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C 19.

GAL 2,15-21
La spiegazione delle implicazioni del Vangelo, attraverso l'ultimo esempio, si trova in 2,15-21, che
il passaggio che fa da transizione alla parte più argomentativa e dottrinale della lettera. Ci
soffermiamo un po su questo testo per capire anche il seguito dello sviluppo della lettera.
Il brano si può suddividere in tre piccole argomentazioni e la conclusione:
-vv. 15-16 la verità del Vangelo come principio di comprensione della prassi
-vv. 17-18 la sua applicazione per assurdo negativo
-vv. 19-20 la testimonianza di Paolo
-v. 21 conclusione
vv. 15-16
Il testo è importante e pregnante. Compaiono i termini che verranno ripresi poi nei capitoli
successivi: peccatore, giustificare, Legge, fede, Gesù Cristo, credere. Scompare invece il termine
Vangelo che ha dominato tutta la prima parte narrativa. Il passaggio è piuttosto chiaro. Se Paolo ha
tanto insistito sulla verità del Vangelo, ora inizia ad esplicitarne il contenuto per comprendere quello
che è successo a lui, quello che è successo ad Antiochia, ma soprattutto ciò che è accaduto presso i
Galati.
Partendo proprio dall'ultimo episodio occorso, quello di Antiochia, Paolo prova a spiegare dov'è
l'intima contraddizione dell'atteggiamento assunto. Il ragionamento è a fortiori – ovvero: se si
giunge ad una conclusione, a maggior ragione se ne può inferire, a partire da quella e a certe
condizioni (di insieme e gerarchia degli elementi) un'altra. La prima conclusione a cui può arrivare
assieme a Pietro (cf. il noi) è che loro, pur essendo giudei come origine, e quindi di per sé non
considerati «peccatori pagani», hanno creduto in Cristo in vista della giustificazione. Perché?
Perché hanno scoperto che anche loro avevano bisogno di essere giustificati, ma che la Legge non
glielo permetteva (le opere della Legge a riguardo sono inefficaci), e quindi hanno creduto in
Cristo. Tanto più allora i pagani non hanno bisogno della Legge per essere giustificati. Perché? La
conclusione è perentoria e logica al massimo: poiché per le opere della Legge non verrà mai
giustificato nessuno (alla lettera: poiché dalle opere della Legge nessuna carne verrà giustificata v.
16). Questo – possiamo dire – era l'accordo intercorso a Gerusalemme tra Paolo e la Chiesa degli
apostoli. Per questo Paolo non può stare zitto di fronte a ciò che ha visto ad Antiochia. Non tanto
perché ha ritenuto l'episodio un compromesso di comodo (che lui stesso indicherà in altre occasioni
per non scandalizzare i più deboli, secondo il principio della carità della cf. 1Cor 8,1-13 e Rm 14,1-
23), quanto perché così si annullava in pratica ciò che era la verità del Vangelo, ovvero che nessuno
è giustificato per le opere della Legge.
vv. 17-18
Il ragionamento che l'Apostolo mette in campo – per mostrare l'intima contraddizione tra i principi
formulati e gli atteggiamenti assunti per paura (per timore dei circoncisi v. 12) e non per carità – è
per assurdo: se pertanto cercando di venire giustificati in Cristo siamo trovati anche noi peccatori,
Cristo è forse ministro del peccato? La situazione in cui si troverebbe sia Pietro che Paolo, che gli
stessi Galati sarebbe assurda, ovvero, cercando la giustificazione dal peccato in Cristo, ci si ritrova
non affrancati dal peccato, e quindi Cristo invece che salvare dal peccato ne diverrebbe il servitore.
Assurdo. Cosa implica tale assurdo ragionamento? Che qualsiasi tentativo di ritorno alle
prescrizioni della Legge mosaica (vuoi per paura, per quieto vivere, vuoi per una falsa sicurezza,
ecc.) non fa che mostrare che Cristo non è sufficiente a salvare pienamente dal peccato. Se il
cristiano che ha trovato in Cristo la giustificazione, si ritrova ad essere sotto il peccato – e questo lo
proverebbe il suo tentativo di ritornare alle prescrizioni della Legge, necessarie per salvarsi –
certifica che Cristo non lo salva veramente. Di più, Cristo diverrebbe anche lui servitore (διακονός)
del peccato, cioè invece che riscattare e giustificare, renderebbe ancora necessario il sistema della
Legge, ovvero qualche altro mezzo che non sia Lui per liberarsi dalle strette del peccato: assurdo. Si
capisce perché al v. 18, ancora per assurdo, Paolo immagina se stesso (ma anche Pietro e i galati)
come dei demolitori (del sistema legale mosaico) che tornano a costruire ciò che avevano demolito,
dichiarando così di essere dei trasgressori (per aver demolito le prescrizioni legali) che hanno
bisogno dei mezzi di espiazione, purificazione per la loro trasgressione. Questa sarebbe più o meno
la situazione se si ammettesse quello che ammettono i Galati e quello che implicitamente ha
ammesso Pietro nel suo evitare di mangiare coi gentili ad Antiochia.
vv. 19-20
La testimonianza che ora Paolo dà di sé, cambia il registro della discussione. Il vocabolario si fa più
esistenziale: si tratta di vita e di morte, e non più di peccato e giustificazione, anche se la questione
è la medesima. Da una dimostrazione di principio si passa all'esperienza personale. La frase più
enigmatica – tipica paolina – è la prima: Infatti, io, per mezzo della Legge, sono morto alla Legge,
affinché io viva per Dio. Cito un commentario a riguardo: «La prima parte del v. 19 rappresenta una
delle asserzioni più complesse dell'epistolario paolino: è un vero «puzzle» che mette a dura prova
qualsiasi esegeta. Nel tentativo di affrontarne le difficoltà, forse è bene partire dalla dimensione
retorica della proposizione paolina: “mediante la Legge sono morto alla Legge” si presenta come
ossimoro, vale a dire come formula paradossale. Innanzitutto come fa una persona a parlare e dire di
essere morto? Ma soprattutto come può la Legge essere strumento di morte per chi muore nei suoi
stessi confronti? In pratica, la Legge andrebbe contro se stessa! Altrettanto illogica è sequenza che
va dalla morte alla vita, mentre normalmente si procede dalla vita alla morte. Lo statuto paradossale
del v. 19a determina almeno il punto fermo che per nomos Paolo intende sempre la stessa realtà,
altrimenti il paradosso perde d'incidenza e non rimane più tale». Quindi è la stessa Legge in quanto
legislazione che diventa lo strumento per la sua negazione e validità. Cosa significa? Paolo è morto
rispetto alla Legge, ovvero la Legge non ha un potere su di lui, non può più considerarlo come
trasgressore. Ma come è morto? Con-crocifisso con Cristo. Il «mediante la Legge» allora deve
essere il fatto che Cristo, alla cui morte Paolo partecipa, è stato condannato e messo a morte in forza
della Legge, ma con la sua morte ha tolto potere alla Legge, per restituire l'uomo vecchio,
rinnovato, a Dio. Ritroveremo questa dinamica nel capitolo 6 di Romani. E tutti questi punti
saranno precisati e sviluppati nei capitoli successivi di Gal. La dinamica vitale di Paolo è tutta allora
in relazione a Cristo mediante la fede, tanto da poter dire che non vive più lui (l'uomo vecchio
direbbe altrove), ma Cristo vive in Lui (l'uomo nuovo) e che la vita nella carne (ovvero la
concretezza della esistenza con tutte le sue esigenze e costrizioni spazio- temporali, sociali, storiche
ecc.) ha un nuovo principio vitale: la fede in Colui che è morto per noi. Si intuisce la risposta,
accennata, e poi sviluppata, alle istanze di “ritorno” alle esigenze della Legge per vivere. queste
annullerebbero di fatto la redenzione di Cristo che non è solo un atto giuridico del passato con i suoi
effetti presenti, ma una dinamica di vita presente.
v. 21
Solo intendendo in modo così radicale e così relazionale a Cristo la vita, essa non vanifica la grazia
della redenzione. Il ritorno alle esigenze della Legge per trovare una giustizia, renderebbe vana la
croce di Cristo, ovvero la sua efficacia nel liberare dal peccato, ovvero di rendere giusto agli occhi
di Dio il singolo credente.

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