troppo strette, come se
avesse voglia di
ridere.
Però ti ho sentita
parlare con il suo
servo.
Sì, signorina.
Di cosa parlavate?
Oh, del tempo,
signorina.
E’ per questo che
ridevi? Sì, signorina.
Per la maniera che
lui parla, signorina.
Di fatto il Sam che
si era presentato alla
porta assomigliava
pochissimo al giovane
lugubre e sdegnato che
aveva affilato il
rasoio.
Aveva cacciato il suo
bel bouquet tra le
braccia della maliziosa
Mary.
Per la bela signorina
di sopra.
Poi, con molta
destrezza, aveva
infilato il piede dove
la porta stava per
chiudersi e con
altrettanta destrezza
aveva presentato con
l’altra mano, sinora
nascosta dietro la
schiena, un mazzolino
di crochi, mentre con
la mano rimasta libera
si era tolto il
cilindro quasi senza
tesa secondo la moda.
E per quela ancora
più bela da baso.
Mary era avvampata di
un rosa carico e la
pressione della porta
sul piede di Sam si era
misteriosamente
alleggerita.
Egli la vide annusare
i suoi fiori gialli, e
non per cortesia ma sul
serio, tanto che sul
suo naso impertinente e
incantevole comparve
una minuscola macchia
arancione di zafferano.
Quel saco di fuligine
sarà consegnato secondo
gli ordini.
Lei si morse le
labbra e rimase in
attesa.
A una condizione.
Niente truchi.
Bisogna pagare
subito.
E quant’è che costa?
L’ardito giovanotto
squadrò la vittima come
per calcolare un giusto
prezzo, poi si portò un
dito alla bocca e
strizzò l’occhio in
maniera assolutamente
inequivocabile.
Era stato questo a
provocare la risata
soffocata e lo sbattere
della porta.
Ernestina le gettò
un’occhiata non indegna
di Mistress Poulteney.
Ricordati, ti prego,
che viene da Londra.
Sì, signorina.
Mister Smithson mi ha
parlato di lui.
Quell’uomo si crede
un Don Giovanni.
Cosa sarebbe,
signorina? C’era sul
viso di Mary un’ansia
impaziente di nuove
informazioni che
dispiacque moltissimo a
Ernestina.
Non ha importanza.
Ma se facesse degli
approcci, desidero
esserne subito
informata.
Adesso portami un po’
d’acqua d’orzo.
E sii più discreta in
avvenire.
Negli occhi di Mary
s’accese una piccola
luce, qualcosa di
singolarmente simile a
un lampo di sfida.
Ma s’affrettò ad
abbassare gli occhi e
la piatta cuffietta di
pizzo in un inchino
puramente formale e
lasciò la stanza.
Tre piani in discesa
e tre in salita, si
consolò Ernestina, che
non aveva il minimo
desiderio della
salutare ma poco
eccitante acqua d’orzo
di zia Tranter.
In un certo senso
però era Mary che
usciva vincitrice da
questo piccolo scontro,
perché ricordò a
Ernestina, la quale per
sua natura non era una
tiranna domestica ma
solo un’insopportabile
bambina viziata, che
presto avrebbe dovuto
smettere di giocare
alla padrona per
diventare veramente
tale.
Era un’idea
piacevole,
naturalmente, avere una
propria casa, liberarsi
dei genitori… ma i
servi erano un tal
problema, lo dicevano
tutti.
Non erano più come
una volta, lo dicevano
tutti.
In una parola erano
diventati fastidiosi.
Forse la perplessità
e l’afflizione di
Ernestina non erano
molto diverse da quelle
di Charles quando
arrancava sudando lungo
la spiaggia.
La vita era un
mirabile meccanismo,
sarebbe stata eresia
dubitarne; ma intanto
c’era una croce da
portare, qui e adesso.
Fu per allontanare
questi tetri
presentimenti, che
continuavano a
ossessionarla anche nel
pomeriggio, che
Ernestina prese il suo
diario, si rizzò a
sedere sul letto e
tornò ancora una volta
alla pagina con il
ramoscello di
gelsomino.
Nella Londra della
metà del secolo già si
scorgevano gli inizi di
una stratificazione
plutocratica della
società.
Niente ovviamente
poteva sostituire la
buona nascita, ma era
ormai opinione diffusa
che un buon portafoglio
e una buona
intelligenza potessero
produrre
artificialmente
un’imitazione
abbastanza passabile di
una rispettabile
posizione sociale.
Disraeli era
personaggio tipico di
quell’epoca, non una
eccezione.
Il nonno di Ernestina
da giovane poteva
essere stato
semplicemente un
prospero negoziante in
tessuti di Stoke
Newington; ma quando
morì non era soltanto
ricchissimo, bensì
molto di più, poiché
aveva trasferito il suo
commercio nel centro di
Londra, fondando uno
dei principali negozi
del West End ed
estendendo la propria
attività a molti
settori oltre che ai
tessuti.
Suo padre di fatto le
aveva dato soltanto ciò
che egli stesso aveva
ricevuto: il miglior
insegnamento che si può
acquistare col denaro.
Era in tutto, tranne
che nelle origini, un
gentiluomo impeccabile
e aveva sposato una
ragazza di condizione
leggermente superiore
alla sua, figlia di uno
dei più fortunati
avvocati del paese, che
poteva contare tra i
suoi antenati non
troppo lontani, niente
meno che un Procuratore
generale.
Di conseguenza i
dubbi di Ernestina
sulla propria posizione
sociale erano un po’
assurdi e Charles non
li aveva mai presi sul
serio.
Pensa solo, le aveva
detto un giorno come è
terribilmente plebeo un
nome come Smithson.
Già, se tu almeno ti
chiamassi Lord Brabazon
Vavasour Vere de Vere
ti amerei molto di più!
Ma dietro l’ironia si
annidava la paura.
Si erano conosciuti
nel novembre precedente
a casa di una signora
che aveva messo gli
occhi addosso a Charles
per qualche membro
della sua covata di
smorfiosette.
Ma queste signorine
avevano avuto la
disavventura di
ascoltare i fervorini
dei propri genitori
prima che cominciasse
la serata.
Commisero pertanto
l’errore fondamentale
di fingere un interesse
appassionato per la
paleontologia -
volevano a tutti i
costi i titoli dei
libri più interessanti
sull’argomento mentre
Ernestina si mostrava
gentilmente ma
fermamente decisa a non
prenderlo troppo sul
serio.
Sussurrò che gli
avrebbe mandato tutti i
più interessanti pezzi
di carbone che avrebbe
trovato nel suo
secchio, e in un
secondo momento gli
disse che lo
considerava un uomo
molto pigro.
Perché, prego? Perché
era quasi impossibile
entrare in qualsiasi
salotto londinese senza
trovare un abbondante
campionario degli
oggetti del suo
interesse.
Per i due giovani la
serata si era
annunciata noiosa come
tante altre, ma
entrambi, quando
tornarono alle
rispettive abitazioni,
si accorsero che non lo
era stata.
Vedevano l’uno
nell’altra
un’intelligenza
superiore, una
leggerezza di tocco,
una causticità che li
soddisfaceva.
Ernestina fece sapere
di aver trovato “quel
Mister Smithson”
piacevolmente diverso
dal monotono
campionario di
cavalieri sinora
presentati al suo esame
nel corso della
stagione.
Sua madre svolse
discrete indagini e
consultò il marito che
fece qualcosa di più:
nessun giovane maschio
infatti aveva mai messo
piede nel salotto della
casa che s’affacciava
su Hyde Park senza
essere stato setacciato
come un moderno
dipartimento di
sicurezza setaccia i
suoi scienziati
atomici.
Charles superò a vele
spiegate questa prova
segreta.
A questo punto
Ernestina aveva
compreso l’errore delle
sue rivali: nessuna
ragazza che si fosse
gettata tra le braccia
di Charles ne avrebbe
mai conquistato il
cuore.
Così, quando cominciò
a frequentare la casa
di sua madre in serate
familiari e serate
mondane, egli ebbe
l’esperienza inconsueta
di non scoprire la
minima traccia delle
solite trappole
matrimoniali; nessun
accenno sornione da
parte della madre su
quanto il suo tesoro
amasse i bambini o
“attendesse con segreta
impazienza la fine
della stagione” (si
riteneva che Charles si
sarebbe trasferito
stabilmente a Winsyatt
non appena il suo
recalcitrante zio si
fosse deciso a fare il
suo dovere); né accenni
un po’ meno sornioni da
parte del padre
sull’ammontare della
fortuna che “la mia
carissima figliola”
avrebbe portato al
marito.
Questi ultimi
comunque erano
evidentemente
superflui: la casa di
Hyde Park era degna
della residenza di un
duca e l’assenza di
fratelli e sorelle era
più eloquente di mille
rapporti bancari.
Inoltre Ernestina,
pur avendo ben presto
furiosamente deciso,
come può farlo solo una
figlia viziata, di
conquistare Charles, si
guardò bene dallo
strafare.
Fece in modo che
fossero sempre presenti
altri giovanotti
attraenti e non
concesse mai alla sua
vera preda favori o
premure particolari.
Cercava di non
parlargli mai in tono
serio e, senza mai
dirglielo apertamente,
gli dava l’impressione
di trovarlo simpatico
perché la divertiva, ma
di sapere perfettamente
che non si sarebbe mai
sposato.
Poi, una sera di
gennaio, decise di
piantare il seme
fatale.
Vide Charles tutto
solo e all’estremo
opposto della sala una
vecchia vedova, una
specie di equivalente
per Mayfair di Mistress
Poulteney, che
chiaramente sarebbe
stata gradita a Charles
quanto l’olio di ricino
a un bimbo in buona
salute.
Gli si avvicinò.
Non va a conversare
con Lady Fairwether?
Preferirei conversare
con lei.
Se vuole gliela
presento.
Così avrà il
resoconto di una
testimone oculare su
quanto accadeva
nell’era antico-
minoica.
Charles sorrise.
L’antico-minoico è un
periodo, non un’era.
Non ha importanza.
Sono sicura che come
età ci siamo.
E so quanto
l’annoiano le cose che
sono avvenute negli
ultimi novanta milioni
di anni.
Venga.
Così cominciarono ad
attraversare insieme la
stanza, ma a metà della
strada che li portava
alla dama antico-
minoica, Ernestina si
fermò, posò per un
attimo la mano sul suo
braccio e lo guardò
negli occhi.
Se ha proprio deciso
di essere un vecchio
scapolo arcigno, Mister
Smithson, deve
cominciare a
esercitarsi.
Prima che lui potesse
rispondere, riprese a
camminare; e ciò che
aveva detto poteva
sembrare soltanto una
continuazione delle
battutine ironiche di
poco prima.
Ma per un rapidissimo
istante i suoi occhi
avevano detto
chiaramente che lei
stava facendo
un’offerta;
inequivocabile, alla
sua maniera, quanto
quelle delle donne che
nella Londra di allora
frequentavano gli
androni nei pressi
dell’Haymarket.
Ignorava tuttavia di
aver toccato un punto
sempre più sensibile
dell’anima segreta di
Charles: la sensazione
che stava assomigliando
sempre di più allo zio
di Winsyatt, che la
vita gli stava passando
davanti, che stava
diventando, come in
tante altre cose,
pignolo, pigro,
egoista… e peggio.
Da due anni non era
più andato all’estero,
e si era reso conto che
i suoi viaggi
precedenti erano stati
un surrogato alla
mancanza di una moglie.
Lo distraevano dalle
preoccupazioni
domestiche e gli
permettevano inoltre di
portarsi
occasionalmente a letto
una donna, un piacere
questo che severamente
si rifiutava in
Inghilterra, forse
memore di quella nera
notte dell’anima che il
suo primo esperimento
in questo campo aveva
provocato.
I viaggi non lo
attiravano più, ma le
donne sì, e quindi
viveva in uno stato di
estrema frustrazione
sessuale, perché la sua
delicatezza morale non
gli permetteva di
ricorrere al semplice
espediente di una
settimana a Ostenda o a
Parigi.
Non avrebbe mai
tollerato che un simile
obiettivo costituisse
la ragione di un
viaggio.
Trascorse così una
settimana molto
pensosa.
Poi un mattino si
svegliò.
Tutto era diventato
semplice.
Amava Ernestina.
Pensava al piacere di
svegliarsi in una
mattina come questa,
fredda, grigia, con una
spolveratura di neve
sul terreno, e di
vedere addormentato
accanto a lui quel
visino pudico, dolce e
sereno; e giusto cielo!
(l’idea produsse in
Charles una sorta di
stupore)
legittimamente, agli
occhi di Dio come degli
uomini.
Pochi minuti dopo
fece trasalire l’ancora
assonnato Sam, che era
strisciato sin quassù
dal pianterreno in
risposta a un’imperiosa
scampanellata,
dicendogli: Sam! Il
cielo mi perdoni ma io
sono al cento per cento
un completo e perfetto
idiota.
Un giorno o due dopo
il purissimo idiota
ebbe un colloquio con
il padre di Ernestina.
Fu breve e assai
soddisfacente.
Poi scese in salotto,
dove la madre aspettava
in uno stato di intensa
trepidazione.
Non riuscì a parlare
ma gli indicò con mano
tremante la serra.
Charles aprì la
bianca porta che vi
conduceva e si fermò un
attimo ad aspirare
quell’aria calda e
fragrante.
Dovette mettersi alla
ricerca di Ernestina ma
finì per trovarla in
uno degli angoli più
remoti, seminascosta da
un pergolato di
“stephanotis”.
Vide che gli lanciava
un’occhiata e subito
dopo abbassava il capo
volgendo altrove lo
sguardo.
Teneva in mano un
paio di forbici
d’argento e fingeva di
spuntare qualche fiore
morto di quella
profumatissima pianta.
Charles si portò alle
sue spalle e tossì.
Sono venuto a dirle
addio.
E finse di non
notare, col semplice
espediente di abbassare
lo sguardo a terra,
l’occhiata angosciosa
che ella gli aveva
rivolto.
Ho deciso di lasciare
l’Inghilterra.
Trascorrerò
viaggiando il resto
della mia vita.
Come potrebbe
svagarsi altrimenti un
vecchio scapolo
arcigno? Era pronto a
continuare su questo
tono.
Ma in quel momento
vide che Ernestina
aveva chinato il capo e
che le sue nocche si
erano sbiancate per la
forza con la quale si
aggrappava al tavolo.
Sapeva che in
circostanze normali si
sarebbe subito accorta
delle sue intenzioni
ironiche, e comprese
che l’attuale ottusità
scaturiva da
un’emozione profonda
che si comunicò anche a
lui.
Ma se pensassi che
qualcuno mi vuol tanto
bene da condividere…
Non poté continuare,
perché Ernestina si era
voltata con gli occhi
pieni di lacrime.
Le loro mani si
incontrarono ed egli
l’attirò a sé.
Non si baciarono.
Non potevano.
Come è possibile
tenere spietatamente
imprigionati per venti
anni tutti gli istinti
sessuali naturali e
aspettarsi che il
prigioniero non sia
scosso dai singhiozzi
nel momento in cui le
porte si spalancano?
Qualche minuto dopo
Charles condusse Tina,
leggermente
rinfrancata, lungo il
corridoio di piante
ornamentali che
conduceva alla porta
posteriore del salotto.
Ma si fermò per un
attimo davanti a un
gelsomino, ne staccò un
ramoscello e lo tenne
giocosamente sospeso
sopra il suo capo.
Non è vischio, ma va
bene lo stesso, no?
Così si baciarono, con
labbra castamente
asessuali come quelle
dei bimbi.
Ernestina ricominciò
a piangere, poi si
asciugò gli occhi e
permise a Charles di
riaccompagnarla in
salotto dove li stavano
aspettando i suoi
genitori.
Non occorsero parole.
Ernestina si gettò
tra le braccia aperte
della madre e
incominciò a versare il
doppio delle lacrime di
prima.
Intanto i due uomini
si scambiavano sorrisi,
l’uno come se avesse
appena concluso un
ottimo affare, l’altro
come se non fosse stato
del tutto sicuro del
pianeta in cui era
sbarcato, anche se
sperava sinceramente di
trovare affabilità tra
gli indigeni.

12.
“In che consiste
l’alienazione del
lavoro? Anzitutto in
questo: che il lavoro
resta esterno
all’operaio, cioè non
appartiene al suo
essere, e che l’operaio
quindi non si afferma
nel suo lavoro, bensì
si nega, non si sente
appagato, ma infelice…
L’operaio quindi si
sente con se stesso
soltanto fuori del
lavoro, e fuori di sé
nel lavoro”.
Marx, “Manoscritti
economico-filosofici”
(1844).
“And was the day of
my delight As pure and
perfect as I say?”
Tennyson, “In Memoriam”
(1850).
“E fu il giorno della
mia gioia / Puro e
perfetto come io dico?”

Pensando alla
misteriosa donna che si
era lasciato alle
spalle, Charles si
inoltrò nel bosco di
Ware Commons.
Camminò per un miglio
o due sino a
raggiungere
contemporaneamente
un’apertura tra gli
alberi e il primo
avamposto della
civiltà.
Era un lungo cottage
con il tetto di paglia
che sorgeva appena
sotto il sentiero.
Intorno c’erano due
prati che arrivavano
sino alle scogliere, e
mentre usciva dal bosco
Charles vide un uomo
che incitava una
mandria di vacche ad
allontanarsi da una
bassa stalla accanto al
cottage.
Esse suscitarono
nella sua mente
l’immagine di una
fresca e deliziosa
tazza di latte.
Non aveva più
mangiato nulla dopo
quella doppia dose di
“muffins”.
A casa di Mistress
Tranter lo aspettavano
tè e tenerezza, ma la
tazza di latte
reclamava… ed era molto
più vicina.
Scese un ripido
pendio erboso e andò a
bussare alla porta
posteriore del cottage.
Gli aprì un barilotto
di donna, con le grasse
braccia lucenti di
saponata.
Sì, era libero di
accomodarsi e di bere
quanto latte voleva.
Il nome di quella
casa? La Cascina la
chiamavano tutti così.
Charles seguì la
donna nella stanza dal
soffitto inclinato che
occupava tutta la parte
posteriore del cottage.
Era buia, ombreggiata
e freschissima, aveva
un pavimento d’ardesia
e vi si sentiva
fortissimo l’odore del
formaggio in
fermentazione.
Sotto i formaggi,
disposti tutti attorno
sulle travi scoperte,
come squadroni di lune
di riserva, era
schierata su cavalletti
di legno una batteria
di grandi padelle di
rame ognuna con
un’incrostazione dorata
di panna.
Allora Charles
ricordò di aver sentito
parlare di questa casa.
La sua panna e il suo
burro erano famosi in
paese; ne aveva parlato
zia Tranter.
Citò il suo nome, e
la donna che stava
versando un mestolo di
latte dalla zangola
accanto alla porta
proprio nel recipiente
che lui si aspettava,
una ciotola di
porcellana bianca e
azzurra, lo guardò
sorridendo.
Era meno straniero e
quindi più gradito.
Mentre lui stava
parlando con la donna,
o la ascoltava parlare,
sul prato davanti alla
Cascina, il marito
rincasò dall’aver
portato fuori le
vacche.
Era un uomo calvo con
una gran barba e un
viso decisamente
saturnino; un Geremia
insomma.
Lanciò un’occhiata
severa alla moglie che
smise immediatamente di
chiacchierare e tornò
alle sue casseruole.
Il marito era
evidentemente un
taciturno, ma parlò
abbastanza in fretta
quando Charles gli
domandò quanto dovesse
per quella ciotola di
ottimo latte.
Un penny, una di
quelle deliziose teste
della giovane Vittoria
che ancora appaiono
ogni tanto tra le
nostre monete, tutte
corrose, tranne la
testa aggraziata, da un
secolo d’uso e dalle
mani per cui sono
passate.
Charles stava per
risalire il sentiero.
Ma ebbe appena il
tempo di fare un passo
quando dagli alberi
sopra di loro comparve
una figura in nero.
Era la ragazza.
Diede loro una rapida
occhiata e proseguì in
direzione di Lyme.
Charles si voltò
nuovamente verso l’uomo
che continuava a
fissare quella figura
con aria cupa.
Evidentemente non
permetteva che la
cortesia ostacolasse il
suo giudizio profetico.
Conosce quella
signora? Sicuro.
Capita spesso qui?
Abbastanza.
L’uomo continuava a
guardare.
Poi disse: Ma mica è
signora.
E’ la puttana del
tenente francese.
Trascorse qualche
momento prima che
Charles si rendesse ben
conto del significato
di queste ultime
parole.
Dopo di che lanciò
un’occhiata rabbiosa al
barbuto, che essendo un
metodista amava dire
pane al pane,
specialmente se il pane
era il peccato di
qualcun altro.
Egli parve a Charles
un’incarnazione di
tutti i pettegoli
ipocriti - e i
pettegolezzi - di Lyme.
Personalmente avrebbe
potuto credere molte
cose di quel viso
addormentato; ma non
che appartenesse a una
puttana.
Pochi secondi dopo
percorreva anche lui la
strada carraia per
Lyme.
Due nastri calcarei
scorrevano tra i boschi
che salivano verso
l’interno e un’alta
siepe che quasi
nascondeva il mare.
Davanti camminava la
figura nera della
ragazza che aveva ora
il capo coperto da una
cuffia; i suoi passi
non erano svelti, ma
regolari, e privi di
affettazione femminile,
da persona avvezza a
coprire lunghe
distanze.
Charles decise di
raggiungerla e dopo un
centinaio di metri le
arrivò alle spalle.
La ragazza aveva
certamente udito il
suono dei suoi scarponi
chiodati sulle selci
affioranti dal gesso,
ma non si voltò.
Egli s’accorse che
portava un cappotto un
po’ troppo largo e che
i tacchi delle sue
scarpe erano infangati.
Poi esitò un istante,
ma il ricordo dello
sguardo arcigno di quel
dissidente della
Cascina lo richiamò
alle sue intenzioni
cavalleresche
originarie: mostrare
alla povera donna che
in questo mondo non
tutti erano barbari.
Signora! Lei si voltò
e lo vide sorridente e
senza cappello; e
benché la sua
espressione fosse ora
improntata a una
sorpresa abbastanza
normale, il suo viso
ebbe ancora su di lui
un effetto
straordinario.
Come se ogni volta,
dopo averlo visto, non
riuscisse a credere
all’impressione che ne
traeva e avesse bisogno
di vederlo di nuovo.
Sembrava che lo
assorbisse e insieme lo
respingesse; quasi
fosse il personaggio di
un sogno, che
contemporaneamente
rimane immobile e si
allontana.
Devo chiederle scusa
due volte.
Ieri non sapevo che
lei fosse la segretaria
di Mistress Poulteney.
Temo di averle
parlato in modo assai
scortese.
Lei continuò a tenere
gli occhi abbassati.
Non ha importanza,
signore.
E poco fa quando le
ho dato l’impressione
di…
Temevo che si fosse
sentita male.
Sempre senza
guardarlo, lei chinò il
capo e si voltò per
proseguire.
Posso accompagnarla?
Visto che andiamo nella
stessa direzione? Si
fermò, senza voltarsi.
Preferisco camminare
sola.
E’ stata Mistress
Tranter a informarmi
del mio errore.
Io sono…
So chi è lei,
signore.
Egli sorrise della
sua timida rudezza.
E allora…
Improvvisamente gli
occhi della ragazza
s’incontrarono con i
suoi, e dietro la
timidezza c’era una
sorta di disperazione.
La prego, mi lasci
andare avanti da sola.
Il sorriso di Charles
si spense.
S’inchinò e arretrò
di un passo.
Ma lei, anziché
continuare nel suo
cammino, rimase ancora
un momento ferma con
gli occhi abbassati.
E non dica a nessuno,
per favore, di avermi
vista qui.
Poi, senza più
guardarlo, si voltò e
proseguì come se
sapesse che la sua
richiesta era stata
vana e si fosse subito
pentita di averla
pronunciata.
Fermo in mezzo alla
strada, Charles vide
allontanarsi la sua
nera schiena.
Gli rimaneva soltanto
un’eco dell’immagine di
quegli occhi,
insolitamente grandi,
come se sapessero
vedere e soffrire di
più.
E la franchezza di
quello sguardo - lui lo
ignorava, ma aveva
ricevuto l’occhiata
tipo distribuzione di
opuscoli - conteneva un
particolarissimo
elemento di rifiuto.
Non venirmi vicino,
diceva.
“Noli me tangere”.
Si guardò attorno,
cercando di immaginare
perché non volesse far
sapere che passeggiava
per questi boschi
innocenti.
Forse c’era di mezzo
un uomo, un
appuntamento? Ma poi si
ricordò della sua
storia.
Arrivato finalmente
in Broad Street,
Charles decise di
fermarsi da Mistress
Tranter, prima di
andare al White Lion,
per annunciarle che,
appena fatto il bagno e
cambiatosi d’abito,
avrebbe…
Venne ad aprirgli
Mary, ma Mistress
Tranter passò per caso
nel vestibolo - o
meglio entrò
deliberatamente nel
vestibolo - e
insistette che non
doveva far complimenti;
i suoi abiti del resto
non erano forse la
prova migliore delle
sue giustificazioni?
Perciò Mary s’impadronì
sorridendo del suo
bastone e del suo
zaino, ed egli venne
introdotto nel
salottino sul retro,
bagnato in quel momento
dagli ultimi raggi del
sole al tramonto, dove
l’inferma giaceva in un
incantevole ed
elaborato “déshabillé”
grigio e carminio.
Mi sembra d’essere un
navigatore irlandese
condotto nel boudoir di
una regina si lamentò
Charles, baciando le
dita di Ernestina in
una maniera tale da
dimostrare che sarebbe
stato un pessimo
marinaio irlandese.
Lei allontanò la
mano.
Non avrai neanche una
goccia di tè finché non
mi avrai raccontato
ogni momento della tua
giornata.
Di conseguenza egli
riferì tutto ciò che
gli era accaduto, o
quasi tutto, perché già
due volte Ernestina
aveva fatto chiaramente
intendere di non
gradire che si parlasse
della donna del tenente
francese: una volta al
Cobb e poi a colazione
quando zia Tranter
aveva praticamente
fornito a Charles le
stesse informazioni
date dodici mesi prima
a Mistress Poulteney
dal vicario di Lyme.
Ma Ernestina aveva
rimproverato alla zia
di infastidire Charles
con i suoi noiosi
pettegolezzi e la
povera donna - troppo
spesso ripresa per il
suo provincialismo per
non dover stare in
guardia - aveva
umilmente obbedito.
Charles estrasse un
pezzo di roccia
ammonitifera che aveva
portato per Ernestina,
la quale posò il suo
parafuoco e tentò di
prenderlo in mano, ma
non ci riuscì e perdonò
tutto a Charles che
aveva compiuto una così
erculea fatica, anche
se poi finse di
arrabbiarsi perché
aveva messo in pericolo
la vita e gli arti.
E’una selva
affascinante
l’Undercliff.
Non immaginavo che in
Inghilterra esistessero
luoghi simili.
Mi ha ricordato certi
paesaggi marittimi del
Portogallo
settentrionale.
Guardalo come è in
estasi! esclamò
Ernestina.
Confessa, Charles, tu
non hai decapitato
povere rocce innocenti,
ma hai amoreggiato con
le ninfe del bosco.
Charles ebbe un
inesplicabile momento
di imbarazzo che celò
con un sorriso.
Stava quasi per
parlarle di Miss
Woodruff, aveva persino
trovato una maniera
spiritosa per
descrivere come era
incappato in lei, ma
gli sembrava una specie
di tradimento, sia
dell’angoscia autentica
della ragazza sia di se
stesso.
Sapeva che liquidando
con leggerezza quei due
incontri avrebbe
mentito, e alla fine
gli sembrò che in
quella frivola stanza
il silenzio fosse una
bugia meno grave.
Resta da spiegare
perché quindici giorni
prima Ware Commons
avesse evocato Sodoma e
Gomorra agli occhi di
Mistress Poulteney.
In realtà è
spiegazione sufficiente
il fatto che era il
luogo più vicino a Lyme
dove la gente potesse
andare senza che
nessuno la spiasse.
Aveva avuto lunghe
confuse e movimentate
vicende legali.
Sino alle leggi sui
recinti era sempre
stato considerato
terreno libero, ma poi
se n’erano gradualmente
impossessati dei
privati cittadini, come
ancora attestano i nomi
dei campi della
Cascina, tutti
sottratti a questo
patrimonio della
collettività.
Il nobile padrone di
una delle grandi case
che sorgono sotto
l’Undercliff aveva
compiuto in silenzio la
sua “Anschluss”, con
l’approvazione, come
sempre avviene in
questi casi, dei suoi
pari.
E’ vero che i
cittadini più
repubblicani di Lyme si
levarono in armi, se
un’ascia è un’arma, ma
il fatto è che quel
gentiluomo aveva deciso
di creare un giardino
botanico
nell’Undercliff.
Si arrivò ai
tribunali e poi a un
compromesso: venne
concesso un diritto di
passaggio e i suoi
pochi alberi rimasero
indisturbati.
Ma per la comunanza
era la fine.
Tuttavia la gente del
posto aveva ancora
l’impressione che Ware
Commons fosse proprietà
pubblica.
I bracconieri vi
sgattaiolavano,
sentendosi meno in
colpa che altrove, a
caccia di fagiani e
conigli; e un giorno si
scoprì, orrore degli
orrori, che vi si era
stabilita una banda di
zingari, accampandosi
in una valletta
nascosta, Dio solo sa
per quanti mesi.
Questi proscritti
vennero immediatamente
scacciati, ma il
ricordo del loro
soggiorno rimase e si
mescolò a quello di una
bimba scomparsa
pressappoco nello
stesso periodo da un
villaggio vicino.
Tutti sapevano che
gli zingari l’avevano
presa e gettata in uno
stufato di coniglio
dopo aver seppellito le
sue ossa.
Non essendo inglesi,
gli zingari erano quasi
certamente cannibali.
Ma l’accusa più grave
contro Ware Commons era
legata a una ben
peggiore infamia: pur
non avendo mai portato
questo nome così
frequente nelle
campagne, la strada
carraia che conduceva
alla Cascina e di qui
al bosco era “de facto”
un viottolo degli
innamorati.
Attirava ogni estate
coppie di fidanzati.
C’era il pretesto di
una tazza di latte alla
Cascina e bastava
voltarsi per trovare
molti invitanti
sentierini che
portavano a ben
protetti rifugi tra le
felci e i biancospini.
Questa piaga
permanente era già
orribile, ma c’era
anche di peggio.
Per una tradizione
antidiluviana (molto
più antica di
Shakespeare) la notte
di mezza estate i
giovani raggiungevano
con lanterne, un
violino e qualche
barilotto di sidro, una
radura nota come
Donkey’s Green nel
cuore dei boschi e vi
festeggiavano il
solstizio ballando.
Secondo alcuni,
passata la mezzanotte
più che ballare
barcollavano, mentre i
più draconiani
sostenevano che in
realtà ballavano e
barcollavano ben poco
mentre facevano
moltissimo qualche
altra cosa.
L’agricoltura
scientifica, in forma
di mixomatosi, ha
recentemente provocato
la fine definitiva del
Green, ma quella
tradizione era già
decaduta in coincidenza
con il decadimento dei
costumi sessuali.
Sono passati anni da
quando sul Donkey’s
Green la notte di mezza
estate si è rotolato
qualcuno che non fosse
un cucciolo di volpe o
di tasso.
Ma la situazione era
diversa nel 1867.
Solo un anno prima,
un comitato di dame
capitanato da Mistress
Poulteney, aveva fatto
pressioni sulle
autorità civiche perché
venisse bloccato da un
cancello, cintato e
tenuto chiuso.
Ma prevalsero pareri
più democratici.
Il libero diritto di
passaggio era
sacrosanto, e tra i
consiglieri c’erano
alcuni disgustosi
sensualisti i quali
sostennero che una
passeggiata alla
Cascina era un piacere
innocente e il ballo di
Donkey’s Green una gaia
festa annuale.
Ma basterà dire che
per i cittadini più
rispettabili era
sufficiente definire un
ragazzo o una ragazza
come “un tipo da Ware
Commons” per bollarli
in eterno.
Il ragazzo doveva
essere un satiro, la
ragazza una prostituta
di basso rango.
Sarah dunque trovò
Mistress Poulteney in
attesa del suo rientro
dalla passeggiata la
sera in cui Mistress
Fairley si era così
nobilmente sforzata di
fare il proprio dovere.
Ho detto “in attesa”,
ma sarebbe stato più
giusto dire “in
posizione”.
Sarah entrò nel suo
salotto privato per la
lettura serale della
Bibbia e fu come se
avesse avuto davanti la
bocca di un cannone.
Era evidentissimo che
Mistress Poulteney
avrebbe potuto
esplodere da un momento
all’altro, e con un
botto assai fragoroso.
Sarah si accostò al
leggio in un angolo
della stanza, dove
riposava nelle ore
libere la Bibbia “di
famiglia”, che non era
come penserete voi una
Bibbia appartenente da
tempo alla famiglia, ma
una dalla quale erano
stati devotamente
estirpati certi
inspiegabili errori di
gusto della Sacra
Scrittura, come il
canto di Salomone.
Ma si accorse subito
che c’era qualcosa
d’insolito.
Qualcosa che non va,
Mistress Poulteney?
Qualcosa che non va
assolutamente disse la
badessa.
Mi hanno raccontato
una cosa che stento a
credere.
Riguarda me? Non
avrei mai dovuto dar
retta al dottore, ma
solo ai dettami del mio
buonsenso.
Cosa ho fatto? Non
credo che lei sia
matta.
Lei è soltanto
un’astuta e perfida
creatura.
Lo sa benissimo che
cosa ha fatto.
Sono pronta a giurare
sulla Bibbia…
Mistress Poulteney le
lanciò un’occhiata di
sdegno.
Non farà nulla del
genere.
Sarebbe una
bestemmia.
Sarah si fece avanti
e si fermò di fronte
alla padrona.
Devo insistere per
sapere di che cosa sono
accusata.
Mistress Poulteney
glielo disse.
Ma con suo stupore
Sarah non mostrò alcun
segno di vergogna.
Ma cosa c’è di
peccaminoso nel
passeggiare per Ware
Commons? Di
peccaminoso! Una
giovane donna sola in
un luogo simile! Ma
signora, è soltanto un
grande bosco.
So benissimo che
cos’è.
E quali cose vi
accadono.
E quale genere di
persone lo frequenta.
Nessuno lo frequenta.
E’ per questo che ci
vado, per restare sola.
Lei mi sta
contraddicendo,
signorina! Crede che
non sappia di che cosa
parlo? La prima
semplice verità era che
Mistress Poulteney non
aveva mai posto gli
occhi su Ware Commons,
neanche da lontano,
perché non era visibile
da nessuna strada
carrozzabile.
La seconda semplice
verità era che Mistress
Poulteney era
un’oppiomane, ma prima
di accusarmi di
sacrificare
impetuosamente la
plausibilità al gusto
della sensazione,
permettetemi di
aggiungere subito che
non lo sapeva.
Quello che noi
chiamiamo oppio lei lo
chiamava laudano.
Un medico spiritoso,
anche se blasfemo,
dell’epoca lo chiamava
“Our-Lordanum” (1)
perché molte dame
ottocentesche - e anche
donne di condizione
meno elevata: in forma
di Godfrey’s Cordial,
infatti, la medicina
costava talmente poco
da permettere a tutte
le classi di superare
la nera notte della
femminilità - lo
sorseggiavano assai più
frequentemente che il
vino della comunione.
Era insomma un
equivalente assai
prossimo dei moderni
tranquillanti.
Non è necessario
indagare sui motivi che
avevano fatto di
Mistress Poulteney
un’abitante della valle
vittoriana delle
bambole, l’importante è
che il laudano, come
scoprì a suo tempo
Coleridge, fa fare
vividi sogni.
Non so immaginare
quale visione boschiana
di Ware Commons si
fosse costruita
Mistress Poulteney, né
quali orge sataniche
intuisse dietro ogni
albero, quali abomini
francesi sotto ogni
foglia.
Ma credo che possiamo
affermare senza tema di
smentite che quel bosco
era divenuto la
proiezione oggettiva di
quanto avveniva nel suo
subconscio.
La sua esplosione
aveva ridotto al
silenzio sia lei sia
Sarah.
Ma una volta
scaricatasi, Mistress
Poulteney cominciò a
cambiare tattica.
Mi ha profondamente
afflitta.
Ma come potevo
saperlo? Mi dicono di
non andare al mare.
Benissimo, io non
vado al mare.
Ma desidero la
solitudine.
Tutto qui.
E non è un peccato.
Non tollero di essere
chiamata una peccatrice
per questo motivo.
Non ha mai sentito
parlare di Ware
Commons? Come luogo del
tipo che lei insinua,
mai.
Mistress Poulteney
parve leggermente
intimidita di fronte
allo sdegno della
ragazza.
Ricordò che Sarah si
era trasferita a Lyme
solo di recente ed era
quindi possibile, come
pura ipotesi, che
ignorasse i rischi cui
poteva andare incontro.
Benissimo.
Ma mettiamo bene in
chiaro una cosa.
Io non permetto a
nessuno dei miei
dipendenti di andare o
di farsi vedere nei
pressi di quel luogo.
Lei limiterà le sue
passeggiate ai luoghi
rispettabili.
Sono stata chiara?
Sì, percorrerò i
sentieri della virtù.
Per un terribile
momento Mistress
Poulteney pensò di
essere stata oggetto di
sarcasmo, ma Sarah
teneva gli occhi
solennemente abbassati,
come se avesse rivolto
quella frase a se
stessa; e virtù era
sinonimo di sofferenza.
Allora che non si
parli più di questa
sciocchezza.
Lo faccio per il suo
bene.
Lo so mormorò Sarah.
E poi: La ringrazio,
signora.
Non dissero altro.
La ragazza si volse
verso la Bibbia e lesse
il brano segnato da
Mistress Poulteney.
Era lo stesso che
aveva scelto per il
primo colloquio: il
salmo 119, “Beati i
puri che camminano
nella legge del
Signore”.
Sarah lesse con voce
sommessa e
apparentemente priva di
emozione.
La vecchia, seduta
nella penombra
all’angolo opposto
della stanza, sembrava
un idolo pagano,
dimentico del
sacrificio di sangue
che il suo spietato
viso di pietra esigeva.
Quella notte si
sarebbe potuto vedere -
ma non so da chi, forse
da un gufo di passaggio
- Sarah affacciata alla
finestra della sua
camera non illuminata.
La casa era in
silenzio e così la
città, perché a
quell’epoca precedente
l’elettricità e la
televisione la gente
andava a letto alle
nove.
E adesso era l’una.
Sarah, in camicia da
notte e con i capelli
sciolti, stava
contemplando il mare
lontano.
Una lanterna ammiccò
debolmente a distanza
sulle acque nere verso
Portland Bill, dove una
nave era salpata in
direzione di Bridport.
Sarah aveva visto
quel minuscolo punto di
luce, ma lo aveva
subito dimenticato.
Se vi foste
avvicinati ancora di
più, avreste notato che
il suo viso era
inzuppato di tacite
lacrime.
Il suo trovarsi alla
finestra non era parte
di una veglia
misteriosa in attesa
delle vele di Satana;
si preparava a buttarsi
giù.
Non la farò indugiare
sul davanzale o
ondeggiare in avanti
per poi crollare
singhiozzando sul
logoro tappeto della
sua camera.
Sappiamo già che era
viva quindici giorni
dopo l’incidente, e
quindi che non si
buttò.
Inoltre i suoi
singhiozzi non erano
lacrime di tipo
isterico che
preannunciano un’azione
violenta, ma del tipo
prodotto da una
profonda condizione
infelice, anziché da
un’emozione: sgorgavano
lente e inarrestabili,
affiorando come sangue
attraverso una benda.
Chi è Sarah? Da quali
ombre proviene?
NOTE.
Nota 1.
Gioco di parole,
basato sull’assonanza
tra “Lord” e “Laud”.
“Our Lord” significa
“Nostro Signore”. [Nota
del Traduttore].
13.
“For the drift of the
Maker is dark, an Isis
hid by the veil…”.
Tennyson, “Maud”
(1855).“Poiché oscura è
l’intenzione del
Creatore, un’Iside
celata dal velo…” [Nota
del Traduttore].
Io non lo so.
La storia che sto
raccontando è tutta
immaginazione.
I personaggi che creo
non sono mai esistiti
fuori della mia
fantasia.
Se ho finora finto di
conoscere la loro mente
e i loro pensieri più
segreti, è perché sto
scrivendo in una
convenzione (nonché in
parte con un
vocabolario),
universalmente
accettata all’epoca in
cui si ambienta il mio
racconto, secondo la
quale il romanziere
siede accanto a Dio.
Può non sapere tutto,
ma cerca di fingere il
contrario.
Io però vivo
nell’epoca di Alain
Robbe-Grillet e Roland
Barthes; se questo è un
romanzo, non può che
esserlo nell’accezione
moderna del termine.
Perciò forse sto
scrivendo
un’autobiografia
trasposta; forse vivo
attualmente in una
delle case che ho
inserito nella
narrazione; forse
Charles sono io stesso
travestito.
Forse è soltanto un
gioco.
Esistono donne
moderne simili a Sarah
e io non le ho mai
capite.
O forse sto cercando
di trasmettervi un
libro di saggi
mascherati.
Invece di numerarli
progressivamente, avrei
dovuto dare ai miei
capitoli titoli come
“Sull’orizzontalità
dell’esistenza”,
“L’illusione di
progresso”, “La storia
del romanzo”,
“L’eziologia della
libertà”, “Di alcuni
aspetti dimenticati
dell’epoca vittoriana”…
e via dicendo.
Forse voi credete che
a un romanziere basti
tirare i fili giusti
perché i suoi fantocci
si comportino come
nella vita, e producano
a richiesta un’analisi
approfondita dei propri
motivi e delle proprie
intenzioni.
Effettivamente a
questo punto (“capitolo
tredicesimo:
esposizione del vero
stato d’animo di
Sarah”) intendevo
raccontare tutto, o
almeno tutte le cose
importanti.
Ma mi trovo
all’improvviso come uno
che in quella notte
frizzante di primavera
avesse alzato gli occhi
dal prato sottostante
alla buia finestra di
Marlborough House; so
che nel contesto reale
del mio libro Sarah non
si sarebbe mai
asciugata le lacrime
per sporgersi in fuori
e pronunciare un
capitolo di
rivelazione.
E se mi avesse visto
allo spuntare della
vecchia luna si sarebbe
immediatamente voltata
e sarebbe scomparsa tra
le ombre dell’interno.
Ma io sono un
romanziere, non un uomo
che sta in giardino.
Potrei quindi
seguirla dove mi garba.
Solo che il possibile
non coincide sempre con
il lecito.
I mariti potrebbero
spesso assassinare le
loro mogli - e
viceversa - facendola
franca.
Ma non lo fanno.
Voi forse credete che
i romanzieri abbiano
sempre un piano
predeterminato per il
loro lavoro, e che il
futuro previsto nel
primo capitolo sia
sempre,
inesorabilmente, il
presente del
tredicesimo.
In realtà i
romanzieri scrivono per
un’infinita varietà di
ragioni: per il denaro,
per la fama, per i
recensori, per i
genitori, per gli
amici, per le persone
amate; per vanità, per
orgoglio, per
curiosità, per
divertimento: nello
stesso modo in cui gli
abili mobilieri godono
nel fare mobili, gli
ubriaconi amano bere, i
giudici giudicare e i
siciliani scaricare la
carabina nella schiena
di un nemico.
Potrei riempire un
libro di queste
ragioni, e sarebbero
tutte vere, ma non vere
per tutti.
Una sola ragione è
comune a tutti noi:
vogliamo creare mondi
reali quanto quello che
esiste, ma diversi.
Per questo non
possiamo far piani.
Sappiamo bene che il
mondo è un organismo e
non una macchina.
Sappiamo anche che un
mondo autenticamente
creato deve essere
indipendente dal suo
creatore, che un mondo
pianificato (un mondo
che riveli totalmente
la sua progettazione) è
un mondo morto.
Incominciamo a vivere
soltanto quando i
nostri personaggi e i
nostri eventi
cominciano a
disobbedirci.
Quando Charles si
allontanò da Sarah sul
bordo della scogliera,
gli ordinai di tornare
direttamente a Lyme
Regis.
Ma lui non mi
ascoltò: voltò senza
alcuna giustificazione
e scese alla Cascina.
Su, andiamo, direte
voi: in realtà io
voglio dire che mentre
scrivevo mi venne in
mente che sarebbe stato
più azzeccato farlo
fermare a bere il
latte… e incontrare di
nuovo Sarah.
Ora questo
spiegherebbe
sicuramente quanto è
accaduto, ma io posso
soltanto riferire - e
sono il testimone più
attendibile - di aver
avuto la netta
impressione che l’idea
partisse da Charles e
non da me.
E non soltanto perché
egli ha cominciato a
conquistarsi una certa
autonomia, ma perché se
voglio che lui sia
reale devo rispettare
questa autonomia e non
i piani semidivini che
avevo fatto per lui.
In altre parole, per
essere libero, devo
concedere piena libertà
anche a lui, a Tina, a
Sarah, persino
all’abominevole
Mistress Poulteney.
C’è solo una buona
definizione di Dio: la
libertà che permette
l’esistenza di altre
libertà.
E io devo ottemperare
a questa definizione.
Il romanziere resta
sempre un dio, dal
momento che crea
(neanche il più
aleatorio dei moderni
romanzi d’avanguardia è
riuscito a sopprimere
completamente il suo
autore); ciò che è
cambiato è che non
siamo più gli dèi
dell’immagine
vittoriana, onniscienti
e sentenziosi; ma dèi
secondo una nuova
immagine teologica, e
il nostro principio
fondamentale è la
libertà, non
l’autorità.
Ho scandalosamente
distrutto l’illusione?
No.
I miei personaggi
continuano a esistere,
e in una realtà che non
è meno, o più, reale di
quella che ho appena
distrutto.
L’invenzione, come
disse un greco circa
duemilacinquecento anni
fa, è intrecciata in
tutte le cose.
Io ritengo che questa
nuova realtà (o
irrealtà) sia più
valida, e vorrei che
voi pure condivideste
la mia convinzione di
non poter controllare
del tutto queste
creature della mia
mente, come voi non
controllate per quanti
sforzi facciate, per
quanto possiate essere
un’edizione aggiornata
di Mistress Poulteney -
i figli, i colleghi,
gli amici o addirittura
voi stessi.
Dite che questo è
assurdo? Che un
personaggio o è “reale”
o “immaginario”? Se tu
la pensi così,
“hypochite lecteur”,
posso soltanto ridere.
Tu non consideri del
tutto reale neanche il
tuo passato; lo
agghindi, lo indori, lo
diffami, lo censuri, lo
rattoppi… in una parola
lo romanzi e lo metti
su uno scaffale, è il
tuo libro, la tua
autobiografia
romanzata.
Tutti noi non
facciamo che sfuggire
alla realtà reale.
E’ questa una
definizione
fondamentale dell‘“homo
sapiens”.
Se quindi pensate che
questa sciagurata
digressione (ma sia
davvero al tredicesimo
capitolo) non abbia
niente a che fare con
il vostro Tempo, il
vostro Progresso, la
vostra Società, la
vostra Evoluzione, e
tutti quegli altri
fantasmi della notte a
lettere maiuscole che
fanno risonare le loro
catene dietro le quinte
di questo libro… io non
discuto.
Ma diffido di voi.
Racconto, quindi,
soltanto i fatti
esteriori: che Sarah
pianse nel buio ma non
si uccise e che,
malgrado l’espresso
divieto, continuò a
bazzicare Ware Commons.
In un certo senso,
quindi, si era buttata
e stava vivendo una
sorta di lunga caduta,
perché Mistress
Poulteney sarebbe stata
inevitabilmente prima o
poi informata del
compromesso della
peccatrice con il suo
peccato.
E’ vero che Sarah
andava nei boschi meno
spesso di quanto si
fosse abituata, con un
sacrificio alleviato in
un primo tempo dalle
giornate umide delle
due settimane
successive.
Ed è anche vero che
prendeva qualche
piccola precauzione di
tipo militare.
Il viottolo carraio
sbucava in un vialetto,
poco più di un viottolo
carraio leggermente
ingrandito, che girava
attorno a un largo
vallone, la Ware
Valley, e sbucava poi,
alla periferia di Lyme,
nella carrozzabile tra
Sidmouth e Exeter.
Nella Ware Valley
erano disseminate
alcune case
rispettabili ed era
quindi un luogo in cui
passeggiare era
decoroso.
Ma per fortuna
nessuna di queste case
s’affacciava sulla
congiunzione tra il
viottolo carraio e il
viale.
Una volta arrivata
lì, quindi, Sarah
doveva soltanto
guardarsi attorno per
accertarsi di essere
sola.
Un giorno si avviò
con l’intento di
camminare nei boschi,
ma, quando percorrendo
il viale arrivò
all’incrocio con il
viottolo della Cascina,
vide due persone che
stavano svoltando su
una curva più in alto.
Procedette quindi
decisa verso di loro e,
superata la curva,
rimase a guardare per
accertarsi che la
coppia non imboccasse
il viottolo della
Cascina, poi tornò
indietro ed entrò senza
che nessuno la vedesse
nel suo rifugio.
Rischiava però di
incontrare viandanti
anche sul viottolo, e
in più c’era sempre il
pericolo di essere
vista dal vaccaro e
dalla sua famiglia.
Evitò quest’ultimo
rischio quando scoprì
che uno di quegli
allettanti sentieri tra
le felci sopra il
viottolo girava intorno
alla Cascina,
invisibile per i suoi
occupanti, sino a
raggiungere il sentiero
tra i boschi.
Era questo il
percorso che aveva
invariabilmente seguito
sino a quel pomeriggio
in cui emerse
avventatamente dal
folto - come adesso
sappiamo - sotto gli
occhi dei due uomini.
Il motivo era
semplice.
Aveva dormito troppo
e sapeva di essere in
ritardo per la lettura
biblica.
Quella sera Mistress
Poulteney avrebbe
cenato da Lady Cotton;
e la cerimonia era
stata anticipata perché
avesse modo di
prepararsi a quello che
in sostanza, se non in
apparenza, era sempre
uno scontro burrascoso
tra due brontosauri;
c’era il velluto nero
al posto delle ferree
cartilagini e le
citazioni della Bibbia
sostituivano
l’infuriare dei denti
rabbiosi, ma era
egualmente un’aspra,
implacabile battaglia.
Inoltre, il viso di
Charles che la guardava
dall’alto l’aveva
turbata; sentiva
accelerarsi la velocità
della sua caduta.
Quando il suolo
crudele si alza
precipitosamente verso
di voi, quando si cade
da tanta altezza, a che
cosa servono le
precauzioni?

14.
“Per buona compagnia,
Mister Elliot, intendo
la compagnia di persone
intelligenti, colte,
che sanno conversare
bene; questa io chiamo
buona compagnia.
Vi sbagliate, disse
lui con dolcezza quella
non è buona compagnia,
è la migliore.
La buona compagnia
richiede soltanto di
essere nati bene, di
essere educati, aver
buone maniere e non
molte esigenze quanto a
cultura.” Jane Austen,
“Persuasione”.

Chi si recava a Lyme


nel Diciannovesimo
secolo, se non doveva
addirittura sottoporsi
alla prova imposta ai
viaggiatori che
transitavano per le
colonie greche -
Charles non fu quindi
costretto a tenere dai
gradini del Municipio
un’orazione periclea
accompagnata da
un’esauriente sintesi
delle notizie di tutto
il mondo - doveva
tuttavia lasciare che
lo esaminassero e gli
rivolgessero la parola.
Ernestina lo aveva
già messo in guardia:
doveva considerarsi
come una bestia in un
serraglio e accettare
il più amabilmente
possibile le occhiate
brutali e le ombrellate
amichevoli.
Inoltre, due o tre
volte la settimana,
doveva accompagnare le
signore nelle loro
visite e
sopportare ore di
noia straziante con la
sola consolazione della
scenetta che si
svolgeva con piacevole
regolarità una volta
rientrati a casa di zia
Tranter.
Ernestina scrutava
con ansia i suoi occhi
resi vitrei da nuvole
di luoghi comuni e
diceva: E’ stato
terribile? Mi perdoni?
Non mi odi? e quando lo
vedeva sorridere gli si
gettava tra le braccia,
come se lui fosse
miracolosamente
sopravvissuto a una
rivolta o a una
valanga.
Accadde che la
valanga del mattino
successivo alla
scoperta da parte di
Charles dell’Undercliff
fosse programmata a
Marlborough House.
In queste visite non
c’era niente di casuale
o di spontaneo.
Non poteva esserci,
poiché le generalità
dei visitatori e dei
visitati si
diffondevano nella
cittadina con rapidità
incredibile, ed
entrambi stabilivano e
rispettavano
rigorosamente un certo
protocollo.
L’interesse di
Mistress Poulteney per
Charles non era
probabilmente maggiore
di quello di Charles
per lei; ma si sarebbe
sentita mortalmente
offesa se non
l’avessero trascinato
in catene a casa sua
dandole modo di
posargli addosso il suo
piedino grassoccio, e
ciò doveva avvenire il
più presto possibile
dopo il suo arrivo
perché quanto più tarda
era la visita nel corso
di un soggiorno tanto
era minore il
prestigio.
Questi “forestieri”
ovviamente erano
soprattutto pedine di
un gioco particolare.
Le visite in sé non
avevano importanza, ma
come venivano
deliziosamente
sfruttate una volta che
si erano ricevute! “La
cara Mistress Tranter
ha voluto che fossi la
prima a conoscere…” e
“Sono davvero stupita
che Ernestina non sia
ancora venuta a
trovarla…
Noi invece ci vizia,
ha già fatto due
visite” e “Si tratta
sicuramente di una
svista.
Mistress Tranter è
una carissima donna, ma
talmente distratta…”
Queste e altre analoghe
ghiotte occasioni di
rigirare il pugnale
mondano dipendevano
dalla disponibilità di
visitatori “importanti”
come Charles.
E le sue possibilità
di sfuggire a questa
sorte non erano
maggiori di quelle di
un grasso topo capitato
tra gli artigli di un
gatto affamato; per
essere più precisi, di
alcune dozzine di gatti
affamati.
Quando la mattina
successiva a
quell’incontro nei
boschi furono
annunciati Mistress
Tranter e i suoi due
giovani compagni, Sarah
si alzò immediatamente
per lasciare la stanza.
Ma Mistress
Poulteney, sempre
petulante quando
pensava a una giovane
coppia felice e
comunque con abbondanti
ragioni - dopo una
serata da Lady Cotton -
per essere ben più che
petulante, le ordinò di
restare.
Considerava Ernestina
una ragazza frivola ed
era sicura che il suo
promesso fosse un
giovane frivolo; perciò
si sentiva quasi in
dovere di metterli in
imbarazzo.
Sapeva inoltre che
per la peccatrice
queste occasioni
mondane erano come un
cilicio.
Tutto dunque
convergeva.
Vennero introdotti i
visitatori.
Mistress Tranter
avanzò frusciando,
espansiva e gentile.
Sarah rimase
timidamente,
penosamente sullo
sfondo, Charles ed
Ernestina si fermarono
con disinvoltura sul
tappeto dietro le due
signore anziane che si
conoscevano ormai di un
numero di decenni
sufficiente a imporre
una sorta di abbraccio
simbolico.
Poi venne presentata
Ernestina, che fece il
più vago accenno a un
inchino prima di
prendere quella mano
regale.
Come sta, Mistress
Poulteney? Mi sembra in
ottima salute.
Alla mia età, Miss
Freeman, conta soltanto
la salute spirituale.
Allora non ho timori
per lei.
A Mistress Poulteney
sarebbe piaciuto
insistere su questo
interessante argomento,
ma Ernestina si voltò
per presentarle Charles
che si chinò sulla mano
della vecchia.
Un grande piacere,
signora.
Una casa incantevole.
E’ troppo grande per
me.
La conservo per amore
di mio marito.
So che avrebbe
desiderato… che
desidera così.
E fissò, oltre
Charles, la principale
icona della casa, un
ritratto a olio di
Frederick dipinto nel
1851, due anni prima
della sua morte, dal
quale risultava
chiaramente che era un
uomo saggio, cristiano,
dignitoso, di
bell’aspetto, e
soprattutto superiore
alla media.
Ora un cristiano e un
uomo estremamente
dignitoso lo era
certamente stato, ma
per il resto il pittore
aveva attinto dalla
propria fantasia.
Il defunto Mister
Poulteney era infatti
un’assoluta, sebbene
ricchissima, nullità; e
il solo atto veramente
significativo che aveva
compiuto in vita sua
era stato quello di
lasciarla.
Charles contemplò
questo scheletro al
banchetto con
appropriata deferenza.
Ah.
Sì.
Capisco.
E’ ben naturale.
I LORO desideri
devono essere
rispettati.
E’ vero.
Mistress Tranter, che
aveva già sorriso a
Sarah, si servì di lei
come pretesto per
interrompere questo
introito sepolcrale.
Mia cara Miss
Woodruff, che piacere
vederla.
E andò a stringere la
mano a Sarah, con
un’occhiata piena di
sincera preoccupazione,
dicendole sottovoce:
Verrà a trovarmi,
quando la mia cara Tina
sarà partita?.
Allora per un attimo
apparve sul viso di
Sarah un’espressione
inconsueta.
Il calcolatore
elettronico che portava
nel cuore aveva da
tempo valutato Mistress
Tranter e incasellato
il relativo nastro.
Rinunciò quindi
momentaneamente a quel
riserbo e a quella
indipendenza così
pericolosamente vicina
alla provocazione che
erano diventati la sua
maschera davanti a
Mistress Poulteney.
Arrivò persino a
sorridere, sia pure con
tristezza, e fece un
cenno d’assenso appena
percettibile: potendo,
sarebbe venuta.
Allora vennero fatte
le altre presentazioni.
Le due signorine
abbassarono freddamente
il capo l’una
all’altra, Charles si
inchinò.
Osservava con
attenzione la ragazza
per vedere se avrebbe
in qualche modo tradito
i loro due incontri
della vigilia, ma essa
evitava deliberatamente
di guardarlo.
Lo incuriosiva vedere
come quell’animale
selvaggio si sarebbe
comportato tra queste
sbarre, ma rimase ben
presto deluso
constatando la sua
totale apparente
docilità.
Mistress Poulteney la
ignorava completamente,
se non per chiederle di
andare a prendere
qualcosa o di suonare
il campanello quando si
decise che le signore
avrebbero gradito un
po’ di cioccolata
calda.
E la ignorava anche
Ernestina, il che a
Charles non fece alcun
piacere.
Zia Tranter faceva
invece del suo meglio
per coinvolgerla nella
conversazione, ma lei
se ne stava un po’ in
disparte, con un viso
inespressivo,
distaccato, che si
poteva benissimo
interpretare come segno
di consapevolezza della
sua condizione
inferiore.
Egli stesso le si era
rivolto una volta o due
per avere conferma di
un’opinione, ma senza
successo.
Rispondeva il minimo
indispensabile e
continuava a evitare i
suoi occhi.
Fu soltanto verso la
fine della visita che
Charles cominciò a
rendersi conto di un
aspetto del tutto
particolare della
situazione.
Era chiaro che la
silenziosa docilità
della ragazza era
contraria alla sua vera
natura; che stava
quindi recitando una
parte, e questa parte
consisteva in una
totale dissociazione
dalla sua padrona e
nella disapprovazione
per il comportamento di
costei.
Intanto Mistress
Poulteney e Mistress
Tranter,
malinconicamente l’una,
vivacemente l’altra,
seguivano l’itinerario
prefissato degli
argomenti di una
garbata conversazione,
forse scarsi nel numero
ma trascinati molto in
lungo… la servitù, il
tempo, le nascite, i
funerali e i matrimoni
imminenti, Mister
Disraeli e Mister
Gladstone (questo,
verosimilmente, per far
contento Charles, anche
se diede modo a
Mistress Poulteney di
condannare con severità
i principi personali
del primo e quelli
politici del secondo);
(1) dopo di che si
passò al sermone
dell’ultima domenica e
ai difetti dei bottegai
locali per tornare,
naturalmente, alla
servitù.
Mentre sorridendo,
annuendo e aggrottando
le sopracciglia
percorreva questo ormai
familiare purgatorio,
Charles decise che la
taciturna Miss Woodruff
soffriva per un senso
d’ingiustizia e che,
cosa molto interessante
per un acuto
osservatore, faceva ben
poco per nasconderlo.
Charles mostrava così
un notevole intuito,
avendo notato una cosa
della quale a Lyme non
si era reso conto quasi
nessuno.
Ma forse questa
deduzione sarebbe
rimasta allo stato di
semplice sospetto, se
la padrona di casa non
avesse fornito un
tipico saggio di
poulteneysmo.
Quella ragazza che
avevo licenziato non le
ha più dato problemi?
Mistress Tranter
sorrise.
Mary? Non me ne
separerei per tutto
l’oro del mondo.
Mistress Fairley mi
dice di averla vista
solo stamattina parlare
con una persona.
Mistress Poulteney
diceva “persona” come
due patrioti francesi
avrebbero potuto dire
“nazista” durante
l’occupazione.
Una giovane persona.
Mistress Fairley non
la conosceva.
Ernestina lanciò a
Charles una penetrante
occhiata di rimprovero;
per un terribile
istante egli pensò di
essere lui l’accusato,
ma poi capì.
E sorrise.
Allora era certamente
Sam.
Il mio servo, signora
aggiunse a beneficio di
Mistress Poulteney.
Ernestina evitò il
suo sguardo.
Avevo intenzione di
dirtelo.
Anch’io li ho visti
parlare insieme ieri.
Ma… non vorrai
proibirgli di parlare
quando si incontrano?
C’è una differenza
enorme tra ciò che è
accettabile a Londra e
ciò che è corretto qui.
Credo che tu debba
parlarne a Sam.
La ragazza si lascia
sviare con troppa
facilità.
Mistress Tranter
sembrò offesa.
Mia cara Ernestina…
Sarà magari vivace ma
io non ho mai avuto il
minimo motivo di…
Mia carissima zia, so
benissimo quanto le sei
affezionata.
Charles s’accorse
della durezza con la
quale aveva pronunciate
queste parole e
intervenne a difendere
l’offesa Mistress
Tranter.
Vorrei che tutte le
padrone fossero così
affezionate.
Non c’è indizio più
sicuro di una casa
felice che trovare alla
porta una cameriera
contenta.
Ernestina abbassò gli
occhi, stringendo le
labbra in modo
eloquente.
La buona Mistress
Tranter arrossì un poco
per il complimento e
abbassò gli occhi anche
lei.
Mistress Poulteney,
che aveva assistito
alla scaramuccia con
una certa
soddisfazione, comprese
di detestare Charles
quanto bastava per
trattarlo con
scortesia.
La sua futura moglie,
Mister Smithson, è
miglior giudice di lei
in queste faccende.
Conosco la ragazza di
cui si parla.
E ho dovuto
licenziarla.
Se lei fosse più
vecchio saprebbe che in
queste cose non si è
mai troppo severi.
Dopo di che abbassò
gli occhi anche lei,
che era la sua maniera
per far capire di aver
espresso una sentenza
definitiva e quindi di
considerare chiuso
l’argomento per tutti
quanti.
M’inchino alla sua
maggiore esperienza,
signora.
Ma il tono era
inconfondibilmente
freddo e sarcastico.
Le tre signore
sedevano senza
guardarsi in viso:
Mistress Tranter per
imbarazzo; Ernestina
perché era irritata con
se stessa, in quanto
non era mai stata sua
intenzione scatenare su
Charles un simile
rabbuffo e adesso
avrebbe voluto essere
rimasta zitta; Mistress
Poulteney perché era
ciò che era.
Fu così che Sarah e
Charles si scambiarono
un’occhiata sfuggita a
tutte queste signore.
Fu assai breve ma
estremamente eloquente:
due estranei si erano
resi conto di avere un
nemico comune.
Per la prima volta la
ragazza non guardò
attraverso di lui, ma
verso di lui; e Charles
decise di vendicarsi di
Mistress Poulteney e di
dare a Ernestina una
lezione, evidentemente
necessaria, di umanità.
Si ricordò anche del
recente scontro con il
padre di Ernestina
sulla questione di
Charles Darwin.
C’era già fin troppo
fanatismo nel paese, e
non lo avrebbe
tollerato nella ragazza
che si preparava a
sposare.
Avrebbe parlato a
Sam; sì, giusto cielo,
avrebbe parlato a Sam.
Come gli parlò lo
vedremo tra poco.
Ma il tema generale
di quella conversazione
era ormai superato
perché in quel momento
la “persona” di
Mistress Poulteney
sedeva nella cucina di
casa Tranter.
Quel mattino Sam
AVEVA effettivamente
incontrato Mary in
Coombe Street, e le
aveva chiesto con aria
innocente se sarebbe
stato possibile
consegnarle la
fuliggine tra un’ora.
Sapeva ovviamente che
le due padrone si
sarebbero recate a
Marlborough House.
La conversazione in
quella cucina fu
sorprendentemente
seria, assai più di
quella nel salotto di
Mistress Poulteney.
Mary era appoggiata
alla grande credenza,
con le belle braccia
incrociate e una ciocca
di capelli color grano
che sbucava da sotto la
cuffia.
Faceva ogni tanto
qualche domanda, ma era
soprattutto Sam a
parlare, sia pure
rivolgendosi in genere
al lucido piano della
lunga tavola.
Solo di quando in
quando i loro occhi si
incontravano, e subito,
per mutuo consenso, si
volgevano timidamente
altrove.

NOTE.
Nota 1.
Per essere giusti con
questa signora, è forse
bene precisare che
nella primavera del
1867 la sua recisa
disapprovazione era
condivisa da molta
gente.
Mister Gladraeli e
Mister Dizzystone
avevano eseguito
insieme quell’anno un
numero vertiginoso; noi
ci scordiamo a volte
che l’approvazione
dell’ultimo grande
Reform Bill (sarebbe
divenuto legge il
prossimo agosto) venne
combinata dal Padre del
conservatorismo moderno
contro l’accanita
opposizione del Grande
liberale.
I Tories come
Mistress Poulteney
trovavano dunque una
difesa dall’orrore di
vedere i loro domestici
un gradino più vicini
al voto grazie al capo
di un partito che
detestavano
praticamente in ogni
altro settore.
Marx in uno dei suoi
articoli per la “New
York Daily Tribune”
osservava che in realtà
i Whigs inglesi
“rappresentano qualcosa
di ben diverso dai
principi liberali e
illuminati che pure
professano.
Sono nella stessa
posizione di quel beone
che, convocato dal
sindaco, dichiarò di
rappresentare il
principio della
temperanza ma che, per
varie circostanze
accidentali, ogni
domenica finiva sempre
per ubriacarsi”.
E’ un tipo che non si
è estinto.

15.
“… per quanto
riguarda le classi
lavoratrici, i modi
semiselvaggi
dell’ultima generazione
sono stati scambiati
per una profonda e
quasi universalmente
diffusa sensualità…”
“Report from the Mining
Districts” (1850).
“Or in the light of
deeper eyes Is matter
for a flying smile”.
Tennyson, “In
Memoriam” (1850).
“O nella luce di
occhi più profondi /
C’è motivo per un
fuggevole sorriso.
[Nota del Traduttore].

Il mattino dopo,
quando intraprese il
suo poco delicato
sondaggio del cuore
cockney di Sam, Charles
non tradiva Ernestina,
qualunque fosse il suo
atteggiamento nei
confronti di Mistress
Poulteney.
Se n’erano andati
poco dopo il battibecco
che abbiamo appena
descritto, e per tutta
la strada in discesa
che portava a Broad
Street Ernestina era
rimasta nel più
assoluto silenzio.
Una volta arrivata,
aveva fatto in modo di
rimanere sola con
Charles e, appena si
era chiusa la porta
alle spalle della zia,
era scoppiata in
lacrime (senza le
consuete autoaccuse
preliminari) e si era
gettata tra le sue
braccia.
Era la prima
divergenza che veniva a
offuscare il loro amore
e lei ne era
inorridita: che il suo
caro dolce Charles
dovesse essere umiliato
da un’odiosa
vecchiaccia, e solo per
un suo ripicco! Disse
queste cose dopo che
lui le ebbe dato
qualche rispettoso
colpetto sulla schiena
e asciugato gli occhi.
Poi Charles, per
vendicarsi, rubò un
bacio a ognuna delle
sue umide palpebre e le
perdonò immediatamente.
Mia cara sciocchina,
perché dovremmo
rifiutare ad altri ciò
che ci ha resi tanto
felici? Che cosa
importa se quel
l’impertinente
cameriera e quella
canaglia del mio Sam
s’innamorano l’uno
dell’altra? Proprio noi
dobbiamo scagliare la
prima pietra? Lei gli
sorrise dalla sua
poltrona.
Questo succede quando
cerco di comportarmi
come un’adulta.
Charles le si
inginocchiò accanto e
le prese una mano.
Bambina cara.
Tu per me sarai
sempre così.
Ernestina chinò il
capo per baciargli una
mano e lui a sua volta
le baciò la sommità dei
capelli.
Ottantotto giorni
sussurrò lei.
Non riesco a
resistere.
Allora scappiamo.
Andiamo a Parigi.
Charles… sarebbe uno
scandalo! Alzò il capo
e lui la baciò sulle
labbra.
Poi Ernestina si
lasciò ricadere contro
il bracciolo della
poltrona, con gli occhi
rugiadosi, il viso in
fiamme e il cuore che
batteva talmente forte
da farle temere uno
svenimento: era troppo
fragile per tante
emozioni improvvise.
Lui continuava a
tenerle la mano e a
stringerla
scherzosamente.
Se ci vedesse la
rispettabile Mistress
P.! Ernestina si coprì
il viso con le mani e
cominciò a ridere,
risatine soffocate che
si comunicarono a
Charles e lo
costrinsero ad alzarsi
e ad accostarsi alla
finestra nel tentativo
di assumere un
atteggiamento
dignitoso, ma non poté
fare a meno di voltare
la testa e intravide
gli occhi di lei tra le
sue dita.
Ci furono nella
stanza silenziosa altri
suoni soffocati.
Erano arrivati
entrambi alla stessa
conclusione: le nuove
meravigliose libertà
portate dalla loro
epoca, la meraviglia di
essere dei giovani
assolutamente moderni,
con un senso
dell’umorismo
assolutamente moderno,
mille anni lontani da…
Oh, Charles… oh,
Charles… ricordi la
signora antico-minoica?
Questo tornò a
scatenarli e sconcertò
completamente la povera
Mistress Tranter che
aspettava fuori sui
carboni ardenti,
convinta che stessero
litigando.
Infine raccolse il
coraggio per entrare
nella speranza di
metter pace.
Tina, continuando a
ridere, le corse
incontro e la baciò su
entrambe le guance.
Cara, cara zia, tu
non sei troppo
affezionata.
E io sono
un’insopportabile
bambina viziata.
Non voglio più il mio
vestito da passeggio
verde.
Posso regalarlo a
Mary? Per questo
qualche ora dopo
Ernestina venne
inclusa, con sincerità,
nelle preghiere di
Mary.
Ma dubito che siano
state ascoltate perché,
invece di mettersi
subito a letto non
appena rialzatasi, come
bisognerebbe fare dopo
aver pregato, Mary non
seppe resistere alla
tentazione di provarsi
un’ultima volta il
vestito verde.
Per vederci aveva
soltanto la luce di una
candela, ma il lume di
candela non ha mai
nuociuto a una donna.
Quella nube di biondi
capelli sciolti, quel
verde vivace, quelle
ombre tremanti, quel
viso timido, contento,
sorpreso… se il suo Dio
la stava guardando,
doveva certo desiderare
di essere per una notte
l’Angelo Decaduto.
Ho deciso, Sam, che
non ho più bisogno di
te.
Charles non poteva
vedere il viso del
servo perché aveva gli
occhi chiusi.
Si stava facendo
radere.
Ma il modo in cui il
rasoio si fermò valse a
informarlo della
soddisfacente emozione
che era riuscito a
provocare.
Puoi tornare a
Kensington.
Ci fu una pausa che
avrebbe ammorbidito il
cuore di un padrone
meno sadico.
Non hai nulla da
dire? Si, signore.
Sto meglio qui.
Ho capito che hai
delle brutte
intenzioni.
So benissimo che è la
tua condizione
naturale, ma preferisco
che tu abbia delle
brutte intenzioni a
Londra, dove si è più
abituati ai male
intenzionati.
Io mica ho fatto
niente, signore.
Inoltre voglio
risparmiarti la
sofferenza di dover
incontrare quella
giovane e impertinente
cameriera di Mistress
Tranter.
Ci fu un respiro
abbastanza forte.
Charles aprì un
occhio con cautela.
Non è gentile da
parte mia? Sam
impassibile tenne gli
occhi fissi sopra la
testa del padrone.
Mi ha fatto le sue
scuse.
E io le ho acetate.
Cosa? Da una semplice
vaccara? Impossibile.
Charles dovette
sbrigarsi a chiudere
gli occhi per evitare
una pennellata di
schiuma applicata di
malagrazia.
Era ignoranza, Mister
Charles.
Pura ignoranza.
Capisco.
Allora è peggio di
quanto immaginassi.
Devi assolutamente
partire.
Ma Sam ne aveva ormai
abbastanza.
Lasciò la schiuma
così com’era finché
Charles non fu
costretto ad aprire gli
occhi per vedere che
cosa stesse succedendo.
E quel che stava
succedendo era che Sam
aveva una crisi di
malumore, o almeno dava
questa impressione.
Cosa c’è che non va?
Eco, signore…
Voglio la verità.
Ieri non eri disposto
a toccare quella
signorina neanche con
un remo.
Oseresti negarlo? Ero
stato provocato.
Ah, ma dov’è il
“primum mobile”? Chi è
stato il primo a
provocare? Ma Charles
capì di aver esagerato.
Il rasoio stava
tremando nella mano di
Sam, non con intenti
omicidi ma per
un’indignazione appena
repressa.
Charles allungò una
mano e glielo portò via
per puntarlo verso di
lui.
In ventiquattr’ore,
Sam? In
ventiquattr’ore? Sam
cominciò a pulire il
lavabo con
l’asciugamano destinato
alle guance di Charles.
Rimase in silenzio, e
quando parlò lo fece
con voce soffocata.
Siamo mica cavali.
Siamo eseri umani.
Allora Charles
sorrise, si alzò, si
portò dietro al suo
servo e, posandogli una
mano sulla spalla, lo
costrinse a voltarsi.
Sam, ti chiedo scusa.
Ma ammetterai che le
tue passate relazioni
con il gentil sesso non
potevano certo farmi
prevedere una cosa
simile.
Sam abbassò gli occhi
risentito; pagava ora
il fio del suo passato
cinismo.
Ora questa ragazza…
come si chiama?…
Mary?… questa
incantevole Miss Mary
può essere molto
divertente stuzzicarla
e lasciarsene
stuzzicare, ma…
lasciami finire… ma mi
dicono che ha un cuore
delicato e pieno di
fiducia.
E io non voglio che
questo cuore venga
spezzato.
Piutosto mi taglio le
bracia, Mister Charles!
Benissimo.
Ti credo anche senza
l’amputazione.
Ma per favore non
andare più in quella
casa e non rivolgere
più la parola alla
ragazza per strada,
finché non avrò parlato
con Mistress Tranter e
ottenuto la sua
approvazione al tuo
corteggiamento.
Sam, che aveva sempre
tenuto gli occhi
abbassati, li alzò ora
sul suo padrone e
sorrise con tristezza,
come un giovane soldato
morente ai piedi del
suo ufficiale.
Sono un’oca di Derby,
signore.
Una danata oca di
Derby.
Un’oca di Derby, devo
aggiungere, è un’oca
già cucinata, e quindi
senza alcuna
ragionevole speranza di
resurrezione.

16.
“Maud in the light of
her youth and her
grace, Singing of
Death, and of Honour
that cannot die, Till I
well could weep fot a
time so sordid and
mean.
And myself so languid
and base”.
Tennyson, “Maud”
(1855).
“Maud nella luce
della sua giovinezza e
della sua grazia, /
Canta la Morte, e
l’Onore che non può
morire, / Finché a me
verrebbe voglia di
piangere su un tempo
così sordido e meschino
/E su me stesso così
indifferente e vile”.
[Nota del Traduttore].
“Never, believe me, I
knew of the feelings
between men and women,
Till in some village
fields in holidays now
getting stupid One day
sauntering ‘Iong and
listless’, as Tennyson
has it, Long and
listless strolling,
ungainly in
hobbadiboyhood Chanced
it my eye fell aside on
a capless, bonnetless
maiden…”.
A.H.
Clough, “The Bothie
of Tober-na-Vuolich”
(1848).
“Mai, credetemi ho
conosciuto i sentimenti
tra uomini e donne, /
Finché nei campi di un
villaggio durante una
vacanza che stava
diventando insulsa, /
Un giorno mentre
bighellonavo a passi
lunghi e svogliati,
come dice Tennyson /
Mentre dunque
passeggiavo a passi
lunghi e svogliati,
sgraziato nella mia
goffaggine, / Avvenne
che i miei occhi si
fermassero su una
fanciulla senza
cappello e senza
cuffia…” [Nota del
Traduttore]. Dopo ciò
che ho raccontato,
trascorsero cinque
giorni senza storia.
Charles non ebbe più
occasione di continuare
l’esplorazione
dell’Undercliíf.
Una volta fecero una
lunga gita a Sidmouth,
mentre le altre mattine
vennero occupate da
visite o da svaghi più
piacevoli, come il tiro
all’arco, allora
abbastanza in voga tra
le signorine inglesi:
il verde scuro “de
rigueur” stava tanto
bene ed era incantevole
vedere docili
gentiluomini andare a
strappare le frecce dai
bersagli (dove
purtroppo quelle della
miope Ernestina
finivano solo
raramente) e tornare
indietro con graziose
battute su Cupido, i
cuori e Maid Marian.
(1) Nei pomeriggi
invece Ernestina
riusciva di solito a
convincerlo a rimanere
da zia Tranter; c’erano
gravi problemi
domestici da discutere,
perché la casa di
Kensington era
decisamente troppo
piccola, e il contratto
d’affitto per la casa
di Belgravia, nella
quale si sarebbero poi
trasferiti, scadeva
soltanto tra due anni.
Sembrava che quel
piccolo incidente
avesse cambiato
Ernestina; ora trattava
Charles con estrema
deferenza ed era
talmente moglie devota
che egli si lamentò
perché gli sembrava
quasi di essere un
pascià turco e la pregò
senza molta originalità
di contraddirlo ogni
tanto per non fargli
dimenticare che il loro
sarebbe stato un
matrimonio cristiano.
Charles sopportava
con buon umore questo
eccesso improvviso di
rispetto per ogni suo
desiderio.
Era abbastanza
intelligente per
rendersi conto che
Ernestina era stata
colta di sorpresa, se
fino a quella piccola
divergenza era stata
forse più innamorata
del matrimonio che del
suo futuro marito,
adesso apprezzava
l’uomo e non solo
l’istituzione.
Charles, bisogna
confessarlo, trovava a
volte questo passaggio
dal secco al dolce un
tantino nauseante.
Certo gli faceva
piacere essere adulato,
coccolato, consultato,
rispettato.
A quale uomo non
piace? Ma aveva avuto
anni di liberissimo
celibato e a modo suo
era anch’egli un
insopportabile bambino
viziato.
Gli sembrava ancora
strano accorgersi di
non avere la libera
disponibilità delle sue
mattinate e di dover a
volte sacrificare i
suoi progetti per il
pomeriggio a qualche
capriccio di Tina.
Naturalmente era
sostenuto dal senso del
dovere; ci si aspettava
che i mariti facessero
queste cose, quindi
doveva farle anche lui,
come doveva portare
pesanti abiti di
flanella e scarponi
chiodati per
passeggiare in
campagna.
E le serate! Quelle
ore da riempire con la
luce a gas e senza
l’aiuto del cinema e
della televisione! Per
chi doveva guadagnarsi
da vivere non era certo
un grosso dramma:
quando hai lavorato
dodici ore in un
giorno, il problema di
quel che devi fare dopo
cena lo risolvi
facilmente.
Ma pensate ai poveri
ricchi: erano magari
liberi di starsene soli
prima delle ore serali,
ma dopo la convenzione
esigeva che si
annoiassero in
compagnia.
Vediamo dunque in che
modo Charles e
Ernestina attraversano
uno di questi deserti.
Gli è almeno
risparmiata la presenza
di zia Tranter, poiché
la cara signora è
andata a prendere il tè
da una vicina, una
zitella inferma, che è
una sua copia esatta in
tutto tranne che
nell’aspetto e nella
sua storia.
Charles è disteso con
grazia sul divano, due
dita sulla guancia,
altre due più il
pollice sotto il mento,
il gomito sul bracciolo
e gli occhi che,
attraverso il tappeto
di Axminster, fissano
gravemente Tina.
Costei legge, con un
volumetto in marocchino
rosso nella mano
sinistra e un parafuoco
nella destra (un
oggetto simile a una
racchetta da pingpong
con il manico lungo,
coperto di raso
ricamato e con lacci
marrone sui bordi, per
evitare che il calore
del carbone
scoppiettante osi
arrossare quella
carnagione castamente
pallida) che agita, un
po’ irregolarmente, al
ritmo molto regolare
del romanzo in versi
che sta leggendo.
E’ un best-seller di
quegli anni: “The Laly
of La Garaye”
dell’Honourable
Mistress Caroline
Norton, di cui
nientemeno che “The
Edinburgh Review” ha
scritto: “Il poema è
una pura, tenera,
toccante storia di
sofferenza, tristezza,
amore, dovere, pietà e
morte”, cioè il miglior
elenco di nomi e
aggettivi tipicamente
mediovittoriani che si
può sperare di
incontrare (troppo
bello, lasciatemi
aggiungere, perché
possa averlo inventato
io).
Voi penserete che
Mistress Norton fosse
soltanto un’insipida
poetastra dell’epoca.
E insipidi sono
effettivamente i suoi
versi, come vedrete tra
poco, ma non lo era per
niente la loro autrice.
Anzitutto era la
nipote di Sheridan; poi
era stata, a quanto si
diceva, l’amante di
Melbourne, o almeno suo
marito aveva prestato
fede a questa voce
quanto bastava per
citare in giudizio il
grande statista
accusandolo senza
successo di “crimen
continuum”; infine era
un’ardente femminista,
una progressista, come
diremmo oggi.
La signora del titolo
è la vivace moglie di
un vivace nobiluomo
francese che, rimasta
paralizzata in seguito
a un incidente di
caccia, dedica il resto
della sua triste vita
alle opere buone, più
utili di quelle di Lady
Cotton dal momento che
fonda un ospedale.
Pur essendo
ambientato nel
Seicento, il romanzo è
chiaramente un
panegirico di Florence
Nightingale.
E fu forse per questo
che toccò così
profondamente tanti
cuori femminili di quel
decennio.
Noi posteri pensiamo
che i grandi
riformatori abbiano
dovuto superare grandi
opposizioni o una
grande apatia.
E con opposizioni ed
apatia la vera Signora
della Lampada aveva
certamente dovuto
misurarsi ma, come ho
già osservato altrove,
anche nella simpatia
c’è qualcosa che può
essere quasi
altrettanto dannoso.
Non era certo la
prima volta che
Ernestina leggeva quei
versi; molti li
conosceva quasi a
memoria.
Ogni volta che li
leggeva (e ora poteva
farlo apertamente
perché era Quaresima),
si sentiva elevata e
purificata, in una
parola migliore.
Non ho bisogno di
aggiungere che in vita
sua non aveva mai messo
piede in un ospedale né
curato un contadino
malato.
Certo i suoi genitori
non glielo avrebbero
mai permesso, ma
neanche lei aveva mai
PENSATO di fare una
cosa simile.
Già, direte, ma a
quell’epoca le donne
erano prigioniere del
loro ruolo.
Pensate però alla
data di questa sera: 6
aprile 1867.
A Westminster, appena
una settimana prima,
John Stuart Mill aveva
approfittato di uno dei
primi dibattiti sul
Reform Bill per
sostenere che era
venuto il momento di
concedere alle donne
eguali diritti
elettorali.
Il suo coraggioso
tentativo (la mozione
venne respinta con 196
voti contro 73 e
l’astensione di quella
vecchia volpe di
Disraeli) era stato
accolto dai sorrisi
dell’uomo medio, dalle
fragorose risate del
“Punch” (una vignetta
mostrava un gruppo di
gentiluomini che
assediavano un ministro
femmina, ah, ah, ah) e
dalla corrucciata
disapprovazione di
tante donne istruite,
le quali sostenevano di
poter esercitare meglio
la loro influenza
rimanendo a casa.
Tuttavia il 30 marzo
1867 è la data alla
quale possiamo far
risalire gli inizi
dell’emancipazione
femminile in
Inghilterra e non ci è
possibile assolvere
completamente
Ernestina, che aveva
ridacchiato quando
Charles le aveva
mostrato il “Punch”
della settimana prima.
Ma stavamo
descrivendo una serata
in casa dell’epoca
vittoriana.
Torniamoci.
Charles fissa, con
una certa opacità negli
occhi appropriatamente
solenni, il viso grave
di Ernestina.
Devo continuare? Tu
leggi splendidamente.
Lei si schiarisce
delicatamente la gola e
riprende in mano il
libro.
E appena avvenuto
l’incidente di caccia e
il Sire de La Garaye
assiste la sua dama
caduta.
Discosta le masse dei
suoi capelli d’oro la
solleva, smarrito, con
timorosa cura, le
contempla il viso con
occhi spaventati; muore
la sua diletta, la sua
anima muore!

Ernestina getta una


rapida e solenne
occhiata a Charles, il
quale tiene gli occhi
chiusi, come se stesse
immaginandosi quella
tragica scena.
Ma annuisce
gravemente; è tutto
orecchi.
Ernestina riprende.
Potresti aver
sentito, nell’atroce
emozione, il batter del
suo cuore come un
grande orologio; e il
suo polso forte venir
meno e fermarsi, nel
brivido improvviso che
gli toglie la paura,
viene da quelle labbra
tremolanti e sbiancate
“Oh Claud!” dice,
nient’altro e tuttavia
tutti i giorni d’amore
dal loro primo incontro
gli balzarono in cuore
nella promessa ardente
che essa è tutta in lui
allora come adesso.

Ha letto l’ultimo
verso in tono molto
allusivo.
Lancia un’altra
occhiata a Charles.
I suoi occhi sono
ancora chiusi, ma
evidentemente è troppo
commosso anche soltanto
per annuire.
Ernestina prende un
po’ di fiato,
continuando a guardare
il fidanzato supino, e
procede oltre.
“Oh Claud, che
dolore!” “Oh, Gertrude,
mia amata!” Sulle sue
labbra apparve un
debole sorriso, Muto
ringraziamento del
conforto avuto…
Ma tu adesso dormi,
odioso sciagurato!

Una pausa.
Il viso di Charles è
come quello di un uomo
a un funerale.
Un altro respiro e
un’altra occhiata
fulminante della
lettrice.
Oh felici coloro che
in pena o nel dolore
Volti amici invano non
devono cercare…
CHARLES!
Il libro diventa
all’improvviso un
proiettile che va a
sfiorare la spalla di
Charles e atterra sul
pavimento accanto al
divano.
Sì? Vede Ernestina in
piedi, le mani sui
fianchi, in un
atteggiamento
decisamente insolito.
Si rizza a sedere e
sussurra: Oh, cara.
Ti ho sorpreso,
signore.
Stavolta non hai
scuse.

Ma Charles doveva
aver presentato scuse
sufficienti, o fatto
abbastanza penitenza,
perché il giorno dopo a
colazione ebbe il
coraggio di protestare
quando Ernestina gli
propose per la
diciannovesima volta di
discutere l’arredamento
del suo studio nella
casa non ancora
trovata.
Il dover abbandonare
la sua piccola ma
confortevolissima
dimora di Kensington
non era certo il più
trascurabile degli
imminenti sacrifici di
Charles, e riusciva a
rassegnarvisi solo a
patto che non glielo
ricordassero troppo
spesso.
Zia Tranter lo
appoggiò e di
conseguenza gli venne
concesso un pomeriggio
per i suoi “deprimenti
scavi” tra le pietre.
Sapeva benissimo dove
voleva andare.
Da quando su quel
prato ai margini della
scogliera si era
imbattuto nella donna
del tenente francese,
aveva pensato soltanto
a lei, ma un attimo
prima aveva avuto il
tempo di notare, ai
piedi del piccolo
contrafforte roccioso
di cui il prato
costituiva il piatto
apice, considerevoli
pile di selci.
Fu sicuramente questo
che lo indusse a
recarsi lì quel
pomeriggio.
Il rinnovato calore e
l’intensificatsi
dell’amore per
Ernestina avevano
scacciato dalla sua
coscienza qualsiasi
pensiero, che non fosse
del tutto fuggevole e
casuale, sulla
segretaria di Mistress
Poulteney.
Ma quando arrivò al
punto dal quale doveva
arrampicarsi attraverso
i rovi, essa gli tornò
in mente; ricordava
benissimo come era
sdraiata quel giorno.
Quando però,
attraversato il prato,
s’affacciò su quel
pianoro, lo trovò
deserto, e presto tornò
a dimenticarsi di lei.
Trovò la maniera di
scendere ai piedi del
contrafforte e cominciò
a cercare i suoi testi
tra la ghiaia.
Faceva molto più
freddo della volta
precedente.
Si succedevano, come
s’addice all’aprile,
momenti di sole e
momenti di nubi, ma
soffiava il vento del
nord.
Però ai piedi del
contrafforte, che era
rivolto verso sud,
faceva piacevolmente
caldo, e ben presto
Charles si sentì ancora
meglio quando vide ai
suoi piedi un
bellissimo testo,
apparentemente
staccatosi da poco
dalla sua matrice di
selce.
Quaranta minuti dopo,
tuttavia, dovette
rassegnarsi al fatto
che non avrebbe più
fatto scoperte così
fortunate, almeno tra
le selci ai piedi del
contrafforte.
Risalì verso il prato
e s’avviò in direzione
del sentiero che lo
avrebbe riportato nel
bosco.
E qui vide muoversi
qualcosa di scuro.
La ragazza era
arrivata a metà di quel
ripido viottolo, ma era
troppo affaccendata a
liberare il cappotto da
un rovo recalcitrante
per udire i passi di
Charles attutiti
dall’erba.
Appena la vide, egli
si fermò.
Il sentiero era
stretto e lei aveva il
diritto di precedenza.
In quel momento
s’accorse di lui.
Erano a circa cinque
metri l’uno dall’altra,
tutti e due chiaramente
imbarazzati, ma con
espressioni molto
diverse.
Charles stava
sorridendo mentre Sarah
lo fissava con
diffidenza profonda.
Miss Woodruff! Lo
salutò con un
impercettibile cenno
del capo, e parve
esitare come se,
potendo, desiderasse
tornare indietro.
Ma poi si accorse che
egli si era fatto da
parte per darle via
libera e s’avviò
frettolosamente per
passare oltre.
Fu così che scivolò
su un punto traditore
di quel sentiero
melmoso e cadde sulle
ginocchia.
Charles si slanciò in
avanti per aiutarla ad
alzarsi: adesso era
veramente un animale
selvatico, incapace di
guardarlo, muta, e
tremante.
Con molta
delicatezza, tenendole
il gomito con una mano,
egli la guidò verso il
pianoro erboso sopra il
mare.
Sarah indossava lo
stesso cappotto nero e
lo stesso abito indaco
con il colletto bianco.
Ma forse perché era
scivolata, o perché lui
le teneva il braccio, o
perché faceva più
fresco, non lo so,
fatto sta che la sua
pelle aveva un vigore,
una rosea freschezza
che s’accompagnava
mirabilmente con la
timidezza selvaggia del
suo contegno.
Il vento le aveva
sciolto un poco i
capelli e l’impressione
era in un certo senso
quella che poteva dare
un ragazzo sorpreso a
rubar mele in un
frutteto: rimorso sì,
ma con una punta di
ribellione.
Poi improvvisamente
si voltò verso di lui,
con una rapida occhiata
di traverso e dal
basso, partita da
quelle pupille castano-
scure, quasi
esoftalmiche,
un’occhiata insieme
timida e severa che lo
costrinse a lasciarle
il braccio.
Mi spaventa, Miss
Woodruff, pensare a
quel che potrebbe
succedere se lei un
giorno si slogasse una
caviglia in un luogo
come questo.
Non ha importanza.
Ma certo che avrebbe
importanza, cara
signorina.
Da quanto mi ha detto
la scorsa settimana,
presumo che non voglia
far sapere a Mistress
Poulteney che viene
qui.
Il cielo mi guardi
dal chiederle il
perché.
Ma devo farle notare
che se lei per qualche
ragione si trovasse
impossibilitata a
camminare, io sarei il
solo in tutta Lyme a
poter guidare una
spedizione di soccorso.
Non è così? Lo sa
anche Mistress
Poulteney.
Lo immaginerebbe.
Sa che lei viene qui…
proprio in questo
posto? Sarah abbassò
gli occhi come se non
intendesse più
rispondere alle sue
domande, e lo pregò di
andarsene.
Ma c’era nel suo
viso, che Charles
vedeva ora di profilo,
qualcosa che lo
convinse a rimanere.
Ogni sua fattezza, se
ne accorgeva adesso,
era stata sacrificata
agli occhi.
Essi non potevano
nascondere
l’intelligenza e
l’indipendenza del
carattere, e mostravano
in più un tacito
rifiuto di qualsiasi
dimostrazione di
simpatia e una ferma
decisione di essere ciò
che era.
In quel periodo la
moda imponeva
sopracciglia i fragili,
delicate, arcuate, e
quelle di Sarah erano
molto marcate, o almeno
insolitamente scure,
quasi quanto i capelli,
ed era questo che le
faceva apparire marcate
e in certi momenti le
dava quasi l’aspetto di
un maschiaccio.
Non voglio dire che
avesse uno di quei bei
visi mascolini dal
mento pronunciato che
avrebbero trionfato
nell’epoca edoardiana,
una bellezza da Gibson
Girl. (2) Il suo era un
viso ben modellato e
assolutamente
femminile, dove
all’intensità repressa
degli occhi si
accompagnava la
sensualità repressa
della bocca larga; e
neanche questa
corrispondeva al gusto
del momento, il quale
oscillava tra le
boccucce sottili quasi
senza labbra e gli
infantili archi di
Cupido.
Charles, come quasi
tutti gli uomini del
suo tempo, subiva
ancora un poco
l’influenza della
“Fisiognomia” di
Lavater.
Notò la bocca e non
si lasciò ingannare dal
fatto che la teneva
artificiosamente
stretta.
Qualche eco lo
sguardo lampeggiante di
quegli occhi scuri
l’aveva certamente
suscitata nella mente
di Charles; ma non echi
inglesi.
Egli associava visi
del genere a donne
straniere, o per essere
esatti (assai più di
quanto lo sarebbe stato
lui con se stesso) a
letti stranieri.
Ciò introdusse a una
nuova fase della sua
conoscenza di Sarah.
Si era già reso conto
che era più
intelligente e
indipendente di quanto
sembrasse, ma ora
intuiva qualità più
segrete.
Per quasi tutti gli
inglesi del suo tempo
questa intuizione della
vera natura di Sarah
sarebbe stata
repellente, e anche
Charles ne fu vagamente
disgustato, o almeno
turbato; ma mentre
quelli, per una di
quelle terribili
equazioni che si
verificano per ordine
del super-io, avrebbero
considerato Sarah in
certo qual modo
responsabile di essere
nata così come era, lui
la pensava
diversamente.
E per questo possiamo
ringraziare i suoi
hobby scientifici.
Il darwinismo, come
avevano capito i suoi
avversari più sagaci,
apriva le cateratte a
qualcosa di assai più
grave di un’insidia
alla versione biblica
delle origini
dell’uomo; le sue
implicazioni più
profonde portavano al
determinismo e al
comportamentismo, cioè
a filosofie che
riducono la moralità a
ipocrisia e il dovere a
un cappello di paglia
nell’uragano.
Non dico che Charles
assolvesse
completamente Sarah, ma
era assai meno propenso
a biasimarla di quanto
lei stessa immaginasse.
In parte dunque i
suoi hobby scientifici…
ma Charles aveva anche
il vantaggio di aver
letto - in assoluta
segretezza perché il
libro era stato messo
sotto processo per
oscenità - un romanzo
pubblicato in Francia
una decina d’anni
prima; un romanzo
profondamente
determinista nei suoi
presupposti, il celebre
“Madame Bovary”.
E mentre guardava
quel viso, fu il nome
di Emma Bovary che gli
venne improvvisamente
alla mente.
Associazioni simili
sono comprensioni.
E tentazioni.
Per questo, alla fin
fine, si guardò bene
dall’inchinarsi e
dall’andarsene.
Finalmente lei parlò.
Non sapevo che lei
fosse qui.
Come avrebbe potuto?
Devo tornare.
E si voltò.
Ma Charles le rivolse
subito la parola.
Mi permette prima di
dirle una cosa? Una
cosa che forse, come
estraneo a lei e alla
sua situazione, non ho
il diritto di dire.
Lei lo ascoltava a
capo chino, volgendogli
la schiena.
Posso continuare?
Sarah rimase in
silenzio.
Lui esitò un momento,
poi riprese: Miss
Woodruff, non posso
fingere che non si sia
discusso in mia
presenza della sua
situazione… per
iniziativa di Mistress
Tranter.
Devo dirle che se n’è
parlato con simpatia e
carità.
Mistress Tranter
crede che lei non sia
felice nella sua
posizione attuale, che
del resto ho motivo di
credere le sia stata
imposta più dalla forza
delle circostanze che
da qualche altra
ragione più congeniale.
Conosco Mistress
Tranter solo da
pochissimo tempo.
Ma considero uno dei
privilegi meno
trascurabili del mio
imminente matrimonio il
fatto di aver potuto
conoscere una persona
dall’animo così
autenticamente gentile.
Ma vengo al punto.
Confido… Si
interruppe vedendo che
lei si era voltata a
guardare tra gli alberi
alle loro spalle.
Le sue orecchie
sensibilissime avevano
percepito un suono, un
ramo spezzato sotto un
piede.
Ma prima che potesse
chiederle cosa stesse
succedendo, udì
anch’egli delle
sommesse voci maschili.
Intanto però Sarah
era passata all’azione:
sollevata la gonna, si
era rapidamente
spostata sull’erba una
quarantina di metri più
a oriente, ed era poi
sparita dietro un
boschetto di ginestre
che si affacciava sul
prato.
Charles rimase lì
esterrefatto, complice
muto del suo senso di
colpa.
Le voci degli uomini
erano sempre più forti.
Bisognava agire: egli
si incamminò verso il
punto dove sfociava il
sentiero attraverso i
rovi.
E fu una fortuna che
avesse fatto così
perché, nel momento
stesso in cui entrò
nella sua visuale il
sentiero più in basso,
vi entrarono anche due
visi che guardavano in
su ed erano entrambi
fortemente sorpresi.
La loro intenzione
era stata chiaramente
quella di imboccare il
sentiero dove ora lui
si trovava.
Charles aprì la bocca
per dir loro buon
giorno, ma i due visi
sparirono con
stupefacente rapidità.
Sentì una voce
sibilata - Scappa, Jem!
- e un rapido suono di
passi.
Pochi istanti dopo un
sommesso fischio
impaziente e l’eccitato
uggiolio di un cane.
Poi il silenzio.
Attese un minuto, per
essere certo che si
fossero allontanati,
poi girò attorno alle
ginestre.
La trovò con un
fianco appoggiato alle
loro spine aguzze e con
lo sguardo rivolto
altrove.
Se ne sono andati.
Due bracconieri,
immagino.
Lei annuì ma continuò
a evitare i suoi occhi.
Le ginestre erano in
piena fioritura, e i
loro fiori giallo
cadmio erano talmente
fitti da nascondere
quasi il verde.
L’aria era piena del
loro muschio melato.
Egli disse: Non credo
che fosse necessario.
Nessun gentiluomo che
tenga al suo buon nome
può farsi vedere con la
donna scarlatta di
Lyme.
Anche questo era un
passo avanti: c’era
amarezza nella sua
voce.
Charles sorrise a
quel viso che ancora
evitava i suoi occhi.
Penso che lei di
scarlatto abbia
soltanto le guance.
Sarah si voltò a
lanciargli un’altra
rapida occhiata, come
per accusarlo di
torturare un animale
agli estremi.
Poi di nuovo volse
gli occhi altrove.
Non mi fraintenda
disse Charles con
dolcezza.
Io deploro la sua
disgraziata situazione.
E apprezzo la sua
delicatezza a proposito
della mia reputazione.
Essa però è
insensibile al giudizio
di persone come
Mistress Poulteney.
Lei non si mosse.
Charles continuava a
sorridere, disinvolto
grazie ai suoi viaggi,
alle sue letture, alla
sua conoscenza del
mondo.
Mia cara Miss
Woodruff, io ho una
certa esperienza.
E un vero fiuto per i
fanatici… qualunque sia
l’espressione solenne
di devozione che essi
mostrano al mondo.
E adesso per favore
vuole uscire dal suo
nascondiglio? Non c’è
nulla di scorretto in
un incontro casuale.
Inoltre deve
permettermi di finire
ciò che le stavo
dicendo.
Si fece da parte e
Sarah riprese a
camminare sull’erba
tagliata corta.
Egli vide che aveva
le ciglia umide.
Non le impose la
propria presenza ma
riprese a parlarle
stando qualche metro
più indietro.
Mistress Tranter
gradirebbe… è
estremamente ansiosa di
aiutarla, se
desiderasse cambiare
impiego.
La sua sola risposta
fu di scuotere il capo.
Nessuna situazione è
irrimediabile… per chi
ispira simpatia.
Fece una pausa.
Il vento tagliente
prese un ciuffo dei
capelli di lei e lo
soffiò in avanti.
Sarah nervosamente lo
rimise al suo posto: Le
dico soltanto ciò che
Mistress Tranter
amerebbe comunicarle
personalmente.
Charles non stava
esagerando.
Durante l’allegro
pasto seguito alla
riconciliazione, si era
infatti parlato di
Mistress Poulteney e di
Sarah.
Charles era stato
soltanto una fuggevole
vittima
dell’oppressione di
quella vecchia ed era
quindi naturale pensare
a colei che ne era
vittima permanente.
E adesso che si era
inoltrato in un
territorio dove angeli
meno metropolitani non
avrebbero mai osato
camminare, egli decise
di comunicare a Sarah
le loro conclusioni di
quel giorno.
Dovrebbe andarsene
da Lyme… da questa
zona.
Mi risulta che ha
ottimi requisiti.
E sono convinto che
potrebbe utilizzarli
assai meglio altrove.
Sarah non replicò.
So che Miss Freeman e
sua madre sarebbero
felicissime di
interessarsi in suo
favore a Londra.
Allora Sarah si
allontanò da lui
arrivando fin sul
ciglio della scogliera
e rimase a lungo a
fissare il mare; poi si
voltò a guardarlo,
ancora fermo accanto
alle ginestre.
Fu una strana
occhiata, luminosa e
talmente diretta da
farlo sorridere.
Era uno di quei
sorrisi di cui chi li
fa conosce la
debolezza, ma non
riesce a trattenerli.
Essa abbassò gli
occhi.
La ringrazio.
Ma non posso lasciare
questo luogo.
Charles si limitò a
una piccolissima alzata
di spalle.
Era sconcertato e
vagamente offeso.
Allora devo ancora
una volta presentarle
le mie scuse per aver
disturbato la sua
privacy.
Non lo farò mai più.
S’inchinò e fece per
allontanarsi.
Ma non aveva fatto
neanche due passi
quando lei parlò di
nuovo.
Io… so che Mistress
Tranter lo fa per
gentilezza.
Allora le permetta di
realizzare i suoi
desideri.
Sarah guardava l’erba
che era tra loro.
Del fatto che mi si
rivolga ancora la
parola come se… come se
non fossi ciò che sono…
sono molto grata.
Ma una tale
gentilezza…
Una tale gentilezza?
Una tale gentilezza è
per me più crudele che…
Non finì la frase ma
tornò a voltarsi verso
il mare.
Charles sentì un gran
desiderio di allungare
una mano, di prenderle
le spalle, di
scuoterla: la tragedia
va benissimo sul
palcoscenico, ma nella
vita quotidiana può
sembrare mera
testardaggine.
E questo, in termini
assai meno drastici, fu
ciò che allora le
disse.
Quella che lei chiama
ostinazione è il mio
solo soccorso.
Miss Woodruff, mi
permetta di parlarle
con franchezza.
Ho sentito dire che
lei è… non del tutto
sana di mente.
Ma credo che il suo
unico guaio sia di aver
dato un giudizio troppo
severo sul suo passato
comportamento.
Ma in nome del cielo
perché passeggia sempre
da sola? Non si è già
punita abbastanza? Lei
è giovane.
E’ in grado di
guadagnarsi da vivere.
E non ha, credo,
legami familiari che la
tengano nel Dorset.
Sì che li ho.
Con quel gentiluomo
francese? Lei distolse
lo sguardo, come se
questo fosse stato un
argomento tabù.
Mi permetta di
insistere.
Queste cose sono come
le ferite.
Se nessuno ha il
coraggio di guardarle,
vanno in putrefazione.
O lui non torna, e
allora non era degno di
lei.
O torna, e allora non
posso credere che, non
trovandola a Lyme
Regis, si lascerà
scoraggiare al punto da
non scoprire dove si
trova e seguirla.
Non è ragionevole
quel che le dico? Ci fu
una lunga pausa.
Pur rimanendole
qualche metro lontano,
egli si spostò in modo
da poter vedere il suo
viso di profilo.
Aveva un’espressione
strana, quasi serena,
come se le parole che
aveva udito avessero
confermato qualche
segreta convinzione del
suo cuore.
Continuava a guardare
il mare, dove, cinque
miglia al largo, si
vedeva in una macchia
di sole un brigantino
dalle vele color
ruggine in rotta verso
occidente.
Poi parlò con voce
pacata, come se si
rivolgesse a quella
nave lontana.
Non tornerà mai.
Lei teme che non
tornerà mai? Io so che
non tornerà mai.
Non capisco.
Sarah si voltò a
guardare il viso
premuroso e perplesso
di Charles.
Per un lungo istante
sembrò quasi godersi il
suo sbalordimento.
Poi guardò altrove.
Tempo fa ho ricevuto
una lettera.
Quel gentiluomo… e di
nuovo tacque, quasi
pentita di aver
rivelato tante cose.
Poi improvvisamente
si mise a camminare,
quasi a correre, sul
prato dirigendosi verso
il sentiero.
Miss Woodruff! Lei
fece ancora un passo o
due e si voltò; e di
nuovo i suoi occhi lo
disgustarono e insieme
lo straziarono.
La sua voce aveva
un’asprezza repressa ed
era un’esplosione di
dentro e di fuori.
E’ sposato! Miss
Woodruff! Ma essa non
gli badò.
Charles rimase lì.
Il suo sbalordimento
era ben naturale.
Ma non lo era per
niente il suo attuale e
chiaramente
identificabile senso
di colpa.
Come se avesse
mostrato una spietata
assenza di
comprensione, quando
invece era abbastanza
convinto di aver fatto
del suo meglio.
La seguì con gli
occhi ancora per
qualche istante quando
già era scomparsa.
Poi si volse verso il
brigantino come se
avesse potuto fornire
una soluzione per
questo enigma.
Ma non la fornì.

NOTE.
Nota 1.
La ragazza di Robin
Hood. [Nota del
Traduttore].Nota 2.
E’ il prototipo della
bellezza e
dell’eleganza femminile
anglosassone alla fine
del secolo, che trovò
il suo illustratore
principe nel pittore
americano Charles Dana
Gibson. [Nota del
Traduttore].

17.
“The boats, the
sands, the esplanade,
The laughing crowd;
Light-hearted, loud
Greetings from some not
illendowed:

The evening sunlit


cliffs, the talk,
Hailings and halts, The
keen sea-salts, The
band, the Morgenblatter
Waltz.
Still, when at night
I drew inside Forward
she came, Sad but the
same…”.
Hardy, “At a Seaside
Town in 1869”.
“Le barche, la
sabbia, la passeggiata,
/ La folla ridente, /
Gai fragorosi / Saluti
di gente non
sprovvista: // Le
scogliere illuminate
dal sole del
crepuscolo, la
conversazione, / I
saluti e le soste, / I
pungenti sali marini, /
La banda, il
Morgenblatter Waltz. //
Tuttavia, quando la
sera mi ritiravo / Lei
mi si presentava, /
Triste, ma immutata…”
[Nota del Traduttore].
Quella sera Charles
si trovava alle
Assembly Rooms, seduto
tra Mistress Tranter ed
Ernestina.
Le Assembly Rooms di
Lyme non erano forse un
granché, se paragonate
a quelle di Bath e di
Cheltenham, ma erano
piacevoli per le loro
spaziose proporzioni e
le finestre affacciate
sul mare.
Ma troppo piacevoli,
sventuratamente, e
troppo perfette come
luogo d’incontro di
tutta una popolazione
per non essere
sacrificate al Gran Dio
britannico della
Convenienza.
Di conseguenza, molto
tempo fa, vennero
abbattute da un
consiglio municipale
esclusivamente
preoccupato delle
vesciche della comunità
per far posto a quello
che si può onestamente
definire il più brutto
e il peggio situato dei
gabinetti pubblici
delle isole
britanniche.
Non crediate,
comunque, che il
contingente dei
Poulteney di Lyme
disapprovasse soltanto
la frivola architettura
delle Assembly Rooms.
Era ciò che vi
accadeva a
scandalizzarli.
Era infatti un luogo
che sollecitava partite
di whist, signori con
il sigaro in bocca,
balli e concerti.
Incoraggiava insomma
il piacere, e Mistress
Poulteney e le sue
simili sapevano
benissimo che il solo
edificio dove in una
città rispettabile le
persone fossero
autorizzate a riunirsi
era la chiesa.
Quando a Lyme si
abbatterono le Assembly
Rooms, si strappò alla
città il suo cuore, e
nessuno è finora
riuscito a rimetterlo
al suo posto.
Charles e le sue dame
si trovavano in
quell’edificio già
condannato per un
concerto.
Essendo Quaresima,
non si trattava
ovviamente di un
concerto profano.
Il programma era
implacabilmente
religioso.
E tuttavia anche
questo scandalizzava le
menti più ristrette di
Lyme che professavano,
almeno in pubblico, un
rispetto per la
Quaresima pari a quello
del musulmano più
ortodosso per il
Ramadan.
C’erano di
conseguenza delle sedie
vuote davanti alla
pedana orlata di felci,
in un angolo del salone
dove venivano eseguiti
i concerti.
I nostri tre eroi
dalla mentalità più
aperta erano arrivati
in anticipo come quasi
tutti gli altri
spettatori; perché in
realtà secondo le
migliori usanze
settecentesche - questi
concerti venivano
apprezzati per la
compagnia quanto per la
musica.
Alle signore
fornivano un’ottima
occasione per valutare
e commentare l’eleganza
delle loro vicine, e
ovviamente per esibire
la propria.
Persino Ernestina,
nonostante tutto il suo
disprezzo per la
provincia, era vittima
di questa vanità.
Qui se non altro
sapeva che avrebbe
avuto poche rivali per
il buongusto e il lusso
dei suoi vestiti; e le
occhiate furtive al suo
cappellino “piatto”
(niente vecchie cuffie
ammuffite per lei) con
nastri bianchi e verde
trifoglio, al suo
vestito “vert
espérance”, al suo
mantello mauve e nero,
ai suoi stivaletti di
Balmoral, erano un
piacevole risarcimento
della noia che le
veniva inflitta in
altre occasioni.
Quella sera, mentre
la gente entrava, era
d’umore vivace e
malizioso, e Charles
doveva con un orecchio
ascoltare le
informazioni di
Mistress Tranter -
luoghi di residenza,
parentele, antenati - e
con l’altro le
malignità “sotto voce”
(1) di Tina.
Quella dama che
assomigliava tanto a
John Bull era, come
apprese dalla zia,
“Mistress Tomkins, una
vecchia signora
dall’animo estremamente
gentile, ma un po’ dura
d’orecchio, che abita
sopra Elm House e ha il
figlio in India”,
mentre un’altra voce
gli comunicava con voce
tersa che si trattava
di una “perfetta
‘gooseberry’”.
Secondo Ernestina i
“gooseberries” erano
assai più numerosi
degli umani tra coloro
che attendevano
pazientemente, occupati
com’erano in
pettegolezzi, l’inizio
del concerto.
Ogni decennio si
inventa un utile
epiteto di questo
genere: nel 1867
“gooseberry” indicava
“tutto ciò che è
squallido e antiquato”;
un’Ernestina di oggi
questi rispettabili
spettatori del concerto
li definirebbe
“square”.
Ma finalmente apparve
l’illustre soprano di
Bristol con il suo
accompagnatore, l’ancor
più illustre “signor
Ritornello” (2) (o
qualcosa del genere
perché un uomo che
faceva il pianista non
poteva che essere
italiano) e Charles
ebbe agio di esaminare
la propria coscienza.
O almeno cominciò
nello spirito di un
esame di questo genere;
quasi fosse stato suo
dovere, e ciò serviva a
nascondere il fatto
imbarazzante che era
anche un piacere.
In realtà era un po’
ossessionato da Sarah…
o almeno dall’enigma
che essa gli
presentava.
Nel momento in cui
era arrivato in Broad
Street per accompagnare
le due dame alle
Assembly Rooms, era
fermamente deciso - o
così credeva a
raccontare loro
quell’incontro, a patto
naturalmente che non
rivelassero a nessuno i
vagabondaggi di Sarah
per Ware Commons.
Ma in certo qual modo
non gli era parso che
fosse l’occasione
opportuna.
C’era stata anzitutto
da risolvere una
questione molto
prosaica: la follia di
Ernestina di volersi
vestire di “grenadine”
quando il tempo ancora
imponeva abiti di
merino, dal momento che
“Non vestirti di
‘grenadine’ sino a
maggio” era uno dei
novecentonovantanove
comandamenti che i suoi
genitori avevano
aggiunto ai dieci
regolamentari.
Charles soffocò le
sue preoccupazioni a
forza di complimenti;
ma in effetti non aveva
parlato di Sarah
soprattutto perché
aveva cominciato a
pentirsi di essersi
lasciato trascinare in
misura davvero
eccessiva a conversare
con lei.
Sì, aveva perso il
senso delle
proporzioni.
Era stato uno sciocco
a permettere che un
malinteso senso di
cavalleria offuscasse
il suo discernimento, e
la cosa peggiore era
che adesso diventava
due volte più difficile
raccontare tutto a
Ernestina.
Egli sapeva benissimo
che questa signorina
covava delle tremende,
sebbene ancora latenti,
potenzialità di
gelosia.
Nella peggiore delle
ipotesi avrebbe
giudicato
incomprensibile il suo
comportamento; nella
migliore si sarebbe
limitata a prenderlo in
giro, ma era
un’alternativa non
molto allettante.
Non gli garbava
essere preso in giro su
questa faccenda.
Forse avrebbe potuto
confidarsi con minori
esitazione con Mistress
Tranter.
Sapeva che lei
avrebbe certamente
condiviso le sue
caritatevoli
preoccupazioni, ma era
donna del tutto
incapace di sotterfugi.
Non poteva chiederle
di non dir nulla a
Ernestina, e se Tina
avesse saputo
dell’incontro dalla
zia, egli si sarebbe
trovato nei pasticci.
Non osò quasi
soffermarsi sugli altri
suoi sentimenti, per
esempio sullo stato
d’animo di quella sera
nei confronti di
Ernestina.
Non che le sue
battute di spirito lo
avessero irritato, ma
gli erano parse
insolitamente e
sgradevolmente
artificiose, come
qualcosa che si fosse
messa addosso insieme
con il cappellino
francese e con il
mantello nuovo; per
intonarsi più a questi
capi di vestiario che
alla serata.
Inoltre esigevano una
risposta… un analogo
ammiccamento, un
sorriso continuo, tutte
cose che le fornì con
solerzia, ma anche lui
in modo artificioso,
sicché sembrava essersi
instaurata una doppia
finzione.
Forse per la
tristezza di tutto
quell’Hndel e quel
Parry, forse per le
frequenti dissonanze
tra la primadonna e il
suo accompagnatore,
egli si sorprese a
lanciare occhiate
furtive alla ragazza
che gli sedeva accanto,
a guardarla come se la
vedesse per la prima
volta, come se per lui
fosse una completa
estranea.
Era molto graziosa,
incantevole… ma il suo
viso non era un po’
amorfo, un po’
monotono, con il suo
voluto eccesso di
distacco e di
riservatezza? A parte
queste due qualità, che
cosa rimaneva? Un
insulso egoismo.
Ma bastò che questo
crudele pensiero gli
entrasse nella: testa
perché Charles si
affrettasse ad
allontanarlo.
Come poteva la figlia
unica di ricchi
genitori essere
qualcosa di diverso?
Grazie al cielo - se no
perché si sarebbe
innamorato di lei? -
Ernestina era
tutt’altro che
insignificante nel
contesto delle ricche e
giovani cacciatrici di
mariti della buona
società londinese.
Ma era davvero questo
l’unico contesto,
l’unico mercato di
spose? Un ben saldo
articolo nel credo di
Charles era di essere
diverso dai suoi pari e
dai suoi contemporanei.
Per questo aveva
viaggiato tanto;
considerava la buona
società inglese troppo
limitata, la solennità
inglese troppo solenne,
la mentalità inglese
troppo moralistica e la
religione inglese
troppo settaria.
E poi? In una
questione
importantissima quale
la scelta della donna
che avrebbe diviso la
sua vita, non era forse
stato anche troppo
convenzionale? Anziché
fare la cosa più
intelligente, non aveva
forse fatto la più
ovvia? Ma quale sarebbe
stata la cosa più
intelligente? Aspettare
ancora.
Sotto questo sciame
di pungenti
interrogativi, egli
incominciò a
commiserarsi: un
ingegno brillante preso
in trappola, un Byron
addomesticato; e la sua
mente tornò a posarsi
su Sarah, su immagini
visive, su tentativi di
richiamare alla memoria
quel viso, quella
bocca, quella bocca
generosa.
Senza alcun dubbio
destava in lui qualche
ricordo, ma troppo
tenue, forse troppo
generico, perché
potesse rintracciarne
le origini nel passato;
e tuttavia lo
squilibrava e lo
ossessionava, facendo
appello a qualche lato
nascosto del suo io di
cui appena sospettava
l’esistenza.
Si disse: “E’ la cosa
più stupida di questo
mondo, ma quella
ragazza mi attrae”.
Gli sembrava comunque
evidente che ad
attrarlo non era Sarah
in se stessa - come
sarebbe stato
possibile? lui era
fidanzato - ma qualche
emozione, qualche
possibilità che lei
simboleggiava.
Lo rendeva
consapevole di una
perdita.
Aveva sempre
considerato il proprio
avvenire carico di
potenzialità; e adesso
era improvvisamente
divenuto un viaggio
programmato con una
meta ben definita.
Proprio questo gli
aveva ricordato Sarah.
Il gomito di
Ernestina lo richiamò
delicatamente al
presente.
La cantante esigeva
applausi, e Charles
fece languidamente la
sua parte.
Dopo aver riposto le
proprie mani nel
manicotto, Ernestina
fece una “moue”
piuttosto comica, un
po’ per rimproverarlo
della sua distrazione e
un po’ per protestare
contro l’esibizione
spaventosa della
cantante.
Lui le sorrise.
Era così giovane,
così bambina.
Impossibile
arrabbiarsi.
In fondo era soltanto
una donna.
E tante erano le cose
che non avrebbe mai
potuto capire: la
ricchezza della vita
maschile, la difficoltà
enorme di essere una
persona per la quale il
mondo non è soltanto
vestiti, casa e
bambini.
Tutto sarebbe andato
bene quando lei fosse
diventata veramente
sua: nel suo letto e al
suo desco… e
naturalmente anche nel
suo cuore.
In quello stesso
momento Sam stava
pensando esattamente il
contrario: alla
quantità di cose che la
sua frazione di Eva
RIUSCIVA a capire.
E’ difficile oggi
immaginare le enormi
differenze che c’erano
allora tra un ragazzo
nato nei Seven Dials e
la figlia di un
carrettiere di un
remoto villaggio
dell’East Devon.
Il loro incontro era
intriso di ostacoli,
quasi come se lui fosse
stato un esquimese e
lei una zulù.
Non avevano neanche
un linguaggio comune,
al punto che spesso uno
non capiva ciò che
l’altro diceva.
Tuttavia questa
distanza, questi abissi
allora insormontati, e
poi sormontabili grazie
alla radio, alla
televisione e al basso
costo dei viaggi e a
tutto il resto, non
erano del tutto un
male.
La gente si conosceva
meno, forse, ma si
sentiva più libera nei
confronti del prossimo,
e aveva quindi più
personalità.
Per loro il mondo non
era soltanto un
pulsante o un
interruttore di
distanza.
Gli stranieri erano
strani, e a volte di
una stranezza bella ed
eccitante.
Può darsi che
all’umanità giovi che
noi possiamo comunicare
in misura sempre
maggiore.
Ma io sono un
eretico.
Io penso che
l’isolamento dei nostri
antenati equivalesse
alla maggiore vastità
dello spazio che
avevano a disposizione,
e posso soltanto
invidiarli.
Oggi il mondo ci sta
fin troppo
letteralmente addosso.
Sam poteva sapere
tutto ciò che bisognava
conoscere della vita
cittadina, o almeno
dare questa impressione
in birreria.
Disprezzava con
aggressività tutto ciò
che non proveniva dal
West End di Londra, che
non aveva questo
marchio.
Ma, nel profondo del
suo animo, il discorso
era ben diverso.
Qui c’era una persona
timida e incerta, e non
incerta su ciò che
voleva essere (qualcosa
di ben diverso da ciò
che era) ma sulle
proprie capacità di
diventarlo.
Mary invece era
sostanzialmente il
contrario.
Certo all’inizio era
rimasta abbagliata da
Sam; le era parso un
essere decisamente
superiore e lo aveva
preso in giro puramente
per difendersi da una
così ovvia superiorità
culturale: l’eterna
abilità del cittadino
nel superare d’un balzo
gli ostacoli, nei
trovare le scorciatoie,
nel forzare il passo.
Ma era una ragazza
sostanzialmente solida,
con una sorta di
spontanea fiducia in sé
e la consapevolezza di
poter diventare un
giorno una buona moglie
e una buona madre; e
sapeva riconoscere i
valori autentici delle
altre persone… per
esempio la differenza
che c’era, in questo
senso, tra la sua
padrona e la nipote di
lei.
In fondo era una
contadina, e con i
valori autentici i
contadini hanno
rapporti assai più
immediati che gli iloti
di città.
Sam si innamorò di
lei perché era come un
giorno d’estate dopo le
squallide “gays” e
“dollymops” (3) in cui
si riassumeva tutta la
sua esperienza
sessuale.
Non che in questo
campo mancasse di
fiducia in se stesso;
sono pochi i cockney
che ne mancano.
Aveva bei capelli
neri, occhi molto
azzurri e una
carnagione fresca.
Era snello e con
un’ossatura molto
delicata; e tutti i
suoi movimenti erano
armoniosi e precisi, a
parte una tendenza a
esagerare
ampollosamente certi
tic di Charles a suo
parere particolarmente
propri di un
gentiluomo.
Era raro che gli
occhi delle donne si
scostassero da lui dopo
una prima occhiata; ma
da una più intima
conoscenza con le
ragazze di Londra non
aveva mai ricavato
altro che un riflesso
del proprio cinismo.
Ciò che veramente gli
fece perdere
l’equilibrio fu
l’innocenza di Mary.
Venne a trovarsi
nella posizione di un
ragazzo che ama
abbagliare con uno
specchio e lo fa un
giorno a una persona
troppo dolce per
meritare un trattamento
simile.
Desiderò
all’improvviso di
essere con lei quale
veramente era e di
scoprire che cosa era
Mary.
Questo repentino
approfondimento della
loro conoscenza era
avvenuto il mattino
della visita a Mistress
Poulteney.
Avevano cominciato a
parlare del loro
lavoro, cioè dei meriti
e dei difetti di Mister
Charles e di Mistress
Tranter.
Lei pensava che fosse
una fortuna essere al
servizio di un simile
gentiluomo.
Sam esitò e poi, con
suo grande stupore, si
sorprese a rivelare a
questa semplice
contadina cose che
sinora aveva confidato
soltanto a se stesso.
La sua ambizione era
molto precisa: voleva
diventare un merciaio.
Non era mai riuscito
a passare davanti a una
merceria senza fermarsi
a guardare la vetrina,
criticandola o
ammirandola secondo i
casi.
Credeva di avere il
fiuto per capire che
cos’era veramente di
moda.
Era stato all’estero
con Charles e si era
impadronito di certe
idee straniere in quel
campo…
Tutto questo (più,
incidentalmente, la sua
ammirazione profonda
per Mister Freeman)
egli lo aveva espresso
in termini piuttosto
incoerenti,
soffermandosi anche sui
due massimi ostacoli;
la mancanza di denaro e
la mancanza di
istruzione.
Mary lo aveva
ascoltato in silenzio:
intuiva l’esistenza di
questo altro Sam e
intuiva che era un
onore potergli dare
questa rapida occhiata.
Sam aveva
l’impressione di
parlare troppo.
Ma ogni volta che
alzava nervosamente gli
occhi aspettandosi un
sogghigno, una
risatina, un segno
anche minimo di
irrisione per le sue
assurde pretese,
scorgeva soltanto una
timida e attenta
simpatia, un invito a
continuare.
La sua ascoltatrice
si sentiva necessaria,
e una ragazza che si
sente necessaria è già
innamorata per un
quarto.
Venne poi il momento
in cui lui doveva
andarsene.
Gli sembrava di
essere appena arrivato.
Si alzò e Mary gli
sorrise, ancora con una
punta di malizia.
Avrebbe voluto dirgli
di non aver mai parlato
così liberamente - be’,
così seriamente - con
nessun altro.
Ma non riuscì a
trovare le parole.
Be’, credo che ci
vedremo domatina.
Probabile.
Scometo che ha già
l’inamorato.
Non ci ho nessuno che
mi piace veramente.
Scometo che ce l’ha.
L’ho sentito dire.
Sono chiacchiere di
paese.
Basta che ti vedono
guardare un uomo e
subito dicono che sei
fidanzata.
Egli tormentava tra
le dita la sua
bombetta.
E’ così dapertuto.
Una pausa.
La guardò negli
occhi.
Sono poi così bruto?
Io l’ho mica mai detto.
Pausa.
Le dita fecero tutto
il giro della bombetta.
Io ho conosciuto
tante ragaze.
Di tuti i generi.
Nesuna era come lei.
E’ mica poi difficile
trovarne.
Io non le ho mai
incontrate.
Prima.
Un’altra pausa.
Mary non guardava lui
ma il bordo del proprio
grembiule.
Cosa ne pensa di
Londra? Le piacerebe
andarci? Lei ridacchiò
e annuì con molto
vigore.
Ci andrà.
Quando i nostri
padroni si sarano
sposati, gliela facio
vedere io Londra.
Davvero? Egli le
strizzò l’occhio e lei
si portò una mano alla
bocca.
I suoi occhi
ammiccavano sopra le
guance rosee.
Con tutte le ragazze
eleganti che ci sono a
Londra, mica vorrà
farsi vedere a spasso
con me.
Le basterebe avere i
vestiti.
Starebe benisimo.
Ci credo mica.
Lo giuro.
I loro occhi si
incontrarono e
continuarono a fissarsi
a lungo.
Egli fece un inchino
elaborato portandosi il
cappello all’altezza
del cuore.
A deman,
madimoiselle.
Cosa vuol dire? E’
francese e vuol dire
che domani matina lei
deve venire in Coombe
Street e ci sarà il suo
inamorato che l’aspeta.
Allora lei si voltò
senza guardarlo in
faccia.
Sam subito le passò
davanti, le prese una
mano e se l’accostò
alla bocca.
Mary s’affrettò a
ritirarla e la guardò
come se quella bocca
avesse potuto lasciarvi
una macchia di
fuliggine.
Si scambiarono
un’altra rapida
occhiata.
Lei si morse le
labbra.
Lui le strizzò
l’occhio ancora una
volta e se ne andò.
Non so se a dispetto
dell’esplicita
proibizione di Charles,
si incontrarono anche
il mattino dopo.
Ma più tardi, uscendo
dalla casa di Mistress
Tranter, Charles vide
che Sam stava
aspettando,
evidentemente non a
caso, dall’altra parte
della strada.
Charles fece il segno
romano della grazia e
Sam si scoprì il capo
portandosi
rispettosamente il
cappello al cuore, come
al passaggio di un
funerale, solo che
stavolta stava
chiaramente sorridendo.
Posso così passare
alla sera del concerto,
circa una settimana
dopo, e al motivo per
cui Sam arrivò a
conclusioni così
diverse dal suo padrone
a proposito del sesso
femminile; egli infatti
si trovava di nuovo in
quella cucina.
Purtroppo era
presente anche uno
chaperon, la cuoca di
Mistress Tranter, che
però s’addormentò quasi
subito sulla sua sedia
Windsor davanti al
fuoco acceso del
fornello.
Sam e Mary sedevano
nell’angolo più buio
della stanza.
Non parlavano.
Non ne avevano
bisogno perché si
tenevano per mano.
Da parte di Mary era
soltanto una forma di
difesa, avendo essa
scoperto che era
l’unico modo perché
quella mano
interrompesse i
tentativi di farsi
strada intorno alla sua
vita.
Perché poi Sam,
nonostante questo e
nonostante il silenzio,
dovesse considerare
Mary così comprensiva è
un mistero che nessun
innamorato avrà bisogno
di farsi spiegare.
NOTE.
Nota 1.
In italiano nel
testo. [Nota del
Traduttore].
Nota 2.
In italiano nel
testo. [Nota del
Traduttore].
Nota 3.
Una “dollymop” era
una cameriera che si
dedicava alla
prostituzione nelle ore
libere.
Una “gay”
(letteralmente “gaia”)
una prostituta.
Di qui la famosa
vignetta di Leech del
1857 dove si vedono due
donne dal viso triste
in piedi “a meno di
cento miglia
dall’Haymarket”.
Una si rivolge
all’altra: -“Ehi,
Fanny, da quanto tempo
sei “gay”?.

18.
“Chi può stupirsi se
le leggi della società
sono a volte ignorate
da coloro che l’occhio
della società
abitualmente trascura e
che il cuore della
società dà spesso
l’impressione di
respingere?”.
Dr.
John Simon, “City
Medical Report” (1849).
“I went, and knelt,
and scooped my hand As
if to drink, into the
brook, And a faint
figure seemed to stand
Above me, with the
bygone look.” Hardy,
“On a Midsummer Eve”.

“Andai, e mi
inginocchiai, e misi la
mano a conca / Nel
ruscello come per bere,
/ E una vaga figura
sembrava stare / Sopra
di me, con
un’espressione remota.
[Nota del Traduttore].
Trascorsero due
giorni durante i quali
i martelli di Charles
rimasero inoperosi nel
suo zaino.
Egli bandì dalla
mente qualunque
pensiero sui testi che
aspettavano di essere
scoperti e qualunque
pensiero, ad essi ora
associato, sulle donne
che giacevano
addormentate in
assolati ripiani.
Ma per un’emicrania
di Ernestina, si trovò
inaspettatamente con un
altro pomeriggio
libero.
Esitò un poco, ma i
passatempi che gli
scorrevano davanti agli
occhi mentre guardava
dalla finestra della
sua camera erano
davvero pochi e noiosi.
L’insegna della
locanda - un leone
bianco con la faccia di
un pechinese malnutrito
e una precisa
somiglianza, che
Charles aveva già
notato, con Mistress
Poulteney - lo fissava
con aria arcigna.
C’era poco vento e
poco sole… un’alta e
grigia volta di nubi,
troppo alta per
minacciare pioggia.
Aveva progettato di
scrivere qualche
lettera, ma non era
nello stato d’animo
adatto.
A dir la verità, il
suo stato d’animo non
era adatto a niente;
curiosamente era
tornata a divampare in
lui quell’antica brama
di viaggi che credeva
di aver domato negli
ultimi anni.
Avrebbe voluto
trovarsi a Cadice, a
Napoli, nella Morea, in
qualche fiammeggiante
primavera mediterranea,
non solo per godersi la
primavera mediterranea
in sé ma per essere
libero, per aver
davanti settimane
interminabili di
viaggi, per salpare
verso isole e montagne,
verso le ombre azzurre
dell’ignoto.
Mezz’ora dopo passava
davanti alla Cascina ed
entrava nel bosco di
Ware Commons.
Avrebbe potuto
scegliere un’altra
meta? Certo.
Si era comunque
severamente proibito di
avvicinarsi al prato
presso la scogliera, e
se avesse incontrato
Miss Woodruff, avrebbe
fatto, cortesemente ma
decisamente, ciò che
già avrebbe dovuto fare
nell’ultimo incontro:
avrebbe cioè evitato
qualunque
conversazione. In ogni
caso essa evidentemente
si recava sempre nello
stesso punto.
E Charles era
convinto che sarebbe
riuscito a non
incontrarla standone
lontano.
Di conseguenza,
parecchio prima di
arrivarci, voltò a nord
salendo il pendio e
attraversando un grande
bosco di frassini
coperti di edera.
Questi alberi erano
enormi, tra i più
grandi di quella specie
in Inghilterra, con
esotiche colonie di
millepiedi sui loro
tronchi massicci.
Era stata la loro
taglia a indurre il
nobile usurpatore a
crearsi un giardino
botanico
sull’Undercliff; e
Charles si sentiva
rimpicciolito,
piacevolmente
rimpicciolito,
procedendo in mezzo a
questa vegetazione
verso le pareti di
gesso quasi
perpendicolari che
poteva scorgere più in
alto.
Incominciò a sentirsi
d’umore migliore quando
i primi giacimenti di
selce cominciarono ad
affiorare tra le
mercorelle e i gigari
che ricoprivano il
suolo.
Trovò quasi subito un
testo di “Echinocorys
scutata”.
Era molto consumato e
conservava soltanto una
traccia delle cinque
serie di sottilissime
linee convergenti che
decorano una perfetta
conchiglia.
Era comunque meglio
di nulla e, con questo
incoraggiamento,
Charles cominciò a
chinarsi e a fermarsi
nella sua ricerca.
Arrivò così a poco a
poco ai piedi dei
contrafforti dove le
selci erano più fitte e
minore il rischio di
trovare testi corrosi e
consunti.
Rimase allo stesso
livello spostandosi
verso occidente.
In certi punti
l’edera era
particolarmente fitta:
cresceva
indiscriminatamente
sulla parete della
scogliera e sui rami
degli alberi più
vicini, penzolando in
grandi cortine
frastagliate sopra la
testa di Charles.
A un certo punto
dovette aprirsi un
cammino con la forza in
una sorta di tunnel di
questa vegetazione;
all’estremo opposto
c’era una radura dove
di recente erano cadute
delle selci.
Un luogo del genere
era con molte
probabilità ricco di
testi e Charles iniziò
un’esplorazione
sistematica della zona,
circondata su ogni lato
da folti cespugli di
rovi.
Stava facendo questo
forse da dieci minuti,
senza alcun suono
tranne il muggito di un
vitello in qualche
campo lontano, più in
alto e più verso
l’interno, il battito
d’ali e il tubare dei
colombi selvatici e lo
sciabordio appena
percettibile del mare
tranquillo assai più in
basso, oltre tutti
quegli alberi.
Poi udì il rumore di
una pietra che cade.
Guardò e, non
scorgendo nulla,
suppose che una selce
si fosse staccata dalla
parete di gesso
sovrastante.
Continuò la ricerca
per un minuto o due;
dopo di che, per una di
quelle intuizioni
inspiegabili che sono
forse l’ultimo residuo
di una facoltà del
nostro passato
paleolitico, s’accorse
di non essere più solo.
Si guardò attorno con
attenzione.
Essa stava sopra di
lui, all’altro estremo
del tunnel di edera,
distante una quarantina
di metri.
Charles non sapeva da
quanto tempo si
trovasse lì, ma ricordò
il rumore di poc’anzi.
Per un attimo fu
quasi spaventato.
Gli sembrava strano
che fosse apparsa così
silenziosamente.
Va bene che non
portava scarponi
chiodati, ma doveva
anche essersi mossa con
molta cautela.
Per sorprenderlo, e
ciò indicava che lo
aveva deliberatamente
seguito.
Miss Woodruff! Si
tolse il cappello.
Come mai è qui? L’ho
vista passare.
Le si avvicinò un
poco risalendo il
ghiaione.
Ancora una volta
teneva la cuffia in
mano.
E portava, notò, i
capelli sciolti come se
fosse stata nel vento;
ma non c’era stato
vento.
Ciò dava al suo
aspetto un che di
selvaggio, accentuato
dalla fissità dello
sguardo.
Charles si domandò
come potesse aver
pensato che non era un
po’ pazza.
Ha qualcosa… da
comunicarmi? Di nuovo
quello sguardo fisso,
non attraverso di lui,
ma su lui.
Sarah aveva uno di
quei volti singolari il
cui fascino può variare
moltissimo in
conseguenza di certe
sottili mescolanze di
luce, angolazione e
umore.
In quel momento
trovava un aiuto
spettacoloso in un
raggio obliquo di
pallido sole che era
riuscito a introdursi
in un piccolo squarcio
tra le nubi, come
capita non di rado nei
tardi pomeriggi
inglesi.
Le illuminava il viso
e il corpo eretto
davanti alla cupa
verzura; e questo viso
era improvvisamente
bellissimo, veramente
bello, squisitamente
grave e nello stesso
tempo pieno di luce,
interna oltre che
esterna.
Charles ricordò che
proprio così una
contadina dei pressi di
Gavarnie, nei Pirenei,
aveva detto di aver
visto la Vergine Maria,
in piedi su un
“déboulis” lungo la
strada…
poche settimane prima
che vi passasse
Charles.
Lo avevano poi
accompagnato a vedere
quel luogo, che gli era
parso del tutto
insignificante.
Ma se gli fosse
apparsa una figura
simile! Questa figura
comunque aveva
evidentemente una
missione più banale.
Si frugò nelle tasche
del cappotto e gli
offrì, uno per mano,
due eccellenti testi di
Micraster.
Charles si arrampicò
quel tanto che bastava
per riconoscerli.
Si ricordò di aver
parlato brevemente di
paleontologia e
dell’importanza degli
echinodermi quel
mattino da Mistress
Poulteney.
Non li vuole? Poiché
Sarah non portava
guanti, le loro dita si
toccarono.
Egli esaminò i due
testi, ma pensava
soltanto al tocco di
quelle fredde dita.
Gliene sono molto
grato.
Sono in ottime
condizioni.
Sono questi che lei
cerca? Sì.
Erano conchiglie
marine una volta? Esitò
un momento poi le
indicò le parti del
migliore tra i due
testi: la bocca, le
regioni ambulacrali,
l’ano.
Mentre lui parlava,
lei lo ascoltava con un
attento interesse che
valse a dissipare la
sua irritazione.
L’aspetto della
ragazza era strano, ma
la sua mente, come
dimostrarono le due o
tre domande che fece,
era tutt’altro che
squilibrata.
Infine Charles
s’infilò in tasca con
cura i due testi.
E’ stata molto
gentile a cercarli.
Non avevo di meglio
da fare.
Stavo per tornare
indietro. Posso
accompagnarla fino al
sentiero? Ma Sarah non
si mosse.
Vorrei anche
ringraziarla, Mister
Smithson…
per la sua offerta di
aiuto.
Visto che l’ha
rifiutata, gliene sono
particolarmente grato.
Ci fu una breve
pausa.
Lui le passò davanti
e andò a scostare col
bastone la parete di
edera perché lei
potesse proseguire.
Ma Sarah rimase
immobile continuando a
guardare verso la
radura.
Non avrei dovuto
seguirla.
Charles avrebbe
voluto vedere il suo
viso, ma di lì non
poteva.
Penso sia meglio che
me ne vada.
Senza dir nulla,
Sarah si voltò verso
l’edera.
Ma egli non poté far
a meno di darle
un’ultima occhiata.
Lo stava guardando da
sopra la spalla, come
se il corpo
disapprovasse il viso e
volgesse la schiena a
tanta spudoratezza; il
suo sguardo, benché
contenesse ancora
qualcosa del generico
risentimento di un
tempo, aveva ora
un’intensità che
indicava ben più di
un’invocazione.
I suoi occhi erano
straziati. e
strazianti; c’era in
essi un oltraggio
subito, una debolezza
violentata in modo
abominevole.
Non accusavano
Charles dell’oltraggio,
ma di non capire che
era avvenuto.
Per un lungo istante
i loro sguardi si
incontrarono; poi lei
parlò, con le guance
arrossate, al terreno
che li separava.
Non ho nessuno a cui
rivolgermi.
Spero di averle detto
chiaramente che
Mistress Tranter..
Ha un animo molto
gentile.
Ma io non ho bisogno
di gentilezza.
Ci fu una pausa.
Charles continuava a
scostare l’edera.
Mi dicono che il
vicario è un ottimo
uomo.
E’ stato lui a
portarmi da Mistress
Poulteney.
Charles stava accanto
all’edera come se fosse
una porta.
Evitava il suo
sguardo e cercava
affannosamente una
battuta di congedo.
Se posso parlare per
suo conto a Mistress
Tranter, lo farò molto
volentieri… ma per me
sarebbe estremamente
scorretto…
Interessarsi
ulteriormente della mia
situazione.
Sì, era proprio
questo che volevo
dirle.
Sarah reagì guardando
altrove.
Aveva subito un
rabbuffo.
Molto lentamente egli
lasciò che quei
penzolanti fili d’edera
riprendessero la loro
posizione.
Ha ripensato al mio
suggerimento di
lasciare questo paese?
Se andassi a Londra so
già che cosa
diventerei.
Charles si irrigidì
interiormente.
Diventerei ciò che
nelle grandi città
diventano tante donne
che hanno perso
l’onore.
Ora si voltò
decisamente verso di
lui.
Divenne ancora più
rossa.
Diventerei come già
alcuni mi chiamano a
Lyme.
Era scandaloso, del
tutto sconveniente.
Cara Miss Woodruff…
sussurrò Charles.
Anche le sue guance
erano diventate rosse.
Sono debole.
Come potrei non
saperlo? E aggiunse
amaramente: Ho peccato.
Questa nuova
rivelazione, a un
estraneo e in simili
circostanze, distrusse
tutto ciò che di
positivo aveva
suggerito la sua
attenzione alla piccola
conferenza sugli
echinodermi fossili.
Ma intanto egli si
tastava in tasca i due
testi, una specie di
potere che essa aveva
acquisito su di lui; e
un Charles che si stava
nascondendo a se stesso
si sentiva segretamente
lusingato, come un
ecclesiastico quando
gli chiedono consigli
su un problema
spirituale.
Fissò il puntale di
ferro del suo bastone.
E’ questa paura che
la trattiene a Lyme? In
parte.
Quella cosa che lei
mi ha detto l’altro
giorno prima di
andarsene…
Qualcun altro ne è al
corrente? Se lo
sapessero, non si
sarebbero lasciati
sfuggire l’occasione di
dirmelo.
Ci fu una pausa
ancora più lunga.
Ci son dei momenti
nella vita che sono
come delle modulazioni;
quando quella che sino
allora era stata una
situazione oggettiva,
una di quelle che la
mente può descrivere a
se stessa in termini
semiletterari, una di
quelle che basta
puramente catalogare
sotto una generica
intestazione (uomo con
problemi alcolici,
donna dallo sventurato
passato, e così via),
diventa soggettiva,
diventa unica, diventa
improvvisamente, per
empatia, condivisa
anziché osservata.
Questa fu la
metamorfosi che si
compì in Charles mentre
i suoi occhi fissavano
il capo chino della
peccatrice.
Come molti di noi
quando sopravvengono
questi momenti - chi
non è mai stato
abbracciato da un
ubriaco? - cercò una
frettolosa anche se
diplomatica
restaurazione dello
“status quo”.
Sono molto
dispiaciuto per lei.
Ma devo confessarle
che non capisco perché
lei cerchi… come dire…
di fare di me il suo
confidente.
Sarah cominciò allora
a parlare con rapidità,
come se si fosse
aspettata questa
domanda, come se stesse
ripetendo un discorso,
una litania imparata a
memoria. Perché lei ha
viaggiato.
Perché lei ha
studiato.
Perché lei è un
gentiluomo.
Perché… perché, non
so, io vivo in mezzo a
persone che secondo il
mondo sono pie,
gentili, cristiane.
E a me sembrano più
crudeli dei più crudeli
pagani, più stupide dei
più stupidi animali.
Non posso credere che
sia così.
Che la vita sia priva
di comprensione o di
compassione.
Che non ci siano
anime sufficientemente
generose per capire che
cosa ho sofferto e il
motivo per cui ancora
soffro… e, qualunque
peccato io abbia
commesso, non è giusto
che debba soffrire
tanto.
Ci fu una pausa.
Impreparato a un così
eloquente rendiconto
dei suoi sentimenti,
dimostrazione di
un’intelligenza non
convenzionale, sinora
sospettata ma non
provata, Charles non
disse nulla.
Lei si voltò e
continuò con voce più
pacata: Riesco a essere
felice solo quando
dormo.
Al risveglio comincia
l’incubo.
Mi sento buttata su
un’isola deserta,
imprigionata e
condannata senza sapere
per quale delitto.
Charles la guardò
sgomento, come un uomo
che sta per essere
inghiottito da un
terremoto; come se
volesse scappare e non
potesse; parlare e non
potesse neanche questo.
Gli occhi di lei
cominciarono
improvvisamente a
fissarlo.
Perché sono nata
quella che sono? Perché
non sono nata Miss
Freeman? Ma appena
disse quel nome,
distolse lo sguardo,
rendendosi conto di
aver ecceduto.
Avrebbe fatto meglio
a non pormi questa
domanda.
Non intendevo…
L’invidia è un
sentimento scusabile
nella sua…
Non è invidia.
E’ incomprensione.
Aiutarla in questo
senso è molto al di là
dalle mie possibilità,
e da quelle di uomini
assai più saggi di me.
Non ci credo… non
voglio crederci.
Charles aveva
conosciuto donne -
spesso la stessa
Ernestina - che lo
contraddicevano
scherzosamente.
Ma solo in una
conversazione
scherzosa.
Una donna non
confutava mai
l’opinione di un uomo
che stava parlando
seriamente, se non in
termini estremamente
cauti.
Ora Sarah sembrava
quasi pretendere una
specie di parità
d’intelligenza; e
proprio in una
circostanza in cui
avrebbe dovuto essere
particolarmente
rispettosa se voleva
raggiungere il suo
fine.
Si sentiva insultato,
si sentiva… non
riusciva a dire che
cosa.
La conclusione logica
sarebbe stata di
togliersi il cappello,
chiudendo freddamente
la conversazione, e di
allontanarsi con i suoi
pesanti scarponi
chiodati.
Tuttavia rimase
dov’era, come se vi
avesse messo radici.
Forse aveva un’idea
troppo preconcetta
dell’aspetto di una
sirena e delle
circostanze nelle quali
compariva: lunghe
chiome, una casta
nudità d’alabastro, una
coda da pesce e
dall’altra parte un
Odisseo dal viso
accettabile nei
migliori club.
Qui nell’Undercliff
non c’erano templi
dorici, ma c’era una
Calipso.
Adesso l’ho offesa
mormorò Sarah.
Lei mi sbalordisce,
Miss Woodruff.
Non so che cosa possa
chiedermi che io non le
abbia già offerto di
tentare a suo
beneficio.
Ma deve rendersi
conto che una maggiore
intimità tra di noi…
per quanto innocenti
siano le sue
intenzioni… è
praticamente
impossibile data la mia
attuale situazione.
Ancora una pausa: in
qualche verde recesso
un picchio rise,
facendosi beffa di quei
due bipedi immobili.
Crede che mi sarei…
gettata alla sua mercé
in questa maniera se
non fossi alla
disperazione? Non
dubito della sua
disperazione.
Ma riconosca almeno
l’assurdità della sua
richiesta.
E aggiunse: Della cui
natura del resto sono
ancora ignaro.
Mi piacerebbe
raccontarle ciò che
accadde diciotto mesi
fa.
Pausa.
Sarah aspettava una
sua reazione.
E Charles di nuovo si
irrigidì.
Le catene invisibili
si sciolsero e trionfò
il suo lato
convenzionale.
Si erse in tutta la
sua statura, come un
monumento alla
diffidente
inquietudine, alla
rigida disapprovazione;
tuttavia c’era nei suoi
occhi qualcosa che
cercava gli occhi di
lei… una spiegazione,
un motivo…
Per un attimo pensò
che Sarah stesse per
parlare ancora e arrivò
quasi a tuffarsi
nell’edera senza
aggiungere altro.
Ma, come se avesse
indovinato la sua
intenzione, lei,
anticipandola
all’improvviso, fece la
cosa più inaspettata.
Cadde in ginocchio.
Charles ne fu
inorridito; immaginò
che cosa avrebbe potuto
pensare chiunque li
stesse segretamente
sorvegliando.
Fece un passo
indietro, come per
togliersi dalla sua
visuale.
Sarah pareva
stranamente calma.
Non era
l’inginocchiarsi di
un’isterica.
Solo gli occhi erano
più intensi: privi di
sole, bagnati da un
eterno chiaro di luna.
Miss Woodruff! La
prego! Non sono ancora
pazza! Ma lo diventerò
se nessuno mi aiuta.
Si controlli.
Se qualcuno ci
vedesse…
Lei è la mia ultima
risorsa.
E non è crudele, lo
so che non è crudele.
Lui la fissò, si
guardò attorno
disperato, poi si fece
avanti, l’aiutò ad
alzarsi e la guidò,
tenendo una mano rigida
sotto il suo gomito,
tra le foglie d’edera.
Lei gli stava davanti
con le mani sul viso; e
Charles, nella furia
atroce del cuore umano
quando muove
all’attacco del
cervello, dovette
lottare per non
toccarla.
Non voglio apparire
indifferente ai suoi
problemi.
Ma lei deve capire
che io… non ho scelta.
Sarah parlò con voce
rapida e sommessa.
Le chiedo soltanto un
ultimo incontro.
Io verrò qui tutti i
pomeriggi.
Nessuno potrà
vederci.
Egli cercò di
protestare, ma lei non
si lasciò
interrompere.Lei è una
persona gentile e sa
comprendere ciò che
nessuno a Lyme può
capire.
Mi lasci finire.
Due giorni fa sono
stata quasi travolta
dalla pazzia.
E ho capito che
dovevo vederla,
parlarle.
So dove abita, e
sarei venuta a chiedere
di lei se… se un ultimo
residuo di equilibrio
mentale non mi avesse
provvidenzialmente
fermata sulla soglia.
Ma è imperdonabile.
Mi sbaglio o lei ora
mi sta minacciando di
uno scandalo? Sarah
scosse energicamente il
capo.
Preferirei morire
piuttosto che lasciarle
pensar questo di me.
E’ che…
Non so come dirlo, ma
sembra che la
disperazione mi spinga
a fare delle cose
terribili.
Io stessa ne sono
piena d’orrore.
Non so da che parte
voltarmi, che cosa
fare, non ho nessuno
che possa… la prego…
non riesce a capirmi?
Charles pensava
soltanto a come
sfuggire dalla
situazione spaventosa
nella quale era
incappato: da quegli
occhi nudi e
spietatamente sinceri.
Devo andare.
Mi aspettano in Broad
Street.
Ma tornerà? Non
posso…
Io vengo qui a
passeggiare il lunedì,
il mercoledì e il
venerdì.
Quando non ho altri
impegni.
Lei mi sta proponendo
di…
Insisto nel dirle che
Mistress Tranter.
Non potrei mai dire
la verità a Mistress
Tranter.
Allora è una verità
che s’addice ancora
meno a un perfetto
estraneo, e per di più
non del suo stesso
sesso.
Un perfetto estraneo…
e non dello stesso
sesso… è sovente il
giudice meno prevenuto.
Spero veramente di
poter dare
un’interpretazione
benevola del suo
comportamento.
Ma devo ripeterle che
mi sbalordisce che lei
debba…
In quel momento lei
lo stava guardando, e
le sue parole si
spensero nel silenzio.
Charles, come avrete
notato, disponeva di
parecchi vocabolari.
Con Sam al mattino,
con Ernestina durante
un’allegra colazione e
ora nel ruolo della
Decenza minacciata… era
quasi tre uomini
diversi; e prima di
arrivare alla fine
incontreremo ancora
altri Charles.
Possiamo spiegare
biologicamente la cosa
con un termine di
Darwin, mimetismo, cioè
sopravvivenza imparando
a fondersi con
l’ambiente, con i
presupposti indiscussi
della propria epoca o
della propria casta.
Ma possiamo anche
dare una spiegazione
psicologica di questo
rifugiarsi
nell’affettazione.
Per chi era costretto
a pattinare su uno
strato di ghiaccio così
sottile - oppressione
economica onnipresente,
terrore della
sessualità, invasione
della scienza
meccanicistica - era
indispensabile saper
rinunciare a un assurdo
rigore verso se stesso.
Pochissimi vittoriani
erano disposti a
mettere in dubbio i
meriti del mimetismo,
ma era proprio questo
che si leggeva negli
occhi di Sarah.
Il suo sguardo
timido, e tuttavia
diretto, conteneva un
messaggio molto
moderno: “Parla chiaro,
Charles, parla chiaro”.
E bastava a prendere
in contropiede
l’interlocutore.
Ernestina e le sue
simili si comportavano
sempre come se
vivessero sotto vetro:
fragili persino quando
lanciavano libri di
poesia.
Erano per la
maschera, per la
barriera protettrice,
mentre questa ragazza,
dietro una facciata di
umiltà, la rifiutava.
Toccò a lui stavolta
abbassare gli occhi.
Le chiedo soltanto
un’ora del suo tempo.
Egli vide allora una
seconda ragione nel
dono dei testi; non
sarebbe stato possibile
trovarli in un’ora.
Se io dovessi, sia
pure con estrema
riluttanza…
Essa capì e lo
interruppe con voce
sommessa: Mi renderebbe
un tale servigio che io
seguirei qualunque
consiglio lei volesse
darmi.
Sarebbe sicuramente
che non dobbiamo più
correre il rischio…
Di nuovo Sarah
intervenne nella
piccola pausa da lui
fatta per cercare la
formula giusta.
Capisco. E capisco
anche che lei ha dei
legami assai più
pressanti.
Dopo quell’unico
breve momento, i raggi
del sole erano di nuovo
scomparsi.
La giornata
s’avvicinava a una
fredda conclusione.
Sembrava che la
strada da lui percorsa,
apparentemente in una
pianura, fosse
diventata
all’improvviso l’orlo
di un precipizio.
Egli lo capì
guardando il capo chino
della ragazza.
Non avrebbe saputo
dire che cosa lo avesse
distratto, né quale
errore avesse commesso
nella lettura della
pianta, ma si sentiva
insieme perduto e
adescato.
E nello stesso tempo
impegnato a compiere
un’altra pazzia.
Non riesco a trovare
le parole per
ringraziarla disse
Sarah.
Mi troverà qui nei
giorni che le ho detto.
Poi, come se la
radura fosse stata il
suo salotto: Non voglio
trattenerla oltre.
Charles s’inchinò,
esitò, le lanciò
un’ultima occhiata e si
decise a voltarsi.
Pochi istanti dopo
irrompeva oltre
l’ultima cortina di
edera e incespicava sul
sentiero in discesa,
più come un daino
spaventato che come un
raffinato gentiluomo
inglese.
Arrivò così al
principale sentiero
dell’Undercliff e si
avviò a lunghi passi
verso Lyme.
Udì il richiamo di un
gufo mattiniero, ma a
Charles quello sembrava
un pomeriggio
singolarmente privo di
saggezza.
Avrebbe dovuto
prendere una posizione
più decisa, avrebbe
dovuto andarsene prima,
avrebbe dovuto
restituire i testi,
avrebbe dovuto
suggerire no, imporre -
altre soluzioni alla
sua disperazione.
Si sentì messo nel
sacco, e provò la
tentazione di fermarsi
ad aspettarla.
Ma i suoi passi erano
sempre più rapidi.
Egli sapeva che stava
per avventurarsi nel
proibito, o meglio che
il proibito stava per
avventurarsi in lui.
Quanto più si
allontanava da lei nel
tempo e nello spazio,
tanto più chiaramente
vedeva l’assurdità del
suo comportamento.
Come se, quando aveva
avuto davanti Sarah,
fosse stato cieco; non
l’avesse vista per ciò
che era, una donna
manifestamente
pericolosa; o almeno
preda inconscia di
un’intensa frustrazione
emotiva e certo anche
di un risentimento
sociale.
Stavolta tuttavia non
si pose neppure il
problema se confidarsi
o no con Ernestina:
sapeva che non lo
avrebbe fatto.
E provava vergogna
come se, senza
avvertirla, fosse
salpato dal Cobb e
avesse spiegato le vele
verso la Cina.

19.
“Dato che in ogni
specie nascono più
individui di quanti non
ne possano
sopravvivere, e dato,
quindi, che la lotta
per l’esistenza è un
fatto sempre
ricorrente, ne consegue
che ogni essere che
subisca una variazione,
anche lieve, a proprio
vantaggio in condizioni
di vita complesse e
spesso variabili, avrà
una maggiore
probabilità di
sopravvivere e di
essere, in tal modo,
naturalmente
selezionato”.
Darwin, “L’origine
della specie” (1859).

In realtà la vittima
destinata alla Cina
doveva quella sera fare
da anfitrione in una
serata a sorpresa
organizzata, con la
collaborazione di
Ernestina, a beneficio
di Mistress Tranter.
Le due donne
sarebbero venute a
pranzo nel suo salotto
al White Lion.
Aveva fatto preparare
un piatto di succulente
aragoste di primissima
qualità, aveva fatto
bollire un salmone
appena pescato e aveva
saccheggiato la cantina
della locanda.
Inoltre, per
stabilire un equilibrio
tra i sessi, aveva
provveduto a invitare
quel medico che abbiamo
fuggevolmente
incontrato a casa di
Mistress Poulteney.
Eminente personaggio
di Lyme, egli era
generalmente
considerato un’ottima
preda nel fiume del
Matrimonio come lo era
stato nell’Axe il
salmone davanti al
quale veniva ora a
sedersi.
Ernestina prendeva
spietatamente in giro
la zia parlandogli di
lui e accusando questa
donna
quintessenzialmente
mite di inesorabile
crudeltà a danno di un
povero solitario che
agognava alla sua mano.
Ma poiché questo
tragico personaggio si
era brillantemente
adattato alla sua
povera solitudine per
sessanta anni e più, è
legittimo dubitare sia
dell’agognare sia della
crudeltà inesorabile.
In realtà il dottor
Grogan era un vecchio
scapolo inveterato come
zia Tranter era
un’inveterata zitella.
Essendo irlandese,
possedeva pienamente
l’abilità curiosamente
asessuata, che è
propria di quel popolo,
di volteggiare intorno
alle donne, di
civettare con loro e di
adularle senza mai
permettere che il suo
cuore venisse
coinvolto.
Piccolo e asciutto
come un gheppio,
tagliente, a volte
quasi feroce, ma subito
affabile quando era in
una compagnia che gli
garbava, aggiungeva
alla vita di Lyme un
elemento di piacevole
austerità; quando eri
con lui avevi sempre
l’impressione che
esitasse un poco prima
di scagliarsi contro
qualsiasi stupidaggine,
e nello stesso tempo,
se gli piacevi, lo
faceva sempre con
l’umorismo corroborante
e l’umanità di chi ha
vissuto e imparato, a
suo modo, a lasciar
vivere.
Aveva anche qualcosa
di vagamente equivoco,
essendo nato cattolico;
trasportato nei nostri
tempi, era insomma come
uno che sia stato
comunista negli anni
trenta e che adesso è
di nuovo gradito ma
ancora si porta addosso
la strinatura del
diavolo.
Sicuramente - avrebbe
altrimenti permesso
Mistress Poulteney che
egli comparisse alla
sua presenza? era
divenuto - come
Disraeli - un
rispettabile membro
della chiesa
d’Inghilterra.
Non poteva essere
diversamente visto che
- a differenza di
Disraeli - seguiva
scrupolosamente le
funzioni mattutine
della domenica.
Che poi un uomo
potesse essere tanto
indifferente alla
religione da poter
frequentare anche una
sinagoga o una moschea,
qualora fosse stato
questo il principale
luogo di culto, era una
cosa che i Lymers
nemmeno s’immaginavano.
Inoltre era un ottimo
medico, con una solida
conoscenza del ramo più
importante della
medicina, il
temperamento dei
pazienti.
Maltrattava quelli
che desideravano in
segreto di essere
maltrattati, e con
identica abilità sapeva
anche stuzzicare,
vezzeggiare o chiudere
un occhio a seconda dei
casi.
Nessuno a Lyme
gustava di più un buon
pranzo e un buon vino;
e poiché il pasto
offerto da Charles e
dal White Lion
incontrava la sua
approvazione, sostituì
tacitamente il giovane
nella parte
dell’anfitrione.
Aveva studiato a
Heidelberg ed
esercitato a Londra, e
conosceva il mondo e le
sue assurdità come può
conoscerli soltanto un
irlandese intelligente;
vale a dire che dove
venivano meno la
memoria o la
conoscenza, la fantasia
era sempre pronta a
colmare i vuoti.
Nessuno credeva a
tutte le sue storie, ma
ciò non diminuiva il
piacere di ascoltarle.
Zia Tranter
probabilmente le
conosceva come
qualunque altro
cittadino di Lyme,
essendo vecchia amica
del medico, e doveva
quindi sapere quanto
poco fossero coerenti
l’una con l’altra, e
tuttavia era lei che
rideva di più, così
smodatamente a volte
che mi fa paura pensare
a ciò che sarebbe
successo se avesse
avuto occasione di
udirla quel pilastro
della comunità che
viveva sulla collina.
Fu una serata in cui
un Charles in
condizioni normali si
sarebbe sicuramente
divertito; se non
altro, forse, perché il
medico si permise,
soprattutto quando il
salmone giaceva ormai
in anatomizzate rovine
e gli uomini avevano
cominciato ad
affrontare la caraffa
del porto, qualche
piccola libertà di
linguaggio e di
descrizione, in certe
storielle che non erano
esattamente “comme il
faut” nella società che
Ernestina era stata
abituata a ornare con
le sue grazie.
Charles la vide
lievemente
scandalizzarsi una
volta o due, cosa che a
zia Tranter non
succedeva, e provò
nostalgia per la
cultura più aperta
della loro gioventù,
alla quale i suoi due
invitati più anziani
erano ancora felici di
tornare.
Guardando gli occhi
maliziosi del medico e
l’allegria di zia
Tranter provò un’ondata
di nausea per la
propria epoca; per il
suo paralizzante
perbenismo e per il suo
culto non solo delle
macchine reali usate
nei trasporti e
nell’industria, ma di
quella ancor più
terribile che si stava
erigendo in forma di
convenzione sociale.
Può sembrare che
questa ammirevole
obiettività avesse
assai pochi rapporti
con il suo
comportamento di poche
ore prima.
Charles non lo
ammetteva in termini
così espliciti, ma non
era del tutto
inconsapevole della
propria incoerenza.
Passando poi a un
altro argomento di
riflessione, si disse
che aveva preso Miss
Woodruff troppo sul
serio, più
impappinandosi, per
così dire, che
mostrandosi disinvolto.
Era particolarmente
premuroso con
Ernestina, non più
“souffrante”, ma un po’
meno vivace del solito,
anche se era difficile
stabilire se fosse
conseguenza
dell’emicrania o della
vertiginosa eloquenza
irlandese del dottore.
Tuttavia pensò
ancora, come già al
concerto, che c’era in
lei qualcosa di
superficiale, che la
sua apparente acutezza
era in gran parte,
intellettualmente e
lessicalmente, semplice
furberia.
Non c’era forse,
sotto la sua contegnosa
accortezza, qualcosa
dell’automa, di una di
quelle ingegnose
ragazze-macchine dei
racconti di Hoffmann?
Ma poi pensò: è una
bambina in mezzo a tre
adulti, e le strinse
delicatamente la mano
sotto il tavolo di
mogano.
Era deliziosa quando
arrossiva.
I due uomini, l’alto
Charles che
assomigliava vagamente
al defunto principe
consorte e il piccolo e
magro dottore,
riaccompagnarono poi a
casa le due signore.
Erano le dieci e
mezzo e a quell’ora la
vita mondana londinese
era appena agli inizi,
ma questa cittadina era
da tempo immersa nel
solito lungo sonno.
Mentre la porta si
chiudeva sui loro visi
sorridenti, si
accorsero di essere i
due soli occupanti di
Broad Street.
Il medico si toccò il
naso con un dito.
Per lei ora, signore,
prescrivo una dose
abbondante di grog
preparato dalla mia
dotta mano.
Charles rispose con
un’espressione di
educata titubanza.
Ordini del dottore,
signore. “Dulce est
desipere”, come dice il
poeta.
E’ dolce cosa
sorseggiare nel luogo
adatto.
Charles sorrise.
Se mi garantisce che
il grog sarà migliore
del latino, verrò con
molto piacere.
Così, dieci minuti
dopo, Charles si trovò
confortevolmente
rannicchiato in quella
che il dottor Grogan
chiamava la sua
“cabina”, uno studio
semicircolare al
secondo piano che
s’affacciava sulla
piccola baia tra la
Cobb Gate e il Cobb
vero e proprio; una
stanza, sosteneva
l’irlandese, che
diventava
particolarmente
incantevole d’estate
quando permetteva la
contemplazione delle
nereidi che venivano a
passar le acque.
Che cosa di meglio
poteva fare un medico
se non ordinare alle
sue pazienti ciò che
era piacevole anche per
i suoi occhi? Su un
tavolino accanto alla
finestra c’era un
piccolo telescopio
gregoriano d’ottone.
Grogan fece guizzare
maliziosamente la
lingua e strizzò
l’occhio.
A scopi puramente
astronomici, s’intende.
Charles si sporse
dalla finestra ad
annusare l’aria
salmastra e scorse
sulla spiaggia, un po’
verso destra, le sagome
nere e quadrate delle
cabine a ruote da cui
emergevano le nereidi.
Ma la sola musica che
giungesse dal fondo
della notte era il
mormorio delle onde sui
ciottoli; e molto più
lontano, i gridi
leggermente rauchi dei
gabbiani appollaiati
sull’acqua calma.
Alle sue spalle,
nella stanza illuminata
da una lampada, udiva i
piccoli tintinnii che
accompagnavano la
preparazione della
“medicina” di Grogan.
Si sentiva sospeso
tra due mondi, la calda
ordinata civiltà che
aveva dietro la
schiena, il freddo e
buio mistero di fuori.
Tutti noi scriviamo
poesie; i poeti sono
soltanto quelli che le
scrivono con parole.
Il grog era
eccellente, il
sigaretto Burmah che lo
accompagnava una
sorpresa gradevole; e
questi due uomini
vivevano ancora in un
mondo nel quale gli
estranei intelligenti
avevano in comune un
paesaggio di
conoscenze, un fondo di
informazioni, un
preciso insieme di
regole con i relativi
riferimenti.
Quale medico oggi
conosce i classici?
Quale dilettante può
parlare in modo
comprensibile con uno
scienziato? Questi due
uomini erano un mondo
senza la tirannide
della specializzazione,
e io non vorrei - come
non lo vorrebbe il
dottor Grogan, lo
vedrete tra poco - che
confondeste il
progresso con la
felicità.
Per un po’ non
parlarono, limitandosi
a rituffarsi
soddisfatti in quel
mondo maschile, più
serio, che le signore e
l’occasione particolare
li avevano costretti a
lasciare.
Charles era curioso
di conoscere le
opinioni politiche del
medico, e per entrare
in argomento domandò di
chi erano i due busti
che spiccavano bianchi
tra i libri del padrone
di casa.
Il dottore sorrise.
Quisque suos patimur
manes.
E’ una frase di
Virgilio che significa
pressappoco: “Noi
foggiamo il nostro
destino attraverso gli
dèi che ci scegliamo”.
Anche Charles
sorrise.
Riconosco Bentham, o
sbaglio? Non sbaglia.
E l’altro blocco di
pario è Voltaire.
Deduco allora che
aderiamo allo stesso
partito.
C’è qualche altra
scelta per un
irlandese? domandò il
medico.
Charles riconobbe con
un gesto che non ce
n’erano.
Poi espose la ragione
del suo liberalismo.
Penso che Mister
Gladstone riconosca
almeno una corruzione
sostanziale nelle basi
etiche della nostra
epoca.
Santo cielo, non avrò
davanti un socialista?
Charles rise.
Non ancora.
Badi che in
quest’epoca di vapore e
di ipocrisia, io a un
uomo potrei perdonare
tutto.
Tranne la religione
vitale.
Oh certo.
Da giovane ero un
benthamiano.
Voltaire mi spinse
fuori da Roma, l’altro
dal campo dei Tories.
Ma questa nuova
bubbola, l’allargamento
del diritto di voto,
non fa per me.
Non m’importa un fico
della nascita.
Un duca, e sa il
cielo anche un re, può
essere stupido come
chiunque altro.
Ma ringrazio Madre
Natura del fatto che
tra cinquanta anni non
sarò più vivo.
Quando il governo
comincia ad aver paura
della folla, è come se
confessasse di aver
paura di se stesso.
I suoi occhi
scintillarono.
Ha saputo ciò che
quel mio compatriota
disse al cartista
venuto a Dublino per
predicare la sua fede.
“Fratelli,” concionava
il cartista “un uomo
non vale forse quanto
un altro?” “Ci hai
ragione, oratore,”
ribatte l’irlandese “e
vale anche un bel po’
di più.” Charles
sorrise, ma il medico
alzò un dito.
Lei sorride,
Smithson.
Ma stia attento,
l’irlandese aveva
ragione.
Non era solo una
battuta.
Il “bel po’ di più”
sarà la rovina del
paese.
Tenga a mente le mie
parole.
Ma i due dèi di casa
sono poi del tutto
innocenti? Chi è stato
a predicare la felicità
della maggioranza? Non
discuto il fine.
Ma i mezzi per
raggiungerlo.
Stavamo molto meglio
quando ero giovane,
senza il Civilizzatore
di ferro.
Alludeva alla
ferrovia.
Non si fa la felicità
dei molti facendoli
correre prima che
abbiano imparato a
camminare.
Charles mormorò il
suo garbato assenso.
Aveva discusso questo
stesso scottante
argomento con lo zio,
uomo dalle opinioni
politiche molto
diverse.
Molti di coloro che
si erano battuti per il
primo Reform Bill del
1832 si schierarono
contro quello di trenta
anni dopo.
Pensavano che
l’opportunismo e la
duplicità fossero il
cancro del secolo e
avessero suscitato un
minaccioso spirito
d’invidia e di
ribellione.
Forse il medico, nato
nel 1801, era in realtà
un frammento
dell’umanità augustea;
il suo senso del
progresso era troppo
strettamente legato a
una società ordinata,
nella quale l’ordine
era tutto ciò che gli
permetteva di essere
esattamente quale
sempre era stato, il
che di fatto lo
avvicinava più al
criptoliberale Burke
che al criptofascista
Bentham.
Ma la sua generazione
non aveva del tutto
torto a diffidare della
nuova Inghilterra e
degli statisti venuti
alla ribalta durante il
lungo boom economico
post 1850.
Molti giovani, ignoti
come Charles o celebri
come Matthew Arnold,
erano d’accordo con
loro.
Non si sarebbe forse
udito a suo tempo lo
pseudo convertito
Disraeli mormorare sul
letto di morte le
preghiere per i defunti
in ebraico? E
Gladstone, sotto la
maschera di una nobile
oratoria, non fu forse
il più grande maestro
dell’affermazione
ambigua, della
dichiarazione
coraggiosa ma ritoccata
sino alla codardia, in
tutta la storia
politica moderna? E se
i sommi erano
indecifrabili, i
peggiori… ma
evidentemente era
venuto il momento di
cambiare discorso.
Charles chiese al
medico se si
interessava di
paleontologia.No
signore.
E’ meglio che glielo
confessi.
Non volevo rovinare
quel pranzo delizioso.
Ma sono decisamente
un neo-ontologo.
Sorrise a Charles dal
fondo della sua
poltrona.
Quando sapremo
qualcosa di più sui
vivi, sarà venuto il
momento di occuparci
dei morti.
Charles accettò il
rabbuffo e approfittò
dell’occasione.
L’altro giorno mi è
stato presentato un
esemplare della fauna
locale che mi rende in
parte proclive a
concordare con lei.
Fece astutamente una
pausa.
Un caso stranissimo.
Che lei certamente
conosce meglio di me.
Poi, intuendo che la
sua maniera tortuosa di
affrontare l’argomento
poteva suggerire
qualcosa di più che un
interesse casuale, si
affrettò ad aggiungere:
Credo che si chiami
Woodruff.
Lavora per Mistress
Poulteney.
Il medico abbassò gli
occhi sul contenitore
dal manico d’argento in
cui teneva il
bicchiere.
Ah sì.
La povera “Tragedia”.
Sono forse
indiscreto? E’ una sua
paziente? Be’, sono il
medico curante di
Mistress Poulteney.
E non permetterei che
si dicesse una parola
cattiva su di lei.
Charles lo sbirciò
guardingo; ma nella
luce degli occhi del
medico, dietro le lenti
quadrate, balenava
inequivocabilmente un
che di maligno.
Il giovane abbassò lo
sguardo con un
sorrisetto.
Il dottor Grogan
allungò una mano per
attizzare il fuoco.
Sappiamo più cose dei
fossili su quella
spiaggia che di ciò che
accade nella mente di
quella ragazza.
Un intelligente
medico tedesco ha
recentemente diviso la
melanconia in vari
tipi.
Uno lo chiama
naturale ed è quello di
chi è nato con un
temperamento triste.
Un altro lo chiama
occasionale, che
significa scaturito da
un’occasione.
E di questo, lei
capisce, soffriamo
tutti ogni tanto.
Il terzo tipo lo
chiama melanconia
oscura.
E con questo termine
il poveraccio vuol dire
che non sa cosa diavolo
sia a provocarla.
Ma un’occasione l’ha
avuta, no? Andiamo, è
forse la prima ragazza
che sia stata piantata?
Potrei presentargliene
una dozzina solo qui a
Lyme.
In circostanze così
brutali? Anche peggiori
in certi casi.
E oggi saltellano
come grilli.
Lei dunque classifica
Miss Woodruff nella
categoria oscura? Il
medico rimase per
qualche istante in
silenzio.
Mi chiamarono tutto
questo naturalmente
deve restare
assolutamente tra noi -
mi chiamarono a
visitarla… circa dieci
mesi fa.
Compresi subito che
cosa non andava.
Lacrime senza
ragione, mutismo e una
certa espressione negli
occhi.
Melanconia,
inconfondibile come il
morbillo.
Conoscevo la sua
storia perché conosco i
Talbot e lei quando
successe lavorava da
loro come governante.
E penso che, be’ la
causa sia evidente… sei
settimane, sei giorni a
Marlborough House sono
sufficienti a far
finire in manicomio
qualunque persona
normale.
Detto tra noi,
Smithson, io sono un
vecchio pagano.
Mi piacerebbe tanto
veder bruciare fino
alle fondamenta quel
palazzo della devozione
con la sua padrona
dentro.
E mi venga un colpo
se non ballerei una
giga sulle sue ceneri.
Credo che le farei
compagnia.
E non saremmo i soli,
perdinci! Il medico
tracannò un sorso
generoso del suo grog.
Verrebbe tutta la
città.
Ma questo non
c’entra.
Per la ragazza feci
quanto potevo.
Ma capii subito che
c’era soltanto una
cura.
Farla andar via.
Il medico annuì
vigorosamente.
Quindici giorni dopo,
un pomeriggio mentre
sto tornando a casa,
vedo la ragazza venire
verso il Cobb.
La faccio entrare, le
parlo, la tratto
gentilmente come se
fosse la mia nipote
preferita.
E’ come far saltare a
un fiaccheraio un
ostacolo di tre metri.
Un muro, parola
d’onore Smithson, mi
trovai di fronte un
muro.
E non mi ero limitato
a fare delle
chiacchiere.
Un mio collega di
Exeter, un caro uomo
con una moglie felice e
quattro marmocchietti
che sembrano angeli,
stava proprio cercando
una governante.
Glielo dissi.
E lei non volle
andarsene! Per nessuna
ragione al mondo.
Il fatto è questo,
vede.
Mistress Talbot è una
cara persona e se la
sarebbe ripresa subito.
Ma no, questa ragazza
finisce in una casa
sapendo che è una tomba
vivente, da una padrona
che non ha mai capito
la differenza tra un
servo e uno schiavo, in
un posto che è come un
guanciale di ginestre.
E lì resta, non vuol
più muoversi.
Lei non ci crederà,
Mister Smithson.
Ma potrebbe offrire a
questa ragazza il trono
d’Inghilterra e
scommetto mille
sterline contro un
penny che scuoterebbe
il capo.
Ma… mi sembra
assurdo.
Ciò che lei mi dice
che ha rifiutato è
esattamente quello che
noi pensavamo di
offrirle.
La madre di
Ernestina…
Perderà il suo tempo,
caro amico, con tutto
il rispetto dovuto a
questa signora.
Sorrise con aria
torva, poi si chinò a
riempire i due
bicchieri con il bricco
del grog tenuto in
caldo.
Il buon dottor
Hartmann descrive casi
abbastanza simili.
Ce n’è per esempio
uno che è davvero
impressionante.
Il caso di una
vedova, se non ricordo
male, una giovane
vedova, Weimar, il
marito un ufficiale di
cavalleria morto in un
incidente durante le
manovre.
I punti di contatto
sono evidenti.
Questa donna mise un
lutto strettissimo.
Bene.
Assolutamente
normale.
Ma continuò così per
un pezzo, Smithson,
anni e anni.
In quella casa non si
poteva cambiare nulla.
Gli abiti del morto
erano sempre appesi nel
suo armadio, la sua
pipa restava accanto
alla sua poltrona
preferita, persino le
lettere a lui
indirizzate e arrivate
dopo la sua morte…
rimasero lì… il medico
indicò un punto nella
penombra alle spalle di
Charles lì, sul solito
piatto d’argento,
chiuse a ingiallire per
tutti quegli anni.
Fece una pausa.
Sorrise.
Non troverà mai
simili misteri nei suoi
ammoniti.
Ma così racconta
Hartmann.
Si alzò in piedi e
buttò le sue parole
addosso a Charles con
l’indice puntato.
COME SE QUELLA DONNA
FOSSE STATA DEDITA ALLA
MELANCONIA NELLA STESSA
MANIERA IN CUI ALTRI
SONO DEDITI ALL’OPPIO.
Capisce adesso? La
tristezza diventa la
sua felicità.
Vuole essere una
vittima sacrificale.
Dove io e lei
indietreggiamo, lei si
getta in avanti.
E’ invasata, capisce?
Tornò a sedersi.
Misterioso.
Molto misterioso.
Ci fu una lunga
pausa.
Charles gettò nel
fuoco il mozzicone del
suo sigaretto.
Rimase a fiammeggiare
per un momento.
Quando rivolse al
medico un’altra
domanda, si accorse che
non aveva il coraggio
di guardarlo negli
occhi.
E non ha confidato a
nessuno il suo vero
stato d’animo? La sua
più intima amica è
certamente Mistress
Talbot.
La quale però mi dice
che la ragazza tace
anche con lei.
Mi illudevo… ma
evidentemente ho
fallito.
E se… diciamo così si
convincesse a rivelare
i sentimenti che tiene
nascosti a qualche
altra persona che la
tratta con simpatia…
Guarirebbe.
Ma non vuol guarire.
E’ come se rifiutasse
di prendere una
medicina.
Ma presumibilmente in
un caso del genere,
lei…
Come può forzare
un’anima, giovanotto?
Me lo sa dire? Charles
proclamò con un’alzata
di spalle la sua
impotenza.
No, naturalmente.
E le dirò una cosa.
La comprensione non è
mai nata dalla
violazione.
Dunque è un caso
disperato? Nel senso
che intende lei, sì.
La medicina non può
far nulla.
Non deve credere che
costei sia capace, come
noi uomini, di
ragionare lucidamente,
di esaminare le proprie
motivazioni, di capire
perché si comporta
così.
Bisogna vederla come
una creatura avvolta
dalla nebbia.
Possiamo soltanto
aspettare e sperare che
la nebbia si alzi.
Allora forse…
Tacque.
Poi aggiunse, senza
speranza: Forse.
In quello stesso
momento la camera di
Sarah è immersa nel
buio silenzio che
avvolge Marlborough
House.
Dorme voltata sul
fianco destro, con i
capelli scuri sciolti
sul viso sin quasi a
nasconderlo.
Ancora una volta ti
accorgi di quanto i
suoi lineamenti siano
pacifici e
assolutamente non
tragici: una sana
ragazza di ventisei o
ventisette anni, con un
braccio snello e
tornito disteso sopra
le coperte perché la
notte è immobile e le
finestre chiuse…
disteso, dicevo, e
posato su un altro
corpo.
Non è un uomo.
Una ragazza sui
diciannove anni, anche
lei addormentata, che
volge la schiena a
Sarah ma le è
vicinissima, in quanto
il letto, benché largo,
non è fatto per due
persone.
Lo so che cosa
pensate, ma avete
dimenticato che siamo
nel 1867.
Voi supponete che
Mistress Poulteney
compaia all’improvviso
sulla soglia con una
lampada in mano e
scopra questi due corpi
affezionati che
giacciono così vicini,
così uniti.
E forse immaginate
che si gonfi come un
cigno nero infuriato ed
esploda in un
oltraggiato anatema;
vedete già le due
ragazze, vestite solo
dei loro miseri cenci,
scacciate oltre quelle
porte di granito.
Be’, vi sbagliate.
Poiché sappiamo che
Mistress Poulteney
prendeva ogni sera una
buona dose di laudano,
è assai improbabile che
potesse verificarsi
questa eventualità.
Ma se nonostante
tutto fosse comparsa
sulla soglia, quasi
certamente si sarebbe
limitata a voltarsi e
ad allontanarsi, non
solo, ma probabilmente
avrebbe richiuso la
porta senza far troppo
rumore per non
svegliare le dormienti.
Incomprensibile? Ma
certi vizi allora erano
talmente innaturali che
non esistevano nemmeno.
Dubito che Mistress
Poulteney avesse mai
udito la parola
“lesbica”, e se l’aveva
udita era da scriversi
con l’iniziale
maiuscola e si riferiva
a un’isola della
Grecia.
E poi per lei era un
fatto fondamentale e
incontrovertibile, come
quello che il mondo è
rotondo o che il dottor
Phillpotts era il
vescovo di Exeter, che
le donne non provavano
piaceri carnali.
Sapeva ovviamente che
certe femmine di infimo
ordine davano
l’impressione di trarre
godimento da
particolari carezze
maschili, come quel
bacio mostruoso
piantato a suo tempo
sulla guancia di Mary,
ma per lei questo era
soltanto un risultato
della vanità e della
debolezza femminili.
Esistevano ovviamente
le prostitute, e c’era
a ricordargliele la più
famosa delle opere
buone di Lady Cotton;
ma erano chiaramente
creature così depravate
da vincere il loro
innato disgusto di
donne per la carne,
spinte da bramosia di
denaro.
Era stata proprio
questa la sua prima
ipotesi su Mary: una
ragazza che ridacchiava
in quel modo dopo
essere stata
grossolanamente
insultata dal mozzo di
stalla, era con ogni
evidenza una prostituta
in formazione.
Ma le motivazioni di
Sarah? Per quanto
riguarda il lesbismo,
era ignorante come la
sua padrona, ma non
condivideva l’orrore di
Mistress Poulteney per
la carne.
Sapeva, o almeno
immaginava, che l’amore
dava anche un piacere
fisico.
E tuttavia, credo,
era talmente innocente
che ciò non aveva
importanza.
Aveva cominciato a
dormire con Millie da
quando la povera
ragazza era scoppiata
in singhiozzi sotto gli
occhi di Mistress
Poulteney.
Il dottor Grogan
aveva raccomandato di
toglierla dal
dormitorio delle
cameriere e di darle
una camera più
illuminata.
E accanto alla camera
di Sarah c’era appunto
uno spogliatoio da
tempo inutilizzato dove
Millie si trasferì.
Sarah si era assunta
la responsabilità di
buona parte delle cure
di cui la ragazza
clorotica aveva
bisogno.
Costei era nata in
una famiglia di
contadini, quarta di
undici figli che
vivevano con i genitori
in una miseria troppo
spaventosa perché si
possa descriverla, e la
sua casa era un umido e
ristretto cottage di
due stanze in una di
quelle vallate che
s’irradiano verso
occidente dallo
squallido Eggardon.
Ora essa appartiene a
un giovane architetto
londinese alla moda che
viene qui per i weekend
e l’adora perché è così
selvaggia, così fuori
mano, così
pittorescamente rurale;
e forse questo
esorcizza gli orrori
vittoriani di cui fu
teatro.
Almeno lo spero.
Le immagini del
bracciante felice e
della sua nidiata messe
di moda da George
Morland e dai suoi pari
(nel 1867 il sommo
criminale era Birket
Foster) erano una
sentimentalizzazione, e
quindi una soppressione
della realtà, stupida e
perniciosa come quella
dei moderni film
hollywoodiani di vita
“reale”.
Un’occhiata a Millie
e ai suoi dieci
miserandi fratelli
sarebbe bastata a
incenerire una volta
per tutte il mito della
contadinella felice, ma
pochissimi davano
questa occhiata.
Ogni epoca, ogni
epoca colpevole, erige
alte mura intorno alle
sue Versailles; e io
personalmente le odio
ancora di più quando
vengono costruite dalla
letteratura e
dall’arte.
Una notte, dunque,
Sarah sentì piangere la
ragazza.
Andò nella sua stanza
e la confortò, cosa non
troppo difficile perché
Millie era una bambina
in tutto tranne che
negli anni; non sapeva
leggere né scrivere ed
era in grado di
giudicare gli esseri
umani che le stavano
attorno pressappoco
quanto un cane.
Se l’accarezzavi,
capiva, se la prendevi
a calci, be’ così era
la vita.
Era una notte
terribilmente fredda, e
Sarah si era limitata a
infilarsi nel letto, a
prenderla tra le
braccia, a baciarla e a
darle, quasi
letteralmente, qualche
sculacciata.
Per lei Millie era
come uno di quegli
agnelli malaticci che
un tempo, prima che le
ambizioni mondane di
suo padre ponessero
fine a tali abitudini
contadine, aveva
personalmente allevato.
E sa il cielo che in
una situazione analoga
si trovava anche la
figlia del bracciante.
Da allora l’agnello
veniva, con quella sua
aria desolata, due o
tre volte la settimana.
Dormiva male, ancor
peggio di Sarah, la
quale spesso si
addormentava sola e si
svegliava all’alba
trovandosi accanto la
ragazza che
timidamente,
delicatamente nei
dintorni di
un’intollerabile
mezzanotte si era
insinuata nel suo
letto.
Aveva paura del buio
la poverina, e se non
ci fosse stata Sarah
avrebbe chiesto di
tornare nel dormitorio
di sopra.
Questo tenero
rapporto era quasi
muto.
Parlavano raramente,
per non dire mai, e
solo degli argomenti
più banali.
Sapevano che la cosa
più importante era
questa presenza calda e
silenziosa nel buio.
C’era qualcosa di
sessuale nei loro
sentimenti? Forse, ma
non superavano mai i
limiti che avrebbero
rispettato due sorelle.
Indubbiamente qua e
là in altri ambienti,
nella più brutale
miseria urbana e
nell’aristocrazia più
emancipata, esisteva
anche allora un
lesbismo veramente
orgiastico; ma noi
possiamo attribuire il
comunissimo fenomeno
vittoriano delle donne
che dormivano insieme
assai più alla
devastante arroganza
del maschio
contemporaneo che a
motivi più sospetti.
Del resto, in tali
pozzi di solitudine,
una qualunque comunione
tra due esseri non è
forse più vicina
all’umanità che alla
perversione? Lasciamole
dunque dormire queste
due innocenti; e
torniamo a quell’altra
coppia più razionale,
più colta e tutto
sommato più nobilmente
generata, che se ne sta
laggiù lungo il mare.
I due signori della
creazione erano tornati
dai discorsi su Miss
Woodruff e dalla
metafora abbastanza a
doppio taglio sulla
nebbiolina al campo
meno ambiguo della
paleontologia.
Deve ammettere disse
Charles che le scoperte
di Lyell hanno
un’importanza ben
maggiore di quanto
possa sembrare.
Temo che il clero
dovrà combattere una
terribile battaglia.
Lyell, permettetemi
di precisare, fu il
padre della geologia
moderna.
Già nel 1778, Buffon,
nelle sue famose
“Epoques de la nature”,
aveva distrutto il mito
inventato nel Seicento
dall’arcivescovo Ussher
e solennemente
registrato in
innumerevoli edizioni
della Bibbia ufficiale
inglese, secondo il
quale il mondo era
stato creato il 26
ottobre del 4004 avanti
Cristo alle nove.
Ma neanche il grande
naturalista francese
aveva osato farne
risalire l’origine a
più di 75000 anni
prima.
I “Principles of
Geology” di Lyell,
pubblicati tra il 1830
e il 1833 - in una
bella coincidenza con
le riforme attuate in
altri campi - l’avevano
invece arretrata di
milioni di anni.
Il suo è un nome
quasi dimenticato ma di
fondamentale
importanza; egli mise a
disposizione della sua
epoca e di innumerevoli
scienziati di tutti i
settori un
importantissimo spazio.
Le sue scoperte
furono un gran soffio
di vento, raggelante
per i pavidi,
corroborante per gli
audaci, negli stantii
corridoi metafisici del
secolo.
Ma dovete tener conto
che nell’epoca di cui
scrivo pochissimi
avevano sentito parlare
del capolavoro di
Lyell, meno ancora
credevano nelle sue
teorie e solo una
ristrettissima
minoranza accettava le
sue implicazioni.
Il Genesi è una gran
bugia, ma anche un
grande poema, e un
utero di seimila anni è
molto più confortevole
di uno di due miliardi.
A Charles dunque
interessava - ma il
futuro suocero e lo zio
gli avevano insegnato
che in questa direzione
bisognava procedere con
molta cautela -
scoprire come il dottor
Grogan avrebbe reagito
alla sua preoccupazione
per i teologi.
Ma il medico non si
scoprì.
Rimase a fissare il
fuoco e mormorò: Lo
penso anch’io.
Ci fu una piccola
pausa, che Charles
spezzò con
indifferenza, come se
davvero volesse
soltanto far proseguire
la conversazione.
Ha letto quel tale
Darwin? La sola
risposta di Grogan fu
un’occhiata tagliente
al di sopra delle
lenti.
Poi si alzò e,
portandosi appresso la
lampada a trementina,
s’accostò a uno
scaffale in fondo a
quella stretta stanza.
Un attimo dopo tornò
indietro e porse a
Charles un libro.
Era “L’origine della
specie”.
Charles alzò lo
sguardo e incontrò i
severi occhi del
medico.
Non volevo insinuare…
Lo ha letto? Sì.
Allora non dovrebbe
essere così
superficiale da
chiamare “quel tale
Darwin” un così grande
uomo.
Da quello che lei
diceva…
E’ un libro sui vivi,
Smithson.
Non sui morti.
Poi, piuttosto
irritato, si voltò per
riporre la lampada sul
suo tavolo.
Charles si alzò.
Lei ha ragione.
Le chiedo scusa.
Il piccolo medico gli
lanciò un’occhiata di
traverso.
Qualche anno fa è
venuto qui Gosse con
una delle sue comitive
di “bas-bleus” a
raccogliere
chioccioline marine.
Lei ha letto
“Omphalos”? (1) Charles
sorrise.
Non vi ho trovato
altro che la più
completa assurdità.
A questo punto
Grogan, che lo aveva
sottoposto prima a una
prova negativa poi a
una positiva, gli
restituì un pallido
sorriso.
E’ quello che gli ho
detto alla fine della
sua conferenza.
Oh! E non mi sono
limitato a questo.
Il medico concesse
alle sue narici
irlandesi due piccole
sbuffate d’aria
trionfante.
Ho la sensazione che
quel sacco di vento
fondamentalista ci
penserà due volte prima
di venire di nuovo a
soffiare su questa
parte del litorale del
Dorset.
Diede a Charles
un’occhiata più
gentile.
Darwiniano?
Appassionato.
Allora Grogan gli
prese la mano e gliela
strinse; come se lui
fosse Crusoe e Charles
Venerdì; e forse tra
loro passò qualcosa di
non molto diverso da
ciò che stava
inconsapevolmente
passando tra le due
ragazze addormentate a
mezzo miglio di
distanza.
Sapevano di essere
come due pizzichi di
lievito in un mare di
letargica pasta; due
grani di sale in una
zuppiera enorme di
insipido brodo.
Dopo di che i nostri
due “carbonari” (2)
dello spirito - il
ragazzo che è in ogni
uomo non ha forse
sempre adorato di
giocare alle società
segrete? - fecero un
altro giro di grog e si
accesero nuovi
sigaretti prima di
passare a una lunga
celebrazione di Darwin.
Avrebbero dovuto, si
può pensare, sentirsi
sopraffatti dalle nuove
grandi verità di cui
discutevano; ma temo
che il loro umore -
soprattutto quello di
Charles quando si
decise a rincasare
nelle ore piccole del
mattino - fosse
improntato al senso di
un’enorme superiorità,
di una grande distanza
intellettuale dal resto
delle creature viventi.
L’abbuiata Lyme era
la massa amorfa
dell’umanità, con tutta
evidenza sprofondata in
un antichissimo sonno,
mentre Charles, il
naturalmente
selezionato (usando
l’avverbio in entrambe
le sue accezioni), era
l’intelletto puro, che
camminava sveglio,
libero come un dio,
simile alle stelle ben
deste e in grado di
capire tutto.
Tutto tranne Sarah,
cioè.
NOTE.
Nota 1. “Omphalos: an
attempt to untie the
geological knot” è oggi
dimenticato ed è un
peccato, essendo esso
uno dei libri più
curiosi e
involontariamente
comici - di
quell’epoca.
L’autore era un
Fellow of the Royal
Society e il maggior
biologo marino del suo
tempo; tuttavia la
paura per Lyell e i
suoi seguaci lo spinse
nel 1857 a proporre una
teoria grazie alla
quale le contraddizioni
tra la scienza e la
versione biblica della
creazione vengono
elegantemente eliminate
con un colpo solo,
l’ingegnosa tesi di
Gosse, secondo la quale
Dio, lo stesso giorno
in cui aveva creato
Adamo, creò anche tutti
i fossili e le forme
estinte di vita, può
essere sicuramente
considerata la più
incomprensibile
operazione di
mascheramento che
l’uomo abbia mai
attribuito alla
Divinità.
La stessa data della
pubblicazione di
“Omphalos” - due anni
prima dell‘“Origine” -
non poteva essere più
sbagliata.
Gosse, come si sa,
venne immortalato mezzo
secolo dopo nel libro
squisito e famoso di
suo figlio Edmund.
Nota 2.
In italiano nel
testo. [Nota del
Traduttore].

20.
“Are God and Nature
then at strife, That
Nature lends such evil
dreams? So careful of
the type she seems, So
careless of the single
life…” Tennyson, “In
Memoriam” (1850).
“Sono dunque Dio e
Natura in conflitto, /
Che la Natura concede
siffatti sogni cattivi?
/ Tanto curante della
specie essa sembra, /
Tanto incurante
dell’individuo…” [Nota
del Traduttore].
Alla fine,
quest’ultima ruppe il
silenzio e lo spiegò a
chiare lettere al
dottor Burkley.
In ginocchio, il
medico indicava con
mano tremante le
macabre macchie sulla
gonna.
Perché non indossa un
abito pulito? domandò,
incerto.
No rispose lei,
decisa.
Che vedano che cosa
hanno fatto!” William
Manchester, “Morte di
un presidente”. (1)

Essa era in piedi


nell’ombra obliqua
all’altro capo del
tunnel di edera.
Non si voltò a
guardare; lo aveva
visto arrampicarsi tra
i frassini.
Era una splendida
giornata traboccante
d’azzurro, con una
tiepida brezza da
sudovest.
Aveva fatto uscire
sciami di farfalle
primaverili; quelle
bianche con punte
giallo zolfo o
arancione e striature
verdi che abbiamo
recentemente giudicato
incompatibili con gli
alti profitti agricoli
e di conseguenza
avvelenate sin quasi a
provocarne
l’estinzione, avevano
danzato con Charles sin
da quando egli aveva
superato la Cascina e
attraversato i boschi;
e adesso una di loro,
una lucente macchia di
zolfo, fluttuava nella
radura luminosa dietro
la figura scura di
Sarah.
Charles sostò un
attimo prima di
immergersi nell’ombra
verde cupo sotto
l’edera, e si guardò
attorno con aria
colpevole per esser
certo che nessuno lo
vedesse.
Ma i grandi frassini
allungavano i loro rami
ancora nudi su un bosco
deserto.
Sarah si voltò solo
quando lui le venne
vicino, e ancora non
volle guardarlo, ma
s’infilò una mano nella
tasca del cappotto e,
in silenzio, con gli
occhi abbassati, gli
porse un altro testo
come si trattasse di
un’offerta espiatoria.
Charles lo prese ma
rimase contagiato dal
suo imbarazzo.
Lei deve permettermi
di pagarle questi testi
quanto li pagherei
nella bottega di Miss
Anning.
Allora Sarah alzò la
testa e i loro occhi
finalmente si
incontrarono.
Egli capì di averla
offesa, e provò di
nuovo la sensazione
inspiegabile di essere
stato trafitto, di aver
mancato, di averla
delusa.
Ma stavolta ciò servì
a fargli ritrovare
l’equilibrio, cioè
l’atteggiamento che
aveva deciso di
assumere; poiché questo
episodio si svolse due
giorni dopo gli eventi
narrati negli ultimi
capitoli.
L’osservazione del
dottor Grogan sul
rapporto di priorità
nel comportamento verso
i morti e verso i vivi
aveva germinato, e
Charles vedeva ora
nella sua avventura una
ragione scientifica
accanto a quella
umanitaria.
Era stato abbastanza
franco da ammettere a
se stesso che c’era in
essa, insieme con un
elemento di
sconvenienza, un
elemento di piacere;
ora però vi scorgeva
anche un evidente
elemento di dovere.
Egli apparteneva
senza alcun dubbio alla
schiera dei più adatti;
ma i più adatti “umani”
avevano certe
responsabilità nei
confronti dei meno
adatti.
Aveva persino ripreso
in considerazione
l’ipotesi di rivelare a
Ernestina quanto era
accaduto tra lui e Miss
Woodruff; ma prevedeva
purtroppo con estrema
certezza che essa gli
avrebbe rivolto assurde
domande da donna, alle
quali non gli sarebbe
stato possibile
rispondere con
sincerità senza
inoltrarsi in acque
pericolose.
Aveva quindi deciso
che Ernestina non aveva
il sesso e l’esperienza
indispensabili per
comprendere l’altruismo
dei suoi motivi; e
aggirò così assai
comodamente questo
altro aspetto, meno
attraente, del dovere.
Si sottrasse dunque
allo sguardo accusatore
di Sarah.
Io sono ricco per
caso, lei è povera per
caso.
Penso che non
dovremmo fare
complimenti.
Era proprio questo il
suo piano: trattare
Sarah con simpatia, ma
stabilire una distanza,
ricordarle la
differenza tra le loro
posizioni sociali… ma
in tono leggero, si
capisce, con un’ironia
senza pretese.
E’ la sola cosa che
ho da darle.
Ma non c’è ragione
che lei mi dia
qualcosa.
Lei è venuto.
Questa docilità lo
sconcertava quasi
quanto il suo orgoglio.
Sono venuto perché mi
sono convinto che lei
ha un effettivo bisogno
di aiuto.
E benché ancora non
capisca perché mi abbia
fatto l’onore di
richiamare il mio
interesse sul suo…
s’interruppe perché
stava per dire “caso”,
rivelando così che era
lì come scienziato e
non solo come
gentiluomo.
Sulla sua sorte, sono
venuto pronto ad
ascoltare ciò che lei
voleva… non è così?…
che io ascoltassi.
Essa allora levò
nuovamente gli occhi
verso di lui.
Charles si sentì
lusingato.
Sarah fece un gesto
verso la zona
soleggiata.
Conosco qui vicino
un luogo isolato.
Possiamo andare lì?
Egli fece capire di
essere favorevole alla
proposta e lei si
spostò sotto il sole
attraversando quella
radura pietrosa dove
Charles stava facendo
le sue ricerche la
prima volta che si era
imbattuto in lei.
Camminava con passo
leggero e sicuro,
tenendo con una mano la
gonna, alzata di
qualche centimetro, e
con l’altra i nastri
della sua cuffia nera.
Seguendola con
agilità assai minore,
Charles notò i rammendi
nei talloni delle sue
calze nere, i tacchi
consumati delle scarpe
e anche i riflessi
ramati dei suoi capelli
scuri.
Immaginava che
fossero bellissimi una
volta sciolti, ricchi e
lussureggianti; e
benché fossero tirati
indietro e nascosti dal
bavero del cappotto,
egli si chiedeva se non
era per vanità che
tante volte portava in
mano la cuffia.
Gli fece strada in un
altro tunnel verde, che
sbucava su un erboso
pendio in un punto dove
da tempo si era
sgretolata la parete
verticale del
contrafforte.
C’erano ciuffi di
vegetazione cui
aggrapparsi, e Sarah
saliva con cautela,
procedendo a zig-zag
verso la cima.
Arrancando dietro di
lei, egli scorse il
fondo, legato da un
nastro bianco, dei suoi
mutandoni, che
scendevano appena sopra
le caviglie; una vera
signora si sarebbe
arrampicata dietro di
lui e non davanti.
Sarah rimase ad
aspettare che Charles
la raggiungesse sulla
cima.
Poi lui la seguì
lungo la cresta del
contrafforte.
Il terreno saliva
ripido verso un altro
contrafforte un
centinaio di metri più
in alto; erano lì gli
enormi “gradini”
decrescenti che si
potevano intravvedere
dal Cobb, a due miglia
di distanza.
Dopo averli superati,
giunsero a una
sporgenza ancor più
ripida.
A Charles sembrava
pericolosamente
inclinata; sarebbe
bastato un passo falso
per scivolare senza
rimedio oltre il bordo
del contrafforte
sottostante.
Fosse stato solo,
avrebbe esitato.
Ma Sarah procedette
tranquillamente, come
se non si rendesse
conto del rischio.
Dall’altra parte di
questa sporgenza la
terra si appiattiva per
qualche metro ed era
questo il suo “luogo
isolato”.
Si trattava di una
conca esposta a sud e
circondata da densi
cespugli di rovi e
cornioli, una specie di
verde anfiteatro in
miniatura.
Verso il fondo di
questa arena, se si può
adoperare questo
termine per uno spazio
largo neanche quattro
metri e mezzo, sorgeva
un biancospino nano e
qualcuno - non Sarah
evidentemente - aveva a
suo tempo appoggiato un
grande blocco di selce
dalla superficie piana
alla radice della
pianta, costruendo così
un rustico trono che
dominava uno splendido
panorama di cime
d’alberi più in basso e
di mare più oltre.
Charles, ansimando un
poco nel suo abito di
flanella e sudando
parecchio, si guardò
attorno.
I bordi della conca
erano tappezzati di
primule e violette e
delle bianche stelle
delle fragole
selvatiche.
Appollaiato nel
cielo, cullato dal sole
pomeridiano, era un
luogo incantevole,
protetto in ogni
direzione.
Devo congratularmi.
Lei è un genio nel
trovare questi nidi per
rapaci.
Nel trovare la
solitudine.
Gli offrì il sedile
di selce sotto il
piccolo biancospino.
Scommetto che è la
sua sedia.
Ma lei si era voltata
ed era andata
graziosamente a sedersi
di traverso su un
rialzo a qualche decina
di centimetri dalla
pianta, in modo da
poter contemplare il
mare; in tal modo, come
scoprì Charles una
volta accomodatosi sul
sedile migliore, gli
nascondeva in parte il
viso, facendo però in
modo, con ingegnosa
civetteria, di mettere
in buona vista i
capelli.
Sedeva in posizione
molto eretta, ma teneva
il capo chino e
sembrava poco
plausibilmente
concentrata
nell’accomodarsi la
cuffia.
Charles la osservava,
con un sorriso nella
sua mente se non sulle
labbra.
Non sapeva bene da
che parte cominciare, e
tuttavia la situazione
era troppo al “fresco”
(2), troppo
disinvoltamente
giovanile, come quella
che può crearsi tra un
ragazzo e la sorella,
per il timido imbarazzo
che lei mostrava.
Sarah si tolse la
cuffia, si slacciò il
cappotto e rimase
seduta con le dita
intrecciate.
Ma ancora non
parlava.
Nel bavero alto e nel
taglio del cappotto,
specialmente visto da
dietro, c’era qualcosa
di maschile, che le
dava vagamente
l’aspetto di un
cocchiere femmina o di
una soldatessa, ma solo
vagamente, e questa
impressione del resto
era immediatamente
smentita dai capelli.
Con una certa
sorpresa, Charles si
accorse che quei
vestiti frusti non la
danneggiavano per
niente; anzi in un
certo senso le stavano
bene, più ancora che
abiti più fini.
Gli ultimi cinque
anni erano stati,
almeno a Londra, un
periodo di grande
emancipazione della
moda femminile.
Incominciavano a
diventare d’uso comune
i primi sussidi
artificiali di un seno
ben modellato; ci si
dipingeva le ciglia e
le sopracciglia, ci si
ungeva le labbra, ci si
schiariva o ci si
tingeva i capelli… e
tutte queste cose le
facevano le signore più
eleganti, non soltanto
le esponenti del
“demimonde”.
Sarah però era
estranea a tutto
questo.
Pareva del tutto
indifferente alla moda,
eppure sopravviveva,
come le semplici
primule, ora ai piedi
di Charles,
sopravvivevano alla
concorrenza di esotiche
piante da serra.
Charles dunque sedeva
in silenzio, e sembrava
un po’ un re con una
strana postulante ai
suoi piedi.
Non si sentiva
eccessivamente propenso
ad aiutarla.
Lei comunque non
parlava ancora.
Forse era solo pudica
timidezza, e tuttavia
egli cominciò a intuire
che lo stava sfidando a
estirparle il suo
segreto con la
persuasione.
Finì dunque per
arrendersi.
Miss Woodruff, io
detesto l’immoralità.
Ma detesto ancora di
più la moralità senza
misericordia.
Le prometto che non
sarò un giudice troppo
severo.
Rispose con un
piccolo movimento del
capo.
Ma esitava ancora.
Poi, con la
bruschezza di un
bagnante restio che
indugia sulla riva, si
tuffò nella sua
confessione.
Si chiama Varguennes.
Lo portarono a casa
del capitano Talbot
dopo il naufragio della
sua nave.
Tutti gli altri
tranne due erano
annegati.
Ma questo gliel’hanno
già raccontato, no? I
semplici avvenimenti.
Non so niente di
quell’uomo.
La prima cosa che
ammirai in lui fu il
suo coraggio.
Allora non sapevo che
un uomo può essere
molto ardito e insieme
molto sleale.
Stava fissando il
mare come se fosse
quello il suo
interlocutore, e non
Charles cui voltava le
spalle.
La sua ferita era
tremenda.
Aveva la carne
dilaniata dal fianco al
ginocchio.
Se fosse andata in
cancrena, avrebbe perso
la gamba.
Soffriva moltissimo
in quei primi giorni.
Ma non gridava mai.
Nemmeno il più
piccolo gemito.
Quando il dottore gli
medicava la ferita, mi
stringeva forte una
mano.
Talmente forte che un
giorno mancò poco che
svenissi.
Non parlava inglese?
Solo qualche parola. E
il francese di Mistress
Talbot non era più
ricco del suo inglese.
In quanto al capitano
Talbot, era partito per
il suo lavoro poco dopo
l’arrivo del ferito.
Ci raccontò che
veniva da Bordeaux.
Che suo padre, un
ricco avvocato, si era
risposato defraudando
della loro eredità i
figli di primo letto.
Varguennes si era
allora dedicato al
commercio marittimo dei
vini.
Al momento del
naufragio, disse, era
primo ufficiale.
Ma tutto ciò che
diceva era falso.
Non so chi fosse in
realtà.
Sembrava un
gentiluomo.
Tutto qui.
Parlava come una
persona non abituata a
discorsi così lunghi,
con piccole pause
strane tra l’una e
l’altra di quelle
secche frasi di
sondaggio.
Charles non sapeva se
lo facesse per aver
modo di raccogliere le
idee o per permettergli
di interromperla.
Capisco mormorò.
Certe volte penso che
non avesse niente a che
fare col naufragio.
Era il diavolo
travestito da marinaio.
Si guardò le mani.
Era molto bello.
Nessun uomo mi aveva
mai corteggiato in quel
modo.
Dico quando era in
convalescenza.
Non aveva interesse
per la lettura.
Era peggio di un
bambino.
Aveva bisogno di
conversare, di gente
che gli stesse attorno,
di gente che lo
ascoltasse.
Mi faceva i
complimenti più
assurdi.
Diceva di non capire
perché non mi fossi
sposata.
Cose del genere.
E io stupidamente gli
credetti.Faceva degli
approcci, insomma.
Deve tener presente
che parlavamo sempre in
francese.
Forse è per questo
che ciò che ci dicevamo
non mi sembrava molto
reale.
Io non sono mai stata
in Francia.
La mia conoscenza del
francese parlato non è
buona.
Spesso non capivo
tutto quello che
diceva.
La colpa non è
soltanto sua.
Forse udivo cose che
lui non intendeva
dirmi.
Si burlava di me.
Ma non sembrava che
volesse farmi del male.
Esitò un momento.Io…
io ne provavo persino
piacere.
Mi chiamava crudele
quando non gli
permettevo di baciarmi
le mani.
Venne così il giorno
in cui mi ritenni
crudele anch’io.
E non lo fu più.
No.
Un corvo fluttuò
appena sopra le loro
teste, con le sue nere
penne lucenti, ondeggiò
esitando nella brezza e
sgusciò via
improvvisamente
allarmato.
Capisco.
Voleva essere
soltanto un
incoraggiamento a
continuare; ma Sarah lo
prese alla lettera.
Non può capire,
Mister Smithson.
Perché non è una
donna.
Perché non è una
donna nata per essere
la moglie di un
contadino ma educata
per essere qualcosa… di
meglio.
Molte volte hanno
chiesto la mia mano.
Quando ero a
Dorchester, un ricco
allevatore… ma questo
non c’entra.
Lei non è nato donna
con un rispetto
naturale, un amore, per
l’intelligenza, la
bellezza, la cultura…
Non so come
dirglielo, io non ho il
diritto di desiderare
queste cose, ma il mio
cuore le agogna, e non
posso credere che siano
soltanto vanità…
Rimase un momento in
silenzio.
E lei, Mister
Smithson, non è stato
neanche una governante,
una giovane donna senza
figli pagata per badare
ai bambini altrui.
Non può sapere che
quanto più sono cari
tanto più la pena è
intollerabile.
Non creda che si
tratti di semplice
invidia.
Amavo i piccoli Paul
e Virginia, e per
Mistress Talbot provo
soltanto gratitudine e
affetto…
Morire, per lei o per
i suoi bambini.
Ma vivere ogni giorno
in una casa felice,
essere la spettatrice
più costante di un
matrimonio riuscito, di
una famiglia unita, di
bambini adorabili.
Fece una pausa.
Mistress Talbot ha
esattamente la mia età.
Un’altra pausa.
Mi sentivo come se
fossi stata autorizzata
a vivere in paradiso,
ma con la proibizione
di goderlo.
Ma il senso di
privazione che lei
descrive non lo
proviamo forse tutti,
ciascuno in una maniera
diversa? Sarah scosse
il capo con
sorprendente energia.
E Charles si rese
conto di aver toccato
un suo sentimento
profondo.
Volevo solo dire che
il privilegio sociale
non porta
necessariamente la
felicità.
Non si possono fare
paragoni tra una
situazione in cui la
felicità è almeno
possibile e una in cui…
Scosse di nuovo il
capo.
Ma non vorrà
sostenermi che tutte le
governanti siano
infelici… o rimangono
nubili? Tutte quelle
come me.
Charles lasciò
trascorrere un momento
di silenzio, poi disse:
Ma io l’ho interrotta.
Mi perdoni.
E’ convinto che non
parlo per invidia? Si
era voltata verso di
lui, con uno sguardo
intenso, ed egli annuì.
Strappando dal
terreno un ciuffetto di
poligole, fiori azzurri
che paiono genitali di
microscopici cherubini,
Sarah riprese:
Varguennes guarì.
E nella settimana
precedente il giorno
fissato per la sua
partenza, espresse
l’affetto che provava
per me.
Le chiese di
sposarlo? Le riuscì
difficile rispondere.
Si parlò anche di
matrimonio.
Mi disse che appena
tornato in Francia lo
avrebbero promosso
comandante di una nave
per il trasporto dei
vini.
Che contava di
ricuperare il
patrimonio che lui e
suo fratello avevano
perso.
Esitò, poi si decise.
Voleva che andassi in
Francia con lui.
Mistress Talbot era
al corrente di questo?
E’ la più gentile delle
donne.
Ma anche la più
ingenua.
Se ci fosse stato il
capitano Talbot… ma non
c’era.
All’inizio mi
vergognavo di
parlargliene.
E alla fine avevo
paura.
Aggiunse: Paura del
consiglio che sapevo mi
avrebbe dato.
Cominciò a sfogliare
una poligala.
Varguennes insisteva.
Mi fece credere che
la sua felicità
dipendeva interamente
dal fatto che io
partissi con lui; non
solo, ma che da questo
dipendeva anche la mia.
Aveva scoperto molte
cose di me.
Sapeva che mio padre
era morto in manicomio.
Che non avevo né
mezzi né parenti
stretti.
Che per molti anni mi
ero sentita
misteriosamente
condannata - senza
sapere il perché - alla
solitudine.
Posò la poligala e
s’intrecciò le dita in
grembo.
La mia vita, Mister
Smithson, è stata
imbevuta di solitudine.
Come se fosse stato
deciso che non avrei
mai stretto amicizia
con una mia pari, né
abitato una casa mia,
né mai visto il mondo
se non come una
generalità rispetto
alla quale io dovevo
costituire
un’eccezione.
Quattro anni fa mio
padre fu dichiarato
fallito.
Tutti i nostri beni
vennero venduti.
E da allora ho
sofferto dell’illusione
che anche le cose -
sedie, tavoli, specchi
- congiurino per
aggravare la mia
solitudine.
Non riuscirai mai ad
essere la nostra
padrona, mi dicono, non
saremo mai tuoi.
Ma sempre di qualcun
altro.
Lo so che questa è
pazzia, so che nelle
città industriali
esistono miserie e
solitudini in confronto
alle quali io vivo nel
conforto e nel lusso.
Ma quando leggo delle
violente azioni di
vendetta dei
sindacalisti, una parte
di me li capisce.
E quasi li invidia
perché loro almeno
sanno dove e come
sfogare il loro
risentimento.
Io invece sono
impotente.
Nella sua voce si era
insinuato qualcosa di
nuovo, un’intensità di
sentimento che smentiva
in parte la sua ultima
frase.
Poi, in tono più
pacato, aggiunse: Temo
di non saper spiegarmi
bene.
Non credo di poter
giustificare i suoi
sentimenti.
Ma li capisco
perfettamente.
Varguennes partì per
prendere il postale di
Weymouth.
Mistress Talbot,
ovviamente, supponeva
che si sarebbe
imbarcato appena
arrivato là.
Ma lui mi disse che
avrebbe aspettato la
mia venuta.
Io non gli promisi
nulla.
Giurai anzi che… ma
stavo piangendo.
Infine disse che mi
avrebbe aspettata per
una settimana.
Replicai che non lo
avrei seguito.
Ma passò un giorno,
poi un altro, e non
c’era più lui per
discorrere, e il senso
di solitudine di cui
parlavo poco fa tornò a
dominarmi.
Mi sentivo annegare
e, quel che è peggio,
avevo lasciato andare
alla deriva la zattera
che avrebbe potuto
salvarmi.
Ero sopraffatta dalla
disperazione.
Una disperazione le
cui pene erano
doppiamente aggravate
da quelle che dovevo
prendermi per
nasconderla.
Il quinto giorno, non
resistetti più.
Mi sembra di capire
che tutte queste cose
vennero nascoste a
Mistress Talbot.
E ciò non destò i
suoi sospetti? Non mi
sembra che sia questo
il comportamento di un
uomo con intenzioni
oneste.
Mister Smithson, io
so bene che la mia
follia, la mia cecità
di fronte alla sua vera
personalità devono
apparire a chi ignori
la mia natura e la mia
situazione di allora
talmente incredibili da
poter essere soltanto
colpevoli.
Non posso
nasconderlo.
Forse l’ho sempre
saputo.
Certo una profonda
incrinatura della mia
anima voleva che il
meglio di me non
vedesse.
Inoltre eravamo
ricorsi ai sotterfugi
sin dall’inizio.
E una volta imboccata
questa china è
difficile risalirla.
Poteva essere un
monito per Charles, il
quale però era troppo
interessato a questa
storia per pensare a se
stesso Così andò a
Weymouth? Ingannai
Mistress Talbot
raccontandole che una
mia amica si era
gravemente ammalata.
Credeva che andassi a
Sherborne.
Entrambi i viaggi
richiedono che si
faccia tappa a
Dorchester.
Solo che, una volta
lì, io presi l’omnibus
per Weymouth.
Poi Sarah tacque e
chinò il capo, come se
non potesse decidersi a
continuare.
Lasci stare, Miss
Woodruff.
Posso indovinare…
Lei scosse il capo.
Sono arrivata
all’episodio che devo
raccontarle.
Ma non so come fare.
Anche Charles teneva
gli occhi bassi.
Su uno dei grandi
frassini più sotto
stava cantando
un’invisibile tordella;
una voce selvatica
nella pace azzurra
dell’aria.
Poi Sarah continuò:
Trovai una pensione
vicino al porto.
Poi andai alla
locanda dove mi aveva
detto che avrebbe
alloggiato.
Non c’era.
Ma mi aveva lasciato
un messaggio con il
nome di un’altra
locanda.
Ci andai.
Non era… un luogo
rispettabile.
Lo compresi dalla
maniera in cui
risposero alle mie
domande.
Mi dissero che era in
camera sua e si
aspettavano che
salissi.
Insistetti per
mandarlo a chiamare.
Lui scese.
Sembrava felice di
rivedermi, era tutto
quello che dovrebbe
essere un innamorato.
Chiese scusa per la
modestia del locale.
Disse che costava
meno dell’altro e che
era frequentato da
marinai e mercanti
francesi.
Io ero spaventata e
lui molto gentile.
Poiché non avevo
mangiato niente in
tutta la giornata, mi
fece preparare del
cibo….
Esitò, poi riprese:
Ma le sale comuni erano
troppo rumorose, e noi
ci rifugiammo in un
salottino.
Non saprei dirle
come, ma mi accorsi che
era cambiato.
Era sempre premuroso
e pieno di sorrisi e di
carezze, ma capii che
se non fossi venuta non
si sarebbe sorpreso né
rattristato.
Capii che per lui ero
stata soltanto uno
svago di convalescenza.
Il velo che avevo
davanti agli occhi si
abbassò.
Vidi che non era
sincero… che era un
bugiardo.
Vidi che sposarlo
sarebbe equivalso a
sposare uno spregevole
avventuriero.
E tutte queste cose
le vidi nei primi
cinque minuti.
S’interruppe come se
si fosse accorta che
nella sua voce si era
insinuata un’amarezza
recriminatoria; poi
continuò con voce più
bassa: Lei si chiederà
come mai non le avessi
notate prima.
Io credo di averle
notate.
Ma notare una cosa
non significa
riconoscerla.
Era un po’, credo,
come quella lucertola
che cambia colore a
seconda dell’ambiente
in cui si trova.
A casa di un
gentiluomo dava
l’impressione di essere
un gentiluomo.
Ma in quella locanda
lo vidi quale realmente
era.
E capii che qui
questo suo colore era
assai più naturale
dell’altro.
Rimase un momento a
guardare il mare.
Charles immaginò che
le sue guance fossero
soffuse di un rosa più
carico, ma la sua testa
era rivolta altrove.
So che in circostanze
simili una… una donna
rispettabile se ne
sarebbe andata
immediatamente.
Dopo quella sera ho
sondato mille volte la
mia anima.
E la sola cosa che vi
ho trovato è che non
esiste spiegazione
plausibile per il mio
comportamento.
Per prima cosa rimasi
praticamente
paralizzata dall’orrore
alla scoperta del mio
sbaglio…
eppure, tanto era
orribile la mia
situazione… cercavo
ancora di vedere in lui
meriti, rispettabilità,
onore.
Poi provai una specie
di rabbia per essere
stata ingannata.
Mi dissi che se in
passato non avessi
sofferto di una
solitudine così
intollerabile, non
sarei stata così cieca.
Davo quindi tutta la
colpa alle circostanze.
Non mi ero mai
trovata in una
situazione simile.
E neanche in una
siffatta locanda, dove
la decenza sembrava
ignota e il culto del
peccato normale quanto
lo è quello della virtù
in un luogo più nobile.
Non so spiegarmi.
Avevo la mente
confusa.
Forse credevo che
fosse mio dovere
apparire padrona del
mio destino.
Ero scappata per
raggiungere quest’uomo.
Un eccesso di pudore
mi sembrava assurdo…
quasi una vanità.
Fece una pausa.
Rimasi.
Consumai la cena che
ci era stata servita.
Bevvi il vino che lui
continuava a versarmi.
Ma non mi ubriacai.
Credo solo che mi
avesse fatto vedere le
cose con maggior
chiarezza… è possibile?
Si voltò in misura
impercettibile per
udire la sua risposta,
come se lui potesse
essere scomparso ed
essa volesse
accertarsi, pur non
potendo guardare, che
non fosse svanito
nell’aria.
Certo.
Mi sembrava che mi
desse vigore e
coraggio… oltre che
capacità di
comprendere.
Non era uno strumento
del diavolo.
Poi venne il momento
in cui Varguennes non
riuscì più a nascondere
la vera natura delle
sue intenzioni.
E io non potei
fingermi sorpresa.
La mia innocenza era
caduta dal momento in
cui avevo deciso di
rimanere.
Non sto cercando di
difendermi, Mister
Smithson.
So benissimo che,
anche quando la
cameriera si chiuse la
porta alle spalle dopo
aver sparecchiato la
tavola, avrei ancora
avuto la possibilità di
andarmene.
E ora potrei
raccontarle che mi
aveva sopraffatta, che
mi aveva narcotizzata,
qualunque cosa.
Ma non è vero.
Era un uomo senza
scrupoli, un uomo
incostante, un egoista
sfrenato.
Ma non avrebbe mai
violentato una donna
contro la sua volontà.
Poi, nel momento più
inaspettato, si voltò a
guardare in faccia
Charles.
Le sue guance erano
estremamente arrossate,
ma non tanto per
imbarazzo, gli parve,
quanto per una sorta di
ardore, di rabbia, di
provocazione; come se
fosse stata nuda
davanti a lui e insieme
fiera di esserlo.
Io mi diedi a lui.
Charles allora non
seppe resistere al suo
sguardo e abbassò gli
occhi con il più
impercettibile dei
cenni del capo.
Capisco.
Sono quindi una donna
doppiamente disonorata.
Per le circostanze e
per mia scelta.
Ci fu una pausa.
Sarah guardava di
nuovo il mare.
Charles mormorò: Non
le avevo chiesto di
raccontarmi queste
cose.
Mister Smithson,
vorrei tanto che lei
capisse non ciò che ho
fatto ma perché l’ho
fatto.
Perché ho sacrificato
il bene più prezioso di
una donna al piacere
fugace di un uomo che
non amavo.
Si portò le mani alle
guance.
L’ho fatto per non
poter più essere la
stessa.
L’ho fatto perché la
gente DOVESSE
additarmi, DOVESSE
dire, oh ecco che passa
la puttana del tenente
francese, sì, diciamola
questa parola.
Perché sapessero che
ho sofferto e soffro
come tanti altri in
ogni città e villaggio
di questo paese.
Non potendo sposare
quell’uomo, sposai la
vergogna.
Non intendo dire che
sapevo quel che facevo,
che permisi freddamente
a Varguennes di fare di
me ciò che voleva.
Mi sentivo come se mi
stessi gettando da un
precipizio o avessi
immerso un coltello nel
mio cuore.
Era una sorta di
suicidio.
Un atto di
disperazione, Mister
Smithson.
Lo so di aver agito
male… in modo blasfemo,
ma non sapevo come
uscire altrimenti dallo
stato in cui mi
trovavo.
Se avessi lasciato
quella stanza per
tornare da Mistress
Talbot e riprendere la
mia vita di un tempo,
so che a quest’ora
sarei davvero morta… e
di mia mano.
Ciò che mi ha tenuta
in vita è la mia
vergogna, il sapere che
in realtà non sono come
le altre.
Non avrò mai un
marito, dei figli,
quell’innocente
felicità che hanno
loro.
E loro non
conosceranno mai la
ragione del mio
crimine.
Fece una pausa, come
se lei stessa avesse
per la prima volta ben
chiaro ciò che stava
dicendo.
A volte ho quasi
pietà per loro.
Mi sembra di avere
una libertà che esse
non possono
comprendere.
Non c’è insulto né
rimprovero che possa
ancora toccarmi.
Perché mi sono messa
volontariamente oltre
la loro portata.
Non sono più nulla.
Non sono quasi più
umana.
Sono la puttana del
tenente francese.
Charles comprese solo
imperfettamente ciò che
lei stava cercando di
dirgli in quest’ultimo
lungo discorso.
Sino al momento della
strana decisione che
aveva preso a Weymouth,
il comportamento di
Sarah aveva suscitato
in lui una simpatia ben
maggiore di quella che
aveva manifestato;
poteva immaginare
benissimo le lente
tormentose sofferenze
della sua vita di
governante, la facilità
con la quale era potuta
cadere nelle grinfie di
un plausibile “vilain”
come Varguennes; ma
questo discorso su una
libertà fuori del
contesto sociale, su un
matrimonio con la
vergogna gli era
incomprensibile.
E tuttavia capiva in
parte perché Sarah si
fosse messa a piangere
alla fine della sua
spiegazione.
Le lacrime le
nascondeva, o almeno
cercava di nasconderle:
non affondava il viso
nelle mani, né cercava
di prendere il
fazzoletto, ma stava
soltanto immobile con
gli occhi rivolti
altrove.
E in un primo tempo
non balenò alla mente
di Charles la vera
ragione di questo
silenzio.
Poi però un qualche
istinto lo indusse ad
alzarsi e ad avanzare
silenziosamente di due
passi sull’erba in modo
da vedere il profilo di
quel viso.
Si accorse allora che
le guance erano umide e
si sentì
insopportabilmente
commosso, turbato,
assillato da un
guazzabuglio di forze
contrastanti e
trascinato
irrimediabilmente
lontano dal solido
ancoraggio di una
simpatia giudiziale e
giudiziosa.
Vedeva l’episodio di
cui Sarah non gli aveva
raccontato i
particolari: il momento
in cui si era data.
Ed era nello stesso
tempo Varguennes che se
la godeva e l’uomo che
sbucava all’improvviso
e lo abbatteva con un
pugno; e così Sarah era
ai suoi occhi la
vittima innocente e
insieme una donna
sfrenata e abbandonata.
Nel fondo del proprio
animo, le perdonava
questa impudicizia e
scorgeva le ombre
tenebrose entro le
quali egli stesso
avrebbe potuto trarne
godimento.
Oggi un passaggio
così brusco alla sfera
sessuale sarebbe
impossibile.
Basta che tra un uomo
e una donna si
stabilisca il più
casuale dei contatti, e
subito prendono in
considerazione la
possibilità di un
rapporto fisico.
Per noi questo franco
atteggiamento verso gli
impulsi autentici del
comportamento umano è
perfettamente sano, ma
all’epoca di Charles le
mentalità private non
ammettevano i desideri
messi al bando dalla
mentalità pubblica; e
quando veniva assalita
da queste tigri in
agguato la coscienza si
trovava ridicolmente
impreparata.
C’era poi nei
vittoriani un elemento
curiosamente egizio:
quella claustrofilia di
cui danno così chiara
testimonianza i loro
abiti avvolgenti e
mummificanti, la loro
architettura di
finestre strette e di
angusti corridoi, la
loro paura del nudo e
dello scoperto.
Nascondere la realtà,
escludere la natura.
Il movimento
artistico
rivoluzionario dei
tempi di Charles fu
ovviamente il
preraffaellismo; i suoi
esponenti si sforzavano
se non altro di
accogliere la natura e
la sessualità, ma basta
confrontare gli sfondi
pastorali di un Millais
o di un Ford Madox
Brown con quelli di un
Constable o di un
Palmer, per vedere come
era idealizzato e
scenografico il modo in
cui i primi si
accostavano alla realtà
esterna.
A Charles dunque la
chiarezza della
confessione di Sarah -
chiara in sé e per di
più presentata nella
chiara luce del sole -
sembrava rivelare non
tanto una realtà più
aspra quanto un barlume
di un mondo ideale.
La sua stranezza non
era nell’essere più
reale ma nell’esserlo
meno; un mondo mitico
nel quale la nuda
bellezza era assai più
importante della nuda
verità.
Charles restò in
piedi a guardarla per
qualche vertiginoso
momento, poi si voltò e
tornò sul suo sedile
con il cuore che gli
batteva come se si
fosse appena tirato
indietro dal ciglio del
contrafforte.
A sud, sul mare
lontano, sopra
l’orizzonte, era
delicatamente apparsa
un’armata di nubi
remote.
Crema, ambra, neve,
come le creste sontuose
di qualche catena
montana, torri e
bastioni che si
estendevano fin dove
l’occhio poteva
spingersi… e nello
stesso tempo così
remote, remote come
un’abbazia di Thélème,
come una terra di dolci
idilli senza peccato
nella quale Charles
avrebbe potuto
peregrinare con
Ernestina e con Sarah…
Non voglio dire che i
suoi pensieri fossero
così specifici, così
vergognosamente
maomettani.
Ma le nubi lontane
gli ricordavano la
propria
insoddisfazione; quanto
gli sarebbe piaciuto
veleggiare ancora una
volta sul Tirreno, o
cavalcare, le narici
piene di aridi aromi,
verso le mura lontane
di Avila, o accostarsi
a qualche tempio greco
nel sole fiammeggiante
dell’Egeo.
Ma anche qui una
figura, un’ombra scura,
la sua sorella morta,
camminava davanti a
lui, leggera,
invitante, su per i
gradini di concio e nel
mistero delle colonne
spezzate.

NOTE.
Nota 1.
Traduzione di Laura
Grimaldi e Vincenzo
Mantovani, Mondadori,
Milano 1967. [Nota del
Traduttore].
Nota 2.
In italiano nel
testo. [Nota del
Traduttore].

21.
“Forgive me! forgive
me Ah, Marguerite, fain
Would these arms reach
to clasp thee: But see!
‘tis in vain.
In the void air
towards thee My
strain’d arms are cast.
But a sea rolls
between us…
Our different past.”
Matthew Arnold,
“Parting” (1853).
“Perdonami!
perdonami! / Oh,
Marguerite, volentieri
/ Queste braccia si
protenderebbero per
afferrarti: - / Ma lo
vedi! è inutile. //
Nell’aria vuota è verso
di te / Che si gettano
le mie braccia tese. /
Ma un mare scorre tra
di noi… / La diversità
del nostro passato.
[Nota del
Traduttore].
Un minuto di
silenzio.
Sarah con un piccolo
movimento del capo
verso l’alto mostrò di
essersi ripresa.
Voltò lievemente la
testa.
Posso finire? C’è
ancora qualcosa da
aggiungere Non si
tormenti, la prego.
Lei s’inchinò come
per prometterglielo,
poi disse: Se ne andò
l’indomani.
C’era una nave che
salpava.
Aveva le sue
giustificazioni.
Difficoltà familiari
e la lunga assenza da
casa.
Assicurò che sarebbe
tornato subito.
Io sapevo che
mentiva.
Ma non dissi nulla.
Lei forse pensa che
avrei dovuto tornare da
Mistress Talbot e
fingere di essere stata
davvero a Sherborne.
Ma non potevo
nascondere i miei
sentimenti, Mister
Smithson.
Ero intontita dalla
disperazione.
Sarebbe bastato
guardarmi in faccia per
accorgersi che durante
la mia assenza era
avvenuto qualcosa di
decisivo.
E non potevo mentire
a Mistress Talbot.
Non volevo.
Le raccontò quel che
ha raccontato a me?
Sarah si guardò le
mani.
No.
Le dissi che avevo
rivisto Varguennes e
che un giorno sarebbe
tornato per sposarmi.
Non parlai così… per
orgoglio.
Mistress Talbot aveva
abbastanza cuore per
comprendere la verità -
per perdonarmi, voglio
dire - ma non potevo
dirle che era stata in
parte la sua felicità a
farmi agire in quel
modo.
Quando ha saputo che
era sposato? Un mese
dopo.
Si presentò come un
marito infelice.
Parlava ancora di
amore, di un
accomodamento…
Non fu una sorpresa.
Non provai dolore.
Gli risposi senza
rabbia.
Gli dissi che il mio
affetto per lui era
cessato.
Che non volevo più
vederlo.
E ha nascosto questa
storia a tutti tranne
che a me? Sarah attese
a lungo prima di
rispondere: Sì.
Per la ragione che le
ho detto.
Per punirsi? Per
essere quella che devo
essere.
Una proscritta.
Charles ricordò
allora la giudiziosa
reazione del dottor
Grogan quando gli aveva
espresso la sua
preoccupazione per
Sarah.
Ma, mia cara Miss
Woodruff, se ogni donna
che sia stata ingannata
da qualche uomo privo
di scrupoli dovesse
comportarsi come lei…
il paese, temo, sarebbe
pieno di proscritti.
Lo è.
Ma no, è assurdo.
Proscritti che hanno
paura di apparire tali.
La guardò e si
ricordò un’altra frase
del dottor Grogan, sui
pazienti che non
vogliono prendere la
medicina. Decise però
di fare un altro
tentativo.
Si sporse in avanti
con le mani giunte.
Comprendo benissimo
come certe circostanze
possano sembrare
dolorose a una persona
istruita e
intelligente.
Ma queste stesse
qualità non dovrebbero
permettere di
trionfare…? A questo
punto Sarah si alzò
bruscamente e si avviò
verso il bordo del
contrafforte.
Charles si affrettò a
seguirla e si fermò
accanto a lei, pronto
ad afferrarle un
braccio, avendo capito
che i suoi poco
ispirati consigli
avevano sortito un
effetto esattamente
contrario alle sue
intenzioni.
Sarah fissava il mare
e i suoi lineamenti
suggerivano che lei
capisse di aver
commesso uno sbaglio e
che lui era un uomo
banale, un qualunque
declamatore di frasi
convenzionali.
C’era qualcosa di
virile nel suo aspetto.
Charles si sentiva
come una vecchia
signora, ed era una
sensazione che non gli
piaceva.
Mi perdoni.
Forse le chiedo
troppo.
Ma le mie intenzioni
erano buone.
Sarah abbassò il
capo, ringraziandolo
per queste implicite
parole di scusa, ma
riprese subito a
guardare il mare.
Adesso erano più
esposti, e chiunque si
fosse trovato lì sotto
tra gli alberi avrebbe
potuto vederli.
La prego, stia un po’
più indietro.
E’ pericoloso qui.
Allora si voltò a
guardarlo.
E nei suoi occhi
c’era di nuovo una
chiara e sconcertante
intuizione dei motivi
che determinavano
l’atteggiamento di
Charles.
A volte possiamo
riconoscere in un viso
moderno un’espressione
di un secolo fa, mai
quella di un secolo a
venire.
Un attimo dopo essa
gli passò davanti per
tornare al biancospino.
Charles rimase al
centro di quella
piccola arena.
Ciò che mi ha
raccontato conferma la
mia precedente
opinione.
Lei deve allontanarsi
da Lyme.
Se mi allontanassi da
qui, mi allontanerei
dalla mia vergogna.
E sarei perduta.
Alzò una mano e toccò
un ramo del
biancospino.
Senza esserne del
tutto certo, Charles
ebbe l’impressione che
vi premesse volutamente
l’indice; un attimo
dopo Sarah stava
fissando una rossa
goccia di sangue.
La fissò un momento,
poi trasse di tasca un
fazzoletto e la tamponò
furtivamente.
Charles lasciò
trascorrere qualche
istante, poi passò
all’attacco.
Perché l’estate
scorsa ha rifiutato
l’aiuto del dottor
Grogan? Gli occhi di
lei si voltarono a
fulminarlo accusatori,
ma Charles si aspettava
questa reazione.
Sì…
Ho chiesto la sua
opinione.
Non può negare che ne
avevo il diritto.
Di nuovo Sarah volse
lo sguardo altrove.
Sì.
Ne aveva il diritto.
Allora deve
rispondermi.
Perché non mi garbava
chiedergli aiuto.
Non ho nulla contro
di lui.
E so che avrebbe
voluto aiutarmi.
Non le ha forse dato
lo stesso mio
consiglio? Sì.
Allora devo
rispettosamente
ricordarle ciò che mi
aveva promesso.
Sarah non rispose.
Ma anche questa era
una risposta.
Charles mosse qualche
passo verso il luogo
dove si era fermata a
guardare i rami del
biancospino.
Miss Woodruff? Adesso
che conosce la verità…
può ancora darmi quel
consiglio? Ma certo.
Allora perdona il mio
peccato? Charles si
sentì preso alla
sprovvista.
Lei attribuisce un
valore eccessivo al mio
perdono.
L’essenziale è che
lei perdoni il suo
peccato.
E qui non potrà mai
farlo.
Lei non ha risposto
alla mia domanda,
Mister Smithson.
Il cielo mi guardi
dal pronunciarmi su una
questione che solo il
nostro Creatore può
dirimere.
Ma sono convinto, lo
siamo tutti, che lei
abbia fatto sufficiente
penitenza.
Lei è perdonata.
E mi si può
dimenticare.
Il tono secco e
definitivo con cui
aveva pronunciato;
queste parole lo
sconcertò per un
attimo.
Ma subito sorrise: Se
vuol dire che i suoi
amici di qui non
intendono aiutarla….
Non volevo dir
questo.
So che le loro
intenzioni sono buone.
Ma io, Mister
Smithson, sono come
questo biancospino.
Nessuno gli vieta di
crescete qui, in questa
solitudine.
E’ quando passeggia
per Broad Street che la
società si sente
offesa.
Charles reagì con un
piccolo sbuffo di
protesta.
Ma, cara Miss
Woodruff, non vorrà
dirmi che sia suo
dovere offendere la
società? Poi aggiunse:
Se è questo che devo
dedurre dalle sue
parole.
Non è forse la
società che vorrebbe
trasferirmi a un’altra
solitudine? Ciò che lei
mette in dubbio è la
giustizia
dell’esistenza.
E’ proibito? Non
proibito.
Infruttuoso.
Lei scosse il capo.
I frutti ci sono.
Sia pure amari.
Non lo disse per
contraddirlo, ma con
tristezza profonda,
quasi tra sé.
Charles si sentì
travolgere, come da un
riflusso dell’ondata di
quella confessione, da
una sensazione di
spreco.
Intuiva che alla
franchezza di quello
sguardo corrispondeva
una franchezza di
pensiero e di
linguaggio; che ciò che
a volte gli era parso
una presunzione di
eguaglianza
intellettuale (e quindi
un risentimento
sospetto contro il
maschio) era in realtà
più che eguaglianza una
prossimità, una
prossimità simile a
nudità, un’intimità di
pensieri e di
sentimenti sinora per
lui inimmaginabile nel
contesto di un rapporto
con una donna.
E queste cose non le
pensava soggettivamente
ma obiettivamente:
davanti a lui, se
soltanto un uomo libero
avesse avuto l’acume di
rendersene conto, c’era
una donna singolare.
Il suo non era un
sentimento di invidia,
ma di smarrimento
umano.
All’improvviso
allungò una mano e le
toccò una spalla in un
gesto di conforto; e
altrettanto
improvvisamente volse
gli occhi altrove.
Ci fu una pausa.
Come se si fosse
accorta della sua
frustrazione, Sarah
disse: Crede dunque che
dovrei andarmene?.
Immediatamente egli
si sentì liberato e si
voltò premuroso verso
di lei.
La prego di farlo.
Un nuovo ambiente,
facce nuove… e non si
preoccupi per le
considerazioni di
carattere pratico.
Aspettiamo soltanto
la sua decisione per
poterci interessare a
suo favore.
Posso avere un giorno
o due per riflettere?
Se lo ritiene
necessario.
Approfittò
dell’occasione e si
aggrappò a quella
normalità che Sarah
rendeva così sfuggente.
Le propongo di porre
l’intera questione
sotto gli auspici di
Mistress Tranter.
Se lei permette, farò
in modo di fornire alla
signora ciò che sarà
necessario per
provvedere a tutte le
sue necessità.
Sarah teneva il capo
abbassato e sembrava
stesse di nuovo per
piangere.
Poi mormorò: Io non
merito tanta
gentilezza.
Io….
Non dica più nulla.
Non so immaginare un
investimento migliore.
Charles si sentiva
invadere da una
squisita sensazione di
trionfo.
La profezia del
dottor Grogan si era
avverata.
La confessione aveva
portato alla cura, o
almeno a un suo
inconfondibile
preannuncio.
Si voltò per
riprendere il bastone
che aveva appoggiato al
blocco di selce.
Dovrò dunque venire
da Mistress Tranter?
Perfettamente.
E, s’intende, non ci
sarà alcun bisogno di
parlare dei nostri
incontri.
Non dirò nulla.
Charles immaginava
già la scena: la sua
sorpresa, cortese ma
non troppo interessata,
seguita da una
disinteressata
insistenza per
assumersi la
responsabilità di tutto
l’aiuto pecuniario
desiderabile.
Forse Ernestina lo
avrebbe un po’ preso in
giro, ma ciò sarebbe
servito a placare la
sua coscienza.
Lei mi ha confidato
il suo segreto.
E penso che un giorno
si accorgerà che è
stato un alleggerimento
anche sotto molti altri
aspetti.
Lei ha qualità
notevolissime.
Non ha nulla da
temere dalla vita.
Verrà il giorno in
cui questi anni
infelici le appariranno
non più importanti di
quella macchia di nubi
che ora vede laggiù su
Chesil Bank.
Se ne starà al sole e
sorriderà delle sue
pene passate.
Pensò di avere scorto
negli occhi di lei una
sorta di luce di là dal
dubbio; in quell’attimo
era come una bambina,
riluttante ma anche
disposta a rinunciare
alle lacrime a forza di
lusinghe, o di
prediche.
Il suo sorriso si
allargò.
E in tono leggero
aggiunse: E ora non
faremmo meglio a
scendere?.
Sembrava che Sarah
volesse dire qualcosa,
con ogni probabilità
riaffermare la propria
gratitudine, ma
l’atteggiamento
sbrigativo di Charles
la indusse, dopo
un’ultima occhiata, a
mettersi in cammino.
Fece la strada in
discesa con lo stesso
passo armonioso con cui
l’aveva fatta in
salita.
Guardandole la
schiena, egli sentiva
fitte di rammarico.
Non vederla mai più…
Rammarico e sollievo.
Una donna singolare.
Non l’avrebbe mai
dimenticata e gli
sembrava in qualche
modo consolante sapere
che non gli sarebbe
stato permesso.
Zia Tranter era
destinata ad essere la
sua informatrice.
Arrivarono alla base
del contrafforte
inferiore, passarono
per il primo tunnel di
edera, attraversarono
la radura e infilarono
il secondo corridoio…
quando! Dal basso,
esattamente dal
principale viottolo
dell’Undercliff, giunse
il suono di uno
scroscio soffocato di
risa.
Fece uno strano
effetto: come se una
ninfa dei boschi - la
risata era
inconfondibilmente
femminile - avesse
assistito al loro
incontro clandestino e
non potesse più
reprimere la propria
gaiezza davanti a
queste persone così
assurdamente convinte
di non essere viste.
Charles e Sarah si
fermarono.
Il crescente sollievo
di lui si trasformò
immediatamente in una
conturbata agitazione.
Ma il paravento di
edera era folto, la
risata era venuta da
una distanza di due o
trecento metri; non era
possibile che li
avessero visti.
Se non, forse, mentre
scendevano il pendio…
Una pausa, poi Sarah
si portò rapidamente un
dito alle labbra, gli
fece segno di non
muoversi e si spostò
furtivamente verso il
fondo del tunnel.
Charles la vide
allungare il collo e
guardare con cautela
verso il viottolo.
Poi il suo viso si
voltò di scatto verso
di lui.
Lo chiamò con un
cenno: egli doveva
avvicinarsi ma nel più
completo silenzio, e
intanto si sentiva di
nuovo quella risata.
Più pacata stavolta,
ma anche più vicina.
Chiunque fosse,
adesso si era
allontanata dal
viottolo e stava
arrampicandosi tra i
frassini verso il punto
dove loro si trovavano.
Charles camminò
guardingo verso Sarah,
verificando ogni zolla
sulla quale doveva
posare i suoi scarponi
deplorevolmente non
furtivi.
Si sentiva avvampare,
era in un orribile
imbarazzo.
Nessuna spiegazione
avrebbe potuto reggere
neanche per un momento.
Se lo avessero visto
con Sarah, sarebbe
stato comunque “in
flagrante delicto”.
Arrivò dove lei lo
aspettava e dove
fortunatamente l’edera
era particolarmente
folta.
Aveva smesso di
spiare gli intrusi e se
ne stava con la schiena
appoggiata a un tronco
e gli occhi abbassati
come in una muta
ammissione di colpa per
averlo condotto in
questa situazione.
Charles guardò
attraverso le foglie e
giù dal pendio di quel
boschetto di frassini.
E gli si gelò il
sangue nelle vene.
Stavano salendo verso
di loro, come se
cercassero lo stesso
rifugio, Sam e Mary.
Sam cingeva con un
braccio le spalle della
ragazza.
Lui aveva il cappello
e lei la cuffia, più il
vestito da passeggio
verde regalatole da
Ernestina - l’ultima
volta Charles lo aveva
visto proprio addosso a
Ernestina - e teneva la
testa lievemente
appoggiata alle guance
del suo accompagnatore.
Erano giovani amanti
come i frassini erano
vecchi alberi;
naturalmente erotici
come l’erba d’aprile
che stavano
calpestando.
Charles arretrò un
poco ma senza perderli
d’occhio.
Vide così Sam che
attirava a sé il viso
della ragazza e la
baciava.
Le braccia di Mary
salirono e i due
s’abbracciarono; poi si
staccarono timidamente
sempre tenendosi per
mano.
Sam guidò la ragazza
verso un piccolo
appezzamento d’erba tra
gli alberi.
Mary si sedette e si
lasciò cadere indietro
e Sam le si appoggiò
accanto guardandola
dall’alto.
Poi le scostò i
capelli dalle guance e
si chinò a baciarla
teneramente sugli
occhi.
Charles si sentì
trafitto da un nuovo
imbarazzo e guardò per
un attimo Sarah per
vedere se sapeva chi
erano gli intrusi.
Lei però non faceva
che contemplare una
lingua cervina ai suoi
piedi, come se si
trovassero lì soltanto
per ripararsi da un
acquazzone.
Trascorsero due
minuti, poi tre.
L’imbarazzo lasciò il
posto a un certo
sollievo: ai due servi
evidentemente
interessava assai più
esplorarsi l’un l’altro
che esplorare
l’ambiente.
Lanciò un’altra
occhiata a Sarah.
Adesso anche lei
stava guardando oltre
il tronco.
Si voltò con gli
occhi abbassati.
Poi, senza
avvertirlo, li levò
verso di lui.
Un attimo.
Fece allora una cosa
strana e sconveniente
come se si fosse tolta
tutti i vestiti.
Sorrise.
Fu un sorriso
talmente complesso che
in un primo momento
Charles poté soltanto
fissarlo incredulo.
Era curiosamente
capitato al momento
giusto.
Sentì che Sarah aveva
in un certo senso
atteso proprio
quell’attimo per
sguinzagliarglielo
contro: rivelazione di
uno stato d’animo,
confessione di una
tristezza non totale.
E quei grandi occhi,
così cupi, tristi e
fermi, esprimevano
un’ironia, una
dimensione nuova
verosimilmente
familiare in passato ai
piccoli Paul e
Virginia, ma sinora mai
palesata a Lyme.
Dove sono finite le
tue pretensioni,
sembravano dire quegli
occhi e quelle labbra
delicatamente ricurve;
dove sono la tua
nascita, la tua
scienza, le tue buone
maniere, il tuo ordine
sociale? Per di più a
quel sorriso non si
poteva rispondere
irrigidendosi o
accigliandosi, ma solo
con un altro sorriso,
perché giustificava Sam
e Mary, giustificava
tutto; e in un certo
senso, troppo sottile
perché si potesse
analizzarlo, infirmava
tutto ciò che era
avvenuto tra lei e
Charles sino a quel
momento.
Pretendeva di
comprendere e di
riconoscere
quell’imbarazzante
passaggio
dall’eguaglianza alla
prossimità assai più
profondamente di quanto
fosse stato
riconosciuto a livello
di coscienza.
Non fu cosciente
neanche il sorriso di
risposta di Charles.
Fu una sorpresa anche
per lui: sorrideva
soltanto con gli occhi,
ma stava sorridendo.
Ed era eccitato, in
una maniera troppo
oscura e generica
perché si possa
definirla sessuale,
sino alle radici stesse
della sua persona; come
un uomo che,
costeggiando un’alta e
lunga muraglia, arriva
finalmente alla porta
tanto sospirata… e la
trova chiusa.
Restarono così a
lungo, la donna che era
la porta e l’uomo senza
la chiave.
Poi lei abbassò di
nuovo gli occhi.
Il sorriso si spense.
Si stabilì tra loro
un lungo silenzio.
Charles vedeva la
verità: aveva già un
piede sopra il
precipizio.
Per un attimo penso
di poter tuffarsi, di
doverlo fare.
Sapeva che se avesse
allungato le braccia
non avrebbe incontrato
resistenza ma solo una
reciprocità
appassionata di
sentimenti.
Il rossore delle sue
guance si infittì ed
egli finì per
sussurrare: Non
dobbiamo più vederci da
soli.
Senza alzare la
testa, Sarah fece il
più impercettibile dei
cenni di consenso; poi,
con un movimento quasi
imbronciato, distolse
il viso in modo che lui
non potesse vederlo.
Charles guardò ancora
tra le foglie.
La testa e le spalle
di Sam erano curve
sull’invisibile Mary.
Trascorsero lunghi
momenti, ma Charles
rimase a guardare, con
la mente che ancora
turbinava giù per quel
precipizio, rendendosi
appena conto che stava
spiando e tuttavia
sempre più infettato,
di secondo in secondo,
da quello stesso veleno
che stava cercando di
allontanare.
Fu Mary a salvarlo.
All’improvviso scostò
Sam con una spinta e
ridendo corse giù per
il pendio per tornare
sul viottolo; in un
attimo di sosta gettò
una rapida maliziosa
occhiata a Sam, prima
di sollevarsi le gonne
e di scivolare giù, una
linea sottile di
sottoveste rossa sotto
il verde veronese,
attraverso le violette
e le mercorelle.
Sam le corse
appresso.
Le loro figure si
rimpicciolirono tra gli
steli grigi; si
tuffarono, sparirono;
un lampo di verde, un
lampo di blu; una
risata conclusa in un
gridolino; poi il
silenzio.
Trascorsero cinque
minuti, durante i quali
i membri della coppia
nascosta non si
scambiarono neanche una
parola.
Charles rimase a
fissare con attenzione
la base della collina,
come se fosse
importante prolungare
quell’attenta
sorveglianza.
In realtà,
ovviamente, voleva
soltanto evitare di
guardare Sarah.
Poi finalmente ruppe
il silenzio.
E’ meglio che lei
vada.
Sarah chinò il capo.
Io aspetterò ancora
mezz’ora.
Lei chinò di nuovo il
capo e gli passò
davanti per
allontanarsi.
I loro occhi non
s’incontrarono.
Solo quando era ormai
lontana tra i frassini,
si voltò a guardarlo
ancora per un momento.
Non poteva vedere il
suo viso ma doveva
essersi accorta che lui
la stava fissando.
Aveva di nuovo quella
lancinante espressione.
Poi riprese a
scendere a passo
leggero tra gli alberi.

22.
“I too have felt the
load I bore In a too
strong emotion’s sway;
I too have wished, no
woman more, This
starting, feverish
heart, away.
I too have longed for
trenchant force And
will like a dividing
spear; Have praised the
keen, unscrupulous
course, Which knows no
doubt, which feels no
fear.
But in the world I
learnt, what there Thou
too will surely one day
prove, That will, that
energy, though rare,
Are yet far, far less
rare than love.”
Matthew Arnold, “A
Farewell” (1853).
“Ho sentito anch’io
il fardello che portavo
/ Sotto l’influsso di
un’emozione troppo
forte / Anch’io ho
desiderato, non più
donna, / Che questo
cuore fremente,
febbrile, mi venisse
portato via. // Anch’io
ho sognato una forza
risolutrice / E avrò
simpatia per una lancia
che divida, / E ho
esaltato il
comportamento sottile,
privo di scrupoli, /
Che non conosce dubbi,
che non sente paura. //
Ma nel mondo ho
imparato, come / Anche
tu un giorno certamente
scoprirai, / Che la
volontà e l’energia,
sebbene rare, / Sono
tuttavia molto, molto
meno rare dell’amore”.
[Nota del Traduttore].

I pensieri di
Charles, quando
finalmente si rimise in
cammino per Lyme, erano
tutte variazioni su un
tema eternamente
popolare tra i maschi:
“Stai scherzando col
fuoco, ragazzo mio”.
Ma il tema era
esattamente questo,
voglio dire che il
tenore dei suoi
pensieri corrispondeva
al tenore verbale della
frase.
Si era comportato
come un folle, mi non
era stato punito per la
sua follia.
Aveva corso un
rischio assurdo ed era
rimasto incolume.
Perciò adesso, mentre
molto più in basso si
cominciava a scorgere
il grande artiglio di
pietra del Cobb, si
sentiva euforico.
Come avrebbe potuto,
del resto, farsi dei
rimproveri troppo
severi? Sin dall’inizio
i suoi motivi erano
stati tra i più puri;
l’aveva curata della
sua follia; e se per un
attimo qualcosa
d’impuro aveva
minacciato di
infiltrarsi tra le sue
difese, era stato
soltanto salsa alla
menta per un sano
agnello.
Avrebbe meritato
rimproveri,
naturalmente, se non si
fosse subito
allontanato
definitivamente dal
fuoco.
Ma a questo sarebbe
stato molto attento.
In fondo non era una
falena attratta da una
candela; era un essere
estremamente
intelligente, uno dei
più adatti, ed era
provvisto del più
completo libero
arbitrio.
Se non fosse stato
sicuro di quest’ultima
protezione, si sarebbe
mai avventurato in
acque così pericolose?
Sto mescolando le
metafore, ma era così
che lavorava il
cervello di Charles.
Appoggiandosi dunque
al suo libero arbitrio
come al suo bastone,
egli scese la collina
diretto verso la città.
D’ora in avanti, col
suo libero arbitrio,
avrebbe rigorosamente
represso tutti i
sentimenti fisici di
simpatia per quella
ragazza.
Col suo libero
arbitrio, avrebbe
incrollabilmente
respinto qualsiasi
richiesta di un nuovo
incontro.
Col suo libero
arbitrio, avrebbe
affidato completamente
a zia Tranter
l’amministrazione di
tutto il suo interesse.
E dallo stesso libero
arbitrio era quindi
autorizzato, costretto
anzi, a tener celata a
Ernestina tutta questa
storia.
Quando arrivò in
vista del White Lion, a
forza di libero
arbitrio, era arrivato
a un convincente stato
di euforia… nell’ambito
del quale poteva
considerare Sarah un
oggetto del proprio
passato.
Una donna singolare,
una donna singolare.
E sconcertante.
Decise che era
proprio questo - era
stato anzi - il suo
fascino:
l’imprevedibilità.
Non si rese conto che
aveva due qualità,
tipicamente inglesi
quanto la sua miscela
di ironia e di
convenzionalità.
Alludo alla passione
e alla immaginazione.
La prima forse
Charles cominciava
confusamente a
scorgerla, la seconda
no.
Non ne aveva la
possibilità perché
queste due qualità di
Sarah l’epoca le aveva
messe al bando,
identificando la prima
con la sensualità, la
seconda con la semplice
fantasia.
Rimandare il problema
con questa doppia
identificazione era il
massimo errore di
Charles, il quale resta
in tal senso un
autentico
rappresentante del suo
tempo.
C’era ancora da
affrontare l’inganno in
carne e ossa, vale a
dire Ernestina.
Ma quando arrivò in
albergo, Charles scoprì
che la famiglia era
accorsa in suo aiuto.
C’era un telegramma
che lo aspettava.
Dello zio di
Winsyatt.
Si richiedeva con
urgenza la sua presenza
“per ragioni di estrema
importanza”.
Sono spiacente di
dire che Charles appena
lo lesse sorrise e
arrivò quasi a baciare
la busta arancione.
Lo liberava almeno
per il momento da nuove
situazioni imbarazzanti
e dalla necessità di
nuove bugie
d’omissione.
Giungeva
meravigliosamente
opportuno.
Chiese informazioni…
c’era un treno che
partiva da Exeter,
allora la stazione più
vicina a Lyme, il
mattino dopo di
buon’ora, il che gli
forniva un ottimo
pretesto per andarsene
immediatamente e
trascorrere lì la
notte.
Ordinò che gli
procurassero il più
veloce calesse di Lyme.
Lo avrebbe guidato di
persona.
Aveva avuto la
tentazione di dare alla
cosa un tal carattere
d’urgenza che sarebbe
bastato lasciare un
biglietto a casa di zia
Tranter.
Ma era una scappatoia
troppo meschina.
Perciò, con il
telegramma in mano, si
avviò verso la collina.
La buona signora era
molto preoccupata,
perché per lei un
telegramma significava
soltanto cattive
notizie.
Ernestina, meno
superstiziosa, era
chiaramente seccata.
Pensava che “facesse
male” zio Robert a
comportarsi in quella
maniera da gran visir.
Era convinta che non
fosse niente di grave:
un’ubbia, un capriccio
del vecchio, o peggio
l’invidia per i due
giovani innamorati.
Naturalmente era già
stata a Winsyatt
accompagnata dai
genitori, e non aveva
provato la minima
simpatia per Sir
Robert.
Forse perché si era
sentita esaminata; o
perché lo zio aveva
alle spalle sufficienti
generazioni di
“squires” per
comportarsi, secondo le
norme della borghesia
londinese, in modo
veramente villano, o
piacevolmente
eccentrico, come
avrebbe potuto dire un
critico più gentile;
forse perché la casa le
era sembrata un vecchio
granaio, così
spaventosamente
antiquata nei mobili,
nella tappezzeria e nei
quadri; o perché lo zio
vezzeggiava tanto
Charles e Charles in
cambio si comportava
così sfacciatamente da
nipote che Ernestina
cominciò a sentirsi
decisamente gelosa; ma
soprattutto perché si
era spaventata.
Per fare la sua
conoscenza erano state
convocate le dame dei
dintorni.
E lei, pur sapendo
benissimo che suo padre
poteva comprarsi al
minuto e all’ingrosso
tutti i loro padri e
mariti, si era sentita
disprezzata (in realtà
era soltanto invidiata)
e umiliata in tante
piccole cose.
Inoltre non le
garbava molto la
prospettiva di
stabilirsi a Winsyatt,
anche se ciò le
permetteva di sognare
una maniera di spendere
esattamente secondo i
suoi desideri una parte
della sua cospicua
dote: in una radicale
sostituzione di tutte
quelle assurde sedie di
legno a volute (Stuart
e di un valore quasi
inestimabile), di
quelle tetre credenze
(Tudor), di quegli
arazzi tarlati
(Gobelin) e di quei
quadri noiosi (tra i
quali due Claude e un
Tintoretto) che non
incontravano la sua
approvazione.
Non aveva tuttavia
osato confessare a
Charles la sua
antipatia per lo zio, e
in quanto al resto si
era limitata ad
accennarvi in tono più
umoristico che
sarcastico.
Non credo che si
debba rimproverarla.
Come tante figlie di
genitori ricchi, prima
e dopo di lei, non
aveva alcun talento a
parte un buon gusto
convenzionale… sapeva
cioè spendere una gran
quantità di denaro
nelle botteghe dei
sarti, delle modiste e
dei mobilieri.
Era questo il suo
territorio, e poiché
era il solo in cui si
sentiva veramente a suo
agio, non le garbava
vederlo invaso.
Il frettoloso Charles
dovette affrontare la
sua tacita
disapprovazione e il
suo broncio grazioso, e
le garantì che sarebbe
tornato alla stessa
velocità con la quale
partiva.
In realtà aveva
un’idea abbastanza
precisa del motivo per
cui lo zio reclamava
così bruscamente la sua
presenza; il discorso
era già stato
indirettamente avviato
quando lui era andato a
trovarlo con Tina e i
suoi genitori…
molto indirettamente
perché lo zio era un
uomo timido. Era la
possibilità che Charles
e la sua sposa
andassero a stabilirsi
a Winsyatt con lui:
avrebbero potuto
“sistemarsi” nell‘“ala”
est.
Charles sapeva che lo
zio non intendeva
soltanto invitarli a
soggiornare lì ogni
tanto, ma voleva che
lui vi si insediasse e
cominciasse a imparare
come si dirige una
grande proprietà
terriera.
Ora questo non gli
garbava più di quanto,
se n’era reso conto
benissimo, sarebbe
garbato a Ernestina.
Sapeva che sarebbe
stato un mediocre
accomodamento, che suo
zio avrebbe alternato
momenti di lusinghe a
momenti di
disapprovazione… e che
Ernestina doveva essere
preparata a Winsyatt da
un matrimonio avviato
con meno intralci.
Ma lo zio gli aveva
accennato a
quattr’occhi anche un
altro progetto,
dicendogli che Winsyatt
era troppo vasto per un
vecchio solitario e che
forse sarebbe stato più
facile in un luogo più
piccolo.
Non mancavano nei
dintorni le dimore
adatte… alcune anzi
figuravano addirittura
nel catasto di
Winsyatt.
Ce n’era per esempio
una, un vecchio maniero
elisabettiano, nel
villaggio, quasi
visibile dalla grande
casa.
Ora Charles
sospettava che il
vecchio, pentito del
proprio egoismo, lo
avesse convocato a
Winsyatt per offrirgli
il maniero o la grande
casa.
Sarebbero andati bene
entrambi.
Non gli importava
molto quale avrebbe
scelto, a patto di non
dover vivere con lui.
Era convinto di poter
ormai indurre il
vecchio scapolo a
cedere una qualunque
delle due case e che
egli fosse come un
cavaliere nervoso che,
arrivato davanti a un
ostacolo, ha bisogno di
farsi convincere a
saltarlo.
Di conseguenza in
Broad Street, al
termine di un breve
colloquio a tre, chiese
di parlare da solo con
Ernestina e, appena zia
Tranter si ritirò, le
espose i propri
sospetti.
Ma perché non ne
avrebbe parlato prima?
Temo che zio Bob sia
fatto così, carissima.
Ma cosa devo dirgli
secondo te? Tu quale
preferiresti? Quella
che scegli tu.
Nessuna, se vuoi.
Però si offenderebbe…
Ernestina imprecò
educatamente contro gli
zii ricchi.
Ma le attraversò la
mente un’immagine di se
stessa come Lady
Smithson in una
Winsyatt adattata ai
suoi gusti; forse
perché si trovava nel
salotto, non
precisamente spazioso,
di zia Tranter. Un
titolo in fondo ha
bisogno di un ambiente.
E se quell’orribile
vecchio non doveva
alloggiare sotto lo
stesso tetto… e poi era
vecchio.
E il caro Charles.
E i genitori, ai
quali doveva…
Questa casa nel
villaggio, non è quella
cui siamo passati
davanti in carrozza?
Sì, te la ricordi,
quella con tutti quei
vecchi e pittoreschi
frontoni…
Pittoreschi visti da
fuori.
Naturalmente dovrà
essere rimessa a posto.
Come la chiamavate?
Al villaggio la
chiamano la Casa
Piccola.
Ma solo rispetto
all’altra.
Io non ci ho più
messo piede da anni, ma
sospetto che sia
parecchio più grande di
quanto non paia.
Le conosco queste
vecchie case.
Dozzine di miserabili
stanzette.
Gli elisabettiani
dovevano essere tutti
nani.
Charles sorrise (ma
avrebbe potuto fare
qualcosa di più per
correggere le sue
strane idee
sull’architettura
Tudor) e le cinse le
spalle con un braccio.
Allora Winsyatt?
Ernestina lo guardò con
franchezza sotto le
piccole sopracciglia
arcuate.
La vorresti? Sai bene
che cos’è per me.
Potrei fare a modo
mio per il nuovo
arredamento? Per quel
che m’importa potresti
anche raderla al suolo
e erigere al suo posto
un secondo Palazzo di
Cristallo.
Charles! Sii serio!
Si divincolò.
Ma subito dopo egli
ricevette il bacio del
perdono e si congedò a
cuor leggero.
Ernestina andò di
sopra e tirò fuori il
suo copioso arsenale di
cataloghi.

23.
“Portion of this yew
Is a man my grandsire
knew…” Hardy,
“Transformations”.
“Una parte di questo
tasso / E’ un uomo che
mio nonno conobbe…”
[Nota del Traduttore].
Il calesse, con il
mantice abbassato
perché Charles potesse
godersi il sole di
primavera, superò la
portineria.
Il giovane Hawkins
era in piedi davanti al
cancello aperto, la
vecchia Mistress
Hawkins sorrideva
timidamente sulla porta
del cottage.
E Charles gridò al
vicecocchiere che era
venuto a prenderlo a
Chippenham e ora
guidava con Sam seduto
accanto a cassetta, di
fermarsi un momento.
Tra lui e la vecchia
esisteva un rapporto
particolare.
Orfano di madre da
quando aveva un anno,
Charles da ragazzino
aveva dovuto adattarsi
a una serie di
sostitute; e nei suoi
soggiorni a Winsyatt si
era attaccato a questa
Mistress Hawkins,
allora ufficialmente
capolavandaia, ma in
virtù della sua carica
e per la sua popolarità
seconda soltanto, fra
tutta la servitù,
all’augusta governante
in persona.
Forse l’affetto di
Charles per zia Tranter
era un’eco dei lontani
ricordi su questa donna
semplice - l’ideale per
la parte di Bauci - che
ora avanzava zoppicando
sul sentiero che
portava al cancello del
parco per dargli il
benvenuto.
Egli dovette
rispondere a tutte le
sue ansiose
interrogazioni
sull’imminente
matrimonio e chiederle
a sua volta notizie dei
figli.
Sembrava più
premurosa del solito, e
Charles scorse nel suo
sguardo quell’ombra di
pietà che i poveri dal
cuore gentile mostrano
a volte per i ricchi
privilegiati.
Era un’ombra che
conosceva da tempo,
elargita da questa
campagnola insieme
innocente e astuta al
povero ragazzo senza
mamma e con un padre
vizioso: filtravano
infatti sino a Winsyatt
voci oscene sul modo in
cui il genitore
superstite di Charles
si stava godendo i
piaceri della vita
londinese.
Ora quella muta
simpatia pareva del
tutto superflua, ma
Charles l’autorizzava
con divertita
tolleranza.
Veniva dall’amore per
lui, come venivano
dall’amore per lui, o
almeno gli sembrava
quel giorno, il lindo
giardino della
portineria, il parco
subito dopo, i
boschetti di alberi
secolari - ognuno con
il suo amatissimo nome,
la Sosta di Carson, il
Terrapieno dei dieci
pini, il Ramillies
(piantato per celebrare
quella battaglia), il
Quercia - e - Olmo, la
Selva delle Muse e
tanti altri, tutti
familiari a Charles
come i nomi delle parti
del suo corpo… e il
grande viale dei tigli
e le cancellate di
ferro, insomma tutto
ciò che ora vedeva
della proprietà.
Sorrise infine alla
vecchia lavandaia.
Adesso devo andare.
Mio zio mi aspetta.
Sembrò per un momento
che Mistress Hawkins
non intendesse
lasciarsi congedare
così facilmente; ma la
domestica prevalse
sulla madre putativa.
Si accontentò di
toccargli una mano
posata sulla porta del
calesse.
Sì, Mister Charles.
L’aspetta.
Il cocchiere colpì
con la frusta le terga
del cavallo di destra e
il calesse discese il
leggero declivio per
entrare nell’ombra
perforata dei tigli
ancora privi di foglie.
Dopo un po’ il viale
si appiattì, la frusta
tornò a leccare
pigramente un fianco
baio e i due cavalli,
ricordando di essere
ormai vicini alla
mangiatoia, si misero
vivacemente al trotto.
Il gaio e rapido
stridore delle ruote
cerchiate di ferro, il
leggero cigolio di un
asse insufficientemente
oliato, l’antico
affetto ravvivato da
Mistress Hawkins, la
certezza di diventare
ben presto il vero
padrone di questo
paesaggio, tutto ciò
ravvivava in Charles
quella sensazione
ineffabile di un
destino fortunato e di
un giusto ordine che il
suo soggiorno a Lyme
aveva in certo qual
modo turbato.
Questo pezzo
d’Inghilterra
apparteneva a lui e lui
gli apparteneva:
spettavano a lui le sue
responsabilità, il suo
prestigio, la sua
organizzazione
secolare.
Passarono davanti a
un gruppo di operai
dello zio: Ebenezer il
fabbro che, davanti a
un braciere portatile,
raddrizzava con
regolari martellate una
sbarra di ferro che si
era curvata.
Accanto a lui due
boscaioli che
chiacchieravano tra
loro, e un quarto uomo,
vecchissimo, che
portava ancora il
camiciotto della sua
giovinezza e una
vecchia bombetta… il
vecchio Ben, padre del
fabbro, che adesso, con
una dozzina di anziani
pensionati, era
autorizzato a vivere
nella proprietà e
libero di andare e
venire quanto il
padrone; una sorta di
archivio vivente, e
spesso ancora
consultato, degli
ultimi ottanta anni o
più della storia di
Winsyatt.
Al passaggio del
calesse, questi quattro
si voltarono e alzarono
le braccia e la
bombetta.
Charles rispose al
saluto con un gesto da
feudatario.
Conosceva
perfettamente le
vicende di tutti loro
come essi conoscevano
le sue.
Sapeva persino come
si era curvata la
sbarra: il grande
Jonas, il toro
preferito di suo zio,
aveva caricato il
landau di Mistress
Tomkins. “Tutta colpa
di quella donna,” aveva
scritto lo zio “che si
è dipinta la bocca di
rosso.” Charles sorrise
ricordando di avergli
chiesto con ironia
nella sua risposta come
mai una vedova così
attraente veniva a
Winsyatt senza uno
chaperon.
Ma era soprattutto
delizioso reimmergersi
nella grande e
immutabile pace rurale.
Le miglia di prati
primaverili, lo sfondo
delle colline del
Wiltshire, la casa
lontana che ora si
cominciava a
intravedere, grigia e
crema, con i suoi
grandi cedri e il
famoso faggio rosso
(tutti i faggi rossi
sono famosi) verso
l’ala ovest, le stalle
quasi nascoste subito
dietro e la piccola
torre di legno con
l’orologio che sembrava
un bianco punto
esclamativo tra i rami.
Era simbolico
l’orologio della
stalla; benché -
nonostante il
telegramma - a Winsyatt
non ci fosse mai nulla
di urgente, e i verdi
oggi fluissero
automaticamente nei
verdi domani e le sole
ore vere fossero quelle
solari, e benché,
tranne che nei periodi
di fienagione e di
mietitura, ci fossero
sempre troppe mani per
poco lavoro, il senso
dell’ordine era quasi
meccanico nella sua
precisione, nella
convinzione generale
che non si potesse
turbarlo, che sarebbe
sempre rimasto così:
benevolo e divino.
Il cielo - e Millie -
sa che anche nelle
campagne c’erano
ingiustizie e miserie
abominevoli quanto
quelle di Sheffield e
di Manchester; ma esse
evitavano i dintorni
delle grandi case
inglesi, forse soltanto
perché ai padroni
piaceva che anche i
contadini, e non solo i
campi e il bestiame,
fossero ben curati.
La loro relativa
generosità nei
confronti di un
personale numeroso può
essere stata soltanto
una conseguenza
secondaria del loro
gusto per i panorami
gradevoli, ma i
dipendenti ne traevano
un vantaggio.
Probabilmente le
motivazioni dei moderni
industriali
“intelligenti” non sono
più altruistiche.
Il primo gruppo di
sfruttatori voleva un
Panorama Gradevole, il
secondo vuole una
Maggiore Produttività.
Quando il calesse
emerse dal viale dei
tigli e al pascolo
cintato successero
prati e boschetti
pianeggianti, e la
strada iniziò la lunga
curva che l’avrebbe
portata davanti alla
casa - una struttura
palladiana non troppo
rozzamente ritoccata e
completata dal giovane
Wyatt - Charles si
sentì veramente vicino
a prendere possesso
della sua eredità.
Gli sembrava che
questo giustificasse
tutta la sua pigra vita
precedente, il suo
baloccarsi con la
religione, la scienza e
i viaggi; aveva sempre
aspettato questo
momento… la sua
chiamata al trono, per
così dire.
Aveva dimenticato
l’avventura assurda
sull’Undercliff.
Compiti immensi lo
attendevano, la
conservazione di questa
pace e di questo
ordine, come avevano
atteso in passato tanti
giovani della sua
famiglia.
Il dovere: era questa
la sua vera moglie, la
sua Ernestina e la sua
Sarah, e scese d’un
balzo dal calesse per
darle il suo saluto con
la stessa gaiezza di un
ragazzo che non avesse
neanche la metà dei
suoi anni.
Fu accolto tuttavia
da un vestibolo
deserto.
Irruppe nel soggiorno
aspettandosi di vedere
lo zio alzarsi
sorridente per venirgli
incontro.
Ma anche questa
stanza era deserta.
E c’era qualcosa di
strano che per un
momento rese Charles
perplesso.
Poi sorrise.
C’erano tende nuove,
e anche i tappeti, sì,
erano nuovi anche loro.
A Ernestina non
avrebbe fatto piacere
di vedersi sottrarre in
questo modo il diritto
di scegliere; ma come
altrimenti il vecchio
scapolo avrebbe potuto
meglio dimostrare
l’intenzione di
consegnare con grazia
la sua torcia? Era
cambiato anche
qualcos’altro, però.
Ci volle un po’ prima
che Charles se ne
accorgesse.
L’immortale otarda
era stata esiliata e al
posto della sua
vetrinetta c’era uno
stipo di porcellana.
Ma ancora non aveva
sospetti.
Come non sospettava -
ma in questo caso come
avrebbe potuto? - ciò
che era avvenuto a
Sarah dopo essersi
congedata da lui nel
pomeriggio del giorno
prima.
Aveva attraversato a
passo svelto il bosco
sino al punto dove
normalmente imboccava
il viottolo più alto
dove era assolutamente
impossibile che la
scorgessero dalla
Cascina.
Un osservatore
l’avrebbe vista esitare
e poi, se avesse avuto
l’udito fino come
quello di Sarah,
avrebbe indovinato il
perché: un rumore di
voci dal cottage della
Cascina, un centinaio
di metri più in basso
di là dagli alberi.
Lentamente e
silenziosamente, Sarah
avanzò sino a un folto
cespuglio d’agrifogli
dal quale le era
possibile guardare la
parte posteriore del
cottage.
Vi sostò un poco,
senza che il suo viso
rivelasse ciò che le
passava per la mente.
Poi qualcosa che
accadde più in basso,
fuori del cottage, la
spinse a muoversi… ma
non a mettersi
nuovamente al riparo
del bosco.
Si staccò invece
arditamente dal
cespuglio d’agrifogli e
percorse il sentiero
che sfociava nel
viottolo carraio sopra
il cottage.
Divenne così
perfettamente visibile
alle due donne ferme
davanti alla porta, una
delle quali aveva un
paniere in mano e stava
evidentemente per
tornare a casa.
Comparve dunque la
sagoma scura di Sarah.
Essa non guardò verso
il cottage, verso
quelle due paia di
occhi sbalorditi, ma
proseguì svelta nel suo
cammino sino a passare
dietro la siepe che
cingeva uno dei campi
sopra la Cascina.
Una delle due donne
era la moglie dell’uomo
della Cascina.
L’altra era Mistress
Fairley.

24.
“Ho sentito dire una
volta che la tipica
massima vittoriana era:
‘Devi ricordarti che è
tuo zio…’”.
G.
M. Young, “Victorian
Essays”.

E’ mostruoso.
Mostruoso.
Non posso credere che
non abbia perso la
ragione.
Ha perso il senso
delle proporzioni.
Non è esattamente la
stessa cosa.
Ma proprio in questo
momento! Mia cara Tina,
Cupido è notoriamente
indifferente alle
comodità altrui.
Sai benissimo che
Cupido non c’entra:
Temo che c’entri e
come.
I vecchi cuori sono i
più sensibili.
E’ colpa mia.
Lo so che non gli
garbo.
Ma no, sciocchezze.
Non sono sciocchezze.
So perfettamente che
per lui sono la figlia
di un negoziante in
tessuti.
Bambina mia, calmati.
E’ per te che sono
così arrabbiata.
Benissimo… allora
lascia che mi arrabbi
io.
A questo punto ci fu
una pausa, la quale mi
permette di dire che
questa conversazione si
svolgeva nel salotto
posteriore di zia
Tranter.
Charles era alla
finestra, e volgeva le
spalle a Ernestina che
aveva pianto sino a
pochi minuti prima e
ora sedeva tormentando
con aria vendicativa un
fazzoletto di pizzo.
So quanto ci tieni a
Winsyatt.
Su ciò che Charles
avrebbe risposto
possiamo soltanto
avanzare delle
congetture, perché
proprio in quel momento
si aprì la porta e
comparve zia Tranter
con un amabile sorriso
di benvenuto.
Come è tornato
presto! Erano le nove e
mezzo dello stesso
giorno in cui abbiamo
visto Charles arrivare
in calesse a Winsyatt
House.
Charles sorrise
debolmente.
La cosa è… finita
presto.
E’ accaduto qualcosa
di orribile e di
vergognoso.
Zia Tranter guardò
spaventata il tragico
viso oltraggiato della
nipote, la quale
aggiunse: Charles è
stato diseredato!.
Diseredato! Ernestina
esagera.
E’ solo che mio zio
ha deciso di sposarsi.
E se dovesse essere
così fortunato da avere
un figlio…
Fortunato! Ernestina
gettò a Charles una
rapida occhiata
fulminante.
Zia Tranter guardava
costernata ora un viso
ora l’altro.
Ma… chi è la signora?
Si chiama Mistress
Tomkins, Mistress
Tranter.
E’ una vedova.
E abbastanza giovane
da dargli una dozzina
di figli.
Charles sorrise.
Non precisamente.
Ma abbastanza per
avere figli.
La conosce? Ernestina
intervenne prima che
potesse parlare
Charles.
E’ proprio questo che
è spaventoso.
Soltanto due mesi fa
suo zio si prendeva
gioco di questa donna
in una lettera a
Charles.
E adesso striscia ai
suoi piedi! Ernestina!
Non voglio calmarmi! E’
troppo.
Dopo tutti questi
anni…
Charles respirò a
fondo, e si voltò verso
zia Tranter.
Mi risulta che ha
ottime parentele.
Il marito era un
colonnello del
quarantesimo ussari e
l’ha lasciata in
eccellenti condizioni
economiche.
Non si può
sospettarla di essere
stata a caccia di un
buon partito.
Un’occhiata rabbiosa
di Ernestina dimostrava
chiaramente che secondo
lei si poteva
sospettarla e come.
Mi dicono che è molto
attraente.
E senza dubbio va
alla caccia della
volpe.
Charles sorrise
freddamente alla
fidanzata, che
intendeva alludere a un
punto nero che si era a
suo tempo meritata nel
libro dei conti di quel
mostruoso zio.
Senza dubbio.
Ma non è ancora un
delitto.
Zia Tranter si lasciò
cadere su una poltrona
e osservò di nuovo quei
due giovani visi,
cercando, come sempre
in situazioni del
genere, qualche raggio
di speranza.
Ma non è troppo
vecchio per avere
figli? Charles riuscì
ad estrarre un sorriso
gentile per la sua
innocenza.
Ha sessantasette
anni, Mistress Tranter.
Non è troppo vecchio.
Anche se lei è
talmente giovane che
potrebbe esserle nonno.
Mia cara Tina, in
circostanze simili non
ci resta che la nostra
dignità.
Ti prego quindi, per
amor mio, di non essere
amara.
Dobbiamo accettare il
fatto compiuto con
tutta la buona grazia
possibile.
Lei alzò gli occhi e,
vedendolo così
nervosamente severo,
capì che doveva agire
in modo diverso.
Gli corse vicino e,
presagli una mano, se
l’accostò alle labbra.
Charles l’attirò a sé
e la baciò sulla
fronte, ma non si
lasciò ingannare.
Una megera e una
timida possono avere lo
stesso aspetto, ma non
sono la stessa cosa;
benché egli non
riuscisse a trovare la
parola adatta per
definire il modo in cui
Ernestina aveva accolto
quella scandalosa e
sgradevole notizia,
pensava a qualcosa come
“indegno di una
signora”.
Dal calesse che lo
aveva riportato a Lyme
da Exeter era corso
direttamente a casa
Tranter, aspettandosi
di trovarvi una dolce
solidarietà, non certo
un’aspra collera, anche
se era certamente
lusinghiera
l’intenzione di
conformarsi ai suoi
sentimenti.
Forse era proprio
questo il punto: essa
non aveva compreso che
un gentiluomo non
avrebbe mai potuto
manifestare la rabbia
che lei gli attribuiva.
In quei primi minuti
c’era stato in
Ernestina qualcosa che
gli aveva ricordato
anche troppo la figlia
del mercante in
tessuti; una persona
che aveva avuto la
peggio in un affare e
non aveva quella
imperturbabilità
tradizionale, quel
bell’atteggiamento
dell’aristocratico che
non permette ai
contrattempi
dell’esistenza di
intaccare il suo
consueto stile.
Riaccompagnò
Ernestina al divano dal
quale si era alzata
poco prima.
Capiva ora che
avrebbe dovuto
rimandare all’indomani
la discussione sulla
ragione fondamentale
della sua visita e
sulla decisione alla
quale era giunto nel
lungo viaggio di
ritorno.
Cercava la maniera di
assumere il giusto
atteggiamento, e non
seppe trovare di meglio
che cambiar discorso
con noncuranza.
Quali grandi
avvenimenti ci sono
stati oggi a Lyme? Come
se se ne fosse
ricordata
all’improvviso,
Ernestina si rivolse
alla zia: Hai avuto sue
notizie?.
Poi, prima che zia
Tranter potesse
rispondere, disse a
Charles: C’è stato
davvero un avvenimento.
Mistress Poulteney ha
licenziato Miss
Woodruff.
Charles si sentì
mancare il cuore.
Ma l’emozione che il
suo viso poteva aver
tradito passò
inosservata per
l’impazienza di zia
Tranter nel riferire le
sue novità: era stata
questa infatti la
ragione della sua
assenza all’arrivo di
Charles.
A quanto si diceva,
il licenziamento
risaliva alla sera
prima; ma la peccatrice
era stata autorizzata a
trascorrere un’ultima
notte sotto il tetto di
Marlborough House.
Poi, al mattino di
buon’ora, un facchino
era venuto a prendere
la sua valigia, con
l’incarico di portarla
al White Lion.
A questo punto
Charles sbiancò quasi
completamente, ma la
frase successiva di zia
Tranter placò i suoi
timori.
E’ dove c’è il
deposito delle
diligenze.
Gli omnibus da
Dorchester a Exeter non
scendevano la ripida
collina fino a Lyme, ma
caricavano a un
incrocio a circa
quattro miglia dalla
costa sulla strada
principale verso
occidente.
Ma Mistress Hunnicott
gli ha parlato.
E il facchino è
sicuro che Miss
Woodruff non ci fosse.
La cameriera dice che
è partita alle prime
luci dell’alba e ha
dato soltanto
istruzioni su dove
mandare la valigia.
E poi? Nessuna
traccia.
Ha visto il vicario?
No, ma Miss Trimble mi
assicura che è andato
stamattina a
Marlborough House.
Gli hanno detto che
Mistress Poulteney non
stava bene.
Ha parlato allora con
Mistress Fairley, la
quale sapeva soltanto
che Mistress Poulteney
era venuta a conoscenza
di non si sa quale
vergognoso episodio ed
era profondamente
turbata e sconvolta…
La buona Mistress
Tranter s’interruppe,
evidentemente
angustiata sia per la
propria ignoranza sia
per la scomparsa di
Sarah.
Cercò gli occhi di
Charles e della nipote.
Che cosa può essere…
che cosa può essere?
Non avrebbe mai dovuto
farsi assumere a
Marlborough House.
E’ come offrire un
agnello a un lupo.
Ernestina con
un’occhiata chiese a
Charles un assenso a
questa sua opinione.
Molto meno calmo di
quanto apparisse, egli
si rivolse a zia
Tranter.
Non c’è rischio che…
E’ quello che tutti
temiamo.
Il vicario ha mandato
qualcuno a far ricerche
verso Charmouth.
E’ lì che di solito
va a passeggiare, lungo
le scogliere.
E cos’hanno trovato?
Niente.
Non diceva che una
volta lavorava per…
E’ stata cercata
anche lì.
Ma non ne sanno
nulla.
Grogan… è stato
chiamato a Marlborough
House? Approfittò
abilmente
dell’occasione per dire
a Ernestina: Quella
sera in cui abbiamo
preso insieme un grog,
mi ha parlato di lei.
So che si preoccupa
della sua sorte.
Miss Trimble lo ha
visto parlare alle
sette con il vicario.
Dice che sembrava
molto agitato.
Arrabbiato anzi.
Così ha detto.
Miss Trimble aveva
una bottega di ninnoli
per signore in fondo a
Broad Street, ed era
quindi nella posizione
ideale per essere la
massima centrale
d’informazioni della
cittadina.
Il viso dolce di zia
Tranter raggiunse
l’impossibile:
un’espressione
duramente severa.
Non andrò a trovare
Mistress Poulteney, per
quanto malata sia.
Ernestina si coprì il
viso con le mani: Oh,
che giornata crudele!.
Charles guardò le due
donne.
Forse dovrei andare
da Grogan.
Oh Charles… che cosa
potresti fare? Ci sono
già abbastanza uomini
che la cercano.
Ovviamente non era a
questo che Charles
pensava.
Supponeva che il
licenziamento di Sarah
avesse qualche rapporto
con i suoi vagabondaggi
nell’Undercliff, e ciò
che lo inorridiva era
ovviamente il sospetto
che l’avessero vista
con lui.
Era angosciosamente
indeciso.
Era divenuto
indispensabile scoprire
quanto si sapeva
pubblicamente delle
ragioni del
licenziamento.
All’improvviso
l’atmosfera di quel
salottino gli parve
soffocante.
Aveva bisogno di star
solo.
Doveva riflettete sul
da farsi.
Se Sarah era ancora
viva - ma chi poteva
sapere quale decisione
irragionevole poteva
aver preso in quella
notte di disperazione
mentre lui dormiva
tranquillo in un
albergo di Exeter? - se
ancora respirava, egli
immaginava dove poteva
essere; e l’opprimeva
come un sudario il
fatto che a Lyme fosse
il solo a saperlo.
Nello stesso tempo
non osava rivelare la
sua informazione.
Pochi minuti dopo,
scendeva a grandi passi
la collina verso il
White Lion.
L’aria era mite, ma
il cielo nuvoloso.
Pigre ditate d’aria
umida gli sfioravano le
guance.
C’era tempesta
all’orizzonte, come nel
suo cuore.

25.
“O young lord-lover,
what sighs are those.
For one that will
never be thine?”
Tennyson, “Maud”
(1855).
“Oh giovane amante,
che sospiri son questi,
/ Per una che non sarà
mai tua?” [Nota del
Traduttore].
Era sua intenzione
mandare immediatamente
Sam dal medico
irlandese con un
messaggio.
Lo formulava già
camminando. “Mistress
Tranter è profondamente
preoccupata…” “Le spese
alle quali ci si
dovesse esporre per la
formazione di una
squadra di soccorso”… o
meglio ancora “Se io
posso essere d’aiuto,
finanziariamente o in
qualsiasi altro modo”;
queste le frasi che gli
fluttuavano in testa.
Entrando in albergo
ordinò allo stalliere
meno sordo di andare a
chiamare Sam al bar e
di mandarglielo di
sopra.
Ma appena mise piede
nel suo salottino,
ricevette il terzo choc
di quella storica
giornata.
Sul tavolo tondo era
posata una lettera
suggellata con cera
nera.
La scrittura non gli
era familiare: Mister
Smithson al White Lion.
Aprì lacerandolo il
foglio piegato.
Non c’era
intestazione, né firma.
“La supplico di
vedermi un’ultima
volta.
Aspetterò questo
pomeriggio e domattina.
Se non viene, non la
disturberò mai più”.
Charles lesse il
biglietto due, tre
volte, poi s’affacciò a
contemplare il cielo
buio.
Lo infuriava che
Sarah mettesse così
imprudentemente in
pericolo la sua
reputazione; gli dava
sollievo questa prova
del fatto che era
ancora viva; e
l’offendeva la minaccia
implicita nell’ultima
frase.
Sam entrò pulendosi
la bocca con il
fazzoletto per far
intendere, in maniera
non molto sottile, che
lo avevano interrotto
mentre cenava.
Ma poiché a colazione
si era nutrito soltanto
di una bottiglia di
birra di zenzero e di
tre biscotti Abernethy
stantii, si può anche
perdonarlo.
Comprese comunque
alla prima occhiata che
il padrone continuava
ad essere di malumore
come lo era stato da
quando avevano lasciato
Winsyatt.
Va’ giù e chiedi chi
mi ha lasciato questo
biglietto.
Sì, Mister Charles.
Sam si allontanò ma
ebbe appena il tempo di
fare sei passi che già
Charles era sulla
porta.
Di’ a chi lo ha
ricevuto di venire su.
Sì, Mister Charles.
Il padrone tornò in
camera sua, dove gli
balenò alla mente
l’immagine fuggevole di
quell’antico disastro
di cui aveva trovato
traccia nel lias blu -
gli ammoniti sorpresi
da qualche recessione
delle acque: una
microcatastrofe di
novanta milioni d’anni
fa - e ripensò a
Ernestina.
In una cupa
intuizione, come un
nero lampo, vide che
nella vita tutto era
parallelo: che
l’evoluzione non era
verticale, come
un’ascesa verso la
perfezione, ma
orizzontale.
Il tempo era il
grande inganno;
l’esistenza non aveva
storia, era sempre al
presente, sempre questo
trovarsi intrappolato
nella stessa diabolica
macchina.
E tutti quei
paraventi dipinti che
l’uomo aveva eretto per
escludere la realtà -
storia, religione,
dovere, posizione
sociale - erano solo
illusioni, semplici
fantasie da oppiomani.
Si voltò mentre Sam
varcava la soglia con
lo stesso stalliere con
il quale Charles aveva
parlato poco prima.
Il biglietto era
stato portato da un
ragazzo.
Alle dieci del
mattino.
Lo stalliere lo
conosceva di vista ma
non di nome.
No, non aveva detto
chi era il mittente.
Charles lo congedò
bruscamente e con la
stessa impazienza
domandò a Sam che cosa
avesse da guardare.
Mica guardavo niente,
Mister Charles.
Bene.
Digli di mandarmi su
qualcosa da mangiare.
Qualunque cosa,
qualunque cosa.
Sì, Mister Charles.
E non voglio più
essere disturbato.
La mia roba la puoi
tirar fuori adesso.
Sam andò nella camera
da letto, mentre
Charles rimase in piedi
accanto alla finestra.
Guardando in basso,
vide, illuminato dalle
finestre della locanda,
un ragazzino che
arrivava di corsa
dall’estremo opposto,
per poi sparire dopo
aver attraversato la
strada pavimentata a
ciottoli proprio lì
sotto.
Poco mancò che
alzasse il telaio
scorrevole della
finestra e
s’affacciasse a
chiamarlo, tanto
precisa era la
sensazione che fosse il
medesimo messaggero del
mattino.
Restò comunque
immobile, agitato e
imbarazzato.
Ci fu poi una pausa
sufficientemente lunga
perché egli cominciasse
a credere di essersi
sbagliato.
Sam rientrò dalla
camera da letto e
cominciò ad avviarsi
verso la porta.
Ma in quel momento si
sentì bussare.
Sam aprì.
Era lo stalliere, con
il sorriso idiota di
chi stavolta non ha
fatto sbagli.
Teneva in mano un
biglietto.
Era ancora quel
ragazzo, signore.
E io ce l’ho chiesto,
signore.
Lui dice che era la
stessa donna di
stamattina ma sa mica
come si chiama.
Noi qui la chiamiamo
la…
Sì, sì.
Dammi il biglietto.
Sam lo prese e lo
passò a Charles, ma con
una muta insolenza, con
l’aria di chi la sa
lunga appena
dissimulata dalla
maschera del servo.
Fece un segno col
pollice allo stalliere,
accompagnandolo con una
segreta strizzatina
d’occhio, e lo
stalliere si ritirò.
Sam stava per
seguirlo, ma venne
bloccato da Charles.
Il quale esitò un
momento, cercando di
formulare ciò che aveva
da dirgli in modo
sufficientemente
delicato e plausibile.
Sam, io mi sono
interessato alla sorte
di una povera donna di
qui.
Volevo… cioè voglio
che la cosa non arrivi
alle orecchie di
Mistress Tranter.
Capisci?
Perfetamente, Mister
Charles.
Spero di indirizzare
questa persona a un
posto più adatto… alle
sue capacità.
Dopo di che
naturalmente dirò tutto
a Mistress Tranter.
E’ una piccola
sorpresa.
Un regalino in cambio
della sua ospitalità.
Mistress Tranter
s’interessa a lei.
Sam aveva assunto un
atteggiamento da
“perfetto domestico”,
come lo definì Charles
tra sé: un’obbedienza
estremamente rispettosa
alle volontà del
padrone.
Era così lontana dal
suo vero carattere che
Charles sentì il
bisogno di insistere.
Perciò - benché la
cosa non abbia alcuna
importanza - tu non ne
parlerai con nessuno.
No di sicuro, Mister
Charles.
Sam sembrava
scandalizzato come un
curato accusato di
giocar d’azzardo.
A Charles che si
voltava verso la
finestra, fu
indirizzata, a sua
insaputa, una curiosa
espressione di Sam che
consisteva soprattutto
in una rapida
contrazione delle
labbra accompagnata da
un cenno del capo.
Egli aprì il secondo
biglietto mentre la
porta si chiudeva alle
spalle del servo.
“Je vous ai attendu
toute la journée.
Je vous prie - une
femme à genoux vous
supplie de l’aider dans
son désespoir.
Je passerai la nuit
en prières pour votre
venue.
Je serai dès l’aube à
la petite grange près
de la mer atteinte par
le premier sentier à
gauche après la ferme”.
Certo per mancanza di
cera, il biglietto non
era stato sigillato, e
per lo stesso motivo
era stato scritto in un
francese da governante.
Lo aveva
scarabocchiato a
matita, come se lo
avesse vergato
frettolosamente sulla
porta di qualche
cottage o
sull’Undercliff dove
Charles sapeva che
doveva essersi
rifugiata.
Il ragazzo era senza
dubbio il figlio di
qualche povero
pescatore del Cobb,
luogo a cui si poteva
accedere
dall’Undercliff
attraverso un sentiero
senza bisogno di
passare per la città.
Ma la follia di
questo comportamento,
il rischio! Il
francese! Varguennes!
Charles appallottolò il
foglio nel pugno
chiuso.
Un lampo lontano
annunciava l’addensarsi
della tempesta e,
mentre lui guardava
dalla finestra, le
prime tetre e pesanti
gocce inzaccherarono e
striarono il vetro.
Si domandò dove
poteva essere Sarah; e
l’immagine di lei che
correva tutta inzuppata
tra i fulmini e la
pioggia lo distolse per
un attimo da
quell’ansia acuta e
strettamente egoistica.
Era davvero troppo!
Dopo una giornata
simile! Sto eccedendo
nei punti esclamativi.
Ma era così che,
mentre Charles
camminava avanti e
indietro, i pensieri,
le reazioni e le
reazioni alle reazioni
sgorgavano con rabbia
dalla sua mente.
S’impose di fermarsi
davanti al bovindo e di
guardare verso Broad
Street, e
immediatamente si
ricordò quel che lei
aveva detto sui
biancospini che la
percorrevano.
Si voltò di scatto e
si portò le mani alle
tempie; poi entrò in
camera e si guardò allo
specchio.
Ma sapeva benissimo
di essere sveglio.
Devo fare qualcosa,
continuava a dirsi,
devo agire.
E provò una specie di
rabbia per la sua
debolezza: la decisione
selvaggia di dimostrare
di non essere soltanto
un ammonita insabbiato
in un terreno arido, ma
di squarciare le nubi
scure che lo
avvolgevano.
Aveva bisogno di
parlare con qualcuno,
di mettere a nudo la
sua anima.
Tornò nel salottino e
tirò la catenella del
lampadario a gas,
trasformando la fiamma
verde chiaro in una
bianca incandescenza.
Poi tirò con forza il
campanello accanto alla
porta.
E quando arrivò un
vecchio cameriere,
Charles gli ordinò
perentoriamente un
quarto di pinta del
miglior “cobbler” del
White Lion, una
vellutata mistura di
xeres e brandy che
costrinse molti
vittoriani a slacciarsi
il panciotto.
Poco più di cinque
minuti dopo, lo
sbalordito Sam che
portava il vassoio con
la cena, venne bloccato
a mezza scala dalla
vista del suo padrone
che, con le guance un
po’ arrossate e il suo
mantello Inverness, (1)
gli stava venendo
incontro a grandi
passi.
Charles si fermò un
gradino più in alto,
alzò il tovagliolo che
copriva il brodo
marrone, il montone e
le patate lesse, e
riprese a scendere
senza una parola.
Mister Charles?
Mangialo tu.
Il padrone se ne
andò, in netto
contrasto con Sam, che
rimase dov’era con la
lingua protesa verso la
guancia sinistra e gli
occhi ardentemente
concentrati sulla
ringhiera.
NOTE.
Nota 1.
Mantello lungo senza
maniche e stretto al
collo. [Nota del
Traduttore].

26.
“Let me tell you, my
friends, that the whole
thing depends On an
ancient manorial
right.” Lewis Carroll,
“The Hunting of the
Snark” (1876).
“Lasciate che vi
dica, amici, che
l’intera faccenda
dipende / Da un antico
diritto feudale. [Nota
del Traduttore].

Effettivamente Mary
aveva avuto sulla mente
del giovane cockney
l’effetto di renderla
meditabonda.
Egli amava Mary per
se stessa, come
qualunque normale
giovanotto in sane
condizioni fisiche; ma
l’amava anche per la
parte che aveva nei
suoi sogni, che non
assomigliava per niente
alle parti che hanno le
ragazze nei sogni dei
giovani della nostra
epoca priva di
inibizioni e di
immaginazione.
Il più delle volte la
vedeva graziosamente
ingabbiata dietro il
banco di una bottega di
articoli per signori.
Da tutta Londra, come
magnetizzati, i clienti
più distinti
confluivano su quel
viso attraente.
Fuori, la strada era
annerita dei loro
cilindri e assordata
dalle ruote di carrozze
e calessini.
Una sorta di magico
samovar, il cui zipolo
era affidato alla
stessa Mary, dispensava
un flusso incessante di
guanti, sciarpe,
calzini, cappelli,
giarrettiere, oxoniane
(un tipo di scarpa
allora in voga) e
colletti - Piccadilly,
Shakspere, Dog-collar,
Dux perché Sam aveva la
mania dei colletti.
Non sono certo che
non fosse una mania
feticistica, dato che
egli vedeva Mary
provarli sul suo
piccolo collo bianco
davanti ai duchi e ai
lord in ammirazione.
Durante questa scena
incantevole lui, Sam,
stava alla cassa, a
ricevere la pioggia
d’oro venuta in cambio
di quegli oggetti.
Sapeva benissimo che
questo era un sogno.
Ma Mary, per così
dire, lo sottolineava;
inoltre, ciò che è più
importante, affilava
gli odiosi lineamenti
di quel demonio che si
opponeva così
caparbiamente alla sua
realizzazione.
Il suo nome? Scarsità
di contanti.
Forse era questo
eterno nemico del
genere umano che Sam
continuava a fissare
nel salottino del suo
padrone, dove si era
comodamente sistemato -
non senza essersi
accertato con un’altra
misteriosa contrazione
delle labbra che
Charles si fosse
davvero allontanato giù
per Broad Street e
stava giocherellando
con la sua seconda
cena: una cucchiaiata o
due di brodo e i
bocconi migliori delle
fette di montone,
perché Sam aveva tutti
gli istinti, sebbene
non le finanze, di uno
“swell”.
Ma adesso stava di
nuovo guardando nel
vuoto, oltre un pezzo
di montone unto di
salsa di capperi che
teneva infilato nella
forchetta pur essendo
insensibile al suo
fascino.
“Mal” (se posso
arricchire il vostro
patrimonio di
conoscenze inutili) è
una parola che
l’inglese antico prese
a prestito dall’antico
norvegese e che fu
portata dai vichinghi.
In origine
significava “discorso”;
ma poiché i vichinghi
si dedicavano a questa
attività eminentemente
femminile solo per
esigere qualcosa sotto
la minaccia della
scure, assunse il
significato di “tassa”
o “pagamento di un
tributo”.
Un ramo dei vichinghi
si spinse verso il sud
e andò in Sicilia a
fondare la Mafia,
mentre un altro - e a
questo punto “mal” si
scriveva “mail” -
s’affaccendò a formare
dei racket di
taglieggiatori sul
confine scozzese.
Chi teneva al proprio
raccolto o alla
verginità della figlia
doveva pagare il “mail”
ai capoccia della zona;
e le vittime, dopo un
lungo costosissimo
periodo, cominciarono a
parlare di “black mail”
[“mail” nero, ossia
ricatto].
Pur non essendo
precisamente assorbito
in congetture
etimologiche, Sam stava
certamente pensando al
significato di questa
parola, avendo subito
intuito chi era la
povera donna.
Un avvenimento quale
il licenziamento della
donna del tenente
francese era troppo
succulento per non dove
passar di bocca in
bocca a Lyme nel corso
della giornata e Sam
aveva già sorpreso una
conversazione al bar
mentre stava consumando
il suo primo pasto,
prematuramente
interrotto, della
serata.
Sapeva chi era Sarah,
perché ne aveva
accennato un giorno
Mary.
Conosceva anche il
suo padrone e il suo
consueto comportamento;
non era più se stesso;
aveva qualcosa in
mente; stava andando in
una direzione che non
era quella di casa
Tranter.
Sam posò forchetta e
montone e cominciò a
darsi dei colpetti sul
lato del naso; gesto
non inconsueto al peso
di Newmarket, quando un
uomo dalle gambe curve
fiuta una rozza
mascherata da cavallo
da corsa.
Solo che stavolta Sam
fiutava, quasi come un
topo, il prossimo
affondamento della
nave.
Al pianterreno di
Winsyatt sapevano
benissimo quel che
stava succedendo; che
lo zio aveva deciso di
fare un dispetto al
nipote.
Con l’innato rispetto
della classe
lavoratrice rurale per
la buona
amministrazione, essi
disprezzavano Charles
perché non veniva qui
più spesso, in altre
parole perché non
adulava Sir Robert ogni
volta che ne aveva
l’occasione.
I servi di
quell’epoca erano
considerati poco più
che oggetti
d’arredamento e i loro
padroni dimenticavano
spesso che avevano
orecchi e intelligenza.
Certi vivaci
battibecchi tra il
vecchio e il suo erede
non erano passati
inosservati e non si
era mancato di
discuterne.
E benché tra il
personale femminile più
giovane ci fosse una
tendenza a compiangere
il bel Charles, i
membri più saggi
guardavano con occhi da
formica quella frivola
cicala e il suo
meritato castigo.
Avendo lavorato tutta
la vita per i loro
salari, erano lieti di
veder punire Charles
per la sua
fannullaggine.
Inoltre Mistress
Tomkins che, come
Ernestina aveva
sospettato, era proprio
un’avventuriera
altoborghese, aveva
astutamente fatto di
tutto per ingraziarsi
la governante e il
maggiordomo; e questi
due notabili avevano
dato il loro
“imprimatur” - o
“ducatur in
matrimonium” - alla
vedova espansiva e
grassoccia; che per di
più, quando le
mostrarono un
appartamento da tempo
inutilizzato nella
citata ala est, aveva
fatto notare alla
governante che quelle
stanze avrebbero potuto
diventare un’eccellente
“nursery”.
E’ vero che Mistress
Tomkins aveva già avuto
un figlio e due figlie
dal primo marito, ma a
parere della governante
- comunicato con grazia
a Mister Benson, il
maggiordomo - Mistress
Tomkins praticamente
era come se fosse di
nuovo incinta.
Potrebbero essere
femmine, Mistress
Trotter.
E’ una tenace, Mister
Benson.
Dia retta a quello
che le dico.
E’ una tenace.
Il maggiordomo
sorseggiò la sua tazza
di tè, poi aggiunse.
E dà buone mance.
Cosa che Charles,
essendo membro della
famiglia, non faceva.
La parte sostanziale
di tutto questo era
arrivata alle orecchie
di Sam mentre aspettava
Charles nel salone
della servitù.
Non era una notizia
piacevole, né in sé, né
nella misura in cui
Sam, come servo della
cicala, era in parte
coinvolto nel giudizio
che su di essa veniva
comunemente dato; e la
sua reazione negativa
aveva un certo rapporto
con una specie di corda
che Sam aveva sempre
tenuto di riserva per
il suo violino: un
sogno “faute de mieux”
nel quale si vedeva a
Winsyatt nella stessa
eccelsa posizione ora
occupata da Mister
Benson.
Aveva anche piantato
con noncuranza questo
seme nella mente di
Mary, abbastanza
convinto che, se appena
lo avesse voluto,
sarebbe germinato.
E non era bello veder
sradicare con tanta
crudeltà una tenera
pianticella, anche se
non era la prediletta.
Charles, partendo da
Winsyatt, non aveva
detto nulla a Sam, il
quale dunque
ufficialmente non
sapeva nulla delle sue
abbuiate speranze.
Ma il volto abbuiato
del suo padrone forniva
informazioni
sufficienti.
E adesso questo.
Sam finalmente mise
in bocca il suo pezzo
di montone che si stava
raffreddando, lo
masticò e lo inghiottì;
intanto i suoi occhi
guardavano verso il
futuro.
Il colloquio di
Charles con lo zio non
era stato tempestoso,
perché entrambi si
sentivano colpevoli, lo
zio per ciò che stava
facendo adesso, il
nipote per ciò che non
aveva fatto in passato.
La reazione di
Charles all’annuncio,
dato bruscamente ma con
gli occhi
eloquentemente rivolti
altrove, era stata,
dopo la prima gelida
sorpresa, freddamente
cortese.
Non posso che
congratularmi con lei,
signore, e augurarle
ogni felicità.
Lo zio, che era
arrivato in salotto un
attimo dopo quello in
cui noi ci eravamo
congedati da Charles,
si voltò verso una
finestra come per
trovar coraggio nella
vista dei suoi acri
verdeggianti.
Fornì un breve
resoconto della sua
passione.
La prima volta, tre
settimane prima, era
stato rifiutato.
Ma non era uomo da
voltare i tacchi dopo
un primo no.
Aveva notato nella
voce della signora una
certa indecisione.
E la settimana
precedente era corso a
Londra, “lanciandomi
nuovamente al galoppo
nella stessa direzione”
e superando
trionfalmente quel
caparbio ostacolo. “Mi
disse nuovamente di no,
Charles, ma me lo disse
piangendo.
Compresi così di aver
vinto.” A quanto
sembrava, c’erano
voluti altri due o tre
giorni prima che
venisse pronunciato il
sì definitivo.
E allora, ragazzo
mio, ho capito che
dovevo vederti.
Tu sei il primo al
quale lo dico.
Ma Charles ricordò
l’occhiata
compassionevole della
vecchia Mistress
Hawkins e seppe che
ormai tutta Winsyatt
era al corrente della
cosa.
La narrazione un po’
strozzata della saga
amorosa dello zio gli
aveva dato il tempo di
riaversi dalla
sorpresa.
Si sentiva distrutto
e umiliato: con tutto
un mondo in meno.
E aveva solo una
difesa: prenderla con
calma, mostrare lo
stoico e nascondere il
ragazzino infuriato.
Le sono grato della
premura, zio.
Hai il pieno diritto
di darmi del vecchio
rimbambito.
Lo faranno quasi
tutti i miei vicini.
Le scelte tardive
sono spesso le
migliori.
E’ una donna viva,
Charles.
Non una di quelle
maledette signorine
moderne tutte fasulle.
Per un fuggevole
istante, Charles pensò
che fosse un insulto
per Ernestina, e in
effetti lo era ma
involontario.
Lo zio continuò senza
badarci.
Dice quello che
pensa.
Al giorno d’oggi una
donna che si comporta
così certa gente la
giudica un’intrigante.
Ma lei non lo è.
Trovò ancora
ispirazione nel suo
parco: E’ retta come un
buon olmo.
Non ho mai supposto,
neppure per un istante,
che potesse non
esserlo.
Lo zio allora lo
guardò con diffidenza;
come Sam recitava a
volte con Charles la
parte dell’umile
servitore, così Charles
assumeva a volte con il
vecchio quella del
nipote rispettoso.
Preferirei vederti
arrabbiato piuttosto
che…
Stava per dire
viscido, ma
s’interruppe e venne a
cingere con un braccio
le spalle di Charles;
aveva infatti cercato
di giustificare la sua
decisione suscitando in
sé un sentimento di
collera nei confronti
del nipote, ma era
troppo buon sportivo
per non accorgersi
della meschinità di
questo espediente.
Charles, accidenti,
bisogna proprio dirlo.
Questo cambia tutte
le tue prospettive.
Anche se alla mia
età, sa il cielo se…
Ma era una siepe
troppo alta perché
potesse saltarla.
Comunque, se dovesse
succedere, Charles,
voglio che tu sappia
che, qualunque cosa
nasca da questo
matrimonio, tu non
resterai a mani vuote.
Non posso farti dono
della Casa Piccola, ma
vorrei proprio che la
considerassi come tua
finché vivrai.
Mi piacerebbe che
fosse questo il mio
regalo di nozze per te
e per Ernestina, e in
più, naturalmente, le
spese per sistemarla
come si deve.
E’ molto generoso da
parte sua.
Ma noi abbiamo
praticamente deciso di
trasferirci nella casa
di Belgravia, appena
sarà scaduto l’attuale
contratto d’affitto.
Sì, certo, ma dovrete
avere una casa in
campagna.
Non voglio che questa
faccenda venga a
guastare i nostri
rapporti, Charles.
Manderò tutto a monte
domani stesso se…
Charles riuscì a
sorridere.
Su, non sia assurdo.
Avrebbe potuto
benissimo sposarsi
molti anni fa.
Forse.
Ma il fatto è che non
lo feci.
Si accostò
nervosamente alla
parete e risistemò un
quadro che si era
spostato.
Charles taceva.
Forse più che lo choc
di quella notizia lo
feriva ripensare agli
assurdi sogni di
possesso che aveva
fatto mentre saliva
verso Winsyatt.
Quel vecchio demonio
avrebbe dovuto
scrivere.
Ma per il vecchio
demonio sarebbe stato
un atto di codardia.
Ora aveva smesso di
occuparsi del quadro e
si era voltato.
Charles, tu sei
giovane e passi metà
della tua vita
viaggiando.
Non sai come ci si
possa sentire
terribilmente soli,
annoiati, non so come
dire, ma per metà del
mio tempo mi sembra di
essere come morto…
Non avevo idea…
mormorò Charles.
No, no, non volevo
accusarti.
Tu hai la tua vita da
condurre.
Ma in segreto, come
tanti uomini senza
figli, incolpava
Charles di non essere
come secondo lui
dovevano essere tutti i
figli: rispettoso e
amorevole a un livello
tale che gli sarebbero
bastati dieci minuti di
autentica paternità per
accorgersi che era
soltanto un sogno
sentimentale.
Comunque ci sono cose
che soltanto una donna
può dare.
Pensa per esempio
alle vecchie
tappezzerie di questa
stanza.
Te n’eri accorto? Un
giorno Mistress Tomkins
mi disse che erano
tetre.
E accidenti alla mia
cecità; lo erano
davvero.
E’ a questo che serve
una donna.
A farti vedere quello
che hai davanti al
naso.
Charles provò la
tentazione di dirgli
che gli occhiali
svolgevano la stessa
funzione a un prezzo
molto inferiore; ma si
limitò a chinare il
capo per mostrargli
comprensione.
Sir Robert fece con
la mano un gesto un po’
untuoso.
Cosa ne dici di
queste nuove? Allora
Charles sentì il
bisogno di sorridere.
Il senso estetico
dello zio si era per
tanto tempo esercitato
su questioni quali la
profondità dei garresi
di un cavallo o la
superiorità di Joe
Manton su tutti gli
altri fabbricanti
d’armi della storia che
era un po’ come sentire
un assassino chiedergli
un parere su una poesia
infantile.
Un grande
miglioramento.
E’ vero, lo dicono
tutti.
Charles si morse le
labbra.
E quando conoscerò
questa signora? Stavo
proprio per parlartene.
E’ impaziente di
conoscerti.
Ed è anche molto
sensibile alla
questione di… be’ del…
come posso dire? Delle
limitazioni alle mie
prospettive? Appunto.
La scorsa settimana
mi ha confessato che
all’inizio mi aveva
detto di no proprio per
questa ragione.
Voleva essere un
complimento e Charles,
rendendosene conto, si
mostrò urbanamente
sorpreso.
Ma le ho garantito
che tu stavi per fare
un ottimo matrimonio.E
che avresti compreso e
approvato la mia scelta
di una compagna… per i
miei ultimi anni.
Non ha ancora
risposto alla mia
domanda, zio.
Sir Robert parve
vergognarsi un poco.
Attualmente è dalla
sua famiglia nello
Yorkshire.
E’ imparentata con i
Daubeny, sai.
Ah.
E domani vado a
raggiungerla.
Ah.
Inoltre ho pensato
che sarebbe stato
meglio parlarne da uomo
a uomo.
Ma è molto ansiosa di
conoscerti.
Esitò un poco, poi
con ridicola
timidezza infilò una
mano nella tasca del
panciotto e ne trasse
un medaglione.
Me lo ha regalato la
settimana scorsa.
Charles esaminò così
una miniatura di
Mistress Bella Tomkins,
incorniciata d’oro e
dalle dita pesanti
dello zio.
Appariva
sgradevolmente giovane;
labbra carnose, occhi
aggressivi: non del
tutto priva di
attrattive neanche per
Charles.
Il viso,
curiosamente,
assomigliava un poco a
quello di Sarah, e al
sentimento di
umiliazione e di
spogliazione si
aggiunse in Charles una
nuova sottile
dimensione.
Sarah era una donna
di profonda
inesperienza e questa
una donna di mondo; ma
entrambe, sia pure in
maniera diversa - e su
questo lo zio aveva
ragione - si
distinguevano
dall’immenso gregge
amorfo delle donne in
generale.
Per un attimo si
sentì come il
condottiero di un
debole esercito che
esamina il forte
schieramento del
nemico; prevedeva fin
troppo chiaramente
quale sarebbe stato il
risultato di uno
scontro tra Ernestina e
la futura Lady
Smithson.
Una disfatta.
Vedo altre ragioni
per congratularmi con
lei.
E’ una bella donna.
Una splendida donna.
Valeva la pena
aspettare, Charles.
Gli diede una
gomitata nelle costole.
Sarai invidioso.
Vedrai se non lo
sarai.
Fissò ancora
teneramente il
medaglione, poi lo
chiuse con reverenza e
se lo rimise in tasca.
Quindi, come per
compensare tanta
sdolcinatezza, chiese
vivacemente a Charles
di accompagnarlo alle
scuderie per vedere la
sua ultima cavalla di
razza, pagata “cento
ghinee meno di quello
che vale”; e che per
lui era un equivalente
equino, del tutto
inconscio ma
inconfondibile,
dell’altro suo nuovo
acquisto.
Erano due autentici
gentiluomini inglesi,
ed essendo tali
evitarono ulteriori
discussioni sul tema
che occupava le loro
menti, anche se non
poterono fare a meno di
alludervi perché Sir
Robert era troppo
irreprimibilmente
entusiasta della sua
buona sorte per non
tornare a parlarne in
continuazione.
Charles comunque
insistette che doveva
tornare a Lyme dalla
fidanzata quella sera
stessa e lo zio, che in
passato davanti a una
simile diserzione
sarebbe piombato in un
abisso di malumore,
stavolta non fece molte
obiezioni.
Charles promise di
parlare con Ernestina
della questione della
Casa Piccola e di
portarla a conoscere
l’altra futura sposa
non appena fosse stato
possibile organizzare
l’incontro.
Ma il calore delle
strette di mano con le
quali lo zio si congedò
da lui non poteva
nascondere il suo
sollievo nel vederlo
ripartire.
L’orgoglio aveva
sorretto Charles nelle
tre o quattro ore della
sua visita, ma la
partenza fu una cosa
triste.
Quei prati, quei
pascoli, quelle
cancellate, quei
boschetti ordinati
sembravano scivolargli
dalle dita nel momento
stesso. in cui
scorrevano lentamente
davanti ai suoi occhi.
Pensò che non avrebbe
mai più voluto
rimettere piede a
Winsyatt.
Il cielo azzurro del
mattino era oscurato da
un alto sipario di
cirri, messaggero di
quel temporale che
abbiamo già udito a
Lyme, e ben presto la
sua mente incominciò a
tuffarsi in un’analogo
clima di cupa
introspezione.
Quest’ultima era
rivolta in misura non
trascurabile contro
Ernestina.
Sapeva che lo zio non
era stato
favorevolmente colpito
dalle sue maniere
schizzinose da
londinese e dal suo
disinteresse quasi
completo per la vita
rurale.
Per un uomo che aveva
dedicato tanta parte
della sua vita
all’allevamento, doveva
sembrare un ben
mediocre innesto nel
solido ceppo degli
Smithson.
Inoltre uno dei
vincoli tra zio e
nipote era sempre stato
il loro celibato, e
forse la felicità di
Charles aveva aperto
gli occhi a Sir Robert:
se lo fa lui, perché
non io? C’era solo una
cosa di Ernestina che
lo zio aveva
decisamente approvato:
la sua cospicua dote.
Ma era precisamente
questo che gli aveva
permesso di espropriare
Charles a cuor leggero.
Soprattutto Charles
si sentiva in una
sgradevolissima
posizione d’inferiorità
rispetto alla
fidanzata.
Il reddito del
patrimonio paterno era
sempre stato
sufficiente alle sue
necessità, ma il
capitale non era
aumentato.
Come futuro padrone
di Winsyatt aveva
potuto considerarsi
finanziariamente alla
pari con Ernestina;
come semplice “rentier”
era destinato a
dipendere
finanziariamente da
lei.
Detestando questa
prospettiva, Charles
era assai più
schizzinoso di quasi
tutti i giovani della
sua classe e della sua
età.
Per loro la caccia
alla dote (pressappoco
in questo periodo i
dollari cominciarono a
diventare rispettabili
quanto le sterline) era
un’attività onorevole
quanto la caccia alla
volpe o alla
selvaggina.
Forse era questo il
punto: si
autocommiserava e nello
stesso tempo sapeva che
pochissimi avrebbero
compreso il suo stato
d’animo.
Il suo risentimento
era poi esacerbato dal
fatto che le
circostanze non
avessero ancor più
aggravato l’ingiustizia
dello zio: se per
esempio egli avesse
trascorso più tempo a
Winsyatt o non avesse
mai conosciuto
Ernestina…
Ma fu proprio
Ernestina, insieme con
la necessità di
mostrare ancora una
volta la propria
fermezza di carattere,
la prima cosa che lo
salvò dall’infelicità
di quel giorno.

27.
“How often I sit,
poring o’er My strange
distorted youth,
Seeking in vain, in all
my store, One feeling
based on truth;…
So constant as my
heart would be, So
fickle as it must,
‘Twere well for others
and for me ‘Twere dry
as summer dust.
Excitements come, and
act and speech Flow
freely forth: - but no,
Nor they, nor aught
beside can reach The
buried world below.
A.
H. Clough, “Poem”
(1840).
“Quante volte io
siedo meditando sulla /
Mia strana distorta
giovinezza / Cercando
invano, in tutto il mio
archivio, / Un
sentimento basato sulla
verità,… / Per quanto
costante volesse essere
il mio cuore, / E per
quanto volubile fosse,
/ Per gli altri fu
sorgente e per me /
Arido come polvere
estiva. / Arrivano
emozioni, e fluiscono /
Libere azioni e parole:
- ma no, / Né esse né
altro riesce a
raggiungere / Il mondo
sepolto più in basso.
[Nota del Traduttore].
Venne ad aprire la
governante.
Il medico, disse, era
nel suo dispensario; ma
se Charles avesse
voluto attenderlo di
sopra… e così, deposto
il cappello e
l’Inverness, si trovò
ben presto nella stessa
stanza dove aveva
bevuto il grog e
proclamato la sua fede
in Darwin.
Il fuoco del
caminetto era acceso, e
tracce della cena
solitaria del medico,
che la governante
s’affrettò a
sparecchiare, erano
ancora sul tavolo tondo
nel recesso dal quale
una finestra
s’affacciava sul mare.
Poco dopo Charles udì
un rumore di passi
dalle scale.
Grogan entrò
cordialmente nella
stanza, con una mano
tesa.
E’ davvero un
piacere, Smithson.
Quella stupida non le
ha dato niente per
controbilanciare gli
effetti della pioggia?
Grazie…
Stava per rifiutare
la caraffa del brandy,
ma poi cambiò idea.
E quando ebbe il
bicchiere in mano,
arrivò subito allo
scopo della sua visita.
Ho qualcosa di molto
personale da dirle.
Ho bisogno di un suo
consiglio.
Un piccolo lampo
comparve allora negli
occhi del medico.
Già altri giovani di
buona famiglia erano
venuti a trovarlo alla
vigilia del matrimonio.
A volte si trattava
di gonorrea, più
raramente di sifilide,
in qualche occasione di
semplice paura, fobia
da masturbazione; era
diffusa in quell’epoca
la teoria secondo la
quale si scontava
l’autoerotismo con
l’impotenza.
Ma di solito era pura
ignoranza: soltanto un
anno prima, un giovane
marito infelice e senza
figli si era presentato
al dottor Grogan, il
quale aveva dovuto
spiegargli seriamente
che una nuova vita non
viene concepita e non
nasce dall’ombelico.
Davvero? Non so se me
ne restano ancora.
Oggi ne ho
distribuito una
quantità enorme.
Soprattutto su ciò
che bisognerebbe fare a
quella vecchia e
maledetta bigotta di
Marlborough House.
Ha saputo che cosa ha
combinato? E’ proprio
di questo che vorrei
parlarle.
Il medico emise un
segreto sospiro di
sollievo, e arrivò
ancora una volta alla
conclusione sbagliata.
Capisco…
Mistress Tranter è
preoccupata? Le dica da
parte mia che si sta
facendo tutto il
possibile.
E’ partita una
squadra di
soccorritori.
E io ho offerto
cinque sterline
all’uomo che la
riporterà indietro…
E la sua voce divenne
amara …o troverà il
corpo di quella povera
creatura.
E’ viva.
Ho appena ricevuto un
suo biglietto.
Charles abbassò gli
occhi davanti allo
sguardo sbalordito del
medico.
Poi, rivolgendosi da
principio al proprio
bicchiere, cominciò a
raccontare la verità
sui suoi incontri con
Sarah, o meglio quasi
tutta la verità perché
omise i suoi sentimenti
più segreti.
Riuscì anche, o
almeno ci provò, a
gettare parte della
responsabilità su
Grogan e sul loro
precedente colloquio,
attribuendosi una sorta
di posizione
scientifica che
l’astuto ometto seduto
di fronte a lui non
mancò di notare.
I vecchi medici e i
vecchi preti hanno in
comune una cosa: un
fiuto infallibile per
l’inganno, sia esso
intenzionale o, come
nel caso di Charles,
dovuto a semplice
imbarazzo.
Durante la
confessione, la punta
del naso del dottor
Grogan cominciò
metaforicamente ad
arricciarsi, e questo
invisibile
arricciamento aveva più
o meno lo stesso valore
della contrazione di
labbra di Sam.
Il medico non lasciò
apparire alcun segno
dei suoi sospetti.
Ogni tanto faceva
qualche domanda, ma in
genere lasciava che
Charles procedesse,
zoppicando sempre di
più, verso la fine del
suo racconto.
Poi si alzò.
Be’, per prima cosa
dobbiamo richiamare
quei poveri diavoli.
Ora il tuono era
molto più vicino e,
benché le tende fossero
state tirate, il bianco
fremito del fulmine
guizzava spesso nel
loro tessuto.
Sono venuto appena
possibile.
Sì, non è sua la
colpa.
Vediamo un po’
adesso…
Si era già seduto a
una piccola scrivania
in fondo alla stanza.
Per qualche istante
non si udì alcun suono
salvo il rapido
grattare della sua
penna.
Poi lesse a Charles
ciò che aveva scritto.
“Caro Forsyth, in
questo momento mi è
arrivata la notizia che
Miss Woodruff è sana e
salva.
Non vuol dire dove si
trova, ma lei può
mettersi il cuore in
pace.
Spero di saperne di
più domani.
La prego di offrire
quanto ho qui allegato
ai membri della squadra
quando ritorneranno.”
Va bene? Benissimo.
Solo che all’allegato
ci penso io.
Charles tirò fuori
una piccola borsa
ricamata, opera di
Ernestina, e posò tre
sovrane sul panno verde
del tavolo vicino a
Grogan, che ne
allontanò due e alzò
gli occhi sorridendo.
Mister Forsyth cerca
di eliminare il demone
dell’alcool.
Penso che una moneta
d’oro sia sufficiente.
Infilò il biglietto e
la moneta in una busta,
la suggellò e andò a
dare disposizioni
perché venisse
consegnata con la
massima celerità.
Tornò dicendo: In
quanto alla ragazza…
che cosa si può fare
per lei? Ha idea di
dove si trovi
attualmente?
Assolutamente no.
Ma sono sicuro che
domattina sarà dove ha
detto.
Lei però ovviamente
non potrà andarci.
Nella sua situazione
non può rischiare di
compromettersi oltre.
Charles guardò prima
lui poi il tappeto.
Sono nelle sue mani.
Il medico lo scrutò
pensosamente.
Aveva fatto un
piccolo esperimento per
sondare la mente del
suo ospite.
E aveva scoperto ciò
che si aspettava.
Si voltò, si accostò
allo scaffale accanto
alla scrivania e tornò
con lo stesso volume
che aveva mostrato a
Charles qualche sera
prima: la grande opera
di Darwin.
Si sedette di fronte
a lui, poi, con un
sorrisetto e
un’occhiatina al di
sopra delle lenti, posò
una mano, come se
stesse giurando sulla
Bibbia, sull‘“Origine
della specie”.
Nulla di ciò che è
stato o sarà detto in
questa stanza uscirà
mai di qui.
Poi mise via il
libro.
Non era necessario,
caro dottore.
La fiducia nel medico
è metà della medicina.
Charles sorrise
debolmente.
E l’altra metà? La
fiducia nel paziente.
Si alzò prima che
Charles potesse
replicare.
Be’, lei è venuto per
un consiglio, no?
Guardò l’ospite come se
si preparasse a fare a
pugni con lui: non era
più l’irlandese
scherzoso, ma
l’irlandese
attaccabrighe.
Poi cominciò a
camminare su e giù per
la sua “cabina”, con le
mani infilate sotto la
redingote.
Io sono una giovane
donna d’intelligenza
superiore e con una
certa istruzione.
Penso che il mondo mi
abbia trattata male.
Non controllo
pienamente le mie
emozioni.
Faccio cose sciocche
come buttarmi tra le
braccia del primo
bellimbusto che
incontro sul mio
cammino.
Quel che è peggio,
adoro essere vittima
del fato.
Sono diventata una
vera professionista
della melanconia.
Ho gli occhi tragici.
Piango senza ragione.
Eccetera.
Eccetera.
E adesso… il piccolo
medico agitò una mano
verso la porta, come
per invocare la magia…
entra un giovane dio.
Intelligente.
Bello.
Un esemplare perfetto
di quella classe che la
mia educazione mi ha
insegnato ad ammirare.
Vedo che si interessa
a me.
Quanto più gli appaio
triste, tanto più
sembra interessato.
M’inginocchio ai suoi
piedi e lui mi rialza.
Mi tratta come una
signora.
No, qualcosa di più.
In uno spirito di
fratellanza cristiana
si offre di aiutarmi a
sfuggire alla mia
triste sorte.
Charles fece per
interrompere, ma il
medico glielo impedì.
Inoltre sono molto
povera.
Non posso ricorrere a
nessuna di quelle
astuzie che impiegano i
membri più fortunati
del mio sesso per
indurre gli uomini alla
loro mercé.
Alzò l’indice.
Ho soltanto un’arma.
La pietà che ispiro a
quest’uomo di buon
cuore.
Ma la pietà ha
bisogno di essere
enormemente alimentata.
Ho servito a questo
buon samaritano il mio
passato e lui lo ha
divorato.
E adesso cosa posso
fare? Devo costringerlo
ad aver pietà del mio
presente.
Un giorno, mentre
passeggio dove mi è
stato proibito
passeggiare, approfitto
dell’occasione.
Mi mostro a una
persona che so che
rivelerà il mio delitto
all’unico essere che
non me lo perdonerà
mai.
Mi faccio licenziare.
Sparisco, lasciando
credere che il mio
scopo sia di buttarmi
giù dalla più vicina
scogliera.
E poi, “in extremis”
e “de profundis” - o
meglio “de altis” -
imploro l’aiuto del mio
salvatore.
Fece una lunga pausa
mentre gli occhi di
Charles incontravano
lentamente i suoi.
Il medico sorrise.
Espongo ovviamente
una versione che è in
parte ipotetica.
Ma l’accusa
specifica, che essa
avrebbe provocato il
proprio…
Il medico si sedette
e attizzò il fuoco.
Stamattina presto
sono stato chiamato a
Marlborough House.
Non sapevo perché…
sapevo soltanto che
Mistress P. era
gravemente indisposta.
Mistress Fairley, la
governante, mi ha
raccontato il nocciolo
di quel che era
accaduto.
Fece una pausa e
fissò gli occhi tristi
di Charles.
Ieri Mistress Fairley
era andata alla Cascina
di Ware Cleeves.
E la ragazza è uscita
scopertamente dal bosco
sotto il suo naso.
Ora questa donna è
una degna equivalente
della sua padrona e
sono convinto che ha
fatto il suo dovere con
tutto il meschino
entusiasmo della gente
della sua risma.
Sono però persuaso,
mio caro Smithson, che
fu deliberatamente
sollecitata a farlo.
Vuol dire…
Il medico annuì.
Charles gli lanciò
una terribile occhiata,
poi si ribellò: Non
posso crederlo.
Non è possibile che….
Non finì la frase.
Il medico mormorò: E’
possibile.
Purtroppo Ma solo una
persona…
Stava per dire dalla
mente alterata, ma si
alzò bruscamente,
s’accostò alla
finestra, scostò le
tendine e rimase per un
attimo a fissare la
notte brulicante.
La luce livida di un
lampo diffuso
illuminava il Cobb; la
spiaggia, il torbido
mare.
Si voltò.
In altre parole sono
stato menato per il
naso.
Credo di sì.
Ma occorreva un naso
generoso.
E deve comunque tener
presente che una mente
sconvolta non è una
mente criminale.
Nel caso specifico
deve pensare a una
malata di disperazione,
niente di più o di
meno.
Questa ragazza,
Smithson, ha un colera
o un tifo alle proprie
facoltà intellettuali.
E’ così che deve
vederla.
Non come
un’intrigante
maliziosa.
Charles tornò nella
stanza.
E quale crede che sia
la sua intenzione
finale? Dubito molto
che la conosca.
E’ una donna che vive
alla giornata.
Non può fare altro.
Nessuna persona
previdente si sarebbe
mai comportata così.
Ma non può aver
seriamente pensato che
un uomo nella mia
posizione…
Un fidanzato? Il
medico sorrise
sardonicamente.
Ho conosciuto molte
prostitute.
Nel perseguimento
della mia professione,
preciso, non della
loro.
E vorrei avere una
ghinea per ognuna di
quelle che ho sentito
gongolare per il fatto
che la maggioranza
delle sue vittime è
costituita da padri e
mariti.
Contemplava il fuoco
e il proprio passato.
Mi hanno messa al
bando ma mi vendicherò!
Da come ne parla lei,
sembrerebbe una specie
di demonio, ma non è
così.
Aveva parlato con
troppa veemenza e
s’affrettò a
distogliere lo sguardo.
Non riesco a credere
che lo sia.
Questo perché, se
permette che glielo
dica un uomo abbastanza
vecchio per esserle
padre, lei ne è un po’
innamorato.
Charles si voltò di
scatto e fissò il viso
mellifluo del medico.Io
non glielo permetto.
Grogan chinò il capo.
Nel silenzio Charles
soggiunse: E’
estremamente insultante
per Miss Freeman.
Certo.
Ma chi è che la
insulta? Charles
deglutì.
Non riuscendo a
sopportare quegli occhi
maliziosi, s’avviò per
quella stanza lunga e
stretta come se volesse
andarsene.
Ma prima che potesse
arrivare alla porta,
Grogan gli aveva preso
un braccio
costringendolo a
voltarsi e aveva
afferrato anche l’altro
come un terrier che
mettesse a repentaglio
la sua dignità.
Amico, amico, non
siamo forse persone che
credono nella scienza?
Non sosteniamo forse
che la verità è il solo
principio guida? Perché
è morto Socrate? Per
salvar la faccia? Per
rendere omaggio alla
buona creanza? Crede
che nei miei
quarant’anni di
medicina non abbia
imparato a capire
quando un uomo è nei
guai? E il motivo per
cui nasconde la verità
anche a se stesso?
Conosci te stesso,
Smithson, conosci te
stesso! Questa
mescolanza di fuochi
ellenici e gaelici
valse a cauterizzare
Charles.
Egli guardò il
medico, poi volse lo
sguardo altrove e tornò
al caminetto volgendo
le spalle al suo
tormentatore.
Ci fu una lunga
pausa.
Grogan lo fissava
intensamente.
Infine Charles parlò.
Io non sono fatto per
il matrimonio.
La mia disgrazia è di
essermene accorto
troppo tardi.
Ha letto Malthus?
Charles scosse il capo.
Secondo lui la
tragedia dell‘“homo
sapiens” è che i meno
adatti a sopravvivere
sono quelli che
procreano di più.
Non dica quindi di
non essere fatto per il
matrimonio, ragazzo
mio.
E non si rimproveri
di essersi innamorato
di quella ragazza.
Credo di sapere
perché quel marinaio
francese è fuggito.
Si era accorto che
aveva occhi nei quali
un uomo rischiava di
annegare.
Charles, angosciato,
si voltò verso di lui:
Sul mio onore, non è
accaduto nulla di
scorretto tra di noi.
Deve credermi.
Le credo.
Ma mi permetta di
sottoporla al vecchio
catechismo.
Desidera vederla?
Desidera ascoltarla?
Desidera toccarla? Di
nuovo Charles distolse
lo sguardo e si lasciò
cadere sulla poltrona
nascondendosi il viso
tra le mani.
Non era una risposta
ma diceva tutto.
Un attimo dopo alzò
il viso e tornò a
fissare il fuoco.
Oh, mio caro Grogan,
se lei sapesse in quale
disordine è la mia
vita… il suo spreco… la
sua inutilità…
Non ho né un fine
morale né il senso del
dovere.
Mi sembra che siano
passati solo pochi mesi
da quando avevo ventun
anni, ed ero pieno di
speranze… tutte deluse.
E adesso trovarmi
impigliato in questa
miserabile storia…
Grogan gli venne
accanto e lo afferrò
stretto a una spalla.
Lei non è il primo a
dubitare della sposa
che si è scelto.
Capisce così poco di
come realmente sono.
Cos’ha? Una dozzina
d’anni meno di lei? E
la conosce da meno di
sei mesi.
Come potrebbe averla
già capita? E’ appena
uscita da scuola.
Charles annuì
tristemente.
Non poteva confidare
al medico ciò che
veramente pensava di
Ernestina: che non lo
avrebbe capito mai.
Era stato
terribilmente deluso
dalla propria
intelligenza.
Lo aveva abbandonato
quando si era trattato
di scegliere una
compagna; come tanti
vittoriani, e forse
come altri uomini di
epoche più recenti,
Charles avrebbe vissuto
tutta la vita sotto
l’influsso dell’ideale.
Ci sono uomini che si
consolano pensando che
esistono donne meno
attraenti delle loro
mogli, e altri che sono
ossessionati dalla
consapevolezza che ne
esistono di più
attraenti.
Charles comprese ora,
anche con troppa
chiarezza, a quale
categoria apparteneva
lui.
Non è colpa sua
mormorò.
Non può esserlo.
Non lo credo
neanch’io.
Una ragazza così
graziosa e innocente.
Farò onore ai miei
impegni.
Certo.
Una pausa.
Mi dica cosa devo
fare.
Mi dica prima lei
quali sono i suoi veri
sentimenti per l’altra.
Charles alzò gli
occhi disperato, poi li
abbassò sul fuoco,
infine cercò di dire la
verità.
Non ne sono in grado.
Per tutto quello che
la concerne, sono un
enigma ai miei stessi
occhi.
Non l’amo.
Come potrei? Una
donna così compromessa,
una donna, come lei mi
dice, mentalmente
malata.
Ma… è come se… mi
sembra di essere un
uomo posseduto contro
la sua volontà, contro
quello che c’è di
meglio nel suo
carattere.
Persino adesso ho
davanti agli occhi il
suo viso e mi smentisce
tutto quello che lei mi
dice.
C’è qualcosa in
quella ragazza.
Una conoscenza, una
comprensione di cose
più nobili di quelle
legate alla malvagità o
alla follia.
Al di sotto delle
scorie…
Non riesco a
spiegarmi.
Non ho parlato di
malvagità.
Ma di disperazione.
Nessun rumore tranne
lo scricchiolio di
un’assicella o due
sotto i passi del
medico.
Poi Charles parlò
ancora.
Cosa mi consiglia? Di
mettere tutto nelle mie
mani.
Andrà lei a parlarle?
Mi metterò gli
scarponi.
Le dirò che
all’improvviso lei ha
dovuto partire.
E lei deve partire,
Smithson.
Per puro caso ho
affari urgenti da
sbrigare a Londra.
Tanto meglio.
Ma prima di
andarsene, le
suggerisco di
raccontare tutto a Miss
Freeman.
Lo avevo già deciso.
Charles si alzò.
Ma davanti ai suoi
occhi c’era ancora quel
viso.
E Miss Woodruff… cosa
intende fare? Dipende
molto dal suo stato
d’animo.
Può darsi benissimo
che in questo momento
il suo equilibrio
dipenda interamente dal
credere nella simpatia
- e magari in qualcosa
di più dolce - che lei
le ha dimostrato.
Il trauma del non
vederla comparire,
temo, può provocare una
melanconia ancora più
grave.
Ho paura che dobbiamo
aspettarcelo.
Charles abbassò gli
occhi.
Non deve farsene una
colpa.
Se non ci fosse stato
lei, sarebbe toccato a
qualcun altro.
In un certo senso,
questa situazione
renderà tutto più
facile.
Saprò quale strada
seguire.
Charles fissava il
tappeto.
Un manicomio.
Quel collega cui le
accennai, ha le mie
stesse opinioni sulla
maniera di curare
questi casi.
Faremo del nostro
meglio.
Lei è disposto ad
assumersi certe spese?
Qualunque cosa pur di
sbarazzarmi di quella
donna… senza farle del
male.
Conosco una casa di
salute privata a
Exeter.
Il mio amico Spencer
ha lì dei pazienti.
E’ condotta in modo
intelligente e
illuminato.
Non raccomanderei mai
a questo punto
un’istituzione
pubblica.
Il cielo ce ne
guardi! Ho sentito
raccontare cose
spaventose.
Stia tranquillo.
Questo luogo nel suo
genere è un modello.
Non si tratta di
farla rinchiudere?
Nella mente di Charles
aveva fatto capolino il
fantasma del
tradimento: discutere
di lei in questi
termini clinici,
pensarla chiusa in una
cameretta…
Niente affatto.
Stiamo parlando di un
luogo dove le sue
ferite spirituali
potranno rimarginarsi,
dove sarà trattata con
gentilezza, dove la
terranno occupata e
dove avrà il beneficio
dell’esperienza e delle
cure di Spencer.
Egli ha già avuto
casi simili e sa che
cosa deve fare.
Charles, dopo una
breve esitazione, si
alzò e gli porse la
mano.
Nella sua attuale
situazione aveva
bisogno di ordini e di
prescrizioni, e adesso
che li aveva avuti si
sentiva meglio.
Penso che lei mi
abbia salvato la vita.
Sciocchezze, amico
mio.
No, non sono
sciocchezze.
Sarò in debito con
lei per il resto dei
miei giorni.
Mi permetta allora di
scrivere il nome della
sua sposa sulla nota
del credito.
Onorerò il mio
debito.
E dia tempo a
quell’incantevole
creatura.
I vini migliori non
sono forse quelli che
ci mettono più tempo a
maturare? Temo che nel
mio caso si possa dire
lo stesso di una
vendemmia molto
mediocre.
Bah.
Sciocchezze.
Il medico gli diede
una manata sulla
spalla.
A proposito, lei
legge il francese,
vero? Charles,
sorpreso, assentì.
Grogan allora cercò
negli scaffali, trovò
un libro, e ne segnò un
brano con la matita
prima di passarlo al
suo ospite.
Non ha bisogno di
leggere l’intero
processo.
Ma mi piacerebbe che
leggesse questa perizia
medica presentata dalla
difesa.
Charles guardò il
volume: Una purga?.
Il medico sorrise
come uno gnomo.
Qualcosa del genere.
28.
“Assumptions, hasty,
crude, and vain, Full
oft to use will Science
deign; The corks the
novice plies today The
swimmer soon shall cast
away.” A. H. Clough,
“Poem” (1840).
“Di presupposti
frettolosi, rozzi e
vani, / Assai spesso la
Scienza accondiscende a
servirsi; / I
salvagente che adopera
oggi l’inesperto, /
Verranno presto buttati
via dal nuotatore.
[Nota del Traduttore].
“Again I spring to
make mi choice; Again
in tones of ire I hear
a God’s tremendous
voice Be counsell’d and
retire!” Matthew
Arnold, “The Lake”
(1853).
“Di nuovo mi
precipito a fare la mia
scelta, / Di nuovo in
un tono d’ira / Odo la
voce terribile di un
Dio - / “Sii saggio e
ritirati!.
[Nota del
Traduttore].

Il processo del
tenente Emile de La
Roncière, celebrato nel
1835, è, sotto
l’aspetto psichiatrico,
uno dei casi più
interessanti del primo
Ottocento.
Figlio del conte de
La Roncière, ufficiale
rigorosissimo, Emile
era sicuramente un
giovane piuttosto
frivolo - aveva
un’amante e molti
debiti - ma tutt’altro
che atipico del suo
paese, della sua epoca
e della sua
professione.
Nel 1834 era stato
assegnato alla famosa
scuola di equitazione
di Saumur nella valle
della Loira.
Il suo comandante, il
barone de Morell, aveva
una figlia
ipersensibile di sedici
anni di nome Marie.
A quell’epoca nelle
città di guarnigione le
case dei comandanti
venivano usate come
mensa dai loro
subordinati.
Una sera il barone,
caparbio come il padre
di Emile ma molto più
influente, convocò il
tenente e, presenti
altri ufficiali e
parecchie signore gli
ordinò irosamente di
lasciare la sua casa.
L’indomani venne
mostrata a La Roncière
una serie di perfide
lettere che
minacciavano la
famiglia Morell.
Rivelavano tutte una
straordinaria
conoscenza dei
particolari più intimi
dell’esistenza
familiare e tutte -
prima falla assurda
della tesi d’accusa -
erano firmate con le
iniziali del tenente.
Ma il peggio doveva
ancora venire.
La notte del 24
settembre 1834 una
certa Miss Allen, la
governante inglese di
Marie, venne svegliata
dalla ragazza, la quale
le raccontò piangendo
che poco prima La
Roncière, in uniforme,
era penetrato di forza
nella sua camera
attraverso la finestra,
aveva sprangato la
porta, le aveva fatto
delle minacce oscene,
l’aveva colpita al
seno, le aveva morso
una mano e infine
l’aveva costretta ad
alzare la camicia da
notte per ferirla alla
coscia.
Dopo di che era
fuggito nella medesima
direzione da cui era
arrivato.
Il mattino dopo un
altro tenente, che a
quanto si diceva era il
prediletto di Marie de
Morell, ricevette una
lettera estremamente
insultante che pareva
anch’essa scritta da La
Roncière.
Si batterono a
duello.
La Roncière vinse ma
l’avversario,
gravemente ferito, e il
suo secondo non vollero
ammettere che l’accusa
concernente le lettere
era infondata.
Minacciarono anzi La
Roncière di raccontare
tutto a suo padre se
non avesse firmato una
confessione di
colpevolezza,
aggiungendo che, se
avesse fatto questo,
avrebbero seppellito
l’intera faccenda.
Dopo una notte di
angosciosa indecisione,
La Roncière acconsentì
stupidamente a firmare.
Poi chiese una
licenza e andò a Parigi
convinto che la cosa
fosse ormai stata messa
a tacere.
Ma a casa Morell
continuavano ad
arrivare lettere con la
sua firma.
Alcune sostenevano
che Marie era incinta,
altre che i suoi
genitori sarebbero
stati presto
assassinati.
Il barone si
spazientì e La Roncière
venne arrestato.
Il numero delle
circostanze favorevoli
all’imputato era
talmente alto che oggi
ci è difficile credere
che possano averlo
processato.
Per cominciare a
Saumur tutti sapevano
che Marie si era offesa
perché La Roncière
aveva palesemente
mostrato la sua
ammirazione per la
bella madre di lei di
cui era estremamente
invidiosa.
Inoltre, la notte del
tentato stupro, la
dimora dei Morell era
circondata da
sentinelle, e nessuno
aveva notato niente
d’insolito, benché la
camera dove avrebbe
dovuto svolgersi il
fatto fosse all’ultimo
piano e raggiungibile
soltanto con una scala
che per essere portata
e “montata” esigeva
almeno tre uomini, una
scala dunque che
avrebbe lasciato tracce
sul terreno molle sotto
la finestra… e la
difesa dimostrò che
tracce non ce n’erano.
In più il vetraio
chiamato a riparare il
danno arrecato
dall’intruso testimoniò
che tutti i frammenti
di vetro erano caduti
fuori della casa, e che
sarebbe stato comunque
impossibile raggiungere
il saliscendi della
finestra attraverso
quella piccola
apertura.
Poi la difesa chiese
perché durante
l’aggressione Marie non
avesse mai invocato
aiuto; perché Miss
Allen, che aveva il
sonno leggero, non
fosse stata svegliata
da quel tafferuglio;
perché le due donne
fossero poi tornate a
letto senza svegliare
Madame de Morell che
per tutta la durata
dell’episodio continuò
a dormire al piano di
sotto; perché la ferita
alla coscia non fosse
stata esaminata se non
qualche mese dopo
l’incidente (quando la
definirono una leggera
scalfittura non ancora
del tutto rimarginata),
perché Marie fosse
andata a ballare solo
due sere dopo e avesse
condotto una vita
assolutamente normale
sino al momento
dell’arresto, quando
all’improvviso ebbe un
crollo nervoso (e la
difesa dimostrò che non
era certo il primo
della sua giovane
vita); come potessero
arrivare lettere anche
quando La Roncière era
in carcere e senza
denaro ad aspettare il
processo; perché un
autore di lettere
anonime in possesso
delle proprie facoltà
mentali dovesse non
soltanto non camuffare
la propria scrittura
(che era facilmente
imitabile) ma firmare
con le proprie
iniziali; perché le
lettere mostrassero una
precisione
dell’ortografia e della
grammatica (agli
studenti di francese
farà piacere sapere che
La Roncière dimenticava
invariabilmente di far
concordare i suoi
participi passati)
chiaramente inesistente
nella corrispondenza
autentica presentata
per il confronto;
perché per ben due
volte non fosse
riuscito a scrivere
correttamente il suo
stesso nome; perché le
lettere incriminate
risultassero scritte su
fogli che - come
attestò il massimo
esperto dell’epoca -
erano identici a una
risma trovata nello
scrittoio di Marie.
Insomma tanti perché.
Come ultimo dubbio,
la difesa fece notare
che una serie analoga
di lettere era stata
trovata nella casa
parigina dei Morell in
un’epoca in cui La
Roncière era dall’altra
parte del mondo poiché
prestava servizio in
Caienna.
Ma la suprema
ingiustizia del
processo (cui
assistettero, con molte
altre celebrità, Hugo,
Balzac e George Sand)
fu il rifiuto da parte
della corte di
autorizzare il
controinterrogatorio
della principale teste
d’accusa, Marie de
Morell.
Essa depose con voce
calma e distaccata, ma
il presidente del
tribunale, sotto gli
occhi simili a bocche
di cannone del barone e
un’imponente falange di
illustri consanguinei,
decise che il “pudore”
e il “debole stato
nervoso” della ragazza
impedivano di
interrogarla
ulteriormente.
La Roncière fu
riconosciuto colpevole
e condannato a dieci
anni di reclusione.
Quasi tutti i più
eminenti giuristi
d’Europa protestarono,
ma inutilmente.
Oggi è evidente
perché venne
condannato, o meglio da
che cosa: dal prestigio
sociale, dal mito della
vergine dalla mente
pura, dall’ignoranza in
fatto di psicologia, da
una società che reagiva
con vigore alle
perniciose idee di
libertà disseminate
dalla Rivoluzione
francese.
Permettetemi ora di
tradurre le pagine
segnate dal dottor
Grogan.
Sono tratte dalle
“Observations médico-
psychologiques” di un
certo dottor Karl
Matthaei, un notissimo
medico tedesco
dell’epoca, e sono
state scritte per
appoggiare un abortito
tentativo di appello
contro il verdetto La
Roncière.
Matthaei aveva già
avuto l’intelligenza di
annotare le date delle
lettere più oscene, che
culminavano nel
presunto tentativo di
stupro.
Esse si susseguivano
a una cadenza mensile,
o mestruale.
Dopo aver analizzato
le prove presentate in
tribunale, Herr Doktor
passa a spiegare, in
termini un tantino
moralistici, quella
malattia mentale che
noi oggi chiamiamo
isteria e che consiste
nel rivelare sintomi di
malattia o d’infermità
per conquistarsi
l’attenzione o la
simpatia altrui: una
forma di nevrosi o di
psicosi quasi
invariabilmente
provocata, come oggi
sappiamo, dalla
repressione sessuale.
“Se ripenso alla mia
lunga carriera di
medico, ricordo molti
episodi che hanno avuto
per protagonisti delle
ragazze, anche se la
loro partecipazione
parve per lungo tempo
impossibile…
Circa quaranta anni
or sono, avevo tra i
miei pazienti la
famiglia di un tenente
generale di cavalleria.
Egli possedeva una
piccola proprietà a sei
miglia dalla città dove
era di guarnigione e ci
viveva recandosi in
città ogni volta che i
suoi doveri lo
esigevano.
Aveva una figlia
eccezionalmente
graziosa di sedici
anni, la quale
desiderava con fervore
che suo padre si
trasferisse in città.
Quali fossero
esattamente le sue
ragioni non si è mai
scoperto, ma è
probabile che
desiderasse la
compagnia degli
ufficiali e i piaceri
della società urbana.
Per realizzare le sue
aspirazioni, scelse un
metodo decisamente
criminale: diede cioè
fuoco alla casa di
campagna.
Un’ala venne
totalmente distrutta
dalle fiamme ma fu poi
ricostruita.
Seguirono nuovi
tentativi, e un giorno
bruciò nuovamente una
parte della casa.
Seguirono almeno
altri trenta tentativi.
Ma per quanto si
indagasse
sull’incendiario, la
sua identità non venne
mai scoperta.
Molte persone furono
arrestate e interrogate
e l’unica sulla quale
non si posarono mai i
sospetti fu la bella e
innocente figliola.
Solo dopo parecchi
anni, la colsero
finalmente sul fatto e
la condannarono alla
reclusione perpetua da
scontarsi in una casa
di correzione.
In una grande città
tedesca, un’incantevole
ragazza di ottima
famiglia si divertiva a
spedire lettere anonime
allo scopo di far
naufragare un recente
matrimonio felice.
Diffondeva inoltre
voci perfidamente
scandalistiche su
un’altra giovane donna
assai ammirata per il
suo ingegno e quindi
oggetto di invidia.
Queste lettere
continuarono per
parecchi anni.
Sulla loro autrice
non cadde mai il minimo
sospetto, mentre
vennero accusate molte
altre persone.
Infine la vera
colpevole si tradì,
venne processata e
confessò la sua colpa…
Scontò poi una lunga
condanna per la sua
malvagità.
Inoltre, nel momento
e nel luogo stesso in
cui scrivo, (1) la
polizia sta indagando
su un caso analogo…
Si può obiettare che
Marie de Morell non si
sarebbe mai inflitta
una pena per
raggiungere i propri
fini.
Ma le sue sofferenze
furono minime in
confronto a quelle di
altri casi registrati
negli annali della
medicina.
Ecco qualche esempio
singolare.
Il professor Herholdt
di Copenaghen conosceva
un’attraente signorina
di ottima cultura e di
famiglia benestante.
E come molti suoi
colleghi se ne lasciò
completamente
ingannare.
Costei diede prova di
abilità e perseveranza
estreme nel compiere i
propri inganni per
parecchi anni
consecutivi.
Arrivò persino a
torturarsi nella
maniera più atroce.
Immerse alcune
centinaia di aghi nella
carne di varie parti
del suo corpo, e ogni
volta che incominciava
un processo di
infiammazione o di
suppurazione, li faceva
estrarre mediante
un’incisione.
Si rifiutava di
orinare e ogni mattina
bisognava svuotarle la
vescica mediante un
catetere.
Introduceva
volutamente nella
vescica stessa
dell’aria che usciva
quando si inseriva
quello strumento.
Per un anno e mezzo
rimase muta e immobile,
rifiutando il cibo e
fingendo spasmi,
svenimenti eccetera.
Prima che si
scoprissero i suoi
trucchi, venne visitata
da molti medici, alcuni
dei quali stranieri,
che rimasero inorriditi
alla vista di tali
sofferenze.
La sua triste storia
era su tutti i giornali
e nessuno dubitava
dell’autenticità di
quelle pene.
La verità fu scoperta
soltanto nel 1826.
I soli motivi di
“cette adroite
trompeuse” erano di
diventare oggetto di
ammirazione e stupore
agli occhi degli uomini
e di farsi beffa dei
più colti, dei più
famosi e dei più
intelligenti.
La storia di questo
caso, così importante
sotto l’aspetto
psicologico, si può
trovarla in Herholdt,
“Appunti sulla malattia
di Rachel Hertz tra il
1807 e il 1826”.
A Lneburg due donne,
madre e figlia,
ordirono un piano il
cui scopo era di
attrarre su di loro una
simpatia redditizia, e
lo perseguirono sino
alla fine con
spaventosa risolutezza.
La figlia si
lamentava di un dolore
intollerabile al seno,
piangeva e gemeva,
chiedeva aiuto ai
medici, provava tutti i
loro rimedi.
Poiché il dolore
persisteva, si sospettò
che soffrisse di
cancro.
Accettò allora senza
esitare che le
asportassero una
mammella, la quale, si
scoprì, era
perfettamente sana.
Qualche anno dopo,
quando la simpatia per
lei si era ormai
attenuata, tornò a
recitare la medesima
parte.
Le asportarono
l’altra mammella e
scoprirono che era sana
quanto la prima.
Quando poi la
simpatia cominciò di
nuovo a esaurirsi, si
lamentò di dolori a una
mano.
Voleva che anch’essa
venisse amputata.
Ma la cosa destò
qualche sospetto.
La mandarono in
ospedale, l’accusarono
di frode e finirono per
imprigionarla.
Lentin racconta
questa storia di cui fu
testimone in
“Supplemento a una
conoscenza pratica
della medicina”
(Hannover, 1798).
A una ragazza
abbastanza giovane
furono estratte con un
forcipe, dopo aver
inciso la vescica, non
meno di centoquattro
pietre in dieci mesi.
Lei stessa ve le
aveva introdotte,
benché le successive
operazioni le
causassero grandi
emorragie e dolori
atroci.
In precedenza aveva
avuto crisi di vomito,
convulsioni e sintomi
violenti di vario
genere.
Nei suoi inganni
mostrava un’abilità
eccezionale.
Dopo questi esempi,
che sarebbe facile
aumentare, chi può
ancora sostenere che
una ragazza non riesca
a infliggersi una pena
per raggiungere un fine
desiderato?” (2)

Queste pagine furono


le prime che Charles
lesse.
Ne ebbe una scossa
brutale poiché non
immaginava neanche
l’esistenza di tali
perversioni, e per di
più nel sesso puro e
sacro.
Inoltre, ovviamente,
non poteva considerare
la malattia mentale di
tipo isterico per ciò
che essa è: uno sforzo
pietoso per trovare
amore e sicurezza.
Tornò all’inizio del
resoconto del processo
e se ne lasciò
interamente assorbire.
E’ forse superfluo
aggiungere che si
identificò quasi subito
con lo sventurato Emile
de La Roncière; ma
verso la fine del
processo s’imbatté in
una data che lo fece
rabbrividire.
Il giorno in cui
questo altro tenente
francese era stato
condannato coincideva
con quello in cui lui,
Charles, era venuto al
mondo.
Per un attimo, in
quella silenziosa notte
del Dorset, ragione e
scienza si dissolsero;
la vita era una
macchina oscura,
un’astrologia sinistra,
un verdetto senza
appello, uno zero
totale.
Non si era mai
sentito meno libero.
Non si era neanche
mai sentito meno
assonnato.
Guardò l’orologio.
Mancavano dieci
minuti alle quattro.
Fuori adesso era
tutto calmo.
La tempesta era
passata.
Charles aprì una
finestra e respirò la
fredda ma limpida aria
della primavera.
Sopra di lui
ammiccavano debolmente
le stelle innocenti,
che negavano qualsiasi
influenza, sinistra o
benefica.
E lei dov’era?
Anch’essa sveglia, a un
miglio o due di
distanza, in qualche
angolo umido e oscuro
del bosco.
Gli effetti del
“cobbler” e del brandy
di Grogan erano svaniti
da tempo, e avevano
lasciato in Charles
solo un profondo senso
di colpa.
Pensò di aver
riscontrato negli occhi
del medico irlandese
una certa malizia, come
se fosse stata sua
intenzione archiviare i
guai di questo fatuo
gentiluomo londinese in
attesa di sussurrarli e
diffonderli in tutta
Lyme.
Non era forse ben
noto che gli irlandesi
non sapevano mantenere
un segreto? Come era
stato puerile e privo
di dignità il suo
comportamento! In un
solo giorno aveva
perduto non solo
Winsyatt ma il rispetto
di sé.
Anche quest’ultima
frase era una
tautologia: aveva più
semplicemente perduto
il rispetto per tutto
ciò che conosceva.
La vita era una fossa
di manicomio.
Dietro i volti più
innocenti si
nascondevano le più
abiette iniquità.
Charles era un Sir
Galahad al quale
avevano dimostrato che
Ginevra era una
puttana.
Per interrompere
queste futili
meditazioni - oh, se
avesse potuto AGIRE! -
riprese quel libro
fatale e rilesse alcuni
brani del saggio di
Matthaei sull’isteria.
Ora vi riscontrava
meno somiglianze con il
comportamento di Sarah.
Il suo senso di colpa
cominciò ad aderire al
suo giusto oggetto.
Cercò di ricordare il
suo viso, le cose che
lei aveva detto,
l’espressione dei suoi
occhi mentre le diceva;
ma non riusciva a
rivederla.
Sospettò tuttavia di
conoscerla meglio,
forse, di qualsiasi
altro essere umano.
In quanto al
resoconto dei loro
incontri che aveva
fatto a Grogan…
QUESTO sì che lo
ricordava, quasi parola
per parola.
Non aveva forse
ingannato Grogan
nell’ansia di
nascondere i propri
veri sentimenti?
Esagerato la stranezza
del comportamento di
lei? Trascurato di
riferire veracemente
ciò che lei aveva
detto? Non l’aveva
condannata per evitare
di condannare se
stesso? Misurava a
grandi passi il suo
salottino, frugandosi
nell’anima e
nell’orgoglio ferito.
E se fosse stata
quale si era mostrata a
lui: peccatrice, certo,
ma anche donna di
singolare coraggio che
rifiutava di volgere le
spalle al proprio
peccato? E fosse ora
indebolita da questa
terribile battaglia con
il suo passato e pronta
a invocare aiuto?
Perché aveva permesso a
Grogan di giudicarla in
vece sua? Perché si
preoccupava più di
salvare le apparenze
che la propria anima.
Perché non era più
libero di un ammonite.
Perché era un Ponzio
Pilato, peggio anzi, in
quanto non solo
tollerava la
crocifissione ma la
favoriva, o meglio -
l’origine non era forse
tutta in quel secondo
incontro quando lei
voleva andarsene ma era
stata costretta a
discutere sulla propria
situazione? - provocava
gli avvenimenti che ora
portavano al suo
attuarsi.
Riaprì la finestra.
Erano trascorse due
ore da quando lo aveva
fatto la prima volta.
Adesso, verso
oriente, si notava una
pallida luce.
Levò lo sguardo verso
le stelle che stava no
sbiadendo Destino.
Quegli occhi.
Si voltò bruscamente.
Se si fosse imbattuto
in Grogan, pazienza.
La sua coscienza
avrebbe spiegato la sua
disobbedienza.
Andò nella stanza da
letto.
E qui, con un’arcigna
gravità esteriore che
rifletteva l’intima
inquietante e
indecifrabile decisione
cui era arrivato,
cominciò a cambiarsi
d’abito.
NOTE.
Nota 1.
Hannover 1836.
Nota 2.
Non posso chiudere la
storia di La Roncière -
che ho tratto da quello
stesso resoconto del
1835 che il dottor
Grogan consegnò a
Charles - senza
aggiungere che nel
1848, quando da qualche
anno il tenente aveva
ormai scontato la sua
condanna, uno degli
avvocati di parte
civile fu, sia pur
tardivamente, così
onesto da sospettare di
aver contribuito a
provocare un grossolano
errore giudiziario.
La sua posizione gli
permise di riaprire il
caso.
E La Roncière,
completamente
discolpato, venne
riabilitato.
Riprese la sua
carriera militare ed è
probabile che, nello
stesso momento in cui
Charles leggeva di quel
doloroso momento della
sua vita, stesse
conducendo un’esistenza
abbastanza piacevole
come governatore
militare di Tahiti.
Ma la sua storia
riserva un’ultima
straordinaria sorpresa.
Solo in epoca
abbastanza recente si è
scopetto che egli
meritava almeno in
parte la vendetta che
Mademoiselle de Morell
aveva scatenato su di
lui.
Per la verità
definitiva, insieme
oscena e assurda, sugli
avvenimenti di quella
notte del settembre
1834 - notte nella
quale la rappresentante
della “perfide Albion”,
la governante Miss
Allen, non si comportò
certo in modo molto
onorevole - devo
rimandare il lettore a
René Floriot, “Les
Erreurs Judiciaires”,
Parigi 1968.

29.
“For a breeze of
morning moves, And the
planet of Love is on
high…” Tennyson, “Maud”
(1855).
“Perché soffia una
brezza del mattino, / E
in alto è il pianeta
dell’Amore…” [Nota del
Traduttore].
“E’ segno di
particolare prudenza
non fare mai nulla
perché si è portati a
farlo, ma solo perché
si deve o è ragionevole
farlo”.
Matthew Arnold,
“Notebooks” (1868).

Il sole rosso stava


abbandonando le onde
inconsistenti color
grigio tortora delle
colline dietro il
Chesil Bank, quando
Charles, che se ancora
non indossava gli abiti
di un plorante
professionista ne aveva
però l’espressione,
varcò la porta del
White Lion.
Il cielo era privo di
nubi, lavato e
purificato dal
temporale della notte
precedente e divenuto
di un azzurro
deliziosamente tenero
ed etereo; l’aria,
pungente come succo di
limone, era pura e
purificante.
Se oggi a Lyme vi
alzaste a quell’ora,
avreste la città tutta
per voi.
Charles, in
quell’epoca mattiniera,
non aveva la stessa
fortuna; ma le persone
che s’aggiravano per le
strade avevano quella
simpatica mancanza di
pretese mondane e
quella anonimità
primitiva che è propria
della popolazione
dell’alba: gente
semplice che si
accingeva a un’altra
giornata di lavoro.
Uno o due lo
salutarono gaiamente e
ne ebbero in cambio
cenni del capo
eccessivamente foschi e
sbrigativi sollevamenti
di bastone.
Piuttosto che
incontrare quei visi
allegri, egli avrebbe
preferito vedere le
strade cosparse di
qualche simbolico
cadavere; fu quindi
contento quando si
lasciò alle spalle la
città e imboccò il
viottolo che conduceva
all’Undercliff.
Ma la sua tetraggine
(e il sospetto, da me
tenuto nascosto, che la
sua decisione fosse in
realtà basata più su
una pericolosa
disperazione che su
nobili impulsi della
coscienza) qui non fece
che aggravarsi; i suoi
passi rapidi gli
facevano scorrere nelle
vene un flusso di
calore, e questo calore
interno era completato
dal calore esterno che
portavano i raggi del
sole.
Sembrava curiosamente
vivo, il sole terso
dell’alba.
Aveva quasi un odore,
simile a quello di una
pietra calda, una
pungente polvere di
fotoni che scendeva
attraverso la spazio.
Ogni filo d’erba era
imperlato di vapore.
Sui pendii
sovrastanti il
sentiero, i tronchi dei
frassini e dei
sicomori, miele dorato
nei raggi obliqui del
sole, erigevano le loro
verdi e rugiadose volte
di giovani foglie;
c’era in loro qualcosa
di misteriosamente
religioso, ma di una
religione di prima
della religione; un
balsamo druido, una
verde dolcezza su tutte
le cose… un’infinità di
verdi, alcuni quasi
neri negli estremi
recessi del fogliame,
dal verde veronese più
intenso al verde mela
più pallido.
Una volpe attraversò
il sentiero e
curiosamente si fermò
un attimo a guardare
Charles come se fosse
stato lui l’intruso; e
un attimo dopo, con
fantastica
similitudine, con la
stessa divina
assunzione di possesso,
un capriolo alzò il
capo dal suo brucare e
lo fissò nella sua
piccola maestà prima di
andarsene tranquillo e
di sparire tra i
cespugli.
C’è un quadro di
Pisanello alla National
Gallery che coglie
esattamente questo
momento: Sant’Uberto in
una foresta del primo
Rinascimento, messo a
confronto con uccelli e
bestie.
Il santo è
scandalizzato, quasi
come se fosse vittima
di una burla, e tutta
la sua arroganza è
spenta da una doccia
improvvisa del più
profondo segreto della
natura: la parità
universale
dell’esistenza.
Non erano soltanto
questi due animali che
sembravano carichi di
significato.
Gli alberi
pullulavano di uccelli
canterini: capinere,
silvie, tordi, merli e
il tubare dei colombi
selvatici a riempire
quell’alba immota della
serenità della sera, ma
senza la sua tristezza,
senza le sue note
elegiache.
Charles aveva
l’impressione di
camminare nelle pagine
di un bestiario, e
talmente bello, così
minuziosamente preciso,
che ogni foglia, ogni
uccellino, ogni canto
proveniva da un mondo
perfetto.
Si fermò un momento
colpito da questo senso
di un universo
squisitamente
particolare, nel quale
ognuno aveva un suo
posto, ognuno era
unico.
Un minuscolo
scricciolo si appollaiò
sulla cima di un rovo a
meno di tre metri da
lui e trillò il suo
canto violento.
Egli vide i suoi
scintillanti occhi
neri, il giallo e il
rosso della sua gola
spalancata dal canto:
una minuscola palla di
piume che tuttavia
riusciva a trasformarsi
nell’Angelo
annunciatore
dell’evoluzione: “Io
sono ciò che sono, tu
non andrai di là da
quel che son io
adesso”.
Charles era come il
santo del Pisanello,
stupito, forse,
soprattutto dal proprio
sbalordimento per
questo mondo che
esisteva così vicino,
così a portata di mano
di tutta la banalità
soffocante delle
giornate consuete.
In quei pochi momenti
di canto spavaldo, ogni
ora e ogni luogo - e
quindi anche la
sterminata vastità di
tutte le ore e i luoghi
precedenti di Charles-
parvero volgari, rozzi,
vistosi.
L‘“ennui” spaventoso
della realtà umana
veniva spaccato sino al
nocciolo e il cuore
della vita pulsava
nella gola trionfante
dello scricciolo.
Essa sembrava
annunciare una realtà
ben più strana e
profonda di quella
pseudo-linneana che
Charles aveva intuito
sulla spiaggia nelle
primissime ore di quel
mattino: forse niente
di più originale che
una priorità
dell’esistenza sulla
morte, dell’individuo
sulla specie,
dell’ecologia sulla
classificazione.
Per noi oggi queste
priorità sono ovvie e
non sappiamo immaginare
le implicazioni ostili
a Charles dell’oscuro
messaggio che lo
scricciolo stava
annunciando.
Più che una realtà
più profonda, egli
sembrava infatti vedere
il caos universale che
si delineava oltre la
fragile struttura
dell’ordine umano.
C’era anche
un’amarezza più
immediata in questa
eucarestia naturale, in
quanto Charles si
sentiva sotto ogni
aspetto uno
scomunicato.
Era chiuso fuori,
aveva del tutto perso
il paradiso.
Anche in questo era
come Sarah: poteva
starsene qui nell’Eden,
ma non goderlo,
soltanto invidiare allo
scricciolo la sua
estasi.
Imboccò il sentiero
usato un tempo da
Sarah, che lo rendeva
invisibile dalla
Cascina.
E fu un bene, perché
il risuonare di un
secchio lo aveva
avvertito che il
padrone era già in
piedi e al lavoro.
Entrò dunque nel
bosco e procedette con
la dovuta serietà.
Un trasferimento di
colpa di tipo paranoico
gli dava l’impressione
che alberi, fiori e
persino gli oggetti
inanimati lo stessero
sorvegliando.
I fiori diventavano
occhi, le pietre
avevano orecchi, i
tronchi severi degli
alberi erano uno
sterminato coro greco.
Arrivò al punto dove
il viottolo si
biforcava e prese il
sentiero di sinistra.
Scendeva per un denso
sottobosco e su un
terreno sempre più
sconnesso, dato che qui
cominciava l’erosione.
Il mare era più
vicino: un azzurro
latteo infinitamente
calmo.
Ma un po’ più in alto
la terra si livellava
in una catena di
praticelli strappati
alla selva; un
centinaio di metri a
ovest dell’ultimo di
questi prati, in una
piccola gola che
giungeva sino al ciglio
della scogliera,
Charles vide il tetto
di paglia di un
granaio.
La paglia era marcia
e muscosa, il che
accentuava l’aspetto
già di per sé desolato
del piccolo edificio di
pietra, più simile a
una capanna di quanto
suggerisse il suo nome.
In origine era stata
la dimora estiva di
qualche allevatore,
mentre adesso veniva
usata dall’uomo della
Cascina per tenervi il
fieno.
Oggi, tanto il
terreno si è
deteriorato negli
ultimi cent’anni, è
sparito, senza lasciar
traccia.
Charles rimase a
fissarla.
Si aspettava di
vedervi la figura di
una donna e il fatto
che il luogo apparisse
così deserto lo rese
ancor più nervoso.
S’avviò verso
l’edificio, ma con
l’aria di chi percorre
una giungla famosa per
le sue tigri.
Si aspettava che gli
piombassero addosso ed
era tutt’altro che
sicuro della propria
abilità con il fucile.
C’era una vecchia
porta chiusa.
Charles girò attorno
al piccolo edificio.
A est vide una
minuscola finestra
quadrata, attraverso la
quale sbirciò nella
penombra, sentendo
nelle narici il debole
profumo dolce e muscoso
del vecchio fieno.
Ne intravedeva la
base di una pila
all’interno dal granaio
di fronte alla porta.
Guardò anche verso le
altre pareti.
Sarah non c’era.
Volse nuovamente gli
occhi sul sentiero dal
quale era venuto,
pensando di averla
preceduta.
Ma quell’aspro
terreno era immobile
nella quiete del primo
mattino.
Esitò, estrasse
l’orologio e attese
ancora due o tre minuti
incerto sul da farsi.
Infine aprì la porta
con una spinta.
Scorse un rozzo
pavimento di pietra e
all’estremo opposto due
o tre box di stalla
pieni del fieno che non
era stato ancora usato.
Ma era difficile
vedere fin là, poiché
dalla finestrella
penetrava accecante la
luce del sole.
Charles avanzò verso
quel fascio obliquo di
luce, ma si fermò di
botto improvvisamente
spaventato.
Oltre la luce
riusciva infatti a
distinguere un oggetto
appeso a un chiodo di
un vecchio pilastro:
una cuffia nera.
Forse per quello che
aveva letto la notte
precedente, ebbe il
gelido presentimento
che, sotto quel
tramezzo di tavole
mangiate dai vermi, si
nascondesse un macabro
spettacolo, e che
quella cuffia
penzolasse come un
vampiro sinistramente
sazio su ciò che egli
ancora non poteva
vedere.
Non so che cosa si
aspettava: qualche
mutilazione spaventosa,
un cadavere… mancò poco
che si voltasse e si
precipitasse fuori del
granaio per tornare a
Lyme.
Ma l’ombra di un
suono lo indusse a
proseguire.
Allungò timorosamente
il collo oltre il
tramezzo.

30.
“Ma quanto più queste
illusioni consapevoli
delle classi dominanti
si dimostrano false e
quanto meno soddisfano
il senso comune, tanto
più dogmaticamente
vengono sostenute e
tanto più ingannevole,
moraleggiante e
spirituale diventa il
linguaggio della
società stabilita”.
Marx, “L’ideologia
tedesca” (1845-46).

Sarah, ovviamente,
era arrivata a casa -
ma parlare di “casa” è
ironico date le
circostanze - prima di
Mistress Fairley.
Aveva svolto i suoi
compiti consueti nelle
devozioni serali di
Mistress Poulteney e si
era ritirata per
qualche minuto in
camera sua.
Mistress Fairley
colse al volo
l’occasione e quei
pochi minuti le furono
più che sufficienti.
Poi andò a bussare
alla camera di Sarah.
Sarah le aprì.
Portava la solita
maschera di rassegnata
tristezza, mentre
Mistress Fairley
sprizzava trionfo da
tutti i pori.
La padrona la sta
aspettando.
Ci vada subito, per
piacere.
Sarah abbassò il capo
e annuì debolmente.
Mistress Fairley
lanciò un’occhiata
sardonica, acida come
l’agresto, a quella
testa docile e frusciò
via velenosamente.
Non scese però;
rimase invece ad
aspettare, appena
voltato l’angolo,
finché non udì aprirsi
e chiudersi la porta
del salotto di Mistress
Poulteney sulla sua
segretaria - dama di
compagnia.
Poi s’accostò furtiva
e silenziosa alla
stessa porta e rimase
in ascolto.
Una volta tanto,
Mistress Poulteney non
era installata sul suo
trono, ma in piedi
accanto alla finestra e
affidava tutta la sua
eloquenza alla schiena.
Vuole parlarmi? Ma
apparentemente Mistress
Poulteney non aveva
questa intenzione, dal
momento che non si
mosse e non emise alcun
suono.
Forse era stata
l’omissione del
consueto titolo di
“signora” a ridurla al
silenzio, perché il
tono di Sarah era tale
da far chiaramente
capire che si trattava
di un’omissione
intenzionale.
Sarah distolse lo
sguardo da quella
schiena nera per
posarlo su un tavolino,
posto per l’occasione
tra le due donne, sul
quale giaceva ben
visibile una busta.
Un minuscolo serrar
di labbra - difficile
dire se era dovuto a
determinazione o a un
risentimento - fu la
sua reazione a questa
raggelante maestà che,
a dire il vero, era
leggermente incerta
sulla maniera migliore
di schiacciare questa
serpe che si era
deplorevolmente
scaldata in seno.
Scelse infine il
deciso colpo di scure.
In quel pacchetto c’è
il salario di un mese.
Lo prenda invece del
preavviso.
Lascerà questa casa
domattina il più presto
possibile.
A questo punto Sarah
ebbe la sfrontatezza di
usare la stessa arma di
Mistress Poulteney.
Non si mosse e non
rispose, finché la
padrona, oltraggiata,
non si degnò di
voltarsi e di mostrare
il suo viso bianco sul
quale ardevano due
rosee macchie di
emozione repressa.
Non mi ha sentita,
signorina? Non posso
sapere perché? Osa
anche far
l’impertinente! Oso
chiederle perché sono
stata licenziata.
Scriverò a Mister
Forsyth.
Farò in modo che la
rinchiudano.
Lei è una vergogna
pubblica.
Questa scarica
impetuosa sortì qualche
effetto.
Due macchie
cominciarono a colorare
anche le guance di
Sarah.
Ci fu una pausa,
accompagnata da un
evidente gonfiarsi del
petto già gonfio di
Mistress Poulteney.
Le ORDINO di lasciare
subito questa stanza.
Benissimo.
Poiché non vi ho
conosciuto altro che
ipocrisia, lo farò con
grandissimo piacere.
Lanciata questa
freccia del parto,
Sarah si voltò per
andarsene.
Ma Mistress Poulteney
era una di quelle
attrici che non
tollerano di non avere
l’ultima battuta; o
forse sono ingiusto con
lei, che tentava
soltanto, per quanto
improbabile potesse
apparire dal tono della
sua voce, di compiere
un’azione caritatevole.
Prenda il suo
salario! Sarah si voltò
versò di lei scuotendo
il capo.
Può tenerselo.
E se è possibile con
una somma così piccola,
le suggerisco di
acquistare qualche
strumento di tortura.
Sono certa che
Mistress Fairley sarà
lieta di aiutarla a
farne uso contro coloro
che saranno talmente
sventurati da cadere in
suo potere.
Per un incredibile
momento, Mistress
Poulteney assomigliò un
poco a Sam; vale a dire
che rimase con quella
specie di borsa arcigna
che era la sua bocca
completamente
spalancata.
Lei… dovrà…
rispondere… di… questo.
Davanti a Dio? E’
davvero convinta che
Egli l’ascolterà
nell’altro mondo? E per
la prima volta da
quando si conoscevano,
Sarah sorrise a
Mistress Poulteney: un
sorriso quasi
impercettibile, ma
sapiente ed
eloquente.Per qualche
istante la padrona la
fissò incredula, anzi
quasi patetica, come se
Sarah fosse stata
Satana in persona
venuto a reclamare la
sua parte.
Poi, annaspando e
arretrando come un
granchio, riuscì ad
arrivare alla sua
poltrona e vi crollò
sopra in uno svenimento
non del tutto simulato.
Sarah rimase un poco
a guardarla, poi, con
molta slealtà nei
confronti di Mistress
Fairley, fece
rapidamente i tre o
quattro passi che la
separavano dalla porta
e l’aprì.
La governante,
frettolosamente
rialzatasi, era
spaventatissima, quasi
temesse che Sarah le
saltasse addosso.
Ma Sarah si fece da
parte e le indicò
Mistress Poulteney che
annaspava e si portava
le mani alla gola,
offrendo così alla
governante l’occasione
di prestarle aiuto.
Oh, perfida Jezebel…
tu l’hai uccisa! Sarah
non rispose.
Dopo aver fissato
ancora per qualche
secondo Mistress
Fairley che
somministrava i sali
alla sua padrona, si
voltò e tornò nella
propria camera.
Si accostò allo
specchio ma non per
guardarsi; si coprì
lentamente il viso con
le mani e poi, molto
lentamente, alzò gli
occhi sopra le dita.
Non riuscì a
sopportare ciò che
vedeva.
Due secondi dopo era
inginocchiata accanto
al letto e piangeva in
silenzio sulla sua
logora coperta.
Avrebbe invece dovuto
pregare? Ma lei credeva
di pregare.
31.
“When panting sighs
the bosom fill, And
hands by chance united
thrill At once with one
delicious pain The
pulses and the nerves
of twain; When eyes
that erst could meet
with case, Do seek,
yet, seeking, shyly
shun Ecstatic conscious
unison, The sure
beginnings, say, be
these, Prelusive to the
strain of love Which
angels sing in heaven
above?

Or is it but the
vulgar tune, Which all
that breathe beneath
the moon So accurately
learn - so soon?” A. H.
Clough, “Poem” (1844).
“Quando sospiri
ansanti riempiono il
petto, / E le mani
unite dal caso fanno
fremere /
Contemporaneamente di
un’unica deliziosa pena
/ I polsi e i nervi
della coppia; / Quando
gli occhi che prima
potevano incontrarsi
con disinvoltura, / Si
cercano, eppure,
cercandosi, evitano
timidamente / Un
estatico cosciente
unisono, - / Diremo,
che questi sono gli
inconfondibili inizi /
Che preludono a quella
poesia dell’amore / Che
cantano gli angeli
lassù in cielo? // O è
soltanto il motivetto
volgare, / Che tutti
coloro che respirano
sotto la luna /
Imparano così
esattamente - e così
presto?” [Nota del
Traduttore].

E adesso dormiva.
Fu questo lo
scandaloso spettacolo
che contemplarono gli
occhi di Charles quando
egli trovò finalmente
la forza di guardare
oltre il tramezzo.
Giaceva raggomitolata
come una bambina sotto
il suo cappotto
vecchio, con i piedi
tirati su per
proteggerli dal freddo
della notte e la testa
voltata dall’altra
parte e posata su una
sciarpa Paisley verde
scuro, come per
difendere il suo bene
più prezioso, i capelli
sciolti, dai pulviscoli
del fieno.
In quel silenzio il
suo respiro leggero e
regolare era insieme
udibile e visibile; e
per un attimo il fatto
che stesse dormendo con
tanta tranquillità
parve a Charles un
crimine paragonabile
per perfidia a quelli
che aveva immaginato.
E tuttavia affiorò in
lui, inestinguibile, un
desiderio di
proteggerla.
Lo assalì con tanta
violenza che egli
distolse gli occhi e si
voltò, turbato da
questa prova della
veridicità delle accuse
del medico, perché
sapeva che il suo
istinto era di
inginocchiarsi accanto
a lei per confortarla…
o peggio, in quanto la
buia intimità del
granaio e la posizione
della ragazza
suggerivano
irresistibilmente una
camera da letto.
Si sentiva battere il
cuore come se avesse
fatto un miglio di
corsa.
Era in lui la tigre,
non in lei.
Lasciò trascorrere un
attimo, poi tornò,
silenzioso ma rapido,
verso la porta.
Si voltò quando già
stava per andarsene e
in quel momento udì la
propria voce
pronunciare il suo
nome.
Non era stata sua
intenzione parlare.
Ma parlò.
Miss Woodruff.
Nessuna risposta.
Pronunciò ancora quel
nome, un po’ più forte,
un po’ più sicuro di
sé, adesso che quelle
buie profondità avevano
cessato di tumultuargli
dentro.
Ci fu un piccolo
movimento, un lieve
fruscio; poi comparve
il capo di Sarah, e fu
quasi uno spettacolo
comico perché si era
affrettata a
inginocchiarsi e a
sbirciare oltre il
tramezzo.
Attraverso i
granellini di polvere,
egli provò una vaga
sensazione di
turbamento e di
sgomento.
Oh mi perdoni, mi
perdoni…
La testa si abbassò
fino a sparire.
Charles uscì nella
luce del sole.
Passarono due
gabbiani reali urlando
con voci roche.
Charles si spostò
dove non potessero
vederlo dai campi più
vicini alla Cascina.
Di Grogan non aveva
paura; o meglio non lo
aspettava ancora.
Ma qui era troppo
allo scoperto, l’uomo
della Cascina poteva
venire a prendere il
fieno…
Charles era troppo
nervoso per rendersi
conto che non avrebbe
avuto nessun bisogno di
farlo, dato che i suoi
campi erano verdi di
erba primaverile.
Mister Smithson? Egli
tornò alla porta appena
in tempo per impedire
che lo chiamasse di
nuovo, e stavolta più
ansiosamente, per nome.
Erano a circa tre
metri di distanza:
Sarah sulla soglia,
Charles a un angolo
dell’edificio.
Essa aveva fatto
frettolosamente la sua
toletta, si era messa
il cappotto e teneva in
mano la sciarpa come se
l’avesse adoperata come
spazzola.
Aveva gli occhi
inquieti, ma i suoi
lineamenti erano ancora
ammorbiditi dal sonno,
sebbene arrossati dal
brusco risveglio.
C’era qualcosa di
selvaggio in lei, che
non aveva nulla a che
vedere con la follia o
con l’isterismo,
qualcosa che Charles
aveva già riconosciuto
nel canto dello
scricciolo…
un’innocenza selvaggia,
quasi impaziente.
E come la profonda
alterazione di quella
passeggiata all’alba
aveva confuso - e
complicato - la sua
coscienziosa tristezza
autobiografica, così
questo viso così
intensamente vicino
confuse e complicò
tutti gli orrori
clinici suscitati in
lui dai rispettabili
dottori Matthaei e
Grogan.
A dispetto di Hegel,
i vittoriani non erano
dei dialettici; non
pensavano
istintivamente ai
positivi e ai negativi
come aspetti di una
stessa totalità.
I paradossi li
turbavano più che
divertirli.
Non erano fatti per
momenti esistenziali ma
per catene di cause ed
effetti; per teorie
positive, che
spiegassero tutto, da
studiare con cura e da
applicare con
diligenza.
Si affaccendavano ad
erigere, ovviamente;
mentre noi siamo
talmente affaccendati a
demolire che la
costruzione ci sembra
un’attività effimera
quanto il far bolle di
sapone.
Charles dunque non
sapeva spiegarsi a se
stesso.
Riuscì a produrre un
sorriso assai poco
convincente.
Non c’è rischio che
ci vedano? Sarah segui
il suo sguardo diretto
verso la Cascina.
C’è mercato ad
Axminster.
Appena avrà finito di
mungere se ne andrà.
Ma rientrò nel
granaio.
Egli la seguì
all’interno, dove si
fermarono, ancora ben
lontani l’uno
dall’altra, e Sarah gli
voltava le spalle.
Ha passato la notte
qui? Lei annuì.
Ci fu una pausa.
Non ha fame? Sarah
scosse il capo, e tornò
a installarsi il
silenzio.
Stavolta però fu lei
a romperlo.
Lei sa? Ieri sono
stato via tutto il
giorno.
Non mi è stato
possibile venire.
Altra pausa.
Mistress Poulteney si
è rimessa? Credo.
Era molto in collera
con me.
Meglio così.
Ci si trovava male in
quella casa.
Dov’è che non mi
trovo male? Charles si
ricordò che doveva
scegliere le parole con
cura.
Su, andiamo… non stia
a rattristarsi.
Fece un passo o due
verso di lei.
C’è stata molta
ansietà in paese.
Ieri sera c’era una
squadra di soccorso che
la cercava.
Sotto l’uragano.
Sarah si voltò di
scatto come se temesse
di essere stata
ingannata.
Ma si accorse che non
era vero, ed egli a sua
volta comprese, dalla
sua espressione
sorpresa, che non lo
stava ingannando quando
gli disse: Non
intendevo suscitare un
tale trambusto.
Be’… non importa.
Scommetto che si sono
divertiti Ma è chiaro
che lei adesso deve
lasciare Lyme.
Lei chinò il capo.
Le aveva parlato in
tono troppo severo.
Egli esitò un attimo,
poi si fece avanti e le
mise una mano sulla
spalla per confortarla.
Non abbia paura.
Sono venuto per
aiutarla.
Aveva pensato che
questo piccolo gesto
rassicurante fosse il
primo passo per
estinguere quel fuoco
che, a quanto gli aveva
detto il medico, egli
stesso aveva acceso; ma
per chi è il
combustibile combattere
il fuoco è impresa
disperata.
Sarah era tutta in
fiamme.
I suoi occhi ardenti
lanciarono a Charles
uno sguardo
appassionato.
Egli ritirò la mano,
ma lei la prese e,
prima che lui potesse
impedirglielo, se
l’accostò alle labbra.
Allora Charles gliela
strappò spaventato, e
lei reagì come se
avesse ricevuto uno
schiaffo in pieno viso.
Cara Miss Woodruff,
la prego di
controllarsi.
Io…
Non posso.
Le sue parole, appena
percettibili, bastarono
tuttavia a far tacere
Charles.
Cercava di
convincersi che Sarah
aveva soltanto voluto
dirgli di non poter
controllare la propria
gratitudine per la sua
carità…
cercava e cercava.
Ma gli tornò alla
mente un fuggevole
ricordo di Catullo:
Ogni volta che ti
guardo, la voce mi vien
meno, la lingua
incespica, un fuoco
sottile mi serpeggia
per le membra, un rombo
interiore, e le tenebre
avvolgono i miei occhi
e le mie orecchie.
Qui Catullo traduceva
Saffo, e quella di
Saffo resta la miglior
descrizione clinica
dell’amore di tutta la
medicina europea.
Sarah e Charles
rimasero lì, preda - se
appena lo avessero
saputo esattamente dei
medesimi sintomi,
riconosciuti dall’una,
negati dall’altro,
anche se colui che li
negava era incapace di
allontanarsi.
Trascorsero quattro o
cinque secondi
d’intensa emozione
repressa.
Poi Sarah,
letteralmente, non
resse più.
Si buttò in ginocchio
ai suoi piedi.
Sgorgarono le parole.
Le ho mentito.
Ho fatto in modo che
Mistress Fairley mi
vedesse.
Sapevo che avrebbe
raccontato tutto a
Mistress Poulteney.
Quel tanto di
autocontrollo che
Charles pensava di aver
raggiunto gli scivolò
di nuovo dalle mani.
Si chinò a guardare
sgomento quel viso
levato verso il suo.
Gli stava chiedendo
perdono, ma lui intanto
cercava una guida,
perché di nuovo i
dottori lo avevano
abbandonato.
Le distinte signorine
con la mania di dar
fuoco alle case o di
scrivere lettere
anonime, prima di
confessare, avevano
tutte aspettato,
rispettando
scrupolosamente una
moralità fatta di
bianchi e di neri, di
essere sorprese sul
fatto.
Sgorgavano lacrime
dagli occhi di Sarah.
Egli stava per
diventar padrone di una
fortuna, di un mondo
dorato; e a questo si
opponeva una
trascurabile
essudazione delle
ghiandole lacrimali, un
po’ di tremule gocce
d’acqua, così piccole,
così transitorie, così
brevi.
E tuttavia sembrava
stare sotto una diga
sfondata e non sopra
una donna
piangente.
Ma perché…? Allora
lei alzò gli occhi,
intensamente seri e
supplichevoli, in una
dichiarazione talmente
inequivocabile da
rendere superflue le
parole; con una nudità
che vietava qualsiasi
scappatoia, qualsiasi
“Mia cara Miss
Woodruff”.
Egli allungò
lentamente le braccia e
la rialzò.
I loro occhi
continuavano a
fissarsi, come se
entrambi fossero stati
ipnotizzati.
Gli sembrava - o così
almeno gli sembravano
quegli occhi nei quali
annegava - la cosa più
incantevolmente bella
che avesse mai visto.
Ciò che c’era al di
là non aveva
importanza.
Quel momento
travolgeva l’intera
epoca.
La prese tra le
braccia e la vide
chiudere gli occhi
mentre ondeggiava nella
sua stretta; poi li
chiuse anche lui e
trovò le sue labbra.
Non sentì solo la
loro morbidezza, ma
l’intera compatta
sostanza del suo corpo,
improvvisamente
piccolo, debole,
fragile, tenero…
L’allontanò da sé con
violenza.
Uno sguardo
spaventato, come se
fosse stato il più
abietto dei criminali
sorpreso a compiere il
più abominevole dei
delitti.
Poi si voltò e si
precipitò oltre la
porta per piombare in
un altro orrore.
Non era il dottor
Grogan.

32.
“And her, white-
muslined, waiting there
In the porch with high-
expectant heart, While
still the thin mechanic
air Went on inside.”
Hardy, “The Musical
Box”.
“E lei, vestita di
mussolina bianca, ad
aspettare lì / Nel
portico con cuore
impaziente, / Mentre
ancora quella sottile
aria meccanica /
Continuava dentro”.
[Nota del Traduttore].
La notte precedente
Ernestina non era
riuscita a dormire.
Sapeva benissimo
quali erano le finestre
di Charles al White
Lion, e non mancò di
notare che la sua luce
era ancora accesa
quando il russare di
sua zia aveva da tempo
cominciato a
diffondersi nella casa
silenziosa.
Si sentiva offesa e
insieme colpevole.
Questo all’inizio.
Ma dopo essersi
alzata furtivamente dal
letto per la sedicesima
volta al fine di vedere
se la luce era ancora
accesa, e lo era, il
senso di colpa prese ad
aumentare.
Charles era
evidentemente, e
giustamente,
malcontento di lei.
Il fatto che, dopo la
partenza di Charles,
Ernestina avesse detto
a se stessa - e poi a
zia Tranter - che in
realtà non le importava
un fico di Winsyatt può
farvi pensare che l’uva
acerba sarebbe stata
una metafora
orticolturale
azzeccata.
Certo, quando Charles
era partito per
rispondere all’invito
dello zio, si era
convinta ad accettare
con grazia la parte
della castellana e
aveva persino
cominciato a stendere
elenchi dei “Dettagli
dei quali occuparsi”…
ma la morte improvvisa
di quel sogno era stato
sicuramente un
sollievo.
Per dirigere una
grande casa, una donna
deve avere doti da
generale, ed Ernestina
non aveva assolutamente
aspirazioni militari.
Amava il lusso e le
piaceva farsi servire,
ma aveva un senso delle
proporzioni solidamente
borghese.
Trenta stanze quando
ne bastavano quindici
erano per lei una
follia.
Forse aveva ereditato
questa relativa
frugalità dal padre, il
quale era segretamente
convinto che
“aristocrazia” fosse un
sinonimo di “vana
ostentazione”, anche se
questo non gli impediva
di fondare su questo
difetto una parte non
trascurabile dei suoi
affari, di tenere a
Londra una casa che
avrebbe fatto la gioia
di molti nobili, o di
buttarsi a corpo morto
sulla prima possibilità
di un titolo che si
fosse presentata alla
sua amatissima figlia.
Per dirla tutta,
avrebbe potuto
rifiutare un visconte
ritenendolo eccessivo,
ma un baronetto andava
benissimo.
Sono un po’ ingiusto
con Ernestina, che in
fondo era vittima delle
circostanze, di un
ambiente illiberale.
E’ ovviamente la sua
visione sostanzialmente
schizofrenica della
società che fa della
classe media una così
singolare miscela di
lievito e di pasta.
Noi oggi tendiamo a
dimenticare che è
sempre stata la grande
classe rivoluzionaria;
vediamo di più
l’aspetto pasta, la
borghesia come terreno
di coltura della
reazione, come insulto
universale, eternamente
egoista e conformista.
Ora questo suo
elemento da Giano
deriva dall’unica virtù
che riscatta questa
classe: la sola delle
tre grandi caste
sociali che
sinceramente e
abitualmente disprezzi
se stessa.
In questo senso
Ernestina non era
certamente
un’eccezione.
Non era soltanto
Charles a notare nella
sua voce una sgradevole
acidità: la sentiva
anche lei.
Ma la sua tragedia,
una tragedia tuttora
enormemente diffusa,
era che applicava male
il dono prezioso
dell’autodisprezzo e
diventava così vittima
della perenne mancanza
di fede in se stessa
della sua classe.
Invece di vedere
nelle sue insufficienze
una ragione per
rifiutare l’intero
sistema delle classi,
le considerava un
motivo per aspirare a
una classe più alta.
Non si può ovviamente
fargliene colpa: era
stata irrimediabilmente
educata a vedere la
società come tanti
piuoli di un’unica
scala, e a ridurre di
conseguenza il proprio
a un. semplice gradino
verso qualcosa di
meglio.
Fu così (“Mi
vergogno, mi sono
comportata come la
figlia di un mercante
in tessuti”) che nelle
ore piccole Ernestina
rinunciò a ogni
tentativo di prender
sonno, si alzò,
s’infilò il “peignoir”
e aprì il diario.
Forse Charles avrebbe
visto che anche la SUA
finestra era
penitenzialmente
illuminata nelle fitte
tenebre seguite al
temporale.
Nel frattempo si
dedicò alla
composizione.
“Non riesco a
dormire.
Il carissimo C. è
malcontento di me.
Mi sono tanto agitata
per l’orribile notizia
da Winsyatt.
Avevo voglia di
piangere, ero DAVVERO
afflitta, ma
stupidamente ho detto
molte cose con rabbia e
dispetto, e chiedo a
Dio di perdonarmi
ricordando che non le
ho dette per malvagità
ma per amore dei
carissimo C. Ho pianto
TERRIBILMENTE quando è
andato via.
Che questo mi insegni
ad assimilare del tutto
le belle parole della
Cerimonia nuziale, a
onorare e OBBEDIRE il
mio CARISSIMO Charles
anche quando i miei
sentimenti mi
spingerebbero a
contraddirlo.
Che io possa
seriamente e umilmente
imparare a sottomettere
la mia orrenda
dispettosa ostinazione
alla sua ben maggiore
saggezza, che io possa
accogliere
amorevolmente il suo
giudizio e incatenarmi
al suo cuore, perché
‘La dolcezza del vero
Pentimento è la porta
della Santa
Beatitudine’.”

Avrete forse notato


che in questo
commovente brano è del
tutto assente la
consueta aridità di
Ernestina; ma Charles
non era il solo ad
avere più voci.
E la ragazza, come
sperava che egli
potesse vedere la luce
accesa fin tardi in
camera sua, così
immaginava il giorno in
cui l’avrebbe
dolcemente persuasa a
confidargli i documenti
segreti della sua anima
prenuziale.
Scriveva dunque in
parte per gli occhi di
lui; tutte le donne
vittoriane scrivevano
in parte per gli occhi
di un LUI.
Tornò a letto
sollevata, e aveva così
totalmente e
adeguatamente lo
spirito dell’umile
sposa del suo fidanzato
da non lasciarmi altra
alternativa se non di
concludere che, alla
fine, avrebbe certo
riconquistato il suo
infedele Charles.
Era ancora
profondamente
addormentata quando,
quattro piani più
sotto, si svolse un
piccolo dramma.
Quel mattino Sam non
si era alzato di
buon’ora come il suo
padrone.
Quando era sceso
nella cucina
dell’albergo per
prendere il tè e il
formaggio tostato -
erano pochi i domestici
vittoriani che
mangiavano meno dei
loro padroni, per
quanto scarsa fosse la
loro raffinatezza
gastronomica - i
lustrascarpe lo
accolsero con la
notizia che il suo
signore era appena
uscito e che lui, Sam,
doveva fare i bagagli
ed essere pronto a
partire per
mezzogiorno.
Sam riuscì a
nascondere il suo
turbamento.
Quello di fare i
bagagli era un lavoro
di mezz’ora.
Adesso aveva faccende
più urgenti da
sbrigare.
Andò immediatamente a
casa di zia Tranter.
Che cosa disse non
abbiamo bisogno di
saperlo, a parte il
fatto che dovevano
essere parole intrise
di tragedia dal momento
che quando, un minuto
dopo, scese in cucina
zia Tranter (che
seguiva gli orari
incivili della
campagna) trovò Mary
accasciata sulla tavola
in una crisi di pianto.
Il sarcastico
sollevarsi del mento
della cuoca sorda
dimostrò che da quella
parte non c’era da
aspettarsi molta
solidarietà.
Mary venne
interrogata e zia
Tranter, con i suoi
modi sbrigativamente
dolci, apprese ben
presto le ragioni della
sua sofferenza alla
quale ovviò con un
rimedio assai più
gentile di quello
ideato da Charles.
La cameriera sarebbe
stata libera fino
all’ora in cui
Ernestina avrebbe avuto
bisogno di lei, e
poiché le pesanti
cortine di broccato di
Miss Ernestina
rimanevano di solito
tirate sino alle dieci,
ciò equivaleva a tre
ore di dilazione.
Zia Tranter ne venne
premiata con il sorriso
più grato che abbia
visto il mondo in quel
giorno.
Cinque minuti dopo si
vide Sam lungo disteso
in piena Broad Street.
Non bisognerebbe mai
correre tutti piegati
in avanti su una strada
di ciottoli, neanche
per andare incontro a
una Mary.
33.
“O let me love my
love unto myself alone,
And know my knowledge
to the world unknown,
No witness to the
vision call, Beholding,
unbeheld of all…” A. H.
Clough, “Poem” (1852).
“Oh che io possa
amare il mio amore
soltanto in segreto, /
E sapere che ciò che so
è ignoto al mondo, /
Che nessun testimone è
presente alla mia
visione, / Che io vedo
invisibile per tutti.”
[Nota del Traduttore].
Sarebbe difficile
dire chi era più
turbato, se il padrone,
congelato a due metri
dalla porta, o i servi
egualmente congelati
una trentina di metri
più in là.
Questi ultimi erano
talmente sbalorditi che
Sam non staccò neanche
il braccio dalla vita
di Mary.
La situazione venne
sbloccata dalla
comparsa di un quarto
personaggio: Sarah,
tutta scarmigliata,
sulla soglia.
Si ritirò talmente in
fretta da poter essere
vista solo a un livello
poco più che
subliminale.
Ma bastava.
Sam spalancò la bocca
e lasciò cadere il
braccio dalla vita di
Mary.
Cosa diavolo stai
facendo qui? Pasegio,
Mister Charles.
Credevo di aver
lasciato detto che…
L’ho fato, signore.
E’ tuto pronto.
Charles capì che era
una bugia.
Mary si era voltata
da un’altra parte con
una delicatezza che le
si confaceva.
Charles esitò poi si
avvicinò a grandi passi
a Sam, nella cui mente
lampeggiavano immagini
di aggressione, di
licenziamento…
Noi non sapevamo,
Mister Charles.
Davero.
Mary lanciò a Charles
una timida occhiata,
scandalizzata e
impaurita, certo, ma
anche con un lievissimo
elemento di furtiva
ammirazione.
Egli le rivolse la
parola.
Vuol essere così
gentile da lasciarci
soli un momento? La
ragazza s’inchinò e
s’avviò a passo svelto
verso un punto dal
quale non avrebbe più
potuto udirli.
Charles squadrò Sam,
che aveva ritrovato
l’atteggiamento
dell’umile servitore e
stava fissando
attentamente gli
scarponi del padrone.
Sono venuto qui per
quella faccenda cui ti
avevo accennato.
Sì, signore.
Charles abbassò la
voce Su richiesta del
medico che la sta
curando.
Egli è pienamente al
corrente della cosa.
Sì, signore.
Che non deve essere
rivelata per nessuna
ragione al mondo.
Capisco, Mister
Charles.
E lei? Sam alzò gli
occhi.
Mary non dirà niente,
signore.
Sula mia vita.
A questo punto
Charles abbassò lo
sguardo.
Sapeva di avere le
guance molto arrossate.
Benissimo.
Io… io ti ringrazio.
E farò in modo che…
to’ Annaspò alla
ricerca della sua
borsa.
Oh, no, Mister
Charles.
Sam fece un piccolo
passo indietro, un po’
troppo drammatico per
convincere uno
spettatore spassionato.
Mai.
La mano di Charles si
arrestò in un
borbottio.
Padrone e servo si
scambiarono
un’occhiata.
Entrambi forse
sapevano che era stato
appena fatto un astuto
sacrificio.
Benissimo.
Saprò compensarti
egualmente.
Ma non una parola.
Ne facio solenoso
giuramento, Mister
Charles.
Con questo oscuro
aggettivo (solenne e
grandioso) Sam si voltò
e andò a raggiungere la
sua Mary, che era
rimasta ad attenderlo,
volgendo le spalle con
discrezione, tra le
ginestre e le felci un
centinaio di metri più
in là.
Perché poi si fossero
diretti proprio verso
il granaio è questione
sulla quale si possono
soltanto fare
congetture; forse vi è
già sembrato strano che
una ragazza assennata
come Mary sia scoppiata
in lacrime al pensiero
di un’assenza di pochi
giorni.
Ma lasciamo Sam e
Mary che tornano a
immergersi nel bosco,
camminano un poco in un
turbato silenzio, poi
si guardano di
sottecchi e restano
irreparabilmente
paralizzati da una
silenziosa risata; e
torniamo al nostro
Charles dal viso
arrossato.
Aspettò che si
fossero allontanati,
poi volse di nuovo lo
sguardo verso
quell’anonimo granaio.
Il suo comportamento
aveva sconvolto la sua
personalità più
profonda, ma l’aria
aperta gli permise di
riflettere un momento.
Come tante altre
volte, accorse in suo
aiuto il dovere.
Aveva sfacciatamente
attizzato il fuoco
proibito.
E in quello stesso
momento era possibile
che l’altra vittima
stesse perendo tra le
fiamme o avesse
lanciato una fune oltre
la trave…
Esitò, poi tornò nel
granaio e da Sarah.
Era in piedi accanto
alla finestra,
invisibile
dall’esterno, come se
avesse cercato di
ascoltare il dialogo
tra Charles e Sam.
Egli si fermò accanto
alla porta.
Deve perdonarmi di
aver tentato
imperdonabilmente di
approfittare della sua
dolorosa situazione.
Fece una pausa, poi
riprese: E non solo
stamattina.
Sarah abbassò gli
occhi.
Fu un sollievo per
lui vederla intimidita
e non più sfrenata.
L’ultima cosa che
desideravo era di
ottenere il suo amore.
Mi sono comportato in
modo sciocco.
Molto sciocco.
E’ soltanto mia la
colpa.
Lei guardava lo
sconnesso pavimento di
pietra che li separava,
come un prigioniero in
attesa della sentenza.
Ma ora che il danno è
fatto, devo chiederle
aiuto per porvi
rimedio.
Sarah rifiutò anche
questo invito a
parlare.
Affari urgenti mi
richiamano a Londra.
Non so per quanto
tempo.
Lei lo guardò, ma
solo per un attimo.
Charles procedette
impappinandosi un poco.
Credo che lei
dovrebbe andare a
Exeter.
La prego di prendere
il denaro di questa
borsa… in prestito, se
vuole… finché non
riuscirà a trovare una
sistemazione
conveniente… e se
dovesse avere bisogno
di ulteriori aiuti
finanziari…
La sua voce si
affievolì.
Era diventata sempre
più formale.
Egli si rese conto
che doveva apparirle
detestabile.
Sarah gli voltò le
spalle.
Non la rivedrò mai
più.
Non può aspettarsi
che le dica di no.
Anche se vederla è la
sola ragione della mia
vita.
La terribile minaccia
continuò a incombere
nel silenzio che seguì
a queste parole.
Egli non osò renderla
esplicita.
Si sentiva come un
uomo in catene, ma
venne liberato
all’improvviso come un
prigioniero già
condannato.
Sarah si voltò e
lesse evidentemente nei
suoi pensieri.
Se avessi voluto
uccidermi, avrei avuto
ragioni sufficienti
anche prima.
Guardò fuori della
finestra.
Accetto il suo
prestito… con
gratitudine.
Per un attimo Charles
chiuse gli occhi in un
muto ringraziamento.
Poi posò la borsa -
non quella che aveva
ricamato per lui
Ernestina - su una
sporgenza accanto alla
porta.
Andrà a Exeter? Se
questo è il suo
consiglio.
Assolutamente.
Sarah chinò il capo.
E devo dirle un’altra
cosa.
In città si parla di
farla ricoverare.
Lei si voltò a
guardarlo di scatto.
L’idea proviene
indubbiamente da
Marlborough House.
Non ha bisogno di
prenderla sul serio.
Ciononostante,
eviterebbe fastidi se
non mettesse più piede
a Lyme.
Esitò, poi disse: Mi
risulta che tra poco
un’altra squadra verrà
a cercarla.
Per questo sono
venuto così presto.
Il mio bagaglio…
Provvederò io.
Lo farò mandare al
deposito di Exeter.
Mi è venuto in mente
che, se si sente
abbastanza in forze,
sarebbe più prudente
andare a piedi sino a
Axmouth Cross.
Eviterebbe così…
scandalo per entrambi.
Ma sapeva benissimo
cosa le stava
chiedendo.
Axmouth era a sette
miglia di distanza e la
Cross, dove passavano
le diligenze, altre due
miglia più in là.
Sarah assentì.
E informerà Mistress
Tranter appena avrà
trovato un posto? Io
non ho referenze.
Può dare il nome di
Mistress Talbot.
E quello di Mistress
Tranter.
Le parlerò io.
E in caso di
necessità, non sia
tanto orgogliosa da non
chiederle un’ulteriore
assistenza finanziaria.
Provvederò anche a
questo prima di
partire.
Non sarà necessario.
La sua voce era
appena percettibile.
Ma la ringrazio.
Credo che tocchi a me
ringraziarla.
Lei gli lanciò
un’occhiata.
Era ancora penetrante
e sapeva ancora vederlo
nella sua totalità.
Lei è una persona
molto notevole, Miss
Woodruff.
Mi vergogno
profondamente di non
averlo compreso prima.
Sì.
Sono una persona
notevole disse lei.
Ma lo disse senza
orgoglio, senza ironia;
solo con un’amara
semplicità.
Poi tornò a
installarsi il
silenzio.
Egli lo sopportò
quanto gli fu
possibile, poi estrasse
l’orologio per far
capire, in modo
tutt’altro che sottile,
che doveva andarsene.
Si sentì goffo e
pieno di sussiego,
sentì anche che lei
mostrava molta più
dignità; forse sentiva
ancora il sapore delle
sue labbra.
Vuole accompagnarmi
fino al viottolo? Non
le permise, in
quest’ultimo momento di
commiato, di accorgersi
che lui si vergognava.
Adesso, se fosse
comparso Grogan, la
cosa non avrebbe più
avuto importanza.
Ma Grogan non
comparve.
Sarah lo precedette
tra le felci morte e le
vive ginestre nella
prima luce del sole,
con i capelli che
luccicavano, in
silenzio e senza mai
voltarsi.
Charles sapeva
benissimo che Sam e
Mary lo stavano forse
guardando, ma ora gli
sembrava più
consigliabile farsi
vedere apertamente con
lei.
Il sentiero saliva
attraverso gli alberi
sino al viottolo
principale.
Sarah si voltò.
Egli le andò vicino e
le porse la mano.
Essa esitò, poi gli
tese la sua, che egli
afferrò saldamente
vietandosi ulteriori
follie.
Non la dimenticherò
mai mormorò.
Sarah alzò il viso
verso di lui con un
movimento degli occhi
impercettibile e
insieme penetrante;
come se ci fosse stato
qualcosa che lui doveva
vedere, e non era
troppo tardi; una
verità di là dalle sue
verità; un’emozione di
là dalle sue emozioni,
una storia di là da
tutte le sue idee sulla
storia.
Come se fosse in
grado di dire mondi e
nello stesso tempo si
rendesse conto
dell’impossibilità di
Charles di conoscere
questi mondi se lei non
glieli avesse esposti…
Rimasero così a
lungo.
Poi lui abbassò gli
occhi e lasciò la sua
mano.
Un minuto dopo si
voltò a guardare.
Sarah era ancora dove
l’aveva lasciata e
continuava a seguirlo
con gli occhi.
Si tolse il cappello.
Ma lei non rispose al
suo saluto.
Trascorsero altri
dieci minuti ed egli si
fermò davanti a un
cancello sul lato
prospiciente il mare
del viottolo che
portava alla Cascina.
Di lì si godeva una
vista che attraverso i
campi giungeva sino al
Cobb.
Più in basso, in
lontananza, una piccola
sagoma saliva il
sentiero che portava a
questo stesso cancello.
Charles si tirò un
po’ indietro, esitò un
momento… poi riprese il
cammino verso il
viottolo che scendeva
in città.

34.
“And the rotten rose
is ript from the wall”.
Hardy, “During Wind
and Rain”.
“E la rosa putrida
viene strappata dal
muro”. [Nota del
Traduttore].
Sei stato a spasso.
Si rivelò perciò
inutile il suo essersi
cambiato d’abiti per la
seconda volta.
Avevo bisogno di
schiarirmi le idee.
Ho dormito male.
Anch’io.
Poi Ernestina
aggiunse: Avevi detto
di essere
incredibilmente stanco.
Lo ero.
Ma sei rimasto alzato
fin dopo l’una.
Charles si voltò un
po’ bruscamente verso
la finestra.
Avevo molte cose su
cui riflettere.
La partecipazione di
Ernestina a questo
secco dialogo fa
pensare a una sua
incapacità di
conservare alla luce
del giorno il tono dei
suoi proponimenti
notturni.
Ma oltre che della
passeggiata, era stata
informata, via Sam,
Mary e una sbalordita
zia Tranter, del fatto
che Charles intendeva
lasciare Lyme quello
stesso giorno.
Aveva deciso di non
chiedere spiegazioni su
questo improvviso
cambiamento di
programma; e lasciare
che sua signoria gliene
fornisse una al momento
per lui più opportuno.
Poi, quando era
finalmente arrivato,
poco prima delle
undici, mentre lei
sedeva tutta compita ad
aspettarlo nel salotto
posteriore, egli le
aveva fatto lo sgarbo
di fermarsi a lungo nel
vestibolo per parlare
con zia Tranter e, quel
che è peggio, in modo
che le fosse
impossibile udirli.
Stava quindi
ribollendo.
Forse una delle
ragioni meno
trascurabili del suo
risentimento era che
quel mattino aveva
dedicato cure
particolari alla
propria toletta e non
aver ricevuto da lui
alcun complimento.
Indossava un vestito
rosa “da prima
colazione” con maniche
vescovili, aderenti
alle ascelle delicate e
poi voluminosamente
pieghettate in una
schiuma di velo sino
agli stretti polsini.
Metteva assai
graziosamente in
risalto la sua
fragilità, alla quale
contribuivano anche i
nastri bianchi tra i
capelli lisci e una
fragranza di lavanda
delicatamente diffusa.
Era un’Afrodite di
zucchero, sia pure con
gli occhi un po’ pesti,
appena alzatasi da un
letto di tela bianca.
Charles avrebbe
potuto trattarla
crudelmente senza
difficoltà.
Ma riuscì a
sorriderle e, sedutosi
accanto a lei, le prese
una mano e cominciò ad
accarezzarla.
Mia carissima, devo
chiederti perdono.
Non sono in me.
E temo di aver deciso
che devo andare a
Londra.
Oh, Charles! Vorrei
non doverlo fare.
Ma questa nuova
svolta mi costringe a
vedere immediatamente
Montague.
Montague era
l’avvocato che, in
quell’epoca ancora
priva di
commercialisti, badava
agli affari di Charles.
Non puoi aspettare
sino al mio ritorno?
Mancano soltanto dieci
giorni.
Tornerò per
riaccompagnarti in
città.
Ma Mister Montague
non può venire qui? No,
purtroppo, ci sono
tante carte.
E poi non ho soltanto
questo scopo.
Devo anche informare
tuo padre di quel che è
successo.
Ernestina allontanò
la mono dal suo
braccio.
Che cosa c’entra lui?
C’entra e come, bambina
cara.
Ti ha affidata alle
mie cure.
E una così grave
alterazione delle mie
prospettive… Ma hai
ancora la tua rendita!
Be’… sì, certo, sarò
sempre in condizioni
finanziarie
confortevoli.
Ma ci sono altre
cose.
Il titolo…
Lo avevo dimenticato.
Ma certo.
E’ praticamente
impossibile che io
possa sposare un
semplice plebeo.
Gli lanciò
un’occhiata che
conteneva tutta la
dovuta forza
sarcastica.
Abbi pazienza,
tesoro.
Sono cose che bisogna
dire.
Tu ti porti appresso
una grossa somma di
denaro.
Certo i nostri
affetti personali hanno
un’importanza suprema.
Ma… vedi, nel
matrimonio c’è anche un
aspetto legale e
contrattuale che…
Sciocchezze!
Carissima Tina…
Sai perfettamente che
se volessi mi
lascerebbero sposare
anche un ottentotto.
Può darsi.
Ma anche i genitori
più affettuosi
preferiscono essere
informati…
Quante stanze ha la
casa di Belgravia? Non
ne ho idea.
Esitò un momento, poi
aggiunse: Venti,
credo.E un giorno mi
hai detto di avere
duemilacinquecento
sterline all’anno.
Che, con l’aggiunta
della mia dote, portano
il totale…
Il problema non è se
col mutare della nostra
situazione saremo
ancora in condizioni di
vivere
confortevolmente.
E va bene.
Supponiamo che papà
ti dica che non puoi
avere la mia mano.
Cosa farai allora?
Hai proprio deciso di
fraintendermi.
Conosco il mio
dovere.
In una situazione
simile non si è mai
troppo scrupolosi.
Tutto questo dialogo
era avvenuto senza che
mai osassero guardarsi
in faccia.
Ernestina abbassò il
capo in segno evidente,
e ribelle, di
disaccordo.
Lui si alzò e si
portò alle sue spalle.
E’ solo una
formalità.
Ma sono formalità che
contano.
Lei teneva gli occhi
ostinatamente
abbassati.
Sono stanca di Lyme.
Ti vedo meno ancora
che in città.
Charles sorrise.
E’ assurdo.
Almeno ho questa
impressione.
Una linea sottile di
malumore si era
disegnata intorno alla
sua bocca.
Non si lasciava
rabbonire.
Lui andò a mettersi
davanti al caminetto,
con un braccio
appoggiato alla mensola
e le sorrise, ma era un
sorriso privo di
allegria, una maschera.
Non gli piaceva
quando era così
caparbia; era troppo
netto il contrasto con
quegli abiti elaborati,
che volevano indicare
una creatura totalmente
indifesa fuori degli
interni domestici.
La punta sottile di
un cuneo in quegli
indumenti così
assennati era stata
introdotta dalla
sciagurata Mistress
Bloomer un decennio e
mezzo prima dell’anno
in cui scrivo; ma quel
primo tentativo di
calzoni femminili era
stato comprensibilmente
sbaragliato dalla
crinolina; un piccolo
episodio che ha una
notevole importanza per
farci comprendere che
cosa fossero i
vittoriani.
Gli avevano offerto
una cosa assennata e
scelsero una follia di
due metri che non aveva
equivalenti neanche
nella più scatenata
delle arti minori.
Comunque, nel
silenzio che seguì,
Charles non meditò
sulle idiozie dell’alta
moda, ma su come
congedarsi senza altre
scenate.
Per sua fortuna, in
quel momento anche Tina
stava riflettendo sulla
propria posizione; in
fondo era da serva (zia
Tranter le aveva
spiegato perché Mary
non aveva potuto
rispondere al suo
campanello al
risveglio) affannarsi
tanto per una breve
assenza.
E poi la vanità
maschile consisteva nel
farsi obbedire; quella
femminile nel servirsi
dell’obbedienza per
conseguire l’estrema
vittoria.
Sarebbe venuto il
giorno in cui Charles
avrebbe pagato per
questa sua crudeltà.
Il sorrisetto che ora
gli rivolse era pieno
di pentimento.
Scriverai tutti i
giorni? Egli abbassò
una mano per
accarezzarle una
guancia.
Prometto.
E tornerai appena
potrai? Appena avrò
sbrigato i miei affari
con Montague.
Scriverò a papà
ordinandogli
rigorosamente di
rimandarti subito
indietro.
Charles approfittò
dell’occasione.
E se la scriverai
subito, porterò io la
lettera.
Parto tra un’ora.
Allora lei si alzò e
gli porse le mani.
Aveva voglia di
essere baciata.
Ma Charles non poté
costringersi a baciarla
sulla bocca.
Le afferrò invece le
spalle e posò un lieve
bacio su entrambe le
tempie.
Poi fece per
andarsene.
Ma per qualche strano
motivo si fermò.
Ernestina stava
guardando, pudica e
docile, davanti a sé,
all’altezza della sua
cravatta blu scura con
relativa perla.
Perché Charles non
riuscisse a congedarsi
non risultò subito
evidente; in realtà due
mani si erano
saldamente aggrappate
alle tasche inferiori
del suo cappotto.
Egli comprese quale
era il prezzo della sua
liberazione e lo pagò.
Non ci furono parole,
né ruggiti interni, né
tenebre scese ad
avvolgere occhi e
orecchi, mentre lui
premeva le proprie
labbra sulle sue per
alcuni secondi.
Ma Ernestina era
vestita in modo molto
grazioso, e per un
attimo balenò alla
mente di Charles una
visione, o meglio forse
un’impressione tattile,
di un tenero corpo
bianco come un giglio.
Ernestina appoggiò la
testa alle sue spalle e
gli si rannicchiò
contro, e mentre la
toccava, l’accarezzava
e le mormorava qualche
sciocca frase, egli si
sentì all’improvviso
imbarazzato.
C’era un evidente
rimescolio nei suoi
lombi.
Gli erano sempre
piaciuti il senso
dell’umorismo di
Ernestina, i suoi
strani piccoli puntigli
e capricci, la promessa
di una certa nascosta
sregolatezza… la
volontà di imparare
perversità, un giorno,
per addentare con
timidezza ma con gusto
il frutto proibito.
Ciò che Charles
inconsapevolmente
sentiva era forse
l’eterno fascino delle
donne superficiali: la
possibilità di farne
ciò che si desidera.
Ciò che sentiva
consapevolmente era un
senso di profanazione:
provare adesso un
desiderio carnale, dopo
aver toccato quello
stesso mattino le
labbra di un’altra
donna! Baciò
frettolosamente
Ernestina sulla testa,
liberò delicatamente le
sue dita, le baciò e si
allontanò.
Aveva ancora una
prova da superare,
poiché sulla porta
incontrò Mary con
guanti e cappello.
Teneva gli occhi
abbassati ma le sue
guance erano rosse.
Mentre s’infilava i
guanti, Charles si
voltò a guardare la
porta chiusa della
stanza che aveva appena
lasciato.
Sam le ha spiegato le
circostanze di
stamattina? Sì,
signore.
E lei… ha capito? Sì,
signore.
Si tolse un guanto e
si frugò nel taschino
del panciotto.
Mary non
indietreggiò, ma
abbassò ancora di più
il capo.
Oh, signore, non
voglio.
Ma l’aveva già presa.
Un attimo dopo chiuse
la porta le spalle di
Charles.
Poi, molto lentamente
aprì la mano piccola e
- temo - un po’ troppo
rossa e guardò la
monetina d’oro che
teneva nel palmo.
Se la mise tra i
denti e la morsicò,
come aveva sempre visto
fare da suo padre per
accertarsi che non
fosse ottone; non che
sapesse distinguerla
con un morso, ma il
morso provava in
qualche modo che era
effettivamente oro;
come stare
sull’Undercliff provava
che c’era peccato.
Ma cosa può saperne
del peccato
un’innocente vergine di
campagna? La domanda
esige una risposta.
Intanto Charles può
andare a Londra per suo
conto.

35.
“In you resides my
single power Of sweet
continuance here”.
Hardy, “Her
Immortality”.
“In te risiede la mia
unica possibilità / Di
una dolce continuità
quaggiù”. [Nota del
Traduttore].
“Sono state portate
all’ambulatorio per
esservi ricoverate
molte ragazze dai
quattordici, e
addirittura dai
tredici, ai diciassette
anni in stato di
gravidanza.
Le ragazze hanno
riconosciuto di essersi
rovinate… andando al
lavoro (agricolo) o
tornandone.
Ragazze e ragazzi di
questa età devono
percorrere cinque, sei
o sette miglia per
recarsi al lavoro e
viaggiano in gruppi per
strade e viottoli.
Personalmente sono
stato testimone di atti
osceni avvenuti tra
ragazzi e ragazze fra i
quattordici e i sedici
anni.
Ho visto una volta
una ragazzina insultata
da cinque o sei ragazzi
sul ciglio della
strada.
Venti o trenta metri
più in là passavano
persone più mature, che
tuttavia non le
badarono.
La ragazza invocava
aiuto e ciò m’indusse a
fermarmi.
Ho anche visto
ragazzi che facevano il
bagno nei ruscelli e
ragazze tra i tredici e
i diciannove anni che
li guardavano dalla
riva”.
“Children’s
Employment Commission
Report” (1867).

Che cos’è
l’Ottocento? Un’epoca
nella quale la donna
era sacra, e si poteva
comprare una ragazza di
tredici anni per poche
sterline, o pochi
scellini se la si
voleva soltanto per
un’ora o due.
Nella quale si
costruirono più chiese
che in tutta la
precedente storia del
paese, e a Londra una
casa su sessanta era un
bordello (la
proporzione moderna
sarebbe pressappoco una
su seimila).
Nella quale la
santità del matrimonio
(e della castità
prematrimoniale) era
esaltata da ogni
pulpito, in tutti gli
editoriali e nei
pubblici comizi, e
grandi personaggi
pubblici - dal futuro
re in giù - conducevano
una vita assolutamente
scandalosa.
Nella quale venne
gradatamente umanizzato
il sistema penale, e la
flagellazione era
talmente diffusa che un
francese cercò
seriamente di
dimostrare che il
marchese de Sade doveva
essere d’origine
inglese.
Nella quale il corpo
femminile era più che
mai celato agli occhi
indiscreti, e i meriti
degli scultori erano
valutati in base alla
loro capacità di
scolpire donne nude.
Nella quale non
esiste un romanzo, una
commedia o una poesia
di un certo livello
letterario che si
spinga oltre la
sensualità di un bacio,
e il dottor Bowdler (1)
(la cui data di morte,
1825, ci ricorda che
l’ethos vittoriano era
in vigore molto tempo
prima del vero e
proprio inizio di
questa epoca) era
generalmente
considerato un pubblico
benefattore, mentre la
produzione di opere
pornografiche
raggiungeva un livello
mai superato.
Nella quale non si
nominavano mai le
funzioni escretorie, e
le condizioni igieniche
erano ancora talmente
primitive - il
gabinetto a getto
d’acqua fu introdotto
in ritardo e rimase un
lusso almeno fino al
1900 - che dovevano
esserci poche case e
poche strade che non le
ricordassero in
continuazione.
Nella quale si
sosteneva all’unanimità
che le donne non hanno
orgasmo, e si insegnava
a ogni prostituta come
simularlo.
Nella quale ci furono
progressi enormi in
tutti gli altri settori
dell’attività umana, e
soltanto tirannide nel
più personale e
fondamentale.
A prima vista la
risposta sembra
semplice: è questione
di sublimazione.
I vittoriani
riversavano la loro
libidine negli altri
settori, come se
qualche genio
dell’evoluzione,
sentendosi pigro, si
fosse detto: “Abbiamo
bisogno di qualche
progresso, e quindi
arginiamo e deviamo
quest’unico grande
canale per vedere che
cosa succede”.
Pur riconoscendo una
parziale fondatezza
della teoria della
sublimazione, mi chiedo
a volte se ciò non
rischi di farci credere
erroneamente che i
vittoriani non fossero
ossessionati dal sesso.
In realtà lo erano
quanto gli uomini del
nostro secolo, e,
benché a noi il sesso
venga buttato addosso
giorno e notte (come la
religione ai
vittoriani), se ne
preoccupavano molto di
più.
O almeno si
preoccupavano
dell’amore e gli
dedicavano una parte
ben maggiore delle loro
arti di quella che gli
dedichiamo noi.
Inoltre Malthus e
l’assenza di mezzi
antifecondativi (2) non
bastano a spiegare il
fatto che figliavano
come conigli e
celebravano la
fecondità assai più
ardentemente di quanto
facciamo noi.
E se è innegabile che
il nostro secolo non è
rimasto indietro in
fatto di progressi e di
liberalizzazione, non
possiamo certo
sostenere che ciò sia
avvenuto perché NOI
abbiamo tante energie
sublimate a
disposizione.
Ho sentito definire i
Naughty Nineties (3)
una reazione a molti
decenni d’astinenza, ma
credo che fosse stata
puramente di una
pubblicizzazione di
cose rimaste sino
allora nell’ambito
privato, e sospetto che
esse siano in realtà
una costante umana: la
differenza è un
vocabolario, un livello
di metafora.
I vittoriani decisero
di essere seri su
questioni che noi
trattiamo piuttosto
alla leggera, ed
espressero tale serietà
non parlando
apertamente del sesso,
mentre noi facciamo
esattamente il
contrario.
Ma queste “maniere”
di essere seri sono
semplici convenzioni.
Mentre rimane
costante ciò che sta
dietro di loro.
Penso inoltre che ci
sia un altro errore
assai diffuso: quello
di associare a un alto
livello di ignoranza
sessuale un basso
livello di piacere
sessuale.
Non dubito che quando
le labbra di Charles e
di Sarah si toccarono,
da entrambe le parti
entrò in gioco ben poca
perizia amatoria; ma
non dedurrei da questo
un’assenza di
eccitazione sessuale.
Comunque è molto più
interessante il
rapporto tra il
desiderio e la capacità
di appagarlo.
Anche in questo campo
noi possiamo credere
che ce la caviamo molto
meglio dei nostri
bisnonni.
Ma il desiderio è
condizionato dalla
frequenza con la quale
lo si evoca; il nostro
mondo trascorre una
enorme quantità di
tempo invitandoci a
copulare, mentre la
nostra realtà si
affaccenda per
frustrarci.
Non siamo frustrati
quanto i vittoriani?
Può darsi.
Ma per chi può
gustare soltanto una
mela al giorno è molto
sgradevole vivere in un
frutteto pieno di
questa roba; è anche
possibile che le mele
appaiano più dolci se
ci sono concesse
soltanto una volta la
settimana.
Sembra quindi
tutt’altro che certo
che i vittoriani non
provassero piaceri
sessuali più acuti,
perché meno frequenti,
dei nostri; e che,
rendendosi vagamente
conto, non avessero
scelto la convenzione
della soppressione,
della repressione e del
silenzio per proteggere
l’intensità di questi
piaceri.
In un certo senso,
trasferendo
nell’immaginazione
pubblica ciò che essi
riservavano a quella
privata, siamo noi il
secolo più vittoriano -
nell’accezione
denigratoria del
termine- perché, col
distruggere tanta parte
del mistero, della
difficoltà, del senso
del proibito, abbiamo
anche distrutto gran
parte del piacere.
E’ ovviamente
impossibile misurare e
confrontare i livelli
di piacere, ma questa
impossibilità può
tornare più a nostro
vantaggio che a quello
dei vittoriani.
Inoltre quel metodo
dava loro in premio
un’eccedenza di
energia.
Quella segretezza,
quel divario tra i
sessi che turbava tanto
Charles quando Sarah
cercava di colmarlo,
suscitavano sicuramente
un’energia molto
maggiore, e assai
spesso una maggiore
franchezza, in tutti
gli altri campi.
Tutto questo sembra
portarci molto lontani
da Mary, anche se mi
viene in mente proprio
adesso che aveva una
grande passione per le
mele.
Non era tuttavia
un’innocente vergine di
campagna per la
semplicissima ragione
che nel suo secolo
questi termini erano
incompatibili.
E non è difficile
scoprirne le ragioni.
In ogni epoca la
stragrande maggioranza
dei testimoni e dei
memorialisti appartiene
alla classe colta, e
ciò ha determinato, nel
corso della storia, una
sorta di deformazione
minoritaria della
realtà.
Il puritanesimo
moraleggiante che noi
associamo ai
vittoriani, e
applichiamo con una
certa pigrizia a tutte
le classi di quella
società, è di fatto una
visione borghese
dell’ethos borghese.
I personaggi
proletari di Dickens
sono tutti molto buffi
(o molto patetici) e
costituiscono un
incomparabile
campionario di
maschere, ma se
vogliamo conoscere la
nuda verità dobbiamo
rivolgerci altrove: a
Mayhew, ai rapporti
delle grandi
commissioni, eccetera;
soprattutto per quanto
riguarda l’aspetto
sessuale della loro
esistenza che Dickens
(al quale mancava tra
l’altro una certa
autenticità personale
in questo campo) e i
suoi compari
espurgarono così
radicalmente.
La pura verità
dell’Inghilterra rurale
vittoriana era che ciò
che un’epoca più
semplice definiva
“assaggiare prima di
acquistare” (e che nel
gergo di oggi chiamiamo
rapporti
prematrimoniali) ERA LA
REGOLA E NON
L’ECCEZIONE.
Ascoltate questa
testimonianza di una
signora tuttora
vivente.
E’ nata nel 1883 e
suo padre era il medico
di Thomas Hardy.
“La vita del
bracciante agricolo
dell’Ottocento era
molto diversa da quella
di oggi.
Per esempio tra i
contadini del Dorset il
concepimento prima del
matrimonio era
assolutamente normale,
e il matrimonio non
veniva celebrato se non
quando la gravidanza
era ormai evidente…
Questo perché i
braccianti erano pagati
pochissimo e avevano
bisogno che in famiglia
ci fosse qualcuno in
più a guadagnare.” (4)

Sono così giunto


all’ombra, un’ombra
molto pertinente, del
grande romanziere che
torreggia su quella
parte d’Inghilterra
della quale scrivo.
Quando ricordiamo che
Hardy fu il primo che
cercò di spezzare il
sigillo posto dalla
borghesia vittoriana
sul presunto vaso di
Pandora del sesso,
diventa molto
interessante (e certo
anche estremamente
paradossale) il
fanatismo con il quale
protesse il sigillo
posto sulla propria
vita sessuale e su
quella dei suoi
immediati antenati.
Il che era
ovviamente, e lo
sarebbe ancor oggi, un
suo inalienabile
diritto.
Ma pochi segreti
letterari sono stati
così ben protetti:
quest’ultimo venne
dissotterrato solo dopo
il 1950.
Tale segreto, e la
realtà dell’Inghilterra
rurale vittoriana che
ho cercato di delineare
in questo capitolo,
rispondono al famoso
rimprovero di Edmund
Gosse: “Che cosa ha
fatto la Provvidenza a
Mister Hardy perché
egli debba ergersi
sulla fertile terra del
Wessex agitando i pugni
verso il suo
Creatore?”.
Avrebbe potuto
chiedere con la stessa
fondatezza perché gli
Atridi a Micene
agitassero i loro pugni
bronzei verso il cielo.
Non è questa la sede
per penetrare nelle
ombre di Egdon Heath.
Ciò che si sa con
certezza è che nel 1867
l’allora ventisettenne
Hardy tornò nel Dorset,
conclusi gli studi
d’architettura a
Londra, e s’innamorò
profondamente della
cugina sedicenne
Tryphena.
I due si fidanzarono
ma cinque anni dopo,
incomprensibilmente, il
fidanzamento venne
rotto.
Benché non sia del
tutto provato, sembra
certo che a romperlo
sia stata la scoperta
di uno scheletro
particolarmente
sinistro nell’armadio
di famiglia: Tryphena
non era la cugina di
Hardy ma la figlia
illegittima di una sua
illegittima
sorellastra.
Alludono a questo
innumerevoli poesie di
Hardy, come “At the
wicket gate”, “She did
not turn”, “Her
Immortality” (5) e
molte altre; e che dal
lato materno ci fossero
state di recente in
famiglia molte nascite
illegittime è
dimostrato.
Lo stesso Hardy era
nato “a cinque mesi
dall’altare”.
I più timorati hanno
anche sostenuto che
ruppe il fidanzamento
per ragioni di classe:
era troppo giovane
padrone in ascesa per
mettersi con una
semplice ragazza del
Dorset.
E difatti nel 1874
sposò una ragazza di
condizione superiore
alla sua, la
disastrosamente
insensibile Lavinia
Gifford.
Ma Tryphena era una
donna eccezionale: a
venti anni divenne
direttrice di una
scuola di Plymouth dopo
essere stata la quinta
in graduatoria in un
istituto magistrale
londinese.
E’ difficile non
riconoscere che ciò che
li costrinse a
separarsi fu proprio
qualche terribile
segreto di famiglia.
Fu un segreto
fortunato in un certo
senso, perché non c’è
mai stato un genio
inglese così devoto e
obbligato a una musa e
a una soltanto.
Ci ha dato tutte le
sue più grandi elegie
d’amore.
Ci ha dato “Sue
Bridehead” e “Tess”,
che sono spiritualmente
delle pure Tryphena; e
“Giuda l’oscuro” è sia
pure tacitamente
dedicato a lei nella
prefazione dello stesso
Hardy: “Lo schema venne
tracciato nel 1890…
e certe circostanze
furono suggerite dalla
morte di una donna…”.
Tryphena, che intanto
aveva sposato un altro,
morì nel corso di
quell’anno.
Questa tensione
dunque - tra desiderio
e rinuncia, tra ricordo
imperituro e imperitura
repressione, tra
abbandono lirico e
dovere tragico, tra una
sordida realtà e la sua
nobile utilizzazione
stimola e spiega uno
dei massimi scrittori
dell’epoca; e di là da
lui, fornisce una
struttura all’intero
periodo.
E’ per ricordarlo che
ho fatto questa
digressione.
Ma torniamo a bomba.
Avrete ormai
indovinato perché Sam e
Mary stavano
dirigendosi verso il
granaio; e poiché non
era la prima volta che
ci andavano, forse
capirete meglio le
lacrime di Mary… e il
motivo per cui sapeva
del peccato qualcosa di
più di quanto si
potesse sospettare
vedendo per la prima
volta il suo viso di
diciannovenne; o si
sarebbe sospettato,
passando per Dorchester
pochi mesi dopo, dal
viso di una ragazza,
più istruita e di tre
anni più giovane, del
mondo reale; la quale
se ne sta, ormai
impenetrabile per
l’eternità, accanto al
giovane pallido
architetto appena
tornato da cinque
squallidi anni
londinesi e prossimo a
diventare (“Finché la
fiamma avrà divorato il
suo seno e la bocca e i
capelli) il perfetto
emblema del più grande
mistero del suo tempo.

NOTE.
Nota 1.
Il dottor Thomas
Bowdler è un medico
inglese divenuto famoso
per aver pubblicato nel
1818 un’edizione
espurgata delle opere
di Shakespeare.
Il suo nome è entrato
nella lingua con il
verbo “to bowdlerize”
che significa appunto
espurgare [Nota del
Traduttore].
Nota 2.
I primi preservativi,
di pelle di salsiccia,
vennero messi in
vendita verso la fine
del Diciottesimo
secolo.
Malthus, proprio lui,
condannò le tecniche
antifecondative
definendole
“sconvenienti”, ma dopo
il 1820 ci si cominciò
a battere perché
venissero adottate.
La prima
approssimazione a un
moderno “manuale
sessuale” fu opera del
dottor George Drysdale
e portava il titolo un
po’ ambiguo: “The
Elements of Social
Science; or Physical,
Sexual and Natural
Religion, An Exposition
ot the true Cause and
only Cure of the Three
Primary Evils: Poverty,
Prostitution and
Celibacy” [Elementi di
scienze sociali; ovvero
religione fisica,
sessuale e naturale,
Esposizione della vera
causa e della sola cura
dei tre mali
principali: la miseria,
la prostituzione e il
celibato].
Fu pubblicato nel
1854 e venne
abbondantemente letto e
tradotto.
Ecco il consiglio
pratico di Drysdale con
la sua eloquente
parentesi finale: “Si
evita la fecondazione
con il ritiro del pene
immediatamente prima
dell’eiaculazione
(metodo praticato con
molta frequenza da
uomini celibi e
sposati); con l’uso del
preservativo (anch’esso
molto frequente, ma più
sul continente che in
questo paese), con
l’introduzione di una
spugna nella vagina… o
con l’iniettamento di
acqua tiepida nella
vagina stessa
immediatamente dopo il
coito.
“II primo di questi
metodi è fisicamente
nocivo, e rischia di
provocare disturbi
nervosi, indebolimento
sessuale e congestione…
Il secondo, cioè il
preservativo, attutisce
la gioia, e provoca
spesso impotenza
nell’uomo e disgusto in
entrambe le parti, sì
da risultare anch’esso
nocivo.
“Queste obiezioni non
credo che possano
applicarsi al terzo
metodo e cioè
all’inserimento di una
spugna o di qualche
altra sostanza nella
bocca dell’utero.
La donna potrebbe
farlo con facilità e
ciò, mi pare, non
interferirebbe
minimamente nei piaceri
sessuali, né avrebbe
effetti pregiudizievoli
sulla salute di
entrambe le parti.
(Qualunque metodo
preventivo, per essere
soddisfacente, deve
essere impiegato dalla
DONNA, perché se l’uomo
deve pensare a questo,
ne risultano
danneggiate la passione
e l’impulsività
dell’atto venereo).”
Nota 3.
I Naughty Nineties
(letteralmente “I
salaci anni novanta”)
sono l’equivalente
inglese della Belle
Epoque di fine secolo e
coincidono con l’ultimo
decennio, molto meno
vittoriano, del regno
di Vittoria. [Nota del
Traduttore].
Nota 4.
Un’altra ragione
economica era la
diabolica usanza di
pagare gli scapoli -
anche se sotto ogni
altro aspetto il loro
lavoro era il medesimo
- metà degli uomini
sposati.
Questo ingegnoso
sistema per assicurarsi
una mano d’opera
permanente - a un costo
di cui si parlerà più
avanti - scomparve con
il diffondersi delle
macchine agricole.
Si può aggiungere che
il Dorset, scenario del
martirio di Tolpuddle
[un villaggio dove nel
1834 vennero processati
e deportati dei
braccianti accusati di
aver costituito una
società segreta a fini
sindacalistici], era
notoriamente la zona
più scandalosamente
sfruttata
dell’Inghilterra
rurale.
Ecco che cosa
scriveva il reverendo
James Fraser in quello
stesso 1867: “La
modestia deve essere
una virtù sconosciuta e
il pudore una cosa
inimmaginabile quando,
in un unica cameretta,
con letti stipati nella
misura del possibile,
vengono casualmente
ammassati padre, madre,
giovanotti, ragazzi,
ragazze cresciute e
altre ancora
adolescenti - due
generazioni e a volte
anche tre - dove ogni
operazione della
toletta e della natura,
vestirsi, spogliarsi,
nascere e morire, viene
compiuta sotto gli
occhi e gli orecchi di
tutti; dove l’atmosfera
è tutta sensuale e la
natura umana è
degradata a un livello
inferiore a quello dei
porci…
I casi d’incesto sono
tutt’altro che rari.
Noi ci lamentiamo
dell’impudicizia
prematrimoniale delle
nostre donne, del
linguaggio e del
comportamento
licenzioso delle
ragazze che lavorano
nei campi, della
leggerezza con la quale
le fanciulle
sacrificano il proprio
onore e del fatto che
solo raramente il
sangue di un padre o di
un fratello ribolle di
vergogna: qui, nel
sovraffollamento dei
cottage, ci sono una
spiegazione e una
esposizione
sufficienti.” E dietro
tutto questo si
delineavano spettri
ancor più sinistri,
comuni a tutti i ghetti
dal principio dei
tempi: scrofola,
colera, tifo endemico,
tubercolosi.
Nota 5.
Non la maggiore, ma
una delle poesie più
rivelatrici che Hardy
abbia scritto in questo
contesto.
La sua prima versione
si può farla risalire
al 1897.
Gosse la sua domanda
fondamentale la fece
recensendo “Giuda
l’oscuro” nel gennaio
1896.

36.
“But on her forehead
sits a fire: She sets
her forward countenance
And leaps into the
future chance,
Submitting all things
to desire”.
Tennyson, “In
Memoriam” (1850)

“Ma sulla fronte di


lei c’è un fuoco: /
Ella fissa in avanti lo
sguardo / E si protende
nell’occasione futura,
/ Tutto sottomettendo
alla cupidigia”. [Nota
del Traduttore].
Exeter, cento anni
fa, era ben più lontana
dalla capitale di
quanto lo sia oggi; e
pertanto provvedeva
ancora direttamente a
certi svaghi
peccaminosi che ora
tutta l’Inghilterra va
a godersi a Londra.
Sarebbe eccessivo
affermare che nel 1867
aveva un quartiere
delle luci rosse; c’era
soltanto una zona
decisamente rosea,
parecchio distante dal
centro della città e
dalla presenza
purificante della
cattedrale.
Occupava quella parte
della città che digrada
verso il fiume e che un
tempo, nei giorni (già
ben lontani nel 1867)
in cui Exeter era un
porto importante, era
stata il cuore della
vita locale.
Si componeva di un
guazzabuglio di strade
ancora con molte case
Tudor, male illuminate,
puzzolenti e
sovraffollate.
C’erano bordelli,
sale da ballo e
taverne; ma ancor più
numerose erano le
ragazze e le donne
variamente perdute:
madri nubili,
mantenute, tutta una
popolazione sfuggita
alla claustrofobia dei
villaggi e delle
cittadine del Dorset.
Insomma era
notoriamente il luogo
ideale per nascondersi,
stipato di pensioni e
locande di poco prezzo
simili a quella di
Weymouth descritta da
Sarah, rifugi sicuri
dalla severa ondata
moralistica che altrove
dilagava in tutto il
paese.
In questo Exeter non
faceva eccezione: tutte
le maggiori città di
provincia dell’epoca
dovevano concedere
spazio allo sventurato
esercito delle femmine
ferite nella battaglia
per la purezza maschile
universale.
In una strada ai
margini di questa zona
sorgeva una fila di
case georgiane, che
sicuramente all’epoca
in cui erano state
costruite godevano di
una piacevole vista sul
fiume.
Ma erano poi sorti
dei magazzini a
bloccare il panorama e
le case avevano
evidentemente perduto
ogni fiducia nella
propria eleganza
naturale.
Le rifiniture in
legno mancavano di
vernice, i tetti di
tegole e i pannelli
delle porte si erano
spaccati.
Una o due erano
ancora dimore private,
ma un blocco centrale
di cinque, rese
sciattamente uniformi
dall’applicazione
blasfema di un’opaca
vernice bruna sui
mattoni originari,
proclamava con una
lunga insegna di legno
sopra il portone
centrale di essere un
albergo, e precisamente
l’Endicott’s Family
Hotel.
La padrona e
l’amministratrice
(altra informazione
fornita dall’insegna ai
passanti) era Mistress
Martha Endicott la cui
caratteristica
principale consisteva,
a parere unanime, in
una sublime mancanza di
curiosità sulla propria
clientela.
Era una perfetta
donna del Devon, o in
altri termini non
considerava i suoi
aspiranti ospiti ma
soltanto il denaro che
il loro soggiorno le
avrebbe procurato.
Di conseguenza
classificava coloro che
entravano nel suo
piccolo ufficio che
dava nella hall in
uomini da dieci, da
quindici, da venti
scellini e così via…
somme che equivalevano
al costo settimanale di
una camera.
Coloro che si sono
abituati a sborsare
quindici scellini ogni
volta che toccano un
campanello in un
albergo moderno non
devono pensare che
fosse un posto a buon
mercato; a quell’epoca
si affittava
normalmente un cottage
per uno scellino, due
al massimo, la
settimana.
Per sei o sette
scellini si potevano
trovare a Exeter delle
bellissime casette; e
il fatto che la camera
meno cara costasse
dieci scellini la
settimana catalogava
l’Endicott’s Family,
per nessuna ragione
oggettiva tranne la
rapacità della
proprietaria, tra le
dimore più lussuose.
E’ una grigia serata
che sta per dissolversi
nella notte.
Già due lampioni a
gas sul selciato di
fronte sono stati
accesi dal lungo palo
del lampionaio e
illuminano i mattoni
nudi del muro del
magazzino.
Ci sono parecchie
luci accese nelle
camere dell’albergo;
più vive al
pianterreno, più deboli
di sopra, perché come
in tante case
vittoriane si è pensato
che i tubi del gas
costassero troppo per
poterli estendere anche
ai piani alti, dove si
continuano ad usare
lampade a olio.
Da una finestra al
pianterreno, vicino
alla porta principale,
si può scorgere
Mistress Endicott che,
seduta a un tavolino
accanto a una stufetta
a carbone, medita sulla
sua Bibbia, cioè sul
suo libro mastro; e se
passiamo diagonalmente
e verticalmente da
questa finestra a
un’altra nell’estremità
destra della casa, una
finestra abbuiata
all’ultimo piano, le
cui tendine violacee
non sono state ancora
tirate, possiamo vedere
un buon esempio di
dodici scellini e sei,
stavolta con
riferimento alla camera
e non a chi la occupa.
In realtà le camere
sono due, un piccolo
salottino e una ancora
più piccola stanza da
letto, ricavate
entrambe da un unico
locale georgiano di
oneste dimensioni.
Le pareti sono
tappezzate da un
imprecisato disegno di
minuscoli fiori color
bistro.
Ci sono un tappeto
logoro, un tavolino a
tre piedi con un
ripiano rotondo e
coperto da un panno a
coste verde scuro, agli
angoli del quale
qualcuno ha tentato un
tempo - ed era
evidentemente il suo
primissimo tentativo -
di imparare a ricamare;
due scomode poltrone di
legno eccessivamente
lavorato e guarnito da
un esausto velluto
color pulce, un
cassettone di mogano
marrone scuro.
Alla parete una
stampa di volpi di
Charles Wesley e un
pessimo acquarello
della cattedrale di
Exeter, ricevuto con
riluttanza qualche anno
fa a parziale pagamento
del conto di una
signora in angustie.
A parte un piccolo
assieme d’aggeggi sotto
il caminetto dalle
minuscole sbarre, dove
il fuoco era ora di un
assonnato color rubino,
si completava così
l’inventario della
stanza.
Solo un piccolo
particolare la salvava:
la mensola di marmo
bianco, che era
georgiana e mostrava in
alto delle graziose
ninfe con cornucopie di
fiori.
Forse nei loro
classici volti c’era
sempre stata una vaga
espressione di
sorpresa; comunque
adesso era sicuramente
dovuta ai mutamenti
spaventosi avvenuti in
soli cento anni nella
cultura di una nazione.
Erano nate in una
piacevole stanza
rivestita di pannelli
di pino e si trovavano
ora in una squallida
cella.
Dovettero
sicuramente, ammesso
che ne fossero capaci,
emettere un sospiro di
sollievo quando si aprì
la porta e comparve
sulla soglia la sagoma
dell’ospite sinora
assente.
Quel cappotto dal
taglio strano, quella
cuffia nera, quel
vestito indaco con il
collettino bianco…
Sarah entrò con passo
vivace, quasi
impaziente.
Questo non era il suo
primo arrivo
all’Endicott’s Family.
La maniera in cui vi
era giunta - alcuni
giorni prima - era
semplice.
Il nome dell’albergo
era servito da pretesto
a un frizzo ricorrente
nell’istituto di Exeter
dove aveva studiato da
ragazza; l’aggettivo
veniva scambiato per un
nome e si supponeva che
gli Endicott si fossero
talmente moltiplicati
da aver bisogno di un
albergo tutto per loro.
Sarah si era trovata
allo Ship dove c’era il
capolinea degli omnibus
di Dorchester.
Il suo bagaglio
l’aspettava dal giorno
prima.
Un facchino le
domandò dove intendeva
andare.
Ebbe un momento di
panico.
Non le venne in mente
altro nome tranne
quello legato a quel
frizzo quasi
dimenticato.
Una certa espressione
del facchino quando
seppe della sua
destinazione avrebbe
dovuto farle capire che
non aveva scelto per
alloggiarvi la più
distinta dimora di
Exeter.
Tuttavia senza
discutere si caricò il
bagaglio sulle spalle e
la guidò attraverso la
città al quartiere che
già ho descritto.
L’aspetto
dell’albergo non le
fece molta impressione:
se lo ricordava (ma lo
aveva visto soltanto
una volta) più
semplice, più
dignitoso, più aperto…
ma i mendicanti non
possono scegliere.
Pagò in anticipo la
camera per una
settimana, e questa era
evidentemente una
sufficiente
raccomandazione.
Avrebbe voluto
prendere la stanza meno
cara, ma quando scoprì
che per dieci scellini
si aveva a disposizione
un solo locale mentre
per mezza corona in più
se ne aveva uno e
mezzo, si era
affrettata a cambiare
idea.
Entrò in camera a
passo svelto e chiuse
la porta.
Acceso un fiammifero
lo accostò allo
stoppino della lampada,
il cui diffusore di
vetro color latte, una
volta rimesso al suo
posto il “tubo”, teneva
delicatamente lontane
le tenebre.
Poi si strappò di
testa la cuffia e, in
un gesto tipico,
scrollò il capo per
sciogliersi i capelli.
Quindi posò sul
tavolo la borsa di tela
che aveva in mano,
evidentemente troppo
ansiosa di estrarne il
contenuto per pensare a
togliersi il cappotto.
Lentamente e
minuziosamente ne cavò
l’uno dopo l’altro una
serie di oggetti
impacchettati che
sistemò sopra il panno
verde.
Infine avvicinò il
cestino della carta
straccia e cominciò a
disimballare i suoi
acquisti.
Cominciò con una
teiera dello
Staffordshire decorata
con una graziosa
decalcomania di un
cottage lungo un
ruscello e di una
coppia di amanti (che
fissò con attenzione);
poi un boccale Toby,
non una di quelle
mostruosità dai colori
vistosi che venivano
prodotte dall’industria
vittoriana, ma una
cosina delicata color
mauve chiaro e giallo
primula e i lineamenti
del buffone
deliziosamente laccati
di morbido smalto
azzurro (gli esperti in
ceramica possono
riconoscere un Ralph
Leigh).
Questi due acquisti
erano costati a Sarah
nove pence in un
vecchio negozio di
porcellane; il Toby era
incrinato, e lo sarebbe
stato ancor più col
trascorrere del tempo,
come posso
personalmente attestare
avendolo acquistato un
anno o due fa per una
cifra ben superiore ai
tre pence che dovette
sborsare Sarah.
Ma, diversamente da
lei, ciò che mi attirò
non fu il sorriso bensì
la mano di Ralph Leigh.
Sarah possedeva,
anche se non l’abbiamo
mai visto in azione, un
certo senso estetico; o
forse era un senso
emozionale, una
reazione allo
spaventoso ambiente nel
quale si trovava.
Non aveva la minima
idea dell’età del suo
piccolo Toby.
Ma aveva la vaga
sensazione che fosse
stato usato molto e
fosse passato per
parecchie mani, e
adesso era suo…
Adesso era suo: lo
posò sulla mensola e,
sempre senza togliersi
il cappotto, si fermò a
contemplarlo con
concentrazione
infantile come se non
volesse perdere neppure
un attimo di questo
primo godimento della
sua proprietà.
Il suo fantasticare
venne interrotto da un
rumore di passi in
corridoio.
Lanciò un’occhiata
rapida ma intensa verso
la porta.
I passi procedettero
oltre.
A questo punto Sarah
si tolse il cappotto,
attizzò il fuoco e mise
una cuccuma annerita
sulla piastra.
Poi di nuovo si voltò
verso gli altri suoi
acquisti: un pacchetto
di tè, un altro di
zucchero e un bricco di
latte che posò accanto
alla teiera.
Gli altri tre
pacchetti se li portò
nella camera, che
conteneva un letto, un
lavandino di marmo, un
piccolo specchio, uno
smorto frammento di
tappeto e nient’altro.
Lei però aveva occhi
solo per i suoi pacchi.
Il primo conteneva
una camicia da notte.
Non se la provò
accostandosela al
corpo, ma la distese
sul letto e aprì il
secondo pacco.
Era uno scialle di
merino verde scuro con
frange di seta verde
smeraldo.
Lo teneva in mano con
una strana sorta di
estasi, probabilmente
dovuta al suo costo,
perché lo aveva pagato
molto di più di tutte
le altre cose messe
assieme.
Infine sollevò
pensosamente quel
morbido e delicato
tessuto e se lo accostò
alla guancia abbassando
gli occhi sulla camicia
da notte; e a questo
punto, nel primo gesto
veramente femminile che
le ho sinora concesso,
spostò avanti una
treccia dei suoi
capelli castani con
riflessi ramati in modo
da adagiarla sul panno
verde.
Un attimo dopo spiegò
la sciarpa, lunga più
di un metro, e se
l’avvolse intorno alle
spalle.
Altra contemplazione,
stavolta nello
specchio, dopo di che
si riaccostò al letto e
sistemò lo scialle
intorno alle spalle
della camicia da notte.
Svolse infine
l’ultimo pacco, il più
piccolo, contenente
soltanto un rotolo di
bende che, dopo essersi
fermata un momento a
guardare quella
combinazione di verde e
di bianco sul letto,
riportò nell’altra
stanza e infilò in un
cassetto del cassettone
di mogano, proprio
mentre il coperchio
della cuccuma
cominciava a
sobbalzare.
La borsa di Charles
conteneva dieci sovrane
che da sole - e non ha
importanza se entrarono
in gioco altre
considerazioni - furono
sufficienti a
trasformare
l’atteggiamento di
Sarah nei confronti del
mondo esterno.
Da allora ogni sera
aveva contato quelle
dieci monete d’oro e
poi le aveva contate di
nuovo.
Non come un’avara, ma
come una che va a
vedere più e più volte
uno stesso film, per il
piacere irresistibile
che le procurano la sua
trama o certe immagini.
Per giorni e giorni,
da quando era arrivata
a Exeter, non aveva
speso nulla se non il
minimo indispensabile
per sopravvivere, e
anche questo con i suoi
miseri risparmi;
guardava però le
vetrine dei negozi:
vestiti, sedie, tavoli,
articoli di drogheria,
vini, cento altre cose
che le sembravano
nemiche, pronte a
beffarla e a deriderla
come tanti ipocriti
cittadini di Lyme che
evitavano i suoi occhi
quando lei passava loro
davanti e sogghignavano
non appena li aveva
superati.
Per questo ci aveva
messo tanto a comprarsi
una teiera.
Ci si può adattare
con una cuccuma, e la
povertà l’aveva
abituata a non
possedere nulla, aveva
così profondamente
cauterizzato il suo
desiderio di comprare
che, come un marinaio
vissuto per settimane
con solo mezzo biscotto
al giorno, non riusciva
a mangiare tutto il
cibo ora a sua
disposizione.
Il che non significa
che fosse infelice;
tutt’altro.
Si stava
semplicemente godendo
la prima vacanza della
sua vita di adulta.
Si preparò il tè.
Piccole fiamme dorate
brillavano riflesse nel
recipiente sul fuoco.
Sembrava che stesse
aspettando, in quella
luce serena e in quel
crepitio, tra le ombre
prodotte dal fuoco.
Voi forse penserete
che fosse così diversa,
così apparentemente
serena e soddisfatta
della propria sorte,
perché aveva avuto
notizie da Charles o di
Charles.
Ma nemmeno una
parola.
E io non intendo
indagare su ciò che
passava per la sua
mente mentre
contemplava il fuoco,
come non volli farlo
quando nella notte
silenziosa di
Marlborough House i
suoi occhi sgorgavano
lacrime.
Dopo un po’ si alzò a
prendere dallo
scompartimento
superiore del
cassettone un cucchiaio
e una tazza senza
piattino.
Versato il tè, aprì
l’ultimo pacco.
Era un piccolo
pasticcio di carne.
Allora cominciò a
mangiare, senza la
minima delicatezza.

37.
“La rispettabilità ha
steso il suo plumbeo
mantello su tutto il
paese… e vince la corsa
l’uomo che sa venerare
questa grande dea con
devozione senza
riserve”.
Leslie Stephen,
“Sketches from
Cambridge” (1865).
La borghesia…
costringe tutte le
nazioni ad adottare il
sistema di produzione
borghese, se non
vogliono andare in
rovina, le costringe a
introdurre in casa loro
la cosiddetta civiltà,
cioè a diventare
borghesi.
In una parola: essa
si crea un mondo a
propria immagine e
somiglianza”.
Marx e Engels,
“Manifesto del partito
comunista” (1848).
(Traduzione di E.
Cantimori Mezzamonti,
Einaudi, Torino 1948
[Nota del Traduttore]).

Il secondo colloquio
ufficiale di Charles
con il padre di
Ernestina fu assai meno
piacevole del primo, ma
non certo per colpa di
Mister Freeman.
Nonostante i suoi
sentimenti segreti
sugli aristocratici
tutti fannulloni -
egli, negli aspetti
esteriori della vita,
era uno snob.
Si faceva un dovere -
e dedicava a questo la
stessa cura che ai suoi
prosperi affari - di
apparire sotto tutti i
punti di vista un
gentiluomo.
Razionalmente era
convinto di esserlo
alla perfezione, e
forse soltanto nella
sua ossessiva
determinazione di
apparire tale possiamo
riconoscere un certo
dubbio interiore.
Queste nuove reclute
dell’alta borghesia
erano in una situazione
scomoda.
Si consideravano
delle reclute sul
terreno mondano, ma
sapevano benissimo di
essere dei possenti
capitani nel mondo del
commercio.
Alcuni sceglievano
un’altra forma di
mimetismo e adottavano
integralmente, come
Mister Jorrocks, (1) le
occupazioni, le
proprietà e i modi del
vero gentiluomo di
campagna.
Altri - come Mister
Freeman - cercavano di
dare al termine
gentiluomo una
definizione nuova.
Mister Freeman si era
fatto da poco costruire
una casa nelle pinete
del Sussex, ma la
moglie e la figlia ci
vivevano assai più
frequentemente di lui.
Era, a modo suo, un
precursore del ricco
pendolare moderno, a
parte il fatto che
trascorreva in campagna
soltanto i weekend e
anche questo di rado
tranne che d’estate.
E mentre il suo
equivalente moderno ha
la passione del golf,
delle rose, del gin o
dell’adulterio, Mister
Freeman aveva quella
della serietà.
Profitto e serietà
(in quest’ordine)
sarebbe potuto essere
il suo motto.
Aveva fatto fortuna
grazie al grande
cambiamento
socioeconomico
verificatosi tra il
1850 e il 1870: il
passaggio dalla
preminenza della
fabbrica a quella del
negozio, dal produttore
al cliente.
Questa prima grande
ondata di consumi
cospicui aveva giovato
moltissimo ai suoi
libri di conti; in
compenso - e ad
imitazione di una
generazione precedente
di profittatori
puritani i quali
avevano anch’essi
preferito la caccia al
peccato alla caccia
alla volpe - egli era
diventato estremamente
coscienzioso e
cristiano nella sua
vita privata.
Come certi nababbi
della nostra epoca si
dedicano alla raccolta
delle opere d’arte,
coprendo degli ottimi
investimenti con una
elegante patina di
filantropia, così
Mister Freeman versava
ingenti contributi alla
Società per la
propagazione della
conoscenza cristiana e
ad analoghe istituzioni
benefiche militanti.
Secondo i nostri
criteri, i suoi
apprendisti e gli altri
dipendenti vivevano in
condizioni atroci ed
erano spaventosamente
sfruttati, ma secondo
quelli del 1867 quella
di Freeman era
un’azienda
eccezionalmente
avanzata, un modello
del suo genere.
Quando fosse andato
in paradiso, si sarebbe
lasciato dietro
maestranze felici, e i
suoi eredi ne avrebbero
tratto profitto.
Era il tipo solenne
del direttore
didattico, con intensi
occhi grigi, la cui
scaltrezza tendeva a
dare a tutte le persone
soggette alla loro
indagine l’impressione
di essere della
scadente mercanzia di
Manchester.
Ascoltò tuttavia
l’annuncio di Charles
senza segni esteriori
di emozione,
limitandosi ad annuire
gravemente quando
Charles arrivò alla
fine delle sue
spiegazioni.
Seguì un silenzio.
Il colloquio si
svolse nello studio di
Mister Freeman, situato
nella casa di Hyde
Park.
Esso non dava alcun
segno della sua
professione.
Le pareti erano
rivestite di libri
dall’aspetto
adeguatamente severo;
un busto di Marco
Aurelio (o era Lord
Palmerston nel bagno?);
una o due incisioni
grandi ma vaghe, tanto
che era difficile
stabilire se si
trattava di carnevali o
di battaglie, benché
riuscissero a dare
l’impressione di
un’umanità rudimentale,
assai lontana da questo
ambiente.
Mister Freeman si
schiarì la gola e prese
a fissare il marocchino
rosso e dorato della
sua scrivania; sembrava
stesse per
pronunciarsi, ma poi
cambiò idea.
E’ molto
sorprendente.
Estremamente
sorprendente.
Seguì un’altra pausa,
durante la quale
Charles si sentì un po’
irritato e un po’
divertito.
Vide che stava per
ricevere una razione di
padre nobile.
Ma poiché era stato
lui a volersela, poté
soltanto soffrire nel
silenzio che seguì,
inghiottendola,
quell’insoddisfacente
risposta.
Di fatto Mister
Freeman aveva reagito
più da uomo d’affari
che da gentiluomo,
perché l’idea che gli
era subito balenata in
mente era che Charles
fosse venuto a chiedere
un aumento della dote.
Avrebbe potuto
concederglielo senza
danno, ma nello stesso
tempo gli si era
affacciato un terribile
dubbio: che Charles
avesse sempre saputo
del probabile
matrimonio dello zio.
La cosa che più
detestava era di avere
la peggio in
un’importante
trattativa d’affari, e
questa in fondo
concerneva l’oggetto
che più gli era caro.
Fu Charles infine che
ruppe il silenzio.
Non credo di dover
aggiungere che la
decisione di mio zio è
stata una grande
sorpresa anche per me.
Certo, certo.
Ma ho ritenuto mio
dovere informarla
immediatamente… e di
persona.
Molto corretto da
parte sua.
Ed Ernestina… sa? E’
stata la prima cui l’ho
detto.
E’ ovviamente
influenzata
dall’affetto che mi ha
fatto l’onore di
accordarmi.
Charles esitò, poi si
frugò in tasca.
Le porto una sua
lettera.
Si alzò e la posò
sulla scrivania, dove
Mister Freeman la fissò
con quegli scaltri
occhi grigi,
evidentemente
preoccupati da altri
pensieri.
Lei ha ancora un
discreto reddito
personale, no?
Non posso dire di
essere divenuto povero.
E a questo dobbiamo
aggiungere la
possibilità che suo zio
non sia tanto fortunato
da avere un erede.
Appunto.
E la certezza che
Ernestina si unirà a
lei con una dote
adeguata.
Lei è stato molto
generoso.
E un giorno io sarò
chiamato all’eterno
riposo.
Caro signore, io…
Il gentiluomo aveva
vinto.
Mister Freeman si
alzò.
Tra noi possiamo
dirle queste cose.
Sarò molto franco con
lei, mio caro Charles.
La mia principale
considerazione è la
felicità di mia figlia.
Ma non ho bisogno di
dirle quale valore essa
abbia in termini
finanziari.
Quando lei mi ha
chiesto il permesso di
chiedere la sua mano,
ai miei occhi la meno
trascurabile delle
raccomandazioni non era
certo il fatto che
sarebbe stata
un’alleanza basata su
un reciproco rispetto
tra persone di eguale
valore economico.
Lei mi ha assicurato
che il mutare delle sue
condizioni le è
arrivato come un
fulmine a ciel sereno.
Nessuno che conosca
la sua rettitudine
morale potrebbe
attribuirle un movente
ignobile.
E’ questa la mia sola
preoccupazione.
Ed è decisamente
anche la mia, signore.
Seguì un’altra pausa.
Sapevano entrambi ciò
che in realtà si era
detto: che pettegolezzi
maliziosi si sarebbero
ora scatenati intorno
al matrimonio.
Avrebbero affermato
che Charles aveva avuto
sentore del dileguarsi
delle sue prospettive
prima di fare la sua
proposta, e avrebbero
deriso Ernestina per
aver perso quel titolo
nobiliare così
facilmente acquistabile
altrove.
E’ meglio che io
legga la lettera.
La prego di scusarmi.
Prese un tagliacarte
d’oro massiccio e aprì
la busta.
Charles andò alla
finestra a guardare gli
alberi di Hyde Park.
E lì, oltre la fila
delle carrozze di
Bayswater Road, vide
una ragazza - una
commessa o una
cameriera, a giudicare
dall’aspetto - che
aspettava su una
panchina davanti alla
cancellata, e mentre
lui la guardava arrivò
un soldato con la
giubba rossa.
La salutò e lei si
voltò.
Era troppo lontana
per vederla in viso, ma
la premura con la quale
si era voltata
dimostrava con evidenza
che quei due erano
amanti.
Il soldato le prese
la mano e se l’accostò
al cuore per un attimo.
Si scambiarono
qualche parola.
Poi lei infilò una
mano sotto il suo
braccio e insieme
procedettero lentamente
verso Oxford Street.
Charles, che si era
concentrato su questa
scenetta, trasalì
quando Mister Freeman
gli venne vicino con la
lettera in mano.
Stava sorridendo.
Dovrei forse leggerle
quel che dice Ernestina
in un poscritto.
Si accomodò gli
occhiali cerchiati
d’argento. “Se darai
retta anche solo per un
momento alle
stupidaggini di
Charles, lo convincerò
a fuggire con me a
Parigi”.
Alzò ironicamente gli
occhi verso Charles.
Sembra che non ci
restino altre
alternative.
Charles sorrise
debolmente.
Ma se le occorresse
ancora un po’ di tempo
per riflettere…
Mister Freeman posò
una mano sulla spalla
dello scrupoloso.
Dirò a Ernestina di
aver trovato il suo
promesso ancor più
ammirevole nelle
avversità che nella
buona fortuna.
E penso che quanto
prima lei tornerà a
Lyme tanto meglio sarà.
Lei mi fa un grande
favore.
Me ne fa uno più
grande lei rendendo
felice mia figlia.
La sua lettera non è
tutta così frivola.
Prese Charles per un
braccio e lo ricondusse
nella stanza.
E mio caro Charles…
Mister Freeman
provava un certo
piacere nell’usare
questa frase: … io non
credo che stare attenti
a ciò che si spende nei
primi tempi di un
matrimonio sia una cosa
del tutto negativa.
Ma se le circostanze
dovessero…
Lei mi capisce.
Lei è molto gentile.
Non parliamone più.
Mister Freeman prese
il suo mazzo di chiavi,
aprì un cassetto della
scrivania e vi pose la
lettera della figlia,
come se fosse stata un
prezioso documento di
stato; o forse perché
sulla servitù la sapeva
più lunga della maggior
parte dei padroni
vittoriani.
Mentre richiudeva a
chiave il cassetto,
levò gli occhi su
Charles, che aveva ora
la sgradevole
impressione di essere
diventato un suo
impiegato…
il prediletto, certo,
ma in qualche modo alle
dipendenze di questo
gigante del commercio.
Ma il peggio doveva
ancora venire: forse
non era stato soltanto
il. gentiluomo a
determinare la
gentilezza di Mister
Freeman.
Posso ora,
approfittando
dell’occasione
favorevole, aprirle il
mio cuore su una
questione che riguarda
sia lei sia Ernestina?
Charles assentì con un
cortese inchino, ma
sembrò per un attimo
che Mister Freeman non
riuscisse a trovare le
parole.
Rimise con eccessiva
meticolosità il
tagliacarte al suo
posto e si accostò alla
finestra dalla quale si
erano allontanati pochi
minuti prima.
Poi si voltò.
Mio caro Charles, io
mi considero un uomo
fortunato sotto tutti
gli aspetti.
Tranne uno.
Abbassò gli occhi sul
tappeto.
Io non ho figli.
S’interruppe di nuovo
per lanciare
un’occhiata penetrante
al futuro genero.
Suppongo che il
commercio le appaia una
cosa detestabile.
Non è un’occupazione
degna di un gentiluomo.
E’ solo una frase
fatta, signore.
Lei stesso è una
prova evidente del
contrario.
Dice davvero? O è una
frase fatta anche la
sua? I suoi occhi
grigio ferro erano
divenuti all’improvviso
molto franchi.
Charles rimase un
attimo perplesso.
Allargò le braccia.
Io comprendo ciò che
ogni uomo intelligente
dovrebbe capire… la
grande utilità del
commercio, la sua
importanza essenziale
nell’economia della
nazione…
Sì, certo.
E’ quello che dicono
tutti i politici.
E non possono fare
altrimenti, perché è
dal commercio che
dipende la prosperità
del nostro paese.
Ma le piacerebbe che
dicessero di lei che è…
nel commercio? E’ una
possibilità che non si
è mai presentata.
Ma se dovesse
presentarsi? Vuol dire
che… io…
Aveva finalmente
capito dove il suocero
voleva andare a parare;
e, rendendosi conto del
suo turbamento, il
suocero si affrettò a
lasciare il posto al
gentiluomo.
Non intendo dire,
ovviamente, che lei
dovrebbe occuparsi dei
problemi quotidiani
della mia azienda.
Questo è compito dei
sovrintendenti, degli
impiegati e degli altri
miei dipendenti.
Ma gli affari stanno
prosperando, Charles.
L’anno prossimo
apriremo degli empori a
Bristol e a
Birmingharn.
E siamo appena agli
inizi.
Io non posso offrirle
un impero geografico o
politico.
Ma sono certo che un
giorno una qualche
sorta d’impero finirà
nelle mani sue e di
Ernestina.
Mister Freeman
cominciò a passeggiare
avanti e indietro.
Quando sembrava che i
suoi futuri compiti
dovessero consistere
nel dirigere la
proprietà di suo zio,
io non le dissi nulla.
Ma lei ha energia,
istruzione e grandi
capacità…
Ma la mia ignoranza
su ciò che lei così
gentilmente mi propone
è…
be’, quasi
totale.Mister Freeman
liquidò con un gesto
questa obiezione.
Cose come l’onestà,
la facoltà d’imporre
rispetto, di giudicare
gli uomini con
scaltrezza… sono molto
più importanti.
E non credo che lei
sia deficiente in
questi settori.
Non sono certo di
aver completamente
capito quel che mi
suggerisce.
Non le suggerisco
niente di immediato.
E comunque per un
anno o due dovrà
pensare soltanto al
matrimonio, e non dovrà
avere preoccupazioni o
interessi d’altro
genere.
Ma se un giorno la…
divertisse sapere
qualcosa di più della
grande impresa che
finirà per ereditare
attraverso Ernestina
niente mi farebbe più
piacere… e anche a mia
moglie, devo
aggiungere… che
incoraggiare questo
interesse.
La cosa che meno
desidero è di apparirle
ingrato, ma… vede, ciò
mi sembra così poco
consono alle mie
propensioni naturali, a
quel poco talento che
posso avere…
Non le propongo altro
che una partecipazione.
In termini pratici
niente di più oneroso,
per cominciare, che una
visita ogni tanto agli
uffici direzionali, una
generica supervisione
di ciò che sta
succedendo.
La sorprenderà,
credo, vedere a quale
tipo d’uomini affido
ora le posizioni di
maggiore
responsabilità.
Non è per niente
vergognoso conoscerli.
Le garantisco che la
mia esitazione non è in
alcun modo dovuta a
considerazioni d’ordine
sociale.
Allora può essere
causata soltanto dalla
sua modestia.
E su questo punto,
caro giovanotto, lei si
giudica male.
Il giorno al quale ho
accennato dovrà venire…
E io non ci sarò più.
Lei, ovviamente potrà
fare ciò che vuole
della cosa alla cui
edificazione ho
dedicato tutta la mia
vita.
Potrà trovare buoni
dirigenti che se ne
occupino per suo conto.
Ma dia retta a ciò
che le dico.
A un’azienda di
successo è
indispensabile un
proprietario attivo
come a un buon esercito
è indispensabile un
generale.
Tutti i buoni soldati
del mondo non
serviranno a nulla se
non ci sarà lui a
guidare la battaglia.
Charles, sotto il
primo impatto di questo
paragone lusinghiero,
si sentì come Gesù di
Nazareth tentato da
Satana.
Aveva passato anche
lui delle giornate nel
deserto che rendevano
ancor più allettante la
proposta.
Ma era un gentiluomo
e un gentiluomo non può
dedicarsi al commercio.
Cercò la maniera di
dirlo, ma non riuscì a
trovarla.
E in una discussione
d’affari l’indecisione
è segno di debolezza.
Mister Freeman
approfittò
dell’occasione.
Non riuscirà mai a
farmi ammettere che
discendiamo tutti dalle
scimmie.
E’ una teoria che a
me pare blasfema.
Ma ho ripensato a
lungo a molte delle
cose che lei disse
durante il nostro
piccolo battibecco.
E vorrei che ora mi
ripetesse le sue parole
sul fine di questa
teoria dell’evoluzione.
Una specie deve
cambiare…
Per poter
sopravvivere.
Deve adattarsi ai
mutamenti
dell’ambiente.
Esatto.
Ora a questo io ci
credo.
Ho venti anni più di
lei.
Inoltre ho trascorso
la vita in un campo nel
quale se non si cambia
- e con molta abilità -
per adattarsi al gusto
del momento, non si
sopravvive.
Si va in fallimento.
I tempi stanno
cambiando, lei lo sa
bene.
Viviamo in un’epoca
di grande progresso.
E il progresso è come
un cavallo vivace.
O lo si doma o se ne
viene schiacciati.
Il cielo mi guardi
dal dire che l’essere
un gentiluomo sia
un’occupazione
insufficiente.
Questo sarebbe
assurdo.
Ma la nostra è
un’epoca di fatti, di
grandi fatti, Charles.
Lei può dire che
questo non la riguarda,
che lei è al di sopra.
Si chieda però se
potrebbe interessarla.
E’ tutto quello che
le domando.
Ci rifletta.
Non ha bisogno di
prendere una decisione,
per ora. Non ne ha
nessun bisogno.
Fece una pausa.
Ma non respinga
subito l’idea.
Charles a questo
punto aveva
l’impressione di essere
ridotto a uno straccio,
vittima, sotto ogni
aspetto,
dell’evoluzione.
I suoi vecchi dubbi
sulla futilità della
propria esistenza
venivano ora ridestati
anche troppo
facilmente.
Intuiva ora ciò che
Mister Freeman pensava
veramente di lui: che
era un ozioso.
E ciò che gli
proponeva: di
guadagnarsi la dote
della moglie.
Gli sarebbe piaciuto
reagire con prudente
freddezza, ma dietro la
veemenza della voce di
Mister Freeman c’era
calore e una maniera di
stabilire un rapporto.
Per Charles era come
se avesse viaggiato
tutta la vita tra
piacevoli colline per
approdare poi in una
sterminata pianura di
tedio e, a differenza
del più famoso dei
pellegrini, vi vedeva
soltanto Dovere e
Umiliazione, non certo
Felicità e Progresso.
Riuscì a gettare uno
sguardo su quei
penetranti occhi
commerciali in attesa.
Confesso di essere un
po’ sopraffatto.
Non le chiedo che di
pensarci sopra.
Certo.
Naturalmente.
Ci penserò con molta
serietà.
Mister Freeman andò
ad aprire la porta.
Sorrise.
Temo che dovrà
affrontare ancora una
prova.
Ci aspetta Mistress
Freeman impaziente di
ascoltare gli ultimi
pettegolezzi di Lyme.
Pochi secondi dopo i
due uomini stavano
percorrendo un largo
corridoio diretti allo
spazioso pianerottolo
che s’affacciava sul
salone.
C’era poco lì dentro
che non rispettasse il
miglior gusto
contemporaneo.
E tuttavia, mentre
scendevano lo scalone a
semicerchio ai piedi
del quale montava la
guardia un valletto,
Charles si sentiva
confusamente degradato,
come un leone in
gabbia.
Sentì, con inattesa
acutezza, un’intensa
vampata d’amore per
Winsyatt, nonostante i
suoi “abominevoli”
vecchi quadri e mobili,
per tutto quello che
comportava in fatto di
antichità, di
sicurezza, di “savoir
vivre”.
L’idea astratta
dell’evoluzione era
entusiasmante, ma la
sua traduzione in atto
sembrava intrisa di
pomposa volgarità
quanto le colonne
corinzie dorate di
fresco che
incorniciavano la porta
sulla quale lui e il
suo tormentatore si
fermarono per un attimo
- “Mister Charles
Smithson, signora” -
prima di entrare.

NOTE.
Nota 1.
Protagonista di una
serie di romanzi di
successo di Robert
Surtees [Nota del
Traduttore].

38.
“Sooner or later I
too may passively take
the print Of the golden
age - why not? I have
neither hope or trust;
May make my heart as a
millstone, set my face
as a flint, Chest and
be cheated, and die:
who knows? we are ashes
and dust”.
Tennyson, “Maud”
(1855).
“Presto o tardi posso
anch’io ricevere
l’impronta / Dell’età
dell’oro - perché no?
Non ho speranza né
fiducia; / Posso fare
del mio cuore una
pietra da mulino,
immobilizzare il mio
viso come una selce, /
Ingannare ed essere
ingannato, morire:
chissà? siamo cenere e
polvere”. [Nota del
Traduttore].

Quando Charles venne


finalmente a trovarsi
sulla larga scalinata
della dimora cittadina
dei Freeman, era già il
crepuscolo, fresco e
illuminato dal gas.
C’era una leggera
nebbiolina che
mescolava l’aroma della
verzura primaverile del
parco di fronte alla
solita familiare
fuliggine.
Charles aspirò questa
acre essenza di Londra
e decise di fare una
passeggiata.
Lo “hansom” che era
stato chiamato per lui
venne congedato.
Passeggiava senza una
meta precisa, nella
vaga direzione del suo
club in St.
James; passò dapprima
accanto alla cancellata
di Hyde Park, quelle
sbarre pesanti la cui
caduta sotto l’assalto
di una folla (e sotto
gli occhi inorriditi
del suo recente
interlocutore) avrebbe
affrettato tre
settimane dopo
l’approvazione del
grande Reform Bill.
Poi voltò in Park
Lane.
Ma qui la calca era
assai sgradevole.
Gli ingorghi del
traffico medio-
vittoriano erano brutti
come quelli di oggi, e
parecchio più rumorosi,
perché ogni ruota di
carro aveva un
cerchione di ferro che
grattava sulle lastre
di granito.
Perciò, imboccando
quella che pensava
fosse una scorciatoia,
s’immerse nel cuore di
Mayfair.
La nebbia si era
infittita, non tanto da
oscurare ogni cosa ma
quanto bastava per
immergere ciò che
incontrava in una
leggera atmosfera di
sogno; come se egli
fosse stato un turista
venuto da un altro
mondo, un Candide
incapace di vedere
alcunché tranne le cose
più ovvie, un uomo
bruscamente privato del
senso dell’ironia.
Il trovarsi privo di
questo elemento
fondamentale della sua
psiche equivaleva quasi
ad esser nudo, e questa
è forse la frase
migliore per descrivere
come Charles si
sentiva.
Non sapeva più bene
che cosa lo avesse
spinto ad andare dal
padre di Ernestina: era
una faccenda che
avrebbe potuto sbrigare
per lettera.
Se ora la sua
scrupolosità pareva
assurda, lo erano anche
quei discorsi sulla
povertà e sulla
necessità di
amministrare
saggiamente il suo
reddito.
In quell’epoca,
specialmente in una
serata che minacciava
nebbia, i benestanti
viaggiavano tutti in
carrozza e i pedoni
erano necessariamente
dei poveri.
Perciò quasi tutti
coloro che Charles
incontrava
appartenevano alle
classi più umili:
domestici delle grandi
case di Mayfair,
impiegati, bottegai,
mendicanti, spazzini
(una professione molto
più diffusa quando
regnava il cavallo),
venditori ambulanti,
monelli, qualche
prostituta.
Per tutti costoro
cento sterline
all’anno, lo sapeva
benissimo, sarebbero
state una fortuna,
eppure lui era stato
commiserato perché
doveva arrabattarsi con
una somma venticinque
volte superiore.
Charles non era un
protosocialista.
Non si rendeva conto
della mostruosità
morale della sua
posizione economica
privilegiata, perché si
sentiva tutt’altro che
privilegiato in altri
campi.
La prova l’aveva
tutt’attorno.
In genere i passanti
non sembravano
scontenti della propria
sorte, ad eccezione dei
mendicanti che erano
obbligati
ad apparire
miserabili per avere
successo.
Lui invece era
infelice; infelice e
isolato; sentiva che
l’enorme apparato che
il suo rango imponeva a
un gentiluomo di
erigere intorno a se
stesso era come la
massiccia armatura che
aveva condannato a
morte tante antiche
specie saure.
Questa immagine di un
mostro estinto lo
indusse a rallentare il
passo.
Arrivò addirittura a
fermarsi, povero
fossile vivente, mentre
davanti a lui
s’accalcavano, come
amebe sotto un
microscopio,
affaccendate forme di
vita, più vive e più
adatte, lungo la
piccola fila di negozi
alla quale era
pervenuto.
Due suonatori
d’organetto
gareggiavano tra loro e
uno strimpellatore di
banjo faceva
concorrenza ad
entrambi.
Venditori di purée di
patate, di zamponi, di
castagne arrosto.
Una vecchia che
smerciava fiammiferi,
un’altra con un
canestro di narcisi.
Acquaioli,
fontanieri, spazzini
con il berretto tirato
indietro, meccanici con
il cappello a
tamburello e
un’epidemia di
minuscoli pezzenti
seduti sui gradini
delle porte e sui
cordoni dei marciapiedi
o appoggiati ai pali
per i cavalli come
tanti piccoli avvoltoi.
Uno di questi ragazzi
smise di saltellare per
scaldarsi - era, come
quasi tutti, a piedi
nudi - e avvertì con un
fischio acutissimo un
piccolo venditore di
cartoline il quale
corse, agitando un
fascio di stampe
colorate, verso Charles
che se ne stava tra le
quinte di questo
palcoscenico animato.
Charles si allontanò
frettolosamente
cercando una strada più
buia.
Una rauca vocina gli
corse appresso cantando
i versi beffardi di una
canzonetta in voga:

Why don’cher
come’ome, Lord
Marmaduke, And ‘ave an
‘ot supper wiv me? An’
when we’ve bottomed a
jug o’good stout We’Il
riddle-dee-ro-di-dee,
ooooh, We’Il riddle-
dee-ro-di-ree.

Questo ricordò a
Charles, una volta che
si fu messo in salvo da
quella voce e dagli
sberleffi che
l’accompagnavano, un
altro elemento
fondamentale
dell’atmosfera
londinese, meno
concreto della
fuliggine, ma del pari
inconfondibile: il
profumo del peccato.
Non erano tanto le
miserabili
passeggiatrici che
scorgeva ogni tanto, e
che lo lasciavano
passare senza adescarlo
(aveva troppo
evidentemente l’aspetto
di un gentiluomo, e
loro cercavano prede
più modeste), quanto la
generale anonimità
della grande metropoli;
la sensazione che tutto
vi si potesse
nascondere, che tutto
potesse restare
inosservato.
Lyme era una
cittadina di occhi
acuti, questa una
metropoli di ciechi.
Nessuno si voltava a
guardarlo.
Era quasi invisibile,
non esisteva, e ciò gli
dava un senso di
libertà, ma un senso
terribile, perché in
realtà l’aveva perduta;
era come Winsyatt
insomma.
Aveva perduto tutto
nella sua vita, e tutto
gli ricordava che
l’aveva perduto.
Un uomo e una donna
che passarono
frettolosi parlavano
francese; erano
francesi.
E allora Charles si
sorprese a desiderare
di essere a Parigi, e
poi di essere
all’estero… di
viaggiare.
Di nuovo! “Oh se
potessi scappare, se
potessi scappare…”
mormorò a se stesso una
dozzina di volte; poi,
metaforicamente, si
scosse rimproverandosi
di essere così privo di
senso pratico, così
romantico, così
insensibile al proprio
dovere.
Passò davanti a una
scuderia, che non era a
quei tempi una fila
elegante di
“maisonettes”, ma una
rumorosa attuazione
della sua vera
funzione: cavalli che
venivano strigliati e
governati, equipaggi da
tirar fuori, zoccoli
scalpitanti mentre gli
animali prendevan posto
rinculando tra le
sbarre, un cocchiere
che fischiava
fragorosamente lavando
i fianchi della sua
carrozza, e tutto in
preparazione per il
lavoro della sera.
Una teoria
stupefacente balenò
alla mente di Charles:
le classi inferiori
erano segretamente più
felici della superiore.
Non erano, come
volevano far credere i
radicali, la sofferente
infrastruttura che
gemeva sotto le
opulente pazzie dei
ricchi, ma dei
parassiti soddisfatti.
Ricordò che, pochi
mesi prima, nei
giardini di Winsyatt,
si era imbattuto in un
porcospino.
Lo aveva toccato col
bastone costringendolo
a rovesciarsi, e tra i
suoi aculei aveva visto
uno sciame di pulci
disturbate.
Allora era stato
abbastanza biologo per
sentirsi più
affascinato che
disgustato da questo
rapporto tra due mondi
diversi, mentre adesso
era sufficientemente
depresso per capire chi
era il porcospino: un
animale la cui sola
difesa era di starsene
come morto rizzando i
propri aculei, la
propria aristocratica
sensibilità.
Poco dopo capitò
davanti a una bottega
di ferramenta e rimase
fuori a guardare oltre
la vetrina il banco
dove il negoziante, in
bombetta e grembiule di
cotone, contava delle
candele a una bimba di
dieci anni che lo
fissava dal basso e
protendeva verso di lui
tra le rosse dita il
penny che gli avrebbe
versato.
Commercio.
Traffici.
Charles arrossì
ricordando ciò che gli
era stato offerto.
Ora capiva che era
stata una volontà
d’insulto, un disprezzo
per la sua classe a
istigare quella
proposta.
Freeman avrebbe
dovuto sapere che lui
non avrebbe mai potuto
dedicarsi agli affari,
diventare un bottegaio.
E lui avrebbe dovuto
respingere gelidamente
l’invito al primissimo
accenno; ma come
poteva, se tutta la sua
ricchezza era destinata
a sgorgare proprio da
quella fonte.
Arriviamo così nei
pressi dell’autentico
nocciolo del
malcontento di Charles:
la sensazione di essere
divenuto il marito
acquistato, il
fantoccio del suocero.
Non aveva importanza
che matrimoni del
genere fossero ormai
una tradizione nella
sua classe; tradizione
ereditata da un’epoca
nella quale un
matrimonio elegante era
un contratto d’affari,
pubblicamente
riconosciuto come tale,
che né il marito né la
moglie avevano
l’obbligo di rispettare
di là dai suoi termini:
denaro in cambio di
prestigio sociale.
Ma adesso il
matrimonio era divenuto
un’unione casta e
sacra, una cerimonia
cristiana per la
creazione del puro
amore e non della pura
convenienza.
Anche se fosse stato
così cinico da
proporlo, sapeva che
Ernestina non avrebbe
mai permesso che
l’amore diventasse un
elemento secondario del
loro matrimonio.
Avrebbe preteso
costantemente che egli
l’amasse e amasse
soltanto lei.
E da ciò sarebbero
seguite altre
conseguenze
inevitabili:
gratitudine per la sua
ricchezza, e questo
ricatto morale per
associarlo all’azienda…
Intanto, come per una
fatale magia, era
arrivato a un angolo.
La parte finale di
una buia viuzza
laterale era un’alta
facciata illuminata.
Charles riteneva di
essere ormai nei pressi
di Piccadilly, ma
questo palazzo dorato
in fondo a una voragine
color seppia era in
direzione nord, ed egli
si rese conto di aver
perso il senso
dell’orientamento e di
essere arrivato in
Oxford Street… e per di
più, per fatale
coincidenza, proprio in
quel tratto di Oxford
Street che era occupato
dal grande negozio di
Mister Freeman.
Come magnetizzato,
egli percorse la viuzza
laterale, uscendo in
Oxford Street, dove
poteva vedere in tutta
la sua lunghezza quella
gigantesca fila gialla
(erano state da poco
introdotte le vetrine
di cristallo) con la
sua stipata esposizione
di cotoni, pizzi, gonne
e rotoli di panno.
Certi cilindri e
certi ghirigori
disegnati con i nuovi
colori all’anilina
erano talmente intensi
e “nouveau riche” che
sembravano quasi
contaminare l’aria che
avevano intorno.
Su ogni prodotto
c’era un biglietto
bianco che ne
annunciava il prezzo.
Il negozio era ancora
aperto e la gente
continuava ad entrarvi.
Charles cercò di
immaginare se stesso
mentre varcava una di
quelle porte ma non ci
riuscì.
Avrebbe preferito
essere il mendicante
accovacciato
nell’androne accanto a
lui.
Non era soltanto il
fatto che il negozio
non gli apparisse più
ciò che era stato
sinora per lui: uno
scherzo, una miniera
d’oro in Australia, un
luogo praticamente
inesistente nella
realtà.
Gli appariva invece
pieno di potere; una
grande macchina, un
mostro che contava di
risucchiare e macinare
tutto ciò che gli
passava vicino.
A tanti uomini,
persino a quei tempi,
trovarsi lì sapendo che
quell’enorme edificio,
e altri simili, con
tutto il suo oro e la
sua potenza era ormai a
portata delle loro
mani, avrebbe dato la
sensazione di un
paradiso in terra.
Charles invece rimase
sul marciapiede di
fronte e chiuse gli
occhi, come se sperasse
di cancellarlo per
sempre.
Nel suo rifiuto c’era
certamente qualcosa di
meschino: un semplice
snobismo, un lasciarsi
giudicare e influenzare
da un pubblico di
antenati.
C’era anche una certa
pigrizia: la paura del
lavoro, della routine,
della concentrazione,
del dettaglio.
E c’era infine una
punta di codardia,
perché Charles, come vi
sarete probabilmente
accorti, aveva paura
degli altri esseri
umani, specialmente se
appartenevano a una
classe inferiore.
L’idea di avere
contatti con tutte
quelle sagome che
vedeva affollarsi
davanti alle vetrine ed
entrare e uscire dalle
porte di fronte, gli
dava la nausea.
Era assolutamente
insopportabile.
C’era però nel suo
rifiuto anche un
elemento nobile: la
sensazione che il
perseguimento del
denaro fosse
insufficiente come
scopo di vita.
Non sarebbe mai
diventato un Darwin o
un Dickens, un grande
artista o un grande
scienziato; ma nella
peggiore delle ipotesi,
un dilettante, un
fannullone, un quel che
volete voi che lascia
lavorare gli altri
senza dare alcun
contributo.
Ma nella propria
nullità trovò una
strana forma di
momentaneo rispetto per
se stesso, la
sensazione che
scegliere di non essere
niente era l’ultima
grazia capace di
redimere un gentiluomo,
in un certo senso anche
la sua ultima libertà.
L’idea gli si
presentò alla mente con
estrema chiarezza: “Se
mai metto piede in quel
luogo, sono spacciato”
A voi questo dilemma
può sembrare molto
lontano, e io non
voglio certo difendere
il gentiluomo, che nel
1969 è una specie in
estinzione assai più di
quanto persino la
pessimistica
immaginazione di
Charles avesse potuto
prevedere in quella
remota serata d’aprile.
La morte non è NELLA
natura delle cose, ma è
LA natura delle cose.
Ma ciò che muore è la
forma.
La sostanza è
immortale.
Attraverso la
successione di quelle
forme soppiantate che
noi chiamiamo esistenze
sopravvive un certo
tipo di immortalità.
Possiamo far risalire
le migliori qualità del
gentiluomo vittoriano
ai “preux chevaliers”
del Medio Evo, e
spostarle avanti nel
tempo sino al
gentiluomo moderno, a
quella gente che noi
chiamiamo scienziati,
perché è senza dubbio
qui che quel fiume è
venuto a scorrere.
In altre parole, ogni
cultura, per quanto
antidemocratica e per
quanto egualitaria, ha
bisogno di una sua
élite etica, vincolata
a certe norme di
comportamento, alcune
delle quali possono non
essere per niente
etiche, e quindi
spiegare la successiva
morte di quella forma,
ma è sempre grande il
loro fine segreto: dare
un sostegno o una
struttura ai migliori
risultati della loro
funzione storica.
Forse voi scorgete
ben pochi rapporti tra
il Charles del 1267,
con tutte le sue idee
appena importate dalla
Francia sulla castità e
sulla ricerca del Santo
Graal, il Charles del
1867, con il suo odio
per il commercio, e il
Charles di oggi,
scienziato elettronico
sordo agli strilli dei
teneri umanisti che
cominciano a rendersi
conto della loro
superfluità.
Ma un legame c’è:
tutti costoro
rifiutavano o rifiutano
il concetto del
POSSESSO come scopo
della vita, si tratti
di un corpo femminile,
di alti profitti a
qualsiasi costo o del
diritto di stabilire il
ritmo del progresso.
Lo scienziato è
soltanto una nuova
forma, destinata
anch’essa ad essere
soppiantata.
E’ proprio qui la
grande, eterna
importanza del mito
neotestamentario della
Tentazione nel Deserto.
Tutti coloro che sono
provvisti di
intelligenza e di
istruzione posseggono
automaticamente un loro
deserto, e a un certo
punto della vita
incontreranno la loro
tentazione.
Respingendola,
possono essere
sciocchi, ma non sono
mai malvagi.
Avete appena
rifiutato un’allettante
offerta nel settore
delle applicazioni
commerciali della
scienza per poter
continuare
nell’insegnamento
accademico? La vostra
ultima mostra ha
venduto meno della
precedente, ma siete
egualmente decisi a
insistere nel vostro
nuovo stile? Avete
preso una decisione
sulla quale non hanno
interferito né i vostri
vantaggi personali né
le vostre speranze di
possesso? Allora non
disprezzate lo stato
d’animo di Charles come
se fosse condizionato
soltanto da un futile
snobismo.
Vedetelo per quello
che è: un uomo che
lotta per sconfiggere
la storia.
Anche se non se ne
rende conto.
Agiva su di lui
qualcosa di più del
comune istinto umano di
preservare la propria
identità personale;
egli aveva alle spalle
anni di riflessioni,
speculazioni,
interrogativi su se
stesso.
Sembrava che il
prezzo che gli si
chiedeva di pagare
fosse tutto il suo
passato, il meglio del
suo io passato; e non
poteva convincersi che
tutto ciò che avrebbe
voluto essere fosse
privo di valore, per
quanto grande fosse
stata la sua incapacità
di far corrispondere la
realtà al sogno.
Aveva cercato il
significato della vita,
non solo, ma credeva -
povero pagliaccio - di
averlo a volte
intravisto.
Era colpa sua se gli
mancava il talento per
comunicare queste
visioni ad altri
uomini? Se a un
osservatore distaccato
egli sembrava un
irrimediabile
dilettante? Aveva
comunque capito che il
significato della vita
non lo avrebbe trovato
nel negozio di Freeman.
Ma alla base di tutto
questo, almeno nel caso
di Charles, era la
dottrina della
sopravvivenza del più
adatto, e più
particolarmente un suo
aspetto di cui aveva
discusso - in una
discussione inzuppata
d’ottimismo - quella
sera a Lyme con Grogan:
che un essere umano non
può non riconoscere
nella propria capacità
di analizzarsi uno
straordinario
privilegio nella lotta
per l’adattamento.
Entrambi l’avevano
considerata la prova
che il libero arbitrio
dell’uomo non correva
pericoli.
Se bisognava cambiare
per sopravvivere - come
ammettevano persino i
Freeman - si aveva
almeno la possibilità
di scegliere i propri
metodi.
Questo in teoria; ma
la pratica, ora per
Charles saltava agli
occhi, era un’altra
cosa.
Era in trappola.
Avrebbe potuto non
esserlo, ma lo era.
Resistette per un
momento alle enormi
pressioni della sua
epoca; poi si sentì
rabbrividire, raggelato
sino al più intimo
midollo da una gelida
rabbia contro Mister
Freeman e il
freemanismo.
Alzò il bastone per
fermare uno “hansom” di
passaggio.
Salitovi si lasciò
cadere sull’ammuffito
sedile di cuoio e
chiuse gli occhi.
Comparve allora nella
sua mente un’immagine
consolante.
Speranza? Coraggio?
Risolutezza? Temo di
no.
Vedeva una tazza di
punch al latte e una
pinta di champagne.

39.
“E anche se sono una
prostituta, che motivo
ha la società di
insultarmi? Ho forse
ricevuto qualche favore
dalle sue mani? Se sono
un cancro repellente
della società, le cause
della malattia non
vanno forse cercate nel
marciume della carogna?
Non sono forse,
signore, una sua
legittima figlia, e non
una bastarda?” Da un
lettera al “Times” (24
febbraio 1858) (1)

Punch al latte e
champagne possono
sembrare una
conclusione filosofica
non molto profonda per
un simile esame di
coscienza; ma erano
stati regolarmente
prescritti a Cambridge
come soluzione per
tutti i problemi, e
benché avesse imparato
molte cose in più sui
problemi da quando
aveva lasciato
l’università, Charles
non aveva ancora
trovato una soluzione
migliore.
Per fortuna il suo
club, come tanti club
per gentiluomini
inglesi, era basato sul
semplicissimo e
redditizio presupposto
che i giorni vissuti
come studente sono i
migliori della vita di
un uomo.
Aveva tutte le
attrattive di un ricco
collegio senza nessuna
delle sue pecche
superflue (come
professori, presidi ed
esami).
Allettava insomma
l’adolescente che
sopravvive nell’adulto.
E forniva inoltre un
ottimo punch al latte.
Accadde così che i
primi due consoci sui
quali Charles pose gli
occhi appena entrato
nella sala da fumo
fossero due suoi
compagni di studi.
Uno era il figlio
minore di un vescovo e
una famosa pecora nera
per suo padre.
L’altro era quello
che Charles si era
aspettato di diventare
sino a pochi giorni
prima, cioè un
baronetto.
Nato con in tasca una
bella fetta di
Northumberland, Sir
Thomas Burgh si era
dimostrato una roccia
decisamente troppo
solida per permettere
alla storia di
avanzare.
Da tempi immemorabili
i suoi antenati avevano
dedicato la vita alla
caccia, al tiro, alle
bevute e alle puttane;
e ora a queste stesse
attività si dedicava
lui con un giusto senso
della tradizione.
Era stato il capo di
un gruppo di libertini
nel quale era finito
anche Charles durante
il suo soggiorno a
Cambridge.
Le sue scappatelle,
tipo Mytton e tipo
Casanova, erano rimaste
famose.
C’erano state
parecchie proposte di
espellerlo dal club; ma
poiché forniva il
carbone, estratto da
una delle sue miniere,
a un prezzo che ne
faceva in pratica un
regalo, prevalsero
sempre consigli più
saggi.
E poi c’era qualcosa
di onesto nel suo modo
di vivere.
Peccava senza
vergogna ma anche senza
ipocrisia.
Ed era
straordinariamente
generoso: metà dei più
giovani membri del club
erano stati in vari
periodi indebitati con
lui, e i suoi erano
prestiti da gentiluomo,
prorogabili
all’infinito e senza
interessi.
Era sempre il primo a
tener banco quando
c’era qualcosa su cui
scommettere, e in un
certo senso ricordava a
tutti i soci, eccetto
quelli più
irrimediabilmente
sobri, i loro giorni
meno sobri.
Era piccolo,
tarchiato, eternamente
arrossato dal vino e
dalle intemperie; e i
suoi occhi avevano la
splendida innocenza, il
candore azzurro opaco
dell’uomo satanicamente
degradato.
Questi occhi
s’incresparono vedendo
entrare Charles.
Charles! Che diavolo
fai qui, fuori della
prigione matrimoniale?
Charles sorrise, non
senza sentirsi
leggermente sciocco.
Buona sera, Tom.
Come stai, Nathaniel?
Con l’eterno sigaro in
bocca, la spina nel
fianco dello sventurato
vescovo alzò
languidamente una mano.
Charles si rivolse
ancora al baronetto:
Sono in libertà
provvisoria.
La cara ragazza è giù
nel Dorset a far la
cura delle acque.
Tom strizzò l’occhio.
Mentre tu fai quella
dello spirito e degli
spiriti, eh? Ma ho
sentito dire che è la
rosa della stagione.
Lo dice Nat.
E’ verde d’invidia,
sai? Accidenti a
Charles, dice.
La migliore delle
ragazze e il migliore
dei matrimoni; non è
così, Nat? Il figlio
del vescovo era
notoriamente a corto di
quattrini, e Charles
comprese che non era
per la sua bellezza che
gli si invidiava
Ernestina.
A questo punto, nove
sere su dieci, sarebbe
andato a leggere i
giornali o si sarebbe
unito a qualche
conoscente un po’ meno
iniquo.
Ma stavolta rimase
dov’era.
Avrebbero preso in
considerazione
l’ipotesi di un punch e
champagne? Certamente.
E allora si sedette
con loro.
Come va il tuo
stimato zio, Charles?
Sir Tom strizzò
nuovamente l’occhio, ma
in una maniera talmente
endemica alla sua
natura che era
impossibile offendersi.
Charles mormorò che
le sue condizioni di
salute erano
eccellenti.
Come se la passa in
fatto di cani?
Chiedigli se gli
farebbe comodo un paio
dei migliori
Northumberland.
Sono dei veri angeli,
soprattutto se ti dico
da chi discendono.
Ti ricordi di
Tornado? Sono i suoi
nipoti.
Tornado aveva
trascorso
clandestinamente
un’estate a Cambridge
nella
residenza di Sir Tom.
Lo ricordo benissimo.
E anche le mie
caviglie.
Sir Tom sogghignò.
Sì, aveva un debole
per te.
E ha sempre morso
quelli che amava.
Caro vecchio Tornado…
Che Dio dia pace
all’anima sua.
E tracannò il suo
bicchiere di punch con
una tristezza che fece
ridere i suoi due
compagni.
I quali si
dimostrarono crudeli
perché questa tristezza
era assolutamente
autentica.
Tra queste
chiacchiere trascorsero
due ore - e altre due
bottiglie di champagne
e un’altra tazza di
punch e varie braciole
e rognoni (perché i tre
gentiluomini si erano
intanto trasferiti
nella sala da pranzo)
che bisognò innaffiare
abbondantemente di
chiaretto, il quale a
sua volta dovette
essere epurato con una
caraffa o due di porto.
Sir Tom e il figlio
del vescovo erano
bevitori professionisti
e ressero meglio di
Charles.
Esteriormente, alla
fine della seconda
caraffa, sembravano più
ubriachi di lui.
Ma in realtà egli
esibiva una facciata di
sobrietà, e loro una
d’ubriachezza,
esattamente opposte
alle rispettive
autentiche condizioni,
come risultò con
evidenza quando
uscirono dalla sala da
pranzo per fare quella
che Sir Tom definiva
vagamente “una piccola
corsa in città”.
Era proprio Charles
che si reggeva male in
piedi.
E non era talmente
partito da non trovarsi
in imbarazzo;
inspiegabilmente si
sentiva i grigi occhi
da giudice di Mister
Freeman puntati
addosso, anche se in
quel club non sarebbe
mai stato ammesso
nessuno così
strettamente legato al
commercio.
Lo aiutarono a
infilarsi il mantello e
gli porsero cappello,
guanti e bastone; dopo
di che egli si trovò
nell’aria frizzante
della notte le promesse
della nebbia non si
erano realizzate, ma
persisteva la
pioggerellina - a
fissare con estrema
concentrazione lo
stemma sullo sportello
del brum di Sir Tom.
Winsyatt gli inferse
un’altra perfida
pugnalata, e subito
dopo lo stemma avanzò
oscillando verso di
lui.
Lo afferrarono per le
braccia e dopo qualche
istante si trovò seduto
accanto a Sir Tom e di
fronte al figlio del
vescovo.
Non era tanto ubriaco
da non notare la
strizzata d’occhio
scambiata tra i due
amici, ma lo era troppo
per chiedere che cosa
significasse.
Si disse che non gli
importava.
Era contento di
essere ubriaco, di
veder fluttuare ogni
cosa, di considerare
del tutto privo
d’importanza il passato
e il futuro.
Aveva una gran voglia
di diffondersi su
Mistress Bella Tomkins
e su Winsyatt ma non
era abbastanza ubriaco
neanche per far questo.
Un gentiluomo rimane
un gentiluomo anche
quando è brillo.
Si voltò verso Tom.
Tom… vecchio mio, sei
un tipo maledettamente
fortunato.
Anche tu, Charles,
ragazzo mio.
Siamo tutti
maledettamente
fortunati.
Dove stiamo andando?
Dove vanno sempre i
tipi maledettamente
fortunati per una
serata allegra.
Non è così, Nat? Ci
fu una pausa durante la
quale Charles cercò
confusamente di
scoprire in quale
direzione stavano
andando.
Non vide così la
seconda strizzata
d’occhio scambiata dai
due amici.
Ma lentamente gli si
scolpirono nella mente
le parole chiave
dell’ultima frase di
Sir Tom.
Si voltò con aria
solenne.
Serata allegra?
Stiamo andando dalla
vecchia Mamma
Tersicore, Charles.
A venerare il
santuario delle muse,
capisci? Charles fissò
il viso sorridente del
figlio del vescovo.
Santuario? E’ un modo
di dire, Charles.
Metonimia.
Venere per “puella”
intervenne il figlio
del vescovo.
Charles li fissò, poi
improvvisamente
sorrise.
Ottima idea.
Ma subito dopo
riprese a guardare
abbastanza solennemente
dal finestrino.
Sentiva che avrebbe
dovuto far fermare la
carrozza e augurar loro
una buona notte.
Ricordò, in un breve
lampo di raziocinio,
qual era la loro fama.
Poi gli apparve
bruscamente davanti
agli occhi il viso di
Sarah, quel viso con
gli occhi chiusi
proteso verso il suo,
quel bacio… tanto
rumore per nulla.
E capì qual era la
vera causa di tutti i
suoi guai: aveva
bisogno di una donna,
aveva bisogno di un
rapporto sessuale.
Aveva bisogno di un
po’ di dissolutezza
come altri possono aver
bisogno di una purga.
Si voltò a guardare
Sir Tom e il figlio del
vescovo.
Il primo era
scompostamente adagiato
nel suo angolo, il
secondo aveva disteso
le gambe sul sedile.
Sulle loro teste i
cilindri avevano
angolazioni leggermente
equivoche.
Stavolta alla
strizzata d’occhio
parteciparono tutti e
tre.
Subito dopo vennero a
trovarsi in una calca
di carrozze che si
dirigevano verso quella
zona della Londra
vittoriana che noi
abbiamo misteriosamente
cancellato - pur
essendo essa centrale
sotto parecchi aspetti
- dalla nostra immagine
dell’epoca.
Era un quartiere di
casinò (più luoghi
d’incontro che bische),
di caffè per
appuntamenti e di bar-
tabaccherie nelle parti
più in vista
(l’Haymarket e Regent
Street) e di quasi
ininterrotti bordelli
in tutte le adiacenti
viuzze laterali.
Passarono davanti al
famoso Oyster Shop
dell’Haymarket
(“Aragoste, Ostriche,
Salmone sottaceto e
salato”) e al non meno
celebre Royal Albert
Potato Can, gestito dai
Khan, autentici can dei
venditori londinesi di
patate al forno, con un
grande banco rosso e
ottone che dominava e
esaltava il panorama.
Passarono davanti (e
il figlio del vescovo
estrasse la “lorgnette”
dall’astuccio di
zigrino) alla folla
delle figlie della
follia, le grandi
prostitute sulle loro
carrozze, le meno
grandi a branchi sul
marciapiede… dalle
piccole timide operaie
dal viso latteo alle
virago con le guance
arrossate dal brandy.
Un torrente di colori
e di fogge, perché qui
erano permesse cose
inimmaginabili.
Donne vestite come
barcaioli parigini, in
bombetta e calzoni, da
marinai, da seoritas,
da contadine siciliane;
come se l’intero cast
degli innumerevoli
teatrini di varietà dei
dintorni si fosse
riversato per le
strade.
Molto meno
pittoreschi erano i
clienti, quel sesso
maschile, numericamente
altrettanto
rappresentato, che con
il bastone in mano e il
sigaro in bocca,
esaminava il
campionario della
serata.
E Charles, pur
rimpiangendo di aver
bevuto tanto, il che
gli faceva vedere
doppio, trovò lo
spettacolo delizioso,
allegro, animato e
soprattutto decisamente
non Freeman.
Tersicore, sospettò,
avrebbe difficilmente
concesso il suo
patrocinio a quel
pubblico del quale i
tre, dieci minuti dopo,
entrarono a far parte.
Non erano infatti
soli.
Altri sei o sette
giovani, più un paio di
anziani in uno dei
quali Charles riconobbe
una colonna della
Camera dei Lord,
sedevano in un vasto
salone, arredato
secondo il miglior
gusto parigino, cui si
accedeva da un vicolo
stretto e rumoroso che
partiva da una strada
poco distante dalla
cima dell’Haymarket.
A un’estremità di
quella stanza,
illuminata da
lampadari, c’era un
piccolo palcoscenico,
nascosto da spesse
tende rosse sulle quali
erano ricamate in oro
due coppie di satiri e
di ninfe.
Uno dei satiri
appariva
indiscutibilmente
vicino a prendere
possesso della sua
pastorella, l’altro ne
era già stato accolto.
Su un cartiglio
dorato sopra il sipario
si leggeva il testo a
caratteri neri del
“Carmen Priapeum 44”:

“Velle quid hanc


dicas, quamvis sim
ligneus, hastam, oscula
dat medio si qua puella
mihi? augure non opus
est: ‘in me’ mihi
credite, dixit ‘utetur
veris viribus hasta
rudis’”. (2)

Il tema della
copulazione era
ripetuto su diverse
stampe in folio con
cornici dorate appese
tra una finestra e
l’altra.
Una ragazza dai
capelli sciolti in
gonnella Camargo stava
servendo ai signori in
attesa dello champagne
Roederer.
Sullo sfondo una
signora, sulla
cinquantina, molto
imbellettata ma vestita
con maggior decoro,
teneva delicatamente
d’occhio la sua
clientela.
Nonostante la
diversità delle
rispettive professioni
aveva più o meno la
stessa mentalità della
Mistress Endicott di
Exeter, solo che le sue
valutazioni erano in
ghinee e non in
scellini.
Probabilmente scene
del tipo di quelle che
seguirono sono cambiate
nel corso della storia
meno di quelle di
qualsiasi altra
attività umana.
Ciò che venne
eseguito quella sera
davanti a Charles lo
era stato nella stessa
maniera davanti a
Eliogabalo, e senza
dubbio anche davanti ad
Agamennone; e viene
eseguito oggi in
innumerevoli locali di
Soho.
Quel che mi piace
particolarmente
nell’immutabilità di
questa antica e
veneranda forma di
svago è che permette di
servirsi
dell’immaginazione
altrui.
Recentemente stavo
frugando nella bottega
di un venditore di
libri usati del tipo
migliore, quello
sbadato.
Collocato
anonimamente nello
scaffale “Medicina” tra
una “Introduzione
all’epatologia” e una
“Malattia del sistema
bronchiale”, era
l’ancor più noioso
titolo “Storia del
cuore umano”.
E’ in realtà la
storia tutt’altro che
noiosa di un vivace
pene umano.
Fu pubblicata per la
prima volta nel 1749,
lo stesso anno di
“Fanny Hill” di
Cleland, il capolavoro
di questo genere.
L’autore non ha la
sua stessa abilità, ma
può andar bene
egualmente.
“La prima Casa nella
quale entrarono era un
noto bordello dove
trovarono uno stormo di
pernici cittadine che a
Camillo piacquero più
di tutte quelle su cui
aveva gettato le sue
reti in campagna, e tra
queste Miss M, la
famosa modella, la cui
presenza suggerì alla
nostra comitiva di
buontemponi il
capriccio di mostrare
al nuovo commilitone
una scena che sinora
egli non aveva mai
neanche sognata.
Vennero introdotti in
una grande sala dove fu
loro servito del vino.
Il cantiniere si
allontanò e dopo una
bevuta le dame
ricevettero l’ordine di
prepararsi.
Immediatamente si
spogliarono nude e
salirono sulla tavola.
Camillo rimase assai
sorpreso da questo
apparato e non meno
perplesso nel tentativo
di indovinare per quale
scopo le ragazze si
fossero collocate su
quella eminenza.
Erano pulite, di
carnagione fresca e
avevano la pelle bianca
come neve appena
caduta, effetto
accentuato dal nero
lucente dei capelli.
Le facce erano
graziosissime e il
rossore naturale che
splendeva sulle loro
guance ne faceva, a
giudizio di Camillo,
delle bellezze
perfette, degne persino
di rivaleggiare con
Venere.
Dopo aver contemplato
i loro visi, posò
timidamente gli occhi
sull’altare d’amore,
del quale sinora non
aveva mai avuto una
così bella vista…
Questa parte della
celebre modella aveva
qualcosa che attrasse
la sua attenzione più
di tutto ciò che aveva
visto o sentito sinora.
Il trono d’amore era
fittamente coperto di
lucenti peli neri,
lunghi almeno un quarto
di metro, che essa
teneva astutamente
separati per mostrare
l’ingresso alla grotta
magica.
La visione inconsueta
di questo luogo
cespuglioso costituì
per Camillo una
stranissima forma di
svago, che venne
accresciuto dal resto
della cerimonia
compiuta da queste
libertine.
Ognuna di esse riempì
un bicchiere di vino e,
assunta una posizione
distesa, posò il
proprio bicchiere sul
monte di Venere, e ogni
uomo della compagnia
andò a bere da questi
bicchieri in equilibrio
su quell’allettante
protuberanza, mentre le
ragazze non mancavano
con i loro movimenti
lascivi di aumentare il
divertimento.
Poi presentarono le
varie posizioni e i
trucchi usati per
riaccendere il
desiderio debilitato
quando è sazio del
godimento naturale e
infine obbligarono il
povero Camillo ad
attraversare il ponte e
a passare sotto le loro
calde cataratte, cosa
che lo inzuppò più che
se fosse ribaltato in
una barchetta di
Gravesend.
Tuttavia, pur avendo
suscitato le risate
dell’intera compagnia,
sopportò lo scherzo con
molta pazienza, in
quanto gli avevano
detto che tutti i
novizi dovevano
assolutamente
assoggettarsi a questa
iniziazione ai misteri
della loro società.
Ora Camillo
incominciava a sentire
disgusto per la
straordinaria
impudicizia di queste
donne; non notava più
in se stesso
quell’imbarazzante
emozione che aveva
sentito all’inizio e
avrebbe desiderato che
la compagnia le
congedasse; ma i suoi
commilitoni non
volevano separarsi da
loro finché non fossero
arrivate alla fine
dell’esercizio; le
ninfe, che ricevevano
un nuovo contributo ad
ogni nuova rivelazione
delle loro impudenti
invenzioni, non ebbero
bisogno di suppliche
per accontentare i
giovani libertini, ma
procedettero, senza il
minimo senso di
vergogna, a mostrare
loro sino a che punto
potesse degradarsi la
natura umana.
La loro ultima
impresa infiammò quei
figli della
dissolutezza al punto
da indurli a proporre,
come conclusione della
scena, che ogni uomo
scegliesse la sua
posizione e compisse
ciò che sinora avevano
soltanto visto imitare.
Ma era un passo cui
le ninfe non volevano
ottemperare, essendo
regola di queste
damigelle non
accogliere mai gli
abbracci degli uomini,
nel timore di guastare
la propria arte.
Ciò sorprese
moltissimo Camillo il
quale, dal loro
comportamento
precedente, si era
convinto che non si
potesse inventare
alcuna specie di
dissolutezza cui esse
non avrebbero
accondisceso per amore
del denaro, e benché,
prima di questo
rifiuto, la loro
sfrenata oscenità
avesse estinto ogni
pensiero di giacere con
loro, adesso i suoi
desideri si erano
scatenati come se
avesse avuto davanti
delle vergini pudiche e
non sapesse nulla della
loro lascivia.
Si dedicò pertanto,
con lo stesso zelo
degli altri, al compito
di costringerle ad
acconsentire”.
Ciò dà un’idea
generale di quanto
accadeva da Mamma
Tersicore, a parte un
piccolo particolare: le
ragazze del 1867, meno
schizzinose di quelle
del 1749, si lasciavano
volentieri mettere
all’asta nel quadro
conclusivo.
Charles tuttavia non
era lì per fare
un’offerta.
I preamboli meno
osceni lo avevano
abbastanza divertito.
Aveva assunto
l’espressione dell’uomo
che ha viaggiato e ha
visto di meglio a
Parigi (così almeno
sussurrò a Sir Tom) e
aveva recitato la parte
del giovane vissuto che
conosce già tutto.
Ma quando caddero i
vestiti, cadde anche la
sua ubriachezza; gettò
un’occhiata alle bocche
oscenamente socchiuse
degli uomini che gli
stavano accanto nella
penombra e udì Sir Tom
che già indicava su chi
si sarebbe posata la
sua scelta al figlio
del vescovo.
I corpi bianchi
s’abbracciavano, si
contorcevano, mimavano,
ma a Charles sembrava
che dietro gli immobili
sorrisi allusivi delle
attrici si nascondesse
una sorta di
disperazione.
Una era una bambina
che doveva essere
appena giunta alla
pubertà, e nella sua
finzione di una pudica
innocenza gli sembrava
di riconoscere qualcosa
di autenticamente
verginale, una
sofferenza non ancora
completamente indurita
dalla professione.
Ma, oltre a essere
disgustato, era anche
eccitato sessualmente.
Odiava l’aspetto
pubblico di quella
esibizione, ma era
abbastanza animale per
sentirsi segretamente
turbato ed eccitato.
Poco prima della
fine, si alzò e lasciò
in silenzio la stanza
come se volesse andare
al gabinetto.
Fuori,
nell’anticamera, la
piccola “danseuse” che
aveva servito lo
champagne sedeva
accanto a un tavolo sul
quale erano posati i
mantelli e i bastoni
dei gentiluomini.
Si alzò con un
sorriso artificioso che
raggrinzò il suo viso
dipinto.
Charles esaminò per
un attimo i riccioli
elaboratamente in
disordine, le braccia
nude e il seno quasi
scoperto.
Fece per dirle
qualcosa, ma cambiò
idea e con un gesto
brusco reclamò la
propria roba.
Poi gettò sul tavolo
una mezza sovrana e si
precipitò fuori.
Sulla strada in fondo
al vicolo trovò molte
carrozze pubbliche in
attesa.
Prese la prima, urlò
(era questa la cauta
convenzione vittoriana)
il nome di una strada
di Kensington vicino a
quella in cui abitava e
si lasciò cadere sul
sedile.
Non si sentiva
nobilmente perbene, ma
come uno che aveva
subito un insulto o
evitato un duello.
Suo padre aveva
condotto una vita nella
quale le serate come
questa erano abituali;
che egli non riuscisse
a sopportarle
dimostrava dunque la
sua anormalità.
Dov’era andato a
finire l’uomo di mondo
che aveva tanto
viaggiato? Si era
ridotto a un miserabile
vigliacco.
Ed Ernestina e il suo
fidanzamento?
Ricordarsene era come
essere un prigioniero
che ha sognato di
essere libero e si
sveglia e si alza, per
trovarsi trascinato
subito a terra dalle
sue catene nella nera
realtà della cella.
Lo “hansom” procedeva
lentamente lungo una
strada angusta.
Era stipata di
“hansoms” e carrozze,
facendo anch’essa parte
della zona del peccato.
Sotto ogni lampione e
in ogni androne c’erano
delle prostitute.
Charles le guardava
dal buio.
Si sentiva ribollire
in modo intollerabile.
Se avesse avuto
davanti un chiodo
appuntito, imitando ciò
che aveva fatto Sarah
davanti al biancospino,
vi avrebbe premuto
contro la mano, tanto
era forte il suo
desiderio di macerarsi,
di punirsi, di un atto
che servisse a purgarlo
della sua bile.
In una strada più
tranquilla, passarono
davanti a un lampione
ai piedi del quale
stava una ragazza
solitaria.
Forse per contrasto
con la clamorosa
abbondanza di donne
nella via che avevano
appena lasciato, essa
sembrava sperduta e
troppo inesperta per
avventurarsi oltre.
Tuttavia non si
poteva aver dubbi sulla
sua professione.
Portava uno squallido
vestito di cotone rosa
con delle rose finte
sul seno, e uno scialle
bianco sulle spalle.
Un cappello nero
all’ultima moda,
piccolo e maschile, era
appollaiato su un
grande chignon di
capelli castani
raccolto in una rete.
Fissò lo “hansom” e
c’era qualcosa nel
colore dei capelli,
negli attenti occhi
ombreggiati di scuro,
nel suo atteggiamento
vagamente melanconico
che indusse Charles ad
allungare il collo e a
seguirla con lo sguardo
attraverso il
finestrino ovale.
Dopo un momento
intollerabile, prese il
bastone e lo batté con
forza sul tetto del
veicolo.
Il cocchiere si fermò
immediatamente.
Ci fu un frettoloso
rumore di passi, poi il
suo viso apparve,
leggermente al di sotto
di quello di lui,
accanto alla parte
scoperta dello
“hansom”.
In realtà non
assomigliava a Sarah.
I capelli erano
troppo rossi per essere
naturali, e in più
aveva qualcosa di
volgare, una
sfacciataggine
artificiosa negli occhi
fissi e nel sorriso
delle rosse labbra,
anch’esse troppo rosse
come una ferita
insanguinata.
C’era soltanto una
vaga approssimazione,
forse nella compattezza
delle sopracciglia o
nella bocca.
Hai una stanza? Sì,
signore.
Digli dove deve
andare.
Sparì un momento per
andare a dire qualcosa
al cocchiere.
Poi salì, facendo
dondolare lo “hansom” e
prese posto accanto a
lui riempiendo quello
spazio ristretto con un
profumo a buon mercato.
Egli si sentì
sfiorare dal tessuto
leggero della manica e
della gonna, che
tuttavia non lo
toccarono.
Lo “hansom” si rimise
in moto.
Restarono in silenzio
per un centinaio di
metri.
E’ per tutta la
notte, signore? Sì.
Lo chiedo perché se
no devo aggiungere il
prezzo della corsa per
tornare qui.
Charles annuì e
guardò davanti a sé nel
buio.
Percorsero un altro
centinaio di metri
senza più parlare.
La sentì rilassarsi
un poco e premere
leggermente contro il
suo braccio.
Fa un freddo
spaventoso per questa
stagione.
Sì.
Le gettò un’occhiata.
A te non sfuggono
queste cose.
Io non lavoro quando
nevica.
Ci sono quelle che lo
fanno, ma io no.
Altra pausa.
Stavolta fu Charles a
parlare.
E’ da molto che fai…?
Da quando avevo
diciotto anni.
Due anni il prossimo
maggio.
Ah.
Durante la pausa
successiva le lanciò
un’altra occhiata
furtiva.
Un orrido calcolo
matematico torturava la
mente di Charles:
trecentosessantacinque,
facciamo trecento
giornate “lavorative”,
moltiplicate per due…
c’erano seicento
probabilità che si
fosse presa una
malattia.
Ma come chiederglielo
con delicatezza?
Impossibile.
La guardò di nuovo
approfittando di una
luce esterna.
La carnagione
sembrava perfetta.
Ma lui era uno
stupido: per quanto
riguardava la sifilide,
sapeva che sarebbe
stato dieci volte più
al
sicuro in un locale
di lusso come quello
che aveva appena
lasciato.
Raccattare una
qualunque
passeggiatrice cockney…
ma ormai la sua sorte
era decisa.
Voleva che lo fosse.
Stavano andando a
nord; verso Tottenham
Court Road.
Vuoi che ti paghi
adesso? Non ho
preferenza, signore.
Come preferisce
Benissimo.
Quanto? Esitò.
Poi: Normale,
signore?.
Lui le lanciò
un’occhiata, poi annuì.
Per tutta la notte di
solito faccio pagare e
la sua piccola
esitazione era
pateticamente disonesta
…una sovrana.
S’infilò una mano
nella redingote e le
porse la moneta.
Grazie, signore.
La mise discretamente
al sicuro nella
borsetta.
E poi riuscì a dare
una risposta indiretta
ai suoi segreti timori.
Io vado solo con i
gentiluomini, signore.
Non deve
preoccuparsi.
Stavolta toccò a lui
dirle: Grazie.

NOTE.
Nota 1.
La parte sostanziale
di questa famosa
lettera, pesantemente
ironica, che aveva
l’aria di essere stata
scritta da una
prostituta di successo
ma era più
probabilmente opera di
un personaggio sul tipo
di Henry Mayhew, si può
leggerla in “Human
Documents of the
Victorian Golden Age”.
Nota 2.
E’ il dio Priapo che
parla: le sue statuette
di legno con il fallo
eretto, sia per
spaventare i ladri sia
per apportare
fecondità, erano
ornamenti diffusi dei
frutteti romani: “Vuoi
che ti dica perché la
ragazza bacia questa
mia lancia benché io
sia fatto di legno? Non
c’è bisogno di un
indovino.
Sta dicendo,
credetemi: ‘Oh, se
questa lancia brutale
entrasse in me con
forza autentica’”.

40.
“To the lips, ah, of
others.
Those lips hsve been
prest, And others, ere
I was, Were clasped to
that breast…” Matthew
Arnold, “Parting”
(1853).
“Alle labbra, ahimè,
di altri, / Queste
labbra si sono unite, /
E altri, prima di me, /
Sono stati stretti a
quel seno…” [Nota del
Traduttore].

Lo “hansom” si fermò
in una stretta viuzza a
est di Tottenham Court
Road.
Dopo essere scesa in
fretta dal veicolo, la
ragazza salì
immediatamente i
gradini che conducevano
a una porta e si
insinuò all’interno.
Il cocchiere era un
uomo vecchio,
vecchissimo, da tanto
tempo rinchiuso nel
cappotto con tante
mantelline e nel
cilindro dalla tesa
larga che era difficile
non immaginarli come
cose cresciute sul suo
corpo.
Posata la frusta
accanto al sedile e
cavatasi la pipetta di
bocca, abbassò la mano
sudicia, piegata a
conca, per prendere il
denaro.
Intanto teneva gli
occhi fissi verso il
fondo di quella buia
stradetta come se gli
riuscisse
insopportabile posarli
nuovamente su Charles.
A Charles faceva
piacere che non lo
guardassero: si sentiva
imperdonabile nello
stesso modo in cui
sembrava deciso a
considerarlo il vecchio
cocchiere.
Ebbe un momento di
dubbio.
Avrebbe potuto
saltare nuovamente a
bordo, dato che la
ragazza era sparita… ma
fu allora che una nera
testardaggine lo
indusse a pagare.
Trovò la prostituta
che lo aspettava in un
vestibolo male
illuminato volgendogli
la schiena.
Senza voltarsi,
cominciò a salire le
scale non appena sentì
chiudere la porta.
C’era odore di cucina
e voci indistinte nella
parte posteriore della
casa.
Salirono due vecchie
rampe di scale.
La donna aprì la
porta e si fece da
parte per lasciarlo
passare prima di far
scorrere il
chiavistello.
Poi andò ad accendere
la luce a gas sopra il
caminetto.
Attizzò il fuoco
aggiungendovi un po’ di
carbone.
Charles si guardò
attorno.
In quella stanza
tutto, tranne il letto,
era squallido ma
perfettamente pulito.
Il letto era di ferro
e d’ottone,
quest’ultimo così ben
lucidato che pareva
oro.
Nell’angolo opposto
c’era un paravento
dietro il quale egli
scorse un lavabo.
Qualche soprammobile
a buon mercato, qualche
stampa a buon mercato
sulle pareti.
Le logore tende
damascate erano tirate.
Non c’era niente
insomma che facesse
pensare ai fini
lussuriosi cui quella
camera era adibita.
Mi scusi, signore.
Faccia come se fosse
a casa sua.
Non ci metterò
neanche un minuto.
Aprì un’altra porta,
che dava su una camera
verso il retro della
casa.
La camera era buia ed
egli notò che si era
chiusa la porta alle
spalle con molta
delicatezza.
Andò a mettersi con
la schiena verso il
caminetto.
Dalla porta chiusa
gli giunsero il fievole
mormorio di un bambino
appena sveglio, degli
sbaciucchiamenti,
qualche parola
pronunciata a bassa
voce.
Poi la porta si
riaprì e ricomparve la
prostituta.
Si era tolta scialle
e cappello.
Gli sorrise
nervosamente.
E’ la mia bambina,
signore.
Non farà baccano.
E’ buona come il
pane.
Intuendo la sua
disapprovazione,
s’affrettò ad
aggiungere: Se ha fame,
signore, c’è una
trattoria poco lontana.
Charles non aveva
fame, e non si sentiva
affamato neanche
sessualmente.
Faceva fatica a
guardarla.
Per te ordina quello
che vuoi.
Io non voglio… cioè…
magari un po’ di vino,
se si può averlo.
Francese o tedesco,
signore? Un bicchiere
di bianco del Reno… va
bene? Grazie, signore.
Manderò il ragazzo.
Sparì di nuovo.
La sentì gridare con
durezza, in un tono
assai meno gentile, sul
pianerottolo.
Harry! Un mormorio di
voci, lo sbattere della
porta d’ingresso.
Quando tornò, egli le
chiese se doveva darle
altro denaro.
Ma, a quanto pareva,
il servizio era
compreso.
Non si siede,
signore? Tese le mani
per prendere cappello e
bastone che lui non
aveva ancora posato.
Charles glieli porse
e, divise le falde
della redingote, andò a
sedersi accanto al
fuoco.
Il carbone sembrava
bruciare lentamente.
La donna
s’inginocchiò davanti
al fuoco, e davanti a
lui, e riprese ad
affaccendarsi con
l’attizzatoio.
E’ della migliore
qualità, non ci
dovrebbe mettere tanto
a scaldare.
E’ tutta colpa
dell’umidità di queste
vecchie case.
Egli fissò il suo
profilo nella luce
rossa del caminetto.
Non era un viso
grazioso, ma vigoroso,
placido, irriflessivo.
Il busto era ben
sviluppato, i polsi e
le mani
sorprendentemente
delicati, quasi
fragili.
Insieme con la chioma
abbondante, accesero
per un momento il suo
desiderio.
Poco mancò che
allungasse una mano per
toccarla, ma cambiò
idea.
Si sarebbe sentito
meglio dopo aver bevuto
dell’altro vino.
Rimasero così per
almeno un minuto.
Poi lei lo guardò e
lui sorrise.
Per la prima volta in
quel giorno provava un
fuggevole senso di
pace.
La donna volse di
nuovo gli occhi verso
il caminetto e mormorò:
Ci metterà meno di un
minuto.
Sono solo due passi.
Rimasero di nuovo in
silenzio.
Momenti come questi
erano molto strani per
un vittoriano; anche
nei rapporti tra marito
e moglie, l’intimità
era regolata dalle
ferree leggi della
convenzione.
Eppure Charles se ne
stava seduto accanto al
caminetto con una donna
di cui un’ora prima non
conosceva neanche
l’esistenza, come…
Il padre della tua
bambina…
E’ un soldato,
signore.
Un soldato? Lei
fissava il fuoco:
memorie.
E’ in India adesso.
Non vuole sposarti?
Lei sorrise della sua
ingenuità, poi scosse
il capo.
Mi ha dato dei soldi
quando ho partorito.
E sembrava voler dire
che aveva fatto tutto
quello che ci si poteva
onestamente aspettare
da lui.
Ma non potevi trovare
altri mezzi di
sussistenza? Potevo
lavorare.
Ma il lavoro occupa
tutta la giornata.
E una volta pagato
qualcuno che si occupi
della piccola Mary…
Alzò le spalle.
Quando cominciano a
farti del male,
signore, è finita.
Non si può più
tornare indietro, e
bisogna cercare di
cavarsela come meglio
si può.
E credi che questo
sia il modo migliore?
Non ne conosco altri,
signore.
Parlava senza
mostrare vergogna o
rammarico.
La sua sorte era
decisa e non aveva
immaginazione
sufficiente per
accorgersene.
Si udirono passi
dalle scale.
La donna si alzò,
andò alla porta e
l’aprì prima che
bussassero.
Charles scorse un
ragazzo sui tredici
anni, evidentemente
addestrato a non
guardare, che tenne gli
occhi abbassati mentre
lei portava il vassoio
su un tavolino accanto
alla finestra e tornava
sulla soglia con un
borsellino.
Ci fu un tintinnio di
monetine e la porta
silenziosamente si
richiuse.
Lei versò un
bicchiere di vino e
glielo portò, posando
la mezza bottiglia su
un treppiede del
caminetto, come se ogni
vino avesse bisogno di
essere scaldato.
Poi si sedette e
tolse il tovagliolo dal
piatto sul vassoio.
Con la coda
dell’occhio Charles
vide un piccolo
pasticcio di patate e
un bicchiere che doveva
evidentemente contenere
gin e acqua perché ben
difficilmente si
sarebbe fatta portare
dell’acqua soltanto.
Il vino era acido, ma
lo bevette egualmente
nella speranza che
servisse a intorpidire
i suoi sensi.
Il leggero crepitio
del fuoco ora
perfettamente acceso,
il sibilo sommesso dei
becchi a gas, il
tintinnio delle posate:
difficile immaginare
come avrebbero potuto
passare al vero scopo
della sua presenza.
Bevve un altro
bicchiere di quel vino
che sapeva d’aceto.
Un attimo dopo la
donna finì di consumare
il suo pasto.
Portò fuori il
vassoio e tornò nella
camera abbuiata dove
dormiva la bambina.
Trascorse un minuto.
Quando ricomparve,
indossava un “peignoir”
bianco che teneva
chiuso.
Si era sciolta i
capelli, che ora le
cadevano sulla schiena,
e la sua mano stringeva
talmente i bordi della
vestaglia da far subito
capire che sotto era
nuda.
Charles si alzò.
Non c’è fretta,
signore.
Finisca il suo vino.
Charles abbassò gli
occhi sulla bottiglia,
come se non l’avesse
mai vista prima.
Poi annuì, tornò a
sedersi e si riempì un
altro bicchiere.
Lei gli passò davanti
e, mentre con una mano
continuava a tener
chiuso il “peignoir”,
con l’altra ridusse il
gas a due puntini
verdi.
La luce del caminetto
la inondava
ammorbidendo i suoi
giovani lineamenti.
Subito dopo tornò a
inginocchiarsi ai suoi
piedi guardando il
fuoco.
Poi allungò entrambe
le mani e la vestaglia
si aprì un poco.
Egli vide un seno
bianco, un po’ in ombra
e non del tutto
scoperto.
Lei parlava verso il
fuoco.
Vuole che mi sieda
sulle sue ginocchia,
signore? Sì.. per
favore.
Buttò via il vino.
Tenendo di nuovo ben
stretta la vestaglia la
donna si alzò e sedette
con disinvoltura sulle
sue gambe unite
cingendogli le spalle
con il braccio destro.
Charles allora la
cinse alla vita con il
braccio sinistro
tenendo pero l’altro
appoggiato, con assurda
innaturalezza, al
bracciolo della
poltrona.
La mano sinistra di
lei strinse per un
attimo il tessuto della
vestaglia, ma poi si
allungò ad
accarezzargli una
guancia.
Un attimo, e gli
baciò l’altra guancia.
I loro occhi si
incontrarono.
Lei gettò un’occhiata
curiosamente timida
sulla sua bocca e
riprese il suo lavoro
senza più tracce di
timidezza.
Sei molto bello,
signore.
Anche tu sei carina.
Ti piacciono le
ragazze viziose?
S’accorse che si era
messa a dargli del tu.
Irrigidì un poco il
braccio sinistro.
Lei allora prese la
sua recalcitrante mano
destra e la guidò sotto
la vestaglia, sul seno
nudo.
Charles sentì una
punta indurita di carne
sotto il centro del
palmo.
La mano della donna
attirò a sé la sua
testa.
Mentre si baciavano,
la mano di lui,
ricordando ora la carne
femminile proibita,
contorni serici e
turgidi, un poema
dimenticato, valutava e
approvava il seno prima
di spingersi più a
fondo e più in basso
all’interno della
vestaglia sino alla
curva della vita.
La donna era nuda e
la sua bocca sapeva
vagamente di cipolle.
Forse fu questo che
gli provocò la prima
ondata di nausea.
La mascherò,
diventando due persone:
una che aveva bevuto
troppo e una che adesso
era sessualmente
eccitata.
La vestaglia si aprì
spudoratamente sul
ventre snello della
ragazza, sul pozzo
scuro dei suoi peli
pubici, sulle cosce
bianche che lo
sedussero alla vista
come al tatto.
La mano non si
spingeva al disotto
della vita, ma vagava
liberamente più in alto
toccando i seni
scoperti, il collo, le
spalle.
Lei non prese altre
iniziative dopo aver
guidato i primi
approcci della sua
mano; era la sua
vittima passiva e
teneva la testa
appoggiata alla sua
spalla, marmo divenuto
calore, una Etty nuda,
il mito di Pigmalione
con un lieto fine.
Fu assalito da
un’altra ondata di
nausea.
Lei se ne accorse, ma
ne fraintese il senso.
Peso troppo? No… è
che…
E’ bello il mio
letto.
Morbido.
Si alzò, andò a
ripiegare con cura le
coperte e si voltò a
guardarlo.
Poi lasciò che la
vestaglia le scivolasse
dalle spalle.
Era ben fatta, con
belle natiche.
Un attimo dopo si
sedette, fece ruotare
le gambe sotto le
coperte e rimase
sdraiata con gli occhi
chiusi, in una
posizione che giudicava
evidentemente discreta
e insieme abbandonata.
Un tizzone cominciò a
guizzare gettando tutto
intorno ombre intense e
tremolanti: le sbarre
del letto danzavano
sulla parete alle
spalle di lei.
Charles si alzò
combattendo la
battaglia del suo
stomaco.
Tutta colpa del vin
del Reno, era stato uno
stupido a berlo.
Vide che la donna
teneva gli occhi aperti
e lo stava guardando.
Esitò un momento e
tese verso di lui le
braccia bianche e
delicate.
Egli indicò con un
gesto la sua redingote.
Qualche attimo dopo,
sentendosi un poi
meglio, cominciò
seriamente a
spogliarsi.
Posò ordinatamente
gli abiti, assai più di
quanto avesse mai fatto
nella sua camera, sullo
schienale della sedia.
Poi dovette sedersi
per slacciarsi le
scarpe.
Tenendo gli occhi
fissi sul fuoco, si
sfilò pantaloni e
mutande le quali,
secondo la moda
dell’epoca, arrivavano
ben sotto i ginocchi.
Ma non riuscì a
togliersi la camicia.
Aveva di nuovo la
nausea.
Si aggrappò alla
mensola con le frange
di pizzo tenendo gli
occhi chiusi e
sforzandosi di
ritrovare il controllo
di se stesso.
Stavolta lei scambiò
il suo indugio per
timidezza, e allontanò
da sé le coperte come
se volesse venire a
prenderlo.
Egli fece uno sforzo
per andarle incontro.
E la donna si lasciò
di nuovo cadere
sdraiata, ma senza
coprirsi.
Charles si fermò
accanto al letto a
guardarla.
Lei tese le braccia.
Lui continuava a
guardarla, provando
soltanto una sensazione
di capogiro per i fumi,
ora completamente
ribelli, del punch al
latte, dello champagne,
del chiaretto, del
porto e di quel
maledetto vin del Reno.
Non so neanche come
ti chiami.
Lei gli sorrise, poi
gli prese le mani e
l’attirò a sé.
Sarah, signore.
Fu assalito da un
intollerabile spasmo.
Contorcendosi
lateralmente, cominciò
a vomitare sul cuscino
accanto alla testa
scandalizzata e spinta
indietro con violenza
della ragazza.

41.
“…
Arise and fly The
reeling faun, the
sensual feast;
Move upward, working
out the beast, And let
the ape and tiger die”.
Tennyson, “In
Memoriam” (1850).
“…
Sorgete e fuggite /
Il barcollante fauno,
il sensuale festino, /
Tendente all’alto,
eliminando la bestia, /
E fate che muoiano in
voi la scimmia e la
tigre. [Nota del
Traduttore].

Per la ventinovesima
volta quel mattino Sam
attrasse l’attenzione
della cuoca e puntò lo
sguardo su una fila di
campanelli sopra la
porta della cucina
prima di alzarlo con
eloquenza verso il
soffitto.
Era mezzogiorno.
Si potrebbe supporre
che Sam fosse contento
di avere una mattinata
libera, ma egli
desiderava soltanto
mattinate con compagnie
femminili più attraenti
della corpulenta
Mistress Rogers.
Non è più lui disse
costei, anch’essa per
la ventinovesima volta.
Ma se era irritata,
lo era con Sam non con
il giovin signore di
sopra.
Fin da quando, due
giorni prima, era
tornato da Lyme, il
valletto aveva
continuato ad accennare
a qualche misterioso
fatto in corso.
E’ vero che le aveva
graziosamente
comunicato le novità di
Winsyatt, ma si era
regolarmente affrettato
ad aggiungere: E’
soltanto la metà di
quel che bole in
pentola.
E si rifiutava di
precisare meglio: Sono
cose di confidenza e
non se ne può ancora
parlare, Mistress R. Ma
sono sucese cose che i
miei ochi non potevano
quasi credere di aver
visto.
Sam aveva comunque
una ragione immediata
di sentirsi di
malumore.
Charles, quando era
uscito per recarsi da
Mister Freeman, si era
dimenticato di
lasciargli la serata
libera.
Sam aveva dunque
dovuto aspettarlo in
casa e in piedi fin
dopo la mezzanotte, per
essere poi salutato,
quando sentì aprirsi la
porta d’ingresso, dalla
nera occhiata di un
viso sbiancato.
Perché diavolo non
sei a letto? Mica mi
aveva deto che cenava
fuori, Mister Charles.
Sono stato al club.
Sì, signore.
E smettila di
guardarmi con
quell’aria insolente.
Sì, signore.
Sam tese le mani e
prese diverse cose, a
cominciare da vari
pezzi d’abbigliamento e
finendo con un’occhiata
sulfurea lanciatagli da
Charles.
Poi il padrone salì
maestosamente di sopra.
La sua mente era
ormai molto sobria, ma
il corpo era ancora un
po’ brillo, cosa che si
rifletteva con sin
troppa evidenza nel
severo ma inosservato
sogghigno di Sam.
Ha ragione, Mistress
R. Non è più lui.
Stanote era sbronzo
duro.
Non lo avrei mai
creduto posibile.
Ci sono tante cose
che lei non crederebe
posibili, Mistress R. E
tutavia sucedono.
Mica vorà rompere il
fidanzamento? Neanche
un cavalo infuriato
riuscirebe a farmi
aprire le labra,
Mistress R. La cuoca
emise un profondo
respiro.
Sam le sorrise: Ma
lei è inteligente,
Mistress R. Molto
inteligente.
Era chiaro che il
risentimento di Sam
stava per compiere ciò
che un cavallo
infuriato non sarebbe
mai riuscito a
imporgli.
Ma con grande
delusione della
pettoruta Mistress
Rogers, egli venne
salvato dal campanello.
Sam andò a prendere
una lattina con due
galloni d’acqua calda
che lo aveva atteso
pazientemente per tutta
la mattina sul
fornello, strizzò
l’occhio alla collega e
scomparve.
Ci sono due tipi di
postumi di sbornia,
quelli in cui ci si
sente male e storditi e
quelli in cui ci si
sente male e lucidi.
Charles si era
svegliato, e si era
addirittura alzato,
qualche tempo prima di
suonare il campanello.
I suoi erano postumi
del secondo tipo.
Ricordava sin troppo
bene gli avvenimenti
della sera precedente.
Il vomito aveva
completamente
cancellato dalla sua
visuale e dalla sua
mente i già precari
elementi sessuali di
quella camera.
La sua scelta dal
nome inopportuno si era
affrettata ad alzarsi e
a infilarsi la
vestaglia e si era
dimostrata calma come
infermiera quanto aveva
promesso di esserlo
come prostituta.
Condusse Charles a
sedersi sulla poltrona
davanti al fuoco, dove
la vista della
bottiglia di vin del
Reno gli provocò un
nuovo accesso di
nausea.
Ma stavolta la donna
aveva a portata di mano
il catino del lavabo.
Tra un conato e
l’altro Charles
continuava a borbottare
parole di scusa.
Sono molto spiacente…
è proprio un peccato…
qualcosa che mi ha
fatto male…
Non si preoccupi,
signore, non si
preoccupi.
Continui pure
tranquillamente.
Di fatto non poteva
far altro.
Lei andò a prendere
lo scialle e glielo
mise sulle spalle.
Charles restò per
qualche tempo seduto,
ridicolo come una
vecchia nonnina, con la
testa curva sul catino
che teneva sulle
ginocchia.
Dopo un po’ cominciò
a sentirsi leggermente
meglio.
Aveva voglia di
dormire? Si, ma nel suo
letto.
La donna andò a
guardare fuori della
finestra, mentre lui si
rivestiva tutto
tremante.
Quando tornò, si era
rivestita anche lei.
La guardò costernato.
Non andrai…? Le cerco
una carrozza, signore.
Se può aspettare…
Oh sì… grazie…
Tornò a sedersi
mentre lei scendeva le
scale e usciva di casa.
Pur non essendo per
niente sicuro che la
nausea fosse passata,
sul piano psicologico
si sentiva
profondamente
sollevato.
Qualunque fossero
state le sue
intenzioni, non aveva
compiuto l’atto fatale.
Guardò il fuoco
scoppiettante e, per
quanto strano possa
sembrare, ebbe un
pallido sorriso.
Poi dalla stanza
accanto arrivò un grido
sommesso.
Una pausa, poi di
nuovo quel suono, più
forte stavolta e più
prolungato.
La bambina si era
evidentemente
svegliata.
Il suo pianto -
silenzio, gemito,
singhiozzo, silenzio,
gemito - divenne
intollerabile.
Charles andò alla
finestra e aprì le
tendine.
La pioggerellina gli
impediva di vedere a
distanza.
Non si scorgeva anima
viva.
Si rese conto di
quanto era diventato
saltuario il rumore
degli zoccoli dei
cavalli, e sospettò che
la ragazza avesse
dovuto fare parecchia
strada per trovargli
uno “hansom”.
Mentre se ne stava
così indeciso, qualcuno
dalla casa accanto
bussò pesantemente alla
parete.
E un’astiosa voce
maschile urlò parole di
rabbia.
Charles esitò ancora,
poi, posati bastone e
cappello sulla tavola,
aprì la porta che
conduceva all’altra
stanza.
Nella luce riflessa
distinse un armadio e
un vecchio baule.
La stanza era molto
piccola.
Nell’angolo opposto,
accanto a un gabinetto
chiuso, c’era una
piccola brandina.
I gridi della bimba,
improvvisamente
ricominciati,
invadevano l’intera
cameretta.
Charles rimase sulla
soglia illuminata,
sentendosi un po’
sciocco, come un
terrificante gigante
nero.
Zitta adesso, zitta.
Tua madre tornerà
presto.
Ovviamente la sua
voce di estraneo non
fece che peggiorare le
cose.
Charles pensò che si
sarebbe svegliato tutto
il vicinato, tanto
quegli urli erano
acuti.
Agitatissimo andò a
sbattere la testa
contro qualcosa prima
di arrivare al buio
accanto alla bimba.
Vedendola così
piccola, si rese conto
che le parole erano
inutili.
Si chinò allora su di
lei e le accarezzò
dolcemente la testa.
Dei caldi ditini
s’impadronirono dei
suoi, ma il pianto
continuava.
Quel minuscolo viso
contorto eruttava la
sua grande riserva di
paura con sconcertante
energia.
Era indispensabile
trovare un qualche
disperato rimedio.
Charles ci riuscì.
Cercò a tastoni
l’orologio, staccò la
catena dal panciotto e
lo fece dondolare sopra
la piccola.
L’effetto fu
immediato.
Gli urli lasciarono
il posto a miagolanti
piagnistei.
Poi le braccine si
tesero per afferrare
quel delizioso
giocattolo d’argento, e
furono autorizzate a
farlo; poi si
smarrirono tra le
coperte e annasparono
senza successo per
rizzarsi a sedere.
Ricominciarono le
urla.
Charles si chinò per
sollevare un poco la
bimba contro il
guanciale.
Fu preso da una
tentazione.
L’alzò dal letto
nella sua lunga camicia
da notte e si voltò a
sedere sulla seggetta.
Tenendo quel corpo
minuscolo sulle
ginocchia, fece di
nuovo dondolare
l’orologio davanti alle
sue braccine divenute
impazienti.
Era una di quelle
bambine vittoriane col
viso paffuto e delle
perline nere al posto
degli occhi; una tenera
cipollina con i capelli
neri.
E il suo immediato
mutamento d’umore, il
suo gorgoglio di gioia
quando agguantò
finalmente l’ambito
orologio divertirono
Charles.
Si era messa a
balbettare qualcosa.
E Charles in risposta
mormorava: Sì, sì,
molto carino; cara
bambinetta, carina
carina.
Provò a immaginare
che Sir Tom e il figlio
del vescovo lo
sorprendessero proprio
in quel momento… la
conclusione della sua
grande orgia.
Gli strani oscuri
labirinti della vita,
il mistero degli
incontri.
Sorrise; più che una
tenerezza sentimentale
la bimbetta gli portava
una restaurazione del
senso dell’ironia, che
era a sua volta
l’equivalente di una
sorta di fede in se
stesso.
All’inizio della
serata, quando era nel
brum di Sir Tom, aveva
avuto la falsa
sensazione di vivere
nel presente; ma il suo
rifiuto del passato e
del futuro era stato
semplicemente una
fallace immersione in
un irresponsabile
oblio.
Ora invece aveva
un’intuizione assai più
profonda e genuina
della grande illusione
umana sul tempo,
secondo la quale la sua
realtà è simile a
quella di una strada su
cui si può
continuamente vedere
dove si è stati e dove
probabilmente si sarà,
mentre la verità è che
il tempo è una stanza,
un adesso così vicino a
noi che siamo
regolarmente
impossibilitati a
vederlo.
L’esperienza di
Charles era esattamente
all’opposto di quella
sartriana.
I semplici mobili che
lo circondavano, la
luce calda della stanza
accanto, le umili
ombre, e soprattutto
quel piccolo essere che
teneva sulle ginocchia,
così incorporeo dopo il
peso di sua madre (ma a
lei non pensava per
niente) non erano più
oggetti ingombranti e
ostili, ma confortanti
e amichevoli.
Il vero inferno era
uno spazio deserto e
infinito, ed essi lo
tenevano lontano.
Si sentì
improvvisamente in
grado di affrontare il
suo futuro, che era
solo una forma di quel
terribile vuoto.
Qualunque cosa gli
fosse successa, questi
momenti si sarebbero
ripresentati; avrebbe
dovuto e potuto
ritrovarli.
Si aprì una porta.
La prostituta
comparve nella luce
della soglia.
Charles non poté
vederla in viso, ma
sospettò che per un
attimo si fosse
spaventata.
Per provare subito
dopo un immediato
sollievo.
Oh signore.
Ha pianto? Sì.
Un po’.
Credo che adesso si
sia riaddormentata.
Ho dovuto andare sino
al posteggio di Warren
Street.
Qui vicino erano
andate via tutte.
Sei molto gentile.
Le passò la bimba e
la guardò mentre la
rimetteva a letto.
Poi si frugò in tasca
e contò cinque sovrane
che lasciò sul tavolo.
La bimba si era
risvegliata e sua madre
la stava calmando.
Egli esitò, poi si
allontanò in silenzio
dalla camera.
Era già salito sullo
“hansom” in attesa,
quando lei scese di
corsa dalle scale.
Lo guardò, con
un’espressione quasi
perplessa, quasi
offesa.
Oh, signore… grazie.
Grazie.
Charles vide che
stava piangendo: niente
sconvolge il povero
quanto il denaro non
guadagnato.
Sei una ragazza
coraggiosa e gentile.
Allungò una mano per
toccare quella di lei
che si era aggrappata
alla vettura.
Poi batté il bastone
contro il soffitto.

42.
“La storia non è come
una singola persona,
che si serve degli
uomini per raggiungere
i propri fini.
La storia non è altro
che le azioni degli
uomini nel
perseguimento dei loro
fini”.
Marx, “Die Heilige
Familie” (1845).

Charles, come già


abbiamo appreso, non
tornò a Kensington
nello stesso umore
filantropico con il
quale si era congedato
dalla prostituta.
In quell’ora di
viaggio si era di nuovo
sentito male e aveva
avuto il tempo di
aggiungere al resto una
dose massiccia di
disgusto per se stesso.
Ma al risveglio era
in una disposizione
d’animo migliore.
Come tutti, rese il
dovuto omaggio ai
postumi della sbornia,
fissando inorridito il
proprio volto emaciato
e osservandosi la bocca
riarsa e inacidita.
Poi decise che tutto
sommato era abbastanza
in grado di affrontare
il mondo.
E comunque affrontò
Sam, quando costui
entrò con l’acqua
calda, presentandogli
delle specie di scuse
per il suo malumore
della notte precedente.
Io non ho notato
niente, Mister Charles.
Avevo avuto una
serata un po’ faticosa,
Sam.
E adesso sii buono e
portami una bella tazza
di tè.
Ho una sete del
diavolo.Sam se ne andò,
tenendo per sé la sua
opinione personale
secondo la quale il
padrone aveva anche
qualcos’altro del
diavolo.
Charles si lavò, si
rasò e pensò a Charles.
Non era evidentemente
tagliato per la
dissolutezza, ma non
aveva neanche molta
dimestichezza con un
pessimismo intriso di
rimorsi.
Mister Freeman, in
fondo, non aveva forse
detto che potevano
passare due anni prima
che lui fosse costretto
a prendere qualche
decisione sul suo
avvenire? E in due anni
potevano succedere
molte cose.
Charles non disse
apertamente a se
stesso: “Mio zio
potrebbe morire”, ma
questa ipotesi
gravitava ai margini
della sua mente.
Inoltre gli aspetti
carnali dell’esperienza
della notte precedente
gli avevano ricordato
che tra poco nello
stesso ambito avrebbe
potuto godere di
piaceri legittimi.
Per ora doveva
astenersene.
E quella bimba: a
quanti inconvenienti
della vita devono porre
rimedio i bambini! Sam
tornò con il tè e con
due lettere.
La vita era di nuovo
una strada.
Vide subito che la
prima busta portava due
timbri postali:
imbucata a Exeter era
stata rispedita a
Kensington dal White
Lion di Lyme Regis.
L’altra veniva invece
direttamente da Lyme.
Esitò, poi per
dissipare i sospetti
prese un tagliacarte e
andò alla finestra.
Aprì dapprima la
lettera di Grogan, ma
non possiamo leggerla
senza conoscere il
biglietto che Charles
gli aveva mandato
appena rientrato a Lyme
il mattino della sua
passeggiata di buon’ora
al Carslake’s Barn.
Diceva quanto segue:

“Caro dottor Grogan,


Le scrivo molto in
fretta per ringraziarLa
del suo preziosissimo
consiglio ed aiuto
della scorsa notte, e
per assicurarLe
nuovamente che sarò
felice di pagare
qualsiasi cura che Ella
e il Suo collega
potranno ritenere
necessaria.
Confido che,
rendendosi ben conto
che io ho compreso la
follia del mio
scriteriato interesse,
Ella mi farà sapere ciò
che è accaduto a
proposito di
quell’incontro che sarà
già avvenuto quando
Ella leggerà questa
lettera.
Purtroppo stamattina
non sono riuscito ad
affrontare l’argomento
in Broad Street.
La mia partenza
piuttosto improvvisa e
varie altre circostanze
con le quali non voglio
ora infastidirLa, hanno
reso l’occasione
palesemente
inopportuna.
La questione comunque
sarà affrontata subito
dopo il mio ritorno.
Nel frattempo devo
chiederLe di conservare
il segreto.
Parto immediatamente.
Il mio indirizzo di
Londra è qui sotto.
Con profonda
gratitudine.
C.S.”

Non era una lettera


sincera.
Ma era stato
necessario scriverla.
Adesso Charles aprì
nervosamente la
risposta.
“Mio caro Smithson,
Ho ritardato a
scriverLe nella
speranza di ottenere
qualche
‘éclaircissement’ del
nostro piccolo mistero
del Dorset.
Mi dispiace dire che
la sola femmina che
incontrai il mattino
della mia spedizione fu
Madre Natura, una dama
la cui conversazione,
dopo circa tre ore di
attesa, cominciai a
trovare un tantino
tediosa.
Insomma, la persona
non comparve.
Tornato a Lyme,
mandai un ragazzo in
gamba a svolgere lo
stesso incarico in mia
vece.
Ma lui pure rimase
seduto ‘sub tegmine
fagi’ in piacevole
solitudine.
Scrivo queste parole
con mano leggera, ma
confesso che al
tramonto, quando il
ragazzo tornò,
cominciai a temere il
peggio.
Tuttavia il mattino
dopo mi giunse
all’orecchio che erano
state lasciate
istruzioni al White
Lion perché il bagaglio
della ragazza venisse
spedito a Exeter.
Chi sia stato
l’autore di queste
istruzioni non ho
potuto scoprirlo.
Probabilmente lei
stessa ha mandato il
messaggio.
Penso pertanto che
possiamo ritenere che
se la sia svignata.
Il solo timore che mi
rimane, mio caro
Smithson, è che essa
possa seguirLa a Londra
e tentare qui di
sfogare su di Lei le
proprie sventure.
Se avessi tempo,
potrei citarLe altri
casi nei quali si è
ricorsi proprio a
questo comportamento.
Accludo qui un
indirizzo.
E’ quello di un
ottimo uomo, con il
quale sono da tempo in
corrispondenza, e Le
consiglio con la
massima energia di
mettere la cosa nelle
sue mani, qualora nuovi
fastidi venissero ‘à la
lettre’ a bussare alla
Sua porta.
Stia certo che dalle
mie labbra non è uscita
e non uscirà neppure
una parola.
Non Le ripeterò il
mio consiglio a
proposito
dell’incantevole
creatura che, tra
parentesi, ho avuto il
piacere di incontrare
poco fa per strada, ma
raccomando una
confessione alla prima
occasione favorevole.
Non penso che
l”absolvitur’
richiederà una
penitenza troppo lunga
o troppo severa.
Sinceramente Suo
Michael Grogan”.
Charles aveva tratto
un respiro di colpevole
sollievo parecchio
tempo prima di aver
finito la lettura.
Non era stato
scoperto.
Rimase a lungo a
guardare oltre la
finestra della camera
prima di aprire la
seconda lettera.
Si aspettava pagine,
ma ce n’era solo una.
Si aspettava un
diluvio di parole, ma
ce n’erano solamente
tre.
Un indirizzo.
Appallottolò il
foglio, poi si accostò
al fuoco, acceso dalla
cameriera del piano di
sopra, con
accompagnamento del suo
russare, quel mattino
alle otto, e lo gettò
tra le fiamme.
Cinque secondi dopo
era ridotto in cenere.
Prese la tazza di tè
che Sam aspettava di
porgergli.
Charles la svuotò in
un sorso e gli porse
tazza e piattino per
averne ancora.
Ho sbrigato i miei
affari.
Torneremo a Lyme
domani.
Col treno delle
dieci.
Pensa tu ai
biglietti.
E porta i due
messaggi che troverai
sulla mia scrivania
all’ufficio del
telegrafo.
Dopo di che puoi
avere il pomeriggio
libero e scegliere
qualche nastro per la
bella Mary, a meno che,
s’intende, tu non abbia
disposto altrimenti del
tuo cuore dopo il
nostro ritorno.
Sam stava aspettando
questa imbeccata.
Lanciò un’occhiata
alla schiena del
padrone mentre riempiva
nuovamente la tazza
dorata, e fece il suo
annuncio mentre la
porgeva su un piccolo
vassoio d’argento alle
dita già protese di
Charles.
Voglio chiedere la
sua mano, Mister
Charles.
Davvero? O almeno la
chiederei se non fose
che le mie prospetive
al suo servizio non
sono tanto buone.
Sii chiaro, Sam.
Smettila di parlare
per enigmi.
Se mi sposo, dovrò
abitare fuori.
La sbalordita
occhiata con la quale
Charles espresse la sua
istintiva obiezione
dimostrava quanto poco
avesse pensato alla
cosa.
Si voltò e si sedette
accanto al
fuoco.Andiamo, Sam.
Il cielo mi guardi
dall’essere un
impedimento al tuo
matrimonio, ma certo
non vorrai abbandonarmi
subito dopo il mio? Lei
ha capito male, Mister
Charles.
Io stavo pensando a
dopo.
Avremo una casa molto
più grande allora.
E sono convinto che
mia moglie sarebbe
felice di tenere Mary
con se… insomma qual è
il problema? Sam
respirò a fondo.
Sto pensando di darmi
agli afari, Mister
Charles.
Quando lei si sarà
sistemato, si capisce.
Lei sa, spero, che
non la lascerei mai
nel’ora del bisogno.
Affari! Che genere
d’affari? Mi son meso
in mente di aprire un
negozieto, Mister
Charles.
Charles ripose la
tazza sul vassoio
offertogli con mano
svelta.
Ma tu non…
Voglio dire, lo sai
che ci vogliono dei
soldi.
Ho le mie economie,
Mister Charles.
E anche la mia Mary.
Si, si, ma c’è
l’affitto da pagare e
sa il cielo quante
altre cose, Sam, merci
da comperare…
Che specie di
negozio? Tesuti e
merceria, Mister
Charles.
Charles lo guardò
come se il cockney
avesse deciso di farsi
buddista.
Ma ricordò qualche
episodio del passato:
il suo “penchant” per
lo snobismo e il fatto
che il solo settore
della sua attuale
professione nel quale
Sam non avesse mai dato
motivo di lamentela era
la cura dei suoi abiti.
Più di una volta anzi
(circa diecimila volte,
per essere esatti),
Charles lo aveva preso
in giro per la sua
vanità personale in
questo settore.
E avete messo via
abbastanza per…
Purtropo no, Mister
Charles.
Bisognava risparmiare
tropo.
Ci fu un silenzio
significativo.
Sam s’affaccendava
con il latte e lo
zucchero.
Charles si strofinò
il naso un po’ alla
maniera di Sam.
Aveva capito.
Bevve la sua terza
tazza di tè.
Quanto? Conosco il
negozio che mi andrebe
bene, Mister Charles.
Il padrone vuol
centocinquanta sterline
per la buona uscita e
cento per la merce.
E poi bisogna
trovarne altre trenta
per l’afito.
Guardò con attenzione
Charles, poi riprese:
Non è che non stia bene
con lei.
Solo che ho sempre
sognato un negozio.
Quanto avete messo
via? Sam esitò.
Trenta sterline,
signore.
Charles non sorrise,
ma andò alla finestra.
E quanto ci hai messo
per risparmiarle? Tre
anni, signore.
Dieci sterline
all’anno possono non
sembrare tante; ma era
un terzo dello
stipendio, come calcolò
rapidamente Charles; e
proporzionalmente
costituiva un esempio
di frugalità molto
migliore di quello che
avrebbe potuto offrire
lo stesso Charles.
Lanciò un’occhiata a
Sam che stava
docilmente aspettando -
ma aspettando cosa? -
accanto a un
tavolinetto con la roba
per il tè.
Nel silenzio che
seguì, Charles commise
il suo primo errore
fatale, quello di
esprimere a Sam la sua
sincera opinione sul
progetto.
Forse era nel suo
piccolo un bluff, un
fingere di non aver
nemmeno vagamente
sospettato quella
zaffata di
contraccambio per
servizi resi che era
implicita nella
richiesta del servo; ma
era soprattutto
un’assunzione
dell’antica
responsabilità non del
tutto equivalente a una
sublime arroganza -
dell’infallibile
padrone per il suo
fallibile sottoposto.
T’avverto, Sam, se
cominci a metterti in
mente idee al disopra
della tua condizione,
non avrai altro che
infelicità.
Sei triste senza un
negozio.
E lo sarai
doppiamente con un
negozio.
Il capo di Sam si
abbassò di una frazione
di centimetro.
E poi, Sam, mi sono
abituato a te… mi sono
affezionato.
Mi venga un colpo se
ho intenzione di
perderti.
Lo so, Mister
Charles.
I suoi sentimenti
sono del tuto
contracambiati.
Con tuto il rispeto,
signore.
Bene, allora.
Noi siamo contenti
l’uno dell’altro.
Continuiamo così.
Sam si voltò per
prendere la roba del
tè.
La sua delusione era
palese; era diventato
la Speranza
abbandonata, la Vita
stroncata, la Virtù non
premiata e un’altra
dozzina di lugubri
statue.
Dai, Sam, non
assumere quell’aria di
cane bastonato.
Se sposerai questa
ragazza, avrai
naturalmente il salario
di un uomo sposato.
E qualcosa per
mettere su casa.
Sarò generoso con te,
non dubitare.
E’ molto gentile da
parte sua, Mister
Charles.
Ma la voce era
sepolcrale e quelle
statue non erano state
certo demolite.
Charles si vide per
un momento con gli
occhi del servo.
Negli anni che
avevano trascorso
insieme, Sam gli aveva
visto spendere una
grande quantità di
denaro; inoltre doveva
sapere che una quantità
ancora superiore
sarebbe affluita dopo
il matrimonio; non era
quindi innaturale - o
in altre parole poteva
essere stato spinto
solo da un’innocente
motivazione - che
avesse finito col
credere che due o
trecento sterline non
costituissero una
richiesta eccessiva.
Sam, non devi
ritenermi ingeneroso.
Il fatto è che… ecco,
la ragione per cui sono
stato a Winsyatt è che…
be’, Sir Robert sta per
sposarsi.
No! Sir Robert,
signore? Imposibile! La
sorpresa di Sam può far
pensare che avrebbe
dovuto indirizzare le
proprie ambizioni verso
il teatro.
Fece tutto tranne che
lasciar cadere il
vassoio che teneva in
mano; ma questo
avveniva ovviamente
“ante” Stanislavskij.
Charles si voltò
verso la finestra e
riprese a parlare.
Il che significa,
Sam, che in un momento
in cui già devo
affrontare notevoli
spese, non ho molto da
buttar via.
Non imaginavo, Mister
Charles…
Non riesco nemeno a
crederci… alla sua età!
Charles s’affrettò a
bloccare le sue
incombenti parole di
condoglianze.
Dobbiamo augurare a
Sir Robert ogni
felicità.
Ma così stanno le
cose.
E presto saranno di
dominio pubblico.
Comunque, Sam, non
parlarne con nessuno.
Oh, Mister Charles,
lei sa che so tenerlo
un segreto.
Charles si voltò a
lanciargli un’occhiata
penetrante, ma gli
occhi del servo si
erano di nuovo
modestamente abbassati.
Charles desiderava
disperatamente di
vederli, ma
continuavano a sfuggire
al suo sguardo attento
e inducendolo così al
secondo errore fatale,
in quanto la
disperazione di Sam
derivava non tanto
dallo smacco subito
quanto dal sospetto che
il suo padrone non
avesse segreti
colpevoli sui quali far
leva.
Sam, io… ecco, quando
sarò sposato, le mie
condizioni finanziarie
saranno migliori…
Non voglio
distruggere
completamente le tue
speranze… lasciamici
riflettere.
Nel cuore di Sam si
accese una piccola
fiamma di esultanza.
Ce l’aveva fatta.
La leva esisteva.
Mister Charles, vorei
non aver parlato.
Non imaginavo.
No, no, sono contento
che tu abbia affrontato
l’argomento.
Se ne avrò
l’occasione, chiederò
magari un consiglio a
Mister Freeman.
Egli sa indubbiamente
che cosa possa valere
una simile iniziativa.
Oro puro, Mister
Charles, oro puro, eco
cosa sarebero per me i
consigli di quel
signore.
Su questa iperbole
Sam si congedò.
Charles rimase a
fissare la porta
chiusa.
Incominciava a
chiedersi se non stesse
affiorando alla
superficie della
personalità di Sam
qualcosa di un Uriah
Heep; una certa
duplicità.
Aveva sempre
scimmiottato i
gentiluomini
nell’abbigliamento e
nei modi, e adesso
s’intravedeva
confusamente
qualcos’altro nel
gentiluomo spurio che
si era scelto come
modello.
Era un’epoca di
transizione.
E tanti ordini
cominciavano a
liquefarsi e a
dissolversi.
Rimase così per
parecchi secondi, poi…
Bah! Con il denaro di
Ernestina in banca, che
peso avrebbe avuto
acconsentire al
desiderio di Sam? Si
voltò verso lo
scrittoio e aprì un
cassetto.
Ne trasse un taccuino
e vi scribacchiò
qualcosa: con ogni
probabilità per
ricordarsi di parlare
con Mister Freeman.
Intanto da basso Sam
stava leggendo il
contenuto dei due
telegrammi.
Uno era per il White
Lion e informava il
locandiere del loro
ritorno.
L’altro diceva: MISS
FREEMAN PRESSO MISTRESS
TRANTER, BROAD STREET,
LYME REGIS.
EST STATO ORDINATO IL
MIO IMMEDIATO RITORNO
ET SARA’ IMMEDIATAMENTE
COMPIUTO CON ESTREMA
GIOIA DAL TUO
AFFEZIONATISSIMO
CHARLES SMITHSON.
A quell’epoca solo
quei cafoni di Yankee
si abbassavano al
linguaggio telegrafico.
Non era la prima
missiva personale che
cadeva quel mattino
sotto gli occhi di Sam.
La busta della
seconda lettera che
egli aveva portato a
Charles quel mattino
era giunta ingommata ma
non sigillata.
Un po’ di vapore può
far miracoli.
E Sam aveva avuto
tutta una mattina a
disposizione per un
minuto in cui restare
solo in cucina.
Forse per quanto
concerne Sam,
cominciate anche voi a
condividere il parere
di Charles.
Bisogna dire che non
si sta rivelando come
il più onesto degli
uomini.
Ma l’idea del
matrimonio esercita
strani effetti.
Induce gli aspiranti
coniugi a sospettare
un’ineguaglianza nelle
cose; gli fa desiderare
di offrirsi a vicenda
qualcosa di più; uccide
la spensieratezza
giovanile; accentua le
responsabilità e
attenua gli aspetti più
altruistici del
contatto sociale.
Insomma, è più facile
essere disonesti per
due che per uno.
Sam non riteneva
disonesto il proprio
comportamento, lo
definiva “giocar bene
le proprie carte”.
In parole povere, ciò
significava che il
matrimonio con
Ernestina doveva
arrivare a buon fine:
soltanto dalla sua dote
poteva sperare nelle
duecentocinquanta
sterline.
Se dovevano esserci
nuovi contatti tra il
padrone e la donna
peccaminosa di Lyme,
era necessario che
avvenissero sotto gli
occhi attenti del
giocatore di carte; e
poteva anche non essere
del tutto un male
giacché quanto più
Charles si fosse
sentito colpevole,
tanto più sicuro
sarebbe stato il suo
gioco; se però avesse
esagerato…
Sam si succhiò il
labbro inferiore e si
accigliò.
Non faceva meraviglia
che incominciasse a
sentirsi un tantino al
disopra della propria
condizione sociale: è
così che si sono sempre
sentiti i sensali di
matrimonio.

43.
“Yet I thought I saw
her stand, A shadow
there at my feet Eligh
over the shadowy land”.
Tennyson, “Maud”
(1855).
“E tuttavia pensai di
averla vista eretta, /
Un’ombra lì ai miei
piedi, / Alta su quella
terra ombrosa” [Nota
del Traduttore].

Forse si possono
trovare più conferme
del mito della
razionalità del
comportamento umano in
un’età di ferro come la
vittoriana che in quasi
tutte le altre.
Charles aveva
fermamente deciso, dopo
la notte della
ribellione, di portare
a buon fine il
matrimonio con
Ernestina.
Non gli era mai
passata seriamente per
la mente l’ipotesi di
agire in modo diverso:
la casa di mamma
Tersicore e la
prostituta erano state
soltanto, per quanto
strano possa apparire,
delle conferme di
questa intenzione; le
ultime petulanti
polemiche su un fatto
compiuto, gli ultimi
interrogativi su una
cosa indiscutibile.
Se lo era detto nel
suo nauseato rientro a
casa, e ciò può
spiegare il trattamento
villano che aveva
inflitto a Sam.
In quanto a Sarah…
l’altra Sarah era stata
il suo surrogato, la
sua triste e sordida
conclusione, la
premessa al risveglio
di Charles.
Ciononostante,
avrebbe forse
desiderato che la sua
lettera fosse stata più
chiaramente colpevole:
che avesse chiesto del
denaro (ma era
difficile che avesse
speso dieci sterline in
così breve tempo) o
sfogato i suoi
sentimenti illeciti.
Ma è difficile
trovare passione o
disperazione in quelle
tre parole “Endicott’s
Family Hotel”, senza
neanche una data o
un’iniziale! Era
certamente un atto di
disobbedienza, un modo
di scavalcare zia
Tranter, ma non si
poteva certo
processarla perché
aveva bussato alla sua
porta.
Era facile decidere
di ignorare
quell’implicito invito:
non doveva rivederla
mai più.
Ma forse Sarah la
prostituta aveva
ricordato a Charles
l’eccezionalità di
Sarah la proscritta; la
totale assenza di
sentimenti più elevati
nell’una sottolineava
la loro stupefacente
sopravvivenza
nell’altra.
Come era sagace e
assennata alla sua
strana maniera…
Alcune delle cose che
aveva detto dopo la
confessione erano tali
da ossessionare una
persona.
Se ricordare è
pensare, pensò molto a
Sarah durante il lungo
viaggio di ritorno.
Non poté fare a meno
di ammettere che
ricoverarla in un
istituto, sia pure
illuminato, sarebbe
stato un tradimento.
Ho detto ricoverarla,
ma il pronome è una
delle maschere più
spaventose che l’uomo
abbia mai inventato;
ciò che si presentava
alla mente di Charles
non era un pronome, ma
occhi, sguardi, la
linea dei capelli sopra
la tempia, un passo
leggero, un viso
addormentato.
Il tutto, ovviamente,
non come un sogno a
occhi aperti, ma come
seria considerazione di
un problema morale,
nata da una
sollecitudine
nobilmente pura per il
futuro benessere
dell’infelice donna.
Il treno arrivò a
Exeter.
Sam comparve pochi
istanti dopo l’ultimo
fischio sulla porta
dello scompartimento;
aveva ovviamente
viaggiato in terza
classe.
Pasiamo qui la note,
Mister Charles? No.
Una carrozza.
A quattro ruote.
Sembra stia per
piovere.
Sam avrebbe scommesso
mille sterline che
sarebbero rimasti a
Exeter.
Ma obbedì senza
esitazione, come senza
esitazione, alla vista
del volto di Sam, il
suo padrone aveva
deciso - perché nel
profondo di se stesso
c’era ancora una
decisione da prendere -
come si sarebbe
comportato.
In realtà era stato
Sam a decidere: Charles
non poteva affrontare
ulteriori
prevaricazioni.
Fu solo quando già
attraversavano i
sobborghi orientali
della città che egli
provò un senso di
tristezza e di
smarrimento per aver
gettato il dado fatale.
Lo sbalordiva che una
semplice decisione, la
risposta a una domanda
banale, dovesse avere
conseguenze così
importanti.
Fino a quel momento
tutto era stato
potenziale; adesso
tutto era
inesorabilmente
fissato.
Aveva fatto la cosa
più morale, più onesta,
più corretta; e
tuttavia essa sembrava
svelare qualche sua
insita debolezza, una
propensione ad
accettare il proprio
destino, pur sapendo
benissimo, per uno di
quei presentimenti che
sono concreti come dei
fatti, che l’avrebbe
trascinato un giorno
nel mondo del
commercio; per far
piacere a Ernestina che
voleva far piacere a
suo padre al quale lui
doveva tanto,
contemplando la
campagna nella quale
erano appena entrati,
si sentì risucchiare
lentamente come da una
pipa mostruosa.
La carrozza continuò
il suo viaggio, con una
molla allentata che
cigolava un poco ad
ogni sobbalzo, lugubre
come la carretta dei
condannati.
Il cielo era coperto
e aveva cominciato a
piovigginare.
Normalmente, in
simili circostanze,
viaggiando da solo,
avrebbe invitato Sam a
sedersi dentro con lui.
Ma ora non poteva
guardarlo in faccia (ed
egli, a sua volta, non
vedendo altro che oro
sulla strada bagnata
che portava a Lyme, non
era per niente offeso
da questo ostracismo).
Era come se gli fosse
ormai definitivamente
vietata la solitudine.
Quel poco che gli
rimaneva doveva
goderselo.
Ripensò alla donna
che aveva lasciato
nella città alle loro
spalle.
Non che, ovviamente,
la considerasse
un’alternativa a
Ernestina, una che,
potendo scegliere,
avrebbe sposato in sua
vece.
Questo non sarebbe
mai stato possibile.
In realtà ora non
pensava esattamente a
Sarah: era soltanto il
simbolo al quale si
erano agganciate le sue
possibilità perdute, le
sue libertà estinte, i
viaggi che non avrebbe
mai più fatto.
Doveva dire addio a
qualcosa, e Sarah era,
puramente e
opportunamente, vicina
e insieme sfuggente.
Non c’erano dubbi.
Egli era una vittima
della vita, una
ennesima ammonite
travolta dal grande
movimento della storia
ed ora abbandonata per
l’eternità, un
potenziale
trasformatosi in
fossile.
Un attimo dopo
commise l’estrema
debolezza: si
addormentò.
44.
“Duty - that’s to say
complying With
whate’er’s expected
here…
With the form
conforming duly,
Senseless what it
meaneth truly…
‘Tis the stern and
prompt suppressing, As
an obvious deadly sin,
All the questing and
the guessing Of the
soul’s own soul within:
‘Tis the coward
acquiescence In a
destiny’s behest…” A.H.
Clough, “Duty”
(1841).
“Dovere - cioè
obbedire / A tutto ciò
che qui ci si aspetta…
/ Conformandosi
coscienziosamente
all’etichetta, /
Divenuta assurda benché
autentici fossero i
suoi intenti… / Cioè la
severa e immediata
repressione, / Come di
un peccato
evidentemente mortale.
/ Di tutte le richieste
e le ipotesi /
Dell’anima segreta
dell’anima: / Cioè la
codarda acquiescenza /
Al volere del destino…”
[Nota del Traduttore].

Arrivarono al White
Lion poco prima delle
dieci di sera.
Le luci a casa di zia
Tranter erano ancora
accese, e al loro
passaggio si scostò una
tendina.
Charles provvide
rapidamente alla
propria toletta e,
affidato a Sam il
compito di disfare i
bagagli, s’avviò
virilmente verso la
collina.
Mary era felicissima
di vederlo; zia
Tranter, che le stava
dietro, era roseamente
inghirlandata di
sorrisi di benvenuto.
Aveva ricevuto ordini
severissimi di
ritirarsi appena
salutato il
viaggiatore; non si
tolleravano chaperon
per quella sera.
Ernestina, con la
consueta valutazione
della propria dignità,
era rimasta nell’altro
salotto.
Quando Charles entrò,
si guardò bene
dall’alzarsi e si
limitò a lanciargli una
lunga occhiata di
rimprovero da sotto le
ciglia.
Lui sorrise.
A Exeter ho
dimenticato di comprare
i fiori.
Lo vedo.
Avevo fretta di
arrivare qui prima che
tu andassi a letto.
Ernestina abbassò gli
occhi e si guardò le
mani impegnate nel
ricamo.
Charles si avvicinò,
e le mani
s’interruppero
bruscamente per
capovolgere il piccolo
oggetto sul quale si
stavano affaccendando.
Vedo che ho un
rivale.
Meriteresti di averne
tanti.
Le si inginocchiò
accanto, le prese
delicatamente una mano
e la baciò.
Lei lo guardò di
sottecchi.
Non ho chiuso occhio
da quando sei partito.
Lo vedo dalle tue
guance pallide e dai
tuoi occhi gonfi.
Ernestina non
sorrise.
Adesso mi prendi in
giro.
Se è questo l’effetto
che ti fa l’insonnia,
farò in modo che in
camera nostra suoni
continuamente un
campanello d’allarme.
Lei arrossì.
Charles si alzò, le
si sedette accanto,
attirò a sé il suo viso
e lo baciò prima sulla
bocca, poi sugli occhi
chiusi, che a questo
contatto si aprirono e
fissarono i suoi,
svuotati d’ogni residuo
di freddezza.
Egli sorrise: E
adesso fammi vedere che
cosa stai ricamando per
il tuo segreto
ammiratore.
Ernestina alzò il suo
lavoro.
Era una custodia per
orologio in velluto
azzurro, uno di quei
borsellini che i
gentiluomini vittoriani
tenevano appesi al
tavolo da toletta per
infilarvi l’orologio
durante la notte.
Sul lembo da
appendere era stato
ricamato un cuore
bianco con ai lati le
iniziali C e E; nella
parte inferiore aveva
cominciato senza
finirlo, un distico in
filo d’oro.
Charles lo lesse ad
alta voce: Ogni volta
che l’orologio
caricherai… e come
diamine finisce?
Indovina.
Charles guardò il
velluto azzurro.
I denti di tua moglie
digrignar vedrai?
Ernestina nascose
l’oggetto dietro la
schiena.
Non te lo dico.
Non sei altro che un
“cad”. “Cad” allora
significava postiglione
di diligenza, una
categoria famosa per le
sue battute argute e
volgari.
Che non chiederebbe
mai il prezzo della
corsa a una così bella
creatura.
Le adulazioni
ipocrite e i fragili
giochi di parole sono
egualmente detestabili.
E tu, mia cara, sei
adorabile quando ti
arrabbi.
Allora ti perdono,
solo per essere
orrenda.
Si scostò un poco da
lui, anche se il
braccio di Charles
continuava a cingerle
la vita e la pressione
della sua mano era
contraccambiata.
Rimasero un attimo in
silenzio.
Egli le baciò di
nuovo la mano.
Possiamo uscire
insieme domattina?
Mostreremo al mondo che
siamo degli innamorati
alla moda e, dalla
nostra espressione
annoiata, tutti
capiranno senza ombra
di dubbio che questo
sarà un matrimonio
d’interesse.
Sorrise, poi tornò
impulsivamente a
mostrargli la custodia
per orologio.
Ogni volta che
l’orologio caricherai,
Che io ti amo
ricordarti potrai.
Mia dolcissima.
La guardò negli occhi
ancora una volta, poi
si frugò in tasca e le
mise in grembo una
scatoletta di
marocchino rosso scuro.
Delle specie di
fiori.
Ernestina premette
timidamente il piccolo
fermaglio e aprì la
scatola; su un letto di
velluto rosso giaceva
un’elegante spilla
svizzera; il minuscolo
mosaico ovale con un
ramoscello di fiori era
circondato di perle e
di frammenti di corallo
incastonati in oro.
Levò gli occhi umidi
verso Charles che per
aiutarla chiuse gli
occhi.
Lei si voltò e si
sporse a dargli un
casto tenero bacio
sulle labbra; poi
appoggiò la testa alla
sua spalla, guardò
ancora la spilla e la
baciò.
Charles ricordò i
versi di quel canto
priapeo.
Le sussurrò
all’orecchio: Vorrei
che fosse domani il
giorno delle nostre
nozze.
Era tutto molto
semplice: si viveva di
ironia e di sentimento,
si rispettavano le
convenzioni.
Ciò che sarebbe
potuto essere era
soltanto un pretesto in
più per una distaccata
e ironica osservazione;
e così ciò che poteva
ancora avvenire.
In altre parole, ci
si arrendeva, si
imparava a essere ciò
che si era.
Charles strinse il
braccio della ragazza.
Carissima, devo farti
una piccola
confessione.
Concerne
quell’infelice creatura
di Marlborough House.
Lei si levò un poco a
sedere, vivamente
interessata, già
divertita.
Non la povera
Tragedia? Egli sorrise.
Temo le si addica di
più il suo appellativo
più
volgare.
Le premette la mano.
E’ veramente un
episodio sciocco e
banale.
Ecco che cosa è
successo.
Durante una delle mie
piccole ricerche di
quegli inafferrabili
echinodermi…

Così finisce la
storia.
Cosa sia accaduto a
Sarah non lo so,
comunque non importunò
più Charles di persona,
per quanto possa essere
rimasta a lungo nella
sua memoria.
E’ così che accade il
più delle volte.
La gente esce dalla
nostra visuale,
annegata nell’ombra di
cose più vicine.
Charles ed Ernestina
non vissero sempre
felici e contenti, ma
restarono insieme,
anche se Charles le
sopravvisse di un
decennio (durante il
quale continuò
coscienziosamente a
portare il lutto per
lei).
Generarono vediamo un
po’ quanti?… diciamo
sette figli.
Sir Robert aggiunse
l’offesa all’insulto
mettendo al mondo,
neanche dieci mesi dopo
il matrimonio con
Mistress Bella Tomkins
non un erede soltanto
ma due.
Questi fatali gemelli
finirono per spingere
Charles negli affari.
All’inizio si annoiò,
poi cominciò a
prendervi gusto.
I suoi figli non
ebbero altra scelta; e
oggi i loro figli
controllano ancora il
grande negozio e tutte
le sue ramificazioni.
Sam e Mary… ma a chi
può interessare la
biografia di due servi?
Si sposarono,
generarono e morirono
alla maniera monotona
della loro specie.
Chi altro resta? Il
dottor Grogan? Morì a
novantun anni.
E poiché anche zia
Tranter visse oltre i
novanta, abbiamo una
chiara prova di quanto
sia salubre la fresca
aria di Lyme.
Ma la sua efficacia
non deve essere totale,
perché Mistress
Poulteney morì meno di
due mesi dopo l’ultimo
ritorno di Charles a
Lyme.
E mi fa piacere dire
che questo argomento mi
interessa al punto da
indurmi a guardare nel
futuro, cioè nell’altra
sua vita.
Convenientemente
vestita di bianco,
arrivò sul suo baroccio
alle Porte Celesti.
Il suo valletto -
perché naturalmente,
come nell’antico
Egitto, era morta con
lei l’intera servitù -
scese ad aprire con
solennità la porta
della carrozza.
Mistress Poulteney
salì i gradini e dopo
aver preso mentalmente
nota di informare il
Creatore (una volta che
Lo avesse conosciuto
meglio) che i Suoi
domestici avrebbero
dovuto stare più
all’erta quando si
prevedevano visitatori
importanti, suonò il
campanello.
Comparve il
maggiordomo.
Signora? Sono
Mistress Poulteney.
Sono venuta per
prendere residenza.
Voglia gentilmente
informarne il suo
Padrone.
Sua Infinità è stato
informato del decesso,
signora.
E i Suoi angeli hanno
già cantato uno
Jubilate per celebrare
l’avvenimento.
E’ molto giusto e
gentile da parte Sua.
E la degna signora,
gonfiandosi e
pavoneggiandosi, fece
per entrare
nell’imponente salone
che scorgeva oltre la
testa del maggiordomo.
Ma costui non si
spostava.
Anzi, con una certa
impertinenza, fece
risuonare un mazzo di
chiavi che teneva in
mano.
Si faccia da parte,
servo! Io sono Mistress
Poulteney di Lyme
Regis.
Già, di Lyme Regis,
signora.
E ora di un luogo
assai più tropicale.
Detto questo, il
brutale lacchè le
sbatté la porta in
faccia.
La reazione immediata
di Mistress Poulteney
fu di guardarsi
attorno, temendo che i
suoi domestici avessero
udito questo dialogo.
Ma la carrozza, che
le sembrava di aver
sentito condurre nei
quartieri della
servitù, era scomparsa.
Anzi, era scomparso
tutto, strada e
paesaggio (piuttosto
somiglianti, per
qualche strana ragione,
alla Great Drive che
porta al castello di
Windsor), tutto, tutto
svanito.
Non c’era altro che
dello spazio, e -
orrore degli orrori -
uno spazio divoratore.
L’uno dopo l’altro,
cominciarono a sparire
anche i gradini che
Mistress Poulteney
aveva così
imperialmente asceso.
Ne rimanevano tre
soltanto, poi, due,
poi, uno.
Mistress Poulteney
non aveva più nulla
sotto i piedi.
La si udì esclamare
molto chiaramente: C’è
lo zampino di Lady
Cotton, dopo di che
cadde dimenandosi,
oscillando,
sobbalzando, come un
corvo abbattuto, fin
laggiù dove l’aspettava
il suo vero padrone.
45.
“And ah for a man to
arise in me, That the
man I am may cease to
be!” Tennyson, “Maud”
(1855).
“Oh, se in me potesse
sorgere un uomo, / E se
l’uomo che io sono
potesse cessare di
essere!” [Nota del
Traduttore].

E ora, dopo aver


portato questo romanzo
a una conclusione
assolutamente
tradizionale, farei
meglio a precisare che
tutto ciò che ho
raccontato negli ultimi
due capitoli accadde
veramente, ma non
proprio nella maniera
che vi ho fatto
credere.Ho già detto in
precedenza che siamo
tutti poeti, anche se
non molti di noi
scrivono poesie; e così
siamo tutti romanzieri,
abbiamo cioè
l’abitudine di scrivere
futuri in forma
narrativa per la nostra
vita, anche se oggi
forse tendiamo
piuttosto a immetterci
in un film.
Proiettiamo pertanto
nella nostra mente
ipotesi su come
potremmo comportarci,
su ciò che ci potrebbe
accadere; e queste
ipotesi narrative o
cinematografiche,
quando il futuro
diventa presente, hanno
spesso sul nostro
effettivo comportamento
un’influenza assai
maggiore di quella che
siamo generalmente
disposti a
riconoscergli.
Charles non faceva
eccezione: le ultime
pagine che avete letto
non raccontano ciò che
accadde, ma ciò che lui
immaginò potesse
accadere nelle ore
trascorse tra Londra ed
Exeter.
Certo i suoi pensieri
non si sviluppavano
secondo una linea
narrativa coerente e
dettagliata come quella
che ho usato io, e non
giurerei neanche che
avesse seguito la
carriera postuma di
Mistress Poulteney in
tutti quegli
interessantissimi
particolari.
Ma voleva sicuramente
che essa andasse al
diavolo, e quindi il
discorso è in sostanza
il medesimo.
Soprattutto, si
sentiva prossimo alla
fine di una storia, ed
era una fine che non
gli piaceva.
Se negli ultimi due
capitoli avete notato
una precipitazione, una
mancanza di coerenza,
un tradimento delle
potenzialità più
profonde di Charles e
il piccolo particolare
che gli è stato
concesso un secolo e un
quarto di vita; se
avete avuto il
sospetto, non raro in
letteratura, che
l’autore sia rimasto
senza fiato e abbia
concluso un po’
arbitrariamente la
corsa quando sentiva di
essere ancora in
vantaggio - non date la
colpa a me: tutti
questi sentimenti, o i
loro riflessi, erano
infatti presenti solo
nella mente di Charles.
Gli sembrava che il
libro della sua
esistenza stesse
avvicinandosi a una
conclusione decisamente
squallida.
E quella prima
persona singolare,
quello scrittore che ha
trovato ragioni così
viscidamente speciose
per consegnare Sarah
alle ombre dell’oblio,
non ero io, ma soltanto
la personificazione di
una certa massiccia
indifferenza delle cose
- troppo ostile perché
Charles potesse
chiamarla “Dio” - che
aveva fatto pesare la
sua malevola forza
d’inerzia sul piatto
della bilancia di
Ernestina.
Sembrava una
direzione
inesorabilmente fissata
come quella del treno
sul quale Charles stava
viaggiando.
Non baravo quando ho
detto che Charles a
Londra, il giorno dopo
la sua scappatella,
aveva deciso di portare
a buon fine il
matrimonio: era stata
questa la sua decisione
ufficiale, come a suo
tempo aveva preso la
decisione ufficiale (ma
sarebbe più esatto
parlare di reazione) di
farsi prete.
Dove ho barato è
nell’analizzare
l’effetto che quella
lettera di tre parole
continuava a esercitare
su di lui.
Lo tormentava, lo
ossessionava, lo
turbava.
Quanto più ci
pensava, tanto più gli
sembrava tipico di
Sarah il fatto di
avergli mandato
l’indirizzo e
nient’altro.
Era perfettamente
coerente con tutto il
suo comportamento,
descrivibile soltanto
mediante ossimori:
allettante e sfuggente,
semplice e sottile,
fiero e supplichevole,
difensivo e
accusatorio.
La vittoriana era
un’epoca prolissa e per
nulla abituata alle
cose sibilline.
Ma soprattutto
sembrava imporre a
Charles una scelta; e
mentre una parte di lui
odiava il dover
scegliere, noi possiamo
avvicinarci al segreto
del suo stato d’animo
durante questo viaggio
se diciamo che un’altra
parte di lui si sentiva
irrefrenabilmente
eccitata
nell’avvicinarsi al
momento della
scelta.Egli non aveva
il vantaggio della
terminologia
esistenziale, ma ciò
che in realtà sentiva
era un caso
evidentissimo di ansia
di libertà; cioè
rendersi conto che si è
liberi ma comprendere
che essere liberi è una
situazione
terrorizzante.
Allontaniamo dunque a
calci Sam dal suo
ipotetico futuro e
ritorniamo al suo
presente di Exeter.
Appena il treno si
ferma, egli si reca
nello scompartimento
del padrone.
Pasiamo qui la note,
signore? Charles lo
fissa per un momento.
Non ha ancora deciso
e guarda in alto verso
il cielo coperto.
Penso che pioverà.
Alloggeremo allo
Ship.
Così Sam, arricchito
di mille inesistenti
sterline, venne a
trovarsi qualche minuto
dopo davanti alla
stazione con il suo
padrone, per assistere
al carico degli
“impedimenta” di
Charles sul tetto di
un’esausta carrozza.
Charles appariva
decisamente irrequieto.
Infine il baule
armadio venne legato, e
tutti aspettarono che
lui si decidesse.
Penso di sgranchirmi
un po’ le gambe, Sam,
dopo questo
insopportabile viaggio.
Vai tu col bagaglio.
Sam si sentì mancare
il cuore.
Con tuto il rispeto,
Mister Charles, io non
lo farei.
Con quele nuvole che
stano per scatenarsi.
Un po’ di pioggia non
mi farà male.
Sam deglutì e
s’inchinò.
Sì, Mister Charles.
Devo dare ordini per
il pranzo? Sì… cioè…
vedrò quando torno.
Può darsi che vada
alla cattedrale per il
vespro.
Charles si avviò su
per la collina
dirigendosi verso la
città.
Per un po’ Sam lo
seguì tetramente con
gli occhi, poi si
rivolse al cocchiere.
Ehi, conosci
l’Endicott’s Family
Hotel? Sì.
Sai dov’è? Sì.
Be’, portami di gran
corsa allo Ship, e poi
forse ti capiterà
qualcosa che ti farà
piacere.
E con l’opportuno
sussiego, Sam salì in
carrozza.
Superò ben presto
Charles, che camminava
con ostentata lentezza,
come se effettivamente
stesse solo prendendo
un po’ d’aria.
Ma appena il veicolo
sparì dalla sua
visuale, accelerò il
passo.
Sam aveva una grande
esperienza nel trattare
con assonnati
locandieri di
provincia.
Si scaricò il
bagaglio, si scelsero
le migliori camere
ancora libere, si
accese un fuoco e si
estrassero gli
indumenti e tutto il
necessario per la
notte; il tutto in
sette minuti.
Dopodiché egli tornò
frettolosamente in
strada, dove la
carrozza lo stava
ancora aspettando.
Compirono un altro
breve viaggio.
Dall’interno Sam si
guardò attorno con
cautela, poi scese e
pagò il cocchiere.
E’ la prima a
sinistra, signore.
Grazie, amico.
Ed ecoti un paio di
penny.
E, data questa mancia
vergognosamente
meschina (perfino per
Exeter), Sam si calcò
la bombetta sugli occhi
e sparì nel crepuscolo.
A metà della strada
che aveva imboccato, e
di fronte a quella
indicatagli dal
cocchiere, c’era una
cappella metodista con
imponenti colonne sotto
il frontone.
Dietro una di queste
andò a piazzarsi il
detective in embrione.
Era quasi notte,
arrivata prematuramente
sotto quel cielo grigio
scuro.
Non dovette attendere
molto.
Gli balzò il cuore
vedendo comparire una
figura alta.
Evidentemente
disorientata, questa
figura si rivolse a un
ragazzino, che
immediatamente la guidò
all’angolo appena oltre
il punto dove si era
appostato Sam e le
indicò la direzione con
un gesto che, a
giudicare dal suo
sorriso, gli fece
guadagnare un po’ più
di due pence.
La schiena di Charles
si allontanava.
Poi lo si vide
fermarsi e alzare il
capo.
Tornò indietro di
qualche passo.
Dopo di che, quasi
spazientito con se
stesso, fece dietro
front ed entrò in una
di quelle case.
Sam sgusciò
immediatamente da
dietro il pilastro,
scese di corsa i
gradini e raggiunse la
strada dell’Endicott’s
Family Hotel.
All’angolo si fermò
un poco ad attendere,
ma Charles non
ricomparve.
Allora Sam, fattosi
più ardito, prese a
passeggiare con aria
indifferente lungo il
muro di un magazzino,
di fronte a quella
piccola fila di case.
Riuscì così a vedere
il vestibolo
dell’albergo.
Era deserto.
Ma parecchie stanze
erano illuminate.
Dopo circa un quarto
d’ora cominciò a
piovere.
Sam per un po’ rimase
lì a rosicchiarsi le
unghie e a riflettere
furiosamente.
Infine si allontanò a
passo svelto.
46.
“And yet, when all is
thought and said, The
heart still overrules
the head, Still what we
hope we must believe,
And what is given us
receive;

Must still believe,


for still we hope That
in a world of larger
scope, What here is
faithfully begun Will
be completed, not
undone.
My child, we still
must think, when we
That ampler life
together see, Some true
results will yet appear
Of what we are,
together, here”.
A.H.
Clough, “Poem”
(1849).
“Eppure, una volta
pensato e detto tutto,
/ Il cuore è ancora più
forte della testa; /
Ancora dobbiamo credere
in quello che speriamo,
/ E accettare quello
che ci viene dato; //
Dobbiamo ancora credere
perché ancora speriamo
/ Che in un mondo più
vasto, / Ciò che qui è
stato fedelmente
iniziato / Venga
completato, non
distrutto. // Dobbiamo
ancora pensare, bambina
mia, che quando /
Vedremo insieme quella
vita più ampia, /
Appariranno alcuni
effetti autentici / Di
quello che siamo
insieme qui”. [Nota de
Traduttore].
Charles esitò in
quello squallido
vestibolo, poi bussò a
una porta socchiusa
dalla quale proveniva
luce.
Lo invitarono a
entrare e si trovò a
faccia a faccia con la
proprietaria.
Fu molto più svelta
lei a
valutare lui
dell’opposto:
indiscutibilmente un
uomo da quindici
scellini.
Gli sorrise dunque
con gentilezza.
Una stanza, signore?
No, io… ecco, vorrei
parlare con una vostra…
una certa Miss
Woodruff.
Bruscamente il
sorriso di Mistress
Endicott lasciò il
posto a un’espressione
sconsolata.
Charles si sentì
mancare il cuore: Non
sarà…?.
Oh, signore, la
povera signorina è
scivolata l’altro ieri
mentre stava scendendo
le scale, signore.
Si è slogata la
caviglia in un modo
orribile.
E’ gonfia come una
zucca.
Mi sono offerta di
chiamare il dottore, ma
la signorina non ha
voluto saperne.
E’ vero che le
caviglie slogate
guariscono da sole.
E i medici costano
molto.
Charles guardò la
punta del suo bastone.
Allora non posso
vederla.
Oh, buon Dio, lei può
salire, signore.
Le solleverà il
morale.
E’ un parente,
immagino.
Devo vederla… per
affari.
Il rispetto di
Mistress Endicott si
accentuò: Ah… un uomo
di legge?.
Charles esitò un
attimo, poi disse: Sì.
Allora deve salire,
signore.
Credo… può mandare
qualcuno a chiedere se
non farei meglio a
tornare dopo la sua
guarigione? Si sentiva
decisamente perplesso.
Ricordava Varguennes:
nell’intimità si
annidava sempre il
peccato.
Era venuto soltanto
per informarsi; aveva
sperato in un salottino
al pianterreno,
qualcosa che fosse
insieme intimo e
pubblico.
La vecchia esitò, poi
lanciò una rapida
occhiata a una cassetta
aperta accanto a una
scrivania a ribalta ed
evidentemente decise
che anche gli avvocati
potrebbero essere
ladri, ipotesi che
pochi di coloro che
hanno onorato le loro
parcelle sarebbero
disposti a confutare.
Perciò, senza
muoversi e con
sorprendente energia,
chiamò una certa Betty
Anne.
Betty Anne arrivò e
venne subito mandata di
sopra con un biglietto
da visita.
Trascorse poi un
certo tempo, durante il
quale Charles dovette
respingere numerosi
indiscreti tentativi di
scoprire gli scopi
della sua visita.
Poi finalmente Betty
Anne tornò: era
invitato a salire.
Seguì la schiena
grassoccia della
cameriera sino
all’ultimo piano dove
gli venne mostrato il
luogo dell’incidente.
Le scale erano
decisamente ripide e in
un’epoca in cui ben
raramente riuscivano a
vedere i propri piedi,
le donne cadevano in
continuazione: era una
costante della vita
domestica.
Arrivarono a una
porta in fondo a un
lungo corridoio.
Con voce brusca venne
annunciata la presenza
di Charles, il cui
cuore batteva assai più
in fretta di quanto
fosse giustificato
anche da tre ripide
rampe di scale.
Il signore,
signorina.
Charles entrò.
Sarah era accanto al
fuoco, su una sedia
rivolta verso la porta.
I piedi erano
appoggiati a uno
sgabello e su di essi,
come sulle gambe, era
distesa una rossa
coperta gallese.
Lo scialle di merino
verde che le cingeva le
spalle non riusciva a
nascondere
completamente il fatto
che indossava soltanto
una camicia da notte
con le maniche lunghe.
Sulle spalle verdi
ricadevano i capelli
sciolti.
Gli parve molto più
piccola e
tormentosamente
intimidita.
Continuava a
guardarsi le mani senza
sorridere: soltanto al
suo ingresso aveva
alzato gli occhi per un
attimo, come una
colpevole spaventata e
certa della sua
collera, ma li aveva
riabbassati subito.
Charles rimase
immobile, con il
cappello in una mano, i
guanti e il bastone
nell’altra.
Sono a Exeter di
passaggio.
La ragazza abbassò la
testa una frazione di
più, in un
atteggiamento insieme
di comprensione e di
vergogna.
Non sarebbe meglio se
andassi subito a
chiamare un medico?
Sarah parlò
rivolgendosi al proprio
grembo.
No, per favore.
Potrebbe consigliarmi
soltanto ciò che sto
già facendo.
Non riusciva a
toglierle gli occhi di
dosso: vederla così
immobilizzata, così
inferma (ma le sue
guance erano di un rosa
carico), così indifesa.
E, dopo l’eterno
abito indaco, lo
scialle verde,
l’opulenza, mai così
pienamente rivelata, di
quei capelli.
Il vago odor di cedro
del linimento penetrava
nelle narici di
Charles.
Le fa male? Sarah
scosse il capo.
Fare una cosa simile…
Non riesco a capire
come posso essere stata
così sciocca.
Comunque ringrazi il
cielo che non sia
successo
sull’Undercliff.
Già.
Sembrava
irrimediabilmente
intimidita dalla sua
presenza.
Charles si guardò
attorno.
Nella grata ardeva un
fuoco acceso da poco.
Sulla mensola c’erano
steli esausti di
narcisi in una brocca
Toby.
Ma lo squallore
dell’arredamento era
penosamente evidente e
accresceva il suo
imbarazzo.
Si vedevano sul
soffitto macchie nere
prodotte dal fumo della
lampada, relitti
spettrali degli
innumerevoli anonimi
occupanti di quella
camera.
Forse farei meglio…
No, la prego.
Si sieda.
E mi scusi.
Io… non mi aspettavo…
Charles posò la sua
roba sul cassettone e
andò a prender posto su
una sedia in legno
accanto al tavolo,
dalla parte opposta a
quella in cui stava
lei.
Come avrebbe potuto
Sarah aspettarsi,
nonostante la sua
lettera, ciò che egli
stesso aveva così
drasticamente escluso?
Cercò qualche pretesto.
Ha comunicato il suo
indirizzo a Mistress
Tranter? Lei scosse il
capo.
Pausa.
Charles fissava il
tappeto.
Soltanto a me? La
vide chinare nuovamente
la testa.
Annuì gravemente come
se l’avesse sempre
saputo.
Ci fu un’altra pausa.
Alle spalle di lei,
una rabbiosa raffica di
pioggia andò a
schizzare sui vetri
della finestra.
Charles disse: Sono
venuto a parlarle di
questo.
Ma non aggiunse
altro.
I suoi occhi erano di
nuovo fissi su di lei.
La camicia da notte
era abbottonata sino al
collo e ai polsi.
Il bianco, nella luce
del fuoco, aveva
riflessi rosa, anche
perché la lampada sul
tavolino non era stata
accesa al massimo.
E i capelli, già
valorizzati dallo
scialle verde,
acquistavano una
vivezza meravigliosa
ogni volta che la luce
del fuoco li
accarezzava: sembrava
che tutta la sua
misteriosa, la sua
intima personalità
fosse ora scoperta
davanti a lui: fiera e
sottomessa, libera e
legata, sua schiava e
sua pari.
Adesso sapeva perché
era venuto: per
rivederla.
Il bisogno di
rivederla era stato
come una sete
intollerabile che
esigeva di essere
placata.
Si sforzò di guardare
altrove.
Ma i suoi occhi si
posarono sulle due
ninfe di marmo della
mensola, anch’esse
colorate di rosa dalla
calda luce riflessa
dalla coperta rossa.
Non gli diedero molto
aiuto.
Intanto Sarah aveva
fatto un piccolo
movimento ed egli di
nuovo dovette volgere
gli occhi verso di lei.
Improvvisamente si
era portata una mano al
viso.
Le dita allontanarono
qualcosa da una guancia
e andarono poi a
posarsi sulla gola.
Cara Miss Woodruff,
non pianga, la prego…
Non avrei dovuto
venire…
Non volevo…
Essa scosse il capo
con improvvisa
veemenza.
Charles le lasciò il
tempo per riaversi.
E quando la vide
asciugarsi le lacrime
con il fazzoletto,
venne assalito da un
violento desiderio
sessuale; una voglia
mille volte superiore a
quella che aveva
provato nella camera
della prostituta.
Quel pianto senza
difesa fu forse la
breccia attraverso la
quale irruppe la
conoscenza.
Comprese
improvvisamente perché
il viso di lei
l’ossessionava, perché
aveva sentito un
terribile bisogno di
rivederla: per
possederla, per
dissolversi in lei, per
bruciare e bruciare e
bruciare sino a ridursi
in cenere su quel corpo
e in quegli occhi.
Si può far attendere
un simile desiderio una
settimana, un mese, un
anno, anche parecchi
anni; ma alla lunga non
si può resistere.
Le successive parole
di Sarah, per spiegare
le proprie lacrime,
furono appena
intelligibili.
Credevo di non
vederla mai più.
Non poteva dirle
quanto si fosse
avvicinata alla verità.
Lei alzò gli occhi e
quasi
contemporaneamente
Charles abbassò il
capo.
Sentiva violentissimi
quegli stessi
misteriosi sintomi di
sincope che aveva già
avuto nel granaio.
Il cuore batteva più
forte e gli tremavano
le mani.
Sapeva che se avesse
guardato quelle pupille
sarebbe stato perduto.
E, come per
cancellarle, chiuse gli
occhi.
Allora il silenzio
divenne terribile, teso
come un ponte che sta
per rompersi o una
torre che sta per
cadere; intollerabile
nel suo pathos: una
verità che chiedeva a
gran voce di
esprimersi.
Poi all’improvviso ci
fu dalla grata una
piccola cascata di
tizzoni.
Caddero quasi tutti
nella cassetta della
brace, ma uno o due
schizzarono fuori
finendo sull’orlo della
coperta distesa sulle
gambe di Sarah.
Mentre lei
s’affrettava a
liberarsene, Charles
s’inginocchiò a
prendere la paletta dal
secchio d’ottone.
I tizzoni caduti sul
pavimento furono subito
ributtati al loro
posto, ma la coperta
bruciava ancora.
Charles l’agguantò e
la gettò sul pavimento
calpestando poi le
scintille.
L’intera stanza era
invasa da un odore di
lana bruciata, Sarah
teneva ancora una gamba
distesa sullo sgabello,
ma aveva posato a terra
l’altra.
I piedi erano nudi.
Egli guardò la
coperta, s’accertò con
un paio di manate che
non bruciasse più e si
voltò per
sistemargliela
nuovamente addosso.
Si era chinato e le
stava vicinissimo,
concentrandosi
totalmente in questa
incombenza.
Allora, con gesto
istintivo che tuttavia
aveva anche avuto il
coraggio di calcolare,
Sarah allungò
timidamente una mano e
la posò sulla sua.
Egli sapeva che lei
lo stava guardando.
Non poteva
allontanare la mano e
improvvisamente non
poté neanche
distogliere gli occhi
da quelli di lei.
Ci vide gratitudine e
tutta la solita
tristezza e in più una
strana preoccupazione
come se si rendessero
conto d’infliggergli
sofferenza.
Ma soprattutto Sarah
stava aspettando.
Con infinita
timidezza, ma
aspettava.
Se avesse scorto
sulle sue labbra il più
lieve dei sorrisi, gli
sarebbe forse tornata
alla mente la teoria
del dottor Grogan, ma
quel viso sembrava
quasi sorpreso,
smarrito quanto lui.
Per quanto tempo
fossero rimasti a
guardarsi negli occhi
egli non lo seppe
mai.Sembrava
un’eternità, ma di
fatto non furono più di
tre o quattro secondi.
Per prime entrarono
in azione le mani.
Le dita
s’intrecciarono in una
comunione misteriosa.
Charles si lasciò
cadere su un ginocchio
e la strinse a sé con
passione.
Le loro bocche
s’incontrarono con una
violenza selvaggia che
li turbò e indusse
Sarah a distogliere le
labbra.
Charles le coprì di
baci le guance e gli
occhi.
E la sua mano toccò
finalmente quei
capelli, li accarezzò,
sentì la piccola testa
attraverso la loro
morbidezza, nello
stesso modo in cui
sentiva le braccia e il
petto di quel corpo
leggermente vestito.
Poi all’improvviso
seppellì il volto nel
suo collo.
Non dobbiamo… non
dobbiamo… è una pazzia.
Ma le braccia di lei
gli cinsero la testa
stringendola a sé.
Charles non si mosse.
Si sentiva
trasportato su ali di
fuoco, precipitava ma
in un’atmosfera
estremamente tenera;
era come un bimbo
finalmente libero dalla
scuola, un prigioniero
in un campo verde, un
falco che si leva in
volo.
Alzò il capo e la
guardò: un ardore quasi
selvaggio.
Si baciarono di
nuovo.
Ora la stringeva con
tanta forza che la
sedia scivolò un po’
indietro.
La sentì trasalire
per il dolore quando il
piede bendato cadde
dallo sgabello.
Guardò il piede, poi
il suo viso, i suoi
occhi chiusi.
Aveva voltato la
testa e la teneva
appoggiata allo
schienale della sedia
come se provasse
ripugnanza, ma il suo
seno si arcuava quasi
impercettibilmente
verso di lui e le mani
tenevano strette le sue
in modo quasi convulso.
Charles gettò
un’occhiata verso la
porta alle spalle di
Sarah, si alzò e la
raggiunse in due lunghi
passi.
L’altra camera era
illuminata soltanto
dalla luce del
crepuscolo e dai fiochi
lampioni della strada
di fronte.
Egli vide il letto
grigio, il lavabo.
Sarah si alzò
goffamente dalla sedia,
sorreggendosi sullo
schienale e tenendo
sollevato il piede
ferito.
Un capo dello scialle
era caduto dalle sue
spalle.
Ognuno vedeva
riflessa la propria
intensità negli occhi
dell’altro, e con essa
questa piena, questa
forza che li
trascinava.
Sarah avanzò
barcollando verso di
lui.
Egli balzò in avanti
e la prese tra le
braccia.
Lo scialle cadde.
Ora la sua nudità era
coperta soltanto da uno
strato di flanella.
Strinse a sé quel
corpo, premette la
bocca sulla sua, con
tutta la fame di una
lunga frustrazione non
soltanto sessuale,
perché nelle sue vene
scorreva ora sfrenato
un torrente
incontrollabile di cose
proibite, passione
romantica, avventura,
peccato, follia,
animalità.
Quando egli staccò
finalmente le labbra
dalla bocca di lei,
Sarah teneva la testa
rovesciata indietro
sulle sue braccia, come
se fosse svenuta.
Charles la prese e la
portò nell’altra
camera.
Rimase dove lui
l’aveva buttata,
semisvenuta, con un
braccio gettato
indietro.
Le afferrò l’altra
mano e la baciò
febbrilmente mentre
essa gli accarezzava il
viso.
Poi si precipitò nel
salottino.
Cominciò a spogliarsi
freneticamente,
strappandosi gli
indumenti come se
qualcuno stesse
annegando e lui lo
vedesse dalla riva.
Un bottone della
redingote schizzò via e
andò a rotolare in un
angolo, ma egli non se
ne preoccupò.
Si strappò di dosso
il panciotto, le
scarpe, i calzini, i
pantaloni, le mutande…
la spilla con la perla,
la cravatta.
Posò lo sguardo sulla
porta esterna e andò a
girar la chiave nella
serratura.
Poi, indossando
soltanto la camicia,
entrò a gambe nude
nella camera da letto.
Sarah si era un po’
spostata: giaceva
ancora sulla parte più
alta del letto ma aveva
posato la testa sul
cuscino, voltando
lateralmente il viso
ora nascosto da uno
scuro ventaglio di
capelli.
Charles la guardò
dall’alto per un
attimo, con il membro
eretto che si
protendeva oltre la
camicia.
Poi posò il ginocchio
sinistro sul lettino e
le cadde addosso,
facendole piovere sulla
bocca, sugli occhi e
sulla gola baci
brucianti.
Ma quel corpo passivo
e insieme acquiescente
schiacciato sotto il
suo, quel piede nudo
che lo toccava…
impossibile aspettare
oltre.
Sollevandosi un poco,
le alzò la camicia da
notte.
Sarah aprì le gambe.
Con frenetica
brutalità, sentendosi
vicino a eiaculare,
egli trovò il punto e
spinse.
Di nuovo il corpo di
Sarah si contrasse,
come quando le era
caduto il piede dallo
sgabello.
Ma Charles domò
questa contrazione
istintiva e le braccia
di lei si strinsero al
suo corpo come se
volessero legarlo a sé
per quell’eternità che
egli non poteva più
sognare senza Sarah.
Cominciò a eiaculare
immediatamente.
Oh, carissima.
Carissima.
Angelo mio…
Sarah, Sarah…
Oh, Sarah.
Pochi istanti dopo
giaceva immobile.
Erano trascorsi
esattamente novanta
secondi da quando si
era staccato da lei per
guardare nella camera
da letto.
47.
“Averse, as Dido did
with gesture stern From
her false friend’s
approach in Hades turn,
Wave us away, and keep
thy solitude”.
Matthew Arnold, “The
Scholar-Cipsy” (1853).
“Con ripugnanza, come
si distolse Didone con
gesto severo /
All’avvicinarsi
nell’Ade del suo falso
amico, / Allontanaci
con un cenno, e
mantieni la tua
solitudine” [Nota del
Traduttore].

Silenzio.
Giacevano quasi
paralizzati da ciò che
avevano fatto.
Congelati nel
peccato, agghiacciati
dalla gioia.
Charles - nessuna
dolce tristezza
postcoitale per lui, ma
un orrore immediato e
universale - era come
una città colpita a
ciel sereno da una
bomba atomica.
Ogni cosa era stata
rasa al suolo: ogni
principio, ogni futuro,
ogni fede, ogni
intenzione onorevole.
Tuttavia egli
sopravviveva, era
padrone della cosa più
dolce della sua vita,
l’ultimo superstite,
infinitamente isolato…
e già la radioattività
del rimorso s’insinuava
tra nervi e vene.
Nelle tenebre
lontane, Ernestina lo
guardava con aria
lugubre.
Mister Freeman lo
schiaffeggiava…
Di pietra erano,
appropriatamente
implacabili, immobili
nell’attesa.
Si spostò un poco per
alleviare Sarah del suo
peso, poi si voltò
sulla schiena in modo
che lei potesse
rannicchiarglisi
contro, appoggiando la
testa alla sua spalla.
Fissava il soffitto.
Che pasticcio, che
indicibile pasticcio!
La tenne un pochino più
stretta.
Una mano di lei si
protese timida per
allacciarsi alla sua.
La pioggia era
cessata.
Sotto la finestra un
rumore di passi
pesanti, lenti,
cadenzati.
Un poliziotto, forse.
La Legge. Charles
disse: Sono peggio di
Varguennes.
La sola risposta che
ottenne fu una
pressione sulla mano,
come per smentirlo e
zittirlo.
Lui però era un uomo.
Cosa sarà di noi? Non
so pensare di là da
questo momento.
Di nuovo le cinse le
spalle e le baciò la
fronte; poi tornò a
guardare il soffitto.
Sarah era così
giovane adesso, così
sopraffatta.
Devo rompere il
fidanzamento.
Io non ti chiedo
nulla.
Non posso.
E’ mia la colpa.
Mi avevi avvertito,
mi avevi avvertito.
Sono soltanto io il
colpevole.
Lo sapevo quando sono
venuto qui…
Ma ho voluto essere
cieco.
Mi sono gettato alle
spalle tutti i miei
obblighi.
Magari sussurrò lei.
Poi lo ripeté, con
tristezza: Magari.
Charles per un po’ le
accarezzò i capelli.
Le cadevano sulle
spalle e sul viso come
un velo.
Sarah… non c’è nome
più dolce.
Lei non rispose.
Trascorse un minuto.
Le mani di Charles le
lisciavano i capelli,
come a una bambina.
Ma la sua mente era
altrove.
Come se l’avesse
intuito, Sarah spezzò
il silenzio.
Lo so che non puoi
sposarmi.
Devo.
Voglio.
Se non lo facessi,
non potrei più
guardarmi allo
specchio.
Sono stata malvagia.
Avevo previsto da
tempo un giorno come
questo.
Non sono adatta a
diventare tua moglie.
Mia carissima…
La tua posizione in
società, i tuoi amici,
il tuo… e lei.
Io so che ti ama.
Come potrei non
sapere quello che
sente? Ma io non l’amo
più.
Sarah lasciò che la
sua veemenza si
scaricasse nel
silenzio.
Lei è degna di te.
Io no.
Cominciò finalmente a
prenderla sul serio.
La costrinse a
voltare il capo e,
nella luce fioca che
veniva da fuori, si
guardarono negli occhi.
I suoi erano pieni di
un tenero orrore,
quelli di lei erano
calmi e un tantino
ironici.
Non puoi voler dire
che dovrei andarmene…
come se tra noi non
fosse avvenuto nulla.
Sarah non parlò, ma
nei suoi occhi egli
lesse le sue
intenzioni.
Si sollevò su un
gomito.
Non puoi perdonarmi
tanto.
O chiedermi così
poco.
Lei affondò la testa
sul guanciale, con gli
occhi fissi su qualche
oscuro futuro.
Perché no, se ti amo?
La strinse a sé.
Pensare a un simile
sacrificio gli riempiva
gli occhi di lacrime.
Quale ingiustizia le
avevano fatto lui e
Grogan! Era molto più
nobile di tutte e due.
Charles si sentiva
pieno di disprezzo per
il proprio sesso: per
la sua volgarità, la
sua credulità, il suo
egoismo.
Ma di questo sesso
faceva parte, e ritrovò
a questo punto un po’
della sua vecchia
tortuosa codardia.
Non era possibile che
questa fosse soltanto
la sua ultima
scappatella, l’ultima
occasione per correre
la cavallina? Ma gli
bastò pensarlo, per
sentirsi come un
assassino assolto per
un vizio formale nelle
tesi d’accusa.
Poteva essere libero
per il tribunale, ma
era eternamente
colpevole nel suo
cuore.
Mi sento
infinitamente strano ai
miei stessi occhi.
Mi sono sentita così
anch’io.
E’ perché abbiamo
peccato e non riusciamo
a credere di aver
peccato.
Parlava come se
stesse contemplando una
notte senza fine.
La sola cosa che
desidero è la tua
felicità.
Adesso che so che c’è
stato davvero un giorno
nel quale mi hai amato,
posso sopportare… posso
sopportare qualsiasi
ipotesi…
tranne quella della
tua morte.
Si sollevò di nuovo a
guardarla.
C’era ancora un lieve
sorriso nei suoi occhi,
una conoscenza
profonda, che era una
reazione spirituale o
psicologica alla
conoscenza fisica che
egli aveva di lei.
Non si era mai
sentito così vicino,
così unito a una donna.
Si chinò a baciarla,
con un amore assai più
puro di quello che
cominciava di nuovo a
manifestarci al
contatto appassionato
con quelle labbra, nei
suoi lombi.
Charles non differiva
da tanti altri
vittoriani.
Non poteva credere
che una donna dalla
sensibilità raffinata
gioisse nell’essere un
ricettacolo per la
lussuria maschile.
Aveva già abusato
intollerabilmente del
suo amore; non doveva
più accadere.
E stavolta… non
resisteva più! Si rizzò
a sedere.
Quella persona da
basso…
E il mio servo mi sta
aspettando in albergo.
Ti prego di
concedermi un giorno o
due di respiro.
In questo momento non
posso prendere nessuna
decisione.
Gli occhi di Sarah
erano chiusi.
Non sono degna di te.
La guardò un momento,
poi si alzò e andò
nell’altra stanza.
E qui si immobilizzò
come colpito da un
fulmine.
Vestendosi, aveva
abbassato gli occhi e
aveva scorto una
macchia rossa sui lembi
della camicia.
Pensò per un attimo
di essersi tagliato, ma
non aveva sentito alcun
dolore.
Si esaminò
furtivamente.
Poi s’aggrappò allo
schienale della
poltrona, guardando la
porta della camera da
letto, perché si era
bruscamente reso conto
di ciò che un amante
più esperto, o meno
febbrile, avrebbe
sospettato da un pezzo.
Aveva violentato una
vergine.
Sentì un movimento
alle sue spalle.
Con la testa che gli
girava, intronato ma
ora disperatamente
frettoloso, si rimise i
vestiti.
Ci fu un rumore
d’acqua versato in un
catino, un tintinnio di
porcellana prodotto dal
raschiare del
portasapone.
Non si era data a
Varguennes.
Aveva mentito.
Tutto il suo
comportamento a Lyme
Regis, e le ragioni che
lo avevano determinato,
si fondavano su una
bugia.
Ma a quale scopo?
Perché? Perché?
Ricatto! Per ridurlo
completamente in suo
potere! E tutti quegli
odiosi succubi della
mente maschile, la
sciocca paura di una
grande cospirazione
femminile per succhiare
virilità dalle loro
vene, per annientare il
loro idealismo, per
scioglierli in cera e
modellarli secondo
perfide fantasie…
queste e un riaffiorare
della credibilità delle
orribili prove
presentate nell’appello
La Roncière riempirono
la mente di Charles di
un orrore apocalittico.
Cessarono i rumori
sommessi
dell’abluzione.
Ci fu tutta una serie
di lievi fruscii: egli
immaginò che stesse
tornando a letto.
E, vestito, rimase a
guardare il fuoco.
Era pazza, malvagia,
lo aveva preso nella
più strana delle reti,
ma PERCHE’? Ancora un
rumore.
Si voltò e il suo
viso lasciava
trasparire sin troppo i
suoi pensieri.
Sarah stava sulla
soglia, ora vestita del
vecchio abito indaco e
con i capelli ancora
sciolti, ma con
qualcosa del suo antico
atteggiamento di sfida;
per un attimo gli tornò
alla memoria la prima
volta che l’aveva
vista, quando da quella
sporgenza sul mare
aveva alzato gli occhi
verso di lui.
Doveva essersi
accorta che lui aveva
scoperto la verità, e
ancora una volta
prevenne, castrandole,
le accuse che egli
andava mentalmente
formulando.
Ripeté le stesse
parole di prima.
Non sono degna di te.
Stavolta le credette.
Varguennes? sussurrò.
Quando arrivai a
Weymouth nella locanda
di cui ti ho parlato…
ero ancora a una certa
distanza dalla porta… e
lo vidi uscire.
Con una donna.
Un tipo di donna che
non ammetteva equivoci.
Evitava i suoi occhi
ardenti.
Mi nascosi in un
portone.
E quando furono
passati me ne andai.
Ma perché mi hai
raccontato…
Sarah s’accostò
bruscamente alla
finestra, ed egli di
nuovo rimase senza
parola.
Non zoppicava più.
Non aveva la caviglia
slogata.
Rispose alla sua
occhiata carica di una
nuova accusa e gli
volse le spalle.
E’ vero.
T’ho ingannato.
Ma non ti disturberò
più.
Ma che cosa ho…
Perché hai…
Uno sciame di
misteri.
Ora lei lo guardava.
La pioggia cadeva di
nuovo con violenza.
I suoi occhi non
battevano ciglio, era
di nuovo presente il
suo antico
atteggiamento di sfida,
ma adesso gli si
sovrapponeva qualcosa
di più dolce, una
maniera per ricordargli
che egli l’aveva appena
posseduta.
La vecchia distanza,
dunque, ma ammorbidita.
Tu mi hai dato la
consolazione di credere
che in un altro modo,
in un’altra epoca, in
un’altra vita, sarei
potuta essere tua
moglie.
Mi hai dato la forza
di continuare a vivere…
qui e ora.
C’erano tra loro
pochi metri, ma
parevano miglia.
C’è una cosa su cui
non ti ho mentito.
Io ti ho amato… credo
dalla prima volta che
t’ho visto.
Su questo punto non
ci sono mai stati
imbrogli.
Ciò che ti ha
ingannato è stata la
mia solitudine.
Un risentimento,
un’invidia, non lo so.
Non lo so.
Si voltò di nuovo
verso la finestra e
verso la pioggia.
Non chiedermi di
spiegarti quel che ho
fatto.
Non ne sono in grado.
Non è possibile.
Charles le fissava la
schiena in quel
silenzio saturo di
significati.
E come non molto
tempo prima si era
sentito trascinare
verso di lei, adesso si
sentiva trascinare
lontano: e in entrambi
i casi la colpa era
tutta di Sarah.
Non posso
accontentarmi di
questo.
Deve esserci una
spiegazione.
Ma lei scosse il
capo.
Adesso vattene, per
favore.
Pregherò per la tua
felicità.
E non ti disturberò
mai più.
Lui non si mosse.
Dopo un attimo o due
Sarah si voltò a
guardarlo e lesse
evidentemente, come
aveva già fatto una
volta, i suoi pensieri
più segreti.
Aveva un’espressione
calma, quasi
fatalistica.
Te l’avevo già detto.
Sono molto più forte
di quanto un uomo possa
immaginare.
La mia vita finirà
quando sarà la natura a
troncarla.
Charles resse al suo
sguardo per qualche
secondo, poi si volse
verso il cappello e il
bastone.
E’ la mia ricompensa.
Averti aiutata.
Aver tanto rischiato
per… e adesso so di
essere stato soltanto
lo zimbello delle tue
fantasie.
Oggi ho pensato alla
mia felicità.
Se dovessimo
incontrarci ancora,
potrei pensare soltanto
alla tua.
Lei non può essere
felice con me.
Non può sposarmi,
Mister Smithson.
Questo tono formale
improvvisamente
ristabilitosi lo colpì
profondamente.
Le gettò un’occhiata
dolorosa; ma Sarah gli
voltava la schiena come
se l’avesse previsto.
Fece un passo verso
di lei.
Come puoi parlarmi
così? Lei non disse
niente.
Ti chiedo soltanto di
farmi capire…
Se ne vada! La prego!
Si era di nuovo girata
verso di lui.
Per un attimo
sembrarono due pazzi.
Charles diede
l’impressione di voler
parlare, buttarsi
avanti, esplodere, ma
all’improvviso volse i
tacchi e lasciò la
stanza.

48.“E’ immorale per


un uomo credere in
qualcosa di più di ciò
che può accettare come
congeniale alla sua
natura mentale e
morale”.
Newman, “Eighteen
Propositions of
Liberalism” (1828)

“I hold it truth,
with him who sings To
one clear harp in
divers tones, That men
may rise on stepping-
stones Of their dead
selves to higher
things”.
Tennyson, “In
Memoriam” (1850).
“Ritenni vero, con
colui che canta / Con
varietà di tono su
risonante arpa, / Che
gli uomini salgono sui
gradini / Di ciò che
furono a più alte cose”
[Nota del Traduttore].

Scendendo verso la
hall, cercò di assumere
il suo aspetto più
formale.
Mistress Endicott
stava sulla soglia del
proprio ufficio, con la
bocca già aperta per
parlare.
Ma Charles, con uno
sbrigativo e cortese
“Grazie signora”, le
passò oltre e si tuffò
nella notte prima che
lei potesse completare
la sua domanda o
accorgersi che mancava
un bottone alla
redingote.
Si allontanò alla
cieca sotto un nuovo
acquazzone.
Ma non lo notò, come
non notò dove stava
andando.
Il suo massimo
desiderio era il buio,
l’invisibilità, un
oblio in cui ritrovare
la calma.
Ma, senza rendersene
conto, s’immerse in
quel quartiere
moralmente buio di
Exeter che già ho
descritto.
Come quasi tutti i
luoghi moralmente bui,
era pieno di luce e di
vita, di botteghe e
taverne, di gente che
si riparava dalla
pioggia nei portoni.
Infilò una ripida
strada in discesa verso
il fiume Exe.
File di gradini
imbrattati di sterco
costeggiavano su
entrambi i lati un
rigagnolo ostruito.
Ma tutto era
tranquillo.
In fondo, si vedeva
in un angolo una
chiesetta di pietra
rossa, e Charles senti
improvviso il bisogno
di un rifugio.
Spinse la porticina,
talmente bassa che
dovette piegarsi per
entrare.
Una scalinata portava
al pavimento della
chiesa, e sulla cima di
questa scalinata un
giovane curato, che
stava spegnendo
l’ultima lampada, si
mostrò sorpreso di
questa tardiva visita.
Stavo chiudendo,
signore.
Posso entrare a
pregare per qualche
minuto? Il curato
sospese l’operazione di
spegnimento ed esaminò
a lungo questo cliente
ritardatario.
Un gentiluomo.
La mia casa è proprio
qui di fronte.
E sono aspettato.
Se vuol essere così
gentile da chiudere per
conto mio e portarmi la
chiave.
Charles s’inchinò e
il curato gli venne
vicino.
E’ colpa del vescovo.
A mio parere, la casa
di Dio dovrebbe sempre
stare aperta.
Ma il piattino
dell’elemosina è così
prezioso.
Che tempi.
Charles si trovò solo
nella chiesa.
Udì i passi del
curato attraversare la
strada, poi chiuse la
vecchia porta
dall’interno e salì la
scalinata.
C’era un odore di
vernice fresca.
Un’unica lampada a
gas illuminava
vagamente una recente
doratura; ma i massicci
archi gotici rosso
scuri dimostravano che
la chiesa era molto
antica.
Charles si sedette a
metà della navata
principale e,
attraverso la
transenna, contemplò il
crocifisso sull’altare.
Poi si inginocchiò e
sussurrò il Padre
Nostro, con le mani
irrigidite e strette
sul leggio del banco.
Una volta pronunciate
le parole rituali,
tornarono a regnare il
buio silenzio e il
vuoto.
Cominciò allora a
comporre una preghiera
speciale per
l’occasione.
“Perdonami, o Signore,
per il mio egoismo.
Perdonami per aver
infranto le Tue leggi.
Perdona il mio
disonore, perdona la
mia lussuria.
Perdona la mia
insoddisfazione di me
stesso, perdona la mia
mancanza di fede nella
Tua saggezza e carità.
Perdonami e
consigliami, o Signore,
nel mio travaglio… ma
in quel momento, grazie
a uno di quegli scherzi
sciagurati che gioca un
subcosciente distratto,
comparve davanti a lui
il viso di Sarah,
rigato di lacrime,
straziato, con tutti i
lineamenti di una
“Mater Dolorosa” di
Grnewald che aveva
visto a Colmar,
Coblenza, Colonia… non
ricordava dove.
Per alcuni assurdi
secondi la sua mente
corse alla ricerca di
quella città
dimenticata che
cominciava per C…
Si alzò e tornò a
sedersi sul banco.
Com’era vuota la
chiesa, com’era
silenziosa.
Guardò il crocifisso,
ma anziché la faccia di
Cristo vedeva soltanto
quella di Sarah.
Cercò di pregare
ancora.
Ma era inutile.
Sapeva di non essere
ascoltato.
E improvvisamente si
mise a piangere.
In tutti gli atei
(una combattiva élite
guidata da Bradlaugh) e
gli agnostici
vittoriani, tranne
poche eccezioni, era
vivissimo il senso
dell’esclusione, del
dono perduto.
Tra amici di
convinzioni analoghe
potevano farsi beffe
delle follie della
chiesa, dei suoi
battibecchi settari,
dei suoi vescovi
fastosi e dei suoi
canonici intriganti,
dei suoi rettori
assenti (1) e dei suoi
curati malpagati, della
sua antiquata teologia
e di tutto il resto; ma
Cristo rimaneva, una
terribile anomalia per
la ragione.
Egli non poteva
essere per loro ciò che
è oggi per molti di
noi, un personaggio
totalmente laicizzato,
un uomo di nome Gesù di
Nazareth con doni
brillanti per le
metafore, per la
creazione di una
mitologia personale,
per agire secondo le
proprie convinzioni.
Tutti gli altri
credevano nella sua
divinità, e quindi
ancor più forte era il
rimpianto
dell’incredulo.
Tra le crudeltà della
nostra epoca e i nostri
rimorsi noi abbiamo
eretto un enorme
edificio di soccorso e
assistenza amministrato
dal governo; la carità
è totalmente
organizzata.
Ma i vittoriani
vivevano assai più
vicini a questa
crudeltà; gli
intelligenti e i
sensibili si sentivano
personalmente molto più
responsabili; e quindi
in quei tempi difficili
era molto più difficile
rifiutare il simbolo
universale della
compassione.
Nel profondo del suo
cuore, Charles non
voleva essere un
agnostico.
Non avendo mai avuto
bisogno della fede
aveva imparato
abbastanza allegramente
a farne a meno, e la
ragione, nonché la
conoscenza di Darwin e
di Lyell, lo
autorizzavano a fare a
meno dei dogmi.
Tuttavia ora non
stava piangendo per
Sarah, ma per la
propria incapacità di
parlare a Dio.
Sapeva, in quella
buia chiesa, che i fili
erano stati tagliati.
Non era possibile
nessuna comunicazione.
Il silenzio venne
spezzato da un rumore
improvviso.
Egli si voltò
affrettandosi ad
asciugarsi gli occhi
con la manica.
Ma colui che aveva
tentato di entrare si
era evidentemente
rassegnato al fatto che
la chiesa era ormai
chiusa; era come se si
fosse allontanata una
parte rifiutata dello
stesso Charles.
Si alzò e cominciò a
camminare avanti e
indietro per la navata
centrale, con le mani
dietro la schiena.
Nomi e date consunti,
ultimi residui fossili
di altre vite, lo
guardavano illeggibili
dalle lapidi funerarie
incastrate nel
pavimento.
Forse il camminare
avanti e indietro su
queste pietre, la vaga
sensazione che farlo
fosse una bestemmia,
forse i suoi precedenti
momenti di
disperazione, qualcosa
certo finì per
restituirgli la calma e
una sorta di
lucidità.Cominciò a
intrecciarsi un dialogo
tra il suo io migliore
e quello peggiore, o
forse tra lui e quella
figura a braccia
distese che
s’intravedeva in fondo
alla chiesa

Da dove comincio?
Comincia da quello che
hai fatto, amico.
E smettila di
desiderare di non
averlo fatto.
Non l’ho fatto io.
Mi hanno indotto a
farlo.
Che cosa ti ci ha
indotto? Sono stato
ingannato.
Qual era lo scopo di
questo inganno? Non lo
so.
Ma devi pur
giudicare.
Se mi avesse amato
veramente, non avrebbe
potuto lasciarmi andar
via.
Se ti avesse amato
veramente, avrebbe
potuto continuare a
ingannarti? Non mi ha
dato scelta.
Ha detto lei stessa
che un nostro
matrimonio era
impossibile.
Quali ragioni ha
fornito? La differenza
di posizione sociale.
Una nobile ragione.
E poi c’è Ernestina.
Le ho fatto una
promessa solenne.
L’hai già infranta.
La ricostruirò.
Con l’amore? O con il
rimorso? Questo non ha
importanza.
Una promessa è sacra.
Se questo non ha
importanza, una
promessa non può essere
sacra.
Il mio dovere è
chiaro.
Charles, Charles, ho
letto questo pensiero
negli occhi più
crudeli.
Il dovere è soltanto
un vaso.
Contiene quello che
ci si mette, dal
massimo bene al massimo
male.
Voleva che me ne
andassi.
L’ho letto nei suoi
occhi… il suo
disprezzo.
Vuoi sapere cosa sta
facendo in questo
momento colei che ti
disprezza? Sta
piangendo fino a
spezzarsi il cuore.
Non posso tornare da
lei.
Pensi forse che
l’acqua possa lavare
quel sangue dai tuoi
lombi? Non posso
tornare indietro.
Dovevi proprio
rivederla
sull’Undercliff? Dovevi
proprio passare questa
notte a Exeter? Dovevi
proprio andare in
camera sua? E lasciare
che le sue mani si
posassero sulle tue?
Dovevi proprio…
Ma queste cose le
ammetto! Ho peccato.
Ma ero caduto nella
sua trappola.
Come mai allora te ne
sei liberato?

Charles non diede


risposta.
Tornò a sedersi sul
banco.
Serrò le dita con
fredda violenza, quasi
volesse rompersi le
nocche, tenendo gli
occhi fissi
nell’oscurità.
Ma l’altra voce non
lo lasciava in pace.
Amico mio, c’è forse
una cosa che lei ama
più di te.
E quello che tu non
capisci è che il fatto
di amarti non basta a
farle sacrificare la
cosa che ama di più.
Ti dirò perché
piange: perché non hai
il coraggio di
contraccambiare il suo
dono.
Che diritto aveva di
mettermi alla tortura?
Che diritto avevi di
nascere? Di respirare?
Di essere ricco? Non
faccio che dare a
Cesare…
O a Mister Freeman?
E’ un’accusa
spregevole.
E a me? E’ questo il
tuo tributo? Questi
chiodi che conficchi
nei miei palmi? Con
tutto il rispetto…
anche Ernestina ha dei
palmi.
Allora prendiamone
uno e leggiamolo.
Io non ci vedo
felicità.
Lei sa di non essere
veramente amata.
E sarà ingannata.
Non una volta sola,
ma in continuazione, in
ogni giorno del
matrimonio.
Charles posò le
braccia sul leggio che
aveva davanti e vi
seppellì la propria
testa.
Si sentiva
prigioniero di un
dilemma che era anche
un flusso d’indecisione
quasi palpabile,
attiva, non passiva,
che lo spingeva verso
un avvenire che essa, e
non lui, avrebbe
scelto.
Sonda il tuo cuore,
mio povero Charles.
Quando sei arrivato
in questa città tu
pensavi - vero? - di
dimostrare a te stesso
che non eri ancora
prigioniero del tuo
futuro.
Ma la fuga non è un
atto, amico.
Raggiungere il tuo
obiettivo con questo
mezzo non è più facile
che arrivare da qui a
Gerusalemme con un
passo.
Ogni giorno, Charles,
ogni ora deve essere
riaffrontata.
In ogni minuto il
chiodo attende di
essere conficcato.
Conosci i termini
della tua scelta.
O resti in prigione,
in quello che la tua
epoca chiama dovere,
onore, rispetto per se
stessi, e sarai comodo
e al sicuro.
Oppure sarai libero e
crocifisso.
Avrai come soli
compagni le pietre, le
spine, le schiene di
coloro che si voltano
da un’altra parte; il
silenzio delle città e
il loro odio.
Sono debole.
Ma ti vergogni della
tua debolezza.
Quale bene porterebbe
al mondo la mia forza?
Non giunse alcuna
risposta.
Ma qualcosa indusse
Charles ad alzarsi dal
banco e ad accostarsi
alla transenna.
Attraverso una delle
sue finestrelle di
legno, guardò la croce
sopra l’altare; poi,
dopo una breve
esitazione, superò la
porta centrale e gli
scranni del coro e
arrivò ai piedi dei
gradini che portavano
all’altare stesso.
Qui la luce arrivava
molto fioca.
Riuscì appena a
distinguere i
lineamenti del Cristo,
e tuttavia si sentì
invadere da una
misteriosa empatia.
Si vide penzolare lì…
senza, naturalmente, la
nobiltà e
l’universalità di Gesù,
ma crocifisso.
Non però sulla croce,
su qualcos’altro.
A volte aveva pensato
a Sarah in una maniera
tale da suggerire che
egli si vedesse
crocifisso su di LEI;
ma non era questa
bestemmia, sul piano
religioso come su
quello della realtà,
che si presentava ora
alla sua mente.
Sembrava piuttosto
che lei fosse qui
accanto a lui, come per
aspettare la cerimonia
nuziale, ma con un
altro scopo.
Per un attimo non
riuscì a coglierlo, ma
bruscamente lo
riconobbe.
Per scrocifiggere! In
un lampo improvviso,
Charles vide il vero
fine del cristianesimo:
non celebrare questa
barbara immagine, non
tenerla sugli altari
perché da questo si
poteva ricavare un
utile profitto - la
redenzione dei peccati
- ma creare un mondo
nel quale il condannato
potesse essere deposto
dalla croce e il suo
viso non mostrasse il
rictus dell’agonia ma
la pace sorridente di
una vittoria
conquistata da, e in,
uomini e donne viventi.
Gli sembrava di
vedere nella propria
epoca, con la sua vita
tumultuosa, le sue
ferree certezze e le
sue rigide convenzioni,
la sua emozione
repressa e il suo
umorismo faceto, la sua
cauta scienza e la sua
incauta religione, la
sua politica corrotta e
le sue caste
immutabili, il grande
nemico segreto delle
sue aspirazioni più
profonde.
Era stato questo a
ingannarlo, questa cosa
del tutto priva d’amore
e di libertà… e anche
di pensiero, di
intenzioni, di malizia,
perché l’inganno era
parte integrante della
sua natura; perché non
era umana ma macchina.
Questo il circolo
vizioso che lo aveva
ossessionato; questo il
fallimento, la
debolezza, il cancro,
il difetto essenziale
che aveva fatto di lui
ciò che era: più
un’indecisione che una
realtà, più un sogno
che un uomo, più un
silenzio che una
parola, più un osso che
una azione.
Un fossile.
Pur essendo ancora
vivo, era divenuto in
pratica un morto.
Come se fosse
arrivato sull’orlo di
un precipizio senza
fondo.
E c’era anche
un’altra cosa: una
strana sensazione che
aveva provato da quando
era entrato in quella
chiesa - ma non era un
fatto eccezionale,
bensì un presentimento
che accompagnava ogni
suo ingresso in una
chiesa deserta - quella
di non essere solo.
Dietro di lui stava
una folta congregazione
di fedeli.
Si voltò a guardare
verso la navata.
Silenzio, banchi
vuoti.
E Charles pensò: se
fossero davvero morti,
se non esistesse
un’altra vita, cosa mi
importerebbe di ciò che
pensano di me? Non
saprebbero; non
potrebbero giudicarmi.
Poi fece il grande
balzo: NON SANNO, NON
POSSONO GIUDICARMI.
In questo momento,
ossessionato e
profondamente ferito,
stava vomitando la
propria epoca.
Che si esprime con
molta chiarezza per
bocca di Tennyson nella
cinquantesima lirica di
“In Memoriam”.
Ascoltatela:

“Do we indeed desire


the dead Should still
be near us at our side?
Is there no baseness we
would hide? No inner
vileness that we dread?

Shall he for whose


applause I strove, I
had such reverence for
his blame, See with
clear eye some hidden
shame And I be lessen’d
in his love?

I wrong the grave


with fears untrue:
Shall love be blamed
for want of faith?
There must be wisdom
with great Death; The
dead shall look me
thro’ and thro’.
Be near us when we
climb or fall: Ye
watch, like God, the
rolling hours With
larger other eyes than
ours, To make allowance
for us all”. (2)

“Con la Morte augusta


deve esserci scienza; i
morti mi vedranno da
parte a parte”.
L’intera persona di
Charles si ribellava a
queste due oscene
affermazioni; a questo
macabro desiderio di
entrare rinculando nel
futuro, con gli occhi
fissi sui propri padri
morti anziché sui
propri figli non ancora
nati.
Come l’aver creduto
sinora nella presenza
spettrale del passato
lo avesse condannato,
senza che lui se ne
forse mai reso conto, a
vivere nella tomba.
Questo può sembrare
un balzo nell’ateismo,
ma non lo era: non
rimpiccioliva Cristo
agli occhi di Charles.
Ma gli restituiva
vita; lo staccava dalla
croce, se non
completamente, almeno
in parte.
Charles tornò
lentamente nella
navata, volgendo le
spalle a quella
mediocre scultura in
legno.
Ma non a Gesù.
Ricominciò a
passeggiare avanti e
indietro, gli occhi
fissi sulle lastre del
pavimento.
Ciò che ora vedeva
era come la fuggevole
immagine di un altro
mondo: una nuova
realtà, una nuova
causalità, una nuova
creazione.
Una cascata di
visioni concrete - o se
preferite, un altro
capitolo della sua
ipotetica autobiografia
- riversata sulla sua
mente.
Ricorderete forse che
in un momento
altrettanto ambizioso
Mistress Poulteney era
discesa, in tre battiti
dell’orologio di marmo
e similoro del suo
salotto, dalla salvezza
eterna a Lady Cotton.
E vi nasconderei la
verità, se non
rivelassi che in quel
momento egli pensò a
suo zio.
Charles non gettava
su Sir Robert la colpa
di un matrimonio
infranto e di una
parentela indegna della
sua famiglia; ma lo
avrebbe fatto lui
stesso.
Un’altra scena si
presentò spontanea alla
sua mente: l’incontro
tra Lady Bella e Sarah.
Miracoloso a dirsi,
egli vedeva chi ne
sarebbe uscito con
maggiore dignità;
Ernestina infatti
avrebbe combattuto in
tali circostanze con le
armi di Lady Bella,
mentre Sarah… quegli
occhi, come avrebbero
saputo inghiottire
sgarbi e insulti!
Assorbirli nel
silenzio! Ridursi a
semplici bruscoli di
fuliggine in un cielo
azzurro! E vestire
Sarah! Portarla a
Parigi, a Firenze, a
Roma! Non è
evidentemente il
momento per fare un
paragone con San Paolo
sulla via di Damasco.
Ma Charles si fermò -
purtroppo mentre
volgeva di nuovo la
schiena all’altare - e
c’era sul suo viso una
sorta di splendore.
Poteva derivare
semplicemente dalla
lampada a gas accanto
alla scalinata; egli
non aveva saputo
esporre le ragioni più
nobili ma astratte che
erano passate,
enormemente attraenti,
per la sua mente.
Ma spero mi crederete
se dico che Sarah al
suo braccio agli Uffizi
rappresentava, sia pure
banalmente la pura
essenza di una libertà
crudele ma necessaria
(se vogliamo
sopravvivere; sì,
ancora oggi).
Si voltò e tornò al
suo banco, dove fece
qualcosa di molto
irrazionale,
inginocchiandosi a
pregare, sia pure per
pochi secondi.
Poi arrivò in fondo
alla navata, tirò il
filo della lampada a
gas sino a ridurre la
luce a un pallido fuoco
fatuo e lasciò la
chiesa.

NOTE.
Nota 1.
Ma chi può fargliene
una colpa, se i loro
superiori davano un
così cattivo esempio?
Il curato aveva
fuggevolmente alluso al
“vescovo”, e questo
particolare vescovo, il
famoso dottor
Phillpotts di Exeter
(che aveva allora
giurisdizione anche su
tutto il Devon e la
Cornovaglia) è un
esempio calzante.
Egli trascorse gli
ultimi dieci anni della
sua vita in “una
confortevole dimora” di
Torquay e si dice che
in questo periodo non
avesse messo piede
neanche una volta nella
sua cattedrale.
Fu un superbo
principe della chiesa
anglicana, reazionario
pugnace sino al
midollo: e morì
novantadue anni dopo
quello in cui si svolse
questa storia.
Nota 2. “Desideriamo
davvero che i morti /
Stiano sempre vicini al
nostro fianco? / Non
v’è nessuna bassezza
che vorremmo
nascondere? / Nessuna
interna viltà che noi
temiamo? // Vedrà colui
per il cui plauso mi
sforzai, / Del cui
biasimo ebbi tanto
timore / Vedrà con
limpido occhio qualche
nascosta vergogna / E
nell’amor suo sarò
diminuito? // Io fo
torto alla tomba con
fallaci timori: / Sarà
l’amor mio biasimato
per mancanza di fede? /
Con la Morte augusta
deve esserci scienza; /
I morti mi vedranno da
parte a parte // Voi ci
state vicini mentre
saliamo o scendiamo: /
Voi come Dio mirate le
volgenti ore / Con
occhi più larghi,
diversi dai nostri, /
Per essere indulgenti
verso noi tutti”. [Nota
del Traduttore].

49.
“I keep but a man and
a maid, ever ready to
slander and steal…”
Tennyson, “Maud”
(1855).
“Ho soltanto un servo
e una cameriera, sempre
pronti a calunniare e a
rubare…” [Nota del
Traduttore].

Charles trovò la casa


del curato e suonò il
campanello.
Venne ad aprirgli una
cameriera, ma alle sue
spalle gironzolava nel
vestibolo il giovane
basettone in persona.
La cameriera si
ritirò e il suo padrone
si fece avanti a
prendere la vecchia e
pesante chiave.
Grazie, signore.
Io celebro la Santa
Comunione ogni mattina
alle otto.
Si fermerà molto a
Exeter? Ahimè no.
Sono qui “en
passage”.
Avevo sperato di
rivederla.
Posso esserle ancora
d’aiuto? E quel povero
giovane indicò con un
gesto una porta oltre
la quale c’era con ogni
probabilità il suo
studio.
Charles aveva già
notato una certa
ostentazione
nell’arredamento della
chiesa, e sapeva che
questo era un invito
alla confessione.
Non occorrevano
poteri magici per
vedere oltre la parete
e scorgervi un
inginocchiatoio con una
discreta statua della
Vergine; era infatti
uno di quei giovani,
nati troppo tardi per
aderire alle posizioni
scismatiche del
movimento di Oxford,
che ora si
trastullavano con
impertinenza ma senza
rischi - poiché il
dottor Phillpotts era
High Church - con
rituali e pianete, una
forma diffusissima di
dandysmo ecclesiastico.
Charles lo guardò per
un attimo e acquistò
nuova fiducia nella sua
nuova visione: non
poteva essere più
sciocca di questa.
Perciò s’inchinò, si
rifiutò e proseguì per
la sua strada.
Era ormai immunizzato
dalla religione
ufficiale per tutto il
resto della vita.
La sua strada… voi
forse crederete che lo
riportasse direttamente
all’Endicott’s Family
Hotel.
Un uomo moderno, con
ogni probabilità, ci
sarebbe tornato subito.
Ma il solito
maledetto senso del
dovere e della
correttezza si ergeva
sul cammino di Charles
come le mura di un
forte.
Il suo primo compito
era di sbarazzarsi
degli obblighi passati;
soltanto allora si
sarebbe potuto
presentare offrendo la
propria mano.
Incominciava a capire
l’inganno di Sarah.
Lei sapeva che egli
l’amava e sapeva anche
che non aveva saputo
vedere l’autentica
profondità di questo
sentimento.
Il resoconto mendace
del tradimento di
Varguennes e gli altri
trucchi erano stati
meri stratagemmi per
aprirgli gli occhi;
poi, da quando lo aveva
condotto alla
consapevolezza, non
aveva fatto che mettere
alla prova la sua nuova
visione.
E lui era miseramente
fallito; al che Sarah
era di nuovo ricorsa
agli stessi stratagemmi
per dimostrarsi
indegna.
Da quale nobiltà
doveva essere scaturito
un simile sacrificio!
Se soltanto egli si
fosse fatto avanti per
riprenderla tra le
braccia e per dirle che
ormai era
irrefutabilmente sua! E
se soltanto - avrebbe
potuto aggiungere ma
non lo fece - non ci
fosse stata nei
vittoriani quella
dicotomia fatale (forse
il risultato più atroce
della loro mania della
categorizzazione) che
li portava a ritenere
“l’anima” più reale del
corpo, molto più reale,
il solo vero io; anzi
praticamente non
collegata al corpo, ma
fluttuante nell’aria
sopra la bestia; e
tuttavia, per qualche
difetto inspiegabile
nella natura delle
cose, trascinata con
riluttanza sulla scia
dei movimenti della
bestia, come un bianco
pallone frenato da un
bimbo cattivo e
disobbediente.
Questo - il fatto che
ogni vittoriano avesse
due facce - è
l’attrezzo che dobbiamo
portarci appresso
durante i nostri viaggi
nell’Ottocento.
E’ una schizofrenia
che si manifesta con
particolare chiarezza
nei poeti che ho così
spesso citato,
Tennyson, Clough,
Arnold e Hardy; e in
modo appena meno
evidente negli
straordinari
cambiamenti di linea
politica da destra a
sinistra e di nuovo a
destra di uomini come
il giovane Mill e
Gladstone; nelle
onnipresenti nevrosi e
nelle malattie
psicosomatiche di
intellettuali per il
resto così diversi come
Charles Kingsley e
Darwin;
nell’esecrazione con la
quale furono accolti
agli inizi i
preraffaelliti che
cercavano - o davano
l’impressione di
cercare - di mantenere
il medesimo
atteggiamento di fronte
all’arte e alla vita;
nell’interminabile tiro
alla fune tra Libertà e
Freno, tra Eccesso e
Moderazione, tra
Correttezza e
Convinzione, tra la
polemica dell’uomo di
principi per
l’Istruzione universale
e il suo terrore del
suffragio universale;
trasparente anche nella
mania di tagliare e
correggere, al punto
che se vogliamo
conoscere il vero Mill
o il vero Hardy,
possiamo imparare molto
di più dalle
cancellature e dalle
alterazioni delle loro
autobiografie che dalle
versioni pubblicate…
o anche dalla
corrispondenza sfuggita
in qualche modo alle
fiamme, dai diari
privati, dai piccoli
detriti dell’operazione
di mascheramento.
Mai una
documentazione era
stata così
completamente
ingarbugliata, mai una
maschera era riuscita a
passare così
brillantemente come
verità agli occhi di
posteri creduloni; ed è
per questo, credo, che
la miglior guida
dell’epoca è molto
probabilmente “Il
dottor Jekyll e Mister
Hyde”.
Dietro una tardiva
impalcatura di romanzo
gotico, si nasconde
infatti una verità
molto profonda e
rivelatrice.
Ogni vittoriano
dunque aveva due facce,
e almeno in questo
Charles non faceva
eccezione.
Già, risalendo Fore
Street e avviandosi
verso lo Ship, stava
provando il discorso
che il suo pallone
bianco avrebbe
pronunciato quando il
bambino cattivo avrebbe
rivisto Sarah: le
argomentazioni
appassionate ma
rispettabili che
l’avrebbero ridotta a
una lacrimosa
gratitudine e alla
confessione di non
poter vivere senza di
lui.
Vedeva tutto questo
con tanta vivezza che
provò la tentazione di
metterlo per iscritto.
Ma ecco qui la
realtà, sotto l’aspetto
di Sam, ferma sulla
porta dell’antica
locanda.
E’ stata una bela
funzione, Mister
Charles? Io… mi sono
perso, Sam.
E mi sono
maledettamente bagnato.
Aggettivo, questo,
che non poteva
assolutamente
applicarsi agli occhi
del servo.
Fai il bravo e
riempimi la vasca.
Cenerò in camera.
Sì, Mister Charles.
Un quarto d’ora dopo
avreste potuto vedere
Charles, completamente
nudo e impegnato in
un’attività inusitata:
faceva il bucato.
Aveva premuto i suoi
indumenti macchiati di
sangue sul bordo
dell’enorme semicupio
che si era fatto
riempire e li stava
fregando assiduamente
con un pezzo di sapone.
Si sentiva impacciato
e se la cavò piuttosto
male.
Quando poi arrivò
Sam, col vassoio della
cena, gli indumenti
giacevano come se
fossero stati buttati
con negligenza metà nel
bagno e metà fuori.
Sam li raccolse senza
dir niente; e una volta
tanto Charles fu
contento della sua ben
nota sbadataggine in
queste cose.
Consumata la cena.
Charles aprì il suo
“nécessaire” per
scrivere.
“Mia carissima, una
metà di me è
indicibilmente felice
nel rivolgersi a te in
questi termini, mentre
l’altra si chiede come
può parlare così a una
creatura che ancora
capisce così poco.
In te c’è qualcosa
che sarei pronto a dire
di conoscere
profondamente, e
qualche altra cosa che
ignoro come la prima
volta che ti ho vista.
Te lo dico non per
scusarmi, ma per
spiegarti il mio
comportamento di questa
sera.
Esso non ammette
scuse, ma devo credere
che in un certo senso
posso definirmi
fortunato, in quanto
esso mi ha suggerito un
esame di coscienza che
avrei dovuto fare da
tempo.
Non scenderò nei
particolari.
Ma ho deciso, mia
dolce e misteriosa
Sarah, che ciò che ci
lega oggi ci legherà
per sempre.
Mi rendo conto
benissimo che, nella
mia attuale situazione,
non ho alcun diritto di
rivederti, e meno
ancora di pretendere di
conoscerti
completamente.
Il mio primo dovere è
dunque quello di
rompere il mio
fidanzamento.
Avevo da tempo il
presentimento che fosse
stata una follia
prendere questo
impegno; prima ancora
che tu entrassi nella
mia vita; Ti supplico,
dunque, di non sentirti
in colpa per questo.
La colpa è tutta
della mia cecità di
fronte alla mia vera
natura.
Se avessi dieci anni
di meno e non avessi
visto nella mia epoca e
nel mio mondo tante
cose che non mi
garbano, con ogni
probabilità sarei stato
felice con Miss
Freeman.
Il mio sbaglio è
stato di dimenticare
che ho trentatré anni e
non ventitré.
Partirò dunque
domattina presto per un
penosissimo viaggio a
Lyme.
Ti renderai conto che
la realizzazione del
suo obiettivo è in
questo momento il mio
pensiero dominante.
Ma, compiuto questo
dovere, penserò
soltanto a te; anzi no,
al NOSTRO futuro.
Quale strano destino
ti abbia condotta a me,
lo ignoro; ma, Dio
volendo, nulla ti
strapperà da me, a meno
che non sia tu a
desiderarlo.
E ti posso dire fin
d’ora, mio dolce
enigma, che dovrai
fornirmi prove e
argomentazioni assai
più solide di quelle
che hai addotto sinora.
Non posso credere che
lo farai.
Il tuo cuore sa che
io sono tuo e che
vorrei chiamarti mia.
Ho bisogno di
assicurarti, mia
carissima Sarah, che le
mie intenzioni sono da
oggi in poi le più
onorevoli? Ci sono
mille cose che voglio
chiederti, mille
attenzioni con cui
voglio circuirti, mille
gioie che voglio darti.
Ma sempre rispettando
pienamente quella
decenza sulla quale la
tua delicatezza vorrà
insistere.
Sono colui che non
avrà pace né felicità
finché non ti terrà
nuovamente tra le
braccia.
C.S.
P.S Rileggendo ciò
che ho scritto, vi
scorgo una formalità
che non è negli intenti
del mio cuore.
Perdonami.
Tu mi sei così vicina
e insieme così
estranea: non so come
esprimere ciò che
realmente sento.
Tuo affezionatissimo
C.
Arrivò a questa
anabatica epistola solo
dopo parecchie stesure.
Intanto si era fatto
tardi e aveva
rinunciato all’idea di
inoltrarla
immediatamente.
A quest’ora Sarah, a
forza di piangere,
doveva essersi
addormentata; egli
l’avrebbe lasciata
soffrire per un’altra
notte buia, ma le
avrebbe permesso di
svegliarsi nella gioia.
Rilesse la lettera
diverse volte: c’era
una piccola eco del
tono che aveva usato,
soltanto un giorno o
due prima, nelle
lettere a Ernestina da
Londra; ma la loro
stesura era stata una
sofferenza, un semplice
omaggio alla
convenzione, ed era
questa la ragione per
cui aveva aggiunto quel
poscritto.
Si considerava
ancora, come aveva
detto a Sarah, estraneo
a se stesso; ma ora fu
con una sorta di
rispettosa
soddisfazione che si
guardò allo specchio.
Sentiva di essere
enormemente coraggioso,
nel presente come nel
futuro, e anche
abbastanza eccezionale,
per aver fatto una cosa
senza precedenti.
Inoltre aveva
soddisfatto il suo
desiderio: stava per
rimettersi in viaggio e
sarebbe stato un
viaggio doppiamente
delizioso a causa di
colei che prometteva di
accompagnarlo.
Cercò di immaginare
le Sarah sconosciute:
Sarah che rideva, Sarah
che cantava, Sarah che
ballava.
Era difficile
immaginarle ma non
impossibile… ricordava
ancora il suo sorriso
quando avevano
rischiato di farsi
scoprire da Sam e Mary.
Era stato un sorriso
chiaroveggente, un modo
di guardare nel futuro.
E la volta in cui
l’aveva sollevata
mentre era in
ginocchio: con quale
lungo, infinito piacere
lo avrebbe fatto ora
nella loro vita in
comune! Se queste erano
le spine e i massi che
lo minacciavano era
perfettamente in grado
di sopportarli.
Pensò un momento a
una di queste piccole
spine: Sam.
Ma Sam, come tutti i
servi, era
licenziabile.
E convocabile.
Convocato egli fu a
un’ora
sorprendentemente
precoce del mattino
successivo.
Trovò Charles in
vestaglia con in mano
una lettera sigillata e
un pacchetto.
Sam, voglio che tu
porti queste cose
all’indirizzo segnato
sulla busta.
Aspetterai dieci
minuti per vedere se
c’è risposta.
Se non ce n’è - non
penso che ci sia, ma tu
aspetta egualmente -
tornerai subito qui.
E noleggerai una
carrozza veloce.
Andiamo a Lyme.
Poi aggiunse: Ma
niente bagagli.
Torneremo qui
stasera.
Stasera, Mister
Charles! Ma io credevo.
Lascia perdere quello
che credevi.
Fa’ come ti dico.
Sam assunse
l’espressione del
perfetto servitore e si
ritirò.
Mentre scendeva
lentamente le scale,
comprese con chiarezza
che la sua era una
posizione
impossibile.Come
combattere una
battaglia senza
informazioni? Con tante
voci contrastanti sullo
schieramento delle
forze nemiche? Guardò
la busta che teneva in
mano.
La sua destinazione
era già eloquente:
“Miss Woodruff,
Endicott’s Family
Hotel”.
E un giorno soltanto
a Lyme? Lasciando qui i
bauli armadio! Rivoltò
il pacchetto, premette
le dita sulla busta.
Sembrava spessa,
almeno tre pagine.
Si guardò attorno
furtivamente, poi
esaminò il sigillo.
E maledì l’uomo che
aveva inventato la
cera.
Adesso eccolo di
nuovo davanti a
Charles, che si è
vestito.
E allora? Nesuna
risposta, Mister
Charles.
Charles non riuscì a
controllare i muscoli
del suo viso.
Si voltò in un’altra
direzione.
E la carrozza? Sta
aspetando, signore.
Benissimo.
Scendo tra un
momento.
Sam si ritirò.
Appena la porta si
chiuse, Charles si
portò le mani alla
testa, poi le allargò,
come un attore che
accetta gli applausi
del pubblico, con un
sorriso di gratitudine
sulle labbra.
La sera precedente,
infatti, rileggendo per
la novantanovesima
volta la lettera, aveva
aggiunto un secondo
poscritto.
Si riferiva a quella
spilla che già abbiamo
visto nelle mani di
Ernestina.
Charles pregava Sarah
di accettarla perché
così gli avrebbe fatto
sapere che accettava
anche le sue scuse.
Questo secondo
poscritto finiva: “Il
latore della presente
aspetterà che tu
l’abbia letta.
Se dovesse riportarmi
il contenuto di questo
pacchetto… ma so che
non puoi essere così
crudele”.
E tuttavia il
poverino, durante
l’assenza di Sam, aveva
sofferto le pene
dell’inferno.
E riecco Sam: sta
parlando loquacemente a
bassa voce, e lancia
spesso occhiate
angosciate.
Siamo all’ombra di un
cespuglio di lilla, che
crescono nel giardino
di zia Tranter fuori
della cucina e
delimitano una specie
di angolo riparato nel
giardino vero e
proprio.
Il sole pomeridiano
manda i suoi raggi
obliqui tra i rami e i
primi boccioli bianchi.
L’ascoltatrice è Mary
che ha le guance
arrossate e si porta
quasi continuamente una
mano alla bocca.
E’ mica possibile, è
mica possibile.
E’ suo zio.
Gli ha fato girar la
testa.
Ma la padroncina…
cosa la farà adesso?
Entrambi, come se
avessero avuto la
sensazione di udire un
grido o di veder cadere
un corpo, alzarono gli
occhi con orrore verso
le finestre di là dai
rami.
E noi, Mary, cosa
faremo? Oh, Sam… è mica
giusto…
Io ti amo, Mary.
Oh, Sam…
Non è solo per
divertirmi.
Adeso preferirei
morire che perderti.
Ma cos’è che faremo?
Non piangere, tesoro,
non piangere.
Ne ho abastanza dei
padroni.
Non sono meglio di
noi.
La prese tra le
braccia.
Se sua signoria crede
che tale è il padrone
tale è il servo, si
sbaglia di groso, Mary.
Se devo scegliere tra
te e lui, scelgo te.
Si irrigidì come un
soldato che sta per
andare alla carica.
Mi licenzio.
Sam! Sono disposto a
caricar carbone!
Qualunque cosa! Ma i
soldi… non te li dà più
adesso! Non ne ha da
dare.
L’amarezza di Sam
guardò lo sgomento di
Mary.
Poi lui sorrise e
protese le mani.
Ma vuoi che ti dica
chi ce li ha? Se noi
due giochiamo bene le
nostre carte?

50.
“Credo ne consegua
inevitabilmente che,
man mano che nel corso
del tempo si formano
nuove specie attraverso
la selezione naturale,
altre diventano sempre
più rare e infine si
estinguono.
Le forme che più
s’oppongono a questa
mutazione in corso e a
questo progresso
saranno naturalmente
quelle che soffriranno
di più”.
Darwin, “L’origine
della specie” (1859).

Erano arrivati a Lyme


poco prima delle due.
Charles dedicò
qualche minuto a
prender possesso della
camera che aveva
prenotato.
E di nuovo passeggiò
avanti e indietro, ora
però ansioso e nervoso,
per prepararsi al
colloquio imminente.
Era di nuovo invaso
dal terrore
esistenziale; ma forse
lo aveva previsto e per
questo si era tagliato
i ponti alle spalle
mandando quella lettera
a Sarah.
Provò ancora le mille
frasi che aveva
inventato durante il
viaggio da Exeter, ma
gli svolazzavano nella
mente come foglie
d’ottobre.
Trasse un respiro
profondo, prese il
cappello e uscì.
Venne ad aprirgli
Mary, con un largo
sorriso.
Sperimentò su di lei
il suo tono solenne.
Buon giorno.
E’ in casa Miss
Ernestina? Ma prima che
la cameriera potesse
rispondergli, comparve
in fondo al vestibolo
Ernestina in persona.
Stava sorridendo.
Il mio chaperon è
fuori a colazione.
Ma puoi entrare lo
stesso.
Scomparve nuovamente
in salotto.
Charles consegnò il
cappello a Mary, si
aggiustò i baveri della
redingote, desiderò di
essere morto, poi
attraversò il vestibolo
pronto ad affrontare la
prova.
Nella luce del sole
Ernestina, che stava
accanto a una finestra
affacciata sul
giardino, si voltò con
aria gaia.
Ho ricevuto una
lettera di papà…
Charles! Charles! C’è
qualcosa che non va?
Avanzò verso di lui.
Charles, che non si
sentiva di guardarla,
teneva gli occhi fissi
sul tappeto.
Ernestina si fermò.
I suoi occhi
spaventati incontrarono
quelli, solenni e
imbarazzati, del
fidanzato.
Charles? Siediti, per
favore.
Ma cosa è successo?
E’… per questo che sono
venuto.
Ma perché mi guardi
in quel modo? Perché
non so da che parte
cominciare a dire
quello che devo dirti.
Senza smettere di
guardarlo, la ragazza
indietreggiò e si
sedette su una poltrona
accanto alla finestra.
Egli continuava a
tacere.
Ernestina toccò una
lettera che aveva
posato su un tavolo
vicino.
Papà… ma una rapida
occhiata di lui la
costrinse a tacere.
E’ stato la
gentilezza
personificata… ma io
non gli ho detto la
verità.
Quale verità? Che
dopo ore di profonde e
dolorose riflessioni,
sono arrivato alla
conclusione di non
essere degno di te.
Ernestina sbiancò in
viso.
Per un attimo egli
pensò che stesse per
svenire e fece un passo
avanti per afferrarla,
ma lei si portò
lentamente una mano al
braccio sinistro, come
per accertarsi di
essere sveglia.
Charles… stai
scherzando.
Con mia eterna
vergogna… non sto
scherzando.
Tu non sei DEGNO di
me? Sono totalmente
indegno.
E tu… oh, ma questo
deve essere un incubo.
Lo guardò con occhi
increduli, poi sorrise
timidamente.
Dimentichi il tuo
telegramma.
E’ chiaro che stai
scherzando.
Mi conosci davvero
poco se pensi che
potrei scherzare su una
cosa simile.
Ma… ma… il
telegramma! Te l’ho
mandato prima di
prendere questa
decisione.
Soltanto allora,
mentre lui abbassava
gli occhi, Ernestina
cominciò ad accettare
la verità.
Charles aveva già
previsto che sarebbe
stato questo il momento
cruciale.
Se fosse svenuta, se
avesse avuto una crisi
isterica… non sapeva
cosa avrebbe fatto, ma
detestava infliggere
sofferenze e non
sarebbe stato troppo
tardi per ritrattare,
per raccontarle tutto,
per mettersi nelle sue
mani.
Ernestina però tenne
a lungo gli occhi
chiusi, con il corpo
percorso da una specie
di brivido, ma non
svenne.
Era figlia di suo
padre; avrebbe forse
desiderato di poter
svenire, ma un
tradimento così
grossolano…
Allora sii così
gentile da spiegarmi
cosa intendi dire.
Charles provò un
momentaneo senso di
sollievo.
L’aveva ferita, ma
non mortalmente.
Non posso farlo in
una sola frase.
Ernestina si guardò
le mani con una sorta
di amareggiato
sussiego.
Allora adoperane
molte.
Io non ti interrompo.
Per te ho sempre
avuto, e continuo ad
avere, il massimo
affetto e la massima
considerazione.
Non ho mai dubitato
nemmeno per un attimo
che saresti una moglie
meravigliosa per un
uomo talmente fortunato
da guadagnarsi il tuo
amore.
Ma ho sempre saputo,
con mia vergogna, che
la mia considerazione
per te era dettata in
parte da motivi
ignobili.
Alludo alla fortuna
che tu porti in dote… e
al fatto che sei figlia
unica.
Nel fondo del mio
animo, Ernestina, ho
sempre sentito che la
mia vita non aveva né
uno scopo né un
risultato.
No, ti prego,
ascoltami fino alla
fine.
L’inverno scorso,
quando mi sono reso
conto che avresti
accolto con favore una
domanda di matrimonio,
mi sono lasciato
tentare da Satana.
Ho visto in un
brillante matrimonio
l’occasione per
ritrovare la mia fede
in me stesso.
Non credere, ti
prego, che io abbia
agito soltanto per un
freddo calcolo.
Avevo molta simpatia
per te.
E credevo
sinceramente che questa
simpatia si sarebbe
tramutata in amore.
Lei aveva alzato
lentamente la testa.
Lo stava guardando ma
quasi come se non lo
vedesse.
Non posso credere che
sia tu a dire queste
cose.
Deve essere un
impostore, un crudele,
un uomo senza cuore…
So che per te deve
essere un gravissimo
choc.
Uno choc! Aveva
un’aria offesa.
Quando tu freddamente
e tranquillamente mi
dici che non mi hai mai
amata! Aveva alzato la
voce, e Charles andò a
chiudere una finestra
che era rimasta aperta.
Avvicinandosi un poco
al capo chino della
ragazza, le parlò con
la massima gentilezza
compatibile con il
mantenimento delle
distanze.
Non sto cercando
scuse.
Sto solo cercando di
spiegarti che il mio
non è un delitto
premeditato.
Se lo fosse, come
potrei fare quel che
sto facendo? Il mio
solo desiderio è di
farti capire che non ho
voluto ingannare
nessuno se non me
stesso.
Chiamami come
preferisci…
debole, egoista…
quello che vuoi, ma non
insensibile.
Ernestina trasse un
breve respiro
accompagnato da un
brivido.
E che cosa ha
determinato questa
grande scoperta? La
consapevolezza, di cui
non nego certamente
l’odiosità, di essere
rimasto deluso quando
tuo padre non troncò il
nostro fidanzamento in
vece mia.
Ricevette un’occhiata
terribile.
Sto cercando di
essere sincero.
Egli non soltanto ha
reagito con estrema
generosità al
cambiamento della mia
situazione, ma mi ha
addirittura proposto di
diventare un giorno suo
socio in affari.
Il viso di Ernestina
avvampò nuovamente.
Lo sapevo, lo sapevo.
E’ perché sposeresti
la figlia di un
commerciante.
Non è così? Si volse
verso la finestra.
Questo l’avevo
accettato senza
riserve.
E comunque…
vergognarsi di tuo
padre sarebbe un
esempio di grossolano
snobismo.
Non basta dire le
cose per esserne meno
colpevoli.
Se mi dici che ho
reagito alla sua nuova
proposta con orrore,
hai abbastanza ragione.
Ma l’orrore era
dovuto alla mia
inattitudine al lavoro
offertomi, non certo
alla proposta in sé.
E adesso, ti prego,
lasciami finire la mia
spiegazione.
Mi stai spezzando il
cuore.
Charles tornò a
voltarsi verso la
finestra.
Cerchiamo di
conservare quel
rispetto che abbiamo
sempre avuto l’uno per
l’altra.
Non devi credere che
in questa circostanza
io abbia pensato
soltanto a me stesso.
Ciò che mi ossessiona
è l’ingiustizia che
farei a te, e a tuo
padre, sposandomi senza
quell’amore che tu
meriti.
Se tu e io fossimo
diversi… ma non lo
siamo e ci basta uno
sguardo, una parola per
sapere se il nostro
amore è
contraccambiato…
Credevamo di saperlo
sibilò lei.
Mia cara Ernestina, è
come la fede in Cristo.
Si può far finta di
averla.
Ma alla lunga la
verità viene a galla.
Sono convinto che, se
ci pensi bene, devi
ammettere di aver già
avuto qualche piccolo
dubbio.
Certo li hai
soffocati dicendoti
che…
Ernestina si coprì le
orecchie, poi si
abbassò lentamente le
dita sul viso.
Ci fu una pausa.
Poi disse: Posso
parlare io adesso?.
Ma certo.
So che per te non
sono mai stata altro
che un grazioso…
ninnolo da tenere in
salotto.
So di essere sciocca.
So di essere viziata.
So di non essere
niente di speciale.
Non sono né un’Elena
di Troia né una
Cleopatra.
So che a volte dico
cose che ti straziano
le orecchie, che ti
offendo quando mi burlo
dei tuoi fossili, che
ti annoio con i miei
discorsi su come
arredare la casa.
Forse sono soltanto
una bambina.
Ma con il tuo amore e
la tua protezione… e il
tuo insegnamento…
credevo di poter
migliorare.
Avrei imparato a
piacerti e avrei
imparato a farti amare
ciò che sarei
diventata.
Tu forse non lo sai,
non puoi saperlo, ma è
stata questa la prima
ragione della mia
attrazione per te.
Tu sai che sono
stata… offerta a un
centinaio di uomini.
Non erano tutti
cacciatori di dote o
nullità.
Non ti ho scelto
perché ero così ingenua
da non poter fare
paragoni.
Ma perché mi sembravi
più generoso, più
saggio e più ricco
d’esperienza.
Ricordo, e se non mi
credi vado a prendere
il mio diario, che
subito dopo il nostro
fidanzamento ho scritto
che avevi poca fede in
te stesso.
L’avevo capito.
Tu ti ritieni un
fallito, ti credi
disprezzato, non so
come dirlo… ma era
questo il regalo di
nozze che volevo farti.
La fede in te stesso.
Ci fu una lunga
pausa.
Ernestina rimase a
capo chino.
Egli parlò a bassa
voce.
Le tue parole mi
ricordano quanto è
grande la mia perdita.
Ma purtroppo mi
conosco troppo bene.
Non si può far
risorgere ciò che non è
mai esistito.
E quel che ti ho
detto non significa
altro per te? Significa
molto, moltissimo.
Tacque, anche se lei
evidentemente si
aspettava che le
dicesse qualche altra
cosa.
Charles non si era
atteso una reazione
così contenuta.
Era commosso, e
insieme si vergognava
delle parole udite e il
fatto di non poter
palesare nessuno di
questi sentimenti lo
ammutoliva.
La voce di Ernestina
era molto sommessa e
sempre più fievole.
Dopo quello che ti ho
detto, non potresti
almeno…
Ma non riuscì a
trovare le parole.
Riesaminare la mia
decisione? Ernestina
dovette aver colto nel
suo tono qualcosa che
era di là dalle sue
intenzioni, perché
all’improvviso lo
guardò con
un’invocazione
appassionata.
I suoi occhi erano
umidi di lacrime
represse, il suo
piccolo viso sbiancato
lottava miseramente per
conservare una calma
esteriore.
Egli vide in questo
una specie di coltello,
profondamente
conficcato nelle carni
di lei.
Ti prego, Charles, ti
prego di aspettare un
po’.
Sono ignorante, è
vero, non so che cosa
vuoi da me… se mi
dicessi in che cosa ho
fallito… come vorresti
che io fossi…
Farò qualunque cosa,
qualunque cosa,
rinuncerei a tutto pur
di farti felice.
Non devi parlare
così.
Sì che devo.
Non posso farne a
meno.
Soltanto ieri, quel
telegramma, ho pianto,
l’ho baciato cento
volte, non devi credere
che perché faccio la
frivola io non abbia
sentimenti più
profondi.
Vorrei… ma la sua
voce si affievolì,
mentre irrompeva nella
sua mente un acre
sospetto.
Tu stai mentendo.
E’ successo qualcosa
dopo che me l’hai
mandato.
Charles si accostò al
caminetto e rimase lì
volgendole le spalle.
La sentì
singhiozzare, e ciò gli
riuscì insopportabile.
Allora si voltò,
aspettandosi di vederla
a capo chino; ma ora
piangeva apertamente
con gli occhi fissi su
di lui, e quando vide
che la stava guardando,
tese le mani nella sua
direzione, come una
bimba spaventata e
smarrita, si sollevò un
poco dalla sedia, fece
un passo avanti e cadde
sulle ginocchia.
Charles allora provò
un profondo disgusto:
non di lei ma della
situazione: delle mezze
verità che aveva detto,
delle cose essenziali
che aveva nascosto.
Lo si può forse
paragonare alla
sensazione che prova a
volte un chirurgo
davanti alla vittima
particolarmente
malconcia di una
battaglia o di un
incidente; una
decisione feroce - che
altro si può fare
infatti? - di procedere
con l’operazione.
Di dire la verità.
Attese una pausa nei
singhiozzi.
Volevo risparmiarti.
Ma effettivamente… è
successo qualcosa.
Ernestina si alzò
molto lentamente e si
portò le mani alle
guance senza
abbandonarlo con gli
occhi.
Chi è? Non la
conosci.
Il suo nome non ha
importanza.
E lei… e tu…
Charles volse lo
sguardo altrove.
La conosco da molti
anni.
Credevo che l’affetto
fosse cessato.
Ma a Londra ho
scoperto… che non lo è.
L’ami? Se l’amo? Non
so… qualunque cosa sia
è una situazione che mi
rende impossibile
offrire liberamente il
mio cuore a un’altra.
Perché non me lo hai
detto all’inizio.
Ci fu una lunga
pausa.
Egli non riusciva a
sopportare quegli occhi
che sembravano
smascherare ogni sua
bugia.
Speravo di
risparmiarti questa
pena mormorò.
O di risparmiare a te
stesso questa vergogna?
Tu… sei un mostro! Si
lasciò cadere sulla
sedia fissandolo con
occhi dilatati.
Poi chinò il viso
sulle mani.
Charles la lasciò
piangere fissando
ferocemente una
pecorella di porcellana
che stava sulla
mensola; e sino al
giorno della sua morte
non avrebbe più potuto
vedere una pecorella di
porcellana senza una
rovente vampata di
disgusto per se stesso.
Quando finalmente
parlò, Ernestina lo
fece con tanta forza da
farlo trasalire.
Se non mi uccido io,
lo farà la vergogna.
Io non valgo neanche
un momento di
rammarico.
Incontrerai altri
uomini… non ancora
spezzati dalla vita.
Uomini d’onore che…
S’interruppe, poi
esplose: Per tutto ciò
che hai di più sacro,
prometti di non dire
mai più queste cose.
Lei lo guardò
inferocita.
Credevi che ti avrei
perdonato? Charles
scosse silenziosamente
il capo.
I miei genitori, i
miei amici… cosa gli
dirò? Che Mister
Charles Smithson ci ha
pensato bene e ha
deciso che la sua
amante è più importante
del suo onore, delle
sue promesse, del suo…
Sentì un rumore di
carta strappata.
Senza voltarsi, egli
comprese che aveva
sfogato la sua collera
sulla lettera del
padre.
Credevo che fosse
uscita per sempre dalla
mia vita.
Circostanze
straordinarie…
Una pausa, come se
Ernestina stesse
prendendo in
considerazione
l’ipotesi di gettargli
sul viso del vetriolo.
La sua voce divenne
improvvisamente fredda
e velenosa.
Hai infranto la tua
promessa.
Ma c’è un rimedio per
quelle del mio sesso.
Hai tutto il diritto
di intentarmi causa.
E io non potrei far
altro che confessarmi
reo.
Il mondo ti conoscerà
per quello che sei.
E’ la sola cosa che
mi importi.
Il mondo saprà, in
qualunque caso.
Di nuovo Ernestina si
sentì sommergere
dall’enormità di ciò
che lui aveva fatto.
Continuava a scuotere
il capo.
Charles prese una
sedia e si sedette di
fronte a lei, troppo
lontano per toccarla ma
abbastanza vicino per
appellarsi alle sue
migliori qualità.
Puoi forse
immaginare, sia pure
per un momento, che io
non sia già stato
punito? Che questa non
sia stata la decisione
più terribile della mia
vita? L’ora più temuta?
Quella che ricorderò
con i più profondi
rimorsi sino al giorno
della mia morte? Posso
anche essere…
ma sì, sono un
ingannatore.
Ma tu sai che non
sono un insensibile.
Se lo fossi non sarei
qui.
Ti avrei scritto,
sarei fuggito
all’estero…
Vorrei che lo avessi
fatto.
Egli guardò a lungo
la sommità della sua
testa, poi si alzò.
Intravide nello
specchio se stesso e
l’uomo nello specchio.
Il Charles di
quell’altro mondo
sembrava il suo vero
io.
Quello nel salotto
era, come diceva lei,
un impostore; nei suoi
rapporti con Ernestina
era sempre stato un
impostore, un “altro”,
sotto osservazione.
Iniziò allora uno dei
discorsi che si era
preparato.
Non posso aspettarmi
che tu provi per me
qualcosa che non sia
rabbia e risentimento.
Tutto ciò che ti
chiedo è che quando
queste…
reazioni naturali si
saranno placate, tu
possa ricordare che
nessuna condanna
inferta al mio
comportamento può
essere paragonata per
severità a quella che
m’infliggo io… e che la
mia sola scusa è
l’incapacità
d’ingannare
ulteriormente una
persona che ho imparato
a rispettare e
ammirare.
Suonava falso, era
falso, e Charles si
rendeva spiacevolmente
conto dell’aperto
disprezzo che lei gli
mostrava.
Sto cercando di
immaginarmela.
Suppongo che sia
titolata… che abbia
origini aristocratiche.
Oh… se avessi dato
retta al mio caro,
povero babbo! Cosa
intendi dire? Lui li
conosce i nobili.
E ha una frase per
definirli: Belle
maniere e conti non
pagati.
Io non sono un membro
della nobiltà.
Tu sei come tuo zio.
Ti comporti come se
il tuo rango ti
esentasse da qualsiasi
preoccupazione per le
cose in cui crediamo
noi gente comune.
E anche lei.
Quale donna potrebbe
essere così spregevole
da indurre un uomo a
infrangere la propria
promessa.
Posso immaginarmelo.
E sputò la propria
ipotesi: E’ sposata.
Non ho intenzione di
parlarne.
Dov’è adesso? A
Londra? Lui la guardò
un momento, poi si
voltò di scatto e si
avviò verso la porta.
Ernestina si alzò.
Mio padre trascinerà
il tuo nome, i vostri
nomi, nel fango.
Sarai disprezzato e
detestato da tutti
quelli che ti
conoscono.
Sarai scacciato
dall’Inghilterra,
sarai…
Charles era intanto
arrivato alla porta.
Ora l’apri.
E questo - o forse
l’incapacità di
immaginare un’infamia
sufficiente per lui
costrinse Ernestina a
interrompersi.
Aveva il viso
contratto, come se
avesse avuto voglia di
dire tante altre cose,
ma non ne fosse in
grado.
Barcollò, poi
qualcosa di
contraddittorio che era
in lei pronunciò il
nome di Charles: come
se questo fosse stato
un incubo e volesse
sentirsi dire che era
cessato.
Egli non si mosse.
Ernestina vacillò e
crollò all’improvviso
sul pavimento accanto
alla sedia.
Istintivamente
Charles si sentì spinto
a correrle vicino.
Ma nella maniera in
cui era caduta c’era
qualcosa che lo bloccò,
il modo un po’ troppo
studiato in cui le
ginocchia si erano
piegate e il corpo era
scivolato di fianco sul
tappeto.
Guardò per un attimo
quella creatura
afflosciata e riconobbe
la catatonia della
convenzione.
Scriverò subito a tuo
padre disse.
Lei non reagì; ma
rimase sdraiata con gli
occhi chiusi e una mano
pateticamente allungata
sul tappeto.
Charles si avvicinò
al campanello accanto
alla mensola, lo tirò
con violenza e s’avviò
a lunghi passi verso la
porta.
Uscì appena udì i
passi di Mary.
La cameriera stava
salendo di corsa le
scale.
Egli le indicò il
salotto.
Ha avuto uno choc.
Non deve
assolutamente lasciarla
sola.
Io vado a chiamare il
dottor Grogan.
Per un attimo sembrò
che anche Mary stesse
per svenire.
Posò una mano sulla
ringhiera e guardò
Charles con occhi
sgomenti.
Capito? Non la lasci
per nessuna ragione.
Mary annuì, fece un
piccolo inchino, ma non
si mosse.
E’ soltanto svenuta.
Le slacci il vestito.
Con un’ultima
occhiata di spavento,
la cameriera entro
nella stanza.
Charles aspettò
ancora qualche secondo.
Udì un debole gemito,
poi la voce di Mary.
Oh, signorina, sono
io, Mary.
Il dottore sta per
arrivare, signorina.
Va tutto bene
signorina.
Sono qua io.
Per un istante
Charles rimise piede
nel salotto.
Vide Mary
inginocchiata che stava
sollevando Ernestina.
Il viso della padrona
era appoggiato al seno
della cameriera.
Mary alzò gli occhi
verso di lui e il suo
sguardo intenso
sembrava proibirgli di
guardare o di restare.
Charles accettò
questo schietto
giudizio.

51.
Per lungo tempo, come
ho detto, le tenaci
consuetudini feudali di
sottomissione e di
rispetto continuarono
ad agire sulla classe
lavoratrice.
Lo spirito moderno ha
ora quasi del tutto
annullato queste
abitudini…
Questo e quell’uomo,
questo e quel gruppo di
persone cominciano
sempre più ad affermare
per tutto il paese, e a
mettere in pratica, il
diritto che ha un
inglese di fare quel
che vuole; il suo
diritto di marciare
dove vuole, di riunirsi
dove vuole, di entrare
dove vuole, di
schiamazzare come
vuole, di minacciare
come vuole di
fracassare ciò che
vuole.
Tutto questo, io
dico, tende
all’anarchia”.
Matthew Arnold,
“Cultura e anarchia”
(1869). (1)

Per fortuna il dottor


Grogan non era in giro
per visite Charles
rifiutò l’invito della
governante a entrare e
aspettò sul gradino
della porta fin quando
il piccolo medico non
arrivò di corsa e uscì,
a un cenno di Charles,
fuori di casa in modo
che nessuno potesse
udire le loro parole.
Ho appena rotto il
fidanzamento.
Ernestina è molto
sconvolta.
La prego di non
chiedermi spiegazioni e
di andare in Broad
Street senza indugio.
Grogan lanciò a
Charles un’occhiata
sbalordita al di sopra
delle lenti e rientrò
in casa senza una
parola.
Ricomparve pochi
secondi dopo con borsa
e cappello.
Si misero subito in
cammino.
Non sarà…? Charles
annuì, e una volta
tanto il piccolo medico
parve troppo sconvolto
per aggiungere altro.
Fecero così venti o
trenta passi.
Non è come crede lei,
Grogan, ne sono
convinto.
Sono senza parole,
Smithson.
Non cerco scuse.
Lei sa? Sa solo che
c’è un’altra.
Niente di più.
Voltarono l’angolo e
cominciarono a salire
per Broad Street.
Devo chiederle di non
rivelarne il nome.
Il medico gli gettò
una fiera occhiata di
sbieco.
Per il bene di Miss
Woodruff.
Non per il mio.
Grogan bruscamente si
fermò: Stamattina
dunque… se ho ben
capito….
La prego.
Adesso vada.
L’aspetterò alla
locanda.
Ma il medico rimase
immobile a guardarlo,
come se nemmeno lui
potesse credere di non
vivere in un incubo.
Charles si lasciò
guardare per un momento
poi, indicandogli la
parte più alta di Broad
Street, attraversò la
strada dirigendosi
verso il White Lion.
Santo cielo,
Smithson…
Charles si voltò un
momento, resse
all’occhiata irosa
dell’irlandese e
continuò senza una
parola nel suo cammino.
Lo stesso fece il
medico, ma senza
distogliere lo sguardo
da lui finché non lo
vide sparire sotto il
porticato.
Charles raggiunse il
suo alloggio, appena in
tempo per vedere Grogan
che entrava nella casa
di zia Tranter.
Entrò in spirito con
lui: si sentiva un
Giuda, un Efialte, un
fratello di tutti i
traditori dall’origine
dei tempi.
Ma gli impedì di
macerarsi ulteriormente
una bussata alla porta.
Comparve Sam.
Che diavolo vuoi? Io
non ho suonato.
Sam aprì la bocca ma
non ne uscì alcun
suono.
Charles non poté
sopportare l’impatto di
quello sguardo.
Ma già che sei
venuto, portami un
bicchiere di brandy.
Lo aveva fatto
soltanto per guadagnare
tempo.
Gli fu portato il
brandy e lo sorseggiò;
poi dovette di nuovo
affrontare lo sguardo
del suo servo.
Mi dica che non è
vero, Mister Charles.
Sei stato là? Sì,
Mister Charles.
Charles si avvicinò
alla finestra che dava
su Broad Street.
E’ vero.
Miss Freeman e io non
ci sposeremo più.
Adesso vattene.
E tieni la bocca
chiusa.
Mà, Mister Charles,
io e la mia Mary? Più
tardi, più tardi.
Ora non posso pensare
a queste cose.
Tracannò quel che
rimaneva del brandy,
poi s’accostò allo
scrittoio e prese un
foglio.
Trascorsero alcuni
secondi.
Sam non si era mosso.
O almeno non si erano
mossi i suoi piedi.
La sua gola si stava
palesemente gonfiando.
Non hai sentito cosa
ho detto? Sam gli gettò
un’occhiata
curiosamente
luccicante.
Sì, signore.
Solo che con tuto il
rispeto devo pensare
alla mia situazione.
Charles si voltò di
scatto.
Cosa diavolo vuoi
dire? Si stabilirà a
Londra adeso, signore?
Charles prese la penna.
Con ogni probabilità
andrò all’estero.
Alora devo pregarla
di tener conto,
signore, che io non
l’acompagno.
Charles balzò in
piedi.
Come osi parlarmi con
tanta impertinenza?
Levati dai piedi! Ora
Sam era un galletto
infuriato.
Non senza che lei mi
abia ascoltato.
Io non torno a
Exeter.
Io mi licenzio! Sam!
Era un grido di rabbia.
Come dovrei aver
fato…
Va’ all’inferno! Sam
si raddrizzò in tutta
la sua statura.
Mancò un pelo (come
raccontò poi a Mary)
che facesse un occhio
nero al padrone, ma
controllò la sua
focosità di cockney e
si ricordò che un vero
gentiluomo si serve di
armi più raffinate.
Perciò andò alla
porta, l’aprì e lanciò
a Charles un’occhiata
raggelante e dignitosa.
Non so in quale altro
posto, signore, potrei
trovare un amico suo.
La porta venne
richiusa senza troppa
delicatezza.
Charles corse ad
aprirla con violenza.
Sam si stava
allontanando nel
corridoio.
Come osi? Vieni
subito qui! Sam si
voltò con calma
solenne.
Se vuole farsi
servire, la prego di
suonare per un
domestico dell’albergo.
E con quest’ultima
frecciata, che lasciò
Charles senza parole,
sparì oltre l’angolo e
scese la scala.
Il suo sorriso,
quando sentì di nuovo
sbattere violentemente
la porta del piano di
sopra, non durò a
lungo.
Lo aveva fatto.
E si sentiva come un
marinaio sbarcato che
vede salpare la sua
nave; quel che è peggio
aveva la segreta
consapevolezza di
essersi meritato questa
punizione.
L’ammutinamento temo,
non era il suo solo
delitto.
Charles sfogò la
rabbia sul bicchiere
vuoto che scaraventò
nel caminetto.
Per la prima volta
aveva sentito veramente
che cosa significasse
esser caduto tra i rovi
e le pietre, e non gli
piaceva per niente.
In un momento di
follia, poco mancò che
si precipitasse fuori
del White Lion…
Si sarebbe gettato ai
piedi di Ernestina,
avrebbe spiegato il suo
comportamento con la
pazzia, con tormenti
interiori, con il
desiderio di provare se
lei lo amava…
Continuava a battersi
un pugno sul palmo.
Che cosa aveva fatto?
Cosa stava facendo?
Cosa avrebbe fatto? Se
persino i suoi servi lo
disprezzavano e lo
respingevano? Rimase
immobile tenendosi il
capo tra le mani.
Poi guardò
l’orologio.
Avrebbe ancora potuto
vedere Sarah quella
sera, e un’immagine del
suo viso, dolce,
condiscendente, delle
tenere lacrime di gioia
mentre lui la teneva
tra le braccia… fu
sufficiente.
Tornò allo scrittoio
e cominciò a stendere
la lettera per il padre
di Ernestina.
Era ancora occupato
in questo compito
quando gli venne
annunciato il dottor
Grogan.

NOTE.
Nota 1.
Traduzione di
Vittorio Gabrieli,
Einaudi, Torino 1946.
[Nota del Traduttore].
52.
“Oh, make my love a
coffin Of the gold that
shines yellow, And
shall be buried By the
banks of green willow”.
Canzone popolare del
Somerset, “By the banks
of green Willow”.
“Oh, fa’ al mio amore
una bara / Di oro che
splende giallo, / E lei
sarà sepolta / Sulle
rive del verde salice”.
[Nota del Traduttore].
Il personaggio triste
di questa storia è la
povera zia Tranter.
Che rientrò dalla
colazione convinta di
trovare a casa Charles.
Incappò invece in una
gigantesca catastrofe.
Mary le venne
incontro nel vestibolo,
pallida e sconvolta.
Bambina, bambina,
cosa è successo? Mary
poté soltanto scuotere
il capo angosciata.
Al piano di sopra si
aprì una porta e la
buona signora sollevò
la gonna e salì quasi
di corsa come una donna
con la metà dei suoi
anni.
Sul pianerottolo
incontrò il dottor
Grogan che si portò
subito un dito alle
labbra.
Solo quando si
trasferirono in quel
salotto fatale, e
Mistress Tranter si fu
seduta, egli si decise
a comunicarle quanto
era accaduto.
Non è possibile.
Non può essere.
Cara signora, mille
volte ahimè… ma può
essere, ed è.
Ma Charles… così
affezionato, così
affettuoso… pensi che
soltanto ieri le ha
mandato un telegramma…
Aveva l’aria di non
riconoscere più la sua
stanza o il viso pacato
del medico chino su di
lei.
Si è comportato in
modo atroce.
Non riesco a capirlo.
Ma quali ragioni ha
dato? Miss Ernestina
non ha voluto parlare.
Lei però non si
allarmi.
Ha solo bisogno di
dormire.
Le ho dato qualcosa
che glielo permetterà.
Domani poi le
spiegherà tutto…
Neanche tutte le
spiegazioni del mondo…
Si mise a piangere.
Ma sì, cara signora.
Pianga.
Non esiste sfogo
migliore.
Povera cara.
Morirà di crepacuore.
Non credo.
Finora non ho mai
dovuto indicarlo come
causa di morte.
Lei non la conosce
come la conosco io…
Oh, cosa dirà Emily?
Sarà tutta colpa mia.
Emily era sua
sorella, Mistress
Freeman.
Penso che bisognerà
telegrafarle subito.
Lasci che ci pensi
io.
Oh, santo cielo… e
dove la metterò a
dormire? Il medico
sorrise, ma con molta
delicatezza, di questo
“non sequitur”. Gli era
già capitato di
affrontare casi del
genere, e sapeva che la
cura migliore per una
donna era un gran
trambusto.
E adesso, cara
Mistress Tranter,
voglio che lei mi
ascolti.
Per qualche tempo
deve fare in modo che
sua nipote venga tenuta
d’occhio giorno e
notte.
Se vuol essere
trattata come
un’inferma, la tratti
pure così.
Se domani vuole
alzarsi e andarsene da
Lyme, la lasci pure
partire.
Insomma l’assecondi,
chiaro? E’ giovane e
gode ottima salute.
Le garantisco che tra
sei mesi sarà vispa
come un grillo.
Come può essere così
cinico? Non le passerà
mai più.
Quel perfido…
Ma come ha potuto…
Un pensiero le balenò
alla mente.
Allungò un braccio
per toccare la manica
del medico.
C’è un’altra donna!
Il dottor Grogan si
tirò il naso.
Questo non lo so.
E’ un mostro.
Ma non tanto da non
confessarsi tale.
E da perdere un
partito che tanti
mostri avrebbero
avidamente divorato.
Sì, sì.
Di questo dobbiamo
essergli grati.
Ma la sua mente era
dilaniata dalle
contraddizioni.
Non gli perdonerò
mai.
Le venne un’altra
idea.
E’ ancora in città?
Voglio andare a dirgli
che cosa penso di lui.
Le prese un braccio.
Questo devo
proibirglielo.
E’ stato lui a
mandarmi qui.
E ora aspetta di
sapere che la povera
ragazza non corre
pericolo.
Gli parlerò io.
E le assicuro che
sarò molto schietto.
Voglio la sua pelle
per quel che ha fatto.
Bisognerebbe che lo
frustassero e lo
mettessero in ceppi.
Quando eravamo
giovani sarebbe stato
questo il suo castigo.
Bisognerebbe che lo
fosse anche oggi.
Povero, povero
angelo.
Si alzò.
Devo andare da lei.
E io devo vedere lui.
Gli dica da parte mia
che ha distrutto la
felicità della creatura
più dolce, più
fiduciosa…
Sì, sì.
Ma adesso si calmi.
E cerchi di scoprire
perché quella sua
domestica se la prende
tanto calda.
Chiunque crederebbe
che l’abbiano spezzato
a LEI il cuore.
Mistress Tranter
accompagnò fuori il
medico, poi,
asciugatasi le lacrime,
risalì le scale sino
alla camera di
Ernestina.
Le tendine erano
tirate, ma la luce del
giorno filtrava
egualmente.
Mary era seduta
accanto alla vittima.
Si alzò all’ingresso
della padrona.
Ernestina giaceva
sulla schiena
profondamente
addormentata, ma teneva
la testa voltata da una
parte.
Il viso era
stranamente calmo e
composto, il respiro
regolare.
Sulle sue labbra
c’era persino l’ombra
vaga di un sorriso.
Quanto c’era di
ironico in quella calma
fu per Mistress Tranter
una nuova ferita:
quando la povera cara
bambina si fosse
svegliata…
Sgorgarono di nuovo
le lacrime.
Si alzò, si passò una
mano sugli occhi e per
la prima volta li posò
su Mary.
Costei sembrava
un’anima gettata in un
pozzo senza fondo
d’infelicità: aveva
insomma esattamente
l’aspetto che avrebbe
dovuto avere, e non
aveva, Tina; e Mistress
Tranter si ricordò
delle parole un po’
querule che le aveva
detto il medico
congedandosi.
Fece cenno alla
cameriera di seguirla e
uscì sul pianerottolo.
Tennero la porta
aperta e parlarono a
bassissima voce.
E adesso dimmi cosa è
successo, bambina.
Mister Charles mi ha
chiamato che ero da
basso, signora, e Miss
Tina stava per terra
svenuta e lui è andato
a chiamare il dottore e
Miss Tina allora apre
gli occhi solo che non
dice niente così io
l’aiuto a venire qui,
ma mica sapevo cosa
dovevo fare, perché
appena si è messa a
letto, signora, gli è
subito venuta la crisi
e, oh signora, mi sono
tanto spaventata perché
rideva e gridava e non
la finiva mai.
Poi però è venuto il
dottor Grogan e l’ha
calmata.
Oh, signora.
Su, su, Mary, sei
stata molto brava.
Ma non ha detto
niente mia nipote? Solo
mentre eravamo su per
le scale, signora, mi
ha chiesto dov’era
Mister Charles,
signora, e io ci ho
detto che era andato a
chiamare il dottore.
E’ stato così che gli
è venuta la crisi,
signora.
Sss.
Sss.
Mary infatti aveva
cominciato ad alzare la
voce e tutto lasciava
supporre che stesse per
venire una crisi
isterica anche a lei.
Comunque, siccome
aveva un gran desiderio
di consolare qualcuno,
Mistress Tranter la
prese tra le braccia e
le accarezzò la testa.
Benché con questo
gesto avesse violato
tutte le leggi
riconosciute sui
rapporti tra padrone e
serve, non credo che il
maggiordomo celeste le
abbia chiuso la porta
in faccia.
Il corpo della
ragazza era scosso da
singhiozzi soffocati
che cercava di
controllare per amore
dell’altra sofferente.
Poi finalmente si
calmò.
Cosa c’è adesso? E’
per Sam, signora.
E’ da basso.
Ha detto delle brutte
parole a Mister
Charles, signora, e poi
si è licenziato e così
adesso Mister Charles
non gli darà più le
referenze.
Soffocò un ultimo
singhiozzo.
E mica lo sappiamo
cosa sarà di noialtri.
Brutte parole? Ma
quando, bambina? Poco
tempo prima di venire
qui, signora.
E proprio per Miss
Tina.
Ma come è stato? Sam
lo sapeva che sarebbe
successo.
Mister Charles… è
tanto tanto cattivo,
signora.
Oh, signora, noi
volevamo dircelo ma non
ci abbiamo avuto il
coraggio.
Giunse dalla stanza
un rumore sommesso,
Mistress Tranter corse
subito a vedere, ma la
nipote era sempre calma
e profondamente
addormentata.
Si riavvicinò allora
alla ragazza con la
testa chinata.
La guardo io adesso,
Mary.
Parleremo più tardi.
La ragazza abbassò la
testa ancora di più.
Questo Sam, lo ami
veramente? Sì, signora.
E lui ti ama? E’ ben
per questo che ha mica
voluto andare col suo
padrone, signora.
Digli di aspettare.
Vorrei parlargli.
E gli troveremo anche
un posto.
Allora Mary alzò il
viso rigato di lacrime.
Io voglio mica andar
via, signora.
E non andrai via,
bambina, fino al giorno
delle tue nozze.
Poi Mistress Tranter
si chinò a baciarla
sulla fronte.
E tornò a sedersi
accanto a Ernestina,
mentre Mary scendeva al
pianterreno.
Una volta in cucina,
con gran disgusto della
cuoca, corse all’ombra
dei lilla tra le
braccia ansiose ma
impazienti di Sam.

53.
“Noi vediamo infatti
dove ci ha portato…
l’insistere sulla
perfezione in una parte
e non in tutte della
nostra natura; il
prescegliere come
oggetto di una così
assidua sollecitudine
il lato morale, il lato
dell’obbedienza e
dell’azione; il fare
del rigore della
coscienza morale la
cosa di gran lunga più
importante, rinviando
all’aldilà e a un altro
mondo la preoccupazione
di essere completi da
ogni parte, lo sviluppo
pieno e armonioso della
nostra umanità”.
Matthew Arnold,
“Cultura e anarchia”
(1869).

Si è… rimessa? L’ho
fatta addormentare.
Il medico attraversò
la stanza e rimase con
le mani dietro la
schiena a guardare
Broad Street verso il
mare.
E… non ha detto
niente? Il medico
scosse il capo senza
voltarsi, rimase un
attimo in silenzio, poi
si girò di scatto e
aggredì Charles.
Aspetto una sua
spiegazione, signore!
Charles gliela diede,
malamente e senza
cercare attenuanti.
Di Sarah disse
pochissimo.
Tentò soltanto di
scusarsi per aver
ingannato lo stesso
Grogan, e attribuì il
suo modo d’agire alla
convinzione che
rinchiudere Sarah in un
manicomio sarebbe stata
un’ingiustizia
clamorosa.
Il medico lo ascoltò
in un feroce e attento
silenzio.
Poi, quando Charles
ebbe finito, si voltò
di nuovo verso la
finestra.
Vorrei che lei
ricordasse la
particolare pena
prescritta da Dante per
chi viola le leggi.
Gliela potrei
prescrivere.
Credo che sarò già
punito abbastanza.
Non è possibile.
Non secondo i miei
calcoli.
Charles non replicò.
Ho respinto il suo
consiglio solo dopo un
lungo esame di
coscienza.
Smithson, un
gentiluomo rimane tale
anche quando respinge
un consiglio.
Ma non quando dice
bugie.
Le credevo
necessarie.
Come credeva
necessario soddisfare
la sua libidine.
Non accetto questa
parola.
Le conviene imparare
ad accettarla.
E’ a questo che il
mondo attribuirà il suo
comportamento.
Charles s’avvicinò al
tavolo al centro della
stanza e rimase in
piedi appoggiandovi
sopra una mano.
Lei dunque, Grogan,
mi avrebbe condannato a
una vita di finzione?
Non crede che la nostra
epoca sia già fin
troppo satura di
melliflua ipocrisia,
che aduli già troppo
tutto ciò che c’è di
falso nella nostra
natura? Avrebbe voluto
che io mettessi anche
me in questa
situazione? Avrei solo
voluto che ci pensasse
due volte prima di
coinvolgere
quell’innocente ragazza
nel perseguimento della
sua conoscenza di se
stesso.
Ma una volta
raggiunta questa
conoscenza, possiamo
sfuggire ai suoi
dettami? Per quanto
ripugnanti siano le
loro conseguenze? Il
medico distolse lo
sguardo con una piccola
smorfia severa.
Charles si accorse
che era stizzito e
nervoso; e palesemente
incerto, dopo
l’invettiva iniziale,
su come affrontare
questo mostruoso
affronto alla
convenzione
provinciale.
Di fatto si stava
svolgendo una lotta tra
il Grogan che viveva a
Lyme ormai da un quarto
di secolo e il Grogan
che aveva visto il
mondo.
Inoltre entravano in
gioco altri fattori: la
simpatia per Charles,
la convinzione - non
molto lontana da quella
di Sir Robert - che
Ernestina fosse un
cosino grazioso, ma
anche un cosino
superficiale; e in più
c’era un episodio
sepolto da tempo nel
suo passato, di cui non
è necessario rivelare
esattamente la natura
ma basterà dire che
rendeva quell’allusione
alla libidine assai
meno impersonale di
quanto egli stesso
volesse farla apparire.
Parlò dunque ancora
in tono di rimprovero,
ma sfuggendo al
problema morale che gli
era stato posto.
Io sono un medico,
Smithson.
E per me c’è soltanto
una legge che conta.
Ogni sofferenza è
male.
Può anche essere
necessaria, ma ciò non
modifica la sua natura
fondamentale.
Non vedo da dove
possa scaturire il bene
se non da questo male.
Come è possibile
costruirsi una
personalità migliore se
non sulle rovine della
vecchia? E le rovine
della povera giovane
capitata sulla sua
strada? E’ meglio che
soffra una volta nel
liberarsi di me,
piuttosto che…
Ammutolì. Ah.
Ne è proprio sicuro?
Charles non rispose.
Il medico stava
guardando la strada.
Lei ha commesso un
delitto.
E ne sarà punito
ricordandolo per tutta
la vita.
Quindi non si dia
ancora l’assoluzione.
Soltanto la morte
potrà dargliela.
Si tolse gli occhiali
e li pulì con un
fazzoletto di seta
verde.
Ci fu una lunga
pausa, lunghissima,
alla fine della quale
la sua voce, pur non
cessando di
rimproverare, era meno
severa.
Sposerà l’altra?
Charles emise un
metaforico sospiro di
sollievo.
Non appena aveva
visto entrare Grogan,
aveva capito che quello
che si era detto sinora
- di essere
indifferente al
giudizio di un semplice
medico di città
balneare - era falso.
C’era in
quell’irlandese
un’umanità che lui
rispettava moltissimo;
in un certo senso
Grogan rappresentava
tutto ciò che lui
rispettava.
Sapeva di non poter
aspettarsi una
remissione totale dei
peccati, ma gli bastava
aver compreso che non
avrebbe ricevuto una
scomunica totale.
E’ la mia più sincera
intenzione.
Ed essa lo sa? Glielo
ha detto? Sì.
E ovviamente ha
accettato la sua
offerta, no? Ho tutte
le ragioni per
crederlo.
Gli parlò della
commissione fatta da
Sam quel mattino.
L’omino si voltò a
guardarlo.
Io so, Smithson, che
lei non è un malvagio.
So che non avrebbe
fatto ciò che ha fatto
se non avesse prestato
fede alle ragioni con
cui la ragazza ha
spiegato il suo
singolare
comportamento.
Ma l’avverto che
rimane un dubbio.
E questo dubbio
getterà un’ombra su
tutta la protezione che
lei vorrà darle in
futuro.
Ho preso in
considerazione questa
ipotesi.
Charles arrischiò un
piccolo sorriso.
Come ho preso in
considerazione la nube
di offuscanti luoghi
comuni costituita dai
discorsi del nostro
sesso sulle donne.
Esse dovrebbero
starsene immobili come
tanti articoli in un
negozio e lasciare che
noi uomini entriamo, le
esaminiamo bene e
facciamo cadere la
nostra scelta sull’una
o sull’altra: QUESTA
incontra il mio gusto.
Se lo fanno, noi le
definiamo oneste,
rispettabili, pudiche.
Ma quando uno di
questi articoli ha
l’impertinenza di
parlare in proprio
favore…
Questa ragazza ha
fatto qualcosa di più,
mi pare.
Charles travolse
questa obiezione.
Ha fatto ciò che
nell’alta società è
quasi abituale.
Non capisco perché le
innumerevoli mogli del
nostro “milieu” che
violano i loro voti
nuziali debbano essere
assolte, mentre…
E poi la colpa è
soprattutto mia.
Lei non aveva fatto
altro che mandarmi il
suo indirizzo.
E io ero
perfettamente libero di
evitare le conseguenze
di una mia visita.
Il medico gli lanciò
un’occhiata silenziosa.
A questo punto doveva
riconoscere la sua
sincerità.
Tornò a guardare
verso la strada.
Lasciò passare
qualche secondo e
riprese a parlare,
stavolta con una voce e
un atteggiamento assai
più vicini a quelli dei
loro incontri
precedenti.
Forse sto
invecchiando.
E so che simili abusi
di fiducia stanno
diventando talmente
comuni che
scandalizzarsene
equivale a proclamarsi
un vecchio barbogio.
Ma voglio dirle ciò
che mi preoccupa.
Condivido il suo
disgusto per i luoghi
comuni, siano essi di
tipo religioso o
legale.
La legge mi è sempre
parsa molto ridicola, e
la religione ben poco
di meno.
Io non l’attacco per
questi motivi.
Mi limito
semplicemente a
esprimerle la mia
opinione.
E’ questa.
Lei è convinto di
appartenere a un’élite
razionale e
scientifica.
No, no, lo so che
cosa vuol dirmi, lei
non è così vanitoso.
Va bene.
Tuttavia lei vorrebbe
appartenere a questa
élite.
Non gliene faccio una
colpa. Anch’io ho avuto
lo stesso desiderio per
tutta la mia vita.
Ma la prego di
ricordare una cosa,
Smithson.
In tutta la storia
umana gli eletti sono
divenuti tali per
elezione.
E il tempo impone una
sola condizione.
Il medico si rimise
gli occhiali e si voltò
verso Charles.
Eccola.
Che l’eletto,
qualunque sia la
particolare ragione con
la quale sostiene la
fondatezza della
propria causa,
introduca in questo
buio mondo una moralità
più alta e più equa.
Se non supera questa
prova diventa
semplicemente un
despota, un sultano, un
individuo alla mera
ricerca del piacere e
del potere.
In una parola, una
mera vittima dei suoi
più spregevoli
desideri.
Penso che lei abbia
capito dove voglio
andare a parare, e la
particolare importanza
che ciò avrà per lei da
questa triste giornata
in poi.
Se lei diventerà un
essere umano migliore e
più generoso, potrà
essere perdonato.Se
diventerà invece più
egoista… sarà
doppiamente dannato.
Charles abbassò il
capo davanti a quegli
occhi esigenti.
Sia pure in termini
assai meno eloquenti,
la mia coscienza mi
aveva già detto tutte
queste cose.
Allora amen. “Alea
iacta est”.
Prese dalla tavola
cappella e borsa e
s’avviò verso la porta.
Ma qui giunto esitò,
poi gli porse la mano.
Vorrei che lei avesse
già iniziato a marciare
oltre il Rubicone.
Charles afferrò la
mano che gli era stata
offerta, come se stesse
annegando.
Cercò di dire
qualcosa, ma non ci
riuscì.
Ci fu un attimo di
maggior pressione delle
dita di Grogan, il
quale poi si voltò ad
aprire la porta.
Ma ancora si volse a
guardarlo con occhi
scintillanti.
E se non sarà partito
di qui entro un’ora,
tornerò con la più
grossa frusta che mi
riuscirà di trovare.
Charles s’irrigidì.
Ma lo scintillio
c’era ancora.
Charles soffocò un
sorriso doloroso e
chinò il capo in segno
d’assenso.
La porta si chiuse.
Egli rimase solo con
la sua medicina.
54.
“My wind is turned to
bitter north That was
so soft a south
before…” A. H. Clough,
“Poem” (1841).
“Il mio vento si è
mutato in rigida
tramontana / Mentre
prima era un dolce
scirocco…” [Nota del
Traduttore].

Per essere giusti con


Charles, si deve dire
che, prima di lasciare
il White Lion, mandò a
chiamare Sam.
Ma il servo non era
né nella sala comune né
nelle stalle.
Charles immaginava
dove potesse essere ma,
non potendo mandar lì
qualcuno, lasciò Lyme
senza più rivederlo.
Salì sulla sua
carrozza a quattro
ruote in cortile e tirò
subito le tendine.
Percorse così più di
due miglia come in un
carro funebre, prima di
riaprirle e di lasciare
che i raggi obliqui del
sole serale, erano
ormai le cinque
infatti, illuminassero
la vernice sbiadita e
l’imbottitura del
veicolo.
Ma ciò non migliorò
l’umore di Charles.
Che tuttavia a poco a
poco, quanto più si
allontanava da Lyme,
aveva la sensazione che
gli si togliesse un
peso dalle spalle:
aveva subito una
disfatta ma era ancora
vivo.
Accettava il monito
solenne di Grogan,
secondo il quale egli
avrebbe dovuto
trascorrere il resto
della vita a dimostrare
di aver agito
giustamente.
Ma tra i ricchi campi
verdi e le siepi della
campagna del Devon era
difficile non vedere un
futuro fertile: si
accingeva ad iniziare
una nuova vita, piena
di provocazioni che
avrebbe saputo
affrontare.
La colpa che aveva
commesso pareva quasi
benefica: espiandola
dava alla propria vita
uno scopo che sinora le
era mancato.
Gli venne in mente
un’immagine dell’antico
Egitto, una scultura
del British Museum: un
faraone e accanto la
moglie, la quale gli
teneva una mano intorno
alla vita e posava
l’altra sul suo
avambraccio.
A Charles era sempre
parsa un simbolo
perfetto dell’armonia
coniugale, anche perché
le statuette erano
state incise nello
stesso blocco di
pietra.
Lui e Sarah non erano
ancora armonicamente
scolpiti, ma facevano
parte della medesima
pietra.
Si mise allora a
pensare al futuro, ai
suoi problemi pratici.
Bisognava trovare per
Sarah una sistemazione
adatta a Londra.
Poi, appena sistemati
i suoi affari, venduta
la casa di Kensington e
depositata la sua roba,
sarebbero andati
all’estero… forse prima
in Germania, e di qui
nel sud per svernare a
Firenze o a Roma (se le
condizioni politiche lo
avrebbero permesso) o
se no in Spagna.
Granada! L’Alhambra!
Il chiaro di luna, e
sotto il suono lontano
del canto dei gitani,
con quegli occhi così
teneri, così grati… e
in una stanza profumata
di gelsomini sarebbero
rimasti svegli l’uno
nelle braccia
dell’altra,
infinitamente soli,
esuli, eppure fusi in
quella solitudine,
inseparabili in
quell’esilio.
Era caduta la notte.
Allungando il collo,
Charles vide le luci
distanti di Exeter.
Disse al cocchiere di
condurlo subito
all’Endicott’s Family
Hotel.
Poi s’appoggiò allo
schienale e si rallegrò
pensando a ciò che lo
attendeva.
Ovviamente non ci
sarebbero state
complicazioni di tipo
carnale: era il minimo
che potesse fare per
Ernestina oltre che per
Sarah.
Ma vedeva ancora una
volta l’immagine
squisita di un tenero
silenzio, le mani di
lei tra le sue…
Erano arrivati.
Dopo aver detto al
cocchiere di
aspettarlo, Charles
entrò nell’albergo e
andò a bussare alla
porta di Mistress
Endicott.
Oh, è lei, signore.
Miss Woodruff mi
aspetta.
Conosco la strada.
Già si stava avviando
verso le scale.
La signorina è
partita, signore!
Partita? Vuol dire che
è uscita? No, signore.
Voglio dire che è
partita.
Lui la guardò
debolmente.
Ha preso il treno del
mattino per Londra.
Ma io… ne è sicura?
Sicura come del fatto
che sono qui, signore.
L’ho sentita dire al
cocchiere di portarla
alla stazione
ferroviaria, signore.
Lui le ha chiesto a
quale treno e lei gli
ha risposto, preciso
come le sto parlando io
adesso: “Quello di
Londra”.
La vecchia si fece
avanti.
Anch’io sono rimasta
sorpresa, signore.
Aveva la camera
pagata per altri tre
giorni.
Ma non ha lasciato un
indirizzo? Neanche una
riga, signore.
E non mi ha detto
nemmeno dove andava.
Questo sgarbo
annullava chiaramente i
meriti che si era
conquistata non
chiedendo il rimborso
dei tre giorni.
Non mi ha lasciato
neanche un messaggio?
Ho ritenuto molto
probabile, signore, che
intendesse fuggire
proprio da lei.
E’ questo che mi sono
presa la libertà di
supporre.
Gli era diventato
impossibile restare
ancora lì.
Le do il mio
biglietto da visita.
Se avesse qualche
notizia… se potesse
informarmene.
Mi raccomando.
Eccole qualcosa per
il servizio e per la
posta.
Mistress Endicott
sorrise con
gratitudine.
Oh grazie, signore.
Non mancherò.
Charles uscì, ma
tornò immediatamente.
Stamattina non è
venuto un servo con una
lettera e un pacchetto
per Miss Woodruff?
Mistress Endicott lo
guardò sconcertata.
Poco dopo le otto.
Ancora la padrona non
seppe che cosa
rispondere.
Chiamò Betty Anne,
che arrivò e venne
sottoposta a un severo
interrogatorio…
finché Charles non si
congedò all’improvviso.
Tornò a sprofondarsi
nella carrozza e chiuse
gli occhi.
Si sentiva privo di
volontà, immerso in uno
stato d’abulia.
Se non fosse stato
così scrupoloso, se
fosse tornato da lei
subito dopo…
Ma Sam.
Sam! Un ladro! Una
spia! Si era lasciato
corrompere da Mister
Freeman? O era stato
spinto al delitto da un
banale risentimento per
quelle trecento
miserabili sterline?
Adesso Charles capiva
il loro colloquio di
Lyme.
Sam doveva aver
intuito che sarebbe
stato scoperto subito
dopo il loro ritorno a
Exeter; doveva quindi
aver letto la lettera…
Nel buio Charles
arrossì profondamente.
Se mai lo avesse
rivisto, gli avrebbe
rotto il collo.
Per un attimo prese
persino in
considerazione
l’ipotesi di recarsi al
commissariato e di
accusarlo di… be’,
almeno di furto.
Ma comprese subito
che sarebbe stato
inutile.
E a che gli avrebbe
giovato nella cosa più
importante: il
ritrovamento di Sarah?
Nella desolazione che
gli era piombata
addosso, vedeva
soltanto una luce.
Sarah era andata a
Londra e sapeva che lui
viveva a Londra.
Ma se era stata
spinta, come aveva
suggerito Grogan a suo
tempo, dall’intenzione
di bussare alla sua
porta, non avrebbe
fatto meglio a tornare
a Lyme dove immaginava
che lui fosse andato?
Ma egli non le aveva
forse attribuito
intenzioni del tutto
onorevoli? Non doveva
quindi aver pensato di
averlo perduto per
sempre? Quell’unica
luce tremolò e si
spense.
Quella sera fece una
cosa che non faceva più
da anni.
Si inginocchiò
accanto al letto a
pregare; e la sostanza
della preghiera era che
l’avrebbe trovata;
l’avrebbe trovata anche
a costo di cercarla per
il resto della sua
vita.

55.
“Sta sognando te!
esclamò Pizzichino,
battendo le mani con
aria di trionfo.
E quando smetterà di
sognarti, dove andrai a
finire? Dove sono
adesso, naturalmente
rispose Alice.
No, non è vero!
replicò Pizzichino in
tono sprezzante.
Non andrai a finire
in nessun posto, perché
tu sei soltanto una
specie di cosa nel suo
sogno! Se il re si
svegliasse aggiunse
Pizzichino tu
spariresti… bum!…
come la fiamma di una
candela! Niente
affatto! esclamò Alice
indignata.” Lewis
Carroll, “Alice nel
mondo dello specchio”
(1872). (1)

Charles arrivò alla


stazione il mattino
dopo ridicolmente in
anticipo, e dopo aver
provveduto
all’incombenza,
assolutamente indegna
di un gentiluomo, di
sovrintendere al carico
dei suoi bagagli nel
bagagliaio, si scelse
uno scompartimento
vuoto di prima classe e
si sedette aspettando
con impazienza che il
treno si mettesse in
moto.
Ogni tanto qualche
passeggero metteva
dentro la testa, ma
veniva respinto da
quello sguardo da
Gorgona (lo
scompartimento è
riservato ai non
lebbrosi) che gli
inglesi riescono così
spesso a produrre.
Si sentì un fischio e
Charles pensò di aver
conquistato quella
solitudine che tanto
desiderava.
Ma all’ultimo momento
comparve davanti al suo
finestrino un viso
abbondantemente
barbuto.
La sua gelida
occhiata incontrò
quella ancor più gelida
di un uomo impaziente
di salire a bordo.
Il nuovo arrivato
borbottò un: Mi scusi,
signore, e raggiunse
l’estremo opposto dello
scompartimento.
Poi si sedette.
Era un uomo sulla
quarantina con un
cilindro solidamente
sistemato sulla testa e
le mani sulle
ginocchia.
Stava cercando di
riprender fiato.
C’era in lui qualcosa
di aggressivamente
sicuro; forse non era
precisamente un
gentiluomo… ma un
maggiordomo ambizioso
(però i maggiordomi non
viaggiavano in prima
classe) o un
predicatore laico di
successo, uno di quei
bulli vaganti, un
aspirante Spurgeon (2)
che convertono anime
flagellandole con la
facile retorica della
dannazione eterna.
Un uomo insomma
decisamente sgradevole,
pensò Charles, e del
tutto tipico di
quell’epoca… e quindi
da snobbare
assolutamente se mai
avesse tentato di fare
conversazione.
Come accade a volte
quando si fissa di
nascosto una persona e
si fanno congetture su
di essa, Charles venne
colto sul fatto e ne fu
rimproverato.
Nella dura occhiata
obliqua che ricevette,
era chiaro l’invito a
rivolgere altrove il
proprio sguardo.
Charles quindi si
affrettò a guardare
fuori del finestrino, e
si consolò pensando che
se non altro
quell’individuo
rifuggiva quanto lui da
contatti più intimi.
Ben presto il
movimento uniforme
cullò Charles in una
dolce fantasia.
Londra era una grande
città, ma Sarah avrebbe
presto dovuto cercarsi
un lavoro.
Egli aveva tempo,
mezzi e volontà: poteva
trascorrere una
settimana, due, ma poi
se la sarebbe trovata
davanti; o forse
sarebbe scivolato nella
sua cassetta delle
lettere un altro
indirizzo.
Le ruote lo
ripetevano: non-può-
essere-così-crudele,
non-può-essere-
cosìcrudele, non-può-
essere-così-crudele…
Il treno percorreva
le rosse e verdi
vallate verso
Cullompton.
Charles ne vide la
chiesa, senza sapere
dove si trovava, e
subito dopo chiuse gli
occhi.
La notte prima aveva
dormito poco.
Per qualche tempo, il
suo compagno di viaggio
non si accorse che
Charles si era
addormentato.
Ma vedendo il suo
mento sprofondare
sempre di più - Charles
aveva preso la
precauzione di
togliersi il cappello -
l’uomo con la barba da
profeta cominciò a
fissarlo, sentendosi al
sicuro perché sapeva
che la sua curiosità
non sarebbe stata
sorpresa.
Era uno sguardo
strano: valutava,
rifletteva e anche
disapprovava, come se
sapesse benissimo che
razza di uomo aveva
davanti (nello stesso
modo in cui Charles
aveva creduto di aver
capito benissimo che
razza d’uomo era lui) e
non gli garbasse molto
far conoscenza con una
simile specie.
E’ vero che, quando
si sentiva inosservato,
appariva un po’ meno
freddo e autoritario,
ma restava nei suoi
lineamenti una
sgradevole esalazione
di fiducia in se
stesso; o se non
proprio in se stesso
nei suoi giudizi sugli
altri, su quanto poteva
cavarne, aspettarsene,
esigerne.
Un’occhiata di questo
tipo che fosse durata
un minuto o due sarebbe
stata spiegabile.
I viaggi in treno
sono noiosi; spiare un
estraneo è divertente;
eccetera eccetera.
Ma questa occhiata,
che per la sua
intensità divenne
decisamente
cannibalesca, durò ben
più di un minuto.
Durò fin oltre
Taunton, anche se qui
subì una breve
interruzione perché il
rumore sulla banchina
aveva svegliato Charles
per qualche secondo.
Quando però egli
ripiombò nel sonno, gli
occhi tornarono a
fissarsi su di lui,
ancora come delle
sanguisughe.
Anche a voi potrebbe
accadere un giorno di
trovarvi bersaglio di
un simile sguardo.
E, nel contesto meno
riservato del nostro
secolo, potrebbe
capitarvi di
accorgervene.
L’osservatore attento
non aspetterà che vi
siate addormentato.
E la sua occhiata vi
suggerirà probabilmente
qualcosa di spiacevole,
una specie di ambiguo
approccio sessuale… un
desiderio di conoscervi
come non desiderate che
vi conosca un estraneo.
Secondo la mia
esperienza, c’è
soltanto una
professione che dà
questo sguardo
particolare, con la sua
curiosa miscela di
inquisitorio e di
professorale, di ironia
e di adescamento.
Come potrei servirmi
di te? Cosa potrei fare
di te? E’ precisamente,
così almeno ho sempre
pensato, lo sguardo che
dovrebbe avere un dio
onnipotente, se davvero
esistesse una cosa
tanto assurda.
Non è per niente
quello che noi
intendiamo per sguardo
divino; ma uno sguardo
dalle caratteristiche
morali decisamente
meschine ed equivoche
(come hanno fatto
notare i teorici del
“nouveau roman”).
Vedo questo con
particolare chiarezza
sul viso, per me sin
troppo familiare, del
barbuto che sta
fissando Charles.
E cesserò subito di
conservare questa
finzione.
Ora la domanda che mi
sto rivolgendo mentre
guardo Charles non
corrisponde esattamente
alle due che ho citato
prima.
Ma è piuttosto: cosa
diavolo ne faccio di
te? Ho già pensato di
concludere qui e adesso
la sua carriera; di
abbandonarlo per
l’eternità sul treno
che lo porta a Londra.
Ma le convenzioni del
romanzo vittoriano non
lasciano, non
lasciavano, spazio per
un finale aperto che
non concluda; e per di
più ho già concionato
sulla libertà che
bisogna concedere ai
propri personaggi.
Il mio problema è
semplice: ciò che
Charles desidera è
chiaro? Effettivamente
lo è.
Ma non è altrettanto
chiaro che cosa
desideri la
protagonista; e io non
so tanto bene dove si
trovi in questo
momento.
Naturalmente se essi
fossero due frammenti
della vita reale,
anziché due invenzioni
della mia fantasia, lo
sbocco del dilemma
sarebbe ovvio: un
desiderio combatterebbe
l’altro desiderio, e
vincerebbe o
soccomberebbe a seconda
delle circostanze.
La narrativa di
solito finge di
conformarsi alla
realtà: lo scrittore
colloca i desideri in
conflitto su un ring e
descrive lo scontro; ma
di fatto è lui che lo
decide, lasciando
vincere il suo
desiderio favorito.
E noi giudichiamo i
narratori basandoci
sull’abilità che
dimostrano nel truccare
gli incontri (o in
altre parole nel
convincerci che non
erano già decisi in
partenza) e sul tipo di
combattente in favore
del quale li truccano:
il buono, il tragico,
il cattivo, il buffo,
eccetera.
Ma la giustificazione
maggiore del truccar
gli incontri è di
mostrare al lettore ciò
che si pensa del mondo
che ci circonda, se si
è un ottimista o un
pessimista: io ho finto
di risalire al 1867, ma
quella ovviamente è una
realtà passata da un
secolo.
Sarebbe futile
guardarla con ottimismo
o con pessimismo, o con
qualunque altro
atteggiamento del
genere, perché sappiamo
tutti che cosa è
avvenuto dopo.
Perciò continuo a
fissare Charles e non
vedo perché dovrei
truccare l’incontro che
egli sta per
affrontare.
Mi restano così due
alternative.
O lascio che
l’incontro continui
limitandomi alla parte
del resocontista, o
prendo le parti di
entrambi.
Ora guardo quel viso
un tantino sbiadito ma
non del tutto futile.
E mentre ci
avviciniamo a Londra,
credo di aver trovato
una soluzione: capisco
cioè che si tratta di
un falso dilemma.
La sola maniera per
non prendere partito in
una lotta è di
mostrarne due versioni.
A questo punto non ho
che un problema: non
posso fornire le due
versioni
contemporaneamente, e
tuttavia la seconda,
tanto è forte la
tirannide dell’ultimo
capitolo, sembrerà,
qualunque essa sia,
quella “reale” e
definitiva.
Prendo un fiorino
dalla tasca della
redingote, lo poso
sull’unghia del pollice
destro, lo lancio in
aria di un mezzo metro,
lo riagguanto con la
mano sinistra.
Così sia.
E all’improvviso mi
accorgo che Charles ha
aperto gli occhi e mi
sta guardando.
Ora nei suoi occhi
c’è qualcosa di più di
una semplice
disapprovazione;
capisce che devo essere
un giocatore o un
matto.
Contraccambio la sua
disapprovazione e
rimetto il fiorino
nella borsa.
Lui prende il
cappello, spazza via
con un gesto un
invisibile granello di
polvere (surrogato
della mia persona) e se
lo mette in testa.
Ci fermiamo sotto una
delle grandi travi di
ghisa che sostengono il
tetto della stazione di
Paddington.
Siamo arrivati e lui
scende sulla banchina
chiamando un facchino
con un cenno.
Qualche istante dopo,
impartite le sue
istruzioni, si volta.
Il barbuto è
scomparso tra la folla.

NOTE.
Nota 1.
Traduzione di Tommaso
Gigli, Rizzoli, Milano
1966. [Nota del
Traduttore].
Nota 2.
Charles Haddon
Spurgeon, celebre
predicatore battista
nell’Inghilterra
vittoriana. [Nota del
Traduttore].

56.
“Ah Christ, that it
were possible For one
short hour to see The
souls we loved, that
they might tell us What
and where they be”.
Tennyson, “Maud”
(1855).
“Oh, Cristo, se fosse
possibile / Vedere per
una breve ora / Le
anime che abbiamo
amato, e se esse
potessero dirci / Che
cosa e dove sono”.
[Nota del
Traduttore].
“Ufficio di indagini
private, con clientela
aristocratica, e sotto
la sola direzione di
Mister Pollaky.
Relazioni con le
polizie investigative
inglese e straniere.
INDAGINI DELICATE E
CONFIDENZIALI CONDOTTE
CON SEGRETEZZA E
RAPIDITA’ IN
INGHILTERRA, SUL
CONTINENTE E NELLE
COLONIE, REPERIMENTO DI
PROVE PER CASI DA
DISCUTERE NELLA CORTE
DEI DIVORZI, ECCETERA”.
“Pubblicità medio-
vittoriana”

“Poteva trascorrere
una settimana, due, ma
poi se la sarebbe
trovata davanti…”
Comincia la terza
settimana e lei non è
ancora comparsa.
Non per colpa di
Charles: egli è stato
qui, là, dappertutto.
Ha raggiunto una tale
ubiquità assumendo
quattro detective; non
so se fossero sotto la
sola direzione di
Mister Pollaky, ma
certamente lavoravano
duro.
Non potevano fare
altrimenti, perché
rappresentavano una
professione nuovissima,
esisteva solo da undici
anni, e oggetto del
disprezzo generale.
Un gentiluomo che nel
1866 aveva pugnalato a
morte uno di loro aveva
compiuto, a parere
unanime, una azione
rispettabilissima.
“Punch” aveva
avvertito: “Chi va in
giro truccato da boia
deve accettarne le
conseguenze”.
Gli uomini di Charles
avevano per prima cosa
provato, senza
successo, con le
agenzie di collocamento
per governanti; poi con
le organizzazioni
didattiche di tutte le
denominazioni
religiose.
Lui personalmente
aveva noleggiato una
carrozza e aveva
trascorso ore
infruttuose a
pattugliare, con due
occhi che scrutavano
intensamente ogni
giovane viso femminile
di passaggio, i
quartieri tra poveri e
signorili di Londra.
Sarah doveva
necessariamente
alloggiare in uno di
essi: a Peckham, a
Pentonville, a Putney;
in una dozzina di
questi quartieri di
strade nuove e linde e
di case con un solo
domestico egli svolse
le sue ricerche.
Aiutò inoltre i suoi
uomini a indagare nelle
nuove e fiorenti
agenzie di collocamento
per impiegate.
Esse mostravano già
con evidenza una
diffusa ostilità nei
confronti di Adamo,
dovendo subire l’urto
frontale dei pregiudizi
maschili, e sarebbero
diventate uno dei vivai
più importanti del
movimento di
emancipazione.
Credo che queste
esperienze, sebbene
infruttuose nell’unica
direzione che gli
interessava, non siano
state per Charles
completamente inutili.
A poco a poco
incominciò a
comprendere meglio uno
dei lati della
personalità di Sarah:
il suo risentimento di
fronte a una
prevenzione iniqua
perché rimediabile.
Una mattina
svegliandosi si sentì
molto depresso.
L’ipotesi spaventosa
della prostituzione,
quella sorte cui lei
stessa aveva un giorno
accennato, divenne una
certezza.
Quella sera si recò,
in preda al panico,
nella stessa zona
dell’Haymarket che
aveva visitato qualche
tempo prima.
Che cosa immaginasse
il cocchiere è
un’ipotesi che non
posso azzardare, ma
deve aver sicuramente
giudicato questo
cliente l’uomo più
schizzinoso che mai
fosse esistito.
Viaggiarono su e giù
per quelle strade per
due ore.
Si fermarono soltanto
una volta e il
cocchiere vide una
prostituta coi capelli
rossi appoggiata a un
lampione.
Ma quasi
immediatamente due
colpetti gli imposero
di rimettersi in
cammino.
Intanto si erano
precisate altre
conseguenze della sua
scelta.
La lettera che aveva
finito per scrivere a
Mister Freeman non
aveva ricevuto risposta
per dieci giorni.
Ma poi egli aveva
dovuto accusare
ricevuta di una
missiva, consegnata
minacciosamente a mano,
degli avvocati dello
stesso Freeman.
“Signore, ‘con
riferimento a Miss
Ernestina Freeman’
Siamo stati incaricati
da Mister Ernest
Freeman, padre della
succitata Miss
Ernestina Freeman, di
chiederLe di
presentarsi in questo
ufficio venerdì
prossimo alle 3.
La Sua assenza sarà
considerata un
riconoscimento del
diritto a procedere del
nostro cliente.
Aubrey & Baggott”

Charles portò la
lettera ai propri
avvocati, che si
occupavano degli affari
della famiglia Smithson
sin dal Diciottesimo
secolo.
L’attuale Montague
junior, di fronte al
quale sedeva ora tutto
imbarazzato il reo
confesso, aveva
soltanto pochi anni più
di Charles.
I due erano stati
insieme a Winchester e,
pur non essendo intimi
amici, si conoscevano
piuttosto bene e si
trovavano
reciprocamente
abbastanza simpatici.
Be’, cosa significa,
Harry? Significa, caro
il mio ragazzo, che hai
una fortuna del
diavolo.
Si sono presi paura.
Allora perché
vogliono vedermi? Non
puoi cavartela troppo a
buon mercato, Charles.
Sarebbe pretendere
troppo.
La mia ipotesi è che
ti chiederanno una
“confessio delicti”.
Un’ammissione di
colpevolezza? Appunto.
Ho paura che devi
aspettarti un documento
odioso.
Ma posso solo
consigliarti di
firmarlo.
Non hai scelta.

Quel venerdì
pomeriggio Charles e
Montague vennero
introdotti nella buia
sala d’attesa di uno
studio legale.
Charles aveva
l’impressione di
accingersi a un duello
e che Montague fosse il
suo secondo.
Li lasciarono lì ad
aspettare sino alle tre
e un quarto.
Ma poiché Montague
aveva previsto questa
penitenza preliminare,
la sopportarono con un
certo innervosito
divertimento.
Poi vennero
finalmente convocati.
Un vecchio piccolo e
irascibile si alzò in
piedi dietro una grande
scrivania.
Alle sue spalle c’era
Mister Freeman.
Aveva occhi soltanto
per Charles, ed erano
occhi freddissimi, tali
da dissipare qualsiasi
divertimento.
Charles si inchinò,
ma l’altro rimase
impassibile.
I due avvocati si
strinsero
sbrigativamente la
mano.
Era presente anche
una quinta persona: un
uomo alto, magro e
semicalvo con
penetranti occhi scuri,
alla cui vista Montague
trasalì
impercettibilmente.
Lei conosce il
“serjeant” Murphy?
Soltanto di fama.
Nel periodo
vittoriano un
“serjeant-at-law” era
un avvocato di grande
autorità; e il
“serjeant” Murphy era
un uomo micidiale, il
più temuto della sua
epoca.
Con un gesto
perentorio, Mister
Aubrey indicò le sedie
che i due visitatori
dovevano occupare e
tornò a sedersi.
Mister Freeman rimase
implacabilmente in
piedi.
Mister Aubrey
trafficò con le sue
carte dando così a
Charles il tempo di
assorbire la consueta
atmosfera intimidatoria
di questi luoghi: i
tomi eruditi, i rotoli
di pergamena legati con
nastri verdi, le
lugubri cartelle con
gli incartamenti dei
casi passati disposte
tutt’attorno fino a
grande altezza come le
urne in un
“colombarium”
sovraffollato.
Il vecchio avvocato
alzò severamente gli
occhi.
Ritengo, Mister
Montague, che i fatti
di questa abominevole
rottura di fidanzamento
non siano in
discussione.
Non so quale
spiegazione le abbia
dato il suo cliente per
il proprio
comportamento.
Ma ha egli stesso
fornito prove
abbondanti della
propria colpevolezza in
questa lettera a Mister
Freeman, nella quale
tuttavia noto che con
la consueta impudenza
di quelli della sua
risma, egli ha cercato
di…
Mister Aubrey, un
linguaggio simile in
questa occasione…
Intervenne
pesantemente il
“serjeant” Murphy.
Preferirebbe forse,
Mister Montague, udire
il linguaggio che
userei io in tribunale?
Montague prese fiato e
abbassò gli occhi.
Il vecchio Aubrey lo
stava guardando con
pesante
disapprovazione.
Montague, ho
conosciuto bene il suo
povero nonno.
E credo che ci
avrebbe pensato due
volte prima di
rappresentare un
cliente come questo…
Ma lasciamo perdere
per il momento.
Io considero questa
lettera… e la sollevò
come se l’avesse presa
con le molle… considero
che questa vergognosa
lettera aggiunga
l’insulto più
impertinente a una
offesa già in sé
grossolana, sia per il
suo svergognato
tentativo di
giustificazione, sia
per l’assenza completa
di qualsiasi allusione
al legame sordido e
criminale che, come il
suo autore sa
benissimo, è l’aspetto
più mostruoso del suo
crimine.
Fulminò Charles con
un’occhiata.
Lei ha forse creduto,
signore, che Mister
Freeman non fosse
pienamente informato
dei suoi amori.
Lei si sbaglia.
Noi conosciamo il
nome della femmina con
la quale ha intrecciato
una così spregevole
relazione.
E abbiamo un
testimonio di un
episodio che ritengo
troppo disgustoso per
riferirlo.
Charles arrossì.
Gli occhi di Mister
Freeman sembravano
trafiggerlo.
Poté soltanto
abbassare il capo e
maledire Sam.
Parlò Montague.
Il mio cliente non è
venuto qui per
difendere il suo
comportamento.
Allora lei non lo
difenderebbe in
tribunale? Un membro
così eminente della
nostra professione
dovrebbe sapere che non
posso rispondere a
questa domanda.
Intervenne di nuovo
il “serjeant” Murphy.
Non lo difenderebbe
se venisse citato in
giudizio? Con tutto il
rispetto, signore, su
questo problema devo
riservarmi il diritto
di giudicare.
Un sorriso volpino
deformò le labbra del
“serjeant-at-law”.
Non le si contesta
questo diritto, Mister
Montague.
Possiamo procedere,
Mister Aubrey? Aubrey
diede un’occhiata al
“serjeant” che assentì
con un arcigno cenno
del capo.
Non è questa
l’occasione, Mister
Montague, in cui le
consiglierei di contare
molto sulle parole del
suo difeso.
Trafficò ancora un
poco con le sue carte.
Sarò breve.
Il mio consiglio a
Mister Freeman è stato
preciso.
Nella mia lunga,
lunghissima esperienza,
questo è l’esempio più
ignominioso di
comportamento
spregevole che mi sia
capitato di conoscere.
Anche se il suo
cliente non meritasse
il severo giudizio che
senza alcun dubbio lo
colpirebbe, sono
fermamente convinto che
un così perfido modo
d’agire dovrebbe essere
additato quale monito
per tutti gli altri.
A questo punto fece
una lunga pausa, perché
le sue parole si
conficcassero a fondo
nell’animo degli
ascoltatori.
Charles avrebbe
voluto poter
controllare il sangue
delle sue guance.
Mister Freeman aveva
finalmente abbassato
gli occhi, ma il
“serjeant” Murphy
sapeva benissimo come
valersi di un teste che
arrossiva.
Assunse allora quella
che un giovane avvocato
suo ammiratore aveva
definito la sua
espressione da
basilisco, nella quale
prevalevano chiaramente
l’ironia e il sadismo.
Mister Aubrey riprese
in tono cupo Tuttavia,
per ragioni sulle quali
non intendo
diffondermi, Mister
Freeman ha voluto
mostrare una clemenza
che la situazione non
giustifica in alcun
modo.
A certe condizioni,
egli non pensa di
procedere
immediatamente.
Charles deglutì e
gettò un’occhiata a
Montague.
Penso che il mio
cliente sia grato al
suo.
Ho preparato, con un
prezioso consiglio…
Mister Aubrey
s’inchinò brevemente al
“serjeant” che rispose
con un cenno del capo
ma senza distogliere
gli occhi dal povero
Charles… un’ammissione
di colpevolezza.
Devo però informarla
che la decisione di
Mister Freeman di non
procedere
immediatamente dipende
in modo assoluto dal
fatto che il suo
cliente, in questa
occasione, alla nostra
presenza e con tutti
noi come testimoni,
firmi il documento.
Lo porse a Montague
che, dopo avergli dato
un’occhiata, alzò il
capo.
Posso chiedere di
discuterne privatamente
con il mio cliente per
cinque minuti? Mi
sorprende moltissimo
che lei ritenga
necessaria una
discussione.
Sbuffò un poco, ma
Montague tenne duro.
Va bene, va bene.
Se proprio deve.
Così Harry Montague e
Charles si ritrovarono
in quella funebre sala
d’attesa.
Montague lesse il
documento prima di
porgerlo freddamente a
Charles.
Be’, questa è la tua
medicina.
E tu devi prenderla,
caro il mio ragazzo.
E mentre Montague
guardava dalla
finestra, Charles lesse
l’ammissione di
colpevolezza:

Io, Charles Algernon


Henry Smithson, ammetto
pienamente, liberamente
e per nessun’altra
ragione che non sia il
mio desiderio di
proclamare la verità,
che 1.
Mi impegnai a sposare
Miss Ernestina Freeman;
2.
La parte innocente
(la detta Miss
Ernestina Freeman) non
mi diede alcuna ragione
per venir meno al mio
solenne impegno; 3.
Ero stato pienamente
ed esattamente
informato prima del
fidanzamento della sua
posizione sociale, del
suo carattere, della
sua dote e delle sue
prospettive future; e
nulla di ciò che
appresi in seguito
sulla suddetta Miss
Ernestina Freeman ha in
alcun modo contraddetto
o smentito ciò che mi
era stato riferito; 4.
Ho violato quel
contratto senza una
giusta causa o una
qualsiasi
giustificazione che non
sia il mio criminale
egoismo o la mia
slealtà; 5.
Ho iniziato una
relazione clandestina
con una persona di nome
Sarah Emily Woodruff,
residente a Lyme Regis
ed Exeter, e ho tentato
di nascondere questa
relazione; 6.
Il mio comportamento
in questa circostanza è
stato disonorevole e
con esso io ho
rinunciato per sempre
al diritto di essere
considerato un
gentiluomo.
Riconosco inoltre il
diritto della parte
lesa di procedere
contro di me “sine
die”, senza limiti di
tempo e senza
condizioni.
Riconosco inoltre che
la parte lesa può fare
l’uso che desidera di
questo documento.
Riconosco inoltre che
ho qui apposto la mia
firma di mia libera
volontà, con piena
consapevolezza delle
condizioni elencate, in
piena confessione del
mio comportamento,
senza alcuna
costrizione, per
nessuna considerazione
precedente o posteriore
e senza alcun diritto
di rettificarla,
respingerla, o
smentirla nei suoi
particolari ora e in
futuro nei termini
succitati.
Non hai niente da
dire? Credo che ci sia
stata una discussione
durante la stesura.
Nessun avvocato
avrebbe mai accolto con
favore la sesta
clausola.
Se si arrivasse in
tribunale, sarebbe
facile sostenere che un
gentiluomo, per quanto
sciocco sia stato il
suo comportamento, non
farebbe mai
un’ammissione simile se
non costrettovi.
Un avvocato potrebbe
cavarne molto.
E’ decisamente a
nostro favore.
Mi sorprende che
Aubrey e Murphy
l’abbiano approvata.
E sospetto che sia
una clausola di papà.
Vuole proprio che tu
faccia penitenza.
E’ spregevole. Per un
attimo diede l’idea di
voler fare a pezzi quel
foglio.
Montague glielo tolse
pacatamente di mano.
Alla legge non
interessa la verità.
Dovresti averlo
capito, ormai.
E questo “può fare
l’uso che desidera”,
cosa significa in nome
del cielo? Potrebbe
significare che vuol
pubblicare il documento
sul “Times”.
Mi sembra di
ricordare che sia già
stato fatto qualcosa di
simile alcuni anni fa.
Ma ho la sensazione
che Mister Freeman non
voglia dare molta
pubblicità alla cosa.
Se avesse voluto
metterti alla gogna, ti
avrebbe citato in
tribunale.
Quindi devo firmare..
Se vuoi, rientrando
potrei discutere perché
si usino frasi
differenti, una formula
insomma che ti lasci il
diritto, qualora si
arrivasse a un
processo, di invocare
le circostanze
attenuanti.
Ma ti consiglio
decisamente di non
farne nulla.
La durezza stessa del
documento così com’è
potrebbe essere la tua
carta migliore.
Conviene di più
pagare il loro prezzo.
Dopo di che, se
necessario, potremo
sempre sostenere che il
conto era un po’ troppo
salato.
Charles annuì e si
alzò.
C’è una cosa, Harry.
Vorrei sapere come
sta Ernestina.
Non posso
chiederglielo io.
Vedrò di scambiare
due parole con il
vecchio Aubrey.
Non è quel vecchio
barbogio che sembra.
Ha dovuto recitare
quella parte per far
contento il papà.
Dopo di che
rientrarono; e la
dichiarazione venne
firmata prima da
Charles, poi a turno
dagli altri.
Erano tutti in piedi.
Ci fu un momento di
imbarazzato silenzio.
Poi parlò Mister
Freeman.
E ora, furfante, non
s’intrometta più sul
mio cammino! Vorrei
essere più giovane.
Se…
Mio caro Mister
Freeman! La voce
tagliente del vecchio
Aubrey ridusse al
silenzio il suo
cliente.
Charles esitò un
attimo, s’inchinò ai
due avvocati e uscì
seguito dal proprio
legale.
Ma, appena fuori,
Montague gli disse:
Aspettami in carrozza.
Dopo un minuto o due
salì accanto a Charles.
Sta bene come ci si
può aspettare che stia.
Sono state queste le
sue parole.
Mi ha anche fatto
capire cosa intende
fare Freeman nel caso
che tu avessi ancora
progetti di matrimonio.
Mostrerà ciò che tu
hai firmato, Charles,
all’altro aspirante
suocero.
Vuole che tu rimanga
scapolo tutta la vita.
Lo avevo immaginato.
A proposito, il
vecchio Aubrey mi ha
anche detto a chi devi
questa libertà
provvisoria.
A lei? Avevo
immaginato anche
questo.
Freeman avrebbe
voluto la sua libbra di
carne.
Ma evidentemente in
quella casa è la
ragazza che comanda.
La carrozza percorse
un altro centinaio di
metri prima che Charles
parlasse.
Sono segnato e
insozzato per la vita.
Mio caro Charles, se
ti metti a fare il
musulmano in un mondo
di puritani, non puoi
certo aspettarti un
trattamento diverso.
Ho anch’io un debole
per un bel paio di
caviglie.
Non ti biasimo
quindi.
Ma non dirmi che non
ci è segnato sopra il
prezzo.
La carrozza
procedeva.
Charles fissava con
aria tetra la strada
assolata.
Vorrei essere morto.
Allora andiamo da
Verrey a demolire un
paio d’aragoste.
E prima di morire mi
racconterai tutto della
misteriosa Miss
Woodruff.
Quell’umiliante
colloquio depresse
Charles per alcuni
giorni.
Desiderava
disperatamente andare
all’estero e non
rimettere più piede in
Inghilterra.
Non era in condizioni
per farsi vedere nel
suo club o per
affrontare i suoi
conoscenti; diede
ordini severissimi: non
era in casa per
nessuno.
Si dedicò interamente
alla ricerca di Sarah.
Un giorno l’agenzia
investigativa tirò
fuori una Miss
Woodbury, appena
assunta da una scuola
femminile di Stoke
Newington.
Aveva i capelli
ramati e la sua
descrizione sembrava
corrispondere a quella
fornita da lui.
Un pomeriggio egli
trascorse un’ora
d’angoscia davanti alla
scuola.
Poi Miss Woodbury
uscì alla testa di una
fila di fanciulle.
Aveva con Sarah
soltanto una
somiglianza vaghissima.
Venne giugno, un
giugno eccezionalmente
bello.
Charles lo lasciò
finire, ma verso la
fine del mese
interruppe le ricerche.
L’agenzia
investigativa era
sempre ottimista, ma
bisognava tener conto
anche delle loro
tariffe.
Avevano setacciato
Exeter come Londra, e
avevano persino mandato
un uomo per svolgere
indagini discrete a
Lyme e a Charmouth:
tutto inutile.
Una sera Charles
invitò a cena Montague
nella sua casa di
Kensington, e si mise
francamente,
miserevolmente, nelle
sue mani.
Che cosa doveva fare?
Montague non esitò.
Doveva andare
all’estero.
Ma quali possono
essere state le sue
intenzioni? Darsi e poi
congedarmi come se io
non fossi stato niente
per lei.
La supposizione più
solida - scusami - è
che la verità sia
questa.
Non è possibile che
avesse ragione quel
medico? Sei sicuro che
non fosse stata spinta
dal desiderio di
vendicarsi
distruggendo? Di
rovinare le tue
prospettive… di ridurti
a quello che sei
adesso, Charles? Non
posso crederlo.
Ma “prima facie” tu
DEVI crederlo.
Di là da tutte le sue
bugie e i suoi inganni
c’era in lei un
candore… una sincerità.
Forse è morta.
Non aveva denaro.
Né famiglia.
Permettimi allora di
mandare un commesso al
Registro dello stato
civile.
Charles accolse
questo ragionevole
consiglio quasi come se
fosse stato un insulto.
Ma il giorno dopo lo
seguì e non trovò
nell’elenco dei defunti
nessuna Sarah Woodruff.
Indugiò ancora una
settimana.
Poi una sera decise
improvvisamente di
recarsi all’estero.

57.
“Each for himself is
still the rule: We
learn it when we go to
school The devil take
the hindmost, O!” A. H.
Clough, “Poem” (1849).
“Ognuno per sé è
ancora la regola /
L’abbiamo imparata
quando andavamo a
scuola - / W si salvi
chi può!” [Nota del
Traduttore].

E adesso facciamo un
salto di venti mesi.
E’ un frizzante
mattino di febbraio del
1869.
Nell’intervallo
Gladstone è finalmente
arrivato al numero 10
di Downing Street, e
avvenuta l’ultima
esecuzione capitale
pubblica nella storia
d’Inghilterra e stanno
per apparire
“Subjection of women”
di Mill e il Girton
College.
Il Tamigi ha il suo
solito infame colore
grigio-fango.
Ma il cielo è
beffardamente azzurro:
alzando gli occhi
sembra di essere a
Firenze.
Abbassandoli sul
nuovo lungofiume di
Chelsea, si vedono in
terra tracce di neve.
Ma c’è anche, forse
soltanto nel sole, un
primo vago
accenno di primavera.
“Iam ver…” Sono
convinto che la giovane
donna che mi sarebbe
piaciuto mostrarvi
nell’atto di spingere
una carrozzella (ma non
posso perché entrarono
in uso solo un decennio
dopo) non aveva mai
sentito parlare di
Catullo, e anche se ne
avesse sentito parlare
non avrebbe pensato
molto a tutto quello
che segue sull’amore
infelice.
La sua reazione alla
primavera era però la
stessa.
In fondo ha appena
abbandonato a casa (un
miglio più a ovest) il
frutto di una primavera
precedente, talmente
imbacuccato, con fasce,
bende e coperte che
sembrava proprio un
bulbo conficcato nel
terreno.
E’ anche evidente
che, per quanto riesca
a vestirsi con
eleganza, preferisce
come tutti i buoni
giardinieri che i suoi
bulbi vengano piantati
“en masse”.
C’è qualcosa nel
lento e pigro procedere
delle donne gravide: è
la meno offensiva delle
arroganze, ma è pur
sempre un’arroganza.
Questa giovane donna
sfaccendata e
sottilmente fiera si
appoggia al parapetto e
fissa per un momento
quel grigio fluire.
Guance rosa e
splendidi occhi con
ciglia color frumento,
occhi un pochino meno
azzurri del cielo che
la sovrasta, ma
altrettanto luminosi;
Londra non avrebbe mai
potuto generare una
cosa così pura.
Tuttavia quando si
volta e passa in
rassegna la fila di
case in mattoni, alcune
vecchie e altre nuove,
che s’affacciano sul
fiume dall’altra parte
della strada, è
evidentissimo che non
ha niente contro
Londra.
Il suo, quando
esamina quelle case di
benestanti, è un viso
privo d’invidia e
ingenuamente felice per
il fatto che esistono
cose tanto belle.
Arriva uno “hansom”
dal centro di Londra.
Gli occhi grigio-
azzurri lo guardano in
modo da far capire che
la spettatrice trova
ancora curiosi e
affascinanti questi
elementi così ovvi del
paesaggio londinese.
Lo “hansom” si ferma
davanti a una delle
grandi case di fronte.
Ne emerge una donna
che scende sul
marciapiede e cava una
moneta dalla borsetta.
La bocca della
ragazza sul lungofiume
si spalanca.
Un attimo di pallore
schiarisce il rosa
delle sue guance.
Poi la vediamo
arrossire.
Il cocchiere si tocca
con due dita la tesa
del cappello.
La sua cliente si
avvia rapidamente verso
il portone della casa.
La ragazza si sposta
sul ciglio del
marciapiede,
nascondendosi in parte
dietro un albero.
La donna apre il
portone e scompare
all’interno.
Era lei, Sam.
L’ho vista chiara
come il sole.
Non riesco a
crederci.
Ma sì che ci
riusciva; anzi un suo
sesto o settimo senso
se lo era quasi
aspettato.
Appena tornato a
Londra, era andato a
trovare Mistress
Rogers, la vecchia
cuoca, che gli aveva
fatto un resoconto
particolareggiato delle
ultime cupe settimane
di Charles a
Kensington.
Da allora era passato
molto tempo.
Esteriormente aveva
disapprovato anche lui
il comportamento del
loro ex padrone.
Ma internamente aveva
sentito smuoversi
qualcosa.
Un conto è essere uno
che combina matrimoni,
un conto essere uno che
li rompe.
Sam e Mary si stavano
fissando - un cupo
interrogativo negli
occhi di lei cui
corrispondeva un cupo
dubbio in quelli di lui
- in un salotto
minuscolo ma non troppo
male arredato.
Un fuoco allegro
crepitava nel
caminetto.
Mentre così si
interrogavano si aprì
la porta ed entrò una
minuscola cameriera,
una scialba ragazza di
quattordici anni, con
in braccio l’infante
ora in parte non più
fasciato: l’ultimo buon
prodotto, credo, che
sia mai uscito dal
Carslake’s Barn.
Immediatamente Sam
prese quel fagotto tra
le braccia, lo cullò e
lo fece strillare,
secondo il rituale
quasi immutabile dei
suoi rientri a casa.
Mary s’affrettò a
sottrargli il prezioso
fardello e sorrise allo
sciocco padre, mentre
dalla porta la piccola
scugnizza sorrideva con
simpatia ad entrambi.
Adesso possiamo
vedere chiaramente che
Mary è di nuovo incinta
di parecchi mesi.
Bene, amore, io adeso
vado un po’ a
dissetarmi.
Hai preparato la
cena, Harriet? Sì,
signore.
E’ pronta tra
mez’ora, signore.
Sei una brava ragaza.
A presto, amore.
E come se non avesse
altro a cui pensare,
baciò Mary sulla
guancia e solleticò le
costole del bebé.
Non sembrava più così
allegro quando, cinque
minuti dopo, si sedette
nell’angolo pieno di
segatura di un vicino
pub, con davanti un gin
e un bicchiere d’acqua
calda.
Apparentemente aveva
tutte le ragioni per
essere felice.
Non possedeva un
negozio, ma era
arrivato a un risultato
quasi altrettanto
soddisfacente.
Il primo bebé era
stato una femmina, ma
era convinto che si
sarebbe presto posto
rimedio a questa
delusione.
A Lyme Sam aveva
saputo giocare
benissimo le sue carte.
Zia Tranter si era
mostrata arrendevole
sin dall’inizio.
Con l’aiuto di Mary,
egli si era messo nelle
sue mani.
Non aveva forse
sacrificato tutte le
sue prospettive dando
coraggiosamente le
dimissioni? Non era
forse verità di vangelo
che Mister Charles gli
aveva promesso un
prestito di
quattrocento sterline
(chiedi sempre un
prezzo più alto del
dovuto) perché egli
potesse mettersi in
affari? Quali affari?
Gli stesi di Mister
Freeman, signora, solo
su scala molto, molto
umile.
E giocò ancor meglio
la carta Sarah.
Nei primissimi giorni
niente poteva indurlo a
tradire i colpevoli
segreti del suo ex
padrone; le sue labbra
erano sigillate.
Ma Mistress Tranter
era così gentile: il
colonnello Locke di
Jericho House stava
cercando un domestico e
la disoccupazione di
Sam durò pochissimo.
E così il suo
celibato; la cerimonia
che lo concluse venne
fatta a spese della
padrona della sposa.
Evidentemente doveva
dare qualcosa in
cambio.
Come tutte le vecchie
solitarie, zia Tranter
era perennemente alla
ricerca di persone da
adottare e da aiutare;
e non le si permetteva
di dimenticare che le
aspirazioni di Sam
erano nel campo della
merceria.
Così un giorno,
mentre era a Londra
ospite della sorella,
Mistress Tranter provò
ad accennare alla cosa
con il cognato.
La sua prima reazione
fu di scuotere il capo.
Ma poi gli fu
delicatamente ricordato
l’onorevole
comportamento del
giovane domestico; ed
egli sapeva meglio di
Mistress Tranter quanto
l’informazione di Sam
era stata e poteva
ancora essere utile.
E va bene, Ann.
Vedrò cosa posso
fare.
Forse c’è un posto
vacante.
Così Sam trovò una
sistemazione, molto
umile, nel grande
negozio.
Ma gli fu
sufficiente.
Supplì alle
deficienze della sua
istruzione con la sua
naturale intelligenza.
Le esperienze fatte
come domestico gli
risultarono preziose
nel trattare con i
clienti.
Vestiva in modo
eccellente.
E un giorno fece
qualcosa di più.
Era una splendida
mattinata d’aprile,
circa sei mesi dopo il
ritorno a Londra come
uomo sposato, ed
esattamente nove mesi
prima di quella sera in
cui l’abbiamo visto
così depresso nel
locale dove andava a
dissetarsi.
Mister Freeman aveva
deciso di andare a
piedi dalla casa di
Hyde Park al negozio.
Passò davanti alle
fitte vetrine e fece il
suo ingresso, dando
così il via a un grande
scattare, agitarsi e
inchinarsi del
personale del
pianterreno.
A quell’ora mattutina
i clienti erano ancora
pochi.
Mister Freeman si
tolse il cappello con
la consueta signorilità
ma poi, tra lo
sbalordimento generale,
si voltò di scatto e
tornò fuori.
L’innervosito
sovrintendente del
piano uscì subito anche
lui.
E vide il magnate
fermo a contemplare una
particolare vetrina.
Il sovrintendente si
sentì mancare il cuore,
ma sgusciò con
discrezione alle spalle
di Mister Freeman.
Un esperimento,
Mister Freeman.
La faccio smontare
subito.
Altri tre uomini si
fermarono lì accanto.
Mister Freeman gettò
loro una rapida
occhiata, poi prese
sotto braccio il suo
collaboratore e lo
condusse qualche passo
più in là.
Guardi bene, Mister
Simpson.
Rimasero lì circa
cinque minuti.
E in tutto questo
tempo la gente passava
davanti alle altre
vetrine per fermarsi
davanti a quella.
Alcuni, come già lo
stesso Mister Freeman,
ne venivano attratti
senza rendersene conto
e poi tornavano
indietro per guardarla.
Descrivendola temo di
darvi una delusione.
Ma per apprezzarne i
meriti, avreste dovuto
vedere le altre
vetrine, stipate in
modo monotono di
articoli con il loro
bravo cartellino.
E dovreste tener
presente che, a
differenza di quanto
accade nella nostra
epoca in cui il fior
fiore dell’umanità
dedica la propria vita
al gran dio Pubblicità,
i vittoriani credevano
all’assurda teoria
secondo la quale il
buon vino non ha
bisogno d’insegna.
Lo sfondo della
vetrina era puramente
un tessuto drappeggiato
color rosso scuro,
davanti al quale
fluttuava un
impressionante
campionario di colletti
per uomini di tutte le
forme, le dimensioni e
gli stili che si
potevano immaginare,
sorretti da sottili
fili metallici.
Ma la grande abilità
era d’averli disposti
in modo che formassero
parole.
Ed essi gridavano,
tuonavano anzi.
DA FREEMAN PER
SCEGLIERE.
Questa, Mister
Simpson, è la miglior
vetrina di quest’anno.
Esatto, Mister
Freeman.
Molto ardita.
Molto indovinata. “Da
Freeman per scegliere.”
E’ esattamente quello
che noi offriamo.
Se no, perché tenere
un magazzino così
fornito? “Da Freeman
per scegliere”…
splendido! Voglio che
da oggi questa frase
sia riprodotta su tutte
le nostre circolari e
sull’altro materiale
pubblicitario.
S’avviò nuovamente
verso l’ingresso.
Il sovrintendente
sorrise.
Lo dobbiamo
soprattutto a lei,
signore.
Si ricorda di quel
giovanotto, di quel
Mister Farrow, alla cui
assunzione lei si era
personalmente
interessato? Mister
Freeman si fermò.
Farrow…
Sam Farrow? Credo,
signore.
Lo porti da me.
E’ venuto qui alle
cinque per fare la
vetrina.
Così Sam si trovò
tutto intimidito a
faccia a faccia con il
grande uomo.
Un ottimo lavoro,
Farrow.
Sam s’inchinò
profondamente.
L’ho fato con estremo
piacere, signore.
Quanto prende Farrow,
Mister Simpson?
Venticinque scellini.
Ventisette scellini e
sei pence.
E si allontanò prima
che Sam potesse
esprimere la sua
gratitudine.
Ma il meglio doveva
ancora venire, perché
alla fine della
settimana, quando andò
a prendere la paga, gli
venne consegnata una
busta.
Conteneva tre sovrane
e un biglietto che
diceva: “Gratifica per
zelo e immaginazione”.
Adesso, solo nove
mesi dopo, il suo
salario era salito alle
altezze vertiginose di
trentadue scellini e
sei pence; ed egli
aveva il solido
sospetto che, divenuto
ormai un membro
indispensabile dello
staff dei vetrinisti,
ogni volta che avesse
chiesto un aumento lo
avrebbe avuto.
Sam ordinò un’altra,
ed eccezionale, dose di
gin e tornò a sedersi.
Ciò che lo rendeva
infelice - difetto
questo del quale i suoi
moderni discendenti nel
giro della pubblicità
sono riusciti a
liberarsi - era il
fatto che aveva una
coscienza… o forse, più
semplicemente,
considerava ingiuste la
propria felicità e la
propria fortuna.
Quello di Faust è un
mito archetipo per
l’uomo civilizzato e
non importa che la
scuola non gli avesse
neanche insegnato chi
era Faust: Sam era
sufficientemente
raffinato per aver
sentito parlare di
patti con il diavolo e
delle loro conseguenze.
Per un po’ uno se la
cavava benissimo, ma
poi il diavolo veniva
ad esigere ciò che gli
spettava.
La fortuna è un
maestro severo: stimola
l’immaginazione a
prevedere che possa
venir meno, in un modo
che è spesso
strettamente
proporzionale al
livello della sua
benevolenza.
Lo preoccupava
inoltre di non aver mai
raccontato a Mary ciò
che aveva fatto.
Non c’erano altri
segreti tra loro ed
egli si fidava del suo
giudizio.
Ogni tanto gli
tornava il desiderio di
essere padrone di se
stesso in un suo
negozio: non aveva
forse dato prova di
attitudini naturali? Ed
era Mary, con il suo
solido senso contadino
del campo più propizio
all’aratura, che
dolcemente - e un paio
di volte anche senza
eccessiva dolcezza - lo
rimandava a tirar la
carretta in Oxford
Street.
Anche se ciò non si
rifletteva ancora nel
loro accento e nel loro
lessico, queste due
persone si stavano
facendo strada e lo
sapevano.
Per Mary era come un
sogno.
Avere un marito che
guadagnava più di
trenta scellini la
settimana, quando suo
padre, il carrettiere,
non ne aveva mai presi
più di dieci! E vivere
in una casa che costava
d’affitto diciannove
sterline l’anno! E,
cosa ancora più
meravigliosa, aver
potuto di recente
convocare undici
creature inferiori per
un posto che lei stessa
aveva occupato solo due
anni prima! Perché
undici? Mary, temo,
riteneva che una parte
importante del ruolo di
padrona consistesse nel
mostrarsi di difficile
contentatura, errore
questo che aveva
appreso più dalla
nipote che dalla zia.
Inoltre aveva seguito
una procedura
tutt’altro che
inconsueta per le
giovani mogli con
mariti giovani e di
bell’aspetto.
Nella scelta di una
serva, aveva badato
pochissimo
all’intelligenza e
all’efficienza e
moltissimo alla totale
mancanza di attrattive.
Perciò quando
comunicò a Sam che
aveva finito per
offrire le sei sterline
annue ad Harriet perché
le faceva pena non era
del tutto una bugia.
Quando tornò a casa e
allo stufato di
montone, Sam, la sera
della doppia razione di
gin, cinse con un
braccio quella vita
ingrossata e ne baciò
la proprietaria; poi
abbassò gli occhi sulla
spilla che portava tra
i seni, da tenere
sempre in casa e da
togliere sempre quando
usciva ad evitare che
un ladro la
strangolasse per
impadronirsene.
Come va quela roba di
perle e corali? Mary
sorrise e l’alzò un
poco.
E’ contenta di
rivederti, Sam.
Poi rimasero lì a
fissare il simbolo
della loro fortuna;
sempre meritata, nel
caso di lei e ora
decisamente da pagare
in quello di lui.

58.
“I sought and sought.
But O her soul Has
not since thrown Upon
my own One beam! Yes,
see is gone, is gone”.
Hardy, “At a Seaside
Town in 1869”.
“Ho cercato e
cercato.
Ma ahimè la sua anima
/ Non ha più gettato da
allora / Sulla mia / Un
solo raggio! Sì, è
sparita, è sparita”.
[Nota del Traduttore].

E Charles? Ho pietà
di quel detective che
avesse dovuto pedinarlo
in quei venti mesi.
Quasi tutte le città
d’Europa lo videro, ma
raramente a lungo.
Lo avevano visto le
Piramidi e con esse la
Terra Santa.
Contemplò mille
panorami e mille
luoghi, perché passò
una parte del tempo
anche in Grecia e in
Sicilia, ma senza
vederli; erano soltanto
un muro sottile che si
frapponeva tra lui e il
nulla, una vacuità
estrema, una totale
assenza di scopi.
Ogni volta che si
fermava più di qualche
giorno, si sentiva
invadere da un letargo
e da una melanconia
intollerabili.
Divenne schiavo dei
viaggi come un
tossicomane del suo
oppio.
Di solito viaggiava
solo, o al massimo con
un dragomanno o un
servitore assunto sul
posto.
Ogni tanto
s’accompagnava con
altri viaggiatori e
sopportava per qualche
giorno la loro
compagnia; ma erano
quasi sempre francesi o
tedeschi.
Gli inglesi li
evitava come la peste;
una vera folla di
cordiali compatrioti fu
accolta, quando tentò
di accostarsi a lui, da
una doccia di
raggelante riserbo.
La paleontologia, ora
troppo emotivamente
legata agli avvenimenti
di quella fatale
primavera, aveva
cessato d’interessarlo.
Al momento di
chiudere la casa di
Kensington, aveva
autorizzato il Museo
geologico a prendersi
il meglio della sua
collezione, e il resto
lo aveva regalato a
vari studiosi.
I mobili li aveva
depositati in un
magazzino e Montague
aveva ricevuto l’ordine
di riaffittare la casa
di Belgravia, una volta
scaduto il contratto in
corso.
Charles non sarebbe
mai andato a viverci.
Leggeva molto e
teneva anche un diario,
ma era una cosa tutta
esteriore, piena di
luoghi e di aneddoti,
non di ciò che lui
pensava: puramente una
maniera di passare il
tempo nelle lunghe
serate trascorse in
caravanserragli e
“alberghi” (1) deserti.
Tentò di esprimere il
suo io più profondo
soltanto in poesia,
dopo aver scoperto in
Tennyson una grandezza
paragonabile a quella
di Darwin nel suo
campo.
Naturalmente la
grandezza che lui
vedeva nel Poeta
Laureato non era quella
che gli riconosceva la
sua epoca. “Maud”, un
poemetto allora quasi
unanimemente
disprezzato - in quanto
ritenuto indegno del
maestro - era il
preferito di Charles:
deve averlo letto tutto
una dozzina di volte, e
certe parti anche un
centinaio.
Era il solo libro che
si portava appresso
costantemente.
In confronto i suoi
versi erano deboli:
avrebbe preferito
morire piuttosto che
mostrarli a qualcun
altro.
Ma eccone un breve
saggio, tanto per
indicare come vedeva se
stesso durante
l’esilio.
“Oh, mari crudeli
percorro e aspre
montagne, O cento città
di lingua straniera,
Per me nient’altro che
dannata palude Sono i
bei paesaggi che in voi
contemplo.
Ovunque io vada
questo io chiedo alla
vita: Che mi condusse
qui? E che mi spinge a
partire? Nient’altro,
al meglio, che sfuggire
al disonore, O al
peggio conseguenza di
una legge di ferro?”

Per rifarvi la bocca,


permettetemi di citare
una poesia assai più
grande che Charles
aveva imparato a
memoria.
E’ una delle cose
sulle quali mi sarei
potuto trovare
d’accordo con lui; è
forse la lirica più
nobile dell’intera
epoca vittoriana.
“Yes: in the sea of
life enisl’d, With
echoing straits between
us thrown, Dotting the
shoreless watery wild,
We mortal millions live
ALONE.
The islands feel the
enclasping flow, And
then their endless
bounds they know.
But when the moon
their hollows lights
And they are swept by
balms of spring, And in
their glens, on starry
nights, The
nightingales divinely
sing; And lovely notes,
from shore to shore,
Across the sounds and
channels pour,

Oh then a longing
like despair Is to
their farthest caverns
sent; For surely once,
they feel, we were
Parts of a single
continent.
Now round us spreads
the watery plain Oh
might our marges meet
again!

Who order’d, that


their longing’s fire
Should be, as soon as
kindled, cool’d? Who
renders vain their deep
desire? A God, a God
their severance ruled;
And bade betwixt their
shores to be The
unplumb’d, salt,
estranging sea.” (2)

Comunque, nonostante
tutto questo cupo
vagliarsi, Charles non
concepì mai pensieri di
suicidio.
Quando aveva avuto la
grande visione di se
stesso libero dalla sua
epoca, dai suoi
antenati, dalla sua
classe e dal suo paese,
non si era reso conto
di quanto la libertà si
identificasse con
Sarah; con l’ipotesi di
un esilio a due.
Ora non credeva più
molto in questa
libertà: sentiva di
aver soltanto cambiato
trappola o prigione.
E tuttavia c’era
nell’isolamento
qualcosa cui poteva
aggrapparsi: egli era
il proscritto, l’uomo
diverso da tutti, il
risultato di una
decisione che col tempo
poteva rivelarsi
sciocca o saggia, ma
che pochi avrebbero
osato prendere.
Ogni tanto la vista
di una coppia di
sposini gli ricordava
Ernestina.
Scandagliava allora
il proprio animo.
Li invidiava o aveva
pietà di loro? Scoprì
così che, almeno in
questo senso, aveva
pochi rimpianti.
Per quanto amaro
fosse il suo destino,
era comunque più nobile
di quello che aveva
rifiutato.
Questi viaggi in
Europa e nel
Mediterraneo durarono
circa quindici mesi,
durante i quali non
tornò mai in
Inghilterra.
Non tenne
corrispondenza regolare
con nessuno; le sue
poche lettere erano
quasi tutte per
Montague e parlavano
d’affari o gli davano
istruzioni su dove
mandargli del denaro.
Montague era stato
inoltre autorizzato a
ripetere ogni tanto
un’inserzione sui
quotidiani londinesi:
Può Sarah Emily
Woodruff o chiunque
conosca il suo attuale
domicilio… ma non
ottenne mai risposta.
Sir Robert aveva
accolto male la notizia
della rottura del
fidanzamento quando gli
era stata comunicata
per lettera; ma poi,
sotto la dolce
influenza della sua
imminente felicità, se
n’era infischiato.
Charles era giovane,
perdiana, e avrebbe
certo trovato in
qualche altro posto una
ragazza come quella e
magari molto migliore;
così se non altro era
stata risparmiata a Sir
Robert l’imbarazzante
parentela con i
Freeman.
Il nipote, prima di
lasciare l’Inghilterra,
andò una volta a
rendere omaggio a
Mistress Bella Tomkins,
ma dopo che respinse la
rinnovata offerta della
Piccola Casa non provò
alcuna simpatia per lei
e commiserò lo zio.
Non parlò di Sarah.
Aveva promesso di
tornare per il
matrimonio, ma non gli
fu difficile mancare a
tale promessa
inventando un attacco
di malaria.
Non nacquero gemelli,
come lui aveva
immaginato, ma un
figlio ed erede fece
puntualmente la sua
comparsa nel
tredicesimo mese
dell’esilio di Charles.
A questo punto si era
troppo assuefatto al
suo destino per sentire
qualcosa di più, una
volta spedita una
lettera di
congratulazioni, della
decisione di non
mettere più piede a
Winsyatt.
Sul piano pratico non
rispettò sempre la sua
solitudine monacale -
era infatti notorio nei
migliori alberghi
d’Europa che i
gentiluomini inglesi
andavano all’estero per
correre la cavallina e
le occasioni erano
numerose - ma le rimase
fedele su quello
emotivo.
Eseguì (o deformò)
l’atto con una sorta di
muto cinismo, lo stesso
con il quale
contemplava gli antichi
templi greci o
consumava i suoi pasti.
Era una pura
questione d’igiene.
L’amore si era
congedato dal mondo.
A volte, in una
cattedrale o in una
galleria, sognava per
un attimo di avere
accanto Sarah.
Dopo di che lo si
vedeva scuotersi con un
lungo sospiro.
Non soltanto si
negava il lusso di una
vana nostalgia, ma era
sempre meno sicuro del
confine tra la vera
Sarah e quella che egli
stesso aveva creato in
tanti di questi sogni:
l’una Eva
personificata, tutta
mistero amore e
profondità, l’altra una
governante di un’oscura
cittadina sul mare,
metà intringante e metà
pazza.
Immaginò persino di
incontrarla ancora e di
non scorgere in lei che
la propria follia e la
propria illusione.
Non fece interrompere
la pubblicazione delle
inserzioni, ma
incominciò a pensare
che fosse un bene non
ottenere risposte.
Il suo maggior nemico
era la noia: e fu la
noia o, più
precisamente, una sera
a Parigi in cui si rese
conto di non aver più
voglia di rimanere lì o
di ripartire per
l’Italia o la Spagna o
qualsiasi altro paese
europeo, che lo indusse
infine a tornare a
casa.
Voi probabilmente
pensate che io alluda
all’Inghilterra; ma non
è così: essa non poteva
più essere la “casa” di
Charles anche se fu lì
che si recò per una
settimana appena
lasciata Parigi.
Ma gli era capitato
di viaggiare da Livorno
alla capitale francese
con due americani, un
anziano gentiluomo con
il nipote.
Venivano da
Filadelfia.
Forse per il piacere
di conversare con
qualcuno in una lingua
non del tutto
straniera, Charles li
trovò molto simpatici.
Certo quella rozza
passione turistica -
egli aveva fatto loro
da guida per le vie di
Avignone e li aveva
anche portati ad
ammirare Vézelay - era
assurda.
Ma era accompagnata
da una completa assenza
di affettazione.
Non avevano niente in
comune con quegli
stupidi Yankee che,
come piaceva supporre
agli inglesi, erano
universalmente diffusi
negli Stati.
La loro inferiorità
era esclusivamente
dovuta all’ignoranza
dell’Europa.
Il filadelfiano più
maturo era un uomo di
buone letture e un
saggio giudice dei suoi
simili.
Una sera dopo cena
intavolò con Charles -
il nipote si limitava
ad ascoltare - una
lunga discussione sui
meriti comparati della
madre patria e della
colonia ribelle; e le
critiche
dell’americano, sebbene
espresse in termini
cortesi, toccavano in
Charles una corda assai
sensibile.
Individuò, sotto
l’accento americano,
opinioni assai vicine
alle sue, e intuì
persino, seppure molto
vagamente e solo grazie
a un’analogia
darwiniana, che
l’America avrebbe
potuto un giorno
soppiantare la specie
più vecchia.
Non voglio dire,
ovviamente, che fosse
sua intenzione
emigrare, benché lo
facessero ogni anno
migliaia di inglesi di
una classe più povera.
La Canaan che essi
vedevano di là
dall’Atlantico
(incoraggiati da alcune
delle più spudorate
bugie dell’intera
storia della
pubblicità) non era
quella che sognava lui:
una terra abitata da un
tipo di gentiluomo più
serio e più semplice -
come questo
filadelfiano o il
nipote, così
simpaticamente attento
- inserito in una
società più semplice.
L’aveva riassunta,
con molta concisione,
quello stesso zio:
Laggiù in genere noi
diciamo quello che
pensiamo.
A Londra invece - mi
perdoni, Mister
Smithson - ho avuto
l’impressione che il
cielo vi aiuti se NON
dite quello che NON
PENSATE.
Non era solo questo.
Charles espose il suo
progetto a Montague una
sera che pranzavano
insieme a Londra.
Per quanto riguardava
l’America Montague era
tiepido.
Non credo, Charles,
che ci siano molte
persone frequentabili
per acro.
Non puoi offrirti
come ricettacolo a
tutta la plebaglia
europea e avere
contemporaneamente una
società civilizzata.
Suppongo tuttavia che
alcune delle città più
vecchie siano, a loro
modo, abbastanza
piacevoli.
Sorseggiò un po’ di
porto.
A proposito, è anche
possibile che ci sia
andata pure lei.
Forse ci avrai già
pensato.
Mi dicono che questi
piroscafi a basso
prezzo sono stipati di
giovani donne in cerca
di marito.
Ma s’affrettò ad
aggiungere: Non che
possa essere stata
questa la sua ragione,
naturalmente.
Non ci avevo pensato.
A dirti la verità,
non ho pensato molto a
lei in questi ultimi
mesi.
Ho rinunciato alla
speranza.
Allora va’ in America
e annega i tuoi
dispiaceri nel petto di
qualche incantevole
Pocahontas. (3) Sembra
che un gentiluomo
inglese di buoni natali
possa, se lo desidera,
fare la sua scelta tra
un mazzo di giovani
donne bellissime “pour
la dot comme pour la
figure.
Charles sorrise, ma
dobbiamo lasciar
decidere alla fantasia
del lettore se lo fece
perché pensava a quelle
giovani donne
doppiamente belle o
perché sapeva, anche se
ancora non ne aveva
informato Montague, di
aver già preso il
biglietto per la
traversata.
NOTE.
Nota 1.
In italiano nel
testo. [Nota del
Traduttore].
Nota 2.
Matthew Arnold, “To
Marguerite” (1853).
“Sì, isolati nel mare
della vita, / Con
stretti echeggianti
gettati tra noi, /
Disseminati nel deserto
d’acqua senza rive, /
Noi mortali viviamo
SOLI… / Le isole
sentono il flusso che
le cinge / E conoscono
i loro infiniti
confini. // Ma quando
la luna illumina le
loro cavità / Che
vengono spazzate dalle
aulenti brezze
primaverili, / E nelle
loro vallette, durante
le notti stellate, /
Cantano divinamente gli
usignoli; / E note
meravigliose, da una
riva all’altra, /
Fluiscono attraverso
stretti e canali, //
Oh, allora un gran
desiderio simile a
disperazione / Si
spinge sino alle grotte
più lontane; / Perché
un tempo pensano,
facevamo sicuramente /
Parte di un solo
continente. / Adesso
intorno a noi si
estende la pianura
d’acqua… / Oh,
potessero i nostri
bordi tornare a unirsi!
// Chi ha ordinato che
il fuoco del loro
desiderio / Dovesse
raffreddarsi appena
acceso? / Chi rende
vana la loro
aspirazione profonda? /
Un Dio, un Dio decise
la loro separazione / E
ingiunse che fra le
loro rive ci fosse / Il
mare inesplorato,
salato, straniante”.
[Nota del Traduttore].
Nota 3.
Pocahontas, figlia di
un capo indiano del
Seicento, divenne due
secoli dopo la popolare
eroina di una serie di
drammi accolti con
successo in America e
in Inghilterra.
E’ un simbolo di
bellezza pura disposta
a sacrificare ogni
cosa, se stessa
compresa, in nome di un
nobile amore. [Nota del
Traduttore].

59.
“Weary of myself, and
sick of asking What I
am, and what I ought to
be, At the vessel’s
prow I stand, which
bears me Forward,
forwards, o’er the
starlit sea”.
“Matthew Arnold,
“Self-Dependence”
(1854).
“Stanco di me stesso,
e nauseato dal chiedere
/ Che cosa sono, e cosa
dovrei essere, / Me ne
sto a prora della nave
che mi porta / Sempre
avanti, sul mare
illuminato dalle
stelle. [Nota del
Traduttore].
Non fu lieta la sua
traversata da
Liverpool.
Rimase spesso a tu
per tu con il catino, e
quando non aveva il mal
di mare passava la
maggior parte del tempo
a chiedersi perché mai
si era imbarcato per
l’altro primitivo capo
del mondo.
Forse fu meglio così.
Aveva immaginato che
Boston fosse un
miserabile coacervo di
baracche di legno, e la
realtà, in una mattina
di sole, di una città
di ricchi mattoni e di
bianche guglie di
legno, con un’unica
opulenta cupola dorata,
servì a rassicurarlo
piacevolmente.
Né Boston smentì in
seguito questa prima
impressione.
La stessa simpatia
che aveva sentito per i
due filadelfiani la
provò per la cortesia
mescolata a ingenuità
della buona società
locale.
Non fu proprio
festeggiato, ma una
settimana dopo il suo
arrivo le due o tre
presentazioni che si
era portato si erano
moltiplicate in sinceri
inviti in parecchie
case.
Lo invitarono a
frequentare
l’Athenaeum, e a
stringere nientemeno
che la mano di un
senatore, nonché la
zampa rugosa di un
personaggio ancora più
grande, sebbene meno
fragorosamente loquace:
il vecchio Nathaniel
Lodge che aveva udito
le cannonate di Bunker
Hill (1) dalla camera
della sua bambinaia in
Beacon Street.
Un terzo personaggio,
persino più grande del
precedente, con il
quale si potevano anche
scambiare chiacchiere
non molto interessanti
una volta avuta
l’occasione di
penetrare nella cerchia
dei Lowell a Cambridge
e che era personalmente
sulla soglia di una
decisione precisamente
all’opposto della sua
nei suoi motivi e nelle
sue predisposizioni,
come una nave che si
tende agli ormeggi in
una corrente contraria
e si arma per il suo
sinuoso e lossodromico
viaggio verso il porto
ricco ma melmoso di Rye
(ma non devo
scimmiottare il
maestro), Charles non
lo conobbe.
Benché avesse
coscienziosamente reso
omaggio alla culla
della libertà in
Faneuil Hall, (2)
incontrò anche qualche
ostilità, perché non
era stato ancora
perdonato alla Gran
Bretagna il suo recente
ambiguo comportamento
durante la guerra
civile ed esisteva uno
stereotipo di John Bull
grossolanamente
semplicistico come
quello di Zio Sam.
Era comunque
evidentissimo che
Charles non
corrispondeva a questo
stereotipo: dichiarava
di aver capito molto
bene quanto fosse stata
giusta la guerra
d’indipendenza e
ammirava Boston come
capitale della cultura
americana, del
movimento
antischiavistico e di
innumerevoli altre
cose.
Ascoltò con
sorridente sangue
freddo battutine
canzonatorie sul “tea-
party” (3) e le giubbe
rosse, e si guardò bene
dal mostrarsi
condiscendente.
Credo che due cose
gli fossero soprattutto
piaciute: la deliziosa
novità della natura,
nuove piante, nuovi
alberi, nuovi uccelli
e, come scoprì quando
attraversò il fiume che
portava il suo stesso
nome (4) per recarsi a
Harvard, nuovi
incantevoli fossili.
L’altra cosa che gli
piaceva erano gli
americani.
In un primo tempo,
forse, notò una certa
assenza delle sfumature
ironiche più sottili, e
dovette superare
qualche momento
imbarazzante quando
certe frasi pronunciate
con intenzioni argute
vennero prese alla
lettera.
Ma c’erano tali
compensi… la
franchezza, la
sincerità dei rapporti,
una simpatica curiosità
che s’accompagnava a
una schietta
ospitalità: un mondo
ingenuo, forse, ma con
un viso che sembrava
deliziosamente fresco
dopo l’imbellettata
cultura europea.
Questo viso assunse
ben presto un’impronta
decisamente femminile.
Il linguaggio delle
giovani americane era
molto più libero di
quello delle loro
contemporanee d’Europa:
il movimento per
l’emancipazione
esisteva di là
dall’Atlantico ormai da
vent’anni.
Charles giudicò molto
attraente la loro
impertinenza.
Questa attrazione era
contraccambiata perché
almeno Boston
riconosceva senza
difficoltà a Londra una
certa superiorità negli
aspetti più femminili
del gusto.
Egli avrebbe forse
potuto perdere la
testa, se non avesse
avuto sempre presente
il ricordo di
quell’orribile
documento che Mister
Freeman lo aveva
costretto a firmare.
Esso si frapponeva
tra lui e tutti i volti
di ragazze innocenti
che gli capitava di
vedere: soltanto un
viso avrebbe potuto
esorcizzarlo e
farglielo dimenticare.
Inoltre, in tanti di
questi visi americani,
scorgeva un’ombra di
Sarah, qualcosa della
sua forza provocatrice,
della sua franchezza.
In un certo senso
ravvivarono l’immagine
che si era fatto di
lei: era una donna
eccezionale che qui si
sarebbe trovata a casa
propria.
Di fatto pensava
sempre di più
all’ipotesi di
Montague: forse qui era
a casa propria.
Egli aveva trascorso
i quindici mesi
precedenti in paesi
dove, per le differenze
nazionali di aspetto e
di abbigliamento, solo
raramente aveva visto
ravvivare il suo
ricordo.
Qui invece si trovava
tra donne generalmente
di ceppo anglosassone o
irlandese.
Nei primi giorni, era
stato indotto a
fermarsi una dozzina di
volte da una certa
gradazione di capelli
ramati, da una maniera
sciolta di camminare,
da una figura.
Una volta, mentre si
dirigeva verso
l’Athenaeum passando
per il Common vide
davanti a sé una
ragazza su un sentiero
obliquo.
Era talmente sicuro
che attraversò il prato
a grandi passi.
Ma non era Sarah.
Ed egli fu costretto
a balbettare parole di
scusa.
L’indomani fece
un’inserzione su un
giornale di Boston.
E da allora, ovunque
andasse, le ripeteva.
Cadde la prima neve e
Charles si spostò più a
sud.
Visitò Manhattan che
gli piacque meno di
Boston.
Poi trascorse
quindici piacevolissimi
giorni con gli amici
conosciuti in Italia
nella loro città.
Non avrebbe certo
trovato giusta la
battuta divenuta famosa
qualche tempo dopo:
“Primo premio: una
settimana a Filadelfia;
secondo premio: due
settimane”.
Di lì si spinse
ancora più a sud:
Baltimora, Washington,
Richmond e Raleigh e la
gioia continua di una
nuova natura e di un
nuovo clima; di un
nuovo clima
meteorologico,
s’intende, perché il
clima politico - siamo
ormai nel dicembre 1868
- era tutt’altro che
piacevole.
Charles venne a
trovarsi in città
devastate e tra uomini
amareggiati, le vittime
della Ricostruzione;
mentre un presidente
disastroso, Andrew
Johnson, stava per
lasciare il posto a un
presidente
catastrofico, Ulysses
S. Grant.
Si accorse che stava
ridiventando inglese in
Virginia, anche se, per
un’ironia di cui non si
rendeva ben conto, gli
antenati dei
gentiluomini con i
quali conversava qui e
nelle Caroline nel 1775
erano stati
praticamente i soli
membri
dell’aristocrazia
coloniale ad appoggiare
la Rivoluzione.
Udì persino
chiacchiere
irresponsabili su una
nuova secessione e su
una riunificazione con
la Gran Bretagna.
Ma seppe passare
diplomaticamente illeso
tra tutte queste
afflizioni, senza
comprendere del tutto
che cosa stava
accadendo, ma intuendo
l’esotica vastità e
l’energia frustrata di
quella nazione divisa.
I suoi sentimenti
forse non erano molto
diversi da quelli di un
inglese negli Stati
Uniti di oggi: tante
cose ripugnanti e tante
cose buone; tanti
raggiri e tanta onestà;
tanta brutalità e
violenza e tante
preoccupazioni e sforzi
per una società
migliore.
Trascorse il mese di
gennaio nella
semidistrutta
Charleston e per la
prima volta cominciò a
chiedersi se era un
viaggiatore o un
emigrante.
Notò che nel suo
linguaggio si stavano
insinuando giri di
frase e inflessioni
americane; si sorprese
a prender partito, o
meglio a trovarsi
diviso come l’America
stessa, perché riteneva
giusto abolire la
schiavitù e nello
stesso tempo
simpatizzava con la
collera di quei sudisti
i quali sapevano
benissimo quale fosse
la vera ragione della
sollecitudine dei
“carpet-baggers” (5)
per l’emancipazione
negra.
Si trovava a proprio
agio tra quelle dolci
bellezze e quei
capitani o colonnelli
pieni di rancore, ma a
questo punto si ricordò
di Boston, guance più
rosa e anime più
bianche… o almeno più
puritane.
E capì che, in ultima
analisi, lì era stato
più felice; dopo di
che, come per provarlo
mediante un paradosso,
si spinse ancora più a
sud.
Non si annoiava più.
Forse ciò che
l’esperienza
dell’America, e in
particolare
dell’America di quegli
anni, gli aveva dato -
o restituito - era la
fede nella libertà; la
ferma decisione che
scorgeva intorno a sé -
per quanto dolorose
fossero le sue
conseguenze immediate -
di forgiare il destino
della nazione aveva un
effetto liberatore, non
certo opprimente.
Incominciò a capire
che il provincialismo,
spesso ridicolo, dei
suoi ospiti era
condizione determinante
della loro mancanza
d’ipocrisia.
Persino i sintomi sin
troppo numerosi di
un’irrequieta
insoddisfazione, la
tendenza a farsi
giustizia da sé
processo che trasforma
sempre il giudice in
boia - insomma la
violenza endemica
prodotta da una
costituzione infatuata
di “liberté”, trovavano
agli occhi di Charles
qualche
giustificazione.
Regnava in tutto il
Sud uno spirito
anarchico, che gli
sembrava tuttavia
preferibile al rigido e
ferreo regime del suo
paese.
Ma tutte queste cose
le diceva soltanto a se
stesso.
In una sera
tranquilla, mentre era
ancora a Charleston,
gli accadde di trovarsi
su un promontorio che
fronteggiava, a tremila
miglia di distanza,
l’Europa.
E qui scrisse una
poesia, migliore, sia
pure di poco, di quella
che già avete letto:

“Vennero qui a
cercare una verità
maggiore che non
concedano le antiche
chiome di Albione? C’è
una domanda nella loro
giovinezza che non
osammo porci sinora?

Io sono qui, estraneo


al loro clima eppur
vicino nei pensieri e
nei fini; mi sembra di
vedere in loro un’epoca
in cui affiora un uomo
più felice

e tutti quanti
saranno suoi fratelli…
un paradiso scolpito
in queste rocce di odio
e di perfidia iniqua.
Che cosa importa se
la madre deride

le mani deboli del


suo figlio infante? Che
cosa importa se oggi
egli cade purché
finisca per reggersi in
piedi e si stacchi
dalla cieca orbita
materna?

Un giorno infatti
percorrerà con orgoglio
il vasto calmo indaco
della sua terra e
volgerà a est e
benedirà l’ondata che
lo portò a salvarsi
sulla riva”.
E qui, tra le frasi
sonanti e le domande
retoriche e il “vasto
calmo indaco” che non è
poi del tutto male,
possiamo abbandonare
Charles per un
capoverso.
Erano passati quasi
tre mesi da quando Mary
gli aveva dato quella
notizia, e si era ormai
alla fine d’aprile.
Ma in
quell’intervallo la
fortuna aveva aumentato
il debito di Sam nei
suoi confronti dandogli
quel maschio che aveva
tanto desiderato.
Era domenica, una
serata piena di
boccioli verde-oro e di
campane di chiesa, con
piccoli tintinnii e
acciottolii a indicare
che da basso la sua
giovane moglie appena
alzatasi dal letto e la
di lei aiutante gli
stavano preparando la
cena; e mentre la bimba
si sforzava di
arrampicarsi sulle
ginocchia dove giaceva
il suo fratellino di
tre settimane, con i
suoi piccoli occhi
scuri che già facevano
la delizia di Sam
(“Ochi taglienti come
un rasoio, questo
scimioto), la cosa
accadde: da quegli
occhi qualcosa penetrò
nell’anima non
esattamente bostoniana
di Sam.
Due giorni dopo
Charles, che nelle sue
peregrinazioni si era
intanto spinto sino a
New Orleans, rientrò in
albergo dopo una
passeggiata nel Vieux
Carré.
Il portiere gli
consegnò un
cablogramma.
Diceva: L’ABBIAMO
TROVATA.
A LONDRA.
MONTAGUE.
Charles lesse e voltò
la testa.
Dopo tanto tempo,
dopo un così lungo
intervallo… fissava
senza vederla la strada
animata.
Per nessuna ragione,
senza alcuna
correlazione emotiva,
si sentiva bruciare gli
occhi di lacrime.
Uscì sulla veranda
dell’albergo e s’accese
un sigaretto.
Un paio di minuti
dopo tornò al banco del
portiere.
Può dirmi quando
salpa la prossima nave
per l’Europa?

NOTE.
Nota 1.
Sede, nel giugno 1775
di una battaglia vinta
dalle truppe
britanniche sulle forze
ribelli. [Nota del
Traduttore].
Nota 2.
Palazzo di Boston
dove durante il periodo
rivoluzionario erano
soliti riunirsi i
patrioti americani.
Per questo fu
chiamata “la culla
della libertà”. [Nota
del Traduttore].
Nota 3.
Allusione a un
episodio che precedette
l’inizio della guerra
d’indipendenza
americana: un gruppo di
bostoniani, travestiti
da indiani, gettarono a
mare il carico di tè di
tre navi inglesi. [Nota
del Traduttore].
Nota 4.
Si allude al Charles.
[Nota del Traduttore].
Nota 5. “Carpet-
baggets”
(letteralmente: gente
munita di valige di
stoffa) sono per
antonomasia gli
avventurieri
trasferitisi nel Sud al
termine della guerra
civile per approfittare
della confusione e
della corruzione del
governo a fini di
guadagno personale.
[Nota del Traduttore].

60.
“Lalage’s come; aye
Come is she now, O!”
Hardy, “Timing her”.
“Lalage è venuta; sì
/ E’ venuta adesso,
oh!” [Nota del
Traduttore].

Licenziò la vettura
al ponte.
Era l’ultimo giorno
di maggio, caldo,
opulento, le facciate
delle case seminascoste
dagli alberi, il cielo
per metà azzurro, per
metà increspato di nubi
bianche.
L’ombra di una di
queste calò per un
minuto su tutta
Chelsea, ma i magazzini
di là dal fiume erano
ancora illuminati dal
sole.Montague non
sapeva nulla.
L’informazione era
arrivata per posta: un
foglio di carta che
conteneva soltanto il
nome e l’indirizzo.
In piedi davanti alla
scrivania
dell’avvocato, Charles
ricordava l’altro
indirizzo che aveva
ricevuto da Sarah, ma
questo era scritto da
mano goffa e
scolastica.
Ricordava Sarah
soltanto nella brevità.
Eseguendo le
istruzioni mandategli
da.
Charles per
cablogramma, Montague
aveva agito con molta
cautela.
Non fece alcun
tentativo di accostarla
ed evitò di metterla in
allarme e di darle
quindi l’occasione per
una nuova fuga.
Un suo commesso fece
la parte del detective,
avendo in tasca la
descrizione fornita a
suo tempo ai veri
detective.
Riferì che una
giovane donna che
rispondeva a tale
descrizione risiedeva
di fatto a
quell’indirizzo e che
la persona in questione
si faceva chiamare
Mistress Roughwood.
Questa ingegnosa
trasposizione di
sillabe eliminò tutti i
dubbi superstiti
sull’esattezza
dell’informazione, ed
eliminò anche, dopo un
primo choc momentaneo,
le possibili
implicazioni del titolo
di Mistress.
Era abbastanza
abituale che le donne
nubili londinesi
ricorressero a questo
stratagemma, il quale
pertanto dimostrava
esattamente l’opposto
di ciò che poteva
apparire.
Sarah non si era
sposata.
Vedo che la lettera è
stata impostata a
Londra.
Non hai idea…
Dal momento che è
stata spedita qui, è
evidente che chi ce
l’ha mandata conosce le
nostre inserzioni.
Poiché era
indirizzata a te
personalmente, è anche
chiaro che questa
persona sa per chi
agiamo, ma nello stesso
tempo non sembra
interessata al premio
che abbiamo offerto.
In base a tutto
questo si può pensare
che la mittente sia la
signorina in persona.
Ma perché avrebbe
aspettato tanto a
rivelarsi? E poi non è
la sua scrittura.
Montague confessò
tacitamente la propria
perplessità.
Il tuo commesso non
ha avuto altre
informazioni? Ha
seguito la tue
istruzioni, Charles.
Gli ho proibito di
fare indagini.
Solo per caso gli è
capitato di trovarsi in
strada e di sentire un
vicino che le dava il
buon giorno.
E’ così che abbiamo
saputo il nome.
E la casa? Una
rispettabile dimora
familiare.
Sono state queste le
sue parole.
Allora è presumibile
che faccia la
governante.
Sembra molto
probabile.
Charles si era
voltato verso la
finestra, e fu meglio
così, perché la maniera
con la quale Montague
gli guardava la schiena
faceva pensare a una
certa mancanza di
franchezza.
Aveva proibito al
commesso di fare
domande, ma non aveva
proibito a se stesso di
interrogare il
commesso.
Hai intenzione di
vederla? Mio caro
Harry, non ho
attraversato
l’Atlantico…
Sorrise per scusarsi
del suo tono
esasperato.
Lo so cosa vuoi
chiedermi.
Ma non posso
risponderti.
Perdonami, ma è una
faccenda troppo
personale.
La verità è che non
so come la penso.
E non lo saprò,
credo, fin quando non
l’avrò rivista.
Tutto quello che so è
che… continua a
ossessionarmi.
Che DEVO parlare con
lei, devo, capisci?
Devi interrogare la
sfinge? Se vuoi
metterla in questi
termini.
Tieni a mente però
ciò che accadeva a chi
non riusciva a
risolvere l’enigma.
Charles fece una
smorfia triste.
Se l’alternativa è
tra il silenzio e la
morte, ti consiglio di
prepararti per
l’orazione funebre.
Ho l’impressione che
non sarà necessaria.
Poi avevano sorriso
entrambi.
Ma non sorrideva più
adesso che si stava
avvicinando alla casa
della sfinge.
Non conosceva questo
quartiere, sapeva
soltanto che era una
specie di surrogato di
Greenwich, un luogo
dove venivano a finire
i loro giorni gli ex
ufficiali di marina.
Il Tamigi dell’epoca
vittoriana era assai
più torbido di quello
di oggi; ogni sua onda
era orribilmente
impregnata di rifiuti.
Una volta il fetore
divenne talmente
insopportabile da
costringere la Camera
dei Lord a sospendere
la seduta; si
attribuivano a questo
le epidemie di colera e
una casa sul fiume non
aveva certo il
prestigio sociale che
ha nel nostro secolo
deodorato.
Ma nonostante questo
Charles vide subito che
le case erano piuttosto
belle: per quanto
pervertiti potessero
essere i suoi abitanti
nella scelta della
zona, chiaramente non
vi erano stati spinti
dalla miseria.
Finalmente, con un
tremito interno, con un
certo pallore e anche
con la sensazione di
commettere qualcosa di
spregevole - la sua
nuova personalità
americana era stata
spazzata via al
contatto con un
massiccio e ben
radicato passato ed ora
si rendeva conto con
imbarazzo di essere un
gentiluomo che si
accingeva a render
visita a una specie di
superserva - giunse al
cancello fatale.
Era di ferro battuto
e si apriva su un
piccolo viale che
conduceva a un’alta
casa in mattoni, quasi
interamente nascosta
sino al tetto da una
lussureggiante coltre
di glicini che proprio
allora incominciavano
ad aprire i loro primi
grappoli di fiori
azzurrini.
Alzò il battente
d’ottone e bussò due
volte; aspettò una
ventina di secondi e
bussò di nuovo.
Stavolta vennero ad
aprirgli.
Si trovò davanti una
cameriera.
Alle sue spalle
scorse un vasto salone,
con tanti quadri, tanti
da far sembrare quella
casa una galleria
d’arte.
Vorrei parlare con
Mistress…
Roughwood.
Credo che abiti qui.
La cameriera era una
giovane snella con
grandi occhi e senza la
solita cuffia di pizzo.
Di fatto, se non
avesse avuto il
grembiule, non sarebbe
stato possibile
riconoscerla come tale.
Il suo nome, per
favore? Notò che non
aveva detto “signore”.
Forse non era una
cameriera: il suo
accento era decisamente
superiore a quello di
una persona di
servizio.
Le diede un biglietto
da visita.
Le dica che ho fatto
molta strada per
vederla.
La ragazza lesse
spudoratamente il
biglietto.
Non era una
cameriera.
Parve esitare.
Ma in quel momento
giunse un rumore
dall’estremo opposto
del vestibolo.
Comparve su una porta
un uomo che doveva
avere sei o sette anni
più di Charles.
La ragazza si voltò
con sollievo verso di
lui.
Questo signore vuol
vedere Sarah.
Ah sì? Aveva una
penna in mano.
Charles si tolse il
cappello e parlò dalla
soglia.
Se vuol essere così
gentile…
E’ una questione
privata…
La conoscevo bene
prima che venisse a
Londra.
C’era qualcosa di
leggermente repellente
nello sguardo attento,
anche se molto rapido,
che l’uomo rivolse a
Charles: un’aria
vagamente ebraica, una
certa disinvolta
ostentazione nel
vestire, una lontana
eco di Disraeli
giovane.
Gettò un’occhiata
alla ragazza.
Sta forse…? Credo che
stiano solo
chiacchierando.
Si riferiva con ogni
probabilità ai bambini
affidati alle sue cure.
Allora conducilo di
sopra, mia cara.
Signore.
E con un piccolo
inchino sparì
bruscamente come era
apparso. La ragazza
fece segno a Charles di
seguirla, lasciandogli
implicitamente
l’incarico di chiudere
la porta.
Mentre lei cominciava
a salire le scale, egli
ebbe il tempo di dare
un’occhiata a quella
folla di quadri e di
disegni.
S’intendeva d’arte
moderna quanto bastava
per riconoscere la
scuola alla quale in
genere appartenevano, e
in particolare
l’artista celebrato e
famigerato il cui
monogramma era ben
visibile su molte di
queste opere.
Il furore che aveva
scatenato una ventina
d’anni prima si era
ormai placato; ciò che
allora era stato
ritenuto degno soltanto
delle fiamme aveva
adesso un suo prezzo.
Il gentiluomo con la
penna era un
collezionista d’arte,
sia pure di un’arte un
po’ sospetta, ma era
con eguale evidenza un
uomo piuttosto ricco.
Charles seguì la
snella schiena della
ragazza su per una
rampa di scale; ancora
quadri e ancora una
preponderanza di quella
scuola.
Ma ormai era troppo
ansioso per prestar
loro attenzione.
Mentre iniziavano la
seconda rampa, azzardò
una domanda.
Mistress Roughwood
lavora qui come
governante? La ragazza
si fermò a metà scala e
si voltò a guardarlo
con divertita sorpresa.
Poi abbassò il capo.
Non è più una
governante.
E per un attimo alzò
di nuovo gli occhi
verso di lui, prima di
rimettersi in cammino.
Giunsero a un secondo
pianerottolo.
La sua guida
sibillina arrivò
davanti a una porta e
si fermò.
Aspetti qui, per
favore.
Entrò nella stanza
lasciando l’uscio
socchiuso.
Da fuori Charles
scorse una finestra
aperta, una tendina di
pizzo leggermente
gonfiata dalla brezza
estiva e, attraverso le
foglie, il luccichio
del fiume.
C’era un sommesso
mormorio di voci.
Cambiò posizione per
vedere meglio.
Ora aveva davanti a
sé due uomini, due
gentiluomini.
Erano in piedi
davanti a un quadro
montato su un
cavalletto e disposto
obliquamente rispetto
alla finestra per
profittare della sua
luce.
Il più alto dei due
si chinò a esaminare
qualche particolare,
scoprendo così l’uomo
che stava alle sue
spalle.
Il caso volle che i
suoi occhi fossero
diretti verso la porta,
e quindi verso gli
occhi di Charles.
Fece un piccolissimo
inchino e lanciò
un’occhiata a una terza
persona che doveva
trovarsi nella zona
invisibile della
stanza.
Charles era
esterrefatto.
Quello infatti era un
viso che conosceva, un
viso che una volta
aveva addirittura
ascoltato per un’ora o
più con accanto
Ernestina.
Era impossibile,
eppure… e l’uomo da
basso! Quei quadri e
quei disegni! Si
affrettò a voltare la
testa e, come un uomo
che si sveglia non da
un incubo ma in un
incubo, guardò da
un’altra finestra
all’estremo opposto del
pianerottolo il verde
giardino sottostante.
Ma non vedeva nulla,
soltanto la follia
dell’aver supposto che
le donne cadute
dovessero continuare a
cadere…
Non era forse venuto
per fermare la legge di
gravità? Era sconvolto
come un uomo che si
guarda attorno e scopre
improvvisamente che il
mondo si è capovolto.
Un rumore.
Si voltò di scatto.
Sarah era lì,
appoggiata alla porta
che aveva appena
chiuso, con una mano
sulla maniglia
d’ottone, ed era
difficile vederla con
chiarezza data la
brusca scomparsa della
luce solare.
E il vestito! Era
talmente diverso che
per un attimo egli
pensò che non fosse
lei.
L’aveva sempre vista
nell’immaginazione con
gli abiti di un tempo,
un volto tormentato
sopra un nero vedovile.
Ma adesso aveva
davanti una creatura
che indossava
l’uniforme della Nuova
Donna, rifiutando
clamorosamente tutte le
idee ufficiali del
tempo sulla moda
femminile.
La gonna era di un
ricco azzurro scuro ed
era fermata alla vita
da una cintura cremisi
con una fibbia dorata a
forma di stelle; essa
racchiudeva anche la
camicetta di seta a
strisce bianche e rosa,
con maniche lunghe e
ampie, un delicato
collettino di pizzo
bianco e un piccolo
cammeo come fermaglio.
I capelli sciolti
erano trattenuti da un
nastro rosso.
Questa apparizione
eccitante e bohémienne
suggerì a Charles due
considerazioni
immediate: la prima era
che Sarah non sembrava
invecchiata ma
ringiovanita di due
anni; la seconda che,
per qualche
incomprensibile
sortilegio, egli non
era sbarcato in
Inghilterra ma era
tornato direttamente in
America.
Perché laggiù tante
ragazze eleganti si
vestivano così durante
il giorno.
Avevano capito
l’assennatezza di
questi indumenti, la
loro semplicità e il
loro fascino dopo la
schiavitù dei busti,
dei guardinfanti e
delle crinoline.
Negli Stati Uniti
questo stile, che
preannunciava in modo
sornione e
paradossalmente
civettuolo anche altre
forme di emancipazione,
era parso a Charles
decisamente
incantevole; adesso
invece, anche perché
s’accompagnava a tanti
nuovi sospetti, le sue
guance assunsero un
colore non molto
diverso dal rosa dianto
delle strisce di quella
camicetta.
Ma a questo trauma -
che cos’era adesso, che
cos’era diventata!
s’oppose un’ondata
impetuosa di sollievo.
Quegli occhi, quella
bocca,
quell’atteggiamento di
eterna implicita sfida…
c’erano ancora.
Era sempre la
creatura eccezionale
dei suoi ricordi più
lieti, ma fiorita,
maturata, sbocciata
dalla nera crisalide.
Per dieci lunghi
secondi non si dissero
nulla.
Poi Sarah strinse
nervosamente le mani
sulla fibbia dorata e
abbassò gli occhi.
Come è arrivato qui,
Mister Smithson? Non
era stata dunque lei a
mandare l’indirizzo.
Non gli era grata.
Charles non ricordava
che era la stessa
domanda che le aveva un
giorno rivolta quando
gli era piombata
addosso all’improvviso;
capiva però che le loro
posizioni si erano
curiosamente
rovesciate.
Era lui adesso a
supplicare mentre Sarah
lo ascoltava con
riluttanza.
Il mio avvocato ha
saputo che lei vive
qui.
Non so da chi.
Il suo avvocato? Non
sapeva che ho rotto il
fidanzamento con Miss
Freeman? Ora toccò a
lei turbarsi.
I suoi occhi
scandagliarono a lungo
quelli di lui, poi si
abbassarono.
Non lo sapeva.
Charles si avvicinò
di un passo e parlò con
voce sommessa.
Ho frugato in tutti
gli angoli della città.
Ho messo ogni mese
delle inserzioni nella
speranza di…
Adesso entrambi
guardavano il terreno
che li separava, il bel
tappeto turco che
ricopriva il
pianerottolo in tutta
la sua lunghezza.
Egli cercò di parlare
con voce più normale.
Vedo che è…
Non trovò le parole,
ma voleva dire
“completamente
cambiata”.
La vita è stata
generosa con me disse
Sarah.
Quel signore lì
dentro… non è…? Essa
annuì a quel nome
presente nei suoi occhi
ancora increduli.
E questa casa
appartiene a…
Il suo tono era
talmente accusatorio
che Sarah trasse un
breve respiro.
Riaffioravano nella
mente di Charles
pettegolezzi ascoltati
con indifferenza.
Non sull’uomo che
aveva visto in quella
stanza ma su quello che
aveva incontrato da
basso.
Senza preavviso,
Sarah si avviò verso la
scala.
Charles sembrava
paralizzato.
Saliti i primi
gradini, lei lo guardò
esitando un poco.
Venga, per favore.
La seguì per le scale
e la vide entrare in
una stanza esposta a
nord e affacciata su un
grande giardino.
Era uno studio
d’artista.
Su un tavolino
accanto alla porta
erano sparpagliati dei
disegni; su un
cavalletto un olio
appena iniziato, un
semplice schizzo; una
giovane donna triste
con il capo chino;
lungo la parete altre
tele voltate; su
un’altra parete una
fila di ganci ai quali
era appeso un
campionario multicolore
di abiti femminili, di
sciarpe e di scialli;
un grande vaso in
ceramica; tavolini
pieni di tubetti,
pennelli, vasetti di
colore.
Un “bas relief”,
qualche statuetta, un
vaso con dei giunchi.
Si aveva
l’impressione che non
ci fosse spazio, per
quanto piccolo, senza
un suo oggetto.
Sarah stava alla
finestra volgendogli la
schiena.
Sono la sua
amanuense.
La sua assistente.
Gli fa anche da
modella? Qualche volta.
Vedo.
In realtà non vedeva
nulla, o meglio vedeva
con la coda dell’occhio
uno schizzo su un
tavolino accanto alla
porta.
Era un nudo
femminile, o meglio una
donna nuda dalla vita
in su che teneva
un’anfora sul fianco.
Il viso non gli
sembrava quello di
Sarah, ma l’angolazione
era tale che non poteva
esserne certo.
E vive qui da quando
ha lasciato Exeter?
Vivo qui da un anno.
Oh, se avesse potuto
chiederle come si erano
incontrati! Secondo
quali accordi vivevano?
Esitò, poi posò
cappello, bastone e
guanti su una sedia
vicino alla porta.
Ora vedeva i capelli
di lei in tutta la loro
ricchezza, lunghi sin
quasi alla vita.
Sembrava più piccola
di come se la
ricordava, e anche più
leggera.
Un piccione svolazzò
e andò a posarsi sul
davanzale davanti a
Sarah, poi si spaventò
e volò via.
Da basso si aprì e si
chiuse una porta.
Si udì un debole
suono di voci maschili
che scendevano le
scale.
La stanza li
separava.
Tutto li separava.
Il silenzio divenne
insopportabile.
Era venuto per
sollevarla dalla
miseria, da un povero
posto in una povera
casa.
Con tutta la sua
armatura e pronto a
uccidere il drago, e
invece la damigella
aveva infranto tutte le
regole.
Niente catene, niente
singhiozzi, niente mani
imploranti.
Era come un uomo che
arriva in frack a una
“soirée” e ha il
sospetto che si tratti
di un ballo mascherato.
Sa che non è sposata?
Passo per una vedova.
La sua domanda
successiva fu molto
goffa, ma ormai non
aveva più tatto.
Non è morta sua
moglie? Sì, è morta.
Ma non nel suo cuore.
Non si è più
risposato? Vive in
questa casa con il
fratello.
Dopo di che aggiunse
il nome di una terza
persona che abitava lì,
come per suggerire che
i malcelati timori di
Charles, tenuto conto
dell’alta popolazione,
erano infondati.
Ma il nome che aveva
aggiunto era quello più
atto a irrigidire nella
disapprovazione
qualsiasi rispettabile
vittoriano di quegli
anni.
L’orrore evocato
dalla sua poesia era
stato espresso
pubblicamente da John
Morlies, uno di quei
valentuomini che
nascono per diventare i
portavoce (cioè le
vuote facciate) della
loro epoca.
Charles ricordò la
frase quintessenziale
della sua condanna: “il
libidinoso laureato di
una muta di satiri”.
E il padrone di casa!
Non si diceva forse che
prendeva l’oppio? Gli
balenò alla mente
l’immagine di un
orgiastico “ménage à
quatre” - “à cinq”,
contando anche la
ragazza che era venuta
ad aprirgli.
Ma non c’era niente
d’orgiastico
nell’aspetto di Sarah:
anzi la citazione del
poeta come referenza
faceva pensare a una
certa ingenuità; e cosa
avrebbe fatto del resto
in un antro di iniquità
il famoso critico e
conferenziere
intravisto attraverso
la porta, uomo certo di
idee un po’ spinte ma
largamente rispettato e
ammirato? Sto dando
troppo rilievo alla
parte bigotta e
vittoriana della mente
di Charles; il meglio
della sua persona,
quello che gli aveva
permesso di scorgere
immediatamente, di là
dalle malignità di
Lyme, la vera natura di
Sarah, si batteva
tenacemente per
dissipare questi
sospetti.
Cominciò a spiegarsi
con voce pacata; e
nella sua mente
un’altra voce malediva
questo tono affettato,
questa barriera che gli
impediva di parlare dei
suoi innumerevoli
giorni di solitudine,
delle sue notti di
solitudine, con accanto
e sopra e davanti lo
spirito di lei…
E lacrime… ed egli
non sapeva come parlare
delle lacrime.
Le raccontò ciò che
era accaduto quella
notte a Exeter.
La sua decisione e il
madornale tradimento di
Sam.
Aveva sperato che si
voltasse.
Ma rimaneva a fissare
la verzura del giardino
nascondendogli il viso.
Laggiù in qual che
punto stavano giocando
dei bimbi.
Charles tacque e le
si avvicinò.
Ciò che le dico non
significa niente per
lei? Significa
moltissimo.
Tanto che io…
La supplico di
continuare disse lui
dolcemente.
Non trovo le parole.
E si scostò come se
non potesse guardarlo
quando le stava vicino.
Osò farlo solo quando
arrivò accanto al
cavalletto.
Non so cosa dire
mormorò.
Ma lo disse senza
emozione, senza quella
nascente gratitudine
che egli così
disperatamente cercava;
soltanto, se vogliamo
essere crudelmente
sinceri, con una
sconcertata semplicità.
Mi aveva detto di
amarmi.
Mi ha dato la più
grande prova che può
dare una donna del
fatto che… che quello
che sentivamo l’uno per
l’altra non era solo
una normale simpatia o
una reciproca
attrazione.
Non lo nego.
C’era negli occhi di
Charles un lampo di
risentimento ferito che
la costrinse ad
abbassare il capo.
Si instaurò di nuovo
il silenzio e fu
Charles che ora andò
alla finestra.
Lei però ha trovato
affetti più nuovi e
pressanti.
Credevo di non
vederla mai più.
Non è una risposta a
quello che le ho
chiesto.
Ho proibito a me
stessa di rimpiangere
l’impossibile.
Non è ancora…
Non sono la SUA
amante, Mister
Smithson.
Se lei lo conoscesse,
se conoscesse la
tragedia della sua… non
potrebbe neanche per un
momento essere tanto…
Ammutolì.
Charles aveva
esagerato e ora stava
lì con le nocche
sbiancate e le guance
rosse.
Un’altra pausa; poi
lei disse con voce
uniforme: Ho
effettivamente trovato
nuovi affetti.
Ma non del tipo che
lei pensa.
Allora non so come
spiegare il suo
evidentissimo imbarazzo
nel rivedermi.
Non ottenne risposta.
Anche se posso
benissimo ammettere che
lei oggi ha… amici
assai più interessanti
e divertenti di quanto
io potrei mai
pretendere di essere.
Ma s’affrettò ad
aggiungere: Mi
costringe a esprimermi
in un modo che aborro.
Anche stavolta Sarah
non disse nulla.
Egli le sorrise
amaramente.
Ora capisco.
Sono io adesso il
misantropo.
Questa sincerità finì
per giovargli.
Sarah gli lanciò una
rapida occhiata non
priva di
preoccupazione.
Esitò un attimo, poi
prese una decisione.
Non intendevo ridurla
a questo.
Credevo di agire per
il meglio.
Avevo abusato della
sua fiducia e della sua
generosità.
Mi ero, ma sì,
buttata tra le sue
braccia e le avevo
imposto la mia presenza
sapendo benissimo che
aveva altri obblighi.
Ero una folle a quel
tempo.
E non lo capii
chiaramente se non quel
giorno a Exeter.
Le cose peggiori che
lei pensava allora di
me non erano altro che
la verità.
Fece una pausa.
Da allora ho visto
artisti distruggere
opere che all’amatore
possono sembrare
perfettamente riuscite.
Ho protestato una
volta.
Mi hanno detto che un
artista non è tale se
non è il più severo
giudice di se stesso.
Credo che sia vero.
Credo di aver fatto
bene a distruggere quel
che era cominciato tra
noi.
C’era una falsità,
una…
Non per colpa mia.
No, non per colpa
sua.
Fece una pausa, poi
riprese in un tono più
dolce: Mister Smithson,
mi ha colpita di
recente una frase di
Mister Ruskin.
Scriveva di
un’inconsistenza della
concezione.
Intendeva dire che il
naturale era stato
adulterato
dall’artificiale, il
puro dall’impuro.
Credo sia questo che
ci è accaduto due anni
fa.
Poi disse con voce
più sommessa: E so fin
troppo bene sino a che
punto vi ho
contribuito.
Charles provò
nuovamente la
sensazione di
riscontrare in lei una
curiosa presunzione di
eguaglianza
intellettuale.
Comprese anche ciò
che c’era sempre stato
di discordante nei loro
rapporti:
l’affettazione del suo
linguaggio - che aveva
raggiunto la sua
peggiore espressione
nella lettera d’amore
mai arrivata a Sarah e
la franchezza di quello
di lei.
Due linguaggi, uno
dei quali tradiva una
vacuità, un’assurda
costrizione -
un’artificiosità di
idee, come aveva detto
lei - e l’altro
esprimeva una sostanza
e una purezza di
pensiero e di giudizio;
la differenza, diciamo,
tra un semplice
frontespizio e certe
pagine decorate da Noel
Humphreys, tutte
ghirigori,
elaborazione, orrore
rococò del vuoto.
Era questa la loro
vera incompatibilità,
anche se la gentilezza
di Sarah - o
l’impazienza di
sbarazzarsi di lui -
cercava di nasconderla.
Posso continuare la
metafora? Non sarebbe
possibile riscattare
quella che lei
definisce la parte pura
e naturale della cosa,
riprenderla da capo?
Temo di no.
Ma mentre diceva
questo non lo stava
guardando.
Ero a quattromila
miglia da qui quando mi
è arrivata la notizia
che lei era stata
rintracciata.
Da allora è trascorso
un mese.
E io non ho più
passato un’ora senza
pensare a questo
colloquio.
Lei… non può
rispondermi con delle
osservazioni, per
quanto appropriate,
sull’arte.
Erano applicabili
anche alla vita.
Allora lei mi sta
dicendo di non avermi
mai amato.
Non potrei dirlo.
Gli aveva voltato le
spalle.
Charles le andò
vicino.
Ma deve dirlo! Deve
dire: “Io ero
totalmente malvagia, in
lui non ho visto altro
che uno strumento di
cui potevo servirmi,
uria distruzione che
era alla mia portata.
E ora non m’importa
che egli mi ami ancora,
che in tutti i suoi
viaggi non abbia mai
visto una donna
paragonabile a me, che
egli sia un fantasma,
un’ombra, una mezza
persona per tutto il
tempo in cui restiamo
separati”.
Sarah aveva chinato
il capo.
Egli abbassò la voce.
Deve dire: “Non
m’interessa che il suo
delitto sia stato
soltanto qualche ora
d’indecisione, non
m’interessa che lo
abbia espiato
sacrificando il suo
buon nome, il suo…” non
che questo importi,
sacrificherei ancora
cento volte quello che
posseggo se almeno
potessi sapere…
Mia carissima Sarah,
io…
Era ormai
pericolosamente vicino
alle lacrime.
Provò ad allungare
una mano verso la sua
spalla, ma gli bastò
toccarla perché un
impercettibile
irrigidimento lo
costringesse a
lasciarla cadere.
Deve esserci un
altro.
Sì.
C’è un altro.
Charles lanciò
un’occhiata offesa a
quel viso tuttora
rivolto altrove,
respirò profondamente e
s’avviò a grandi passi
verso la porta.
La prego.
C’è ancora una cosa
che devo dirle.
Ha già detto la sola
cosa che conti.
L’altro non è quello
che lei pensa! Il suo
tono era così nuovo,
così intenso da
bloccare il movimento
di Charles verso il
proprio cappello.
Si voltò a guardarla.
E vide una creatura
scissa in due: la
vecchia Sarah che lo
accusava e quella che
lo supplicava di
ascoltarla.
Abbassò gli occhi sul
pavimento.
C’è anche un altro
nel senso che intende
lei.
E’… un artista.
L’ho conosciuto qui.
Vorrebbe sposarmi.
Io lo ammiro e lo
rispetto come artista e
come uomo.
Ma non lo sposerò
mai.
Se in questo momento
fossi costretta a
scegliere tra Mister…
tra lui e lei, lei non
lascerebbe questa casa
a mani vuote.
La prego di credermi.
Gli si era un po’
avvicinata e aveva
puntato gli occhi sui
suoi con la massima
franchezza; egli
dovette crederle.
Poi di nuovo abbassò
il capo.
Il vostro comune
rivale sono io stessa.
Non voglio sposarmi…
prima di tutto a causa
del mio passato che mi
ha abituata alla
solitudine.
Avevo sempre creduto
di odiarla.
Ma ora che vivo in un
mondo dove è
facilissimo evitarla,
mi sono accorta che mi
è molto cara.
Non voglio spartire
la mia vita.
Voglio essere ciò che
sono, non ciò che un
marito, per quanto
gentile, per quanto
indulgente, deve
aspettarsi che io
divenga nel matrimonio.
E la seconda ragione?
La seconda ragione è il
mio presente.
Non avevo mai pensato
di poter essere felice.
Ma nella situazione
in cui mi trovo adesso
mi sento felice.
Ho un lavoro vario e
congeniale, e talmente
piacevole che non lo
considero neanche più
un lavoro.
Sono ammessa alla
conversazione
quotidiana di geni.
Sono uomini che hanno
i loro difetti, i loro
vizi.
Ma non sono come il
mondo ha deciso di
immaginarli.
Le persone che ho
conosciuto qui mi hanno
rivelato una comunità
dedita a imprese
onorevoli e a nobili
fini.
Prima d’ora non
immaginavo che potesse
esistere.
Si voltò verso il
cavalletto.
Io sono felice,
Mister Smithson.
Sono finalmente
arrivata, o così mi
sembra, in un luogo
dove mi sento a mio
agio.
Lo dico con la
massima umiltà.
Io non sono un genio.
Ho soltanto la
capacità di aiutare i
geni in modo umile e
modesto.
Ma credo di avere un
debito con la mia
fortuna.
Non devo cercarla
altrove.
Devo considerarla una
cosa precaria, una cosa
cui non posso
permettermi di
rinunciare.
Fece un’altra pausa e
tornò a guardarlo in
faccia.
Può pensare di me
quello che vuole, ma io
non desidero che la mia
vita sia diversa da
come è in questo
momento.
Neanche quando vengo
supplicata da un uomo
che stimo, che mi
emoziona più di quanto
io dia a vedere e dal
quale non merito una
così costante
generosità d’affetto.
Abbassò gli occhi.
E che prego di
comprendermi.
C’erano stati
parecchi punti nei
quali Charles avrebbe
voluto interrompere
questo credo.
Tutte quelle
affermazioni gli
parevano eretiche, ma
nel profondo del suo
animo aumentava
costantemente la sua
ammirazione per questa
eretica.
Non era come le
altre, lo era meno che
mai.
Vide che Londra e
questa nuova vita
l’avevano leggermente
modificata: aveva
raffinato il
vocabolario e
l’accento, aveva
imparato ad articolare
le sue intuizioni,
aveva approfondito la
sua limpida percezione,
e ora, dove prima c’era
stato un ormeggio assai
meno sicuro, era
saldamente ancorata a
una precisa concezione
della vita e della
funzione che poteva
svolgervi.
In un primo momento
si era lasciato
fuorviare da quegli
abiti colorati.
Ma adesso
incominciava a capire
che erano soltanto un
fattore della
conoscenza e della
padronanza di sé che
essa aveva saputo
raggiungere: non aveva
più bisogno di
un’uniforme.
Charles vedeva tutto
questo ma non voleva
vederlo.
Si spostò un poco
verso il centro della
stanza.
Ma non può rifiutare
il fine per il quale
ogni donna è stata
creata.
E perché poi? Io non
ho nulla contro Mister…
indicò con un gesto il
quadro sul cavalletto …
e la sua cerchia.
Ma lei non può
credere che servirli
sia più importante
della legge naturale.
Approfittò del
vantaggio acquisito.
Anch’io sono
cambiato.
Ho imparato molte
cose sul mio conto, su
ciò che c’era di falso
in me.
Non pongo condizioni.
Tutto ciò che è Miss
Sarah Woodruff può
continuare ad esserlo
Mistress Charles
Smithson.
Non la strapperò al
suo nuovo mondo né le
impedirò di continuare
a goderselo.
Le offro soltanto un
allargamento della sua
attuale felicità.
Sarah si accostò alla
finestra ed egli si
spostò verso il
cavalletto senza
toglierle gli occhi di
dosso.
Lei si voltò.
Lei non capisce.
Non è colpa sua.
Lei è molto gentile.
Ma io non posso
essere capita.
Dimentica quello che
mi ha detto prima.
Credo che ne stia
facendo una questione
d’orgoglio.
Volevo dire che non
posso essere capita
nemmeno da me stessa.
E non so perché, ma
credo che la mia
felicità dipenda dal
mio non capire.
Charles suo malgrado
sorrise.
E’ assurdo.
Lei rifiuta di
prendere in
considerazione la mia
proposta perché io
potrei portarla a
comprendere se stessa.
Rifiuto, come ho
rifiutato l’altro
signore, perché voi non
potete capire che per
me non è assurdo.
Gli aveva di nuovo
voltato la schiena, e
Charles cominciò a
intravedere un barlume
di speranza perché,
mentre prendeva
qualcosa dalla traversa
bianca che aveva
davanti, essa parve
mostrare l’eloquente
imbarazzo di un bimbo
caparbio.
Non è una
giustificazione.
Lei potrà tenere per
sé tutto il mistero che
desidera.
Resterà sacrosanto ai
miei occhi.
Non è di lei che ho
paura.
Ma del suo amore.
So fin troppo bene
che in questo contesto
non c’è più nulla di
sacrosanto.
Charles si sentì come
un uomo che si è visto
sfuggire una fortuna
per una frase banale in
un documento legale: la
vittima di una vittoria
dell’irrazionalità
della legge sulla
razionalità degli
intenti.
Sarah non voleva
sottomettersi alla
ragione, ma forse
sarebbe stata più
sensibile al
sentimento.
Egli esitò un poco,
poi s’avvicinò.
Ha pensato molto a me
durante la mia assenza?
Lei gli lanciò
un’occhiata:
un’occhiata quasi
ironica, come se avesse
previsto questa nuova
direttrice d’attacco e
l’accogliesse quasi con
piacere.
Poi per un attimo si
voltò a guardare i
tetti delle case di là
dal giardino.
Ho pensato molto a
lei all’inizio.
Ho pensato molto a
lei circa sei mesi dopo
quando vidi per la
prima volta una delle
sue inserzioni…
Allora sapeva! Ma lei
continuò implacabile.
E che mi costrinse a
cambiare nome e
indirizzo.
Feci delle indagini.
Appresi allora, ma
non prima, che lei non
aveva sposato Miss
Freeman.
Per cinque secondi
egli rimase immobile e
incredulo, poi Sarah si
voltò a gettargli una
rapida occhiata.
Charles allora ebbe
l’impressione di
scorgervi un’ombra di
esultanza, come di una
che ha sempre avuto in
mano il suo atout e,
quel che è peggio, ha
aspettato per giocarlo
di sapere con
precisione come si
metteva la sua partita.
Sarah si allontanò
tranquillamente, e
c’era più orrore in
quella calma, in
quell’indifferenza
apparente, che nel
movimento in sé.
Egli la seguì con gli
occhi.
E cominciò forse,
finalmente, a cogliere
il suo mistero.
Era iniziata una
terribile perversione
del destino sessuale
umano: egli era
semplicemente un
fantaccino, una pedina,
di una battaglia assai
più vasta che, come
tutte le battaglie, non
concerneva l’amore ma
il possesso e il
territorio.
Approfondì questa
intuizione: Sarah non
odiava gli uomini, né
lo disprezzava
materialmente più degli
altri, e le sue manovre
erano puramente una
parte della sua
armatura, meri
strumenti per un fine
più grande.
Approfondì ancora e
capì che la sua
presunta felicità
attuale era un’altra
bugia.
Nel fondo di se
stessa, soffriva ancora
come un tempo, ed era
questo il mistero che
aveva veramente e
sostanzialmente paura
di lasciargli scoprire.
Ci fu una pausa.
Dunque non soltanto
ha rovinato la mia
vita.
Ma si è divertita a
farlo.
Sapevo che da un
incontro come questo
poteva derivare
soltanto infelicità.
Credo che lei menta.
Credo si sia
compiaciuta pensando
alla mia sofferenza.
E credo che sia stata
lei a mandare quella
lettera al mio
avvocato.
Sarah gli lanciò
un’occhiata di netta
smentita, che egli
accolse con una gelida
smorfia.
Lei dimentica che ho
già imparato a mie
spese quale abile
attrice lei sa essere
quando può giovare ai
suoi fini.
Ora capisco perché
sono stato chiamato a
ricevere il “coup de
grace”.
Lei ha trovato una
nuova vittima.
Io ho soddisfatto per
l’ultima volta il suo
odio insaziabile e per
nulla femminile verso
il mio sesso… e ora mi
si può congedare.
Lei mi giudica male.
Ma lo disse con
troppa calma, come se
fosse indifferente alle
sue accuse; e anzi in
segreto, perversamente,
le dessero piacere.
Egli scosse la testa
amareggiato.
No.
E’ come dico io.
Non soltanto mi ha
conficcato il pugnale
nel petto, ma si è
divertita a rigirarlo.
Ora lei lo stava
guardando, quasi senza
volerlo, come
ipnotizzata, come uno
spavaldo criminale in
attesa della sentenza.
E Charles la proferì:
Verrà il giorno in cui
sarà chiamata a rendere
conto di ciò che mi ha
fatto.
E se in cielo c’è
giustizia, la sua
punizione durerà per
tutta l’eternità.
Parole
melodrammatiche, ma le
parole a volte sono
meno importanti dei
sentimenti profondi che
le suggeriscono, e
queste sgorgavano da
tutto il suo essere e
dalla sua disperazione.
Ciò che urlava dietro
di loro non era
melodramma ma tragedia.
Per un lungo istante
Sarah continuò a
guardarlo e gli occhi
di lei riflettevano in
parte il terribile
oltraggio che gli
dilaniava l’anima.
Bruscamente abbassò
il capo.
Charles esitò ancora
un istante: il suo viso
era come il muro di una
diga che sta per
crollare, tanto era
possente l’anatema che
premeva per
travolgerlo.
Ma non appena Sarah
con il suo
atteggiamento si
confessò colpevole,
egli chiuse
ermeticamente la bocca,
si voltò di scatto e si
avviò verso la porta.
Sarah, prendendo la
gonna in una mano, gli
corse appresso.
A questo rumore egli
bruscamente si voltò e
lei per un attimo parve
smarrita.
Ma, prima che lui
potesse riprendere il
cammino, gli era
passata rapidamente
davanti e si era
fermata sulla porta.
Charles trovò
bloccata l’unica via
d’uscita.
Non posso lasciarla
andar via credendo
questo.
Il seno le si sollevò
come se fosse rimasta
senza fiato; gli occhi
erano puntati sui suoi
come se avesse affidato
interamente alla loro
franchezza il compito
di fermarlo.
Ma quando gli vide
fare un gesto iroso con
la mano, ricominciò a
parlare: C’è una
signora in questa casa
che mi conosce e mi
capisce più di
qualunque altra persona
al mondo.
Essa vuole vederla.
La supplico di
permetterglielo.
Le spiegherà… la mia
vera natura molto
meglio di quanto possa
fare io.
Le spiegherà che il
mio comportamento nei
suoi confronti è assai
meno biasimevole di
quanto lei supponga.
La guardò con occhi
fiammeggianti, come se
volesse smetterla di
opporsi allo
sfondamento di quella
diga.
Fece uno sforzo
visibile per
controllarsi, per
domare le fiamme e
ritrovare il ghiaccio,
e finì per riuscirvi.
Mi stupisce che lei
possa ritener capace
un’estranea di
giustificare il suo
comportamento.
E adesso…
La sta aspettando.
Sa che lei è qui.
Può anche essere la
regina in persona, ma
io non voglio vederla.
Io non sarò presente.
Le sue guance erano
diventate molto rosse,
quasi come quelle di
Charles.
Per la prima - e
ultima - volta in vita
sua, egli ebbe la
tentazione di ricorrere
alla forza con un
membro del sesso
debole.
Si faccia da parte!
Ma lei scosse il capo.
A questo punto le
parole non contavano
più: era solo una
questione di volontà.
Il suo atteggiamento
era intenso, quasi
tragico; eppure nei
suoi occhi c’era
qualcosa di strano: era
accaduto qualcosa,
soffiava
impercettibilmente tra
loro la vaga brezza di
un altro mondo.
Lo guardava come se
sapesse di averlo messo
con le spalle al muro;
un po’ spaventata,
incerta delle sue
reazioni, ma senza
ostilità.
Quasi come se, sotto
la superficie, ci fosse
soltanto una curiosità:
l’attesa per il
risultato di un
esperimento.
Charles esitò.
I suoi occhi
s’abbassarono.
Dietro la sua collera
era la consapevolezza
di amarla ancora, di
avere di fronte la
creatura di cui non
avrebbe mai potuto
dimenticare la perdita.
Parlò allora alla
fibbia dorata.
Cosa dovrei arguire
da un simile
comportamento? Ciò che
un gentiluomo meno
rispettabile avrebbe
forse sospettato da un
pezzo.
Charles la guardò
negli occhi.
C’era in essi un
sorriso, sia pure
lievissimo? No, non
poteva esserci.
Non c’era.
Lo bloccò ancora per
un attimo con quegli
occhi impenetrabili,
poi si scostò dalla
porta e attraversò la
stanza avvicinandosi al
cordone del campanello
accanto al caminetto.
Egli era libero di
andarsene, ma la
guardava immobile.
“Ciò che un
gentiluomo meno
rispettabile…” Di quale
nuova enormità lo aveva
ora minacciato?
Un’altra donna che la
conosceva e la
comprendeva meglio di…
quell’odio per gli
uomini… questa casa
abitata da…
Non osava dirlo
neanche a se
stesso.Sarah si staccò
dal
campanello e avanzò
di nuovo verso di lui.
Verrà subito.
Sarah aprì la porta e
lo guardò di sottecchi.
La prego di ascoltare
quel che deve dirle… e
di trattarla con il
rispetto dovuto alla
sua posizione e alla
sua età.
E se ne andò.
Ma le ultime parole
gli avevano dato un
indizio prezioso.
Indovinò subito chi
avrebbe incontrato tra
poco.
La sorella del
principale di Sarah, la
poetessa (non voglio
più tacere i nomi) Miss
Christina Rossetti.
Ma certo! Non aveva
forse sempre trovato
nei suoi versi, le rare
volte che gli erano
capitati sott’occhio,
un certo
incomprensibile
misticismo? Una
oscurità appassionata,
il segno di una
mentalità troppo
contorta e
femminilmente involuta;
per dirla tutta, una
confusione assurda sul
confine tra l’amore
divino e l’umano?
Arrivò alla porta e
l’aprì.
Sarah era sulla
soglia, all’altro
estremo del
pianerottolo, e stava
per varcarla.
Si volse a guardarlo
ed egli aprì la bocca
per parlare.
Ma giunse dal basso
un rumore sommesso.
Qualcuno stava
salendo le scale.
Sarah si portò un
dito alle labbra e
sparì nella stanza.
Charles esitò, poi
tornò nello studio e
s’accostò alla
finestra.
Adesso capiva chi era
responsabile della
concezione della vita
di Sarah: colei che
“Punch” aveva una volta
battezzata la badessa
singhiozzante, la
zitella isterica della
Confraternita
preraffaellita.
Desiderava
disperatamente di non
essere tornato.
Oh se avesse svolto
qualche indagine prima
di gettarsi in questa
miserevole situazione!
Ma adesso era qui: e
improvvisamente decise
con fermezza, e non
senza una sinistra
voluttà, che la
poetessa non sarebbe
riuscita a risolvere
tutto secondo i propri
desideri.
Per lei egli poteva
essere soltanto un
granello di sabbia come
milioni e milioni di
altri, una semplice
erbaccia in questo
esotico giardino di…
Ancora un rumore.
Si voltò, con
un’espressione
decisamente gelida.
Non era però Miss
Rossetti, soltanto la
ragazza che lo aveva
accompagnato di sopra e
che ora teneva in
braccio una bimbetta.
Dava l’impressione di
aver visto la porta
socchiusa e di aver
voluto sbirciare
all’interno prima di
recarsi nella nursery.
Parve sorpresa nel
trovarlo solo.
Mistress Roughwood è
andata via? Mi ha fatto
capire che una signora
vuole avere un breve
colloquio con me in
privato.
Per questo ha
suonato.
La ragazza abbassò la
testa.
Capisco.
Ma invece di
ritirarsi, come Charles
si aspettava, entrò
nella stanza e depose
la bimba su un tappeto
accanto al cavalletto.
Poi si frugò nella
tasca del grembiule e
le porse una bambola di
pezza, infine
s’inginocchiò per un
attimo, come se volesse
accertarsi che la bimba
era perfettamente a suo
agio.
Dopo di che, senza
preavviso, si rialzò e
si avviò con grazia
verso la porta.
Charles aveva
assistito a tutto
questo con
un’espressione tra
l’offesa e la
meravigliata.
Verrà presto questa
signora? La ragazza si
voltò.
Sulle sue labbra
comparve un tenue
sorriso.
Poi rivolse lo
sguardo alla bimba sul
tappeto.
E’ già venuta.
Chiusa la porta,
Charles rimase immobile
a guardare per almeno
dieci secondi.
Era una bimbetta con
i capelli scuri e le
braccia grassocce; poco
più che un bebé e un
bel po’ meno di una
bambina.
Improvvisamente parve
rendersi conto che
Charles era animato.
Tese la bambola verso
di lui con un suono
privo di senso.
Egli ebbe
un’impressione di
solenni iridi grige in
un volto regolare e un
timido dubbio e una non
completa certezza della
propria posizione…
Un attimo dopo si era
inginocchiato di fronte
a lei sul tappeto, per
aiutarla a sorreggersi
sulle gambe malferme e
per esplorare quel
visino come un
archeologo che ha
appena dissepolto il
primo esemplare di un
antico testo perduto.
La bimbetta dava
segni inconfondibili di
non gradire questo
esame.
Forse le aveva
stretto troppo le
fragili braccia.
Annaspò
frettolosamente alla
ricerca dell’orologio,
come aveva già fatto
una volta in
circostanze analoghe.
L’effetto fu
altrettanto buono, e
pochi secondi dopo egli
riuscì a sollevare
l’infante senza
provocare proteste e a
portarla su una sedia
accanto alla finestra.
Gli si sedette sulle
ginocchia, con gli
occhi fissi su quel
giocattolo d’argento,
mentre lui esaminava
con eguale attenzione
il suo viso, le sue
mani, ogni centimetro
del suo corpo.
E ogni parola che era
stata pronunciata in
quella stanza.
Il linguaggio è come
la seta variegata:
dipende essenzialmente
dall’angolazione con la
quale lo si guarda.
Udì aprirsi
silenziosamente la
porta.
Ma non si voltò.
Un attimo dopo una
mano si posò sull’alto
schienale della sua
sedia.
Charles non parlò e
non parlò neanche la
proprietaria di quella
mano, e anche la bimba,
ipnotizzata
dall’orologio, taceva.
In una casa lontana,
una dilettante, una
signora con molto tempo
libero - e pochissimo
senso del tempo
musicale, perché
l’esecuzione era
mediocre e riscattata
soltanto dalla distanza
- cominciò a suonare il
piano: una mazurca di
Chopin filtrò
attraverso i muri, le
foglie e la luce del
sole.
Solo quel suono che
andava avanti a
strattoni indicava una
progressione.
Per il resto si era
attuato l’impossibile:
la storia ridotta a un
“tableau vivant”, a una
fotografia in carne e
ossa.
Ma la bimbetta
annoiata tese le mani
verso le braccia della
madre.
Venne sollevata,
cullata e portata
qualche passo più in
là.
Charles rimase a
lungo a guardare dalla
finestra.
Poi si alzò
volgendosi verso Sarah
e il suo fardello.
Gli occhi di lei
erano ancora seri, ma
le labbra si erano
dischiuse in un piccolo
sorriso.
Adesso lo stava
deridendo.
Ma Charles avrebbe
percorso quattro
milioni di miglia per
essere deriso in quel
modo.
La bimba allungò le
mani verso il
pavimento, dove aveva
visto la sua bambola.
Sarah si chinò, la
raccolse e gliela
diede.
Per un attimo si
godette l’interesse
profondo della creatura
appoggiata alla sua
spalla per il
giocattolo; poi i suoi
occhi si posarono sui
piedi di Charles.
Non poteva guardarlo
in faccia.
Come si chiama?
Lalage.
Pronunciò quel nome
scandendo bene le tre
sillabe, con la “g”
dura.
Mister Rossetti mi
avvicinò un giorno per
strada.
Mi aveva tenuta
d’occhio senza che io
me ne accorgessi.
Mi chiese il permesso
di disegnarmi.
Lei non era ancora
nata.
Quando poi seppe
della mia situazione,
fu estremamente gentile
in tutti i sensi.
E’ stato lui a
suggerire il nome.
E’ il suo padrino.
Fece una pausa.
Lo so che è strano
mormorò.
Strane certamente
erano le reazioni di
Charles; e la stranezza
venne accentuata dal
fatto che gli era stata
curiosamente
sollecitata un’opinione
su una questione così
banale, date le
circostanze.
Come se nel momento
in cui la nave cozzava
contro uno scoglio, gli
avessero chiesto un
parere sul materiale
più adatto alla
tappezzeria di una
cabina.
E tuttavia, ancora
stordito, si sorprese a
rispondere: E’ un nome
greco.
Deriva da “lalageo”,
mormorare come un
ruscello.
Sarah chinò il capo,
come se fosse
modestamente grata di
questa informazione
etimologica.
Charles continuava a
fissarla, mentre i suoi
alberi si abbattevano e
alle orecchie della sua
mente arrivavano gli
urli degli annegati.
Non l’avrebbe mai
perdonata.
La udì sussurrare:
Non le piace?.
Io…
Deglutì.
Sì, è un bel nome.
Sarah chinò
nuovamente la testa.
Ma lui non poteva
muoversi, non poteva
scacciare dai suoi
occhi il loro terribile
interrogativo; come un
uomo guarda il muro
crollato che se egli
fosse passato solo un
momento prima, lo
avrebbe schiacciato
sotto il suo peso; egli
contemplava il caso -
quell’elemento che la
mentalità umana
abitualmente trascura e
relega nei ripostigli
del mito - divenuto
carne in questa figura,
in questa doppia figura
davanti a lui.
Sarah abbassò gli
occhi, celandoli con le
scure ciglia.
Ma in essi egli vide,
o intuì, delle lacrime.
Involontariamente
fece due o tre passi
verso di lei.
Poi di nuovo si
fermò.
Non poteva, non
poteva…
Le parole, sebbene
sommesse, proruppero.
Ma perché? Perché? E
se io non avessi mai…
Sarah abbassò ancora
di più la testa.
Charles colse a
stento la sua risposta.
Doveva essere così.
Ed egli comprese:
doveva essere nelle
mani di Dio, nel Suo
perdono per i loro
peccati.
E tuttavia continuava
a scrutare il suo viso
nascosto.
E quelle parole
crudeli che hai
pronunciato… e che mi
hai costretto a dirti
in risposta? Dovevano
essere dette.
Allora finalmente
alzò gli occhi.
Le sue pupille erano
piene di lacrime e il
suo sguardo
insopportabilmente
nudo.Sono sguardi che
ciascuno di noi ha
ricevuto e
contraccambiato una o
due volte in vita sua;
quelli in cui i mondi
si fondono, i passati
si dissolvono, e ci
rendiamo conto, nella
risolutezza del bisogno
più profondo, che la
roccia dei secoli non
può mai essere altro
che l’amore, qui,
adesso, nel
congiungersi di queste
due mani, in questo
cieco silenzio nel
quale una testa viene a
posarsi sotto l’altra;
e che Charles, dopo
un’eternità compressa,
spezza, anche se la sua
domanda è più soffiata
che detta.
Riuscirò mai a
comprendere le tue
parabole? La testa
appoggiata al suo petto
si scuote con mite
veemenza.
Una lunga pausa.
La pressione delle
labbra sui capelli
ramati.
Nella casa lontana la
signora senza talento,
verosimilmente fermata
dal rimorso (o dallo
spettro torturato del
povero Chopin), smette
di suonare.
E Lalage, come se
questo pietoso silenzio
l’avesse indotta a
riflettere
sull’estetica musicale
e avendo riflettuto
avesse deciso per
questo di sbattere la
sua bambola di pezza
contro la guancia
chinata di Charles,
ricorda a suo padre -
ed è ormai tempo - che
mille violini nauseano
in fretta senza un po’
di percussione.
61.
“L’evoluzione è
puramente il processo
mediante il quale il
caso (le mutazioni
casuali dell’elice
dell’acido nucleico
prodotte dalia
radiazione naturale)
coopera con la legge
naturale per creare
forme viventi migliori
e più atte a
sopravvivere”.
Martin Gardner, “The
Ambidextrous Universe”
(1967).
“La vera pietà è
agire in base a ciò che
si sa”.
Matthew Arnold,
“Notebooks” (1868).

Un’antica regola del


mestiere impone al
romanziere di non
introdurre alla fine di
un libro personaggi
nuovi che non siano
assolutamente minori.
Spero che mi si
perdoni Lalage; ma
l’individuo
dall’aspetto
estremamente importante
che, durante l’ultima
scena, è rimasto
appoggiato al parapetto
del lungofiume
prospiciente il 16 di
Cheyne Walk, residenza
di Dante Gabriel
Rossetti (il quale, a
proposito, era dedito
al cloralio - e ne morì
- non all’oppio), può
sembrare a prima vista
una clamorosa
violazione di questa
regola.
Non avrei voluto
introdurlo, ma poiché è
di quegli uomini che
non sopportano di
rimanere in ombra, che
viaggiano in prima o
non viaggiano, che
considerano il primo il
solo pronome, che
insomma hanno il
cervello pieno di cose
prime, e poiché io sono
di quelli che rifiutano
di intervenire nella
natura (compresa la
peggiore), egli è
riuscito a insinuarsi,
o meglio, come direbbe
lui, vi si è insinuato
QUALE REALMENTE E’.
Non svilupperò
l’insinuazione che egli
vi fosse in precedenza
entrato quale realmente
non era, e che quindi
di fatto non sarebbe un
personaggio nuovo; ma
state certi che,
nonostante le
apparenze, è una figura
decisamente minore,
minima anzi come una
particella di raggi
gamma.
Quale realmente è… e
i suoi veri colori non
sono simpatici.
La barba, un tempo
ampia e patriarcale, è
stata ridotta a
qualcosa di frivolo e
infranciosato.
C’è nei suoi abiti,
nel panciotto estivo
sontuosamente ricamato,
nei tre anelli che
porta alle dita, nel
cigarillo infilato nel
bocchino d’ambra, nel
bastone col pomo di
malachite, un tocco
inconfondibile di
pacchianeria.
Dà decisamente
l’impressione di aver
smesso di predicare per
dedicarsi all’opera, e
di essersela cavata
molto meglio in questo
campo che nel
precedente.
In poche parole ha
più di un tratto
dell’impresario di
successo.
Adesso, mentre
s’appoggia con
negligenza al
parapetto, si stringe
delicatamente la punta
del naso tra le nocche
del pollice e del medio
inanellati.
Si ha l’impressione
che stenti a soffocare
la sua risata.
Si volta di nuovo
verso la casa di Mister
Rossetti e ha quasi
l’aria del
proprietario, come se
fosse un nuovo teatro
che ha appena
acquistato con una
certa sicurezza di
poterlo riempire.
In questo non è
cambiato: considera
evidentemente il mondo
una cosa sua, che egli
può possedere e
adoperare a proprio
talento.
Adesso però si
raddrizza.
Questa “flnerie” per
Chelsea è stata un
piacevole intermezzo,
ma lo attendono affari
più importanti.
Estrae l’orologio -
un Breguet - e sceglie
una piccola chiave da
un grande mazzo appeso
a una seconda catena
d’oro.
Sposta leggermente le
lancette sul quadrante.
Sembra - ma è molto
strano trattandosi di
uno strumento
proveniente dal banco
del più grande degli
orologiai - che fosse
avanti di un quarto
d’ora.
Ed è doppiamente
strano, perché non si
vedono orologi pubblici
grazie ai quali egli
avrebbe potuto scoprire
l’errore.
Ma è possibile
indovinare la ragione.
Si sta preparando
meschinamente una scusa
per il ritardo con il
quale arriverà al
prossimo appuntamento.
Certi magnati non
possono apparire in
difetto neanche nelle
cose più banali.
Fa un cenno
perentorio con il
bastone a un landau
scoperto che è rimasto
in attesa un centinaio
di metri più in là.
Trotterella
elegantemente e viene a
fermarsi accanto al
marciapiede dove lui si
trova.
Il valletto balza a
terra e apre lo
sportello.
L’impresario sale, si
siede, si lascia cadere
espansivamente sullo
schienale di pelle
cremisi, rifiuta il
tappetino monogrammato
che il valletto
vorrebbe stendergli
sulle gambe.
Il valletto richiude
lo sportello, s’inchina
e va a raggiungere a
cassetta l’altro
domestico.
Viene impartito un
ordine e il cocchiere
si tocca il cappello
con il manico della
frusta.
L’equipaggio
s’allontana veloce.
No, è come dico io.
Non soltanto mi ha
conficcato il pugnale
nel petto, ma si è
divertita a rigirarlo.
Ora lei stava
guardando Charles,
quasi senza volerlo,
come ipnotizzata, come
uno spavaldo criminale
in attesa della
sentenza.
E Charles la proferì:
Verrà il giorno in cui
sarà chiamata a rendere
conto di ciò che mi ha
fatto.
E se in cielo c’è
giustizia, la sua
punizione durerà per
tutta l’eternità.
Esitò ancora un
istante: il suo viso
era come il muro di una
diga che sta per
crollare, tanto era
possente l’anatema che
premeva per
travolgerlo.
Ma non appena Sarah
con il suo
atteggiamento si
confessò colpevole,
egli chiuse
ermeticamente la bocca,
si voltò di scatto e
s’avviò verso la porta.
Mister Smithson! Fece
un altro paio di passi;
poi si fermò, le lanciò
un’occhiata da dietro
le spalle e, con
l’impeto di chi è ben
deciso a non perdonare,
abbassò lo sguardo
sulla base della porta
che aveva davanti.
Udì il lieve fruscio
degli abiti di Sarah.
Era ormai alle sue
spalle.
Non è una prova di
quello che le dicevo
poc’anzi? Che sarebbe
stato meglio se non ci
fossimo mai incontrati?
Il suo ragionamento
presume che io
conoscessi la sua vera
natura.
Ma non la conoscevo.
Ne è sicuro? Ritenevo
che la sua padrona di
Lyme fosse un’egoista e
una bigotta.
Ma mi accorgo che era
una santa se paragonata
alla sua dama di
compagnia.
Non sarei più egoista
se, sapendo di non
poterla amare come deve
amare una moglie, le
dicessi che posso
sposarla? Charles le
lanciò un’occhiata
raggelante.
C’è stato un tempo in
cui lei parlava di me
come della sua ultima
risorsa.
Come dell’unica
speranza che le restava
nella vita.
Ora la situazione si
è capovolta: Lei non ha
più tempo per me.
Benissimo.
Ma non cerchi di
difendersi.
Può soltanto rendere
ancor più perfida
un’offesa già grave.
Era un’idea che aveva
continuato a rimuginare
per tutta la durata del
colloquio; era il suo
argomento più potente,
ma nello stesso tempo
il più spregevole.
Dicendo questo, non
riuscì a nascondere il
suo tremito, il suo
sentirsi allo stremo
delle proprie risorse,
almeno per quanto
concerneva la capacità
di sentirsi offeso.
Le gettò un’ultima
occhiata tormentata,
poi si sforzò di
procedere per aprire la
porta.
Mister Smithson! Di
nuovo.
Ora sentiva la sua
mano sul proprio
braccio.
Si fermò, per la
seconda volta, odiando
quella mano e la
propria debolezza nel
permettere che lo
bloccasse.
Sembrava che Sarah
stesse cercando di
dirgli qualcosa che non
poteva esprimere in
parole.
Forse soltanto un
gesto di rammarico, di
scusa.
Ma se fosse stato
solo questo, la mano
sarebbe certo ricaduta
subito dopo averlo
toccato, ed era questo,
non solo
psicologicamente ma
fisicamente, a
trattenerlo.
Con estrema lentezza
Charles volse la testa
e la guardò.
Fu uno choc scorgere
nei suoi occhi, se non
sulle sue labbra, un
accenno di sorriso, uno
spettro di quello che
aveva avuto, in un modo
così strano, quando
avevano rischiato di
farsi sorprendere da
Sam e Mary.
Era ironico, una
maniera per dirgli di
non prendere troppo sul
serio la vita? Un
ultimo gongolare sulle
sue sofferenze? Anche
adesso però, mentre lui
la scandagliava con gli
occhi afflitti e del
tutto privi di gaiezza,
Sarah avrebbe dovuto
abbassare la mano.
Eppure ne sentiva
ancora la pressione sul
braccio, come se gli
stesse dicendo, ma su,
non capisci che può
esserci una soluzione?
La intuì
all’improvviso.
Guardò la mano e poi
di nuovo alzò gli occhi
verso il suo viso.
Lentamente, come per
rispondergli, le guance
di Sarah si soffusero
di rosso e il sorriso
defluì dai suoi occhi.
La mano le cadde su
un fianco.
Si guardarono come se
improvvisamente si
fossero tolti tutti i
vestiti e fossero
rimasti lì, l’uno di
fronte all’altra,
completamente nudi; ma
per lui era una nudità
assai più clinica che
erotica, una nudità che
rivelava il cancro
nascosto in tutta la
sua odiosa realtà.
Cercò nei suoi occhi
una traccia delle sue
vere intenzioni, e
trovò solo uno spirito
pronto a sacrificare
tutto tranne se stesso,
disposto a rinunciare
alla verità, ai
sentimenti, forse anche
a ogni pudore
femminile, pur di
salvare la propria
integrità.
E a questo punto fu
momentaneamente tentato
dalla possibilità di
questo sacrificio.
Scorgeva una paura
dietro l’ormai chiara
consapevolezza di Sarah
di aver fatto una mossa
falsa e pensò che
poteva accettare la sua
offerta di un’amicizia
platonica - che un
giorno sarebbe potuta
diventare più intima ma
non sarebbe mai stata
consacrata - per farle
ancora più male.
Ma non appena pensò
questo, vide anche la
realtà di un simile
accomodamento: si vide
divenuto lo zimbello
segreto di quella casa
corrotta, il
“soupirant” inamidato,
l’asinello prediletto.
E comprese qual era
la sua vera superiorità
su di lei: non la
nascita, né
l’istruzione, né
l’intelligenza, né il
sesso, ma una capacità
di dare che era anche
incapacità di scendere
al compromesso.
Lei poteva dare
soltanto per possedere
e possedere lui - o
perché era ciò che era,
o perché il desiderio
di possesso era in lei
talmente imperativo da
dover essere
costantemente
rinnovato, da non poter
trovare soddisfazione
in una sola conquista,
o perché… ma Charles
non poteva saperlo e
non lo avrebbe mai
saputo - possedere lui
non le bastava.
Egli capì che essa
aveva previsto il suo
rifiuto.
Lo aveva manipolato
sin dall’inizio.
E avrebbe continuato
a farlo sino alla fine.
Le gettò un’ultima
rovente occhiata di
diniego e lasciò la
stanza.
Sarah non fece altri
tentativi per
trattenerlo.
Charles teneva gli
occhi fissi davanti a
sé, come se i quadri
sulle pareti in mezzo
alle quali scendeva,
fossero dei muti
spettatori.
Era l’ultimo uomo
d’onore in marcia verso
il patibolo.
Aveva una gran voglia
di piangere, ma nulla
gli avrebbe strappato
una lacrima in quella
casa.
E di urlare.
Quando arrivò nel
vestibolo, uscì da una
stanza la ragazza che
lo aveva accompagnato
di sopra con una
bimbetta in braccio.
Aprì la bocca per
parlare, ma un’occhiata
feroce e insieme gelida
di Charles la ridusse
al silenzio.
Così egli lasciò la
casa.
Giunto al cancello,
ora che il futuro era
divenuto presente,
s’accorse che non
sapeva dove andare.
Era come se fosse
rinato, ma con tutte le
facoltà e i ricordi di
un adulto.
E anche con la
debolezza di un bimbo:
tutto da ricominciare,
tutto ancora da
imparare! Attraversò
trasversalmente la
strada, avviandosi alla
cieca, senza mai
voltarsi, verso il
lungofiume.
Era deserto; si
scorgeva solo in
lontananza un
trotterellante landau
che uscì dalla sua
visuale nel momento in
cui egli si accostava
al parapetto.
Senza sapere perché,
si mise a fissare il
grigio fiume ora vicino
all’alta marea.
Significava tornare
in America; significava
trentaquattro anni di
lotte per salire… e
tutto invano, invano,
invano, essendo ormai
persa ogni speranza di
arrivare alla vetta;
significava, su questo
non aveva dubbi, un
celibato del cuore
totale come quello di
Sarah; significava… e
mentre tutte le cose
che significava,
prospettive e
retrospettive, gli
piombavano addosso in
una nera valanga, egli
si voltò a guardare la
casa che aveva appena
lasciata.
A una finestra aperta
al piano superiore ebbe
l’impressione di veder
tirare bruscamente una
bianca tendina di rete.
In realtà era solo
un’impressione, un
pigro movimento della
brezza di maggio.
Sarah infatti è
rimasta nello studio, a
guardare nel giardino
sottostante una
bimbetta e una giovane
donna, forse la madre
della bimba, che sedute
sull’erba stanno
facendo una collana di
margherite.
Ci sono lacrime nei
suoi occhi? E’ troppo
lontana perché io possa
dirlo; ora che i vetri
della finestra colgono
la luminosità del cielo
estivo, non è altro che
un’ombra dietro la
luce.
Voi forse pensate,
ovviamente, che il non
aver accettato
l’offerta implicita in
quella mano sia stata
l’ultima sciocchezza di
Charles; che quella
mano rivelasse se non
altro una certa
incertezza
nell’atteggiamento di
Sarah.
Potete anche pensare
che avesse ragione lei:
che la sua battaglia
per un territorio fosse
la legittima rivolta
dell’invaso contro
l’eterno invasore.
Ciò che però non
dovete pensare è che
questa sia una
conclusione meno
plausibile della loro
storia.
Sono infatti tornato,
sia pure per vie
traverse, al mio punto
di partenza: che non
esiste un dio in grado
di intervenire di là da
quanto si dice - e in
quel modo - nella prima
epigrafe di questo
capitolo; esiste quindi
soltanto la vita quale
noi ce la siamo
costruita nei limiti
delle capacità
forniteci dal caso, la
vita che, giusta la
definizione di Marx, è
LE AZIONI DEGLI UOMINI
(e delle donne) NEL
PERSEGUIMENTO DEI LORO
FINI.
Il principio
fondamentale che
dovrebbe guidare queste
azioni, e che io credo
abbia sempre guidato
quelle di Sarah, l’ho
espresso nella seconda
epigrafe.
Un esistenzialista
moderno invece di
“pietà” direbbe
probabilmente “umanità”
o “autenticità”, ma
riconoscerebbe le
intenzioni di Arnold.
Il fiume della vita,
delle leggi misteriose
e delle misteriose
scelte, scorre davanti
a un lungofiume
deserto; e su
quest’altro lungofiume
deserto comincia ora a
camminare Charles, un
uomo dietro
l’invisibile affusto di
cannone sul quale
riposa il suo cadavere.
Avanza verso una
morte imminente,
volontaria? Non credo:
ha finalmente trovato
un atomo di fede in se
stesso, un’autentica
unicità sulla quale
costruire; ha già
cominciato, anche se
ancora lo negherebbe
aspramente, anche se
nei suoi occhi ci sono
lacrime che rafforzano
la sua smentita, a
rendersi conto che la
vita, per quanto
brillantemente Sarah
possa avergli dato
l’impressione di
coprire il ruolo della
sfinge, non è un
simbolo, non è un
indovinello e
un’incapacità di
risolverlo, non è
abitare su una sola
faccia o arrendersi
dopo un lancio
sfortunato dei dadi; ma
deve essere sopportata,
sia pure
inadeguatamente,
sterilmente,
disperatamente nel
cuore ferreo della
città.
E poi fuori, sul mare
inesplorato, salmastro
e straniante.

Ringraziamenti.
Desidero ringraziare:
l’Hardy Estate e la
Macmillan & Co.
Ltd per avermi
permesso di citare gli
estratti da “The
Collected Poems” di
Thomas Hardy; Mister
William Manchester e la
Michael Joseph Ltd per
la citazione dalla
“Morte di un
presidente”; l’Oxford
University Press per le
citazioni da “Victorian
Essays” e “Portrait of
an Age”; Mister Martin
Gardner e la Penguin
Press per la citazione,
leggermente modificata,
da “The Ambidextrous
Universe”; e infine
Mister E. Royston Pike
e la Allen & Unwin Ltd,
non solo per avermi
permesso le citazioni
direttamente, ma anche
per tre documenti
dell’epoca e
innumerevoli piccoli
dettagli che ho
“carpito” dal suo
“Human Documents of the
Victorian Golden Age”.
Raccomando vivamente
questa eccellente
antologia a ogni
lettore che voglia
conoscere la realtà
dell’epoca vittoriana
meglio di quanto appaia
dalla mia narrazione.
J.F.

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