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Indice

- Bibliografia pag. 2

- Introduzione pag. 3

- cap. 1° “Bioetica e valori nel postmoderno” pag. 4

1.1 Bioetica nella prospettiva liberale pag. 4

1.2 La teologia morale in dialogo con la bioetica liberale pag. 10

- cap. 2° Aborto: dal possesso al dono pag. 16

2.1 Aborto: alcune indicazioni mediche e giuridiche pag. 16

2.2 Aborto: una questione sociale, morale, pastorale pag. 21

2.3 «Sono forse io il guardiano di mio fratello?» (Gn 4,9) pag. 23

2.4 Se l’Ethos viene disgiunto dallo Ius pag. 25

- Conclusioni pag. 32

1
Bibliografia

- AA. VV., Guida alla prevenzione, vol. II, a cura di U. Veronesi, RCS Quotidiani,
Milano 2008.

- AA. VV., Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Paoline, Cinisiello Balsamo 1990.

- H. U. von Balthasar, Il tutto nel frammento, Jaca Book, Milano 1990.

- D. Barsotti, Poesie oltre la parola, Paccagnella Editore, Bologna 2000.

- C. Chiapello, La fecondità cercata, Effetà Editrice, Torino 2005.

- H. Cox, La città secolare, Vallecchi Editore, Firenze 1968.

- H. T. Engelhardt, Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano 1999.

- G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Mondadori, Milano 2009.

- Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, Paoline, Milano1995.

- Idem, Fides et ratio, Paoline, Milano 2003.

- Idem, Veritatis splendor, Paoline, Milano 1993.

- S. Privitera, La questione bioetica nella città oggi, Centro Studi Cammarata,


Caltanissetta 1998.

- M. Pera – J. Ratzinger, Senza radici, Mondadori, Milano 2004.

- A. Russo, Henri De Lubac, San Paolo, Milano 1994.

- P. Singer, Etica Pratica, Liguori, Napoli 1989.

- D. M. Turoldo, Il Dramma è Dio, Fabbri Editori, Milano 1992.

- C. Zuccaro, Bioetica e valori nel postmoderno in dialogo con la cultura liberale,


Queriniana, Brescia 2003.

2
Introduzione
Il presente lavoro nasce dal seminario di Teologia Morale dal titolo: Morale e
bioetica: principali paradigmi bioetici e diritti umani, condotto dal prof. Antonino La
Paglia nel secondo quadrimestre dell’anno accademico 2009/10. L’obiettivo del
seminario è quello di conoscere non solo la più esatta metodologia scientifica della
bioetica, ma anche di esaminare i pertinenti documenti del magistero e il pensiero di
alcuni autori contemporanei sul tema dei diritti dell’uomo e dei paradigmi bioetici ad
essi connessi. In linea con il mandato del docente, il mio lavoro è partito dalla scelta
dell’autore da studiare e quindi da presentare, in questo seminario, insieme all’esame
di un “caso concreto” o di un “problema aperto”, con il quale declinare al meglio
proprio le riflessioni, il pensiero dell’autore scelto. La mia opzione è ricaduta su di un
testo di Cataldo Zuccaro dal titolo: Bioetica e valori nel postmoderno in dialogo con
la cultura liberale, con l’esamina del “caso concreto” dell’aborto, sul quale riflettere
a partire dalla sollecitazioni dello stesso Zuccaro. Posso motivare la mia scelta, o
meglio le mie scelte, con alcune battute. Il volume, il saggio di Cataldo Zuccaro offre
una serie di riflessioni, provocazioni, stimoli, conoscenze, che difficilmente possono
essere reperite in altri saggi dal tema magari troppo delineato. In senso più specifico,
il volume dello Zuccaro, offre nella prima parte un’ampia panoramica sulle varie
teorie, antropologiche, etiche, giuridiche, della post-modernità, e nella seconda parte
proprio queste vengono, in qualche maniera, fatte “dialogare” con la prospettica
morale e dunque di fede dei cattolici, tramite il metodo della mediazione e non dello
scontro. Quindi per chi si accinge ad una conoscenza di “base” di tutta quanta la
problematica bioetica nel postmoderno, il testo da me studiato rappresenta, secondo
la mia personalissima prospettiva, un buon reattore di lancio. Sull’aborto, la scelta è
ricaduta anzitutto sul fatto che, dati alla mano, questo metodo, questa “realtà”, causa
più vittime delle recenti guerre che l’umanità ha conosciuto a partire dagli anni
novanta. Proprio per tale motivo, ritengo che questo “male sociale” debba essere
conosciuto ampliamente, e sempre più approfondito, per evitare anche che una coltre
di silenzio cada su questa guerra senza né vinti né vincitori. Il mio lavoro è articolato
in due capitoli: nei quali nel primo presento in maniera pedissequa e fedele il volume
da me scelto di Cataldo Zuccaro, con la distinzione in due paragrafi che rispecchia,
fedelmente il saggio da me scelto; nel secondo presento, come già detto, il “problema
aperto” dell’aborto, nella sua variante medica, giuridica e di rilevanza nella
prospettiva sociale, morale, pastorale, con un paragrafo dedicato a quella dolorosa
“icona biblica” di Caino e Abele, mai estinta e ancora presente anche tramite l’aborto,
e un’ultima riflessione circa il rapporto tra Ethos e Ius.
3
Cap. 1°:
Bioetica e valori nel postmoderno

1.1 Bioetica nella prospettiva liberale

Di certo non è facile, oggi, descrivere adeguatamente la cultura detta della “post-
modernità”, attorno alla quale sembra che esista una dotta ignoranza. Dobbiamo però
chiederci se la tradizione cattolica non contenga anche alcuni elementi che possano
rappresentare delle occasioni utili per superare la sfida, che proprio l’epoca del
postmoderno e la sua etica pongono.
“Uno dei primi elementi caratterizzanti la post-modernità è il passaggio dal
sistema ai frammenti. Tale trapasso si pone da una parte come l’eredità
dell’illuminismo, dall’altra però contro l’illuminismo riducendo al frammento il
pensiero metafisico e sistematico”1. L’accento viene posto sull’individualità, sulla
singolarità che attraverso un incontro casuale può determinare sempre nuovi ed
inediti significati che sono destinati a scomparire e a dar luogo ad altri significati.
All’interno di un contesto così precario per l’uomo diventa impossibile mantenere
l’unità della sua vicenda esistenziale, poiché egli si costruisce e si distrugge
all’interno di un cambiamento caotico della realtà, nel senso che l’uomo postmoderno
rincorre sempre la propria identità personale senza mai raggiungerla. La nozione
stessa di meta non ha alcun significato, perché diventa impossibile da raggiungere. In
questa situazione il pensiero, la ragione, diventano deboli2, errabondi e nomadi3. Si
tratta del vagabondare di Ulisse piuttosto che del nomadismo di Abramo, il quale
attraversa il deserto con la consapevolezza di una meta da raggiungere, di un fine da
perseguire, attraverso l’obbedienza ad un Dio che si rivela. Il postmoderno è
caratterizzato da una ricerca fine a se stessa, dove il pluralismo diventa una necessità,
perché ciascun individuo, ciascun gruppo, ha lo stesso diritto di ascoltare e di poter
esprimere le proprie istanze. Deriva come conseguenza l’esaltazione della libertà
intesa soprattutto in senso negativo: l’esasperazione della libertà porta infatti a pagare
un prezzo quello della solitudine. Questa libertà appare capricciosa, senza progetto,
indecisa. Il fattore “pluralismo” tocca, in conseguenza, il campo dell’etica, dove non
esistono risposte morali sempre valide, ma solo risposte adatte alle circostanze che si

1
C. Zuccaro, Bioetica e valori nel postmoderno in dialogo con la cultura liberale, Queriniana, Brescia 2003, pp. 13-14.
2
Cfr. C. Dotolo, La teologia fondamentale davanti alle sfide del “pensiero debole” di G. Vattimo, LAS, Roma 1999.
3
Cfr. E. Baccarini, Il pensiero nomade, Cittadella, Assisi 1995.

4
presentano. Una sollecitazione nasce dalle riflessioni di G. Vattimo, per il quale
l’uomo viene pensato non in termini di ontologia forte, ma di evento che esiste
solamente per apparire. La conseguenza di questi tratti della post-modernità può
determinare il ritorno al religioso. Infatti, se non esiste una via metafisica per
giungere alle risposte morali, è possibile tornare a parlare di fede, sarebbe il ritorno
ad un Dio forte garante della metafisica4. Il ritorno alla religione, alla fede, può essere
“vincente” solo se questo nuovo Dio non è immerso solamente nella sua
trascendenza, ma diviene simile agli uomini.
Ad occhi laici la verità oggettiva non appare mai, ma talune provocazioni il
pensiero etico cattolico deve raccoglierle. Alcuni teologi contemporanei, fra questi
H.U. von Balthasar e Divo Barsotti, hanno cercato di mostrare la continuità tra la
storia parziale degli uomini con la pienezza della salvezza rivelata con il sacrificio del
Cristo5. Ciò certo non significa immaginare un mondo già bello e costituito, ma in
perenne costruzione si. La ricerca etica, con questo contesto sarà, di certo più umile.
Se da una parte il cristiano non può dimenticare che la verità è per lui costituita dal
riferimento al Cristo, dall’altra non può nemmeno dimenticare che solo Cristo è la
verità in persona6. Necessita però ricordare come il Concilio Vaticano II abbia
superato un atteggiamento di colonizzazione della Chiesa nei confronti della società,
una Chiesa che comincia a porsi in ascolto del mondo. La post-modernità contiene
una sfida che può rinnovare la tradizione cristiana, perché essa può riflettere sul
proprio deposito di fede e declinarlo nelle esigenze, nelle problematiche che
l’umanità oggi vive ed affronta. La tradizione cattolica così può veramente offrire un
servizio alla cultura del postmoderno, in quanto, partendo dall’isolamento
dell’individuo presente nella post-modernità, potrà far nascere una domanda di
compagnia che può far giungere l’uomo all’incontro con Dio, quindi all’etica
teologica. La solitudine e lo smarrimento portano in sé i germi del proprio auto-
superamento. In concreto si potrebbe pensare alla controversa questione
dell’attribuzione della personalità all’embrione: il fatto che non tutti ne riconoscano
la personalità, non permette che qualche gruppo imponga una legge che costringa ad
un atteggiamento di rispetto nei loro confronti. Per molti, oggi, non risulta essere
giusto che la Chiesa imponga i suoi principi morali nell’ambito dell’etica pubblica,
soprattutto in considerazione del fatto che gli altri componenti della società lasciano

4
G.Vattimo,Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano 2002, p. 31.
5
Cfr. H.U. von Balthasar, Il tutto nel frammento, Jaca Book, Milano 1990.
Cfr. D. Barsotti, Poesie oltre la parola, Paccagnella Editore, Bologna 2000.
6
C. Zuccaro, cit., p. 32.

5
tutti liberi di seguire i propri orientamenti etici. Il ragionamento che ne scaturisce è
questo: non è la realtà che s’impone in forza del valore, ma è la mediazione del
riconoscimento delle persone che determina ed impone il valore a qualsiasi realtà. La
realtà, così, non si definisce più a partire da se stessa, ma a partire dal significato che
essa assume per la persona. Riguardo a questa riflessione la figura di H. T.
Engelhardt è più che significativa e rappresenta di fatti il paradosso di un “credente”
che diviene simbolo della bioetica liberale. Quest’uomo dichiaratamente si confessa
cristiano e dunque pur avendo le sue particolari convinzioni in campo bioetico, se ne
distacca. Egli propone un’etica e una bioetica pubblica che siano imparziali7. Da
questo punto di vista Engelhardt «può essere considerato come un credente paladino
di una bioetica laica»8, infatti, per lui ogni presupposto razionale o religioso che
pretende di fondare un’etica è destinato a fallire miseramente. La società, nella quale
viviamo, è cosmopolita ed è formata da tante comunità particolari, nessuna di queste
comunità però può imporre il suo punto di vista come norma valida per tutti. Da qui
scaturisce la convinzione che l’autorità morale laica è l’autorità del consenso. Infatti,
l’unico fondamento etico possibile rimane alla fine l’accordo stipulato da “stranieri
morali” che concordano sul fatto di evitare di imporre a qualcuno un valore senza che
egli lo accetti. Così nella società ci rispettiamo reciprocamente, rinunciando ad
imporre le nostre convinzioni a chi non li vuole. Engelhardt è coerente fino alle
estreme conseguenze: «dà fondamento al diritto di essere lascati soli, al diritto della
privacy e al diritto di rifiutare le interferenze e le intromissioni degli altri» 9. La virtù
basilare del vivere insieme in una società pluralistica senza dubbio è quella della
tolleranza, che consiste nel lasciare che ognuno si realizzi nel cammino che si è
scelto, anche se questo condurrà qualcuno alla rovina assoluta. In questo tipo di
società nessuno può impormi un obbligo morale, rimane sempre un mio diritto il
sottrarmi alla possibilità di bene offerta dagli altri. In sostanza questi principi sono da
ricercarsi nel diritto di autodeterminazione, per cercare il massimo interesse per la
persona. In tale contesto Engelhart introduce la distinzione tra essere umani e
persone, affermando che non tutti gli esseri appartenenti alla natura umana possono
considerarsi persone. Non tutti gli uomini infatti sono autocoscienti, razionali e
capaci di comprendere il biasimo o la lode, tutte caratteristiche che possiede la
persona. I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi sono di certo uomini ma non
persone perché non possiedono le caratteristiche prima ricordate.

7
Ibidem, pp. 48-49.
8
S. Spinsanti, La bioetica. Biografie per una disciplina, Franco Angelini, Milano 1995, p. 86.
9
H. T. Hengelhardt, Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano 1999, pp. 124- 125.

6
Come accennavamo prima, per Engelhardt, ciascuno ha le proprie convinzioni
che però non può far valere per tutti. Più volte, lui stesso, ha affermato di essere
contrario all’aborto, ma nello stesso modo afferma che immettendosi in una
riflessione laica generale, non si può imporre una legge o un principio in una società
composta da comunità particolari che hanno diversi valori e modi di intendere. Per
Engelhardt la distinzione tra esseri umani e persone è principalmente dovuta al fatto
che nella società occorre avere le capacità, anche minime, per entrare in relazione con
gli altri e per sapere mediare i diversi interessi. Chi non può “trattare” nella
negoziazione della vita viene letteralmente escluso e affidato al buon cuore delle
persone da cui dipende la propria esistenza. Gli essere umani, infatti, dipendono in
tutto e per tutto dalle persone, nel senso che possono disporre di loro piacimento
(anche uccidendoli) senza che questo possa causare scandalo nella società laica e
pluralistica10. Nella stessa linea di pensiero troviamo Singer, il quale elabora una
distinzione fondamentale tra essere umani coscienti ed esseri umani autocoscienti, a
cui dà il nome di persone. Singer afferma anche che ci sono persone che non sono
uomini, ma appartengono ad altre specie di animali, come per esempio gli scimpanzé,
le balene o i delfini. «Così dovremmo rifiutare la teoria per cui la vita dei membri
della nostra specie ha più valore di quella delle altre specie. E così sembra che sia più
grave uccidere per così dire, uno scimpanzé, piuttosto che un essere umano
gravemente malato»11. La prospettiva su cui poggiano le riflessioni di Engelhardt,
come di Singer, appare certamente quella di una società futura “a macchia di
leopardo”, composta da tante comunità, ciascuna delle quali è modellata in maniera
propria e irriducibile alle altre comunità.
Conviene continuare la nostra riflessione ponendoci la seguente domanda:
quali sono le ragioni di queste scelte e di queste visioni antropologiche? La risposta
appare come molto semplice. Avendo eliminato ogni riferimento metafisico assoluto,
si è causato lo svuotamento dell’etica da qualsiasi contenuto sostantivo della persona.
Le ragioni di questa riflessione, secondo Engelhardt, sono da ricercarsi nella necessità
di assicurare una società pacifica, in cui ciascuno è libero di rigettare le imposizioni
morali che vengono dall’esterno: si tratta del definitivo tramonto dello stato etico12.
Per questo lo sforzo massimo della società è quello di strutturarsi come arbitro
all’interno di una comunità di “stranieri morali”. Questa società sarà pacifica perché
l’accordo è democraticamente accettato da tutti i componenti. Il compito dello stato è

10
Ibidem, p. 275.
11
P. Singer, Etica Pratica, Liguori, Napoli 1989, p. 102.
12
C. Zuccaro, cit., p. 82.

7
ancora una volta di natura burocratica, infatti occorre abbandonare l’idea di
un’autorità che possa vincolare moralmente i cittadini. Lo stato, al massimo, può far
rispettare i contratti e riconoscere qualche diritto sociale. Così si spiega anche la
scelta antropologica di Engelhardt, cioè il singolo, o chi per lui, può disporre del
proprio corpo, vendendone una parte, suicidandosi, praticando l’eutanasia, l’aborto.
In pratica queste azioni sono giustificate sul piano etico soltanto in base all’egemonia
della volontà del singolo che decide non rifacendosi affatto al significato etico che
tali azioni possono creare. La domanda determinante non riguarda la correttezza di
“ciò che si fa”, ma la correttezza di “chi lo fa”. Lo sbilanciamento della moralità
sull’agente a discapito dell’atto, ci porta ad esaminare più da vicino in che senso
l’autorità della persona è la fonte della moralità. Di certo stupisce il fatto che
Engelhardt nella sua riflessione non parli praticamente mai della coscienza morale.
Per lui avviene una vera e propria “eclissi della coscienza morale”, in quanto solo la
razionalità, l’autocoscienza e la libertà permettono alla persona di poter negoziare
nella società. La coscienza, così, pare enfatizzata nella sua dimensione psicologica,
come autorevolezza, come coscienza di sé in rapporto agli altri.
Engelhardt introduce a più riprese nella sua riflessione anche il discorso della
libertà, con un’idea dominante di questa sicuramente negativa, perché essa si pone
sempre sul versante della ragione e della consapevolezza e non tanto su quello della
volontà che decide qualcosa. La libertà, insomma, come assenza di vincoli derivanti
da impegni precedenti13. La libertà ancora come assenza di coercizione, per non
impedire all’individuo di realizzare i suoi piani, se egli ne ha le possibilità. Così si
accentua la riflessione “libertà da”, piuttosto che “libertà per”. Da qui deriva anche
un’idea particolare di responsabilità. Questa appare legata esclusivamente al soggetto
agente senza alcun riferimento al di fuori di lui. Infatti, in un contesto in cui non c’è
più nessuna autorità canonica, si torna alle parole di Protagora “L’uomo è misura di
tutte le cose”. Per Engelhardt: «noi dobbiamo rispondere di ciò che facciamo soltanto
a noi stessi e in termini stabiliti da noi»14. Se è lo stesso soggetto che diventa misura
di tutte le cose e di se stesso, questo vuol dire che dipendono da lui anche i parametri
in base ai quali si dà la propria responsabilità. La sua preoccupazione sta nel superare
in maniera definitiva un’impostazione che conduca alle stato etico. Ogni tentativo di
questo genere sta, infatti, alla base delle grandi tragedie della storia umana come
quelle, per intenderci, associate al nome di Stalin o Hitler. In una visione del genere
viene a cadere anche la tensione tra giustizia e legalità. Di conseguenza cambia anche

13
Ibidem, p. 99.
14
H. T. Hengelhardt, cit., p. 431.
8
il ruolo e l’immagine della medicina: «basti pensare a che cosa significa smettere di
considerare i tossicodipendenti degli immorali per qualificarli coma malati»15. Dentro
questo quadro l’etica deve rinunciare ad informare la medicina, evitando di
canonizzare le proprie visioni come se fossero le uniche vere.
Le riflessioni di Hengelhardt toccano anche il rapporto tra etica e fede, in
particolare sul versante della teologia. La provocazione iniziale sta nel fatto che
l’autore si dichiara cattolico ortodosso, per poi criticare in maniera radicale la fede,
che a partire dal medioevo si sarebbe alleata con la ragione e con il potere, cercando
di convincere gli altri mediante l’inevitabilità delle prescrizioni morali. Lo stato, così,
si fece garante di una sola parte della società, divenendo di fatto illiberale. Emerge in
lui l’impossibilità di riuscire a giustificare la bioetica sul piano della fede, all’interno
di una società laica e pluralistica. Si rompe, di fatto, la continuità tra etica e fede, tra
filosofia e teologia.
A questo punto noi abbiamo la facoltà di domandarci: quale etica per la
bioetica? Di certo possiamo subito affermare che l’etica, soprattutto in una società
pluralistica, non può essere confusa con la teologia cattolica, ma nemmeno con la
libertà individuale. L’etica deve piuttosto configurarsi come la ricerca della
condizione di possibilità16. Un principio importante che può farci discutere, riguardo
il quesito precedentemente posto, è quello della sacralità della vita che si oppone a
quello della qualità della vita. Nel primo caso avremo la vita intesa come dono che
non può essere “gestito” secondo i nostri interessi, nel secondo caso invece avremo la
vita come opportunità da sviluppare al meglio delle proprie possibilità. La tensione,
tra l’abbandono alla volontà di Dio e la ricerca dell’autonomia umana dell’agire,
continua ad essere presente nella riflessione morale contemporanea e sembrerebbe
che, eliminando i presupposti religiosi, anche la soluzione etica dei problemi legati
alla vita umana resterebbe senza fondamento.

15
Ibidem, p. 251.
16
C. Zuccaro, cit., p. 115.

9
1.2 La teologia morale in dialogo con la bioetica liberale

Occorre, adesso, mostrare la prospettiva della tradizione cattolica in rapporto


alle categorie fondamentali della morale con l’occhio attento al contesto dei temi
legati all’etica della vita umana. Intanto bisogna accogliere il monito del pensiero
liberale riguardo alla difficoltà cui va incontro una fondazione metafisica dell’etica.
Come abbiamo visto, la riflessione di Engelhardt porta ad enfatizzare la centralità del
soggetto nella possibile costruzione di una dimensione politica dell’etica. Ripartendo
da questa provocazione noi potremmo fondare la morale a partire dalla persona.
Strutturalmente la persona è costituita dalla relazione con gli altri, sin dal suo inizio
biologico. Pertanto la nozione di etica è derivabile non tanto da leggi o principi,
quanto dal fenomeno dell’alterità. Questa è una vera e propria alternativa alla visione
individualistica dell’uomo, l’alternativa del dono. Concepire la vita come dono
significa che la persona accoglie l’altro che incontra in modo incondizionato. Si tratta
di un rovesciamento di prospettiva a 360 gradi: l’altro non è più concepito a partire da
me, ma sono io che mi concepisco a partire da lui. Da questa antropologia può
scaturire «l’etica dell’accoglienza»17, che fa della persona un essere aperto e
predisposto alla ricezione e al dono. A partire degli anni settanta si è sviluppato un
dibattito sul rapporto tra fede e morale che ha portato alla consapevolezza che l’etica
non è la religione, ma può essere patrimonio comune a tutti gli uomini anche per
quelli non credenti. All’interno di questo contesto l’interpretazione e l’azione del
credente sarà quella di trarre un significato provvidenziale da ogni avvenimento: si
dovrebbe così affermare l’esistenza di una morale non autenticamente cristiana, ma
solo un’intenzionalità specificamente cristiana nel vivere la morale di tutti. Di per sé,
dunque, ciò che non si può comunicare in termini condivisibili per tutti è il Cristo
accettato nella fede. La morale, però, non solo può, ma deve rivendicare una sua
autonomia nei confronti della fede, che dal canto suo può portare un contributo alla
riflessione etica, per questo motivo non si può rifiutare la proposta della teologia.
Allora appare necessario aprire ogni singolo sistema scientifico in modo che, pur
mantenendo la propria autonomia, riesca a dialogare con altri punti di vista, il
risultato finale e sperato di questo rapporto è quello di avviare una riflessione verso
un senso globale della realtà. L’attuale riflessione della teologia morale ha piena
consapevolezza della sua dimensione antropologica, ma rimane discutibile dove porre
le frontiere invalicabili che il creatore ha previsto riguardo alla natura. Senza tale

17
Ibidem, p. 146.
10
consapevolezza la scienza corre il serio rischio di determinare in modo
autoreferenziale il giudizio antropologico.
Il rispetto dell’autonomia della persona nel decidere è un’istanza, oggi, molto
diffusa e molto forte, spesso invocata per esempio per il diritto all’eutanasia. Questa
riflessione è sostenuta dal cosiddetto “principio di autonomia”, con il quale la persona
diventa “norma a se stessa” ossia decide il proprio piano di vita sulla scorta di una
propria visione del mondo. Nessuno, con questi presupposti, è in grado dall’esterno o
dall’alto di determinare la decisione libera di una persona. Rifacendoci ad un caso
concreto quello di tante richieste di eutanasia, possiamo parlare di quel malato che
non è più in grado di far capire le proprie intenzioni. Il discorso consiste nel
chiedersi: se quel malato, che non è più in grado di esprimere la propria volontà,
avesse mantenuto, nonostante un testamento biologico favorevole all’eutanasia, la
capacità di nutrire una volontà interna contraria a quella precedentemente esposta,
non verrebbe così contraddetto il principio di autonomia eseguendo il suo
testamento?18. Sono questi gli interrogativi che richiedono un intervento che possa
rispondere in maniera oggettiva alla situazione del malato. Naturalmente, pur essendo
teorico, il discorso impone una necessaria applicazione nella prassi politica. Il
discorso però non deve vertere sul valore della libertà, ma va orientato dai valori
riconosciuti e accolti non in forza della propria ideologia o di una religione
particolare, ma solo in forza dell’autentica interpretazione del valore stesso. Non si
tratta dunque di un ritorno allo stato etico. Così la soluzione raggiunta non deve
essere giudicata una violenza e un sopruso nei confronti della minoranza, bisogna
lasciarsi guidare dalla ricerca del bene comune. Spesso, infatti, il principio di
autonomia nasce di certo per rispettare l’alterità, ma conduce, nella sua logica interna,
ad un rapporto di estraneità con l’altro, il quale è talmente altro che mi diventa
estraneo, e ciò significa abbandonare la persona a se stessa. Questa concezione di
persona è indubbiamente a-storica, soprattutto nella società attuale radicata in un
contesto di fitte relazioni. Il contrario del principio dell’autonomia non significa
giocoforza intrusione arbitraria e sopraffazione dell’altro, ma in un contesto di
comunità è la reciprocità, il rispetto degli altri a mantenere il legame. Autonomia non
è soffocare, ma rispondere al pianto di chi è appena nato e raccogliere il rantolo di chi
sta per morire19. Un tale concetto di autonomia suppone un’antropologia di fondo che
possa sostenerla e che può basarsi sul fatto che la persona non viene da se stessa, non
si auto-genera, ma è debitrice della vita da altri. Pertanto all’origine della sua

18
Ibidem, p. 165.
19
Ibidem, p. 171.

11
esistenza si riscontra la “cifra del bisogno” che segnerà per sempre la sua vita. In
questo contesto non è difficile immaginare la persona costituita come “aperta”.
L’altro sarà, per me, dono che mi viene offerto e compreso non come strumento, ma
come risposta al proprio bisogno di essere. Si passa, in questo modo, da un
atteggiamento di domanda di essere ad un atteggiamento di risposta al bisogno
dell’altro. Secondo il nuovo paradigma antropologico, in risposta alle tesi di
Engelhardt, appare chiaro come l’altro è inteso come dono da accogliere e da mettere
in condizione di svilupparsi.
L’interpretazione teologica di questa antropologia si può fare a partire
dall’icona del buon samaritano, il quale si lascia interpellare dal bisogno del
malcapitato incappato nei briganti e cerca di rispondervi personalmente, secondo le
sue possibilità. Cristo, buon samaritano, si apre e si lascia raggiungere dalle ferite
dell’umanità. Cristo è la risposta di Dio alle domande dell’uomo. Il cristiano, come il
Maestro, si lascia plasmare dall’obbedienza al Padre e alla necessità dei fratelli. Così,
per il discepolo di Gesù, autonomia dice libertà di poter accogliere e darsi agli altri a
seconda delle proprie peculiarità e capacità. In un mondo che ci “condanna” alla
socialità, si potrebbe credere che proprio l’assenza della passione e delle emozioni
rappresenterebbe la condizione migliore per operare la decisione. In ogni decisione il
soggetto è coinvolto nella scelta, e dopo ogni scelta la persona è come se configurasse
nuovamente se stessa, sulla base del valore morale realizzato dalla decisione. Infatti
osservando le nostre decisioni, ci accorgiamo che esse hanno una sorta di cuore
nascosto che le anima dall’interno, che potrebbe essere la fede. Ogni decisione, però,
non solo plasma noi in un certo modo, ma, nello stesso tempo, costringe anche gli
altri ad entrare in una rete di relazioni che sono caratterizzate dal nostro “nuovo” che
deriva dalla scelta operata. Si dovrebbe meglio comprendere, in questo contesto, la
convinzione che ogni nostra decisione modifica la precedente rete di relazioni e offre
nuove possibilità di stabilire rapporti interpersonali. Il dinamismo di ogni nostra
decisione coinvolge necessariamente gli altri in una di queste due logiche: di
altruismo oppure di egoismo. L’altro in questo senso può ritrovarsi nella mia scelta o
come concorrente che limita le mie possibilità, oppure come una persona che con il
suo contributo rende possibile la mia realizzazione20.
La sede morale della decisione è la coscienza. Ad essa ciascuno di noi fa
appello per giustificare le proprie decisioni. In realtà anche la coscienza deve fare i
conti con una verità oggettiva che essa non può manipolare nell’interesse della
persona che sceglie. La coscienza corre dei rischi: può essere infatti “vuota” se la

20
Ibidem, p. 183.
12
persona non s’informa prima di scegliere; può essere “delegata” se la persona si
affida ad un leader o ad una particolare corrente di pensiero. La coscienza deve fare i
conti, sempre, con il principio “responsabilità”, attraverso il quale niente e nessuno
può sostituire il compito che è affidato esclusivamente ad essa. Questa responsabilità
della coscienza non si ferma al momento della decisione, ma va avanti nel campo di
tutto l’essere e di tutto l’agire dell’uomo. La fede cristiana non distrugge, certo, il
dinamismo della decisione etica, anzi, al contrario, si può affermare che l’adesione di
fede è un fatto di coscienza. Una volta accolta, la fede, non sconvolge il fenomeno
morale, piuttosto apre al credente un orizzonte di senso caratterizzato da una novità
radicale: Cristo.
Con questi presupposti, adesso, possiamo esaminare l’espressione “sacralità
della vita”. Per Dworkin il concetto di sacro è analogico, nel senso che va assunto al
di là della ristretta accezione religiosa e misterica. Infatti, se assumiamo il termine
sacro come sinonimo di valore, ci potrebbe essere un accordo tra le posizioni liberali
e quelle conservatrici21. Diventa, così, di estrema importanza verificare che cosa le
fonti della teologia cattolica intendono per “sacralità della vita”. La teologia morale
ha compreso maggiormente che non è possibile un’autentica sacralità della vita
umana, se non dopo averla purificata da ogni elemento di ritualismo magico e
pagano22. Oltre alla dimensione religiosa e sacra, occorre prestare particolare
attenzione anche al concetto di “vita umana”. Non si può ridurre la vita umana alla
sola dimensione fisica, secondo una concezione vitalistica. D’altro canto non si può
esaltare la dimensione spirituale della libertà fino a rendere effimera la dimensione
personale del corpo. Sul piano dell’etica perciò il pensare dovrà articolarsi sulla base
di una concezione unitaria della vita umana. Inoltre la riflessione morale condotta sub
luce Evangelii non dovrebbe accantonare il confronto con la filosofia, perché questa
può interrogarsi sulla possibilità di trovare un fondamento capace di rispondere alle
domande di senso. La sacralità della vita umana si definisce innanzitutto in base al
suo riferimento a Dio, in quanto creatore e signore. Il carattere sacro può anche essere
compreso a partire della dignità dell’uomo stesso. Il discorso sulla sacralità della vita,
però, chiama in causa in primo luogo la teologia, per quel che concerne la creazione e
il rapporto che Dio instaura con la sua creatura, evitando l’interpretazione di ridurre
la presenza di Dio al solo atto iniziale della creazione. La dipendenza dell’uomo da
Dio non deve essere compresa da schiavi, ma da figli. Infatti nel rapporto creaturale
dell’uomo con Dio, la responsabilità della persona permane non per via della sua

21
Cfr. D. Dworkin, Il dominio della vita, Edizioni di Comunità, Milano 1994.
22
C. Zuccaro, cit., p. 196.
13
dipendenza assoluta da Dio, ma proprio in forza di essa. L’uomo possiede sempre più
se stesso, nella misura in cui dipende da Dio. Di fatto, così, si giunge alla conclusione
di un uomo considerato come partner di Dio, che lo chiama ad un rapporto
interpersonale, sulla base di una vocazione d’amore. Proprio in forza del suo essere
creaturale, l’uomo ha il mandato di intervenire sulla propria vita e sul mondo. Egli,
però, realizza se stesso nella sottomissione alla verità23. L’uomo non potrà mai
giustificare un’autonomia senza, o peggio ancora, contro Dio. Insomma, il rapporto
tra Dio e l’uomo non può essere compreso né secondo un “modello feudale”, nel
quale il servo (l’uomo) appartiene al suo feudatario (Dio), né secondo un “modello
commerciale”, nel quale Dio e l’uomo si farebbero concorrenza riguardo alla signoria
da esercitare sul mondo: l’autonomia dell’uomo non va vista come in contraddizione
con la sua dipendenza assoluta da Dio. La descrizione del concetto di responsabilità
dell’uomo è davvero complessa. Prima di essere responsabile sulla base degli effetti
prodotti dal suo agire, anzitutto l’uomo è responsabile nei confronti di se stesso. In
prospettiva teologica, l’identità cristiana è fondata sul Cristo, in vista del quale
l’uomo è stato creato. Con questo presupposto la responsabilità assume una
connotazione interpersonale e sociale, in cui emerge il farsi carico degli altri. La
responsabilità è così intesa come vita e come azione da persona a persona. Per tale
motivo la responsabilità sta nel cuore dell’etica, nel senso che il rapporto io-tu è
interpretato a partire dall’altro e non da se stessi.
Le riflessioni precedenti non sono ancora in grado di determinare la soluzione
di tanti casi concreti, in cui può venirsi a trovare la vita umana in condizione di
limite. Però possiamo affermare che è Dio stesso che chiede all’uomo di vivere
responsabilmente la propria vita e la propria morte. In un contesto di riflessione
teologica, la ricerca della volontà divina da parte dell’uomo si pone in termini
vocazionali, poiché si suppone che il credente abbia aderito alla persona di Cristo24.
In questo dinamismo l’uomo è portato a concepire la propria vita in Dio, il credente
così può trovare la chiave per realizzarsi nelle concrete vicende della storia. Pertanto
è la propria fedeltà al disegno divino che fonda la responsabilità dell’uomo nei
confronti del suo vivere e del suo morire, cercando di fecondarli di senso. Occorre,
nella nostra riflessione, avere anche un quadro completo della legge naturale. L’uomo
infatti, oggi, non è più considerato al di fuori della natura, ma al di dentro, per cui più
che determinare le sorti della natura egli la subisce. Quello della legge naturale non
costituisce un aspetto formale ed esplicito della Bibbia. La natura all’interno della

23
Ibidem, p. 203.
24
Ibidem, p. 226.
14
riflessione biblica viene inserita in una visione religiosa: è un’occasione che Dio offre
all’uomo perché entri in dialogo con lui25. Natura quindi da intendere non nel suo
aspetto di nativa peccaminosità, ma in chiave positiva, cioè come possibilità in Cristo
di ricevere una nuova “natura soprannaturale”26. Il punto di partenza per comprendere
la legge naturale, in tutto il Nuovo Testamento, è la grazia di Cristo, che per
l’apostolo Paolo non è nient’altro che l’agape di Dio. Partendo da questo
presupposto, la legge naturale non ha nulla a che vedere con rigide formulazioni
normative che specificano il comportamento dell’uomo. Al contrario, la realizzazione
della legge naturale è affidata alla decisione libera e consapevole che l’uomo prende
nel seno della comunità. Anche un veloce sguardo alla storia della filosofia può
aiutarci a superare l’idea di una legge naturale considerata come seguito di regole
dettate dalla natura fisica di piante e animali. La natura per Aristotele si radica dentro
il quadro di un ordine universale. Per il filosofo greco l’uomo vive secondo natura
quando riesce con l’intelletto ad ordinare in modo ragionevole tutte le inclinazioni
naturali inferiori. Così la legge naturale, già nel pensiero aristotelico, non si ferma ad
accettare passivamente qualsiasi istinto in modo arbitrario. Essa riveste in modo più
che evidente un significato antropologico. Gli stoici, invece, intesero la natura in
modo più oggettivato, specificando il senso della natura accanto ad un’accezione
fisica del termine, sul quale pongono maggiormente l’accento. È questo pensiero che
in parte verrà assunto e trasmesso nella Chiesa dei primi secoli attraverso i Padri. Per
loro la legge naturale diventa la nativa costituzionale finalizzazione dell’uomo,
creatura di Dio, verso il compimento del bene27. S. Tommaso si pone come momento
di sintesi di tutta la tradizione patristica che corregge alcuni aspetti della natura, quali
la concezione panteista e fisicista. La legge naturale si comprende, per l’Aquinate, a
partire da una duplice prospettiva: la legge eterna, con la quale Dio provvede al
governo del mondo, e la ragione umana, che sta al fondo di ogni legge28.
Nel panorama teologico morale contemporaneo il tema della legge naturale
continua ad occupare un posto preminente. Diventa, per questo motivo, ancora più
urgente chiarire sempre più il concetto di legge naturale. La riflessione teologica è in
debito rispetto alle provocazioni che le vengono rivolte dal pensiero laico. Mi pare,
però, che, nonostante qualche residuo di comprensione equivoca, sia ormai
definitivamente tramontata l’errata interpretazione fisicista della legge naturale29.
25
Ibidem, p. 230.
26
Cfr. A. Russo, Henri De Lubac, San Paolo, Milano 1994.
27
C. Zuccaro, cit., p. 237.
28
Ibidem, p. 239.
29
Ibidem, p. 244.

15
Cap. 2°:
Aborto: dal possesso al dono

2.1 Aborto: alcune indicazioni mediche e giuridiche

L’aborto è l’interruzione prematura di una gravidanza. Questa può avvenire per


cause naturali (aborto spontaneo) o può essere provocata artificialmente (interruzione
volontaria della gravidanza). L’aborto può essere così classificato secondo l’età
gestionale in cui si manifesta:

- Aborto embrionale (entro le prime sette settimane)


- Aborto fetale (a partire dall’ottava settimana)
- Aborto tardivo ( dopo le ventuno settimane di gestazione)

L’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) consiste nell’interruzione


dello sviluppo dell’embrione o del feto e della sua rimozione dall’utero della
gestante. La pratica dell’aborto volontario viene svolta, nella maggior parte dei paesi
del mondo, a discrezione della donna nei primi mesi della gestazione, in presenza di
gravi malformazioni al feto, nei casi di pericolo per la salute della madre, ma anche
per altri motivi indipendenti dalla condizione di salute della madre o del feto (come la
condizione economica, familiare, psichica, sociale).
Esistono diverse tecniche di aborto, fra le quali ricordiamo:
Estrazione mestruale: si tratta di un aborto per aspirazione molto precoce, spesso
fatto prima che la prova di gravidanza possa risultare positiva.
Aspirazione: l’aborto per aspirazione è oggi la procedura più comunemente
praticata. Circa il 90% di tutti gli aborti accadono nel primo trimestre, e questo
metodo riguarda la stragrande maggioranza degli aborti che si operano nel primo
trimestre di vita. Prima che la procedura inizi, la cervice della donna deve essere
immobilizzata e dilatata manualmente in modo da permettere l’inserimento,
nell’utero, di un tubo vuoto di plastica con all’estremità una lama tagliente. Questo
tubo è collegato ad una macchina di aspirazione che è in grado di aspirare l’embrione
o il feto uccidendolo. Gli aborti per aspirazione non sono effettuati generalmente
nella prima settimana o dopo la quindicesima settimana.
Dilatazione e taglio con curette affilato: nell’aborto per dilatazione e taglio, un
curette affilato è usato per smembrare e rimuovere l’embrione o i feti dall’utero della

16
madre. Il curette è inserito direttamente nell’utero della madre e utilizzato per
raschiare, prima l’embrione o il feto e quindi la placenta fuori dall’utero della madre.
La perdita di sangue è generalmente abbondante.
Dilatazione ed espulsione: la dilatazione ed espulsione è una procedura di aborto
che si attua nel secondo trimestre. Per la riuscita della procedura, la cervice della
donna deve in primo luogo essere dilatata per un periodo di due o tre giorni prima
dell’aborto. Quando donna ritorna in clinica per abortire, vengono inseriti i forcipi
nell’utero, attraverso la cervice ingrandita. L’abortista allora utilizza il forcipe per
smembrare il feto afferrando un piedino o un braccio e torcendolo fino a che non si
strappi e non possa essere estratto dall’utero. Continuerà questa macabra esecuzione
fino a che non rimanga soltanto la testa. Infine il cranio è schiacciato ed estratto. Le
parti del corpo devono essere riunite per accertarsi che l’intero feto sia stato rimosso.
Dilatazione ed estrazione: la dilatazione ed estrazione (spesso denominata parto
parziale) è una tecnica usata durante il secondo o terzo trimestre di vita e solitamente
è effettuata su un feto già ben formato. I forcipi, infilati nel canale cervicale, sono
utilizzati per posizionare il feto con i piedi in direzione di uscita e la faccia in giù, in
modo da poterlo asportare. Il corpo del feto viene tirato nel canale di nascita, ma la
testa (troppo grande per passare attraverso la cervice) è lasciata all’interno. Le braccia
e i piedi esposti (e probabilmente flagellati) si muovono, ed il piccolo feto viene
orribilmente terminato dall’abortista che inserisce delle forbici chirurgiche smussate
nella base del cranio fetale allargando le punte per dilatare la ferita. Un aspiratore è
inserito nel cranio ed il cervello è succhiato fuori. Il cranio, privo del cervello, si
assottiglia fino a che la testa del bambino non possa passare attraverso la cervice.
Isterotomia: questo metodo è usato solitamente in gravidanze avanzate ed è
paragonato ad un taglio cesareo anticipato. L’addome e l’utero della madre vengono
aperti chirurgicamente ed il feto è fatto uscire. Purtroppo, molti di questi bambini,
una volta rimossi dal grembo materno sono ancora vivi. Si è saputo che, per uccidere
i bambini, alcuni abortisti erano soliti immergerli in secchi d’acqua oppure li
soffocavano nella placenta. Altri ancora tagliavano il cordone mentre il bambino si
trovava all’interno dell’utero così da privarlo del necessario ossigeno.
Aborto da iniezione salina: gli aborti da dilatazione ed estrazione hanno in gran
parte sostituito questa tecnica abortiva. Il rischio estremo per la madre, ha di fatto
diminuito drasticamente il ricorso a tale pratica in passato assai ricorrente. Negli
aborti ad iniezione salina, fatti dopo la sedicesima settimana, un grande ago viene
inserito tramite la parete addominale della donna e nel sacco amniotico del bambino.
Una soluzione salina concentrata è iniettata nel liquido amniotico con conseguente
avvelenamento acuto da sale. Il bambino che respira e deglutisce la soluzione
17
solitamente muore in un paio di ore. La disidratazione, l’emorragia del cervello, i
gravi danni agli organi e la pelle bruciata inoltre sono fattori che contribuiscono ad
accelerare la morte dei feti. Generalmente la madre il giorno successivo all’iniezione
consegna agli abortisti il proprio neonato morto.
Aborto da prostaglandine: l’ormone iniettato o assunto tramite supposte, produce
una violenta reazione. Se il feto è abbastanza cresciuto può sopravvivere al trauma, e
continuare a vivere, ma è solitamente troppo piccolo per sopravvivere.
Aborto Medico (RU 486): Recentemente, le tecniche di aborto non chirurgiche
stanno aumentando. Gli aborti medici sono una procedura in due tappe e l’efficacia
abortiva è garantita solo sugli embrioni formati nelle prime sei o sette settimane di
gravidanza. Si comincia il processo prendendo la prima pillola (RU-486) per inibire
l’ormone responsabile della produzione del rivestimento nutriente dell’utero durante
la gravidanza. Una volta che l’utero si compromette, l’embrione muore di fame. Due
giorni dopo l’assunzione della prima pillola, la donna assume una dose di misoprostol
per far partire le contrazioni uterine. La maggior parte delle donne espelle l’embrione
morto entro quattro ore dall’assunzione del secondo farmaco. La chiamata finale (la
terza) deve avvenire due settimane dopo, per accertarsi che l’aborto sia
effettivamente avvenuto. Se l’embrione non è stato abortito sarà richiesto un aborto
chirurgico.
Aborto per parto parziale: l’aborto per parto parziale comincia quando il dottore
prende con una pinza il bambino dal ventre materno. Quando i piedi del bambino
sono fuori dall’utero, l’abortista lo prende con le sue mani e lo tira fuori, come se si
trattasse di un parto naturale, però assicurandosi che esca con i piedi. Quando il
bambino è fuori con il corpo ma la sua testa è ancora dentro il ventre materno,
l’abortista gli trafigge la nuca con delle forbici.

Quali sono le conseguenze di un aborto sulla salute? Le possibili conseguenze


sulla salute della donna variano considerevolmente a seconda della situazione. Va
dunque anzitutto considerato il motivo per cui si ricorre all’aborto procurato, e cioè
se siano motivi inerenti allo stato di salute della donna o meno. Dal punto di vista
fisico, se l’aborto avviene nelle prime otto settimane il rischio è pressoché inesistente
e più basso del parto. Il rischio aumenta al progredire della gestazione. Le
complicanze più frequenti sono: perforazioni all’utero, alla vescica a all’addome,
causate da imperizia o dagli eventuali bruschi movimenti imprevisti della paziente.
Un aborto non propriamente eseguito può portare a schock settico se rimangono
residui nella cavità uterina. Allo stesso modo può generarsi infertilità e nei casi più
gravi la morte, che è in massima parte connessa ai rischi dell’eventuale, e quindi
18
sconsigliata, anestesia totale. Va ricordato che un ridottissimo numero di casi di
aborti non va al termine e la gravidanza prosegue, dando luogo regolarmente alla
nascita del bambino. Questa eventualità, molto rara, si verifica nei casi in cui la
gravidanza sia in fase molto avanzata. È evidente, quindi, il motivo per cui la legge
obblighi il ricorso a personale medico competente e a strutture adeguate. Solo in
queste condizioni è possibile minimizzare i rischi anche nelle situazioni più
sfavorevoli.

Prima del 1975 l’aborto in Italia non era consentito, e anzi veniva sanzionato
dalle norme contenute nel titolo X del libro II del codice penale; tuttavia, la
giurisprudenza applicava con una certa frequenza come causa di giustificazione lo
“stato di necessità”, previsto dall’art. 54 dello stesso codice, ritenendo non punibile
l’intervento abortivo reso necessario per salvare la vita della gestante e, in taluni casi,
anche per ragioni di salute, seppure gravi: era una soluzione che valutava
l’interruzione della gravidanza in termini di illiceità, salvo rinunciare all’applicazione
della pena nel caso concreto, in presenza di circostanze di fatto rigorosamente
verificabili. Il primo sensibile mutamento di rotta avviene nel 1975, con la sentenza
della Corte Costituzionale n. 27 che, pur riconoscendone “fondamento costituzionale”
alla “tutela del concepito” nell’art. 2 della Costituzione, posto a garanzia dei diritti
inviolabili dell’uomo, compie un salto quando afferma che “…non esiste equivalenza
tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come
la madre, e la salvaguardia dell’embrione, che persona deve ancora diventare”, quasi
che si possa distinguere tra persona in senso assoluto e persona in senso relativo.
Questa decisione ha, di fatto e di principio, aperto la strada all’aborto che è stato
introdotto con la legge n. 194 del 22 maggio 1978, la quale indica la pratica abortiva
con l’eufemismo “interruzione volontaria della gravidanza”, suddividendo in modo
del tutto arbitrario la vita intrauterina in tre periodi, fissando per ciascuno di essi una
differente disciplina.
Il primo periodo: regolamentato dagli articoli 4 e 5, coincide, pur se in modo non
del tutto esatto, con i primi novanta giorni della gestazione, nel corso dei quali è di
fatti ammesso l’aborto senza limiti. Ogni ragione è valida, dalle condizioni
economiche, sociali e familiari, alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento,
alle previsione di anomalie o malformazioni del nascituro. La gestante si può
rivolgere al consultorio, o a una struttura socio-sanitaria, oppure al proprio medico di
fiducia: costoro secondo la previsione di legge, dovrebbero indurla a riflettere e
dissuaderla dall’aborto, prospettando le possibili alternative. Se ravvisano l’urgenza
dell’intervento, rilasciano un certificato con il quale la donna può immediatamente
19
recarsi ad abortire. In concreto, non ha alcun rilievo la ragione avanzata dalla gestante
a sostegno della propria decisione: poiché non è prevista alcuna verifica della sua
fondatezza.
Il secondo periodo: il secondo periodo, disciplinato dagli artt. 6 e 7, è quello
compreso fra il quarto mese di gravidanza e la possibilità di vita autonoma del feto e
quindi non è determinabile a priori. In tale arco temporale l’aborto può praticarsi per
motivi terapeutici e perciò anche in riferimento alla salute psichica della donna.
Queste indicazioni vanno medicalmente accertate, pur se la genericità delle
formulazioni non consente una verifica rigorosa.
Il terzo periodo: è quello compreso fra il momento della vitalità del nascituro e la
nascita dello stesso: l’aborto è praticabile solo se è in pericolo la vita della donna.

La legge n. 194 prevede inoltre l’assenso dei genitori o del tutore per
l’interruzione della gravidanza di una minore e, in mancanza, l’autorizzazione del
giudice tutelare.

“La legge si propone di: azzerare gli aborti terapeutici; di ridurre gli aborti
spontanei; di assistere quelli clandestini. Si propone inoltre di favorire la
procreazione cosciente, di aiutare la maternità, di tutelare la vita umana dal suo
inizio”. Con queste parole uno dei relatori della legge sull’aborto, l’on. Giovanni
Berlinguer, ne riassumeva gli intenti e gli obiettivi; trentadue anni costituiscono un
tempo più che considerevole per verificare se questi ultimi siano stati eseguiti.
Gli aborti terapeutici invece di azzerarsi sono aumentati a dismisura, con una
media di poco inferiore ai duecentomila l’anno30, e un rapporto annuo che è di un
aborto ogni tre o quattro nati vivi. I dati diffusi annualmente dal ministero della
Sanità, dimostrano, inoltre, che il profilo medio della donna che fa ricorso all’aborto
è nella gran parte dei casi coniugata in età compresa tra i venticinque e i trentaquattro
anni, con un sufficiente livello di istruzione, e con non più di due figli. La legge ha
fallito pure sul versante della lotta alla clandestinità perché, sempre in base alle stime
ministeriali, l’aborto clandestino si attesterebbe attualmente fra le cinquanta e le
sessantamila unità l’anno. Quanto all’aiuto alla maternità e alla tutela della vita
umana, resta solo la constatazione di una grande ipocrisia perché, senza che esista
nell’ordinamento giuridico una legislazione di reale accoglienza della vita, la legge n.
194 ha conferito il “diritto” di sopprimere ciò che fa diventare madre, e quindi di
violare la natura umana.
30
Tutti i dati presenti nella seguente sezione sono tratti da: AA. VV., Guida alla prevenzione, vol. II, a cura di U.
Veronesi, RCS Quotidiani, Milano 2008.

20
2.2 Aborto: una questione sociale, morale, pastorale

La questione dell’aborto è sicuramente molto dibattuta, anche se viene


affrontata spesso con toni molto accesi. La mancanza di obiettività, tipica della
discussione caratterizzata da pressioni ideologiche, crea il più delle volte contrasti e
sovrapposizioni tra il livello medico, quello socio-giuridico e quello morale. È
naturale che non si può formulare né una severa valutazione del “dramma”
dell’aborto, né una sua soddisfacente soluzione a livello sociale, se ci si lascia
influenzare da interpretazioni ideologiche o da approcci sentimentali. Almeno su di
un punto, quasi tutti, ormai sembrano d’accordo: l’aborto in sé non è un bene, ma
anzi è un male che va estirpato dalla società. Circa i modi per giungere a liberare la
donna e l’intera società dal male dell’aborto si stenta molto a trovare valide soluzioni
che possano convincere tutti. L’impressione, però, è che da tempo si cerca di coprire
questa problematica con un velo di silenzio, che vorrebbe mettere in soffitta i tanti
problemi irrisolti. Le riflessioni su questo tema sono, inoltre, “arricchite” con termini
piuttosto ipocriti, come l’espressione interruzione volontaria della gravidanza, o
pillola del giorno dopo (RU 486), che pur essendo un abortivo è definita
contraccettivo d’emergenza. Di certo però nessuna parola vale a mutare lo stato delle
cose: «l’aborto procurato è l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata,
di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il
concepimento e la nascita»31.
La pratica dell’aborto esiste da molti secoli, assai antica è anche la
riprovazione morale dello stesso, come dimostra il Giuramento di Ippocrate, in cui si
dice: «non darò mai ad una donna un rimedio abortivo». La disapprovazione etica
dell’aborto non si basa primariamente su motivi confessionali, ma sulla sua intrinseca
illiceità, quale appare alla coscienza di ogni uomo. Non è sullo scontro confessionale,
dunque, che si può fondare l’analisi di questa problematica.
Le tecniche abortive oggi si diffondono sempre più, grazie anche all’opera
delle grandi case farmaceutiche e di alcune istituzioni pubbliche, originando quella
che Giovanni Paolo II ha definito: «una congiura contro la vita»32. Con difficoltà però
si potrà dire che l’aborto sia una questione esclusivamente privata, che attiene alla
sola coscienza dell’individuo e non comporta alcuna ricaduta di carattere pubblico.
Oggi prevale un’errata concezione della libertà individuale, che interpreta la società
solo come una sorta di “sfondo esteriore” nel quale agire secondo i propri interessi
31
Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, Paoline, Milano 1995, p. 88.
32
Ibidem, p. 21.

21
soggettivi e concepisce l’ordinamento giuridico di uno Stato solo come la
registrazione passiva dei convincimenti di una maggioranza delle persone, senza
interrogarsi sui risvolti morali delle leggi promulgate.
L’embrione umano, fin dal suo concepimento, è un essere umano vivente,
dotato di una propria identità e di un’autonoma capacità di sviluppo. Nei suoi
confronti è dovuto perciò lo stesso rispetto che dobbiamo tributare ad ogni nostro
simile. Risulta pertanto sbagliato valutare la responsabilità morale dell’aborto a
partire dalle esigenze della madre. Va sottolineato che: «la responsabilità per l’altro
fonda l’esercizio della propria libertà, che si realizza solo nel suo compito di
provvidenza per lui»33. Tutto questo trova una risposta nel processo di gravidanza,
che pone in particolare la madre, ma in realtà anche tutti gli altri familiari, in una
tensione di provvidenza verso l’atteso; tensione che innalza la loro libertà personale.
L’eventuale scelta abortiva, anche se supportata da motivazioni drammatiche, non
può scalfire questa relazione di responsabilità che si crea in particolare tra i genitori e
il nascituro. In ogni caso i genitori si relazionano con lui, essi non possono fare a
meno di pensare a lui come ad un “altro da sé”. Nella maggior parte dei casi, l’aborto
incide anche una ferita profonda, nel cuore, nell’io della madre e di quanti, in un
modo o nell’altro, hanno favorito una tale decisione.
Di fronte alla gravissima piaga dell’aborto la comunità cristiana non può
restare inerte, né può fermarsi ad una semplice azione di denuncia. Va ribadito con
chiarezza che la contrarietà all’aborto non risiede primariamente nella professione di
una fede religiosa, ma nei dettami dell’etica naturale, che ogni uomo è in grado di
cogliere nella sua coscienza. Bisogna perciò fare di tutto per trovare forme di dialogo
fra le culture diverse, in modo da risolvere questo “male” sociale che non può lasciar
tranquillo nessuno. La Chiesa che è «il popolo della vita e per la vita»34, è chiamata
da Cristo ad annunciare il Vangelo della Vita, che non è in primo luogo un annuncio
negativo, ma una lieta novella. La parola annunciata dalla Chiesa è chiamata anche a
scuotere le coscienze ed a condurle ad un’assunzione di responsabilità. Superando la
quasi improduttiva fase della denuncia e della protesta, la comunità cristiana può
pensare ad interventi più efficaci nel campo dell’istruzione e dell’educazione, in
particolare di una sana educazione alla sessualità, che consenta ai giovani di
apprezzare il dono di questo linguaggio d’amore e il suo fisiologico collegamento con
la procreazione. Le famiglie e le scuole, ma anche la stessa comunità ecclesiale, sono
chiamate a farsi carico di questo compito formativo. Pensiamo anche ad una

33
C. Zuccaro, La gravidanza: aspetti etici fondamentali, in “Rivista di teologia morale” n.117 (1998), pp. 84-85.
34
Giovanni Paolo II, cit., p. 118.

22
maggiore valorizzazione dei consultori familiari, dei centri di aiuto alla vita e di tutte
quelle strutture sociali che possono svolgere un ruolo di primo piano nella
prevenzione dell’aborto e nella rimozione delle cause che ad essa conducono. Una
particolare attenzione va rivolta, in ogni caso, alla donna gestante, la quale è sempre
meritevole di rispetto, ascolto, sostegno. Giovanni Paolo II rivolge, alle donne che
hanno praticato l’aborto, parole di grande misericordia: «Un pensiero speciale vorrei
riservare a voi, donne che avete fatto ricorso all’aborto. Non lasciatevi prendere dallo
scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò
che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l’avete fatto,
accostatevi con umiltà e fiducia al pentimento»35. Aiutata adeguatamente da tutta la
società, la donna è chiamata a farci comprendere che la gravidanza non è un
problema, ma uno splendido evento, che segna la vittoria della vita sulla morte.
Quello della gravidanza è il tempo umano per eccellenza: tempo di un’attesa,
riempita da una vita umana che si sta sviluppando; non tempo di minaccia, di rifiuto,
di aggressione, ma tempo di amore. In nessun caso va dimenticato che l’atteso è
opera di Dio. Di fronte a Lui, il cui valore supera quello di ogni struttura sociale e di
ogni mezzo finanziario, noi dobbiamo palesare un atteggiamento di riverenza
adorante.

2.3 «Sono forse io il guardiano di mio fratello?» (Gn. 4,9)

L’evento tragico dell’uccisione di una persona umana da parte di altre persone


umane, secondo la prospettiva biblica compare nell’orizzonte della storia assieme
all’uomo stesso. Sin dai primi giorni del suo esistere l’uomo si ritrova a riflettere su
di esso e sulle sue azioni: l’uccisione del fratello da parte del fratello. La bibbia vuole
evidenziare chiaramente il significato che acquisisce e che dovrebbe essere attribuito
all’uccisione da parte di un uomo di un’altra persona umana. Con l’uccisione di
Abele da parte di Caino la bibbia ci dice che l’uccisione di una persona è sempre
uccisione di un fratello, quindi ogni omicidio assume i connotati di un fratricidio.
Caino, cioè il fraticida per antonomasia non solo e non tanto perché uccide il figlio di
suo padre e di sua madre, ma perché in quanto persona umana uccide un’altra persona
umana. Dio chiede a Caino conto di Abele in quanto fratello: «Dov’è Abele tuo

35
Ibidem, p. 146.
23
fratello»36. Non vale a nulla la domanda con cui Caino («Sono forse io il guardiano di
mio fratello?») pensa di rispondere a Dio: con essa il racconto biblico fa emergere
ancora più chiaramente che ogni uomo è Abele per qualsiasi altro uomo e che ognuno
è guardiano del proprio fratello. Caino ponendo quella domanda pensa di potersi
esimere dal rispondere alla domanda di Dio, pensa quasi di poter giustificare il suo
precedente gesto fraticida. Se egli, infatti, non è guardiano del fratello avrebbe potuto
anche eliminarlo, e affermare la possibilità di eliminare Abele significa affermare
sempre esserci un uomo non fratello per l’altro uomo, che potranno esserci sempre un
Abele e un Caino nella storia dell’umanità. Ma se da un parte per la bibbia Caino si è
macchiato di una grave colpa, uccidendo Abele, dall’altra non per questo egli può
diventare Abele, non per questo altri potranno comportarsi nei suoi confronti come
egli si è comportato nei confronti di Abele: colpire Caino significa diventare come
lui, per tutti, sempre. Il segno che Dio impone a Caino «perché non lo colpisse
chiunque l’avesse incontrato»37 non è solo il segno del suo perdono che non viene
mai meno, ma anche il monito rivolto all’uomo, ad ogni uomo di ogni epoca storica,
ad ogni gruppo e ad ogni istituzione umana, di non ritenersi mai esenti dalla
responsabilità di considerarsi guardiani di ogni fratello, anche di colui che si è
comportato come Caino.
Il racconto biblico dell’uccisione di Abele da parte di Caino è
emblematicamente ripresentato in ogni epoca storica, compresa quella
contemporanea, in cui c’è qualcuno (pensiamo riguardo la nostra riflessione
sull’aborto, agli embrioni o ai feti) che si ritrova nelle condizioni di Abele, o
qualcuno che pensa e agisce come Caino: «I due personaggi non sono scomparsi dalla
scena della storia umana. Il Caino e l’Abele di oggi, ovviamente, si ripresentano sotto
vesti diverse»38. Per questo proviamo a chiederci: chi è oggi Abele? Chi Caino? Ciò
che contraddistingue Abele rispetto a Caino è proprio la sua debolezza magari non
solo fisica, forse certamente ontologica. La debolezza di Abele, infatti, è la debolezza
che contraddistingue l’uomo giusto rispetto all’uomo ingiusto, la debolezza della
bontà rispetto alla cattiveria, dell’onestà rispetto alla vigliaccheria, dell’uomo
disonesto, ricco, potente, armato rispetto all’uomo povero, inerme, onesto, coerente,
indifeso. La debolezza dell’Abele di oggi è anche la debolezza di tutti coloro che non
hanno voce nella società contemporanea, di quelle categorie di persone che non
riescono, che non possono, che non hanno la forza o il diritto di rivendicare i propri

36
Gn. 4,9.
37
Gn. 4,15.
38
S. Privitera, La questione bioetica e la città oggi, Centro Studi Cammarata, Caltanissetta 1998, p. 85.

24
diritti: gli embrioni, i feti, ma anche gli affamati, i diversamente abili. Abbiano mai
assistito ad uno sciopero di queste categorie? Abbiamo mai permesso alla categoria
degli embrioni o dei feti, di scendere in piazza e protestare contro la sorte che la
società, che noi stessi (il Caino di oggi) abbiamo fatto ricadere su di loro? Se a certe
categorie di persone noi, come società, abbiamo tolto, o non diamo, il diritto di
rivendicare i loro diritti, sicuramente stiamo perfettamente recitando la parte di Caino
che uccise Abele. È ancor più paradossale che spesso, noi stessi, non ci accorgiamo di
essere come Caino, perché non vediamo affatto una situazione di debolezza, ma solo
il nostro comodo. Dice Salvatore Privitera: «La figura di Caino è anche quella di
colui che pensa di potersi arrogare più diritti di altri, di possederne più di altri, di non
avere l’obbligo di partire sempre dal punto di vista dell’imparzialità nell’impegno del
suo esistere quotidiano. La figura di Caino è quella di colui che pensa in certe
situazioni il singolo e la società non abbiano la responsabilità di custodire la vita del
fratello, di non doverla garantire a certe categorie di persone, di poter attribuire i
diritti, compreso quello della vita, a proprio piacimento o in base al criterio della
convinzione maggioritaria»39. Il Caino di oggi non è solo colui che toglie la vita ad
altri con la violenza, ma anche colui che pensa di avere più diritti degli altri, che
sopprime la vita nascente. Tutto ciò avviene quando non si considera la vita come un,
come il valore fondamentale. In questo senso la riflessione di base della teologia
morale dovrà sempre partire dal valore della vita, perché è moralmente illecito
uccidere, perché la vita è sacra e, quindi, non si ha il diritto, o il permesso, di
toglierla. Così la riformulazione teologica del non uccidere emerge come esigenza
ineludibile.

2.4 Se l’Ethos viene disgiunto dallo Ius

Sembra di capire, dall’impostazione di autori come Engelhardt e Singer,


analizzati nella prima parte di questo lavoro, che l’idea di diritto che si ha in mente
sia quella di un insieme di norme giuridiche che programmaticamente evitano di
entrare dentro il merito della giustizia e del valore per garantire un bene comune che
abbia un contenuto sostantivo. Esplicitamente si riconosce l’impossibilità di un

39
Ibidem, p. 87.

25
dialogo tra l’etica e il diritto40 motivando tale rifiuto con il sospetto che, in questo
modo si introdurrebbe di nuovo una sorta di “stato etico” che finisce per imporre ai
cittadini una visione massificante. Perciò il diritto deve riguardare la creazione di un
sistema operativo in cui ci sono delle regole programmatiche da rispettare.
Fondamentalmente questo va inteso come se ciascun cittadino fosse libero di fare ciò
che vuole, con la sola limitazione di non poter imporre il suo punto di vista a nessun
altro che non lo voglia e non l’accetti. Pertanto, lo stato deve garantire che a nessuno
venga imposta una legge che prescrive un comportamento etico che il singolo non
accetta. Possiamo pensare al caso dell’aborto: una legge che lo impedisse su scala
sociale/nazionale sarebbe illegale poiché si fonderebbe sulla presunzione che
l’embrione è persona, affermazione che qualcuno potrebbe non accettare come vera e,
per questo, vedrebbe nella legge una costrizione alla sua libertà. Secondo la stessa
motivazione, naturalmente non sarebbe nemmeno giusta una legge che imponesse a
tutti l’aborto perché potrebbe esserci qualcuno che non accetti l’eticità della cosa. La
conclusione è che lo stato è tenuto a garantire il diritto e la libertà sia da una parte che
dall’altra.
La storia dei rapporti tra etica e diritto ha subito diverse accentuazioni nel
corso del tempo. Una prima concezione del diritto in rapporto all’etica vede la
dipendenza del primo dalla seconda ed è caratterizzato dal giusnaturalismo, cioè dalla
possibilità di fondare il diritto e i diritti sulla natura umana. Dunque, la ricerca del
diritto si muove sul piano dei contenuti oggettivi, piuttosto che su quello delle
formalità e delle regole procedurali, fino a giungere ad una vera e propria incapacità
di pensare il diritto se non a partire dalle categorie fondamentali dell’etica41. Questa
situazione cambia nell’epoca moderna con il Rinascimento e la Riforma protestante:
si afferma progressivamente la separazione del diritto dall’etica42. Questo non va
inteso come se il diritto non avesse una sua propria deontologia, ma nel senso che la
sua indipendenza dall’etica si esprimeva attraverso finalità e itinerari propri,
determinati da una razionalità che mirava alla composizione delle controversie
individuali e sociali. Il metodo era ispirato a procedure verificabili in modo obiettivo
e visibile. Contestualmente a questa peculiarità del diritto, la morale si ritirava nel
privato ed era rivolta soprattutto all’intimità della coscienza della singola persona.
Nell’epoca contemporanea, non a torto, possiamo parlare di una sorta di priorità del
diritto sull’etica. Così si delineava una società nella quale la virtù non va ricercata nel

40
C. Zuccaro, Bioetica e valori nel postmoderno in dialogo con la cultura liberale, cit., p. 156.
41
AA. VV., Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Paoline, Cinisiello Balsamo 1990, pp. 861-872.
42
C. Zuccaro, cit., p. 158.

26
campo dell’etica, che interessa gli aspetti privati, ma in quello del diritto che serve a
regolare il vivere comune. Pertanto, compito del diritto, non è più quello di ricercare
la correttezza morale delle azioni degli uomini, ma soltanto di assicurare, a queste,
una procedura formale corretta. Così il problema non si pone più sul versante della
giustizia, ma su quello della validità. Proprio l’esasperazione di questo positivismo, a
discapito dell’etica, secondo alcuni ha reso più facile la legittimazione delle
esperienze storiche degli stati con regimi dittatoriali nei confronti delle quali il diritto
non si poneva il problema della giustizia, ma solo quello della validità formale degli
atti politici. Sembra che nasca dalla degenerazione politica (vedi Auschwitz) la
diffusa concezione di un diritto fondato sui valori fondamentali della dignità della
persona ammettendo “un’etica minima”. Ora possiamo anche concordare con
l’introduzione della dignità della persona come fondamento del diritto, ma il
problema nasce nel momento in cui si tratta di storicizzare la dignità della persona
passando dal livello della filosofia del diritto a quello legislativo; in questo caso il
ricorso alla dignità della persona mantiene una forza esclusivamente parenetica 43.
Occorre ancora notare che ignorando i contenuti del diritto e riducendolo a pure
forme di procedure, si corre il rischio di giustificare “nuove Auschwitz”. Infatti il
principio del permesso non è sufficiente a garantire la competenza del soggetto nel
valutare se accettare o meno una proposta che viene da un interlocutore più potente di
lui, per il semplice fatto che quest’ultimo troverà certamente i modi per manipolare la
coscienza.
La società, e ciascuno di noi, ha sempre il dovere di garantire i terzi: su questo
dovere si fonda la prospettiva giuridica. L’esigenza di formulare giuridicamente certe
prescrizioni si identifica, cioè, con l’obbligo morale che noi abbiamo di garantire a
tutti certi diritti, di evitare che vengano minacciati, di fare in modo che ognuno possa
esprimersi nella sua piena libertà, ma senza ostacolare mai quella degli altri 44. In
quanto società, attraverso il diritto e la legislazione noi cerchiamo di garantire terzi,
soprattutto quelli più deboli e indifesi. Il rispetto della vita di tutti, del feto e
dell’embrione, dell’anziano e del diversamente abile è la grande emergenza del
momento attuale, perché oggi si presta pochissima attenzione alle categorie più
deboli come quelle degli embrioni, degli anziani, dei malati terminali, di coloro che
non hanno voce e che non possono mai difendere i propri diritti nemmeno quando se
li vedono calpestati. Quando uno di noi si vede minimamente ferito e non rispettato
nei suoi diritti reagisce, li afferma, li rivendica, in rapporto alla forza che possiede.

43
Ibidem, p. 160.
44
S. Privitera, cit., p. 34-35.

27
Ora nella nostra società contemporanea si è determinata una situazione in base alla
quale certe categorie non hanno possibilità alcuna di rivendicare i propri diritti come
in fondo succedeva in qualsiasi altra società di ieri agli embrioni, ai malati terminali.
Ma l’emergenza più significativa consiste nell’incremento considerevole che ha avuto
il numero di coloro che appartengono a queste categorie e soprattutto nella subdola
idea che è andata affermandosi di pensare che si faccia il loro “bene” accontentando
il loro desiderio di essere eliminati. Evidenziare il risvolto politico delle scelte morali
significa quindi porsi di fronte a questa prospettiva e cercare di capire quali siano le
conseguenze che il nostro agire provoca agli altri. Se noi seguiamo l’impostazione di
una morale privatistica, che evidenzia solo le esigenze comportamentali
dell’individuo-persona, la ricaduta politica è quasi completamente assente,
negativamente assente45. L’impegno sociale o politico nella città contemporanea o
nella società di oggi, quindi, è anche una nostra ben precisa responsabilità morale, un
dovere al quale non tanto facilmente possiamo sottrarci.
Superare la limitatezza della prospettiva individualistica dell’etica non significa
far proprio il discorso del sostenitore dell’etica pubblica. Alla base dell’impostazione
del discorso dell’etica pubblica, infatti, c’è quel principio secondo il quale siamo noi
a determinare la prospettiva etica, a crearla a nostro uso e consumo. In una società
pluralistica si rende necessario un punto di partenza comune a tutti sulla base del
quale costruire quella parte del sistema etico da tradurre in sistema giuridico. Questa
prospettiva, purtroppo, viene poi acriticamente assunta o importata all’interno della
riflessione etica. Se in seno alla filosofia del diritto una simile verità risulta
fondamentale per costruire la società su quei presupposti di libertà e democraticità
che possono garantire a tutte le categorie di persone ed ai sostenitori di tutte le teorie
socio-politiche ed etico-religiose la massima libertà di pensiero, non altrettanto si può
dire della prospettiva etica. Poiché ognuno ha le sue esigenze bisogna andare a
cercare per ogni problema quella soluzione che trova il consenso del 50% più uno.
Nel momento in cui c’è un accordo del 50% più uno su quella data soluzione, essa
diventa la regola da seguire, però l’azione moralmente illecita resta sempre
moralmente illecita anche quando sul piano giuridico se ne accetta la possibilità.
Come dal punto di vista morale l’interruzione della gravidanza resta sempre
moralmente illecita, allo stesso modo se si facesse un altro referendum per dire che in
questo o in quell’altro contesto può essere praticata l’eutanasia, non per questo essa
diventerà azione moralmente lecita. Il punto di vista del diritto, che è quello di
garantire i terzi, ha bisogno sempre della maggioranza del 50% più uno per
45
Ibidem, p. 36.

28
affermarsi, mentre il punto di vista etico non cambia mai perché non siamo noi a
determinarlo, nemmeno se dovessimo ritrovarci d’accordo nel cambiarlo. La
prospettiva è appunto quella di una verità morale che risplende al di sopra di noi46, al
di là di quella che è la nostra situazione, di quello che è il nostro processo
conoscitivo, di quello che è il nostro modo di vivere. All’interno di questa prospettiva
il dovere dell’uomo resta sempre quello di adeguarsi a questa verità e di adeguare ad
essa ogni contesto della sua vita personale e sociale. Naturalmente questo principio
vale anche in campo bioetico. Anche in questo settore, l’uomo nell’intimo della sua
coscienza scopre sempre una legge che non è lui a darsi ed alla quale deve obbedire47.
«Con la separazione dell’Ethos dallo Ius si finisce per perdere il senso stesso della
vita e quindi la possibilità anche dell’umanesimo, poiché col passare del tempo si
indebolirà la saldezza dei vincoli, della famiglia, della comunità, del legame sociale,
sfociando in quella crisi dissolutiva delle democrazie che è la cifra del nostro tempo
su cui si cimentano, da decenni, gli studiosi di liberalismo e democrazia»48.
Per quel che riguarda l’aborto e la legge civile, quasi tutti gli Stati
contemporanei hanno legiferato in questa materia. La legge attualmente vigente in
Italia, la n. 194 del 1978, confermata da una consultazione referendaria nel 1981, è
tra le più permissive del mondo. Essa infatti permette l’aborto su richiesta della
donna praticamente in tutti i casi nei primi tre mesi di gravidanza, mentre dopo i 90
giorni lo consente solo nel caso di gravi malformazioni per il nascituro o di pericolo
per la salute della donna. La normativa italiana, inoltre, non contempla alcuna
possibilità d’intervento per il padre del concepito, lasciando la decisione unicamente
alla donna. Quest’ultima può ricorrere all’aborto anche se minorenne, qualora il
giudice la autorizzi. Ora, non è certo in discussione il fatto che uno Stato debba
legiferare in una materia così importante, tenendo conto soprattutto del fatto che il
ricorso all’aborto clandestino è un grave male sociale, che mette in pericolo la vita
delle donne e alimenta una rete di loschi guadagni. L’interesse dello Stato è quello di
salvaguardare il bene comune, l’ordine pubblico, l’armonia sociale, attraverso
adeguate leggi e opportuni strumenti sociali. Il problema è che una legge come quella
italiana, come quelle vigenti in tanti altri paesi, di fatti non regolamenta l’aborto, ma
lo autorizza su semplice richiesta delle interessate. Va poi considerato il fatto che una
legge civile esercita comunque una funzione pedagogica, recando in molte persone

46
Cfr. Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, Paoline, Milano 1993.
47
Cfr. Gauduim et spes, n. 16.
48
Intervento dell’on. Gerardo Bianco svolto in una giornata di studio sulla “fecondazione assistita”, in La fecondità
cercata, a cura di C. Chiapello, Effetà Editrice, Torino 2005, pp. 30-34.

29
confusione circa i valori in gioco. Non sono pochi, infatti, quelli che confondono le
autorizzazioni concesse dalla legge civile con una vera e propria liceità morale.
L’aborto, anche se “legale”, rimane sempre un pesantissimo problema morale. Le
leggi che autorizzano l’interruzione della gravidanza su semplice richiesta della
gestante, favoriscono di fatto un abbassamento della coscienza morale. Una legge che
legittima l’uccisione di un essere umano innocente è in totale contrasto con il diritto
inviolabile alla vita proprio di tutti gli uomini e nega, perciò, l’uguaglianza di tutti di
fronte alla legge. Commenta al tal proposito Giovanni Paolo II: «Le leggi che
autorizzano e favoriscono l’aborto si pongono radicalmente non solo contro il bene
del singolo, ma anche contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di
autentica validità giuridica»49.
Si pensa non poche volte che la vita di chi non è ancora nato o è gravemente
debilitato sia un bene solo relativo e, si ritiene pure che solo chi si trova nella
situazione concreta e vi è personalmente coinvolto possa compiere una giusta
ponderazione dei beni in gioco: di conseguenza, solo lui potrebbe decidere della
moralità della sua scelta. Lo Stato, perciò, nell’interesse della convivenza civile e
dell’armonia sociale, dovrebbe rispettare questa scelta, giungendo anche ad
ammettere l’aborto, l’eutanasia ecc. Nelle opinioni più radicali si giunge a sostenere
che, in una società moderna e pluralistica, dovrebbe essere riconosciuta a ogni
persona piena autonomia di disporre della propria vita e della vita di chi non è ancora
nato: non spetterebbe, infatti, alla legge la scelta tra le diverse opinioni morali e, tanto
meno, essa potrebbe pretendere di imporne una particolare a svantaggio di altre.
Nella cultura democratica del nostro tempo si è largamente diffusa l’opinione
secondo la quale l’ordinamento giuridico di una società dovrebbe limitarsi a
registrare e recepire le convinzioni della maggioranza50. Se poi si ritiene addirittura
che una verità comune e oggettiva sia di fatto inaccessibile, il rispetto della libertà dei
cittadini, che in un regime democratico sono ritenuti sovrani, esigerebbe che, a livello
legislativo, si riconosca l’autonomia delle singole coscienze. Comune radice di tutte
queste tendenze è il relativismo etico che contraddistingue tanta parte della cultura
contemporanea51. Non manca chi ritiene che tale relativismo sia una condizione della
democrazia. Ma è proprio la problematica del rispetto della vita a mostrare quali
equivoci e contraddizioni, accompagnati da terribile esiti pratici, si celino in questa
posizione. Quando una maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità

49
Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, cit., pp. 109-110.
50
Ibidem, p. 104.
51
M. Pera - J. Ratzinger, Senza radici, Mondadori, Milano 2004.

30
della soppressione, pur a certe condizioni, della vita umana non ancora nata, non
assume forse una decisione “tirannica” nei confronti dell’essere umano più debole e
indifeso? La coscienza universale giustamente reagisce nei confronti dei crimini
contro l’umanità di cui il nostro secolo ha fatto così tristi esperienze. Forse che questi
crimini cesserebbero di essere tali se, invece di essere commessi da tiranni senza
scrupoli, fossero legittimati dal consenso popolare? La democrazia è un ordinamento
e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere “morale” non è
automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a cui, come ogni altro
comportamento umano, deve sottostare. Urge dunque, per l’avvenire della società e
lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l’esistenza di valori umani e morali
essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell’essere umano ed
esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo,
nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere,
ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere52.

52
Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, cit., p. 107.

31
Conclusioni

Riflessioni come le nostre, in questo lavoro, di sintesi, presentazione e studio,


non riescono a trovare un’autentica conclusione. L’obiettivo principale del nostro
seminario era quello di approcciarci alla conoscenza non solo della più esatta
metodologia scientifica della bioetica, ma anche di esaminare i vari documenti del
magistero e la riflessione cattolica in campo bioetico, grazie allo studio di un autore
in particolare (per la mia riflessione Cataldo Zuccaro con il suo volume Bioetica e
valori nel postmoderno in dialogo con la cultura liberale), declinando poi i suoi
convincimenti alla luce di un “problema pratico” (nel mio caso l’aborto). Pertanto più
che parlare di conclusione, dovremmo parlare di proposte, provocazioni e dialogo. La
mia personale convinzione è quella che al di là degli schieramenti, più o meno settari,
più o meno combattivi, al di là delle risposte che qualsiasi orientamento bioetico
possa dare, è difficile se non impossibile dare delle risposte chiare e definitive per
tutto e per tutti, se non tramite la pazienza dei tempi lunghi e la fiducia nel contributo
di tutti. Su questo campo, alla luce della nostra riflessione, bisogna assolutamente
evitare che teologia e scienza stiano agli antipodi. Da una parte infatti la teologia non
può rimanere arroccata nel suo sapere e nei suoi convincimenti, ma deve anche
scendere nel “puzzo” delle strade della nostra storia; dall’altra la scienza deve
assolutamente evitare di camminare o correre da sola nei vicoli della conoscenza e
della tecnica umana, ma deve anche confrontarsi con l’etica. La vera, grande e
fondamentale posta in gioco non è semplicemente la risoluzione di questo o quel
problema, ma la stessa persona umana che deve rimanere sempre al centro di ogni
proposito. A dire il vero, certi risultati che sono indice di “progresso” risultano essere
davvero poco conciliabili con l’autentico sviluppo integrale dell’uomo e della sua
storia. In quanto cristiani, in quanto cattolici, in quanto seguaci dell’unico Maestro,
occorre aumentare il nostro sforzo profetico nella città dell’uomo, nei laboratori
scientifici, nelle cliniche private, perché la scienza possa, in realtà, cercare e trovare
l’autentico bene comune che parte e procede dall’uomo. Proprio per questo è sempre
più auspicabile che filosofi, scienziati, teologi, psicologi s’incontrino per occasioni di
studio e di confronto, per una maggiore comprensione delle problematiche e delle
sfide da superare, tenendo sempre in conto, però, che la ricerca non può diventare un
mito, un totem da esaltare e da rincorrere anche a costo del calpestamento della
dignità umana. Il criterio ultimo della scelta dovrebbe essere il bene dell’umanità.
Cataldo Zuccaro, attraverso il suo volume da me presentato nel primo capitolo
del seminario, ha cercato di superare l’ostacolo della contrapposizione tra visione
32
cattolica e visione laica attraverso l’affermazione della signoria dell’uomo sulla vita
senza escludere la Signoria di Dio sulla stessa vita. Questa soluzione di certo appare
come un accorciare le distante fra gli opposti schieramenti, ma di certo, e Cataldo
Zuccaro ha la piena consapevolezza, non è assolutamente esaustiva perché in gioco ci
sono anche particolari visioni di libertà e di uomo (pensiamo a quella di Engelhardt e
Singer) che si discostano anni luce da un’autentica signoria dell’uomo sulla propria
vita. Ciononostante la mia riflessione parte dalla consapevolezza che la Chiesa, e
quindi anche i suoi fedeli, prendano sempre più coscienza della loro missione nel
mondo: «è necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere
fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle
esigenze del nostro tempo. Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, e altra
cosa e la forma con cui questo viene enunciato, conservando tuttavia lo stesso senso e
la stessa portata. Bisognerà attribuire molta importanza a questa forma e, se sarà
necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione: e si dovrà a un
modo di presentare le cose che più corrisponda al magistero» 53 e quindi, senza
stanchezza, senza sfiducia e disimpegno vanno cercati tentativi di mediazione, con
quella consapevolezza che fra fede e ragione non c’è contrasto anzi: «La fede e la
ragione sono come due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la
contemplazione della verità. È Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di
conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e
amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso»54.
Come abbiamo potuto constatare la crisi dell’odierno rapporto e scontro fra
bioetica “cattolica” e bioetica “laica”, sta nella differente visione e comprensione
antropologica. Nell’oggi delle nostre strade, piazze e città secolari55, nei nostri mass-
media, quasi sembrano scomparsi alcuni termini ricchi di significato. Fra questi
ricordiamo il termine “persona” che subito ci richiama all’essere relazionale e
comunitario dell’uomo, che è appunto essere per un altro, si preferisce a questo il
termine ”individuo” che sottolinea maggiormente l’odierno isolarci, l’essere straniero
l’uno per l’altro; oppure possiamo pensare alla parola “casa”, che subito ci richiama
alle relazioni familiari, che è stato quasi totalmente sostituito con il termine
“appartamento”, anche qui per indicare l’estraneità dell’uno nei confronti dell’altro,
quasi a volerci nascondere dalle relazioni.

53
Dal discorso di Papa Giovanni XXIII nella solenne apertura del Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962.
54
Giovanni Paolo II, Fides et ratio, Paoline, Milano 2003, p. 3.
55
Cfr. H. Cox, La città secolare, Vallecchi Editore, Firenze 1968.

33
Riguardo alla riflessione sull’aborto, attraverso la nostra analisi abbiamo potuto
notare che: «la discussione si configura come un ginepraio di argomenti e contro
argomenti che, nel loro irriducibile contrasto, attestano la verità di ciò che taluni si
ostinano a negare: ossia la profonda spaccatura paradigmatica fra bioetica cattolica e
bioetica laica e, più in generale, fra la bioetica della indisponibilità e sacralità della
vita e la bioetica della disponibilità e della qualità della vita»56. In effetti anche nel
nostro “caso pratico” o “problema concreto” analizzato, abbiamo potuto riflettere
proprio sulla diversità e la contrapposizione di diverse, concezioni, idee, sulla libertà
innanzitutto. Questa per taluni è compresa come responsabilità nei confronti di se
stessi e degli altri che, in qualsiasi maniera, in qualsiasi modo possiamo incontrare;
per altri la libertà è solo il soddisfacimento dei propri diritti, delle proprie
convinzioni, a scapito degli altri e dell’altro, anche se questo possa essere indifeso e
bisognoso di cure, di amore, di rispetto. Viene fuori che il principio primo di ogni
approccio alla persona, sia essa cosciente, diversamente abile, embrione, è quello
della responsabilità. L’essere capaci di dare delle risposte a chi ci sta intorno, a chi
chiede bisogno. Solo con il “principio responsabilità” si ci può educare al rispetto di
se stesso e degli altri, solo con la responsabilità si fanno delle scelte piuttosto che
altre.
Mi si permetta di concludere citando David Maria Turoldo, che forse fra gli
uomini credenti e non del ventesimo secolo, è stato il più efficace nel far
comprendere che in realtà l’uomo è un mistero, la sua natura, il suo esistere, il suo
agire non può esser compreso totalmente, per il semplice fatto che l’uomo è creato a
immagine e somiglianza di chi è Mistero per eccellenza:

Non c’è dubbio: la fede è un dono arduo, è una virtù difficile e rara: allo stesso
riflesso è il vero problema del mondo. E però non tanto il credere, cioè l’avere o non
una fede, quanto il problema di una precisa fede, e cioè di decidere circa la qualità
della fede. Quando si parla di fede non si deve mai prescindere dalla convinzione che
prima di tutto la fede è dono: è Dio che si concede. Tocca sempre a Dio per primo:
noi siamo in quanto siamo pensati, per cui Dio c’è anche se tu non credi; ed è in tutti
ed opera in tutti, ed è sopra tutti. Dono arduo dicevo, perché qui comincia la tua
opera in risposta all’opera di Dio. E allora è come se fosse da inventare termini,
segnare i punti di partenza, intendersi sul nome stesso di Dio; mettersi a dubitare
della ragione. E cercare, cercare… Questa è l’essenza delle fede. La ricerca
continua, in diretta: e la tempesta di domande sarà rivolta allo stesso Interessato; e
56
G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Mondadori, Milano 2009, p. 248.

34
ogni risposta non sarà che una nuova domanda: così fine alla fine, e cioè senza fine.
Senza una fine anche dopo, anche di là; perché non può esserci fine neppure con la
visione beatifica; meglio: continuamente beatificante, poiché passeremo di visione in
visione.

O Theos…

Mai di te sapremo:
o suono
o silenzio
o parola
che tu sia

oppure Occhio che riflette


tutta la terra come una perla;

e mai nulla di definitivo sapremo


neppure di noi…57

57
D. M. Turoldo, Il Dramma è Dio, Fabbri Editori, Milano 1992, pp. 55-56.

35

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