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Il libro

“D omani mattina troverai un’auto sotto casa tua con un biglietto aereo per
raggiungermi a Parigi. Non devi pensare a niente, ho già pensato a
tutto io. Sarà un weekend indimenticabile.”
Luca è bravissimo nelle sorprese, ha il talento di rendere speciale ogni momento,
anche le pause pranzo. È un uomo molto indipendente, però non gli piace stare da
solo.
Ha una storia importante alle spalle, finita non ha capito bene come (“quand’è che
le cose belle poi diventano brutte?”). Esce con una ragazza che ha la metà dei suoi
anni e un po’ se ne vergogna, ma lei è come una boccata d’aria fresca. Sua madre
invece dispone di lui come se non fosse mai diventato un adulto e non perde
occasione per farlo sentire sbagliato, in debito.
Un giorno, per caso, incontra Lucia, la sua fidanzata di quando aveva vent’anni. Il
loro era stato un amore da film, assieme avevano vissuto tutte le prime volte. Adesso
lei ha una figlia e si sta separando dal marito. E se provassero a tornare al punto dove
si erano fermati, vedere cosa è rimasto di quei due?
Il nuovo romanzo di Fabio Volo coinvolge ed emoziona pagina dopo pagina, con
scene romantiche in cui pare di volare – tra calici di vino buono e croissant caldi –,
dialoghi che sembrano rubati dalla nostra vita quotidiana e riflessioni in cui ritrovarsi
quando ci sentiamo un po’ persi.
Tutto è qui per te è un libro sulla linea d’ombra che ciascuno di noi si trova a
superare alle età più differenti e inaspettate. Sulla voglia di mettersi in gioco
davvero, di predisporsi ad accogliere l’amore anziché rincorrerlo ovunque. Sul
valore che può avere anche la solitudine. Sul desiderio, e la possibilità, di un nuovo
inizio.
L’autore

Fabio Volo è scrittore, attore, conduttore televisivo e


radiofonico. Ha pubblicato Esco a fare due passi (2001), È
una vita che ti aspetto (2003), Un posto nel mondo (2006), Il
giorno in più (2007), Il tempo che vorrei (2009), Le prime
luci del mattino (2011), La strada verso casa (2013), È tutta
vita (2015), A cosa servono i desideri (2016), Quando tutto
inizia (2017), Una gran voglia di vivere (2019) e Una vita
nuova (2021), tutti editi da Mondadori. I suoi libri sono
tradotti in molti paesi del mondo.
Fabio Volo

TUTTO È QUI PER TE


Tutto è qui per te

agli attimi di presenza


Open your heart, I’m coming home

PINK FLOYD

Era già l’ora che volge il disio ai navicanti e ’ntenerisce il core

DANTE
Intro

«Sei già a Parigi?»


«Sono arrivato ieri.»
«Piove?»
«Non ancora.» Ho guardato fuori dalla finestra, il cielo era punteggiato
di nuvole. «Questa mattina mentre mi facevo la barba ho capito una cosa.»
Aspettava che continuassi.
«Ho capito che in questi anni mi sei mancata. Mi sei mancata come
persona, nella vita. Sai quante cazzate in meno avrei fatto?»
Ha riso. «È per questo che mi hai chiamata?»
«Il motivo è un altro. Domani mattina troverai un’auto sotto casa con un
biglietto aereo per raggiungermi. Non devi pensare a niente, ho già pensato
a tutto io.»
«Tu sei pazzo.»
1

È stato Francesco a farmi conoscere Beatrice.


Quando lo incontri, Francesco fa subito simpatia, sarà la confusione dei
suoi capelli ricci o la barba incolta, che mette in risalto i denti bianchi.
Indossa sempre camicie a quadri, jeans col risvolto, il portafogli legato al
passante dei pantaloni con una catenella che va a sparire dentro la tasca.
Scarpe rigorosamente in cuoio, non l’ho mai visto con un paio di sneakers.
Piemontese, vive a Milano dai tempi dell’università. Francesco non è un
ragazzo che parla, per lo più ascolta, e ascolta davvero, con interesse reale.
Si informa, studia manuali, saggi, compra riviste, sente podcast
internazionali. Legge libri di cui non capisco nemmeno l’introduzione. Da
ragazzino ha smontato un computer per capire come fosse assemblato.
Nonostante questo, non fa mai pesare quello che sa, riesce a mantenere
una sana ironia e leggerezza. Soprattutto, ama il vino.
Ci siamo conosciuti qualche anno fa, e abbiamo raggiunto un rapporto di
confidenza tale che è come se fossimo amici da sempre.
Quando ci siamo incontrati lavorava come ingegnere in una grossa
società del settore energetico. Era stanco, aveva voglia di un cambiamento,
soprattutto di provare a realizzare un sogno che aveva da tempo: aprire
un’enoteca.
Il nonno aveva delle vigne di Nebbiolo, lui l’aveva seguito sin da
bambino e aveva imparato presto come si faceva il vino, conosceva tutto il
processo, dalla coltivazione alla vendemmia, fino all’imbottigliamento.
L’enoteca per lui era la chiusura di un cerchio.
Una sera, quando ancora non lo conoscevo, aveva raccontato questo suo
desiderio a Sergio, un amico comune, e Sergio, sapendo che mi occupo di
import-export di vini dalla Francia, aveva organizzato un incontro.
Gli avevo dato appuntamento per cena in un ristorante dove avevano
ottime bottiglie. Quando è arrivata la carta, ho lasciato scegliere a lui, il
vino che scegli dice molto di te. Francesco ha ordinato un Ghemme da uve
Nebbiolo, famoso per essere il vino degli Sforza. I grappoli guardano il
ghiacciaio del monte Rosa e le radici affondano nei suoli vulcanici. Un vino
di fuoco e ghiaccio, un vino austero che ha bisogno di tempo per aprirsi e
rivelare la sua essenza.
Le parole nel raccontarmi i suoi disegni, nel mostrarmi la sistemazione
dei tavoli, del bancone, la grafica dei menu, erano piene di un’energia e una
cura che non vedevo da anni. Aveva abbozzato un logo dell’enoteca con il
nome, aveva pensato a ogni cosa.
Sentire la sua storia mi restituiva un senso di bello, di giusto, di poetico,
una forza che tende al bene. Era contagioso.
«Che ne pensi?» mi ha chiesto.
«Penso che la tua è la storia di un uomo che desidera tornare a casa.»
È stato colpito dalla mia sintesi. «Non l’avevo mai vista così. Credo sia
la definizione giusta.»
Sono sempre stato sedotto dalle storie, da ragazzino leggevo molti
romanzi. Ai tempi del liceo mi ero messo in testa che prima o poi avrei
scritto un libro. Ci ho anche provato, ogni tanto ci provo ancora, ma non mi
sono mai sentito in grado.
Aiutare Francesco ha reso la mia vita migliore. Prima di rientrare dal
lavoro, passo da lui per un bicchiere. Dopo discussioni con clienti e
fornitori, rido, scherzo, dico due cazzate e al bancone mi tolgo la giornata di
dosso.
Sapere che esiste un angolo di mondo dove so che sto bene ha reso la
mia vita migliore.
La sera dell’inaugurazione il locale scoppiava di gente, così molti si
erano riversati sul marciapiede con un bicchiere in mano. Era una serata di
ottobre, una di quelle che regalano ancora una temperatura piacevole.
Mi sono ritrovato fuori, appoggiato al cofano di un’auto a chiacchierare
con Sergio, quando una ragazza ha attirato la mia attenzione. Più o meno
sui quaranta, magra, un viso asciutto dai lineamenti marcati, capelli biondi,
lunghi fino alla schiena, vestita con jeans e una camicia bianca, ai piedi
degli stivaletti scamosciati. C’erano altre ragazze sul marciapiede, la mia
attenzione era solo per lei. Mi sono sempre chiesto cosa sia ad attirarci
verso una persona in particolare. Entri in un locale e prima ancora di
parlarci ti piace più delle altre, e non è detto sia la più bella. A me piaceva
lei. Teneva tra le mani un calice di vino vuoto. Ho preso una bottiglia aperta
dal bancone e mi sono avvicinato.
«Posso?» le ho chiesto indicando il suo bicchiere.
Ha sorriso. «Meglio se mi fermo qui.»
E io: «Giusto un goccio, per un brindisi».
«A cosa?»
«All’apertura di questa enoteca.» Poi, dopo una piccola pausa: «O a te, a
me, alla vita, ai sogni. Ci sono sempre mille motivi per brindare».
Ha sorriso di nuovo. «Solo un goccio. Scegli tu a cosa.» Si era aperto un
piccolo varco e mi ci sono infilato: «Io sono Luca».
«Beatrice.»
«Dal nome latino Beatrix, che significa “rendere beati”.»
Ha fatto un’espressione strana.
«Ho la passione delle etimologie.»
Ha sorriso per la terza volta.
«Brindiamo alle cose belle, così restiamo vaghi.»
Abbiamo fatto tintinnare i nostri calici in aria e abbiamo bevuto.
Le sue amiche l’hanno raggiunta, ho versato del vino a tutte.
Francesco passava a raccogliere i bicchieri vuoti appoggiati fuori un po’
ovunque, perfino sulla sella di uno scooter. «Vi piace il locale?» ha chiesto
alle ragazze. Tutte hanno annuito. Un’amica di Beatrice ha aggiunto: «È
l’enoteca più bella di Milano».
Francesco l’ha guardata. «Lo dici solo perché sei mia cugina.»
Abbiamo riso, nessuno sapeva della parentela.
Prima di rientrare mi ha indicato. «È merito suo se l’ho aperta.»
Adesso le ragazze sapevano che ero suo amico, uno quasi di famiglia, e
la cosa ha reso tutto più semplice. Francesco aveva fatto una mossa geniale.
Chiacchieravo con tutte, Beatrice mi piaceva sempre di più.
Si parlava di quanto fosse fastidiosa l’espressione “anche no”. A Milano
è molto diffusa, la si usa per dire che non si ha voglia di fare qualcosa. Il
cinema di sabato sera quando la sala è piena e la gente fa rumore per tutta la
durata del film? Anche no.
Mentre ridevamo raccontando situazioni in cui ci era capitato di sentirla,
un bambino è corso verso Beatrice e l’ha abbracciata. «Mamma!» Lei l’ha
preso in braccio. Avrà avuto più o meno quattro anni, era insieme a una
ragazza molto giovane, immaginavo la baby-sitter.
«Lui è Gabriele» ha detto, indicandolo.
«Ciao Gabriele, io sono Luca.»
Prima che potesse dire qualcosa, le amiche di Beatrice lo hanno
sequestrato, riempito di baci e abbracci. Lui rideva cercando di divincolarsi.
Ho scoperto così che Beatrice aveva un figlio, e che quindi doveva
esserci un padre. Ho continuato a chiacchierare fingendo che la cosa non mi
avesse toccato, ma l’atmosfera era cambiata.
Dopo qualche minuto ha salutato tutti, la mattina dopo lei e Gabriele si
sarebbero dovuti alzare presto.
Ha preso il telefono per chiamare un taxi, ultimamente era difficilissimo
trovare una corsa disponibile.
«Posso chiamarti un Uber, se vuoi» mi sono offerto.
«Non ti preoccupare.»
«Se è perché non vuoi darmi l’indirizzo di casa lo capisco, altrimenti non
ci sono problemi.»
Ha riso, le ho prenotato una corsa. Prima di salire sull’auto si è voltata.
«Sei stato molto gentile.»
L’ho guardata allontanarsi, insieme a tutte le fantasie che avevo fatto
mentre le parlavo: nella mia testa ci eravamo già fidanzati e avevamo fatto
cose indimenticabili. “Ti stavo cercando da una vita” le avevo detto davanti
a un tramonto infuocato a Bali.
Ho un’immaginazione molto fervida, che si diverte a creare film
improbabili. Ero così anche da bambino, non sono mai guarito.
A letto, prima di addormentarmi, mi è calata addosso la tristezza dei
sogni svaniti. Ripensavo ancora al nostro incontro.
Dopo un paio di giorni, ho parlato di lei a Francesco, di quanto fossi
rimasto colpito.
«Beatrice?» mi ha detto.
Ho sorriso. «Spara, voglio sapere tutto.»
Era stata all’inaugurazione perché era amica di sua cugina, con loro c’era
anche una ragazza che viveva a Francoforte ed era solo di passaggio. Tutte
notizie che non mi interessavano molto. «Nient’altro?»
Ha sorriso ed è andato a servire una coppia che era appena entrata.
Giocava a tenermi un po’ sulle spine. Quando è tornato, pendevo dalle sue
labbra.
«Allora, Don Giovanni, è separata. L’ex marito vive a Bologna.»
«Ha già qualcun altro?»
«Non credo, però se prendi lei prendi tutto il pacchetto, fidanzata, figlio
e cane.»
«Ha anche un cane?»
«Non lo so, ma se vuoi mi informo.»
Abbiamo riso.
Era già una buona notizia. «Apriamo una bottiglia di quello buono» ho
detto.
Francesco ha preso un Franciacorta Pas Dosé. Anche se è un vino
complesso, con le sue bollicine porta sempre allegria e leggerezza.
Sono rimasto per la cena, ogni tanto lui faceva delle battute su me e
Beatrice. Io ridevo, ha capito che mi piaceva davvero.
Il giorno dopo, mentre andavo da un cliente, mi ha chiamato. Questa è
un’altra sua caratteristica, odia i messaggi, soprattutto quelli vocali, quando
deve dirti una cosa, lui telefona.
«La scienza non è nient’altro che una perversione se non ha come fine
ultimo il miglioramento delle condizioni dell’umanità.»
«Ho capito solo “umanità”.»
Ha riso. «Nikola Tesla.»
«Mi hai chiamato per questo?» Anch’io ridevo.
«Ti ho chiamato per una cosa appena più importante.»
Sono rimasto in silenzio.
«Questa sera ho invitato mia cugina, porta Beatrice.»
Non sapevo cosa dire, allora ho attaccato a cantare: «È l’amico è,
qualcosa che più ce n’è meglio è…».
2

C’è voluto quasi un anno prima che fossi presentato a Gabriele come il
nuovo fidanzato della mamma, e quasi due prima che andassi a vivere con
loro.
Era tutto nuovo, non avevo mai avuto questo tipo di esperienza, e come
in tutte le cose nuove avanzavo a tentativi, a piccoli passi, qualche
aggiustamento in corsa. Non è stato facile trovare la misura.
Sono cresciuto senza un padre e forse per questo io e Gabriele ci siamo
trovati subito, lui ne aveva uno lontano. Stavo sempre attento a non
superare certi confini, senza mai fargli mancare la mia presenza.
Quella sera, dopo aver rivisto Beatrice da Francesco, ho iniziato a
corteggiarla in modo classico. Le inviavo fiori, cioccolatini, libri e finte
cartoline. Le facevo io, stampavo foto di posti improbabili e dietro scrivevo:
“Tutto bello, manchi solo tu”, “Ti penso ogni giorno mentre passeggio qui”,
“La prossima volta ci veniamo insieme”.
Una sera ci siamo scambiati dei messaggi e a un certo punto mi ha scritto
che stava per iniziare a vedere un film con Gabriele. Le ho mandato del
gelato.
Un’altra volta le ho chiesto se le andasse di uscire a cena. “Non posso”
mi ha risposto. L’ho presa subito come una mancanza di interesse per me.
Un minuto dopo mi è arrivato un altro messaggio: “Posso domani”.
La sera dopo, seduti al ristorante, mi ha detto: «Sono sicura che non sei
mai uscito con una donna che ha un figlio piccolo».
«Come lo sai?»
«Perché quando si ha un figlio piccolo è più complicato organizzare una
cena all’improvviso, dalla mattina alla sera.»
Allora provavo con i pranzi, sempre all’ultimo minuto, sempre di
sorpresa. Dopo diversi tentativi, l’ho spuntata un bellissimo giovedì di
novembre. L’ho portata al parco e abbiamo mangiato una pizza nel cartone,
seduti su una panchina, il sole era così caldo che ci siamo tolti le giacche.
Abbiamo chiacchierato, riso tanto.
Quando l’ho riaccompagnata sotto l’ufficio mi ha detto: «Allora è questo
il tuo talento? Rendere speciale una pausa pranzo». D’impulso mi sono
avvicinato e le ho dato un bacio leggero sulle labbra. Era la prima volta che
le nostre bocche si toccavano.
È andata avanti così per due mesi prima di fare l’amore. Anche questa
per me era una novità. Di solito se non era la prima sera era al massimo la
seconda, in casi rari la terza, ma tutto era sempre stato una questione di
giorni.
Eravamo da me, un sabato pomeriggio, dopo aver pranzato insieme. Ci
stavamo baciando sul divano e avevo capito che sarebbe successo. Mentre
poi stavamo nudi, l’uno sull’altra, mi ha detto: «Se lo facciamo, per me
significa che stiamo insieme».
Anche se me lo aveva detto con un tono dolce, quella frase esprimeva
tutto il suo modo di vivere. Con lei non c’erano mai irrisolti o ambiguità.
Aveva bisogno che tutto fosse chiaro e senza malintesi. Amava dare un
nome alle cose, sapere dov’era e dove stava andando. Doveva avere la
situazione sotto controllo e questo la costringeva a chiedere sempre
chiarimenti quando le cose non erano definite. Se Beatrice fosse un vino
sarebbe un Verdicchio in anfora della zona di Cupramontana, elegante,
armonico, senza compromessi.
«Per me sei già la mia ragazza» le ho risposto.
Anche se lo avevo detto con un velo di ironia, non avevo dubbi su di noi.
Mi vedevo con altre in quel periodo, ma più frequentavo Beatrice, più
desideravo solo lei. Eravamo fatti per stare insieme, lo avevo capito subito.
Anche sessualmente ci siamo trovati. A differenza di quello che
immaginavo, Beatrice, che nella vita era rigida e controllata, quando faceva
l’amore era totalmente libera e disinibita. Mi piaceva molto la persona che
era in quei momenti, appena finivamo tornava a essere quella di prima.
Una sera eravamo a casa da soli, Gabriele era dal padre, Beatrice stava
lavorando al computer. Mi sono avvicinato, ho iniziato a farle un massaggio
alle spalle e poi lentamente le ho baciato il collo. Aveva capito di cosa
avevo voglia.
Lei mi ha assecondato e ci siamo ritrovati sul divano. Appena finito, è
andata in bagno, a volte si alzava subito per paura di sporcare, e poi è
tornata al computer.
Era così, riusciva a passare da una cosa all’altra con una rapidità e una
lucidità sorprendenti. Eppure, in entrambe le cose era totalmente coinvolta.
Lavora nell’azienda del padre, settore tessile. Negli anni si è presa molte
responsabilità, sua sorella Viola invece vive in Costa Rica. Si è fatta
liquidare in anticipo la sua parte d’eredità e si è trasferita. Pare non faccia
molto, se non delle passeggiate in spiaggia a giocare con un randagio che ha
raccattato per strada.
Non sembrano nemmeno sorelle.
Beatrice, durante qualche discussione, se n’è uscita con: «Sei proprio
come mia sorella». Ho capito che c’erano delle tensioni, anche se quando si
vedevano non litigavano mai.
Ho incontrato Viola un paio di volte. Disordinata, confusa, spettinata,
sempre sorridente e piena di tatuaggi. Suo padre la adora.
Beatrice si ammazza di lavoro, si occupa di ogni cosa, grazie a lei
l’azienda è uscita da una lunga crisi che rischiava di portarla al fallimento.
Nonostante tutto, il padre fatica a riconoscerle questo merito.
La prima volta che sono andato a pranzo da loro c’era anche Viola, in
visita per qualche giorno.
«Se vuoi conoscere davvero una persona devi vederla all’interno della
sua famiglia» mi aveva detto una volta Francesco. È vero, è sorprendente
vedere come cambiamo quando siamo dentro i ruoli famigliari.
Beatrice, una donna forte, indipendente e sicura di sé, con i suoi genitori
si trasformava in una bambina perennemente sotto esame e in cerca di
approvazione.
Si comportava sempre in modo che non le si potesse rimproverare nulla.
La sorella invece era libera, apparentemente disinteressata al giudizio
degli altri, compreso il mio.
Beatrice sembrava dire: “Amami per quello che faccio”, mentre la
sorella: “Amami per quello che sono”.
Beatrice era dura con se stessa, si giudicava, si censurava, perdendosi
molte esperienze. Forse ci siamo piaciuti per questo, io ero attratto dal suo
ordine, dalla sua chiarezza; lei era rimasta sedotta dal mio caos, dal mio
vivere tutto con leggerezza e spontaneità. Forse amando me avrebbe
imparato ad amare anche sua sorella.
La vita di Beatrice era lineare e organizzata, esprimeva in maniera
naturale il suo modo di essere. Quando è entrata nella mia, ha portato subito
ordine. Tutto funzionava meglio.
La prima volta che è venuta da me, dopo aver usato il bagno, è uscita col
flacone dello shampoo in mano: «Era sul bidet. Non dirmi che ti lavi lì sotto
con questo».
Ho riso. «Mi lavo con quello che trovo, a volte il bagnoschiuma, a volte
lo shampoo, a volte il sapone per le mani.»
«Sei matto, ci vuole un prodotto che rispetti il ph e la flora batterica.»
Io ridevo e lei, dietro il tono divertito, era davvero sorpresa.
Una sera, mentre mi lavavo i denti prima di andare a dormire, ho notato
sopra al bidet un sapone intimo.
Ho fatto una foto e gliel’ho inviata. “Vedo che hai a cuore le mie parti
delicate.”
Mi ha risposto: “Ho a cuore te. Sei tutto delicato”.
È un aneddoto che abbiamo raccontato spesso agli amici, negli anni.
Beatrice era la donna di cui avevo bisogno, mentre lei aveva bisogno di
qualche imprevisto in più nella sua vita.
Quando abbiamo deciso di vivere insieme, è stato naturale che fossi io a
traslocare, lei aveva una casa più grande, oltretutto io ero in affitto. Molte
delle mie cose sono finite nella cantina e nel garage di mia madre. Ho
insistito solo per portare qualche libro e soprattutto il giradischi.
Le nostre vite avevano storie diverse. Lei era cresciuta con possibilità
che io non ho mai avuto. Anche se col lavoro ero riuscito a guadagnarmi
una vita più agiata, si capiva che da questo punto di vista non avevamo
molto in comune.
Io non sono bravo in nessuno sport che richieda un maestro,
dell’attrezzatura o degli spostamenti. Non so sciare, non so giocare a tennis,
non ho mai preso in mano una mazza da golf. Mia madre non poteva
permettersi di pagarmi le lezioni. Da bambino correvo, giocavo a calcio, a
pallamano, a basket.
La famiglia di Beatrice aveva una grande casa a Milano, una in Versilia e
una a Madonna di Campiglio. Io e mia madre non siamo mai andati in
vacanza, se non a trovare la nonna sul lago.
Quando andavamo in montagna nei fine settimana, Beatrice e Gabriele
sciavano, io restavo a casa a leggere e rilassarmi.
Durante le cene con i suoi amici, se si parlava di settimana bianca mi
vergognavo a dire che non sapevo sciare. E avevo paura che si vergognasse
anche lei. Un giorno gliel’ho chiesto. «Sono tutte paranoie tue» mi ha
risposto. Però poi insisteva perché prendessi lezioni. Mi sentivo un idiota a
scendere a spazzaneve con bambini di cinque anni, più umiliante che dire di
non essere capace.
Quando ho proposto a Gabriele le vacanze in tenda, lui è esploso con un
“sìììììììì”, mentre Beatrice mi ha guardato come se stessi per estrarle un
molare. «Io non ci vengo neanche se mi pagate.»
La sera, a letto, mi ha fatto notare che avrei dovuto prima parlarne con
lei. «Altrimenti sembro la stronza che rovina sempre tutto.»
“A volte lo sei” avrei voluto rispondere, sono stato abbastanza
intelligente da tacere. Anch’io rifiutavo di fare le vacanze in barca, cosa che
a lei è sempre piaciuta. L’idea di passare giorni interi in mare, confinato in
uno spazio angusto, mi mette ansia. Soprattutto non sopporto il pensiero di
non potermene andare se ne sento la necessità o la voglia.
Ho cercato di convincerla delle bellezze del campeggio. La spaventava
l’idea di dormire in tenda. «In vacanza mi voglio rilassare, fare colazione
comoda e soprattutto non voglio andare nei bagni comuni a sentire rumori
intestinali di gente sconosciuta che cammina con ciabatte di gomma e
asciugamani sulle spalle.» Le sue motivazioni mi facevano sorridere.
La mattina, Gabriele non parlava d’altro, il danno era fatto.
Una sera, quando sono rientrati, hanno trovato una tenda montata in sala.
«Questa notte dormiamo qui, così facciamo una prova.» Ero molto fiero
della mia trovata. «C’è posto anche per la mamma, in caso avesse cambiato
idea.» Beatrice era arrabbiata.
Gabriele non stava nella pelle, ha cenato velocemente, si è preparato per
la notte e ha scelto un paio di peluche con cui condividere l’avventura. Era
eccitato come se la tenda fosse montata sul Machu Picchu.
Alla fine, anche lei si è arresa ed è entrata con noi.
Era divertente essere lì tutti insieme. All’improvviso si è sentito un odore
tremendo. «Chi è stato?» ho chiesto. Gabriele è scoppiato a ridere.
«Ma che hai mangiato a cena, calzini sudati?»
Beatrice si è alzata per uscire, l’ho fermata. «Se dobbiamo morire,
dobbiamo morire insieme.»
Ridevamo, divertiti da quella situazione.
Quando Gabriele si è addormentato, siamo usciti e siamo andati in
camera da letto. Abbiamo fatto l’amore. Mi eccitava sentire i mugolii di
Beatrice che tentava di non farsi sentire.
Dopo, siamo rimasti abbracciati, avrei voluto addormentarmi con lei, ma
non volevo che Gabriele si svegliasse e vedesse che avevo passato la notte
su un letto vero, mentre lui dormiva sul materassino. Mi sono alzato con un
lamento da vecchio stanco.
«Ma come? Non è così bella l’avventura?» Ogni tanto Beatrice mi
sfotteva. Mi piaceva quando succedeva, dava spazio alla sua parte più
giocosa.
Appena prima che oltrepassassi la porta, ha sussurrato: «Sarebbe perfetto
se fosse sempre così. Dopo averlo fatto, te ne vai a dormire in tenda e io ho
tutto il letto a disposizione, senza nessuno che russa. Non smontarla,
usiamola per qualche giorno».
3

Come spesso accade, le cose che all’inizio ci piacciono e ci attraggono


dell’altro sono le stesse che poi odiamo e ci allontanano.
Una sera io e Gabriele guardavamo un film sul divano. Beatrice si è
parata davanti con delle calze in mano, le mie. Me le sventolava sotto gli
occhi. «Mi spieghi perché le lasci sopra il coperchio della cesta, o accanto
alla cesta o nei pressi della cesta, ma mai nella cesta? Questa mattina ne ho
raccolte un paio sotto il tavolo della cucina.» Era davvero infastidita. «Mi
sembra di avere due figli, non uno. Sembrate fratelli.»
Gabriele mi ha guardato complice, sua madre ci aveva unito nel difetto.
Dei nostri difetti avevamo sempre riso, come quando lei aveva
minacciato di buttare la poltrona in camera da letto. Siccome non so mai se
un indumento è pronto per la lavatrice oppure no, lo appoggio sulla
poltrona, una specie di limbo dove finiscono le cose in attesa di una
decisione. Beatrice ha cominciato ad andare fuori di testa anche per la
poltrona.
All’inizio amava le mie sorprese, i piccoli gesti fuori dall’ordinario, le
cose che organizzavo di nascosto per il suo compleanno o così, senza un
motivo. In quelle situazioni lasciava intravedere una tenerezza e una
dolcezza disarmanti. Le piaceva quando la facevo bere un po’ di più, perché
perdeva rigidità e diventava spassosa, allegra.
Alla fine, l’abitudine ad avere il controllo sulle situazioni ha vinto su
tutto, c’era sempre meno spazio per l’imprevisto, la spontaneità.
E così, lentamente, anche io ho cominciato a infastidirmi per certi
comportamenti: la necessità di mettere subito in ordine, lavare, asciugare,
pulire, lucidare. Capitava che iniziasse a sparecchiare mentre stavo ancora
masticando l’ultimo boccone, e mi ritrovavo a finire la cena seduto da solo.
La cucina a casa di Beatrice era tutta bianca, assomigliava a una sala
operatoria. Quando mi mettevo ai fornelli ero terrorizzato, avevo paura di
graffiare il piano o peggio ancora di macchiarlo perché era in pietra porosa
e quando ci cadeva sopra qualcosa come vino, fragole, mirtilli, sugo, caffè,
se non lo pulivi subito la macchia non se ne andava più.
La cucina era sempre stata il mio ambiente preferito, mi piace aprire una
bottiglia mentre preparo, affetto, sminuzzo. Da lei avevo smesso di farlo
perché l’ansia di rovinare o sporcare qualcosa era maggiore del piacere di
cucinare.
Col tempo ho cominciato a trovare eccessivi anche alcuni suoi
comportamenti con Gabriele. È vero che a volte lui faceva perdere la
pazienza, capitava che anch’io mi innervosissi. Certe sere, quando avevo
solo voglia di avere qualche minuto per me e mettere la testa sul cuscino,
dopo avergli letto la storia e spento la luce lui, nel buio, diceva: «Ho sete».
«Bevi domani» gli rispondevo e lui insisteva: «Ho sete davvero, ho tutta
la gola secca», con voce roca, da attore navigato. Pensavo che fosse
bravissimo a prendermi per il culo, che lo facesse di proposito, poi mi
rendevo conto che era solo un bambino.
Cercavo di non perdere la calma, invece Beatrice impazziva. Se per
esempio lui la interrompeva mentre lei stava parlando con qualcuno, gli
faceva certi cazziatoni per cui restavo di sasso, mi imbarazzavo al posto
suo.
Un altro motivo di tensione era la sua famiglia. Secondo lei avevano
cercato di legare con me, ma io ero stato sfuggente. Trovavo scuse per
evitare le cene o le vacanze nella casa al mare. Sosteneva che non mi
piacessero. Avevo provato a spiegarle che sono schivo, riservato, anche
perché sono cresciuto da solo con mia madre e le uniche persone che
andavamo a trovare un paio di volte all’anno erano mia nonna o la zia del
lago.
I suoi genitori tenevano molto alla forma, da loro si cenava in camicia, a
me piace stare stravaccato sul divano. Per loro era meglio Marcello, il padre
di Gabriele, figlio di una famiglia benestante di Bologna. Parlavano una
lingua più simile. Marcello è il tipo di uomo che piace subito a tutti,
simpatico, brillante e paraculo, con quell’accento bolognese che ti conquista
all’istante.
Quando avevo cominciato la relazione con Beatrice temevo che tra me e
lui si sarebbero create situazioni difficili, riguardo a Gabriele.
Gabriele all’inizio era diffidente, Beatrice mi tranquillizzava, diceva solo
di dargli tempo. Una sera, Marcello ha insistito per organizzare una cena,
voleva che ci fossi anch’io. Davanti al bambino, aveva mostrato una grande
confidenza, quasi una familiarità, come se fossimo stati amici di vecchia
data. Da lì Gabriele ha cominciato ad aprirsi.
Mi aveva spiazzato, era stato un gesto di incredibile generosità. Beatrice
ha sempre sostenuto che fosse tutta furbizia, per assicurarsi di non avere un
nemico in casa. Aveva fatto così anche con suo padre.
I due avevano legato subito, Marcello era diventato il figlio maschio che
lui non aveva avuto. Tifosi della stessa squadra, andavano insieme allo
stadio, capitava che pranzassero solo loro due, tanto che anche dopo la
separazione hanno continuato a sentirsi.
Io ho sempre provato un lieve imbarazzo con il padre di Beatrice, anche
se mi sta simpatico. Credo che lei avesse lo stesso problema con mia madre.
Erano gentili e educate, ma quando restavo solo con una o con l’altra,
capitava spesso che mi lanciassero delle frecciatine.
Beatrice non sopportava nemmeno il rapporto che avevo con lei.
Sosteneva che mia madre mi teneva al guinzaglio, che mi trattava come se
io fossi ancora sotto la sua protezione: «Ti devi ribellare, non sei più un
bambino, reagisci da uomo».
Mi infastidiva molto, sapevo che era vero, ma quello era il nostro
rapporto e solo io potevo dire qualcosa al riguardo.
«Perfino la postura ti cambia, diventi tutto più piccolo e contratto.
Quando ti vedo al telefono, capisco dalla faccia e da come ti muovi che stai
parlando con lei.»
Ormai mia madre era anziana e non aveva nessuno a parte me, e
preferivo sopportare piuttosto che mettere in discussione cose vecchie di
anni. Quindi non mi servivano il parere di Beatrice, le sue critiche e le sue
soluzioni.
Per un certo periodo uno dei motivi di discussione è stato Marcello.
Spesso, quando spettava a lui tenere il figlio, diceva che aveva avuto un
impegno improvviso e non poteva venire a Milano. Allora Beatrice
prendeva il treno e accompagnava Gabriele a Bologna.
Non era impegnato, semplicemente non aveva voglia o doveva seguire la
sua nuova passione: il crossfit.
Questa cosa mi dispiaceva due volte, per Gabriele che adorava suo padre
e lo vedeva come un supereroe, e per Beatrice che era costretta a sbattersi
per tamponare la situazione.
Per me quelle di Marcello erano trappole in cui lei non doveva cadere.
Un giorno, dopo un mio commento eccessivo, è sbottata: «Credi che non mi
piacerebbe dire a mio figlio che suo padre è un coglione? Credi che non mi
piacerebbe dire a Marcello che non sono disposta a portarglielo?». Aveva la
faccia rossa. «Devo pensare al bene di Gabriele, non a vincere le battaglie
con suo padre. Sono rospi che mi ingoio per fare in modo che lui lo veda.
Poi, da grande, magari lo capirà da solo chi è suo padre.»
Mi sono sentito un idiota e mi sono scusato.
Un’altra cosa su cui ho smesso di discutere era la rigidità di Beatrice
sull’alimentazione di Gabriele.
Non voleva che mangiasse troppe schifezze, bevande gassate, dolci,
caramelle, patatine. Ogni tanto gliele concedeva ma erano, appunto,
concessioni.
Quando Gabriele tornava da casa dei nonni o del padre e diceva cosa
aveva mangiato, lei si appartava e faceva delle telefonate di fuoco.
Pensavo che quello di concedergli dolci e schifezze fosse solo un modo
per amarlo, invece lei aveva le idee chiare: «Lo fanno per conquistarsi
subito il bambino. Dargli tutto quello che vuole è la strada più breve e più
facile. Lo fai per te stesso, perché ti gratifica vederlo contento ma
soprattutto sentirti amato da lui».
Eppure, nonostante tutte queste cose, non l’avrei mai lasciata, perché
dietro i comportamenti fastidiosi, ossessivi e seccanti continuavo a vedere
dolcezza, fragilità, bellezza. Di lei ho sempre amato le cose che cercava di
tenere nascoste.
4

Se penso alla nostra relazione, mi accorgo che col tempo siamo diventati il
risultato delle nostre incomprensioni e dell’incapacità di comunicare
davvero. Non c’è stato un avvenimento che ha rovesciato tutto
all’improvviso, è stato un lento, impercettibile movimento che giorno dopo
giorno ci ha fatto sprofondare.
«Quand’è che le cose belle diventano brutte?» ho chiesto a Francesco
mentre facevo girare tra le mani un bicchiere di Pinot nero.
«Non chiederlo a me, sono single da quasi dieci anni.»
Beatrice mi aveva detto delle cose terribili, che non andrebbero dette
nemmeno durante una discussione: “Maledetto il giorno che ti ho
incontrato”, “Vattene da casa mia, non la voglio una persona come te nella
mia vita”. Una sera mi ha perfino detto che non ero un uomo, che non avrei
mai concluso nulla, e che solo una stupida come lei poteva cascarci con uno
come me. Erano frasi che, una volta uscite, non possono essere ignorate.
Poi, ha portato tutto su un altro livello.
A letto, dopo aver battibeccato su alcune cose, tra cui la quantità di
vestiti che ingombravano la poltrona, senza nemmeno guardarmi: «Forse è
arrivato il momento di lasciarci, non ha più senso stare insieme così».
Ho cercato di ammorbidire, non potevo accettare che parlasse sul serio.
«Mi sono lasciata col padre di mio figlio, non mi spaventa farlo con te.»
Sono rimasto di ghiaccio, non me l’aspettavo. Ero terrorizzato perché
non riuscivo a sopportare l’idea che tra noi finisse, e forse lei l’ha capito,
perché sentivo che traeva forza dalla mia paura.
Ho provato subito a riportare indietro tutto, scusandomi e addossandomi
la responsabilità delle nostre difficoltà. Le cose quella sera si sono
sistemate, tanto che poi abbiamo fatto l’amore.
Però aveva parlato di separazione. Certe parole non andrebbero mai dette
perché quando lo fai si infilano nella testa delle persone, che iniziano a
immaginare scenari e questi scenari diventano entità che prendono forma e
non si sa dove vanno a finire. “Il pensiero crea la materia” si dice.
Non riuscivo nemmeno a pensare all’idea di separarci, e non solo perché
non volevo perdere Beatrice, io non volevo perdere Gabriele.
Io e lui spesso facevamo a gara a chi dei due amasse più l’altro. Gli
dicevo che nessuno poteva amare una persona più di quanto io amassi lui.
Andavamo avanti così dei minuti, era diventato il nostro gioco. Poi un
giorno mi ha sorpreso: «Ti voglio più bene io e lo sanno già tutti nel mondo.
Per cui basta, ho vinto».
L’idea di perderlo mi distruggeva.
È stato Francesco a cambiare la mia prospettiva, mi ha fatto capire che
non potevo lasciare che fossero le paure a guidare la mia vita. «Quando si
ha paura si sbaglia sempre. È come quando cucini il riso. Anche se l’hai
fatto mille volte, ti sembra sempre poco e alla fine continui ad aggiungere
qualche pugnetto finché non diventa troppo. È la paura di restare con la
fame a farti sbagliare.»
Una sera, dopo una brutta discussione, Beatrice aveva preso un libro ed
era andata a letto.
Mi sono ritrovato solo sul divano a guardare la televisione. Erano giorni
che c’erano tensioni, silenzi, aria pesante. Ero stanco di sentirmi dire che
sbagliavo. Era arrivata perfino a sostenere che il mio modo di amare non
andava bene. «Non mi sento amata», aveva chiuso così quella discussione.
Mi sono addormentato e quando mi sono risvegliato erano le tre. Dalla
finestra entrava la luce dei lampioni, sono rimasto immobile ad ascoltare i
rumori che venivano dall’esterno e a osservare i fari delle auto proiettati sul
soffitto. Ho sentito la voce di un ragazzo e una ragazza, si sono detti
qualcosa e poi sono scoppiati a ridere.
Ho cercato di immaginare come fossero quei due e poi, senza nemmeno
accorgermene, quei due siamo diventati noi, noi quando ci siamo
conosciuti, quelli che non riuscivamo più a essere.
Sono stato assalito dall’ansia. In bagno, ho aperto il rubinetto e ho fatto
scorrere il getto finché l’acqua non è stata davvero fredda. Poi mi sono
sciacquato la faccia più volte. Mi sono seduto in cucina, con un bicchiere di
acqua frizzante.
Avevo paura di tornare a vivere senza di loro, paura del dolore che avrei
provato nel perderli e soprattutto paura di rimanere solo tutta la vita.
Ognuno di noi vive delle contraddizioni. La mia è che, anche se sono un
uomo molto indipendente, non mi piace stare solo. Non avevo mai vissuto
da solo, prima stavo con mia madre, poi ho diviso la casa con dei
coinquilini, poi altre piccole convivenze per necessità o comodità.
Ero diventato anche pigro, l’idea di dover ricominciare a uscire la sera
per conoscere gente mi stancava.
Era come se mi guardassi per la prima volta dopo anni, e quello che
vedevo non mi piaceva per niente: ero debole, senza forze, spossato, fiacco.
Mi sono reso conto che in quella quotidianità mi ero perso.
Da fuori ha iniziato a filtrare la luce del giorno, era arrivato il mattino
senza che me ne accorgessi.
Sono andato in camera, mi sono seduto sul lato dove dormiva Beatrice.
Ha aperto gli occhi, le ho scostato i capelli dal viso, le ho accarezzato una
guancia, ci guardavamo senza parlare. Eravamo entrambi stanchi,
appesantiti, legati a qualcosa di invisibile a cui non sapevamo neppure dare
un nome ma che ci toglieva forza, leggerezza. Non era colpa di nessuno e
nessuno voleva trovare un colpevole.
I suoi occhi sono diventati lucidi, una lacrima è scesa bagnando il
cuscino.
In quel momento abbiamo capito che era finita, qualcosa tra noi era
andato perso per sempre. Eravamo esausti e ci siamo arresi.
Mi sono vestito e sono uscito. Non volevo restare a fare colazione,
soprattutto con Gabriele.
Ho attraversato il parco. C’erano persone che correvano, altre con i cani,
altre in bicicletta.
Avevo immaginato spesso il momento in cui Beatrice mi avrebbe
lasciato, e nelle mie fantasie piangevo sempre dalla disperazione. Ho
cercato una panchina per farlo da seduto.
Quando l’ho trovata, è stato chiaro che quello che stavo vivendo, cioè la
realtà, era diversa. Stavo male, ma non sentivo il bisogno di piangere.
Stranamente, in quel dolore mi sono scoperto più libero, come se qualcosa
di pesante mi si fosse levato di dosso.
5

La prima notte dormire da solo è stato faticoso.


Ogni cosa mi metteva ansia, perfino spegnere la luce e restare al buio.
Alla fine ho acceso le lampadine dello specchio del bagno e ho lasciato la
porta leggermente aperta, così da far filtrare la luce.
Non volevo credere che fosse finita. Ero sempre stato convinto che sarei
invecchiato insieme a lei. Avevo già immaginato il nostro futuro, Gabriele
avrebbe fatto l’università fuori Milano e noi saremmo andati a trovarlo di
tanto in tanto. Mi piaceva fantasticare, inventare storie, vedere la nostra vita
piena di colpi di scena.
La mattina ho vagato per la città, poi a mezzogiorno Beatrice mi ha
chiamato. È stata una telefonata pratica, pensavamo che per Gabriele
sarebbe stato meglio se fossi tornato a cena e gli avessimo detto che sarei
stato via qualche giorno per lavoro. Era già capitato. Beatrice aveva bisogno
di tempo per capire come dirglielo.
Durante la cena abbiamo nascosto il dolore meglio che potevamo.
Abbiamo guardato un paio di episodi di un cartone giapponese sul divano,
finché è stata ora di andare a letto.
Nella sua cameretta, mentre cercavo di farlo addormentare, stavo male.
Il fatto che fosse l’ultima volta, e che lui non lo sapesse, mi faceva sentire
un bugiardo. Di solito, quando finivo di leggere si addormentava subito,
quella sera sembrava non voler arrendersi al sonno. Ci è voluta quasi
mezz’ora, gli ho dato un bacio sulla fronte e sono uscito dalla stanza.
Sulla porta della cucina, con le ultime cose dentro una sacca, ho salutato
Beatrice che stava mettendo i piatti nella lavastoviglie.
Si è voltata un attimo, non scorderò mai l’espressione del suo viso, si
leggeva un dolore che immagino fosse simile al mio.
Avrei voluto avvicinarmi, cancellare quella brutta situazione, tutte le
tensioni, le incomprensioni. Sapevo che non era possibile, quel passo era
inevitabile. Nella vita bisogna essere all’altezza del proprio dolore.
Scappare o continuare a mentire o cercare scorciatoie non era più una scelta
possibile.
Sono rimasto sulla porta, nessun avvicinamento, né bacio o abbraccio.
Beatrice ha continuato a caricare la lavastoviglie come fosse una cosa
importante che non poteva aspettare.
Non scorderò mai la fitta che ho sentito mentre scendevo le scale, su
quei tre piani di scale sono stato invaso da mille ricordi, come succede nei
film. Il nostro incontro, il primo bacio, la prima volta che abbiamo fatto
l’amore, quando ci siamo commossi insieme, le colazioni, le serate
abbracciati davanti a una serie tv. Come era possibile che quei due fossero
arrivati a questo?
Poi, i ricordi con Gabriele mi hanno assalito, i piccoli gesti, la pettinatura
perfetta dopo il bagno, i suoi pigiamini con i supereroi. I miei occhi si sono
riempiti di lacrime silenziose. Non mi sono mai sentito così solo, e non è
una frase retorica. Ero perso, ci sono voluti mesi prima che riuscissi a
mettere a fuoco la mia vita. Ancora oggi, all’improvviso, capita che mi veda
in quella casa insieme a Beatrice e Gabriele.
Forse aveva ragione Beatrice a dire che non so amare. Forse mi sarei
dovuto impegnare di più, forse davvero avevo dato per scontate una serie di
cose. Francesco sostiene che in una relazione l’altra persona è come una
pianta, conta il modo in cui te ne prendi cura, più che le volte in cui le dici
“ti amo”. Non mi ero preso abbastanza cura di lei, oppure Beatrice non
poteva essere una donna felice, come mi aveva detto un giorno sua sorella.
Eravamo in auto da soli, la stavo accompagnando all’aeroporto.
Nemmeno il tempo di partire e lei aveva già i piedi sul cruscotto. Conosco
persone che per una cosa del genere avrebbero perso la testa, io avevo
semplicemente pensato che fosse a suo agio.
Abbiamo parlato per tutto il tragitto, una conversazione fitta.
«Come mai hai mollato l’azienda di famiglia?»
«Perché era il sogno di mio padre» ha risposto senza esitare,
probabilmente non ero il primo a farle quella domanda.
«Quindi lo hai fatto per dargli un dispiacere.»
Ha riso. «Era il suo sogno, non il mio. E se devo confidarti un segreto
nemmeno quello di mia sorella. Ma non tutti hanno la forza di deludere i
propri genitori.»
Che stoccata. Sono rimasto in silenzio. La cosa assurda era che Beatrice
aveva fatto tutto quello che suo padre si aspettava da lei, ma il padre
sembrava preferire Viola, quella che non aveva assecondato le sue richieste.
Per assurdo, alla lunga, si era verificato l’effetto contrario.
Alla fine nella vita vince chi è autentico.
Non ho mai detto a Beatrice di quella conversazione, non volevo causare
una discussione, o peggio un litigio tra sorelle, anche se sembrava che a
Viola non importasse molto.
Mi sono sentito libero di chiederle se in Costa Rica avesse qualcuno. «A
me puoi dirlo, non faccio parte della famiglia» ho aggiunto alla fine per
creare un’alleanza con lei.
«Purtroppo per te invece sì. Ci sei dentro con tutti e due i piedi.» Aveva
uno strano sorriso che assomigliava a una risata trattenuta, come se sapesse
qualcosa che io ancora non vedevo. «Il mio unico amore per adesso è
Dante» ha risposto.
«Immagino che Dante sia il fedele amico.»
«Esatto. Un cane locale con un nome italiano.»
Poi, come un vero idiota, le ho fatto la domanda più banale: «Hai gusti
difficili o in Costa Rica non c’è merce interessante?».
«In Costa Rica ci sono surfisti che ogni donna vorrebbe incontrare. La
merce è di alta qualità.»
Dopo un breve silenzio ha aggiunto, con grande leggerezza: «Spesso le
persone dicono di amarti e di voler stare con te perché vogliono il tuo bene,
in realtà sono stanche di stare nel loro male. Sono davvero convinte che
quello che sentono sia un bene, invece è solo un grido di speranza».
Al momento avevo pensato che la sua fosse una specie di superteoria per
scappare e non mettersi in gioco. Mesi dopo, quella frase è riapparsa
all’improvviso nella mia mente, come fanno certi fiori che sbocciano
durante la notte e al mattino sono lì. E mi è venuto il sospetto che parlasse
di me, il sospetto di essere io una di quelle persone.
Alla fine, proprio mentre scendeva dall’auto, in modo che non potessi
rispondere, ha detto: «Io e Beatrice non saremo mai persone felici. Lei
perché invece di vivere il suo sogno ha vissuto quello di nostro padre, io per
il senso di colpa di essermi sfilata. Siamo figlie di un padre che non ci ha
mai viste, ha visto solo il prolungamento di se stesso». Mi ha baciato su una
guancia e si è avviata verso le porte automatiche.
6

A un anno dalla fine della relazione con Beatrice, gironzolavo in un negozio


di articoli per la casa. Era domenica pomeriggio. Guardavo dei cucchiai in
legno pregiato, l’intensità del colore digradava dalla testa al manico. Erano
tenuti insieme da uno spago, un cucchiaio grande, uno piccolo e una specie
di forchettone. Ho allungato il braccio per metterli meglio a fuoco e lì, in
quel momento, ho visto Beatrice. Mi stava fissando da dietro i cucchiai di
legno. Era la prima volta da quella sera. È stato un colpo del tutto
improvviso, non so nemmeno che faccia ho fatto.
«Io li prenderei» ha detto.
«Ciao.» La voce mi è uscita male, più che un saluto sembrava un
lamento. Mi sono guardato intorno, lei subito ha detto: «Oggi Gabriele è
con suo padre».
Era bella come prima, come sempre, aveva solo i capelli più corti. La
cosa più sorprendente era che sembrava calma, il nostro incontro casuale
non la agitava.
«Hai tagliato i capelli?»
«Volevo avere la testa più leggera.»
«Stai bene.»
«Grazie.»
Non sapevo più che dire. Avrei voluto sapere come stava, ma in quel
momento Matilde mi ha raggiunto.
Beatrice non ha cambiato espressione, mentre io ho sentito che la faccia
mi diventava calda. Le ho presentate, poi lei ci ha salutato e si è allontanata.
«Ma era Beatrice Beatrice? La tua ex?» ha chiesto Matilde.
Ho annuito.
«È molto bella, sei sicuro di aver fatto bene a lasciarla?»
«Veramente è stata lei a lasciarmi.»
Matilde non ha aggiunto nulla, non so cosa stesse pensando, ma ero
sicuro a cosa stesse pensando Beatrice nel vedermi con la mia nuova
fidanzata: l’uomo maturo con la ragazzina che ha la metà dei suoi anni. Un
vero cliché.
7

«Controllo dell’umore. Regolazione della sensazione di piacere e di alcune


funzioni cognitive fra cui la capacità di attenzione e la motivazione.
Regolazione del sonno.»
Guardavo Francesco mentre mi leggeva gli effetti della dopamina.
Dopo Beatrice è stato un periodo confuso, ero poco lucido, faticavo a
prendere decisioni e soprattutto ero invaso da una totale apatia. Tutto si era
appiattito, nulla mi dava emozioni.
La sera non avevo voglia di uscire e nemmeno di restare a casa da solo,
anche perché ho passato i primi mesi in una stanza d’albergo.
Francesco mi aveva consigliato di iscrivermi in palestra: «Non chiedere
aiuto alla tua mente, affidati al corpo. Hai bisogno delle sostanze chimiche
che si rilasciano con un allenamento, tipo la dopamina. Devi fuggire
dall’assopimento in cui ti trascina la mente. Devi sudare, essere più sodo,
più reattivo».
Non sono mai stato un amante della palestra, ma avevo deciso di seguire
il suo consiglio ed è bastato poco più di un mese per capire che aveva
ragione. I primi giorni mi dovevo forzare, nel giro di qualche settimana
l’attività fisica è diventata parte della mia routine. Se non avevo tempo di
andarci e saltavo qualche sessione mi sentivo sporco, pieno di tossine da
eliminare. Una sensazione nuova.
Da ragazzo, quando arrivava la bella stagione e andavo a fare una corsa
al parco, riuscivo subito a correre un’oretta senza fatica, mentre in palestra
all’inizio mi bastavano dieci minuti sul tapis roulant per avere il fiato corto
e arrancare.
È stata una soddisfazione vedere i progressi. Ho iniziato a sentirmi più
forte, resistente, e per assurdo senza allenamento ero più stanco.
L’allenamento mi rigenerava.
Alla reception lavorava una bella ragazza, giovane, che aveva il compito
di consegnare gli asciugamani per l’allenamento e per la doccia.
Un giorno, nel parcheggio, mentre ero al telefono con un cliente, mi
sono voltato e l’ho vista. Anche lei era al telefono, seduta sul suo scooter.
Ci siamo scambiati un sorriso. Nel giro di pochi secondi entrambi abbiamo
chiuso la conversazione, e ci siamo ritrovati lì, l’uno davanti all’altra.
«Non ti ho mai vista tutta intera» le ho detto.
Mi ha fissato con aria interrogativa.
«Di solito sei dietro il bancone.»
«Hai visto? Ho anche delle gambe.» Abbiamo riso. Si chiamava Matilde,
uno dei miei nomi preferiti.
«L’ha scelto mio padre.»
«Era il nome di sua madre?»
«Era il nome della musa di Neruda.»
«I versi del capitano.»
Mi ha guardato.
«È il titolo del libro dove sono raccolte le poesie che Neruda ha scritto
quando viveva a Capri, con Matilde.»
Ha sorriso.
Abbiamo continuato a parlare e durante la conversazione c’è stato un
momento in cui mi è sembrato che stesse flirtando. Sono abbastanza grande
da sapere che non significa nulla, a volte le donne flirtano anche se non
sono interessate a te. Alcune lo fanno semplicemente per il gioco di sedurre,
hanno bisogno di conferme, sapere di piacere, sentire il potere che hanno
sugli uomini.
Magari le piaccio davvero, ho pensato dopo esserci salutati. Non ho mai
avuto problemi a chiedere a una donna di uscire, ma con lei era diverso,
aveva ventiquattro anni, la metà esatta dei miei, e non volevo sembrare il
vecchio squallido che corre dietro alle ragazzine.
Ero terrorizzato dal poter sembrare ridicolo ai suoi occhi.
Un paio di giorni dopo, quando sono tornato in palestra, morivo dalla
curiosità di vedere come mi avrebbe salutato, se era rimasto qualcosa del
nostro incontro nel parcheggio. Non era di turno.
Ci sono volute due settimane prima che la rivedessi, e per tutto il tempo
mi sono chiesto se anche lei aveva in qualche modo pensato a me.
Un pomeriggio ho riconosciuto il suo scooter nel parcheggio, ho appeso
al manubrio un sacchetto che tenevo in auto ormai da settimane.
Quando mi ha visto da dietro il bancone, mi ha salutato con un sorriso
enorme. «Hai visto? Sono di nuovo senza gambe, potrei essere un
bancotauro, una creatura mitologica mezza donna e mezza bancone.»
Ho riso.
Ogni tanto, durante l’allenamento, buttavo l’occhio alla reception
sperando di incrociare il suo sguardo, inutilmente.
Dopo la doccia, quando sono uscito, non c’era più. Mi sono ripromesso
di smetterla di fantasticare sempre su tutto, la possibilità di interessarle era
davvero remota. Ho sperato che non fosse ancora andata via così da potermi
riprendere il sacchetto che avevo lasciato sul suo scooter.
Arrivato nel parcheggio, l’ho vista seduta sul motorino intenta a
guardarci dentro.
«Sì, sono io vostro onore, mi dichiaro colpevole» ho detto ridendo.
Appena l’ha scartato le è scomparso il sorriso dalla faccia. «Ma che libro
è? Ero convinta fosse quello di Neruda.» Era spiazzata. Lo era, avevo
nascosto Neruda dietro una finta copertina: Esercizi utili per mantenere le
chiappe sode. Era un lavoro ben fatto, avrebbe ingannato chiunque.
«Credevo che il tema potesse interessarti, visto che lavori in palestra.»
Non so se fosse più incredula o delusa. Mi sono avvicinato e ho svelato
il trucco. È scoppiata a ridere e io con lei.
«Ho pensato che fossi un cretino.»
«Forse lo sono.» Ho sorriso. «Hai già finito di lavorare?»
«Ho preso due ore di permesso, ho il dentista.»
Lo scherzo riuscito mi aveva dato fiducia. «Peccato, ti avrei offerto da
bere.»
Ha aspettato pochi secondi prima di rispondere: «Vado per un controllo,
non è che mi trasferisco a vivere lì. Possiamo vederci dopo se ti va».
Da quando era finita con Beatrice, mi era capitato di uscire con un paio
di ragazze, tutte della mia età, la maggior parte storie di una notte o due.
L’approccio con una ragazza così giovane mi metteva in difficoltà. Eppure
lei aveva un modo di parlare che faceva svanire le mie insicurezze.
«Ceniamo insieme? Oppure un aperitivo?»
Ero emozionato come un ragazzino. Sembrava fosse la prima volta che
invitavo una ragazza a uscire.
«Volentieri.»
«Per l’aperitivo o per la cena?» Mi sentivo un idiota a chiederlo, ma non
avevo proprio capito.
«Per bere una cosa… prima di cena.»
Mi piaceva la sua ironia.
La sera abbiamo parlato di molte cose, a un certo punto mi sono sentito
in dovere di far notare la differenza di età: «Che ci fai qui con un uomo che
ha il doppio dei tuoi anni?».
«E tu con una ragazza che ne ha la metà?» mi ha risposto ridendo. Non
ho saputo ribattere, l’ha fatto lei: «Per me l’età non conta molto. Forse sono
nata vecchia ma spesso con i ragazzi della mia età mi annoio».
Dopo, ha scelto un locale per finire la serata, un posto frequentato da
persone giovani, più giovani di me. Ci siamo fermati al bancone, seduti su
due sgabelli, alla stessa altezza, riuscivamo a guardarci negli occhi. Quando
Matilde è andata in bagno, rimuginavo se chiederle di venire da me o se
riaccompagnarla a casa. Avevo voglia di baciarla e sapevo che avrei provato
a farlo, forse il resto era troppo. Mi sono guardato intorno, sicuro che mi
sarei trovato addosso gli occhi di qualche ragazzo o ragazza che mi
giudicavano, invece ognuno si faceva i fatti propri, le paranoie esistevano
solo nella mia testa.
Matilde è tornata, si è avvicinata e mi ha baciato sulle labbra. «Portami
via» mi ha sussurrato all’orecchio.
Ho avuto un sussulto. Siamo usciti dal locale. Appena fuori l’ho afferrata
per un polso e l’ho baciata con tutto il desiderio e la passione del mondo.
Siamo andati da me. Ho preparato due gin tonic, dopo il primo sorso ho
appoggiato il bicchiere sul tavolo, l’ho sollevata e portata sul divano. Non è
alta, ha avvinghiato le braccia intorno al mio collo e le gambe intorno alla
vita, come un koala. Non mi servivano nemmeno le mani per tenerla.
Il suo corpo, pazzesco, esprimeva la potenza della sua età, la pelle liscia,
i fianchi stretti, il culo sodo.
Quella sera abbiamo fatto l’amore. Ricordo che era sopra di me e
sembrava una statua, con le due linee verticali degli addominali, la curva
del seno, il viso pieno di piacere. Un’immagine indimenticabile, da perdere
la testa. Ricordo che si mordeva sempre il labbro inferiore.
Volevo impressionarla, come diceva Califano: “La prima sera devi
dimostrare che al mondo solo tu sai far l’amore”. Volevo provasse qualcosa
mai provato prima, forse non avevo più la prestanza dei suoi coetanei, ma
potevo giocarmi l’esperienza. L’ho toccata, baciata, leccata, assaporata,
morsicata con una passione nuova, ritrovata. Matilde ha risvegliato in me
qualcosa che era sopito da anni, qualcosa che non credevo neppure più di
avere.
Dopo, eravamo sudati e stravolti. Siamo rimasti abbracciati per un lungo
tempo, era rilassata e lo ero anche io. Siamo stati subito bene insieme.
Senza che discutessimo della cosa, si è fermata a dormire, come se fosse
naturale. La mattina, la guardavo mentre mangiava un biscotto e beveva il
caffè. Mi sentivo di aver ricevuto un regalo dall’universo, una di quelle cose
belle e inaspettate che la vita ti dona. Non avrei mai pensato di fare ancora
l’amore con una ragazza della sua età. Perciò ho messo subito in conto che
non sarebbe capitato più, non avevo certo immaginato che potesse nascere
una storia.
Sulla porta, ci siamo baciati e sono rimasto a guardarla mentre aspettava
l’ascensore.
«Pensi di volermi vedere ancora?» mi ha chiesto a bruciapelo.
«Mi piacerebbe molto.» Non avevo dubbi.
Ha continuato a fissarmi negli occhi senza fare nessuna espressione, poi:
«Non far passare troppo tempo».
Prima di sparire dentro l’ascensore ha soffiato un bacio verso di me.
Ho avuto voglia di un altro caffè. Mentre aspettavo che salisse nella
moka, ho lavato le tazze della colazione e i due bicchieri del gin tonic. Mi
sono ritrovato a sorridere, ero felice.
La stessa sera abbiamo cenato da me. Mi aveva detto che andava matta
per gli spaghetti con vongole e bottarga, uno dei piatti che mi riesce meglio.
Sono passato da Francesco, volevo un vino adatto.
«Mi sembri più felice del solito» ha detto appena mi ha visto. Gli ho
raccontato della serata, era quasi più felice di me. Ho scelto una bottiglia di
bianco, un Costa d’Amalfi, uno dei miei preferiti.
Quando Matilde è entrata in casa, l’ho guardata come si guarda
un’apparizione. Indossava dei calzoncini di jeans strappati, un paio di
sneakers bianche e una t-shirt verde militare. Sembrava appena uscita da un
film americano ambientato in California.
Era irresistibile, l’ho baciata subito, sulla porta. Profumava di primavera,
la sua maglietta di bucato e il suo respiro di buono.
Durante la cena abbiamo riso, scherzato, mangiato, bevuto e fatto
l’amore. Ma non si è fermata a dormire.
Ho imparato presto che non le piaceva, preferiva tornare a casa propria.
Non eravamo fidanzati, come diceva lei, il nostro era un amore senza
pretese, da vivere con leggerezza. Ed era una condizione che andava bene a
entrambi.
Non abbiamo mai parlato di relazione esclusiva, forse perché anche lei
voleva sentirsi libera.
«Se vado a letto con un’altra che succede?» le ho chiesto una sera.
«Devi essere bravo a non farmelo sapere. Se non lo so, non è un
problema.»
Era ovvio che valesse anche per lei, solo che io non riuscivo ad
accettarlo così facilmente. L’alternativa era fidanzarci, ma non potevo
permettermi il suo stile di vita, era troppo faticoso: cene, feste, fare tardi
anche in settimana. Mi sentivo vecchio.
Le ho sempre invidiato una cosa che non avevo nemmeno alla sua età:
vivere con leggerezza fino in fondo. Non avere un lavoro certo, con una
prospettiva di crescita e miglioramento, non studiare per acquisire una
specializzazione non le creava nessun tipo di turbamento, o ansia. Non
aveva ben chiaro cosa volesse fare da grande, per adesso lavorava in
palestra. Non sapevo se fosse un fatto personale o generazionale.
Io già alle medie sapevo di volermi costruire un futuro solido. Studiare,
laurearmi, trovare un lavoro era prioritario. Matilde lavorava perché le
servivano i soldi per vivere, non aveva una visione, era concentrata solo sul
presente: «Per adesso faccio questo, poi si vedrà». E lo stesso era per la
nostra relazione: «Per adesso mi va, poi si vedrà».
Era tutto illogico, inaspettato, assurdo, per molte cose senza senso.
Eppure la freschezza, la passione, l’intensità che vivevo stando con lei alla
fine l’hanno avuta vinta sulla ragione. E questo valeva anche per lei,
almeno così mi aveva detto.
Senza doverci spiegare nulla, abbiamo scelto di seguire il nostro sentire.
In maniera del tutto inaspettata ci siamo ritrovati dentro una storia che per
me e per lei, in qualche modo, era amore.
8

Matilde divideva un appartamento con una ragazza, in zona stazione


Centrale.
Mi è capitato di andare da lei quando la sua coinquilina era fuori città,
mi sembrava di essere tornato ai tempi dell’università. Il letto piccolo
contro la parete, le fotografie appese al muro, i mobili in formica, il
frigorifero con le cose separate, un piano suo uno dell’altra. Mi guardavo
attorno e tutto mi riportava lontano nel tempo, ora però vedevo ogni cosa
con il distacco di un visitatore.
Mi piaceva fare l’amore nel suo letto, mi dava un senso di maggior
leggerezza, divertimento e allegria, come fossimo in vacanza. Mi piaceva
anche come si prendeva cura di me, preparava cose da mangiare,
l’asciugamano pulito in bagno, aveva perfino comprato due bicchieri da
vino perché sapeva che amavo berlo così. Lei sarebbe un Lambrusco
Grasparossa di Castelvetro, capace di portare allegria e leggerezza, e anche
di stupire con qualità nascoste, che a prima vista nessuno le attribuirebbe.
Dalle sue cure mi arrivava un sentimento di bontà che non avevo mai
provato. Beatrice era gentile e premurosa, ma con Matilde era tutto più
dolce, più tenero e accogliente. Soprattutto non mi criticava su ogni cosa, a
lei sembravo andare bene esattamente come ero.
La differenza d’età mi faceva sentire a volte un padre, a volte un
ragazzino.
Una sera, dopo aver fatto l’amore nel mio letto, abbiamo iniziato a
fantasticare su come sarebbe stata tra noi se ci fossimo incontrati quando io
avevo la sua età.
«Non hai delle foto?» mi ha chiesto.
Ne avevo qualcuna, la maggior parte erano da mia madre, nella vecchia
cameretta. Mentre rovistavo nella cassettiera vicino all’ingresso, mi è
venuto un dubbio: mostrargliene una dove ero uscito male così da non
essere schiacciato dal paragone o una dove ero uscito bene così da vantarmi
di ciò che ero stato e rischiare però che si notasse di più il passare del
tempo?
Erano vanità diverse, dovevo sceglierne una delle due. Mai avrei pensato
di poter essere in competizione con il me stesso di una volta. Alla fine ho
preso tutte quelle che ho trovato.
«Eri di una bellezza diversa, adesso sei più interessante» ha detto. «Sarei
impazzita per te allora come adesso.»
Ci vedevamo due o tre volte alla settimana, spesso dopo il lavoro veniva
direttamente da me. Mi piaceva rimanere in cucina a preparare la cena e
sentire il rumore della doccia. Restavamo quasi sempre a casa, ci piaceva di
più, soprattutto a me.
«Sto diventando una vecchia» mi ha detto una sera, anche se non le
dispiacevano il minestrone che le cucinavo e le tisane bevute sul divano
sotto una coperta. Quando non ci vedevamo, usciva con le sue amiche.
«Non sei geloso? Non hai paura?» mi incalzava Francesco.
«Non abbiamo esclusive.»
«E non ti dà fastidio?»
«Non ci penso.»
In realtà ci pensavo molto, anche se cercavo di non darlo a vedere.
Capitava che aprissi Instagram per vedere le sue storie, dov’era, con chi.
Per fortuna mi ero accorto presto della miseria in cui mi stavo infilando e
sono stato bravo a uscirne.
Ho capito che dovevo cambiare prospettiva. Invece di essere geloso,
dovevo essere grato per il tempo che passavamo insieme.
Era più giusto che frequentasse un ragazzo più giovane, glielo avevo
anche detto.
«Il problema con quelli della mia età è che si appiccicano, vogliono
fidanzarsi, diventano gelosi, possessivi. Invece con te è tutto più gestibile,
stiamo bene ma non invadi la mia vita. Ho questo angolino pieno d’amore e
ho anche le serate con le mie amiche. Cosa posso volere di più?»
In effetti, da quella prospettiva, era una condizione meravigliosa, anche
per me.
«Io e te» ha aggiunto, «anche se siamo diversi, sentiamo la vita nello
stesso modo.»
Non ero sicuro che fosse un complimento, ma non ci volevo pensare. Era
vero che non le facevo scenate di gelosia o che non invadevo i suoi spazi.
Tranne una volta.
In palestra nessuno sapeva di noi, solo una sua collega che quando mi
consegnava l’asciugamano mi faceva il sorrisino complice di chi sa.
Una mattina, dopo l’allenamento, mi sono ritrovato nello spogliatoio con
altri tre ragazzi. Non li conoscevo, non era il mio solito orario. Erano amici,
avranno avuto più o meno trent’anni. Facevano commenti sulle ragazze
della reception quando uno ha detto: «Un mio collega si è scopato quella
carina».
Mi sono sentito gelare.
«Quale? Sono tutte carine.»
«Quella bionda.»
«Ce ne sono tre bionde.»
Fingevo di non ascoltare e di cercare lo shampoo nello zaino, mentre una
morsa mi stringeva l’esofago.
«Matilde, credo.»
Lo stomaco mi si è rivoltato.
«Non importa, sono tutte superscopabili.»
Credo che il modo di parlare degli uomini negli spogliatoi sia lontano
anni luce da quello che hanno in pubblico.
Quando sono entrati in doccia, avrei voluto continuare a origliare. Chi
era questo suo amico? Quando era successo? Cosa andava in giro a dire di
Matilde? Della mia Matilde?
La sera le ho raccontato l’episodio. Pensavo si sarebbe imbarazzata,
invece non le interessava per niente.
«Chi è questo ragazzo?» le ho chiesto.
«Non ne ho idea. Non sai il nome, non sai quando è successo, non ho
visto i tre, come faccio a saperlo? Sicuro non ci sono uscita da quando sto
con te. Se poi tu pensavi di essere il primo uomo con cui sono stata in vita
mia, non so cosa risponderti.»
Le sue parole erano sensate, eppure “si è scopato quella carina”
continuava a rimbombarmi nella testa.
Ho preso a dire battute stupide, non riuscivo a farmi passare il fastidio
che avevo addosso.
A un certo punto ha smesso di ridere alle mie frecciatine. «Te la stai
prendendo con me, non ho fatto niente di male. Ti ha dato fastidio e lo
capisco, ma non roviniamoci la serata per tre che nemmeno sappiamo chi
sono. Se preferisci torno a casa e ci vediamo quando ti è passata. Se avessi
sbagliato qualcosa ti potrei chiedere scusa, ma di cosa mi dovrei scusare?»
Aveva ragione lei, non c’entrava nulla.
Ho scoperto che con Matilde avevo due tipi di gelosie, verso i ragazzi
della sua età e verso gli uomini della mia.
È capitato che qualche suo coetaneo ci provasse in mia presenza, come
se fossi solo un vecchio del tutto innocuo. I miei coetanei invece, vedendola
con me, pensavano di poter avere una possibilità.
Non saprei dire quale di queste due situazioni molestasse in maniera più
profonda il mio ego.
Alcuni uomini si vantano di aver conquistato una persona più giovane, io
provavo un po’ di imbarazzo, tanto che, se parlavo di lei, mi sentivo in
dovere di specificare che era molto matura, più grande della sua età.
Temevo di finire nel solito cliché. Io e lei non eravamo quelli delle storie
che vengono raccontate nei film quando si parla di uomo e una ragazza
molto più giovane. L’uomo in crisi di mezza età che per sentirsi giovane
cerca la ragazzina, come una sorta di trofeo, una sfida al tempo che passa.
Peggio ancora la storia della giovane che ha una relazione con un uomo più
grande per convenienza, regali, aiuti economici, viaggi.
Nonostante non fossimo così, sapevo che era così che gli altri ci
vedevano.
Tra noi c’erano sentimenti reali, tanto che spesso quando eravamo
insieme mi scordavo la differenza d’età. Era sempre lo sguardo di uno
sconosciuto a ricordarmela. Lo sconosciuto che mi scrutava dalla testa ai
piedi cercando di capire se fossi ricco o famoso o potente.
Era chiaro che la nostra storia portasse una scadenza, Matilde non era
certo la donna della mia vita o io l’uomo della sua. Non era un segreto e
glielo dicevo: «Siamo su un’auto senza freni e prima o poi ci
schianteremo».
«O faremo un salto come Thelma e Louise» aggiungeva sempre e mi
sorprendevo che conoscesse quel film, uscito dieci anni prima che nascesse.
«Sono sicuro che un giorno mi lascerai, è giusto così.»
«Impossibile, perché non stiamo insieme.»
«Chissà se mi riprenderò.» A volte sentivo il bisogno di dirlo, per
esorcizzare la paura. «Sarai tu a lasciare me. Sei giovane, incontrerai
qualcuno per farti una famiglia. Io resto finché l’altro non arriva.»
Lei mi rispondeva: «Sarai tu a farlo, per qualche donna in carriera,
intelligente, che sa tutte le cose che io non so». Ognuno di noi raccontava in
qualche modo i propri limiti, le proprie paure.
Quando davamo vita a quel futuro immaginato da separati accadeva
qualcosa di strano. Quasi ci piaceva dirci che entrambi avremmo sofferto,
come se in quel dolore ci fosse la verità, il senso del nostro amore. Quel
soffrire della stessa cosa, anche se separati, ci univa. Ci tenevamo stretti,
come se stessimo abbracciando i due che saremmo stati quel giorno.
Col passare del tempo mi sono accorto che le piaceva sempre meno,
quando le ho domandato se qualcosa era cambiato, mi ha detto che ci aveva
riflettuto: «È vero, sono più giovane ma resto comunque una persona adulta
e sono libera di scegliere. Tutte le relazioni rischiano di finire, di non avere
un futuro, e spesso l’età non c’entra niente. Magari un futuro non è
nemmeno quello che voglio. Guardo quello che abbiamo e quello che
abbiamo è un presente bellissimo. Per adesso non chiedo altro. Quando
queste condizioni per me saranno insopportabili e insostenibili ti prometto
che sarai la prima persona a cui lo dirò. Adesso però non facciamo che la
paura per un qualcosa che non c’è rovini una cosa bella che invece è reale.
La vita è adesso, Luca».
L’ho abbracciata, le ho chiesto scusa e poi l’ho baciata. Mi sono
ripromesso di non parlarne più.
Mentre la baciavo non riuscivo a smettere di pensare una cosa: quando
aveva detto “la vita è adesso”, aveva citato Baglioni o erano parole sue?
9

Quel martedì mattina ho accompagnato Matilde a casa, doveva recuperare


lo scooter per andare al lavoro. Avevo insistito molto perché si fermasse a
dormire, se non fosse stato per il diluvio della sera precedente non avrebbe
accettato. Prima di scendere dalla macchina mi ha baciato. «Ci vediamo più
tardi.»
Avevo cancellato ogni appuntamento, mi aspettava il funerale di Nicola,
un vecchio amico, che lasciava una moglie e due figli piccoli, otto e dieci
anni. Anche se non lo frequentavo da tanto, la sua morte mi aveva
sconvolto. Credo fosse dovuto anche al fatto che eravamo coetanei e che era
morto per un tumore fulminante. Quando qualcuno muore per una malattia
mi informo subito sulle sue abitudini, voglio sapere se fumava, cosa
mangiava, se faceva attività fisica e spero sempre che mi dicano che aveva
tutti i peggiori vizi, oppure che era un male ereditario. Colpa della genetica.
La cosa peggiore è scoprire che faceva una vita sana, l’idea che sia una
sorta di lotteria mi fa sentire inerme e impotente, spaventato, come se mi
restassero solo le preghiere.
Nicola era un amico dai tempi delle superiori, il bravo ragazzo di
provincia, generoso, divertente, disponibile. Nessun vizio, nessuna tara
genetica, da qualche anno poi gli era venuta anche la passione della
bicicletta.
Con lui avevo vissuto momenti indimenticabili, esperienze che fai da
ragazzo, nella totale libertà e incoscienza dell’età. Da quando mi ero
trasferito a Milano, ci eravamo persi di vista.
Qualche anno prima Carlo mi aveva inserito in una chat di WhatsApp,
“Vecchi leoni”, dove c’era il gruppo ristretto della vecchia compagnia,
eravamo in cinque.
Solo Carlo e Nicola abitavano ancora a Parma, gli altri erano sparsi in
giro per il mondo. La chat aveva lo scopo di trovare una data per riuscire a
incontrarci tutti. Non era un’impresa facile, tanto che abbiamo smesso di
tentare e la chat è diventata un posto dove mandarsi cazzate, video, foto,
meme, frasi stupide.
Quando Nicola si è ammalato nessuno di noi ne era al corrente, tranne
Carlo, a cui Nicola aveva chiesto di non dire nulla.
Mi ero sentito un cretino quando l’avevo saputo, al pensiero di aver
continuato a condividere stronzate nel gruppo mentre Nicola stava male.
Anche questa è una cosa inspiegabile, si diventa adulti e poi, quando ci si
ritrova, si torna a essere degli adolescenti incapaci di esprimere i propri
sentimenti e ci si nasconde dietro le goliardate.
Due giorni prima ero andato all’obitorio e avevo incontrato Barbara, la
moglie di Nicola, dietro di lei, seduti su una sola sedia, i due figli. È stato
straziante. Ci siamo abbracciati qualche secondo e lì ho capito di essere una
persona orrenda perché il mio primo pensiero, nonostante fossi davanti a
una vedova con due bambini piccoli, è stato quanto fosse invecchiata male.
Chissà se anche lei aveva pensato la stessa cosa di me.
La sera sono andato a mangiare una pizza insieme a qualche amico, per
ricordare Nicola. Cercavamo di tenere alto l’umore brindando a lui, anche
se non era facile.
Non sentivo né vedevo da anni molti di loro. Mi sono bastati cinque
minuti per ricordarmene il motivo.
Il giorno del funerale, in chiesa, sono rimasto vicino all’ingresso,
accanto all’acquasantiera. Mi sembrava la giusta distanza, non solo da
Nicola, in generale da tutta la situazione.
Ho riconosciuto alcune persone dai profili che riuscivo a vedere. Poi,
senza nessuna ragione, mi sono voltato verso l’ingresso. Non era stato il
rumore di passi o della porta che si apriva a farmi voltare, era come se una
parte di me sapesse che stava entrando lei, come se avesse avvertito la sua
presenza.
Al momento non l’ho nemmeno riconosciuta, anche se provavo una forte
emozione. Si è fatta il segno della croce e si è seduta qualche fila più avanti,
in quel momento ho capito che era lei: Lucia.
Dopo il funerale, al momento dei saluti, la tenevo sott’occhio, quando
c’è stata l’occasione buona mi sono avvicinato. «Come stai?»
Sembrava sorpresa.
«Bene. Non credevo di vederti qui.»
Ci siamo scambiati qualche parola di circostanza, e senza nemmeno
pensarci troppo le ho chiesto: «Hai tempo per un caffè?».
Non si aspettava un invito.
«C’è ancora la pasticceria qui dietro?» ho aggiunto.
Si è guardata intorno, come se si fosse svegliata da un sogno. «Sì. Bravo,
andiamo lì.»
10

Quando ho visto Lucia per la prima volta, ero poco più giovane di Matilde.
Rideva ed è stato un vero colpo di fulmine, mi ha folgorato. Era un venerdì
sera, eravamo a Parma in una piazza piena di bar.
In quegli anni per comunicare bisognava incontrarsi, non esistevano i
telefonini, e non esistevano i minuti illimitati, tanto che in certe famiglie il
telefono fisso veniva chiuso con un lucchetto.
Durante i fine settimana ci si riversava tutti in piazza e l’interesse
principale era sapere dove avrebbero fatto serata gli altri. Volevamo andare
dove andavano tutti per poi dire: «Che palle, sempre le stesse facce».
Ci si conosceva, anche se le compagnie erano diverse. In quella piazza
ho visto Lucia per la prima volta. La osservavo da lontano e mi piaceva
tutto di lei, i capelli castani, il viso morbido e dolce, come era vestita: jeans,
maglietta bianca e una camicia a quadrettoni di qualche taglia più grande
(erano gli anni Novanta).
Ho preso coraggio e mi sono avvicinato. «Ciao.»
Era stupita, non mi aveva visto arrivare.
«Ti stavo guardando da lontano e mi sono accorto di non averti mai
vista. È la prima sera che i tuoi ti lasciano uscire?» ho detto, cercando la
battuta.
Ha sorriso divertita. «Chi sei? La sicurezza della piazza?»
Le sue amiche sono entrate nel bar e siamo rimasti soli.
Mi ha sorriso. «Frequentavo un’altra compagnia e non siamo mai venuti
qui.» Ho pensato che stavo andando alla grande.
Più parlavo con lei più mi piaceva, più mi piaceva più sentivo di
piacerle, più sentivo di piacerle più ero sicuro di me. Ho azzardato: «Vuoi
sapere una cosa? Molti ragazzi pensano che te la tiri, in realtà sei timida».
Lucia mi ha guardato senza dire nulla. Ho capito di aver fatto centro. «E poi
sei la classica persona buona, ma se ti fanno incazzare diventi una iena.»
Lei continuava a tacere.
Ne ho sparate altre tre o quattro finché ha detto: «Come hai fatto?».
Il mio ego è esploso.
«Come hai fatto a sbagliarle tutte.»
Credo mi sia caduta la faccia.
«Se facessero il festival del luogo comune dovresti iscriverti, vedo del
potenziale.»
Sembrava divertita e io mi sono sentito un vero idiota. Nell’imbarazzo,
ho detto altre due o tre cose che sono suonate antipatiche, come se fossi
offeso, più cercavo di rimediare più affondavo. Il culmine è stato quando le
ho detto: «Eppure sono convinto che io e te un giorno faremo l’amore».
Le sue amiche sono tornate, lei mi ha salutato dandomi le spalle e mi ha
ignorato per il resto della serata. Sei proprio un coglione, ho pensato.
Parma è una piccola città e non è passato molto prima che ci
incontrassimo di nuovo. Era domenica sera, ero stato tutta la giornata a casa
sul divano a guardare dei film addormentandomi più volte. Non avevo
nemmeno voglia di uscire ma Carlo aveva insistito. Ero uscito in tuta, per
una birra veloce: «Resto un’ora e poi torno a casa». La classica frase da non
dire quando uno non vuole fare tardi. Ho raggiunto Carlo nel solito bar e lei
era lì, di schiena, a chiacchierare con delle amiche. Ero sempre stato
disinvolto con le ragazze, ma con lei qualcosa non funzionava e quel
qualcosa ero io. Sono stato assalito dall’insicurezza, poi si è voltata e mi ha
sorriso e quel sorriso mi ha dato il coraggio di avvicinarmi di nuovo.
Teneva tra i piedi una grande sacca.
«Sei andata in palestra?»
«No, è la mia borsa da viaggio, studio a Venezia e vivo lì. Torno a Parma
nei fine settimana. Tra poco ho il treno.»
Mi sono offerto di accompagnarla alla stazione. Per un motivo che
ancora oggi non mi spiego, ha accettato. Per paura che cambiasse idea, ho
preso subito la sua borsa e ci siamo diretti verso la mia auto, che poi era
quella di mia madre.
In auto non parlavamo, ero in evidente difficoltà e lei non faceva nulla
per aiutarmi. Non mi aveva negato un’altra possibilità, ma al tempo stesso
non mi regalava nulla.
Per rompere l’imbarazzo, le ho chiesto se le piacesse vivere a Venezia:
«Sai che di solito si dice “bella ma non ci vivrei”».
«Io ci vivrei, anche dopo la laurea.»
Siamo caduti in un altro lungo silenzio, avevo sempre paura di dire
qualcosa di sbagliato. Poi, ho deciso di rischiare: «Parla tu, perché magari
io dico un’altra cazzata. Tu non sbagli di sicuro».
«Non ti preoccupare, tra cinque minuti siamo arrivati, anche se in effetti
in cinque minuti potresti…»
«Non lo dire.»
Siamo scoppiati a ridere. Si era creata una piccola complicità e la cosa
mi aveva fatto esplodere di gioia.
L’ho accompagnata fino al treno, portandole la borsa. «Ci vediamo
venerdì, se torni.»
Ha annuito. È salita, niente baci, niente abbracci. Poi, come nei film, l’ho
salutata dal finestrino mentre prendeva posto.
Mentre camminavo verso l’auto parcheggiata mi sono accorto che avrei
voluto il viaggio fosse durato ore. Non eravamo mai rimasti soli senza gli
occhi degli altri addosso, senza interruzioni di altre persone. Ero stato bene
in quei pochi minuti passati con lei. Ho sentito un impulso improvviso e ho
deciso di seguirlo. Sono corso indietro fino al binario, davanti alla sua
carrozza, stava rovistando nella borsa e non mi ha visto. Ho bussato sul
vetro, si è voltata di scatto, forse spaventandosi un po’. Avevo un gran
fiatone e le parlavo cercando di scandire bene le parole, con movimenti
lenti e ampi delle labbra. Non capiva. Accompagnavo ogni parola con dei
gesti, sembravo un mimo.
Ha sventolato una mano davanti al viso come a dire: “Sei matto?”. Le ho
fatto segno di scendere, mi ha guardato qualche secondo immobile. Proprio
in quel momento il capotreno ha fischiato, ed è stato come una sveglia
perché è scattata in piedi, ha preso sacca e borsetta e si è lanciata giù dal
treno.
Le porte si sono chiuse dietro di lei una frazione di secondo dopo. Siamo
scoppiati a ridere, io quasi senza fiato.
Qualche minuto più tardi abbiamo imboccato l’ingresso dell’autostrada.
Quella sera l’ho accompagnata fino a Venezia, l’ho lasciata sotto casa e
sono tornato a Parma.
Era stato un viaggio infinito, al ritorno faticavo a tenere gli occhi aperti.
Mi sono fermato in autogrill per un caffè doppio. Ripensando alle cose che
ci eravamo detti e alle volte che insieme eravamo scoppiati a ridere mi sono
ritrovato a sorridere da solo con la tazzina in mano. Ero stravolto, una
felicità così non l’avevo mai provata in tutta la mia vita.
Io e Lucia siamo stati insieme per quattro anni.
È stata una delle storie più importanti della mia vita, con lei ho vissuto
tutte le prime volte.
11

«Non ero sicuro di venirti a salutare, avevo paura che fossi ancora
arrabbiata.»
Mi ha guardato dritto negli occhi e ha aspettato qualche secondo, poi con
un sorriso ha detto: «Chi ha la coda di paglia vede accendini nelle mani di
tutti».
Era strano essere seduti a quel tavolino insieme. Non la vedevo da più di
vent’anni.
Ha ordinato un tè con dei biscotti, io un caffè con una fetta di torta.
«Ti piace ancora la liquirizia?» le ho chiesto indicando le confezioni di
rotelle impilate vicino alla cassa. Quando stavamo insieme, capitava che ne
finisse una busta in cinque minuti.
«Ci sto più attenta.»
Della Lucia di quegli anni sapevo molte cose, di quella di adesso non
molto.
«Sei insegnante di storia dell’arte, sei sposata e hai una bambina. Questo
è quello che so di te.»
«Più o meno tutto giusto, e tu? Io di te non so nulla.»
Le ho raccontato che non avevo figli, che lavoravo con i vini e che
questo mi portava a vivere tra Milano e Parigi.
«E ti piace Parigi? So che è una domanda stupida, piace a tutti.»
«All’inizio non molto e non capivo nemmeno l’amore che molte persone
avessero per la città. La trovavo sporca, caotica, i parigini antipatici. Adesso
mi piace ogni cosa e spesso ci resto anche se non devo lavorare.»
Parigi era completamente diversa da quella che vivevo i primi tempi.
Avevo imparato ad apprezzarla nella quotidianità. Ho raccontato a Lucia
che amavo anche solo fare la spesa, entrare in una boulangerie e comprare
una baguette o dei croissant, stare seduto all’aperto in un caffè a guardare la
gente passare, prendere un libro e andare a sedermi su una sedia ai Jardin du
Luxembourg, soprattutto il sabato o la domenica. C’erano delle volte in cui,
mentre passeggiavo, mi prendeva una strana euforia. Mi piaceva nelle
giornate di sole quando il cielo era un lenzuolo azzurro senza nemmeno una
macchia di nuvole e mi piaceva quando era grigia e pioveva, anzi, quando
era così la trovavo ancora più romantica. Tornare a casa d’inverno, la sera, e
sentire l’aria ghiacciata in faccia, con il vento che rendeva le luci dei
lampioni, dei semafori, delle auto più intense. Pensare che di lì a poco sarei
stato a casa al caldo con la luce di una abat-jour mi regalava una sensazione
difficile da spiegare. Parigi mi faceva amare la vita e il mio piccolo
appartamento diventava come una tana in cui mi nascondevo.
Lucia mi guardava nello stesso modo di quando stavamo insieme. Mi ha
sorriso. «Sei sempre stato bravo a raccontare le cose. Mi hai fatto venire
voglia di andare a Parigi.»
«Dici?» le ho risposto con un piccolo imbarazzo.
«Quando stavamo insieme mi parlavi di un libro che stavi leggendo e
non vedevo l’ora di leggerlo. Stessa cosa con i film o i dischi. Riesci a far
piacere agli altri le cose che piacciono a te.»
Ho tagliato la punta della torta con il cucchiaino e l’ho assaggiata, per
non restare immobile senza dire nulla.
«Ho sempre desiderato essere bella come una donna parigina, sono così
eleganti.»
«Lo sei» ho risposto. «Hai solo bisogno di un trench.»
Lo pensavo, Lucia portava tutti i segni del tempo, ma la sua bellezza era
intatta. Anzi, con l’età aveva qualcosa che la rendeva ancora più misteriosa.
Sorseggiava il suo tè in silenzio. Quando ha appoggiato la tazza nel
piatto, il tintinnio ha rotto la strana sospensione in cui ci trovavamo.
«La tua bambina come si chiama?»
«Giulia. Ormai ha sedici anni. Adesso è a Londra con uno scambio
scolastico per imparare bene la lingua.»
Non riuscivo a immaginarmi con una figlia di quell’età, eppure io e
Lucia avevamo solo un anno di differenza. «Cosa si prova ad avere una
figlia grande che vive da sola in un’altra città?»
Ha sorriso e mi è sembrato di cogliere della nostalgia nel suo sguardo.
«È successo tutto così in fretta che nemmeno me ne sono accorta. Se chiudo
gli occhi la vedo ancora piccola seduta al tavolo mentre confonde le “b” e le
“d” o scrive il due e il cinque al contrario. E adesso vive con un’altra
famiglia a Hampstead.»
«Sono sicuro che sei un’ottima madre.»
Lucia ha scosso la testa. «Cerco solo di non fare gli stessi errori che ha
fatto mia madre con me, e nel frattempo ne faccio altri.»
La ascoltavo in silenzio.
«Alla fine con i figli cerchi solo di essere l’adulto che avresti voluto
vicino quando eri bambino.»
Mi piacevano le cose che diceva, o magari era perché mi piaceva lei.
«Avete un buon rapporto?»
«Mia figlia mi ha salvata.»
«In che senso?»
«È una storia lunga, ma mi ha salvata. Tu invece?»
«Sono stato con una donna che ne aveva già uno e che non ne voleva
altri. Adesso la storia è finita e sono rimasto così» ho aggiunto, «solo come
un cane legato al palo della solitudine.» Abbiamo riso.
«Non ci credo che sei solo.»
Non volevo dirle che mi vedevo con una ragazza di ventiquattro anni,
l’età che avevamo quando ci siamo lasciati. «E tu? Sono anni ormai che sei
sposata» le ho chiesto per cambiare discorso.
Mi ha guardato come se stesse cercando le parole per rispondere. «Sono
separata da più di un anno.»
Non me l’aspettavo. «Mi dispiace.»
D’istinto avrei voluto chiedergliene il motivo, temevo fosse una
domanda troppo personale. L’avevo fatta anche a Beatrice quando ci
eravamo conosciuti. Il motivo di una separazione dice molto sia della
coppia sia delle singole persone. Per Beatrice il motivo era che si erano
sposati subito, avrebbero dovuto viaggiare di più, divertirsi di più, invece si
erano fatti sedurre dalla fretta di avere una famiglia, dalle immagini
romantiche dei film in cui si dipinge insieme la stanza del bambino. Poi, era
arrivato Gabriele e crescerlo era stato più duro di quanto si fossero aspettati.
Forse era successo anche a Lucia. La curiosità era grande. «Come mai
non ha funzionato?»
Si è irrigidita, appoggiandosi allo schienale della sedia e sospirando. Non
capivo se stesse pensando o se volesse evitare la domanda.
«Faccio sempre fatica a rispondere, mi chiedo se esista davvero un
motivo per cui due persone si lasciano. A te è chiaro perché vi siete
lasciati?»
Non sapevo cosa dire.
«Quando ci si lascia si hanno un sacco di idee sulla separazione, col
tempo si riesce a vedere la situazione da prospettive diverse. Più uno scava
più capisce che dietro a certi comportamenti ci sono cause lontane,
lontanissime. E le responsabilità iniziano a distribuirsi in svariate
direzioni.»
Mi guardava, aspettava che dicessi qualcosa. Mi sono appoggiato al
tavolo con i gomiti per avvicinarmi, ho accennato un sorriso guardandola
negli occhi. «Mi ha lasciato perché mi ha visto dentro.»
È scoppiata a ridere. «Questa te la rubo.»
«Lo dice Hugh Grant a Julia Robert in Notting Hill.»
All’improvviso si è creato un silenzio diverso, come se nessuno dei due
avesse voglia di continuare a parlare delle nostre vite attuali. Siamo
scivolati nel mondo nostalgico del passato. Abbiamo ricordato la prima
volta che ero andato a cena a casa sua, con i genitori. Ero così teso che nello
stringere la mano alla madre ero inciampato nel tappeto ed ero caduto.
C’era mancato poco che trascinassi a terra anche lei.
«Ti ricordi» mi ha chiesto «che dopo cena siamo andati al cinema tutti
insieme?»
Come potevo dimenticare quella serata, era stata un rituale che mi aveva
fatto entrare nel mondo adulto. Almeno così mi ero sentito. Il padre di
Lucia a fine serata aveva detto a tutti che ero un ragazzo in gamba e che
nella vita avrei fatto strada. Non scorderò mai come mi ero sentito nel
ricevere la sua fiducia, non scorderò mai come mi aveva guardato Lucia.
Dopo quella sera pensavamo che non ci saremmo mai lasciati.
«È stato bellissimo» ho detto con un misto di felicità e malinconia.
«Praticamente perfetti.»
Siamo stati seduti per più di un’ora, poi l’ho accompagnata dove aveva
legato la bicicletta e quando ci siamo salutati le ho chiesto il numero di
telefono.
Mentre guidavo verso Milano la mia testa era piena di lei. Ripensavo alle
cose che ci eravamo detti. Fermo in autogrill, dopo aver fatto benzina, le ho
mandato un messaggio: “Sono stato felice di vederti. A presto. P.s.: sembro
diventato tuo padre”.
Dopo venti minuti, il suono di una notifica: “Anch’io felice. Il brizzolato
ti dona”.
Avrei voluto scriverle ancora, ma ho avuto paura fosse troppo.
Poi, ho preso di nuovo in mano il telefono: “Scrivimi quando hai finito
in palestra, passo a prenderti”.
12

Quella sera dovevo cenare con Matilde, aveva l’ultimo turno così sono
passato da Francesco in attesa che lei si liberasse.
Il locale era quasi vuoto, la situazione perfetta per chiacchierare. Quando
glielo dico mi manda sempre a quel paese: «Se paghi l’affitto resto seduto
con te volentieri».
C’era anche Ornella. Non siamo mai riusciti a capire quanti anni abbia,
lei dice di averne settanta e qualcosa, ma ha superato gli ottanta di sicuro.
Più o meno credo abbia l’età di mia madre, ma a differenza sua è autonoma,
e rispetto a me e Francesco è più lucida. Abita sopra l’enoteca, all’ultimo
piano, e da quando abbiamo stretto amicizia è diventata una cliente fissa.
Scende, si siede a un tavolo e ordina il suo drink, sempre vodka liscia. «Non
ingrassa e combatte il diabete.»
Vive sola, ha avuto molte storie d’amore e si è spostata tre volte. Di un
marito è rimasta vedova, dagli altri due si è separata. All’inizio, quando ci
raccontava della sua vita, pensavamo fosse una mitomane, poi una sera ci
ha portato un album di fotografie lasciandoci a bocca aperta.
«Prima che pensiate che sono solo una vecchia pazza.»
«Non lo pensiamo» ho risposto.
«Certo che lo avete pensato, non sono mica stupida.»
Si capisce da come si muove che è stata una donna meravigliosa,
guardando le foto ne abbiamo avuto la conferma. Una ragazza dalla
bellezza sorprendente, circondata da uomini eleganti e famosi. C’erano foto
di lei con Fellini, Mastroianni, Celentano, Mina, Dino Risi, Walter Chiari.
Aveva fatto anche qualche particina in film dell’epoca.
Delle attrici ha la capacità di saper accostare in modo naturale il gesto
delle mani alla parola. Quando è in vena e ci racconta di quelle serate,
rimaniamo in rispettoso silenzio. Ornella è senza dubbio un Bolgheri:
intensa, corposa, dai profumi inebrianti, che conquista tutti. Ci siamo
innamorati subito di lei. Spesso la chiamiamo, perché non ha voglia di
scendere. Quando si convince, passa almeno mezz’ora prima che compaia
sulla porta perché non esce mai di casa fuori posto, vestita male, spettinata
o sciatta. Fuma sigarette sottili e per farlo si infila un guanto, detesta che le
resti l’odore sulle dita. È una delle donne più vanitose che abbia mai
conosciuto, lei lo sa, ci scherziamo spesso.
Dice quello che pensa, e non sono sicuro che sia una caratteristica
acquisita con l’età, credo fosse così anche da giovane.
Se sei vestito male te lo dice, se sei ingrassato te lo dice, se fai un
commento stupido te lo dice.
Quando l’ho conosciuta non ha avuto nessun problema a farmi sapere
che secondo lei ero più intelligente di quanto sembrassi. Non ho mai capito
se fosse un complimento o un’offesa.
Una sera, parlando dell’ennesima discussione che avevo avuto con
Beatrice, mi ha consigliato di non concentrarmi sempre e solo su come
fosse lei o come fossi io, ma di chiedermi come vedessi il mondo stando in
quella relazione.
«Cosa intendi?» Non capivo il senso della domanda.
«Le persone con cui stiamo sono come finestre. Conta molto come
vediamo il mondo, la vita, noi stessi attraverso l’altro.»
Amavo parlare con lei, aveva sempre un punto di vista originale e
diverso.
Una volta le ho chiesto se non l’avessero mai giudicata male, per i
matrimoni, i divorzi, gli amanti.
«Certo che sono stata giudicata. Più dalle altre donne che dagli uomini.
Gli uomini mi hanno capita. Ho scelto sempre di essere una donna libera
perché come diceva Simone De Beauvoir: “Una donna libera è l’esatto
contrario di una donna leggera”.»
Ornella era impareggiabile, non avevo mai conosciuto nessuna come lei.
«Sono stata tante donne, e sai perché? Perché sono sempre stata me
stessa, e solo chi è se stesso non è mai uguale.»
Per provocarla un po’ le ho chiesto: «Quindi ogni uomo con cui sei stata
direbbe di te cose diverse?».
«Certamente, non conosci la frase “una donna può indossare molti
cappelli”? Può decidere di essere spudorata con un uomo e riservata con un
altro. Andare a letto subito la prima sera con uno e far attendere un altro per
mesi. Un uomo appena conosciuto è più di tutto un’occasione per essere
una donna diversa.» Poi ha aggiunto: «Posso essere una discesa o una salita,
dipende da che parte mi prendi». Ed è scoppiata a ridere. Poi, ha aggiunto
ancora: «Ma c’è una cosa che tutti possono dire di me».
«Quale?»
«Che sono indimenticabile.»
Si faceva i complimenti con ironia, però si capiva che lo pensava
davvero. Perché lei scherzava della sua vanità, e allo stesso tempo la amava.
Un giorno mi ha detto: «Tu, Luca, sei come me, schiavo di un desiderio
istintivo di piacere. Noi entriamo in una stanza e vorremmo che tutti subito
ci amassero».
Ho pensato molto a queste sue parole, forse è vero, vorrei sempre piacere
a tutti, soprattutto a quelli a cui non piaccio.
Sono pieno di frasi di Ornella, mi capita spesso di riusarle come fossero
mie. Ha la capacità di capire le persone e le situazioni con una velocità
sorprendente: «Mi ricordi il mio primo marito, avete un estremo bisogno di
amore e approvazione, e poi, quando lo avete ottenuto, di quella persona
non vi importa più nulla».
Parlando di Francesco diceva di averlo amato nell’istante in cui le aveva
raccontato il motivo per cui aveva aperto l’enoteca: «Se vuoi conoscere una
persona le devi chiedere qual è il suo desiderio. E non importa se riesce a
realizzarlo, perché quello che dice tutto di una persona non è ciò che ha
ottenuto nella vita, ma ciò che desidera essere. La grandezza del vivere sta
in ciò che desideriamo».
Quella sera, appena sono entrato mi sono seduto subito con lei. Stava
fissando la borsetta di una ragazza seduta al bancone.
«Ti piace?»
«Molto, anche se è la brutta copia di una borsa degli anni Settanta.»
«Non so nulla di borse da donna, è un mondo che non conosco.»
«Una borsa dice molto della donna che la porta, ma non lo dice a un
uomo, lo dice a un’altra donna» mi ha risposto.
L’ho guardata con espressione interrogativa.
«Le borse sono un linguaggio tra donne che voi uomini non conoscete. È
una cosa tra di noi. Se una donna vuole dire qualcosa a un uomo glielo dice
con le scarpe.» Mentre cercavo di capire cosa intendesse esattamente, mi è
squillato il telefono, era Matilde: «Sei tornato?».
«Sono da Francesco.»
«Com’è andata? È stato triste?»
Ci ho messo un attimo a capire a cosa si riferisse, l’incontro con Lucia
mi aveva fatto scordare il motivo per cui ero andato a Parma. «Molto
triste.»
«Mi spiace, amore. Volevo solo avvisarti che finisco prima, se vuoi ti
raggiungo lì, tanto ho il motorino. Oggi hai guidato abbastanza.»
La premura di Matilde non smetteva mai di stupirmi.
«Non serve. Vengo io.»
C’è stato un piccolo silenzio. «Va bene, come preferisci.»
Ho salutato Ornella e Francesco dicendo che stavo raggiungendo
Matilde per cena.
«Non poteva venire lei qui?» ha chiesto Ornella. «Anche se è giovane
non la mangiamo mica.»
Ho riso e sono uscito.
Matilde mi aspettava sul marciapiede, fuori dalla palestra. Sembrava
infastidita, forse era successo qualcosa al lavoro ed era il motivo dell’uscita
anticipata.
«Tutto bene?»
«Sono stanca e ho una fame che mi sento svenire.»
«Cosa vuoi mangiare?»
«Qualsiasi cosa, tranne sushi.»
Siamo andati ai Navigli, in una trattoria che non frequentavo da anni.
Abbiamo parlato del funerale, ho omesso di aver visto Lucia. Non ci
sarebbe stato nulla di male a dirle che avevo incontrato una mia ex, ma
qualcosa mi ha impedito di farlo. Lei era un po’ fredda, come se avesse
avvertito qualcosa, o forse era una mia sensazione. Mi è tornato in mente
che “chi ha la coda di paglia vede accendini nelle mani di tutti”. Ho sorriso
tra me e me. Lei continuava ad avere un’espressione storta.
«C’è qualcosa che non va?»
«No.»
«È per stasera? Non ti va che dorma da te?»
«Certo che mi va.»
Ero stato costretto a chiederle di stare da lei per colpa di mia madre. Un
paio di settimane prima mi aveva chiamato mentre stavo con un cliente.
Mia madre ha un talento speciale per indovinare i momenti sbagliati. Mi
chiama quando sono sotto la doccia, quando sto con i sacchetti della spesa
in mano, mentre l’urologo mi controlla la prostata, mentre sto registrando
un vocale, obbligandomi a rifarlo da capo. Perché lei non molla fino a
quando non entra la segreteria, resta lì fino all’ultimo squillo e io sento il
fastidio salirmi dai talloni fino al collo.
Quel giorno, alla quarta chiamata a vuoto mi sono preoccupato, forse le
era successo qualcosa: «Tutto a posto?».
«Per fortuna sì, perché se fosse per te sarei già morta.»
Ho resistito all’impulso di trovare una scusa per riagganciare subito.
«Dimmi.»
«Guarda che viene da te a Milano Franco, e si ferma due o tre giorni,
adesso non mi ricordo bene quanto.» Chi cazzo è Franco, ho subito pensato.
«Ma chi? Non so chi sia.»
«Il figlio di una mia cugina. Lo hai visto una volta quando era piccolo.
Adesso è un bel ragazzotto di diciannove anni e deve venire a Milano per
un corso di qualcosa. La sua mamma mi ha chiesto di chiederti un consiglio
per qualche albergo o pensione, io le ho detto che poteva stare da te. Sono
brave persone e non lo dico perché è mia cugina.»
Mi è andato il sangue alla testa. «Scusa, non ho nemmeno la stanza per
gli ospiti. Mi si piazza sul divano e non lo conosco neanche. Ma poi, perché
inviti gente a casa mia senza chiedermi niente?»
Mi ha interrotto subito: «È il figlio di mia cugina. Per qualche giorno
puoi anche fare un sacrificio, se sapessi quanti ne ho fatti io per te quando
eri piccolo».
Per lei non sono mai diventato un adulto con una vita privata. Dispone di
me, sceglie per me, parla a nome mio come se andassi ancora alle
elementari. E non perde occasione per farmi sentire sbagliato, e in debito.
13

Quella notte, da lei, non abbiamo fatto l’amore. Ero certo che Matilde
avesse qualcosa, avevo anche capito che non le andava di parlarne.
Nemmeno io ero dell’umore giusto. Era stata una giornata intensa, avrei
preferito tornare a casa mia e avere a che fare con Franco, ma ormai ero
incastrato da lei. La sentivo respirare in silenzio dall’altra parte del letto,
cercava di muoversi il meno possibile per non svegliarmi, senza sapere che
anch’io non dormivo e facevo lo stesso. Quell’immobilità mi dava un
vantaggio, potevo pensare liberamente a Lucia, aggirarmi nei ricordi della
nostra relazione.
Nei fine settimana, quando la sua coinquilina non c’era, la raggiungevo a
Venezia, entravo nel palazzo e salivo i gradini due alla volta, con passo
veloce. Lei mi aspettava quasi sempre sul pianerottolo, appoggiata alla
ringhiera. Ci parlavamo a distanza, mentre salivo, e una volta al piano
abbandonavo a terra il borsone e lei mi saltava in braccio. Ci baciavamo in
modo vorace. La portavo dentro chiudendo la porta con un piede. Il borsone
restava fuori, dimenticato per ore.
Andavamo a letto o sul divano, oppure capitava di fare l’amore lì, nel
corridoio, appena dietro la porta d’ingresso. Ricordo ancora la fame, la
passione, come se il mondo sparisse e noi fossimo in un’altra dimensione.
Era un’età meravigliosa, tutto era nuovo, una scoperta e quindi
un’avventura. Si imparava a cucinare, a fare la spesa, la lavatrice, a pulire
casa. Si aveva la sensazione che la vita iniziasse in quel momento. Dopo
essere stati figli, per anni, finalmente potevamo essere i capitani della nostra
nave.
Le serate nella sua casa in affitto sembravano essere le prove per il
futuro insieme. Amavo starmene seduto sul divano e vederla girare in
mutande, con una mia camicia aperta e i calzettoni di lana. Il fatto di poterla
baciare, toccare, annusare mi sembrava il più grande privilegio e la più
grande fortuna del mondo.
E poi, lei era sexy senza saperlo. Non aveva bisogno di autoreggenti,
guêpière, reggiseni in pizzo. La trovavo irresistibile con le mutandine
normali, al massimo delle culotte.
Trovavo sexy anche il fatto che a Parma usasse sempre la bicicletta.
Quante volte arrivavo a un appuntamento e la trovavo mentre la legava a un
palo.
Ricordo una sera particolare, a Venezia, a casa sua. Era estate, lei era ai
fornelli e indossava solo le mutande. Mentre la guardavo ho pensato che
l’amavo tanto da volerla sposare subito, in quel momento, e lei, come se
avesse sentito il mio pensiero, si è voltata. «Che c’è?» mi ha chiesto
dolcemente.
Ero commosso da tutto l’amore che sentivo. Lei si è avvicinata. «Che
hai?» L’ho fatta sedere sulle mie gambe, poi l’ho abbracciata. L’ho guardata
negli occhi. «Ti amo. Ti amo e basta», e l’ho baciata.
Credo di aver provato il sentimento più intenso e puro della mia vita.
Con lei era tutto mescolato, l’erotismo, l’affetto, la passione, il
romanticismo. Una sera ha improvvisato uno spogliarello sulle note di
Fever. Avanzava verso di me facendo schioccare le dita e lanciando le
gambe in avanti. All’inizio ridevamo entrambi, poi quando è stata nuda mi
sono alzato, ho appoggiato la fronte sulla sua e l’ho spinta contro il muro, la
sua mano aggrappata allo stipite della porta, mentre la mia le teneva
sollevato un ginocchio.
Dentro il tempo limitato dei nostri fine settimana, ci sentivamo illimitati
e infiniti.
Nel rivederla durante il funerale e dopo, tutti i ricordi di lei sono
riaffiorati vivi, chiari e nitidi.
Nei giorni a seguire, Lucia abitava i miei pensieri per la maggior parte
del tempo. L’incontro con lei mi dava la sensazione di aver ritrovato
qualcosa di prezioso. Forse ha ragione chi dice che anche il cuore ha una
memoria, probabilmente il mio ricordava tutto di noi.
Quello che provavo non mi faceva sentire in colpa verso Matilde, Lucia
era più adatta alla mia vita, avevamo più cose in comune, oltre a un passato
che ci legava.
E comunque sarebbe stato inutile parlarne con Matilde, in fondo erano
solo ricordi, sensazioni, e forse non sarebbero mai diventati altro.
Il fatto però di averla incontrata ora che si era separata mi faceva pensare
che non fosse una coincidenza, ma il disegno di una forza più grande.
14

«Ero pazza di te» mi ha detto mentre cenavamo.


Le avevo scritto che dovevo portare mia madre dal medico per dei
controlli, e che mi sarei potuto fermare, anche per cena, se lei avesse voluto.
Aveva accettato.
«Non credo di essere mai stata così innamorata di un uomo in vita mia.
Sarà che uscivo da una storia disastrosa. I primi tempi non mi sembrava
possibile potesse esistere uno come te. Eri così dolce, attento, premuroso.»
Poi ha chiuso gli occhi come se stesse frugando nella memoria. «Ti
applichi, ti ingegni, inventi cose. Ti ricordi i Beach Boys?»
Lucia amava l’estate, il mare, l’atmosfera da chiringuito sulla spiaggia.
Un giorno mi aveva confidato che le era piaciuto molto fare l’amore con me
con il sale sulla pelle dopo essere stati al mare. Un sabato di dicembre, a
Venezia, mentre lei era a lezione in università ho alzato al massimo il
riscaldamento e le ho aperto la porta in costume da bagno con una caraffa di
margarita in mano, i Beach Boys nello stereo e la vasca da bagno piena di
acqua salata. Poi abbiamo fatto l’amore.
«Mi divertivo con te, eri fantasioso e anche super romantico.»
Ha aspettato qualche secondo prima di aggiungere: «Era anche il tuo
limite».
L’ho guardata. «Non avevo mai pensato che essere romantici potesse
essere un limite.» Mi aveva spiazzato.
«Sei un fuoriclasse nella prefazione, negli inizi, ma poi le tue attenzioni
sfumano, e piano piano vengono a mancare. E allora cambi perché hai
bisogno di stimoli nuovi, di nuove conquiste.»
«Non è vero» mi sono difeso, «quando stavo con Beatrice non l’ho mai
tradita e non l’avrei mai lasciata.»
Non sembrava convinta. Nemmeno io. A pensarci bene, anche nella
relazione con Beatrice dopo i primi tempi mi ero spento. L’amavo, ma non
avevo più gli stessi slanci, gli stessi gesti spontanei dell’inizio.
A salvarmi dalla conversazione è arrivato lo squillo del telefono. Ho
temuto fosse Matilde, era mia madre. Di solito, se deve andare dal medico,
la porta un vicino di casa, quando mi ero offerto di accompagnarla aveva
subito annusato qualcosa: «Prima eri sempre occupato, com’è che adesso
sei qui ogni due giorni? Avrai trovato qualcosa che ti interessa più della tua
mamma. Dovrò morire per farti venire qui per me». Aveva ragione, anche
se è anziana è la più sveglia del pianeta.
«Mamma, dimmi.»
«Volevo sapere se eri già tornato a Milano.»
«Sto cenando.»
«Dove?»
«A Parma.»
Ha ridacchiato. «Io vado a dormire, ci sentiamo domani, se Dio mi
concede un altro giorno.»
Quando ho infilato il telefono in tasca, Lucia sorrideva. «Tua madre
sembra sempre uguale.»
Ho sollevato il bicchiere per un brindisi. «A mia madre che non cambia
di una virgola.»
Abbiamo riso. Mentre appoggiava il bicchiere sul tavolo mi ha chiesto, a
bruciapelo: «Poi, quel libro, lo hai più scritto?».
Non pensavo nemmeno se lo ricordasse. Ho risposto imbarazzato: «Ho
scoperto di non esserne capace».
«Molti diventano scrittori in tarda età» ha insistito.
«Sono già in tarda età» ho detto ridendo.
Mi ha sorriso, piena di dolcezza. «Chi può dirlo, Luca? Magari ti
sbagli.»
È sempre stata così, Lucia ha sempre parlato all’uomo che non pensavo
di essere. Mi attribuiva qualità e capacità che sapevo di non avere, ma che a
un certo punto ho iniziato a desiderare. Ho desiderato essere la persona che
vedeva in me, e non ne sono stato capace.
«L’altro giorno ho capito cosa mi è mancato di te» le ho detto.
Mi ha guardato. «Non sapevo ti fosse mancato qualcosa di me.»
«Sentirti pronunciare il mio nome.»
Il cameriere ci ha chiesto se desideravamo altro, avevo già pagato con la
scusa di andare in bagno, mi imbarazzava il teatrino che a volte si inscena
davanti al conto.
«Ti va un gelato?» mi ha chiesto una volta fuori.
Ci siamo incamminati a piedi, la bellezza delle piccole città sono le
piccole distanze.
«Ti ricordi il nostro primo incontro? È stato odio a prima vista» ha detto
mentre passeggiavamo.
«Facevo lo sbruffone. In realtà era timidezza.»
Ha sorriso.
«Però alla fine ha funzionato.»
«Sai cosa ha funzionato?»
Mi sono girato per guardarla, ero davvero curioso di sapere che cosa le
aveva fatto cambiare idea su di me.
«Prima il gelato.»
Senza che me ne rendessi conto eravamo arrivati.
«Siediti qui» le ho detto di fronte a una panchina. «Vado io. Che gusti
vuoi?»
«Solito» mi ha risposto con un sorriso malizioso.
Voleva mettermi alla prova. Sono tornato con due coni, per lei pistacchio
e nocciola. Quando ha visto i gusti, ha sorriso compiaciuta.
«Allora?»
Lucia ha assaggiato il gelato, prendeva tempo, giocava a tenermi sulle
spine.
«Ti ricordi la sera che mi hai portato fino a Venezia con l’auto di tua
madre?»
Ho annuito.
«Dovevamo attraversare la strada davanti alla stazione per arrivare al
parcheggio, stavano arrivando delle macchine veloci e tu mi hai preso la
mano. È lì che mi hai fregato.»
Sono rimasto immobile con il cono in mano, non capivo.
Ha riso della mia espressione. «Sembra una cavolata ma quel piccolo
gesto mi ha legato a te. Lì sei venuto fuori tu, chi eri davvero.»
C’è stato un silenzio, mi ero sentito completamente nudo. Aveva ancora
la capacità di vedermi dentro e la cosa mi creava imbarazzo.
«Al di là di come sia andata tra noi» si è alzata per buttare il tovagliolo
di carta nel cestino, «sei stato una delle persone più importanti della mia
vita. Negli anni in cui ero piena di insicurezze hai sempre creduto in me, da
subito. E questo mi ha aiutata molto.»
Per me Lucia era la più in gamba di tutte le persone che conoscessi.
Ci siamo incamminati verso casa sua, dove avevo lasciato l’auto.
Passeggiavamo in silenzio, non il silenzio di chi non sa più cosa dirsi, il
silenzio di chi sta riordinando nuove cose nella testa.
Quando siamo arrivati, le ho chiesto di aspettarmi. Dall’auto ho fatto
uscire un mazzo di tulipani che avevo comprato per lei. Con tanto di vaso.
«I tuoi preferiti.»
Ha riso. «Hai guidato da Milano con un vaso di fiori pieno d’acqua sul
sedile del passeggero?»
Avevo riempito il vaso con l’acqua della borraccia una volta arrivato a
Parma, ma non gliel’ho detto. «Avevo paura patissero mentre eravamo a
cena.»
Lucia scuoteva la testa e sorrideva.
Davanti al portone di casa le ho dato un abbraccio accennato.
«Grazie per la serata, e per i fiori.»
L’ho guardata, ho provato un fortissimo desiderio di baciarla. Senza
nemmeno pensarci mi è uscito: «Vieni a Parigi il prossimo weekend.
Passiamo del tempo insieme, torniamo a essere i due che siamo stati».
Ha alzato gli occhi su di me. «Quei due non esistono più.»
«Possiamo vedere cosa è rimasto di quei due.»
Aveva un sorriso piccolo e pieno di dolcezza. «Sai cosa penso del libro
che non hai scritto?» mi ha detto eludendo la mia domanda. «Che se lo
avessi scritto allora non sarebbe così bello come se lo scrivessi ora, ora che
sei diventato un uomo meraviglioso.» Ha aspettato un momento prima di
aggiungere: «Luca, questo è il luogo, questo è il momento».
Anch’io lo sentivo, e non soltanto rispetto al mio sogno incompiuto, al
libro che non avevo portato a termine, lo sentivo più di ogni altra cosa
rispetto a noi due. «Vieni a Parigi.»
È rimasta ferma, senza distogliere lo sguardo dal mio. «Magari un’altra
volta.»
15

«Quando sono con lei, mi sento un altro» ho detto a Ornella.


«È bellissimo. Ti senti un’altra persona e ti piaci di più. Praticamente ti
innamori di te stesso», ed è scoppiata a ridere.
Mi aveva chiesto se quel sabato potevo dedicarle qualche ora, in tarda
mattinata. Ci saremmo fatti fare un massaggio, offerto da lei, e poi l’avrei
accompagnata dal parrucchiere, dove, sempre secondo lei, avrei dovuto
farmi dare una sistemata ai capelli e alla barba.
«Non voglio tagliarli, vado bene così.»
«Non ho detto tagliare, ho detto sistemare, pulire il disordine. Devi
essere più curato.»
La verità era che non le andava di fare quelle cose da sola. Alla fine mi
faceva piacere, anche per il massaggio, mi ripromettevo sempre di prendere
appuntamento, poi non lo facevo mai. «Io vado una volta a settimana, il
corpo ne giova» diceva lei. Ornella, a differenza mia, sa vivere.
In auto, diretti al centro benessere, le avevo parlato di Lucia. «Non mi
sono mai sentito così bene con una donna, nemmeno quando stavo con lei
anni fa. È una versione di noi ancora più intensa.»
«Cosa sai della sua separazione?»
Quindi anche Ornella la pensava come me sull’importanza delle ragioni
che portano a una separazione. «Dice che non l’ha capita bene.»
«Allora è una donna intelligente. Lì c’è un parcheggio», e mi ha indicato
uno spazio vuoto proprio davanti all’ingresso del centro benessere.
«Siamo fortunati» ho detto.
Ornella ha fatto una risata sagace. «Non è fortuna, mio caro. È che il
mondo si sposta davanti a una donna che sa dove andare.»
Quando mi sono avvicinato mi sono accorto che era un parcheggio
riservato ai disabili. «Non possiamo.»
Mi ha mostrato un permesso. «Certo che possiamo.»
«E questo da dove viene?»
«Dalla protesi alle mie anche.»
A me sembrava che camminasse alla grande, ma ho lasciato perdere.
Prima di entrare ha insistito per sederci in un bar lì vicino. «Voglio
fumarmi una sigaretta perché staremo là dentro un paio d’ore.»
Si è infilata il guanto e se n’è accesa una. È molto elegante il modo in
cui tiene la sigaretta tra le dita, come aspira, come resta in attesa tra un tiro
e l’altro.
Abbiamo ordinato due caffè. «Non è più buona dopo il caffè?»
«Certo, infatti dopo me ne fumo un’altra.»
Mentre aspettavamo, parlavo di nuovo di Lucia. Portava a galla una
memoria di me, con lei tornavo a essere una persona che pensavo non
esistesse più.
Ornella mi ascoltava con attenzione, ha soffiato il fumo nell’aria. «Poche
cose sono potenti come quando ti senti così. Quando parli di cose intime a
una persona e comprendi dal suo sguardo che ti conosce.»
«Non ho capito perché non vuole venire a Parigi.»
«Magari ha cose sue da fare, non significa nulla.»
«Proprio non capisco quello che volete voi donne.»
Mi ha guardato e, tra un tiro e l’altro, ha spostato la testa all’indietro per
evitare che il fumo le andasse negli occhi. «Io lo so benissimo, solo che è
un’informazione troppo preziosa per metterla nelle mani di un uomo.»
Poi ha riso da sola.
«Pagherei oro per saperlo.»
«Anche se te lo dicessi non capiresti.»
Invece di confessarmi il grande segreto ha attaccato a parlarmi dei suoi
uomini: «Quello che ho amato di più in vita mia non è tra quelli che ho
sposato».
«Era un attore famoso? Un regista? Un cantante?»
«No. Con loro ho vissuto esperienze indimenticabili, viaggi, hotel di
lusso, vacanze da sogno. Ma sai, gli artisti sono affascinanti per il pubblico,
poi nel privato tirano fuori tutte le loro fragilità, le debolezze, gli
egocentrismi. Delle lagne. Ci vuole un secondo per fargli credere di essere
liberi mentre in realtà li tieni al guinzaglio. Così vanitosi che basta un
complimento fatto bene e sono al tuo servizio.»
Faceva delle espressioni incredibili, sarei rimasto a sentirla per ore. «E
questo uomo che ti ha fatto innamorare che faceva?»
«Pubblicitario.»
Ho sempre pensato che fosse un mestiere recente, era ovvio che mi
sbagliavo.
«Era un uomo sicuro, un uomo che mi fregava con la stessa tecnica che
usava per il lavoro. Vendeva un mondo meraviglioso fatto di promesse che
non si realizzavano mai, ma riusciva a farmici credere. Aveva capito i miei
desideri e con quelli costruiva la mia gabbia.»
«Per questo è stato l’uomo che hai amato di più?»
«È stato l’uomo che ho amato di più perché lui aveva quello che le
donne desiderano.»
In quel momento sono arrivati i caffè.
«Zucchero normale o di canna?» ha chiesto il cameriere.
«Normale, grazie» ha risposto lei.
«Niente zucchero per me.»
Ornella faceva sfarfallare la bustina tra le dita. «Non ho mai capito da
dove venga quella sorta di vanto che si avverte nelle persone come te,
quando dicono che non mettono lo zucchero nel caffè. Lo dite come se
fosse una qualità umana, una capacità che appartiene a una categoria
superiore, più evoluta.»
Ho riso, aveva ragione, in fondo provavo un orgoglio stupido nel bere il
caffè amaro e lei lo aveva notato, notava tutte le sottigliezze.
«Se mi dici cosa desiderano le donne ti prometto che smetterò di
vantarmi.»
Con gli occhi sulla tazzina, mentre mescolava il caffè, ha detto: «È un
modo di essere guardate. Questo è quello che una donna desidera più di
tutto. Un modo che ti fa desiderare di essere te stessa e nessun’altra. Che ti
fa sentire immortale».
Mi ero immaginato mille cose possibili ma nulla che avesse a che vedere
con lo sguardo. «Trovi che sia davvero così importante come un uomo
guarda una donna?»
«È tutto. Non solo con le donne, nella vita in genere. Perché come
guardiamo dice ciò che siamo. Ci sono uomini che ti guardano e senti che
lui ha già capito tutto di te. Ti ha vista. È uno sguardo che ti inchioda perché
nei suoi occhi c’è la donna che sei.»
Dopo il caffè si è accesa la seconda sigaretta.
Non ero sicuro che quello fosse veramente il grande segreto, la cosa che
le donne desiderano. Sicuramente era la cosa che desiderava lei.
Davanti al portone, mentre aspettavamo che ci aprissero, le ho chiesto se
le fosse chiaro il motivo per cui si era separata dal marito.
«Quale dei tanti?» Senza aspettare la mia risposta, è sparita dentro il
portone.
Una delle ragazze della reception le è andata incontro con un abbraccio
affettuoso. «Questo giovanotto» ha detto lei «è Luca, un buon amico, e
siccome questa è una qualità rara non siamo mai andati a letto insieme, per
non rovinare il rapporto.» Tutti sono scoppiati a ridere.
Una ragazza mi ha dato un accappatoio e mi ha accompagnato allo
spogliatoio. «La aspetto qui fuori, faccia con comodo.»
Poi, mi ha fatto sedere su una poltrona e mi ha fatto immergere i piedi in
una vasca piena d’acqua. Ornella era seduta sulla poltrona accanto. «Prima
la pedicure, poi il massaggio. Ho chiesto una bella ragazza per te. Sei un
uomo e so che preferisci una bella a una brava.»
Mentre ci facevano il trattamento Ornella ha ripreso a raccontarmi dei
suoi uomini. Il primo marito si chiamava Gino ed era un produttore di
cinema. «Ai tempi vivevo a Roma. Lui mi ha insegnato tutto. Ero una
ragazzina di periferia che aveva solo la fortuna di essere bella.» Questo
Gino, di vent’anni più vecchio, è stato il suo pigmalione. «Mi ha inventata
lui, è stato l’uomo che mi ha trasformata nella donna che sono. Mi ha fatto
studiare e mi ha insegnato come stare al mondo.»
«È quello che ti ha lasciata vedova?»
«No, sono stata io a lasciarlo, perché mi viveva come una cosa sua e la
gelosia gli è sfuggita di mano. Ahia!» Ha ritirato un piede. «Piano!
Altrimenti svengo» ha detto alla ragazza, poi si è voltata verso di me. «Ho
certi duroni sul lato esterno dell’alluce che non ti dico. Li sento vivi, come
se avessero un cervello.» Con lei era impossibile non divertirsi.
«Non deve essere stato facile lasciarlo, se era così geloso.»
«Mi ha fatto una guerra incredibile. Per questo me ne sono venuta a
Milano, per scappare da lui. Mi ripeteva sempre che come mi aveva messa
al mondo così mi ci avrebbe tolto, ma ironia della sorta alla fine è lui che è
stato tolto dalla circolazione.»
«In che senso?»
«Un infarto. Pace all’anima sua, non ho mai smesso un solo giorno di
amarlo.»
«Con gli altri due mariti come è finita?»
«Uno è morto, lo sai, l’altro mi ha lasciata.»
«Hai sofferto?»
«Mi ha fatto il regalo più bella della vita. Siamo rimasti amici, anche con
la sua nuova moglie. C’erano molte buone ragioni per lasciarci, ma la prima
era la noia. Mi annoiavo da morire con lui. Alla fine si è innamorato di
un’altra e mi ha tolto il problema.»
«E adesso?» le ho chiesto.
Senza voltarsi, mi ha risposto che a un certo punto della sua vita aveva
scelto di avere solo amicizie speciali, persone con cui condivide cene,
viaggi, weekend e attimi di intimità, ma nessuna storia d’amore, nessuna
esclusiva, e soprattutto ognuno a casa propria, nessuna convivenza. «Sai
perché?» Mi ha guardato. «Perché in amore prima o poi uno dei due vuole
vincere o aver ragione, mentre in amicizia questo non accade mai.»
Siamo rimasti in silenzio qualche minuto, poi la pedicure è finita e siamo
passati al massaggio.
La mia operatrice era bella, proprio come aveva detto Ornella. A lei era
capitato un ragazzo, sembrava di origini arabe. Prima di sparire nelle
reciproche stanze, Ornella mi ha chiesto: «Sai quando capisco che una
storia per me è finita? Quando non chiudo più gli occhi mentre bacio.
Goditi il massaggio, ci vediamo dopo».
Con la faccia dentro il buco del lettino, ripensavo alle cose che mi aveva
detto e sorridevo.
Quando sono uscito, lei era in corridoio con il massaggiatore. Anche se
non c’era molta luce, ho visto che dalla tasca dell’accappatoio ha preso
cinquanta euro e glieli ha dati.
In auto, diretti verso il parrucchiere, non ho resistito: «Mi è sembrata una
mancia molto alta».
«Dipende da quello che fa, se glielo chiedo.»
«In che senso?»
Mi ha guardato e ha sorriso. Non sapevo se avevo inteso bene, ho
preferito non indagare.
16

Erano le sei di sera, aveva soffiato un vento forte per tutto il giorno. Quando
c’è una giornata così, l’aria di Parigi si pulisce e pizzica le narici. Le luci
dei lampioni, dei semafori, dei fanali delle auto brillavano nel buio.
Camminavo verso casa con le buste della spesa. Avevo pensato a Lucia
tutto il giorno. Ero sempre più convinto che un weekend a Parigi sarebbe
stato perfetto, ci saremmo divertiti ricordando i vecchi tempi e magari
poteva rinascere qualcosa. A voler guardare bene la cosa, lei aveva sempre
risposto ai miei messaggi senza mai prendere l’iniziativa, quindi si poteva
dire che era stata più educata che interessata.
Ornella mi aveva detto che se ero convinto che lei fosse la mia occasione
di felicità avrei dovuto insistere: «Ritenta».
Al supermercato mi ero deciso a chiamarla appena fossi rientrato a casa.
Arrivato a place Dauphine sono stato catturato dalla bellezza di quel
momento. Mi capita spesso ultimamente, non so se sia l’età. Un signore
giocava col suo cane, due adolescenti si tenevano per mano, un uomo
svuotava i cestini e spazzava a terra. Tutto era avvolto dalla luce gialla dei
lampioni, che regalava un senso di magia e sospensione alla scena. Mi è
sembrato il posto giusto per chiamare Lucia. Mi sono seduto su una
panchina, le ho scritto: “Possiamo sentirci?”.
Sono rimasto lì ad aspettare la sua risposta.
Dopo un minuto è squillato il telefono. Era lei.
«Non mi aspettavo che chiamassi tu.»
«Ho pensato fosse più veloce così. Come stai? Sei già a Parigi?»
«Sono arrivato ieri sera. Sto bene, sono andato a fare la spesa. Vuoi
sapere cosa sto vedendo in questo momento?» Le ho descritto tutto nei
minimi dettagli, il colore delle case, le luci delle finestre e la scena davanti
a me.
«Mi sembra di essere lì.»
Ho sorriso. «Questa mattina mentre mi facevo la barba ho capito una
cosa.» Lei aspettava che continuassi. «Ho capito che in questi anni mi sei
mancata. Non nel senso che ti pensavo ma che sei mancata come persona,
nella mia vita. Sai quante cazzate in meno avrei fatto?»
Lucia si è messa a ridere. «È per questo che volevi sentirmi?»
«Il motivo è un altro» ho detto. «Domani mattina troverai un’auto sotto
casa con un biglietto aereo a nome tuo e la prenotazione in un hotel qui nel
Marais, vicino a casa mia. Le stanze sono silenziose, il letto comodo, e
servono ottime colazioni. All’aeroporto di Parigi ci sarà un’altra auto che ti
accompagnerà in albergo.»
«Tu sei pazzo.»
Stava per proseguire, non le ho lasciato il tempo. «Non devi rispondere
ora, non voglio sapere se salirai su quell’auto. Domani sera ti aspetterò in
hotel, andiamo a cena e prima a bere qualcosa. Non scrivermi cosa
deciderai di fare.»
«È tutto?»
«È tutto.» L’ho salutata. Dopo un paio d’ore le ho mandato un ultimo
messaggio: “Vorrei solo tornare al punto dove ci siamo fermati”.
17

Venerdì mattina mi sono svegliato presto, avevo diverse cose da fare e


volevo sbrigarle tutte entro il primo pomeriggio. L’appuntamento senza
risposta mi dava una certa adrenalina.
Prima di colazione mi sono allenato, addominali, qualche flessione sulle
braccia e una doccia. Appena finito, il mio fisico è pieno, sodo, soprattutto i
pettorali, dopo mezz’ora si sgonfia tutto. Mi sono fatto la barba con
maggiore cura, pelo e contropelo, e anche il lavaggio dei denti è durato più
del solito.
Ho cercato di non pensare troppo a Lucia, mi sono concentrato sui
potenziali clienti che avrei dovuto incontrare. Le mie previsioni
sull’appuntamento oscillavano tra la certezza che non venisse e la
tranquillità che non potesse rifiutare un invito del genere.
Ho approfittato della pausa pranzo per prendere un mazzo di fiori da
mettere sul tavolo e comprare qualcosa in caso fosse salita a vedere il mio
appartamento, formaggi, marmellate, salumi, frutta.
Quando ero arrivato a Venezia per il nostro primo vero incontro, ero
tesissimo. Lucia al contrario sembrava a suo agio e la cosa mi agitava
ancora di più.
In seguito mi aveva confessato che aveva passato la giornata in preda
alle insicurezze: «Solo per decidere cosa cucinare mi ci sono voluti giorni».
Il suo frigorifero era strapieno, come il mio a Parigi, quella spesa era
figlia di insicurezze.
Ricordo tutto di quel giorno a Venezia, anche com’era vestita. Indossava
dei jeans e un maglioncino grigio chiaro con scollo a v, direttamente sulla
pelle. Il maglione le faceva risaltare il seno. Ho sempre pensato che fosse il
seno più bello del mondo. Quando si è avvicinata le mie narici si sono
riempite del suo profumo, ho desiderato baciare tutto di lei. In casa si
sentivano i Commodores, mi ha versato del vino e abbiamo fatto risuonare i
calici, non abbiamo mai smesso di guardarci. In quel momento dalla cassa
usciva Easy, ogni volta che la sento ripenso a noi due in quel momento.
L’ho desiderata come allora. Mentre sistemavo i fiori nel vaso l’ho
immaginata in aeroporto, pronta a partire. «Se ci credi si avvera» mi diceva
sempre mia nonna quand’ero piccolo.
Mancava poco all’appuntamento e non avevo ancora deciso se
presentarmi con qualcosa di casual o di elegante, alla fine ho optato per un
pantalone blu scuro, una camicia leggera e il cappotto. Sapevo già che avrei
avuto freddo ma mi era sembrata la combinazione giusta. Prima di uscire mi
sono spruzzato del profumo e ho guardato l’appartamento per l’ultima
volta, sembrava tutto in ordine, pulito e curato.
Magari non veniamo nemmeno qui, ho pensato.
Mi sono chiesto cosa mi aspettassi da quel weekend, la risposta è stata:
scoprire se esiste ancora una possibilità di stare bene insieme. E se non
fosse venuta? Sarei tornato a casa, mi sarei buttato sul divano e mi sarei
visto un film. Avevo cibo per una settimana.
Ho camminato con passo spedito fino all’hotel, davanti all’ingresso ho
aspettato prima di entrare. Ero eccitato, sentivo le emozioni che ho sempre
cercato nella vita, il brivido che si prova quando si compie un’azione folle o
un atto di coraggio o un gesto poetico.
Mi sono guardato nel riflesso della vetrata accanto alla porta e sono
entrato.
La hall non era molto grande, c’era una stanza oltre la reception dove si
trovava il bar. L’ho cercata lì. Non c’era. Forse era in camera e aspettava
che la facessi chiamare.
Quando ho chiesto di lei al concierge, mi ha risposto che a nome della
signora non era stato fatto nessun check-in. Tutto il fantasticare su di me e
lei a Parigi era svanito in una frazione di secondo. Dalla delusione che ho
provato mi sono accorto che una parte di me era convinta che sarebbe
venuta.
Sono uscito a prendere una boccata d’aria, mi sono strofinato il viso e la
testa come faccio al mattino quando mi lavo la faccia. Non sapevo se
tornare a casa o se farmi una passeggiata. Al ristorante non sarei andato ma
forse potevo fare due passi e bere una cosa.
Mentre cercavo di capire come uscire da quel momento, si è fermata
un’auto blu, subito ho pensato che fosse lei, che era in ritardo per il traffico.
Ho guardato meglio ma i vetri oscurati impedivano la vista. L’autista è
sceso per prendere le valigie, nello stesso momento la portiera si è aperta ed
è scesa una ragazza asiatica. Mentre pensavo che avrei potuto salire su
quell’auto e farmi portare da qualche parte lontano, poco più indietro, da
un’auto simile è scesa lei. Mi si è fermato il respiro dalla sorpresa. Quando
mi ha visto, mi ha sorriso. «La prossima volta vengo in metro, il traffico a
quest’ora è un inferno.»
«Sarebbe stato poco romantico. Serviva una carrozza adatta a una
principessa» le ho detto in tono ironico.
L’ho abbracciata come se non la vedessi da anni. Ero pazzo di gioia.
18

Lucia è salita in camera, io l’aspettavo fuori. L’aria della sera era frizzante,
ho fatto un lungo respiro. C’era un uomo accanto a me, fumava. Mi sono
allontanato di qualche passo. Ricordo bene il piacere che si prova, e
nonostante questo ogni volta che vedo quel gesto ringrazio di aver avuto la
forza di smettere.
Due ragazze mi hanno chiesto se avessi da accendere, ho indicato loro
l’uomo che stava fumando poco distante. In quel momento è uscita Lucia.
«Nemmeno il tempo di lasciare la borsa e mi hai già rimpiazzato.»
L’ho abbracciata e le ho dato un bacio vicino alla tempia, era lì che la
mia bocca si trovava nel nostro incastro, poi l’ho guardata. «Ti va di fare
due passi? Il posto è a un quarto d’ora di distanza.»
«Ho bisogno di prendere un po’ d’aria.»
Ci siamo incamminati. Le ho detto che, se le andava, nel fine settimana
le avrei mostrato alcuni dei miei posti preferiti.
«Non devi lavorare?»
«Mi sono tenuto libero tutto il weekend.»
«Sei sempre stato molto organizzato» ha risposto con un tono nel quale
mi è sembrato di scorgere della malizia. Forse era solo nella mia testa.
«Quando uno non ha un talento deve avere almeno un metodo.»
Ha sorriso, poi mi ha chiesto quanto tempo passassi a Parigi.
«Sommando i giorni, in un anno arrivo a tre, quattro mesi.»
«Te ne vieni, fai le tue passeggiate tranquillo. Ti gestisci il lavoro. È
bello vedere che vivi ancora facendo solo quello che vuoi. Non avere figli ti
ha reso più libero.»
Stavo per risponderle, ma proprio appena saliti sul Pont Neuf lei ha
indicato un bateau-mouche che stava passando in quel momento sulla
Senna. «Immagino che tu non sia mai salito su uno di questi, come fanno
tutti i turisti.»
«Una volta, con la mia ex.»
«La gita romantica» mi ha detto prendendomi in giro.
«Nessuno dei due voleva andarci ma Gabriele insisteva. Alla fine mi è
anche piaciuto.»
Era stata una domenica indimenticabile. Gabriele aveva avuto ragione,
Parigi da quella prospettiva era stata una sorpresa. Sul battello li avevo
fotografati di profilo, con Beatrice che lo teneva da dietro. La foto era uscita
così bene da finire incorniciata, nell’ingresso di casa. Quando l’avevamo
vista ingrandita, avevamo notato che dietro di loro c’era una donna che
guardava l’obiettivo. Ci faceva ridere il fatto che una sconosciuta fosse stata
immortalata in una foto di famiglia e che fosse lì all’ingresso, pronta a
guardare chiunque entrasse. Con Gabriele ci divertivamo a inventare storie
su di lei, era diventato un gioco.
Ho chiesto a Lucia se avesse un buon rapporto con sua figlia.
«Cambia sempre, adesso è in una fase bellissima. Mi piace vedere che
sta cercando la sua strada, si impegna, è determinata. Ora è lei a
raccontarmi il mondo. A volte mi sento come se ormai fossi io la figlia.»
«E poi ti ha salvata, giusto?»
Era sorpresa che mi ricordassi le sue parole.
Ci siamo infilati in rue Bonaparte.
«All’inizio la sua partenza mi spaventava.» Ha fatto una pausa. «L’idea
di rimanere da sola con mio marito mi spaventava. Come avremmo
riempito le nostre giornate io e lui? Non avevamo più nulla in comune.»
Anche Beatrice mi aveva detto che l’allontanamento è cominciato
quando si è resa conto di non avere più nulla in comune con Marcello.
«Intendi dire che la sua scelta ha accelerato la separazione?»
«Mia figlia è una ragazza speciale, e non lo dico perché sono sua madre,
è molto matura. Parlava come un adulto già da bambina, faceva
impressione. Ha capito che ero infelice. Mio marito non si è accorto di
nulla, lei sì.»
Anche Gabriele mi aveva stupito più volte, ogni tanto le sue parole
lasciavano intendere che sentiva e capiva molto più di quello che noi
credevamo. «I bambini sono istintivi, sentono tutto.»
Ha sorriso. «Se a un bambino dici che sei felice e non è vero, non ci
crede. Se vuoi che ci creda, devi esserlo davvero.»
Era un po’ come dire che essere felici è una priorità non solo per se
stessi ma per le persone che ci stanno intorno.
«Abbiamo un piccolo rito, da quando era piccola. Ogni tanto ce ne
stiamo sole in bagno e io la pettino, le faccio la treccia. È stato lì che mi ha
detto che se non ero felice dovevo lasciare suo padre. “Non voglio una
mamma triste” ha detto.»
L’ho guardata, con il sospetto che non fosse andata proprio così, a volte i
genitori raccontano cose ingigantite sui propri figli.
Lei era convinta. «Quattordici anni. Capisci?»
«Ha preso da te.»
Ha riso. «Ma va’, io a quattordici anni non sapevo allacciarmi le stringhe
delle scarpe. Ha preso da suo padre.»
È passata un’ambulanza a sirene spiegate, la via era così stretta che il
suono è diventato insopportabile, abbiamo dovuto aspettare che si
allontanasse per continuare a parlare.
«Comunque nella vita non ho fatto solo quello che volevo. Anche se
capisco che possa sembrare così.» Sono tornato all’improvviso sulla sua
considerazione, non mi andava che rimanesse in sospeso.
«Ti sei offeso?» mi ha detto quasi ridendo.
«Non vorrei tu avessi una idea sbagliata della mia vita.»
Stavamo ridendo tutti e due.
«Ci sono state occasioni che non ho colto, e non per mia scelta.»
Mi ha guardato, l’avevo incuriosita. «Avanti, quali?»
Ho lasciato passare qualche secondo per tenere accesa la sua curiosità.
«Mi avevano offerto un ottimo lavoro in California.»
Con lo sguardo mi incalzava a proseguire.
«Non me la sono sentita di lasciare mia madre.»
«Potevi portare anche lei» ha detto in tono ironico.
«Certo, a fare surf.»
Abbiamo riso. Quando gliel’avevo detto, mia madre mi aveva subito
ricordato quanto fosse pericolosa l’America: «Si sparano nelle scuole,
lascia perdere. E poi io cosa faccio qui da sola?». Non contenta, sulla porta
di casa, aveva rincarato la dose: «Luca, non puoi abbandonare la tua
mamma». Ha sempre avuto una tendenza al melodramma.
A Lucia questo non l’ho detto.
«A me avevano offerto un posto in una galleria d’arte. Ho avuto paura di
essere fagocitata dal lavoro, di non riuscire più ad avere tempo per stare con
mia figlia.»
Eravamo arrivati, siamo rimasti in silenzio davanti alla porta del bistrot.
«Ti chiedi mai come sarebbe stata la tua vita se avessi detto di sì? A
volte mi immagino in California in situazioni bellissime.» Mi sono subito
vergognato di averle confessato questa fantasia.
«Anch’io lo faccio» ha detto con un filo di malinconia.
Quei destini non imboccati muoiono nella vita reale ma dentro la nostra
testa vivono per sempre e offrono ancora il loro riverbero. Almeno questo è
quello che succedeva a me.
«Alla fine siamo anche le strade che non abbiamo scelto» ho detto.
Prima di entrare, mi ha guardato negli occhi. «Grazie per le liquirizie.
Non le ho aperte, altrimenti adesso sarei ancora in albergo a mangiarle.»
In camera gliene avevo fatto trovare un sacchetto enorme.
19

«Quando mi sono sposata ero felice» ha detto mentre cercava qualcosa in


borsa. Ero stato io a farle la domanda diretta.
Eravamo seduti a un tavolino all’aperto, sotto uno di quei funghi che
scaldano. L’illuminazione del bistrot si mescolava a quella del fungo e
rendeva ogni cosa di un colore strano, sembrava di essere in un film
giapponese, fuori dal tempo.
«In fondo» ha proseguito prima di passarsi del lucidalabbra «lo avevo
sempre desiderato, fin da bambina.»
Anche quando stavamo insieme amava immaginare il nostro futuro da
sposati, creava scenari e situazioni di noi insieme ai figli, al cane, nella casa
in campagna. A me piaceva il suo film romantico, era più facile
immaginarmi nelle sue fantasie che non farmene di mie. Non sono mai stato
una persona con progetti, visioni o sogni da realizzare, ho sempre vissuto
senza una precisa terra promessa da raggiungere.
Lui gliel’aveva chiesto dopo meno di un anno che stavano insieme, non
aveva dubbi, e lei era stanca di uomini vacui, incerti, presi da mille ansie.
«Il mio ex marito è esattamente come sembra, niente segreti o lati oscuri o
ambiguità. Forse il motivo più grande per cui l’ho sposato è proprio questo.
In tutti gli anni insieme sono sicura che non mi abbia mai mentito.»
Ero stupito, faticavo a capire come mai non avesse funzionato.
«Era deciso, tutto di un pezzo. Aveva tutto quello che le mie amiche
dicevano di volere in un uomo. Ma non era quello che volevo io.»
«Mi parli di una situazione ideale, cosa c’era che non andava?»
Le è comparsa una strana espressione, un mezzo sorriso, come a dire che
non avevo del tutto torto. «Ero infelice. E quando sei infelice, ma le persone
ti dicono che sei fortunata, inizi a pensare di essere tu quella sbagliata.»
«Forse desideravi qualcosa di diverso.»
«Desideravo qualcosa che non fosse quella infelicità.» Era amareggiata.
«Lui non l’ha mai capito. Si ostinava a chiedermi che cosa volessi di più di
quello che avevamo, una bella casa, una figlia sana, la tranquillità
economica. Non vedeva oltre perché era razionale, solido, quadrato. E io
credo di aver scambiato la sua rigidità per forza.»
È arrivato il cameriere con i calici di vino. Prima di allontanarsi le ha
dato un biglietto. Lei lo ha guardato stupita. «È per me?»
Lui, con accento francese, ha letto il nome sul foglio: «Lucia».
L’ha preso e si è voltata verso di me, ancora più stupita: «Sono contento
che tu abbia accettato l’invito. Sarà un weekend indimenticabile». È
scoppiata a ridere. «Ma quando glielo hai dato?»
«Mentre eri in bagno.»
«Non mi sono accorta di niente.» Era divertita, più che lusingata.
Rideva, sembrava quasi in imbarazzo. Il mio gesto aveva reso l’atmosfera
leggera, più che romantica.
Ha piegato il bigliettino e lo ha infilato in borsa.
«Avete lottato molto prima di lasciarvi?» Mi interessava sapere come
aveva affrontato la separazione.
«Quando gliel’ho detto avevo già deciso.»
Ho immaginato il dolore che deve aver provato. È strano come ognuno
di noi attraversi questo tipo di situazioni. C’è chi si lamenta, parla di crisi,
delle cose che non vanno e magari poi non esce dalla relazione, chi cerca di
far fronte a quelle difficoltà insieme all’altro, e poi c’era lei, che non dice
nulla, tiene tutto dentro, e poi un giorno sgancia la bomba, quando la
decisione è presa ed è irreversibile.
«Ne avete parlato prima, per capire se c’era la possibilità di sistemare le
cose?»
«Certo, mica sono una matta che chiude un matrimonio da sola, tutto
nella sua testa.»
Mi sono accorto di non conoscerla affatto, nello spazio di un minuto mi
ero già fatto un’idea lontanissima dalla realtà.
«L’ho sfinito a furia di piccoli litigi, volevo scatenare in lui delle
reazioni, ero arrivata al punto in cui ogni cosa era una scusa per provocarlo.
Bastava lasciasse un cucchiaino sporco nel lavandino e lo aggredivo.»
Ha guardato intorno a sé, mentre rievocava quegli anni. «Ero diventata
odiosa anche a me stessa. Ho pianto molto in quel periodo» ha concluso.
Non c’era pesantezza, né vittimismo nelle sue parole. Dava l’idea di
esserne uscita e avere acquisito una forte consapevolezza.
Durante la cena, non abbiamo più parlato di argomenti così intensi, è
stato tutto un ridere e un ricordare.
La sera, a letto, prima di addormentarmi, ho pensato che non avevo
sbagliato a invitarla. Tra di noi non era cambiato nulla.
20

Mentre camminavo verso il suo hotel le ho mandato un messaggio per


avvisarla che stavo arrivando. Ci eravamo dati appuntamento per le nove,
ero in perfetto orario.
Quando sono entrato nella sala delle colazioni, era già seduta a un
tavolo. Era vestita con un maglioncino a righe bianche e blu, il resto era
nascosto dalla tovaglia.
Mi ha visto e ha sorriso. «Il letto è comodissimo, come dicevi tu, e
hanno anche i cuscini bassi.»
Anch’io odio i cuscini che trovi in certi alberghi, grossi, soffici e gonfi.
Appena appoggi la testa ci sprofondi dentro, come se ti schiacciassero la
faccia in un libro.
«Ti ho fatta alzare troppo presto?»
Ci siamo diretti verso il buffet. Prendevamo le stesse cose, per lo più
frutta fresca, kiwi, ananas e papaya.
«Stamattina mi sono svegliata e ho avuto il tempo di fare tutte le mie
cose.»
L’ho guardata. «Quali cose?»
«Posizioni di yoga, una specie di stretching. Ho iniziato per un mal di
schiena che non riuscivo a farmi passare. Cose da anziani.» Mi ha fatto
ridere, poi lei si è diretta verso i dolci, io verso il salato.
Una volta seduti, ha iniziato a spalmare della marmellata su una fetta
biscottata. «Al mattino, appena sveglia, prendevo il telefono, controllavo
messaggi, email e davo un’occhiata ai social. Durante la colazione leggevo
le news, perfino la sera mi portavo il computer a letto o stavo sul telefono
fino a addormentarmi.»
«Anche a me capita di addormentarmi con il telefono in mano.»
«Da quando ho smesso, la vita è migliorata molto.»
Sul buffet un cameriere ha sistemato un vassoio con dei croissant caldi,
lei si è alzata a prenderne per tutti e due.
«La marmellata va messa qui dentro, non sulle fette biscottate» le ho
detto mentre riempivo il mio croissant.
«Ottima idea», e ha fatto lo stesso. Poi ha ordinato un caffè per entrambi.
«Ieri ho pensato molto a quello che mi hai detto, ci sono un mucchio di
cose che vorrei chiederti ma non vorrei essere invadente, o scortese.»
Lucia mi ha guardato. «In questi due giorni insieme vale tutto. Se uno
vuole sapere una cosa la chiede. L’altro è sempre libero di non rispondere.
Che dici?»
«Grande idea.»
«Allora comincio io, anche se la mia curiosità non è personale, o intima,
però è una cosa che mi domando da quando ci siamo rincontrati.»
Aveva acceso la mia curiosità. «Vai.»
«Come sei finito a lavorare col vino? È una cosa a cui non ti avrei mai
accostato.»
All’improvviso ho ripensato a Silvano, al tempo felice in cui l’avevo
conosciuto.
«Subito dopo l’università lavoravo come barista in un locale, non per
passione, solo per arrotondare. Una sera ho conosciuto un uomo sui
quaranta, molto affascinante e di grande cultura. Veniva spesso, era un
cliente abituale. Gli piaceva chiacchierare con me, non so ancora oggi per
quale motivo avesse una particolare simpatia, non aveva figli e magari…»
Ho fatto una pausa. «E io non avevo mai avuto un padre. Forse queste due
assenze si sono riconosciute.»
Lucia ascoltava con grande attenzione, era del tutto assorbita dal mio
racconto.
«Produceva vino e passava serate intere a parlarmi di coltivazione,
processi di vinificazione, delle sue vigne, mi portava bottiglie e mi spiegava
come distinguere un buon vino da uno scadente. Non faticavo a credere che
fosse bravo nel suo lavoro, da lui avrei comprato tutto, se ne avessi avuto le
possibilità. Finché un giorno, così, all’improvviso, mi ha chiesto se mi
andava di dargli una mano.»
«E tu?» Lucia mi incalzava.
«Mi ha detto che non poteva pagarmi molto, ma era sicuro che avrei
imparato presto. “Sei un ragazzo sveglio” mi ha detto. Lo ricordo ancora
benissimo.»
Silvano è stato la prima persona che mi ha fatto sentire orgoglioso, per la
fiducia che mi aveva accordato senza nemmeno conoscermi a fondo.
«Avevo una voglia disperata di dimostrargli quanto valevo e così ho
accettato, con una risposta anche un po’ sbruffona.» Ho sorriso
ripensandoci ora. «Gli ho detto: “Facciamo così, a fine mese mi darai quello
che valgo”.»
«Hai avuto coraggio.»
«Il coraggio dell’incosciente.»
Giravamo insieme e mi presentava ai clienti, ai fornitori come fossi il
suo erede. Mi impegnavo al massimo, mi aveva dato fiducia e mi stava
aprendo il suo mondo, non volevo deluderlo. Lui sembrava apprezzare le
mie doti. «Hai la faccia pulita, piaci alle persone, si fidano. Non tradire mai
questa qualità» mi aveva detto. Dopo il primo mese, mi aveva offerto un
lavoro a tempo pieno.
«Da lì non me ne sono più andato. Quando è arrivata l’occasione di
aprire un canale diretto Italia-Francia, è stato lui a mettermi a capo della
nuova avventura.»
Senza accorgermene sorridevo, Silvano mi faceva questo effetto. Anche
lei sorrideva. «Che gran bella storia, e che fortuna è stata incontrarlo.»
Mi sono quasi commosso.
Quando siamo usciti, l’aria era fresca, un sole già alto ci faceva sentire il
suo calore. Entrambi abbiamo chiuso gli occhi per prenderlo in faccia.
«Vuoi andare in qualche posto in particolare?» le ho chiesto.
«Scegli tu.»
Ci siamo incamminati verso rue de Lille, vicino a Saint-Germain-Des-
Près, dove sapevo che c’erano diverse gallerie d’arte.
Dopo pochi minuti, in rue de Rivoli siamo passati davanti alla Tour
Saint-Jacques. Lucia ha fatto sfoggio di tutta la sua conoscenza dell’arte,
infine ha aggiunto: «Per anni è stata coperta per i lavori, sembrava
un’installazione di Christo».
Ci siamo ritrovati a pochi passi da Notre-Dame.
«Lo sai che il centro di Parigi è esattamente qui?» Mi ha fatto cenno di
seguirla. Eravamo proprio di fronte alla cattedrale, ha indicato a terra, c’era
una pietra. «Questo è il point zéro des routes de France, cioè il punto dal
quale si misurano le distanze con altri posti e altre città.»
Le ho chiesto se voleva entrare nella cattedrale.
«Preferisco passeggiare, l’ho già vista un sacco di volte.»
Abbiamo attraversato il Pont au Double e ci siamo ritrovati alla
Shakespeare and Company, di fronte ai libri non ha resistito. Siamo entrati,
abbiamo gironzolato, ognuno seguendo i propri interessi.
Ho preso tra le mani L’Étranger di Camus, il primo libro che ho letto in
francese. Siccome lo conoscevo già in italiano, avevo pensato che sarebbe
stato più facile approcciarlo. Non era andata così. Era stata un’impresa, la
fatica di fermarsi ogni tre righe per aprire il dizionario.
Quando ho raggiunto Lucia, stava sfogliando un libro. «È stato
importante per me.» Mi ha mostrato la copertina: Oblomov. Avevo vaghi
ricordi, era la storia di un uomo ricco che, non avendo bisogno di lavorare,
aveva scelto di rinunciare a tutto nella vita e di passare le sue giornate su un
divano.
«Sogni anche tu di vivere come lui?» le ho chiesto.
Ha sorriso. «Tra qualche anno.» Lo ha riposto sullo scaffale. «Ti è mai
capitato di vivere delle coincidenze così incredibili da pensare che
l’universo ti stia parlando?»
«Quando mi succede non penso all’universo, penso a mia nonna. Da
piccolo mi diceva sempre che dopo essere morta mi avrebbe detto come si
sta nell’aldilà, e che saremmo rimasti in contatto.»
«È mai venuta a dirti qualcosa?»
«Mai, nemmeno un numero del lotto.»
Ha riso. In uno dei periodi di crisi con l’ex marito, ha continuato a
raccontare, aveva cominciato a pensare di essere lei quella che non si
sapeva accontentare e di doversi impegnare di più, per godere di ciò che
aveva e accettare le cose così come stavano. Mentre rimuginava sul nuovo
proposito, si era ritrovata davanti alla libreria di casa, aveva preso un libro a
caso e lo aveva aperto. Subito le era caduto l’occhio su una frase: “Ma
allora quando si vive?”.
«Ancora adesso se ci penso ho la pelle d’oca. E pensa che è…» Ha
ripreso il libro dallo scaffale per controllare. «Quasi settecento pagine.» La
ascoltavo in silenzio, sembrava davvero colpita da quell’evento, quasi
scossa.
Per restituire un po’ di leggerezza, ho detto: «Dubito sia stata mia
nonna». Siamo scoppiati a ridere.
Prima di andarcene, ho comprato una delle cartoline che stavano vicino
alla cassa, quelle con le frasi di personaggi famosi. Sul marciapiede le ho
passato il sacchettino colorato con la cartolina. «Per te.»
Era sorpresa. «Sei sempre così veloce, non mi accorgo mai di nulla.»
Ha aperto la busta. «Coco Chanel» ha letto ad alta voce, ho sempre
amato la voce di Lucia, in francese era ancora più dolce e attraente. «Les
seuls beaux yeux sont ceux qui vous regardent avec tendresse.»
Gli unici occhi belli sono quelli che ti guardano con tenerezza.
21

Appena lasciato il Jardin du Luxembourg, avevamo imboccato rue Soufflot.


La via era leggermente in salita e in fondo si vedeva il Pantheon. Gliel’ho
indicato: «Là è sepolto Hugo. Sai che quando ha finito di scrivere l’ultima
parola di Notre-Dame de Paris ha finito anche l’ultima goccia d’inchiostro?
Un altro segno del destino». Ho fatto una pausa. «E anche qui mia nonna
non c’entra perché non era ancora nata.» Abbiamo riso.
«Chissà se è vero che la nostra vita è già tutta scritta» ha detto lei.
«Se penso a certe vite, mi viene da dire che erano proprio destinate. Però
la teoria che mi convince di più è quella secondo cui veniamo al mondo con
delle carte e a noi spetta giocarcele. La differenza sta tutta lì.»
Mi ha guardato con l’aria di chi era d’accordo.
«Questa zona è quella che conosco meglio di Parigi. Venivo a trovare
un’amica che ha sposato un francese. Adesso però vivono a Firenze» ha
proseguito. «Sono sposati da quasi vent’anni e non hanno mai vissuto
insieme. Una coppia incredibile.»
Mi era capitato di sentire storie così, ma non avevo mai conosciuto
direttamente nessuno che lo facesse. «Secondo te si amano?»
«Sono bellissimi insieme.»
«Insieme, ma ognuno a casa propria.» La faccenda delle case separate
non mi convinceva fino in fondo.
«Amarsi e vivere insieme secondo me sono due cose diverse. Loro si
amano di un amore che è l’unico degno di essere chiamato così.»
Questo mi interessava. «E quale?»
«L’amore incondizionato.»
«E tu sei capace di questo amore?»
«Solo verso mia figlia. A lei non potrei mai dire “ti amo se sei così”, “ti
amo se fai o non fai questa o quella cosa”. Quando ci metti un “se”, quando
ci metti una condizione, non è più vero amore, ma altro.»
Capivo il suo discorso, nella vita ero molto lontano dall’averlo
sperimentato. «Ho il sospetto che la mia evoluzione sia appena sopra quella
di una cernia.»
Lucia aveva un buon passo. Di solito cammino più veloce dei miei
amici, tanto che alcuni mi chiedono di rallentare perché non sto facendo una
gara o una maratona. Lei invece mi stava dietro senza fatica. Non è facile
trovare una donna con questa andatura.
In pochi minuti siamo arrivati in rue Mouffetard.
Era pieno di negozi con cibo di ogni tipo. Le merci in bella vista ci
guardavano colorate dai bancali e mettevano allegria. Ho visto della frutta,
di nascosto ho staccato un paio di acini di uva e me li sono infilati in bocca
con un gesto rapido. Ero solito farlo quando eravamo ragazzi.
«Ancora quel brutto vizio?»
«Volevo essere sicuro che ti desse sempre fastidio.»
Masticavo rapidamente per non essere scoperto, lei ha riso.
«Quando passeggio in una città che non è quella dove vivo» ha detto «mi
capita spesso di desiderare di avere un appartamento. Come adesso, a
vedere tutte queste cose da mangiare, vorrei poter fare la spesa e andare a
casa a cucinare.»
Non mi sono lasciato sfuggire l’occasione: «Possiamo pranzare da me».
Mi ha guardato in silenzio un secondo.
«Volevo portarti in un posto che sono certo ti piacerà, ma possiamo
andarci dopo pranzo.»
Lucia ha osservato la merce in bella mostra, aveva un sorriso nuovo sul
viso.
«Cosa hai voglia di mangiare?» mi ha chiesto.
«Fai tu, a me va tutto. Tranne l’andouillette.»
Una sera a casa di amici francesi me l’avevano proposta con grande
orgoglio. Assomigliava a una salsiccia, solo che era fatta con la parte finale
dell’intestino del maiale. Mandava odore di escrementi, c’è mancato poco
che vomitassi. Lucia ha fatto un’espressione disgustata: «Stiamo leggeri».
Il semplice fatto di fare la spesa aveva cambiato l’approccio della nostra
camminata, ora eravamo guidati dagli odori e dal desiderio di quello che
avremmo mangiato.
Verso casa, con le buste in mano, le ho detto: «La prima cosa che faccio
quando arrivo a Parigi è comprare una baguette. Spesso la addento già sulle
scale».
Siccome la spesa era pesante, abbiamo deciso di prendere la
metropolitana. Seduti l’uno di fronte all’altra, con le buste tra i piedi, ci
siamo sorrisi. Era un gioco, qualcosa di diverso dalle solite giornate. Ci
sentivamo come due ragazzini.
Alla nostra fermata, all’apertura delle porte, sono stato spinto avanti dal
flusso della gente che scendeva. Lucia era dietro di me. Quando le porte si
sono richiuse, le persone sono sparite come formiche dentro un buco, mi
sono voltato per aspettarla. Era di schiena e stava lottando con le porte
automatiche del vagone. La metro è ripartita. Lei mi ha guardato, le
mancava una scarpa. Nella calca l’aveva persa e non era riuscita a
recuperarla in tempo. Siamo scoppiati a ridere. Avevo le lacrime agli occhi.
Sotto casa mia stavamo ancora ridendo.
«Sai perché pago poco di affitto?»
È rimasta in silenzio.
«Uno dei motivi è che sto al quinto piano. Senza ascensore» le ho detto
mentre digitavo il codice per aprire il portone. «Se stai qui una settimana di
fila ti vengono due chiappe di marmo.»
Nonostante fossero faticose, le scale mi piacevano molto. Erano vecchie,
di legno antico, grezzo, e a ogni passo scricchiolavano. Le finestre ai piani
intermedi erano enormi con maniglie antiche. Perfino l’odore mi piaceva,
mi faceva sentire a casa. Avevo voglia di mostrarle il mio nido parigino.
Appena dentro, Lucia si è guardata attorno. «Da quello che mi hai detto,
pensavo fosse molto peggio.»
Le ho confessato che avevo fatto venire la donna delle pulizie il giorno
prima.
«Quanto tempo riesci a tenerla così pulita?»
«Non molto, ma solo perché non mi piace.»
«Non ti piace la casa in ordine?» Il suo stupore era genuino.
«Mi piace solo all’inizio, dopo qualche giorno mi sembra tutto morto,
mentre nella confusione ho la sensazione che stia accadendo qualcosa. C’è
più vita nel disordine.»
Lucia si è messa a ridere. «Questa la devo dire a mia figlia, sono sicura
che la userebbe volentieri quando le chiedo di sistemare la sua stanza.» Ha
cercato qualcosa con lo sguardo. «Vorrei lavarmi le mani.» Le ho indicato
dov’era il bagno. «E un piede.» Abbiamo riso di nuovo. Le bastava poco
per trasformare in un gioco anche le situazioni più scomode.
Mentre preparavo le verdure per il brodo, mi sono versato un bicchiere
di Bordeaux, e ne ho versato uno anche per lei.
«Bello il quadro appeso in bagno» ha detto dopo avermi raggiunto. Era
una fotografia del Grand Canyon che il proprietario aveva appeso proprio
davanti alla seduta. «Pago un buon prezzo per questo appartamento ma
l’accordo è che non posso cambiare nulla. La casa che vedi, anche se ci
vivo io, è tutta sua.» Le ho passato il bicchiere. Abbiamo brindato al nostro
fine settimana insieme, poi dal telefono ho fatto partire Easy dei
Commodores. Ero curioso di vedere la sua reazione.
«Questo è un colpo basso.» Senza distogliere lo sguardo dal mio, ha
portato il bicchiere alla bocca e ha assaggiato il vino. Nel suo sorriso c’era
ogni risposta.
Preparavamo insieme, io il risotto e lei un’insalata. Si respirava un’aria
di euforia frizzante. Mi sentivo di nuovo come vent’anni prima. Il desiderio
di fare l’amore con lei è stato forte e improvviso.
«Hai una gomma da masticare?» ha chiesto. «Mi serve per non piangere
mentre taglio la cipolla.»
«Questa non la so.»
«Se mastichi una gomma mentre tagli la cipolla, non ti lacrimano gli
occhi.»
Gliene ho presa una dal cassetto dove tengo le caramelle. «Tieni.»
La osservavo mentre sminuzzava la cipolla. «Staremmo ancora bene
insieme, non trovi?» le ho chiesto a bruciapelo.
Ha alzato lo sguardo e mi ha fatto un sorriso dolcissimo. La testa appena
inclinata le dava un’aria timida e innocente.
«Ho molte più cose in comune con te che con persone che frequento da
anni» ho detto. «Mezza giornata insieme mi è bastata per rendermi conto di
quante volte mi sono sentito inadeguato, sbagliato. Con te ho la sensazione
di essere nel posto giusto con la persona giusta.»
Lucia ha appoggiato il coltello e si è pulita le mani nello strofinaccio, poi
ha sollevato il bicchiere e prima di bere mi ha detto: «Ho pensato la stessa
cosa ieri sera, prima di addormentarmi». È rimasta in silenzio qualche
secondo. Si avvertiva un’intimità, un legame tra noi che non aveva bisogno
di spiegazioni. Quando è tornata a tagliare la cipolla, ho avuto la sensazione
che avesse voluto dirmi altro ma che poi all’ultimo avesse cambiato idea.
Dopo è passata a sistemare i formaggi su un piatto, mentre io muovevo
l’olio nella padella prima di buttare la cipolla. Senza distogliere gli occhi
dal formaggio mi ha detto: «Sai cosa mi ha sempre fatto arrabbiare se penso
a noi? Il fatto che non abbia funzionato per motivi piccoli, futili».
Non sapevo come rispondere, me ne sono uscito con una battuta banale:
«Pensa se fossero stati grandi».
«Sarebbe stato più facile. Perché, quando sono grandi e complessi, o
rinunci o lo accetti. Ma quando sono così, sai che sarebbe bastato poco e
non ti dai pace.»
Ha preso il tagliere e ha buttato la cipolla nella padella per farla rosolare.
Lo sfrigolio della cipolla e il suo profumo hanno riempito la cucina. Con il
cucchiaio di legno in una mano si è girata verso di me, si è avvicinata e mi
ha accarezzato il viso. «Non mi guardare così.»
«Ti guarderò sempre così, è l’unico modo che conosco con te.»
Mi ha baciato. Sono rimasto immobile, ero del tutto spiazzato: il nostro
primo bacio dopo più di vent’anni. Ho sentito un’energia salirmi per tutto il
corpo, le ho posato una mano sul collo e da lì le ho afferrato i capelli dalla
nuca, attirandola a me. Era un bacio delicato lento, soffice, silenzioso,
dolce. Ci siamo baciati così non so dire per quanto e poi siamo stati travolti
dalla voracità.
Senza guardare ho spento il fornello e, come avevo fatto molte volte anni
prima, l’ho sollevata e l’ho portata in camera.
22

Era sdraiata con la nuca appoggiata al mio petto. Sentivo il suo respiro
caldo sulla pelle, il suo corpo incollato al mio, il profumo dei suoi capelli.
Fare l’amore con lei era stato tutto un conoscere e riconoscere. Pur
avendolo già fatto, era stato tutto nuovo, e bello come allora. Il suo corpo ai
miei occhi così familiare e al tempo stesso nuovo. La nostra affinità,
l’alchimia che avevamo sempre sentito erano rimaste intatte. I nostri corpi
si incastravano ancora perfettamente. Era stata un’estasi di gioia.
Stavamo in silenzio, nudi, avvinghiati sotto il piumone. Lontano, si
sentivano le persone chiacchierare per strada. Tutto era sospeso, io, lei, i
suoni, la vita stessa. Mi sentivo innamorato e forse lo ero veramente.
In passato, più facevo l’amore con lei più desideravo farlo. Il desiderio
appena soddisfatto, invece che diminuire, aumentava e rendeva
insopportabile il tempo senza di lei. Qualsiasi altra cosa perdeva intensità,
valore.
Nella quiete, come se avesse intuito i miei pensieri, mi ha dato un bacio
sul petto. Avevo la sensazione che ci fossimo ritrovati.
«In questi anni ho pensato spesso a noi» ha detto, immobile. Mi è
sembrato che si stesse aprendo, più volte avevo avuto il dubbio che il nostro
riavvicinamento fosse stato un desiderio solo mio.
«Mi sono aggrappata al ricordo di noi ogni volta che avevo una
difficoltà, come se il destino di quei due fosse il destino che avrei dovuto
seguire. Ogni tanto chiudevo gli occhi e immaginavo i momenti insieme
che non abbiamo vissuto. Quando ero incinta mi è capitato anche di
chiedermi come sarebbe stato se fosse stato tuo. E sai perché quei momenti
erano perfetti?»
«Perché siamo fatti per stare insieme» le ho risposto subito.
Ho capito dal respiro che stava sorridendo.
«Perché non sono mai esistiti, sono frutto della mia immaginazione.»
È stata una frase fredda, molto razionale e poco romantica. «Può darsi,
oppure erano perfetti perché siamo fatti per stare insieme.»
Ha sorriso di nuovo. «Mai rovinare una bella storia con la verità.»
Ci siamo ritrovati in un silenzio lungo e dilatato, un momento diverso da
quello di prima.
Quando è tornata a parlare, mi è sembrato che fosse distante. «Ti ricordi
quando stavamo a letto a giocare a “per cosa vale la pena vivere”?»
Era una cosa nostra, che facevamo spesso. La prima volta era successo
da lei a Venezia. Avevamo appena finito di vedere Manhattan. In una scena
Woody Allen si sdraia sul divano, prende il microfono di un registratore e
inizia a elencare le cose per cui vale la pena vivere. Finito il film abbiamo
fatto anche noi le nostre liste. Ricordo che lei disse subito: i film di Woody
Allen. Ero d’accordo.
«Avevi una lista lunghissima: il gelato alla nocciola, il bagno nel mare,
le lasagne, i libri, il vino, gli spaghetti con le vongole e altri che non ricordo
più. Poi alla fine avevi concluso dicendo che avresti salvato i miei baci, il
mio sorriso, il mio seno e l’odore della mia pelle. Ti ricordi?»
Avevo un vago ricordo delle mie risposte. «Confermo tutto, soprattutto i
tuoi baci, le tette e l’odore della pelle.»
Lucia ha appoggiato la testa sul cuscino. «Che ti piacciano ancora i miei
baci e l’odore della mia pelle posso anche crederlo. Le tette ormai sono
andate. L’età e mia figlia me le hanno svuotate. Ho allattato per più di un
anno.»
«A me piacciono. Mi piace ancora tutto di te, anche più di prima. Sei un
Barolo di Serralunga, un vino con un’evoluzione infinita, che dà il proprio
meglio con il passare degli anni» le ho risposto prima di avvicinarmi e
baciarla. «Della tua lista non ricordo nulla tranne fare l’amore con me.»
Ci siamo guardati negli occhi, lei ha sorriso di nuovo.
«Vale ancora?» le ho chiesto. Avevo avuto la sensazione che le fosse
piaciuto, ma volevo sentirmelo dire, per vanità.
«Hai una cosa che non tutti hanno e che a me piace molto. Ma non ti
montare la testa adesso.»
Mi sono sistemato il cuscino per stare comodo, volevo sentire cosa fosse
questa cosa. L’ho guardata aspettando che parlasse.
«Non so» ha detto, «può darsi che me lo tenga per me.»
Ho iniziato a farle il solletico, lo soffre tantissimo, da sempre. A volte
basta muovere le dita vicino alla sua pelle, per farla ridere. Si è arresa
subito: «Va bene, va bene te lo dico».
Ha lasciato scivolare la coda delle risate e poi mi ha detto: «Si sente che
ti piace fare l’amore, e questo fatto lo fa piacere di più anche a me».
«A quale uomo non piace fare l’amore?»
«Intendo dire che tu fai l’amore con tutto il corpo, fai l’amore con lo
sguardo. Sei completamente presente e mi trascini così nel profondo che
tutto diventa un unico orgasmo che sale e scende e sembra non finire mai.
Dopo, non so se ho avuto più orgasmi o uno solo, lungo.»
Il mio ego stava esplodendo. «Adesso dimmi tu come faccio a non
montarmi la testa.»
Ha riso.
«Hai fame?» le ho chiesto. «Io potrei mangiare un frigorifero intero.»
Ci siamo alzati e rivestiti. Le ho dato una tuta per stare più comoda.
In cucina abbiamo finito di preparare il pranzo. Ogni tanto ci
sfioravamo, ci davamo una carezza, un abbraccio, un sorriso, tutto
punteggiato di piccoli baci che sapevano di vino.
Mi sembrava davvero di vedere quei due di tanti anni prima.
23

Dopo pranzo ci siamo seduti sul divano con le tazze del caffè. Stavamo
abbracciati.
«Che buon profumo questa candela.»
È un’abitudine che ho ereditato da mia nonna, le piaceva tenere sempre
una candela accesa. Le sue erano più dei ceri, bianchi, sottili e lunghi, io
invece uso candele profumate dentro un bicchiere di vetro. Sempre la stessa
fragranza: ambra.
«Domani ti porto nel negozio dove le compro. Voglio portarti anche in
un panificio dove fanno dei dolci da perdere la testa. Unica pecca è la
proprietaria, una delle persone più scorbutiche e maleducate che abbia mai
conosciuto in vita mia.»
Lucia ha riso. «Devono essere davvero buoni i dolci se continui ad
andarci.»
«I migliori. E poi a quella signora devo molto.»
La prima volta che ero entrato nella sua boulangerie, mi aveva trattato
così male che ero stato tentato di tirarle il sacchetto in faccia. Mi ero
ripromesso di non tornarci più. Poi avevo pensato che magari non fosse in
giornata. Invece no, era proprio in quel modo, sempre scorbutica. «Ho
desiderato così tanto litigare con lei che ho studiato francese con più
intensità. È stato uno stimolo a imparare più in fretta.»
Lucia era divertita dalla storia. «Mi succede la stessa cosa con la ragazza
che lavora al bar accanto alla scuola, è sempre di cattivo umore. Hai
presente quei posti dove c’è un cartello con scritto “guasto” sulla porta del
bagno?»
Abbiamo riso delle comuni sventure. Ho guardato fuori dalla finestra,
l’aria era limpida, tersa. «Usciamo?» le ho chiesto, lei ha annuito.
Mentre ci vestivamo, osservavo la sua schiena dall’altra parte del letto,
mi ha fatto pensare a un quadro di Schiele.
«Facciamo il gioco della verità?» le ho detto.
Si è voltata e ha sorriso. «Cosa vuoi sapere?»
«Di queste ore insieme qualcosa ti ha deluso?»
Si è alzata in piedi per infilarsi i pantaloni. «Vuoi la verità?» mi ha
chiesto lanciandomi un’occhiata veloce. «Perché il problema è che spesso è
più difficile sentirla che dirla.»
«Tutta la verità» ho risposto con tono ironico.
«La delusione più grande è che non ci sono state delusioni. È più bello di
quanto avevo immaginato.»
L’ho afferrata per i fianchi, ci siamo guardati negli occhi, eravamo
vicinissimi. Le ho spostato un ciuffo di capelli e l’ho baciata. Poi, le ho
detto: «Speriamo di non rovinare tutto nel tempo che rimane».
La magia che avevamo sempre vissuto da ragazzi era ancora lì. E aveva
ragione lei, tutto era ancora più bello. «Sai qual è l’espressione con cui
definirei quello che provo quando siamo insieme?»
Sorrideva. «Sentiamo.»
«“Da sempre per sempre.” Perché è uguale dalla prima volta che ti ho
visto.»
«Mi piace» ha detto lei.
Quando siamo usciti la giornata era ancora bella, c’era il sole e qualche
nuvola qua e là. Dopo essere passati in albergo a recuperare un paio di
scarpe, ci siamo incamminati verso il Louvre, il posto dove volevo portarla
era lì vicino. Quando siamo arrivati all’incrocio con rue du Renard, il
semaforo era rosso, senza pensarci le ho dato un bacio, come un ragazzino.
Un turista mi ha fermato e mi ha chiesto indicazioni per place des
Vosges. Mi regala sempre una bella sensazione quando conosco il tragitto
per raggiungere una certa destinazione. Mi fa sentire uno del posto.
Poi così, all’improvviso, senza nemmeno pensarci ho fatto qualcosa che
ha sorpreso anche me: «Mi dispiace di averti tradito, ero immaturo, non
l’ho fatto per cattiveria».
Pensavo si sarebbe fermata, invece ha continuato a camminare. «Ti ho
perdonato quasi subito. Anche io ho fatto cose di cui non vado fiera. Quello
che è stato è stato.»
Mi sono fermato in mezzo alla strada. «Aspetta, anche tu mi hai
tradito?»
Lucia era avanti di qualche passo, si è voltata e ha fatto un sorriso che
sembrava un principio di risata.
«Rimango qui fermo immobile finché non mi rispondi.»
Anche se il tono era scherzoso, sentivo un leggero disagio. Ero sempre
stato geloso di lei, l’idea che avesse fatto l’amore con un altro mi
infastidiva, anche dopo tutti questi anni, anche se ero stato il primo a
tradirla.
Lucia era divertita. «Muoviti, te lo dico mentre andiamo.»
«Non mi muovo. Resto qui anche tutta la notte.»
Continuava a ridere, poi con un sorriso affettuoso ha detto: «Non ti ho
mai tradito, almeno nel senso in cui lo intendi tu. Però forse una piccola
forma di tradimento c’è stata».
È bastato per rassicurarmi, ci siamo avviati di nuovo.
Morivo dalla curiosità, volevo capire tutto quello che mi ero perso di lei,
sapere cose di cui non avevo neppure sospettato.
«Oggi possiamo dirci tutto, visto che sono passati decenni. Funziona
come per certi segreti di Stato.»
Ho sorriso anche se non ho capito esattamente a cosa si riferisse. «Di che
segreti stiamo parlando?»
«I tuoi, per esempio. Mi hai mai mentito?»
Sicuramente le avevo mentito, dovevo solo cercare di ricordarmi quando
e a che proposito. «Ti ricordi la sera che mi hai chiamato, non ti ho risposto
e sono sparito fino al giorno dopo?»
Ha annuito.
«Ti ho detto che avevo dimenticato il cellulare a casa di un amico.»
«Mi ricordo.»
«Ecco, non era vero. Avevo incontrato una ragazza ed ero finito a casa
sua.»
Anche se erano passati molti anni, anche se la sensazione era che fosse
successo in un’altra vita, mi sono vergognato e credo di essere arrossito. Lei
non sembrava turbata, ero io quello che aveva accusato il colpo. «Sei
arrabbiata?»
«Sono passati più di vent’anni. Se me la prendessi adesso avrei dei seri
problemi.» Poi ha aggiunto: «Il tuo tradimento mi ha dato la scusa perfetta
per lasciarti. Era una cosa che avevo deciso da tempo ma mi mancava
sempre l’occasione o il coraggio di farlo».
Touché. Questo riscriveva tutta la nostra storia, o almeno quello che
avevo sempre pensato riguardo a chi e come l’avesse fatta finire. Le ho
chiesto se le andava un caffè, volevo approfondire la cosa ma preferivo
farlo mentre ci guardavamo negli occhi. Lì vicino c’era un bistrot dove ero
già stato più volte.
Ci siamo seduti nel dehors. «Forse, dati i temi della conversazione è
meglio del vino o un pastis.»
Ha riso. Mi sono diretto al bagno e ho ordinato due bicchieri di Pinot
Nero della Borgogna Clos de Vougeot. Volevo eleganza.
Mentre col getto cercavo di centrare una mosca disegnata sull’orinatoio,
pensavo che non avevo mai lontanamente immaginato volesse lasciarmi. Mi
ero sentito così in colpa in quel periodo, e invece le avevo quasi fatto un
favore.
Seduto di nuovo con lei, in attesa del vino, le ho detto: «Non vedo l’ora
che tu apra la cassaforte dove tieni nascosti tutti i segreti che ci riguardano.
Inizierei dal condividere con me la ragione per cui mi volevi lasciare». Mi è
uscita una voce aspra, una specie di recriminazione nei suoi confronti.
La cosa pareva divertirla, giocava con me come il gatto col topo. «Il
fatto che qui ci si sieda uno di fianco all’altro guardando verso la strada ti fa
venire voglia di restare ore. Il passaggio delle persone e delle auto è
ipnotico.»
È arrivato il cameriere, ha appoggiato i due bicchieri, ha infilato lo
scontrino sotto il posacenere e le ha passato un biglietto.
«Di nuovo?» Lo ha aperto e ha letto: «È sicura che non l’ha tradito?».
«Vedi? È una curiosità sua, io non c’entro.» Lo avevo scritto quando ero
entrato per andare in bagno, volevo dissipare il momento di tensione che si
era creato. «Ma la vera domanda è: perché volevi lasciarmi?»
Lucia ha riposto il biglietto nella borsetta, come se volesse conservarlo.
«All’inizio, appena ti capitava una cosa bella mi chiamavi subito, non
vedevi l’ora di condividerla con me. Nei fine settimana facevamo l’amore e
poi restavamo svegli a parlare di mille cose, eri curioso della mia vita,
parlavamo del futuro, di sogni. Tu eri lì per me e io per te.»
Era esattamente come ricordavo.
«Poi» ha continuato «la voglia di condividere è scomparsa. Sono
cominciate le risposte secche, “bene”, “male”, “niente di che”. Dopo
l’amore, non sapevamo più come riempire il tempo che ci restava. Sono
arrivate le mie chiamate senza risposta, le tue scuse recitate male, e piano
piano siamo diventati come quelle coppie che stanno insieme perché non
hanno la forza di lasciarsi.»
Non mi piaceva affatto l’uomo che aveva appena descritto, ma era stato
così.
«Sedurre e conquistare una donna» ha proseguito «è sempre stata una tua
debolezza, come una sete inestinguibile. La continua conferma di quanto
vali, di quanto sei bravo e desiderabile. Per uomini come te, una donna non
basta.» Aveva un tono pacato, lieve. «Vivi tutto intensamente finché non
l’hai consumato, svuotato di ogni interesse, per poi passare ad altro. Hai
bisogno sempre di novità, alla lunga diventa sfiancante.»
Ero io a sentirmi in difficoltà, lei sembrava parlare di qualcosa che non
la riguardava.
«Vorrei poter tornare indietro.»
«Eravamo giovani, abbiamo sbagliato in due. L’importante è che adesso
siamo qui.» Era sincera, si sentiva che la sua serenità era reale.
Dopo essermi visto attraverso i suoi occhi, facevo fatica a perdonarmi. È
sempre stato più facile per me trovare una ragione, un motivo agli sbagli
degli altri. Con i miei sono molto più severo.
Lucia ha alzato il bicchiere per un brindisi.
«Almeno tu mi hai perdonato.» Sono rimasto con il bicchiere in mano
per qualche secondo.
«Perdonare libera. Le cose che fanno male non si possono dimenticare,
si possono solo accettare. Perdonare è un regalo che si fa a se stessi, si
recide una volta per tutte il legame con il dolore che ci ha causato quello
sbaglio.»
A Beatrice non avevo perdonato molto e ogni volta che pensavo a certe
situazioni ancora riaffioravano la frustrazione e il malessere che avevo
provato, come fossero successe il giorno stesso.
In pochi minuti il tempo è cambiato, il cielo si è coperto di nuvole e ha
iniziato a tirare un vento gelido.
«Secondo me tra poco diluvia.» Ci siamo diretti verso l’hotel, che era più
vicino rispetto a casa mia.
A qualche isolato di distanza, siamo stati sorpresi da un forte
acquazzone. Ci siamo riparati dentro il BHV .
«Un po’ mi vergogno a dirlo, questo è uno dei miei posti preferiti.» Era
vero, mi piaceva molto salire le scale mobili e passeggiare sui piani di quel
grande magazzino. Siamo finiti in quello più basso, dove c’è un’enorme
ferramenta.
«A Venezia mi avevi appeso una mensola, ti ricordi? Avevi infilato quei
cosi nel muro.»
«I fischer. Non sai come mi ero sentito uomo.»
Ha sorriso. «Anch’io avevo provato una bella sensazione, c’era qualcuno
che si prendeva cura di me.»
Quando siamo usciti l’acquazzone era finito, abbiamo camminato sotto
una pioggia fine. L’ho lasciata in hotel, sarei passato a prenderla più tardi,
per cena. Prima di rientrare nel mio appartamento, le ho comprato un paio
di scarpe simili a quelle che aveva perso. Gliele ho fatte consegnare in
camera.
A casa mi sono addormentato sul divano, mi ha svegliato un messaggio:
“Grazie, sono meglio delle originali”.
24

Era quasi mezzanotte, passeggiavamo l’uno accanto all’altra. Durante la


cena era piovuto ancora e la pioggia aveva lucidato la città.
«Quando in un film c’è una scena romantica di notte, la strada spesso è
bagnata, sai perché?»
Mi ha guardato senza capire.
«Lo fanno di proposito, le luci si riflettono sulla strada e si crea
un’atmosfera irreale, da favola.» Stavamo attraversando il Pont des Arts, e
nello stesso identico momento ci siamo fermati per appoggiarci al
parapetto, come facevamo spesso a Venezia. Il cielo era scuro, le luci dei
lampioni erano color oro, piccole nuvole pennellavano di bianco la notte.
Sembrava davvero di essere in un film.
La bellezza che ci circondava ci aveva tolto tutte le parole. Ho sentito il
dolore che provo sempre quando mi trovo immerso in una meraviglia così
grande, come se non riuscissi a contenerla tutta.
Ho alzato lo sguardo e ho visto un aereo, ho immaginato le persone a
bordo mangiare o guardare un film o leggere un libro, dormire con coperte
e mascherine. Chissà dove stavano andando, magari raggiungevano
qualcuno che amavano. Non ho desiderato essere nessuno di loro perché ero
dove volevo veramente essere, a Parigi con Lucia.
Il tempo con lei stava cambiando la mia vita, non riuscivo a ricordare se
fossi mai stato così bene con una donna. Con Beatrice non aveva funzionato
perché io ero destinato a Lucia.
Siamo rimasti a guardare il cielo qualche secondo, poi l’ho baciata. «Da
sempre per sempre» le ho sussurrato.
Abbiamo ripreso a camminare, mano nella mano.
«Lunedì non lavori?»
Ha scosso la testa osservandomi stranita, la domanda era caduta
all’improvviso.
«Domani potremmo prendere il treno e andare a Londra. Rientriamo a
Milano da lì. Potresti andare a salutare tua figlia.»
Restava in silenzio.
«Non mi devi rispondere adesso» ho aggiunto «Possiamo decidere anche
domani, c’è un treno ogni ora.»
Continuava a non parlare.
«Ci stai pensando?»
«Pensavo alla faccia di mia figlia quando le dico che sono andata a
salutarla perché passavo di lì.»
Abbiamo riso.
«Le cose inaspettate sono le più belle.»
Mi ha guardato, l’ho abbracciata e poi l’ho baciata. Un bacio dolce,
lento, delicato.
«Dormi da me?»
«Tutte le mie cose sono in albergo, soprattutto quel fantastico cuscino
basso e comodissimo.»
«Il mio è anche meglio. Non sai quante volte quelli dell’hotel mi hanno
chiamato per chiedermi dove l’ho preso.»
Ha sorriso. «Questa storia del cuscino ha l’aria di essere una trappola.»
L’ho baciata di nuovo.
«Andiamo da te.»
Ero l’uomo più felice del mondo.
25

A casa ci siamo messi comodi e ho preparato due tisane. Quando le ha viste


era entusiasta: «Meno male, non ce l’avrei fatta con dell’altro vino. Non
siamo più quelli di una volta».
«Loro si sarebbero fatti degli spritz o dei gin tonic.»
«E sarebbero anche rimasti svegli tutta la notte.
«Io sono a pezzi» ha aggiunto poi, «tra ieri e oggi avremo fatto cento
chilometri.»
Anch’io ero stanco. «A volte ho la sensazione che non siano i muscoli a
farmi male, ma le ossa. Capita anche a te?» Ha riso. Ho spento le luci per
fare entrare un po’ di notte, ho acceso delle candele. Mentre si cambiava,
pensavo che ero entrato nell’età in cui sorridi perché ti ritrovi a fare cose
che da giovane non avresti mai pensato.
«Domattina preferisci croissant caldi o un pain au chocolat? Sono
entrambi fantastici nella boulangerie qui sotto.»
«Pain au chocolat. Se invece mi sveglio prima io tu cosa vuoi?»
«Croissant vuoto.»
Sembravamo quelli di Venezia, stessa complicità, armonia, nessuno
sforzo per stare insieme.
«E se in realtà non ci fossimo mai separati?» le ho detto.
Senza smettere di soffiare sulla tazza mi ha risposto: «Ci ho pensato ogni
tanto, eravamo molto giovani, non so come sarebbe andata».
«Non intendo in quel senso, voglio dire che forse, in un certo modo, non
ci siamo mai veramente lasciati.»
Le nostre vite sono state un viaggio circolare, più ci allontanavamo più
ci stavamo avvicinando di nuovo.
«Come se una mattina fossimo usciti di casa e adesso fossimo tornati.»
Ha sorriso e mi ha accarezzato una guancia. Ho preso la sua tazza, l’ho
appoggiata sul tavolo e ci siamo baciati. Mentre le tisane diventavano
fredde abbiamo fatto l’amore. Tutto era più calmo della prima volta, più
silenzioso, delicato. Le ho baciato le labbra, poi il viso, le guance, gli occhi,
le sopracciglia, le orecchie, il collo, i seni, l’addome. Sono sceso
sull’interno della coscia, il ginocchio, poi giù fino alla caviglia e infine le
dita dei piedi. Dopo sono passato dall’altra parte e sono risalito. Sentivo i
suoi sospiri, qualche movimento dovuto a un brivido. Era morbida
profumata, soffice.
Quando sono arrivato all’inguine, ho infilato le mie mani sotto di lei,
l’ho afferrata come si afferra una coppa e ho iniziato a baciarla lì, dove era
calda e umida. Sono rimasto fino a che non ho sentito il suo piacere sulle
mie labbra.
Ci siamo guardati e ho sentito un amore così grande da dubitare di averlo
mai provato prima. Ero perso e ipnotizzato, le labbra carnose, la pelle liscia,
l’odore della sua pelle nell’incavo del collo.
«Senti come stiamo bene insieme? Non ci dobbiamo lasciare più. Non
possiamo fare lo stesso errore un’altra volta» ho sussurrato.
Mi ha guardato senza dire nulla, poco dopo abbiamo raggiunto il
massimo piacere insieme.
26

Ho aperto gli occhi, la parte di letto accanto alla mia era vuota. Ho preso il
telefono per vedere l’ora, quasi le dieci. Non dormivo così a lungo da
tempo. Sono rimasto sdraiato qualche minuto per raccogliere le forze.
Quando dormo molto, per assurdo mi sveglio e ho la sensazione di essere
stanco e senza energie. Arrivavano dei rumori dalla cucina, forse Lucia
stava preparando la colazione. Con tutta probabilità era già scesa a prendere
i croissant. Sono andato in bagno a fare pipì e sciacquarmi la faccia. Allo
specchio mi sono visto sciupato. Mi sono infilato i pantaloni della tuta, la
camicia di cotone a quadrettoni che uso in casa e sono andato in cucina. Lei
non c’era, i rumori che sentivo provenivano da fuori. O era scesa per i
croissant, o era tornata in hotel a cambiarsi.
Ho aperto il rubinetto e ho fatto scorrere l’acqua, volevo berla fredda. Ho
svuotato un bicchiere d’un fiato e ne ho riempito un secondo. Le tazze delle
tisane che non avevamo mai bevuto erano posate a scolare sul lavandino.
Ho pensato di controllare il telefono, nel caso in cui mi avesse mandato
dei messaggi. Nell’andare in camera mi sono accorto che sul tavolo,
appoggiato al vaso di fiori, c’era un biglietto: “grazie per questi giorni”, in
stampatello, e appena sotto: “da sempre per sempre” in corsivo, nell’angolo
in basso un cuoricino.
Mi si è chiuso lo stomaco. Mi sono precipitato sul cellulare, l’ho
chiamata, era irraggiungibile. Mi sembrava uno scherzo grottesco.
Ho lanciato il telefono sul letto, mi sono vestito e sono corso in hotel. La
porta di casa ha sbattuto così forte che il rumore ha rimbombato
dappertutto, sembrava fosse caduto il soffitto, hanno tremato perfino i vetri
delle finestre sulla tromba delle scale.
Appena dentro la hall mi sono guardato intorno, come se fosse da
qualche parte e potessi vederla lì. Di lei nessuna traccia. Ho controllato
nella sala delle colazioni. «Entro un momento, sto cercando un’amica» ho
detto alla ragazza sulla porta.
La sala era quasi vuota. A quel punto ho chiesto in reception di
annunciarmi, volevo raggiungerla nella sua stanza.
«La signora della 102 ha fatto check-out questa mattina presto.» Il
receptionist deve aver visto la mia faccia, perché ha subito aggiunto: «Je
suis désolé».
Il suo telefono è rimasto spento per ore, ho pensato fosse scarico, oppure
che avesse cambiato il volo e fosse irraggiungibile. Le avevo mandato dei
messaggi, le avevo lasciato dei vocali. All’ultimo senza risposta, avevo
smesso di cercarla.
La sera erano comparse le due spunte blu, quindi aveva letto. D’impulso
ho scritto delle frasi da persona offesa, ma le ho cancellate subito dopo
averle inviate. E questa cosa ha peggiorato la mia situazione, mi ha fatto
sentire un insicuro, uno che non sa far fronte alle situazioni. Un po’ era
vero, non mi era mai capitata una cosa simile.
La sua sparizione era un gran mistero, tanto che mi capitava di pensare
che non stesse succedendo davvero, che avesse avuto un imprevisto magari
legato a sua figlia e che presto mi avrebbe spiegato tutto.
Lunedì, a pranzo, le ho mandato un altro messaggio. Ero certo non
avrebbe risposto, come aveva fatto con gli altri, mi sbagliavo: “Scusami, ho
pensato fosse la cosa giusta da fare”.
L’ho chiamata subito sapendo che stavo alzando l’asticella, la telefonata
è a un altro livello rispetto ai messaggi. Sentivo squillare il telefono e a ogni
squillo mi convincevo sempre di più che avrebbe lasciato suonare e che
stessi peggiorando la situazione, finché non ho sentito la sua voce. L’avevo
cercata per ore e, adesso che mi aveva risposto, ero impreparato. Ho esitato,
la mente vuota. La sua fuga mi aveva lasciato spaesato. Ha rotto il mio
silenzio iniziale con delle scuse, cosa che mi ha illuso su come sarebbe
proseguita la conversazione e mi ha dato il coraggio di chiederle cosa fosse
successo.
«Niente» ha risposto.
«Non sei stata bene?»
«Molto.»
«E allora?»
«Allora cosa?»
«Perché sei scappata via?»
«Perché per me era sufficiente così.»
Era stata bene, ma tutto finiva lì, con quella sua fuga finale. La
conversazione diventava sempre più assurda e surreale.
«Non capisco perché tu voglia buttare via tutto per paura.»
«La paura non c’entra niente.»
«E allora perché?»
Non ha risposto subito, forse l’avevo messa in difficoltà.
«Mi hai invitata per un fine settimana a Parigi e io ho accettato. Siamo
stati bene. Me ne sono andata in quel modo perché mi sono sentita di farlo,
forse ho sbagliato e ti ho chiesto scusa. Che altro devo dire?»
«Perché deve finire qui? È questo che non capisco.»
«Perché la vita non è un fine settimana romantico a Parigi.»
Non capivo. «Lo so, ma che significa?»
Ha risposto con una calma estrema: «Cosa credevi? Di incontrarmi dopo
più di vent’anni, passare due giorni insieme e che io mi buttassi tra le tue
braccia? Me lo hai detto tu che era tutto un gioco, e io ho giocato. Passare
due giorni insieme e iniziare una relazione sono due cose molto diverse.
Almeno per me».
Non capivo se facesse finta di non comprendere la situazione. Mi
sembrava di trovarmi davanti a un muro di gomma. Ero disperato e ho fatto
una mossa disperata: «Possiamo vederci per parlarne? Vengo io da te».
«Parlare di cosa?»
«Di noi, di come siamo stati e di come potremmo stare.»
«Ora devo andare. Domani torna mia figlia e ho mille cose da fare. Ci
sentiamo nei prossimi giorni.»
L’ho salutata. Non sono stato in grado di fare o dire altro.
27

«Non ho proprio capito dove ho sbagliato» ho detto a Ornella prima di


finire il mio bicchiere di Ribolla Gialla. «È stato tutto perfetto.» Lei e
Francesco mi ascoltavano con attenzione.
«Forse è proprio questo il motivo, magari si è spaventata» ha detto lui.
Lucia non mi sembrava il tipo di persona che scappa davanti alle cose belle.
«C’è stata qualche tensione?» ha chiesto lui.
Mi sono ricordato di quando Lucia mi aveva detto che il motivo per cui
non aveva funzionato tra noi erano piccoli difetti, e questa cosa aveva reso
tutto più difficile.
«E quali sarebbero questi difetti?» ha domandato Francesco.
«Non siamo arrivati lì perché abbiamo iniziato a fare l’amore.»
Ornella, aggiustandosi i capelli con la mano, ha detto: «A questo punto
cambierei il modo di fare l’amore, non devi essere un granché». È scoppiata
a ridere. Ho fatto una smorfia, non mi andava di scherzare.
«Quale donna sta come siamo stati e poi sparisce senza dire nulla?»
«Conosco molti uomini in grado di farlo» ha detto Ornella. «Sai forse
quale donna sarebbe rimasta dopo un weekend così?»
Mi sono voltato, aspettando la sua risposta. Ha aspirato una boccata di
fumo, il locale era vuoto e ogni tanto Francesco le permetteva di fumare
all’interno. «Una donna che non ti conosceva già.»
L’ho guardata senza capire.
«Avrà pensato che tu fossi ancora quello di una volta e che l’avresti
lasciata o fatta soffrire.»
Ero certo che Lucia avesse sentito che questa volta era tutto diverso.
Avrei potuto riferire a Ornella e Francesco quello che mi aveva detto nella
nostra ultima telefonata, ma era così assurdo e incomprensibile per me che
non avrei saputo come farlo.
28

Dopo qualche giorno Matilde mi ha chiesto se mi andava di accompagnarla


a comprare dell’abbigliamento nuovo per la palestra. Lucia abitava la mia
testa per la maggior parte della giornata, qualsiasi cosa potesse impedire
che rimanessi a casa da solo con i miei pensieri andava bene, anche fare
shopping.
Verso le cinque sono passato a prenderla al lavoro e siamo andati in
centro insieme. Mentre la guardavo scegliere un paio di leggings, ho capito
che quando sono con lei mi sento come se fossi in vacanza, come se fossi in
pausa dalla mia vita. Forse è per questo che non mi sono sentito in colpa per
il fine settimana con Lucia, perché la mia vita e il tempo con Matilde
scorrevano in due dimensioni temporali parallele, almeno nella mia testa.
Molti anni prima avevo avuto una storia di qualche mese con una donna
sposata. Si chiamava Diana. Diceva di amare il marito e di non essere in
crisi con lui, aveva solo un’infatuazione per me. Diceva che insieme a me
riusciva a essere un’altra donna, tutto quello che con il marito non poteva
più essere.
Una mattina, dopo aver fatto l’amore, ha confessato: «Lo so che quello
che sto facendo è sbagliato, ma non provo nessun senso di colpa, come se
fossi due donne allo stesso tempo». Sembrava una follia, eppure il modo in
cui l’aveva detto lo rendeva credibile. Lei ci credeva e ci credevo anch’io.
Diana era un Vespolino, speziato, fragrante, con una nota finale di pepe,
impossibile da confondere con un altro vino.
«Chi sono queste due donne?» ho chiesto.
«Una è quella efficiente, che fa funzionare tutto, l’altra è piena di
desideri, spontanea, ed è imprevedibile. Per questo mi fa paura, perché non
posso controllarla.» La ascoltavo in silenzio. «La cosa assurda è che mi
sento più intima con te che non con lui. Tu vedi una parte di me di cui mio
marito non sospetta nemmeno l’esistenza. Quando sono con te è come se il
resto della mia vita fosse una recita e il tempo che passiamo insieme reale.»
Non sempre capivo cosa volesse dire. «Quello che di me proteggo e difendo
dagli altri e dal mondo, tu hai la capacità di prendertelo con un solo
sguardo, Luca.»
A pensarci adesso erano le parole di Ornella: la cosa che le donne
desiderano di più è “essere guardate”. Credo che lei ne fosse l’esempio
perfetto.
Quello che provavo con Matilde era simile, era un altro me ad aver
passato il fine settimana a Parigi.
Alla cassa ho dato la mia carta di credito. Lei non voleva, alla fine l’ho
spuntata.
All’uscita ha incontrato degli amici, due ragazzi e due ragazze. Hanno
iniziato a chiacchierare, ho salutato e l’ho aspettata fuori. Ho scritto un
messaggio a Lucia e poi l’ho cancellato.
«Perché sei andato via?»
«Ho pensato che ti sentissi in imbarazzo.»
«Per cosa?»
«Per la mia età.»
Matilde mi ha guardato come se avessi detto una cosa assurda. «A volte
sei peggio di un bambino.»
Mi ha preso la mano e ci siamo incamminati verso casa. «Io non vivo per
gli altri, non mi importa cosa possono pensare.» Ha aspettato prima di
aggiungere: «Sei tu che ti vergogni di me. Sei tu che ti senti in imbarazzo».
«Non è vero» ho risposto.
Mi ha fissato negli occhi e ha sorriso. «Avrei voluto che vedessi la tua
faccia quando abbiamo incontrato la tua ex in quel negozio. Ti saresti
sotterrato… di’ la verità.»
Se ne era accorta e non mi aveva detto nulla.
Ho tentato una difesa blanda, ma lei non si è fermata: «Lo so che la mia
età ti imbarazza, lo capisco ogni volta che incontriamo qualcuno che
conosci. Quando usciamo a cena andiamo sempre in posti che non
frequenti, dove non conosci nessuno. In enoteca non mi hai mai portata.
Perfino la sera del funerale, quando mi sono offerta di raggiungerti, mi hai
rimbalzata. Quella volta mi sono proprio infastidita».
Quindi non era strana perché aveva intuito qualcosa. Era offesa perché
ancora, dopo tutto il tempo insieme, la tenevo fuori dalla mia vita.
Ero sorpreso, la sua consapevolezza andava ben oltre la mia. Era vero,
non ero a mio agio quando incontravo qualcuno che conoscevo perché mi
scocciava cadere in un cliché. Aveva ragione su tutto. Mi facevo troppo
paranoie, non sapevo vivermi le cose e soprattutto davo troppa importanza a
quello che le persone pensavano.
Quella sera si è fermata a dormire da me. Non abbiamo fatto l’amore,
non ne avevo voglia. Quando mi sono tirato indietro, scherzando, mi ha
chiesto: «Devi dirmi qualcosa?».
29

È squillato il telefono, non erano ancora le otto. Ho pensato fosse quello di


Matilde perché nessuno mi chiama a quell’ora. Sono andato in cucina per
non svegliarla.
«Luca, sono Salvatore.» Salvatore vive nell’appartamento di fronte a
quello di mia madre, è un ragazzo di Napoli. Quando lei cucina qualcosa di
buono, gli bussa alla porta e glielo porta. A lui fa piacere perché vive solo
ed è lontano dalla famiglia. Nei fine settimana le fa la spesa, è capitato
anche che le cambiasse la lampadina in cucina. Dopo che mia madre è
caduta in casa, gli ho dato una copia delle chiavi.
«È caduta di nuovo» mi ha detto. «Niente di grave, adesso sta bene, è qui
sul divano davanti a me.»
«Puoi passarmela?»
La prima cosa che mi ha detto è stata che avrebbe preferito avere un
figlio come Salvatore. Quando ho chiuso la conversazione mi sono trovato
in cucina, in mutande, completamente spaesato.
In mattinata ho chiamato il medico, l’ha voluta visitare il giorno
seguente. Dopo, siamo rimasti soli io e lui. «Sua madre sta benino, ed è
ancora relativamente giovane, ma non può più stare tutto il giorno da sola.
Di solito le alternative sono la badante o una casa di cura.»
Una volta con lei, ho affrontato subito il discorso, sarebbe stato inutile
aspettare.
«Io non voglio nessuno in casa mia e non voglio andare da nessuna
parte.» Ho cercato di spiegarle che avrebbe solo potuto rimandare quella
decisione di poco. «Non è vero. C’è una terza soluzione.»
L’ho guardata. Era decisa, seria: «Che tu torni a stare qui». Ho sospirato.
Tornare da lei sarebbe stata la mia tomba, mi sentivo in colpa a pensarlo,
ma era quello che sentivo. Ho optato per una piccola concessione: «Mi
fermo questa sera, però prima o poi dovremo pensare a una badante».
«Ma tu lo sai che ai miei tempi non c’erano le badanti, perché i figli si
prendevano cura dei genitori anziani? Ti ricordi che la nonna gli ultimi anni
viveva con noi? Se tu avessi una famiglia lo capirei, ma sei solo.»
Avrei voluto dirle un paio di parole ben assestate, ho preferito tenere
tutto dentro: «Vado a fare la spesa».
«L’ha già fatta Salvatore l’altro giorno.»
«È per me, mangiamo cose diverse.» Lei fa colazione con i biscotti,
come se avesse ancora cinque anni.
Non sono andato diretto al supermercato, ho fatto un giro largo, speravo
di incontrare Lucia. Era l’unica cosa che volevo in quel momento. Mi sono
spinto fino sotto casa sua ma di lei nessuna traccia, nemmeno la bici. Anche
il solo pensarla mi faceva sentire vivo in ogni mia cellula, mi faceva sentire
amato, apprezzato. Tutto il contrario di quello che provavo con mia madre,
mi voleva con lei, eppure non faceva niente per farmi capire che ero il
benvenuto. Quando le dicevo che sarei passato per pranzo, mi rispondeva
che non aveva niente nel frigorifero e che mi dovevo arrangiare. Non mi
cucinava mai qualcosa di speciale, solo per me.
All’ingresso del supermercato ho tirato un sospiro di sollievo, è un
ambiente che mi dà serenità. Mi sono accorto subito che avevano messo le
casse automatiche. Le uso perché mi fanno sentire giovane e quando ho
pagato tutto sono fiero di non aver dovuto chiamare l’assistente. Ho
comprato il necessario per la mia colazione e gli ingredienti per cucinarle il
suo piatto preferito: pasta con ragù e molto parmigiano grattugiato.
Quando sono rientrato, era seduta sul divano in vestaglia e guardava la
televisione.
Sul tavolo c’era un cesto con delle mele, ne ho presa una, l’ho sbucciata
e l’ho tagliata a spicchi. Gliel’ho offerta. «No grazie, aspetto la cena.»
Faceva ancora la sostenuta.
L’ho mangiata io, seduto in cucina da solo. Ero arrabbiato con lei. Era
caduta, si era fatta male e si era spaventata, non era certo il momento giusto
per essere arrabbiato, eppure non potevo farci nulla. Ho continuato a
masticare la mela, pieno di rabbia incomprensibile.
Osservavo la scatola di latta sulla credenza di fronte a me. Era sempre
stata lì da che ne avessi memoria, era uno di quegli oggetti che fanno parte
della famiglia, come il pentolino in cui mia madre scalda il latte. Sui lati
della scatola sono stampati dei biscotti grandi che ti fanno venire voglia di
immergerli in una scodella di latte caldo. Per tutta la vita ho desiderato
sapere che sapore avessero, non l’ho mai saputo perché lì dentro mia madre
ci teneva tutto quello che le serviva per cucire: aghi, fili, un uovo in legno
per rammendare le calze, delle forbicine, un ditale, un grosso pezzo di cera
dura per sbloccare le cerniere lampo.
Mentre masticavo, fissavo la scatola e, senza accorgermene, mi sono
ritrovato a sorridere. Quella scatola di biscotti era la metafora perfetta della
nostra famiglia. All’esterno, una promessa di felicità, amore, calore,
fragranza; all’interno era tutto un rammendare, riparare, aggiustare. Niente
gusto, sapori, gioia, piacere.
Sono andato in bagno, volevo lavarmi la faccia, sentire la sensazione
dell’acqua fredda sul viso. Davanti allo specchio, con la faccia bagnata, ho
pensato che in una famiglia normale un figlio che riporta a casa la mamma
dopo che è stata dal medico, dopo lo spavento di una caduta, resterebbe sul
divano a farle compagnia, chiacchierare, farla sentire meglio.
Noi invece uno di qui, l’altra di là.
Io e lei non ci siamo mai capiti. Quando mi parla, sento che parla a una
versione di me che ha nella sua testa. Siamo due perfetti sconosciuti.
Ho dato un’occhiata alla mia stanza da ragazzo, nel mezzo c’era lo
stendino con i suoi abiti asciutti. Li ho piegati e sistemati nella cassettiera in
camera sua. Ogni cosa mi parlava di lei, il modo in cui aveva riposto le
cose, in ordine, pulito, profumato. Nell’angolo di ogni cassetto un sapone
alla lavanda, un’abitudine che ha da sempre. Le pantofole accanto al letto, il
rosario sul comodino, appoggiato sul piattino di una tazzina da caffè.
Ero l’unico testimone della vita di mia madre. Che vita piccola, ho
pensato. Lei non ha mai lasciato spazio a nulla di più che all’essenziale.
Non alla gioia, non all’allegria, le risate con amici, una passione
coinvolgente che la spingesse a fare qualcosa senza senso, anche di ridicolo.
Niente. Per lei una cosa aveva valore solo se serviva. “Quel che conta non è
sempre e soltanto l’utilità delle cose, giacché c’è anche la bellezza” aveva
scritto Tolstoj. Ecco, lei era l’esatto contrario.
In cucina ho preparato la cena. A tavola abbiamo parlato poco, ho
cercato di tornare sui discorsi di prima per vedere se si fosse ammorbidita,
ho capito presto che era meglio rimandare.
Lavati i piatti, sono rimasto in cucina e ho lavorato con il computer.
Verso le nove e mezzo è andata a letto. Anche se era presto, mi sono accorto
di essere spossato, come se l’aria di quelle mura mi togliesse energie. Sono
andato a dormire anch’io.
La casa era silenziosa, avrei potuto essere solo. Era una sensazione che
avevo provato spesso con mia madre, fin da bambino. Quando mi
accompagnava a una festina di compleanno, non si fermava a chiacchierare
con le altre mamme, non scendeva neppure dall’auto; quando giocavo a
pallone, non faceva il tifo sugli spalti; quando mi facevo male in cortile,
non mi consolava né mi metteva un cerotto.
Io badavo a me stesso, me la cavavo per conto mio. Mio padre se ne era
andato di casa quando avevo quattro anni. Mia madre da quel giorno non
l’ha più nemmeno nominato, come se non fosse mai esistito. Se facevo
delle domande tagliava corto dicendo che era andato via e che non sarebbe
tornato, così ho imparato a non chiedere.
Sapevo che si erano conosciuti da ragazzi, dopo qualche uscita lei era
rimasta incinta e sua madre, mia nonna, l’aveva costretto a sposarla, una
storia come mille altre. Solo che mio padre appena aveva potuto si era
dileguato ed era diventato un fantasma. E, per certi versi, anche lei. Soffrivo
nel vedere la sedia vuota alle recite scolastiche, o al brindisi della maturità.
Non mi ha mai portato al cinema, a mangiare una pizza e nemmeno a una
gita fuori porta. Ho imparato subito che non dovevo aspettarmi molto da lei.
Viveva la sua vita e io, in maniera del tutto naturale, la mia. La presenza di
mia madre era un’assenza, anche se in un modo diverso, forse più doloroso.
Così sono andato a cercare altrove quello che da lei non avrei mai
ricevuto, ciò che mi mancava. Prima lo studio e poi il lavoro sono stati un
rifugio, lì trovavo il mio angolo di mondo dove provare gioia,
riconoscimento, soddisfazioni. Un angolo di mondo dove sentirmi voluto e
apprezzato.
Sono stato un inciampo nella sua vita, sono stato la sua catastrofe. Se
non fosse rimasta incinta, sarebbe stata una donna diversa. Forse avrebbe
avuto dei figli con un uomo che amava, una vera famiglia.
Chissà quante volte avrà immaginato una vita senza di me, così come io
immaginavo una vita con Lucia.
30

Ero fuori dalla scuola ad aspettare che finisse l’ora, come quando andavo a
prendere Gabriele.
La sera prima le avevo scritto, ero in città da mia madre e mi avrebbe
fatto piacere vederla per un caffè.
Aveva accettato.
A Parigi eravamo stati come due innamorati, tutto era filato liscio, poi lei
se n’era andata. Ora me ne stavo lì davanti e morivo dalla voglia di capire
cosa fosse successo. Ero convinto che avesse avuto paura, spaventata
dall’intensità del nostro incontro e dai cambiamenti che sarebbero seguiti.
Anche a me era capitato, con la California, e ancora pensavo a
quell’occasione mancata. Non le avrei permesso di fare lo stesso con noi
due. Dovevo solo prenderla per mano, rassicurarla e farle capire che stare
insieme era la nostra occasione di felicità. Aveva soltanto bisogno di sentirsi
al sicuro con me, non ero più il ragazzino di una volta.
La campanella ha suonato, ho avvertito lo stesso senso di liberazione di
quando ero studente. Dopo qualche minuto è uscita.
Quando mi ha visto mi ha sorriso e mi ha salutato con la mano.
«Speriamo non mi vedano i miei alunni, altrimenti poi mi prendono in giro»
ha detto con tono ironico.
«Puoi sempre dire che sono tuo fratello.»
Si è messa a ridere. «Ti va bene andare al bar qui vicino?»
«Quello della barista scontrosa?»
«Sì, così puoi scoprire chi vince tra lei e la tua panettiera parigina.»
Ci siamo incamminati. Non c’era nessun imbarazzo o tensione da parte
sua. La difficoltà era tutta mia, come se fossi io quello che se n’era andato.
Per non farle intuire il mio disagio, le ho chiesto come andavano le cose.
«È un periodo molto intenso al lavoro, ma è così ogni anno.» Quando
siamo arrivati al bar, prima di entrare con un cenno della testa mi ha
indicato la proprietaria, che era rivolta verso la macchina del caffè.
Abbiamo salutato e ci siamo seduti. Non ha risposto, ho pensato che non ci
avesse sentiti visto che il macinino del caffè era in funzione. Quando l’ho
detto a Lucia, mi ha indicato la porta del bagno, un foglio diceva: “guasto”.
La barista si è voltata e ci ha chiesto cose volessimo senza avvicinarsi al
tavolo.
Tutta la mia attenzione era focalizzata sul motivo per cui ero lì, sono
andato subito al punto: «Perché te ne sei andata così?», tanto che Lucia ne è
rimasta sorpresa.
Ha appoggiato la borsa su una sedia vuota. «So di aver sbagliato e mi
sono già scusata.»
Ho giocato la mia carta: «Non è che è stato tutto troppo, ti sei spaventata
e sei scappata?».
Senza nemmeno guardarmi ha detto: «Non credo».
Sembrava non dare importanza alla nostra conversazione, come poteva
non averci pensato in questi giorni e non avere una idea chiara di quello che
era accaduto? Ho appoggiato la mano sulla sua. «Guardami.»
In quel momento è arrivata la barista con i caffè, non mi toglieva lo
sguardo di dosso, tanto che ho pensato di aver fatto qualcosa di sbagliato.
Quando se ne è andata mi sono voltato di nuovo verso Lucia.
«Non è successo niente, Luca. Me ne sarei dovuta andare comunque più
tardi.» Non sembrava vedere l’assurdità del suo gesto.
«E il biglietto? Perché hai lasciato quel biglietto?»
Ha sorriso. «Mi sembrava un bel modo per salutarti.»
Dava un peso diverso a tutta la faccenda. «Ma tu non hai sentito quello
che ho sentito io? Cosa sono stato, una scopata nostalgica con l’ex?»
Mi ha guardato come si guarda un idiota, con commiserazione.
In modo calmo, ha cominciato dall’inizio: «Quando mi hai chiamato con
la storia dei biglietti e dell’auto, ho subito pensato che fosse una cazzata,
che fossi troppo grande per certe cose. I miei ultimi anni sono stati davvero
difficili, soffocanti. Alla fine mi sono detta: perché no? Una ventata di aria
fresca, una piccola follia. Come una gita scolastica, due tre giorni fuori da
tutto. Poteva essere un gioco divertente, e se dovevo giocare tu eri la
persona perfetta. Sei quello di passaggio, come eri tornato saresti andato
via. È così che fai».
Le ho preso di nuovo la mano. «Questa volta è diverso, voglio stare con
te.»
Mi ha sorriso come si sorride a un bambino. «Ho accettato di passare
quei giorni con te anche se era chiaro che eri la cosa sbagliata di cui avevo
bisogno.»
Sono scoppiato in una risata nervosa. «In che senso la cosa sbagliata?»
«Nel senso che non mi avrebbe portato da nessuna parte, se non a Parigi
per un fine settimana.»
Mentre cercavo delle parole per ribattere, è tornata la barista, continuava
a fissarmi, ho pensato perfino volesse attaccare briga. «Sei Luca?» mi ha
chiesto. L’ho guardata senza capire. «Non ti ricordi? Sono Adele,
abitavamo nello stesso condominio da bambini.» In un istante sul suo viso è
comparsa la mia amica d’infanzia del secondo piano.
«Adele! Come stai?» Mi sono alzato in piedi.
«Bene, a te non lo chiedo perché si vede.»
Lucia aveva la faccia più sorpresa della mia. Adele abitava proprio sotto
di noi, avevamo la stessa età e ogni pomeriggio dopo la scuola giocavamo
insieme, io, lei e suo fratello di un anno più piccolo.
«Non voglio disturbarvi» ha detto, «un giorno passa a trovarmi, io sono
qui.» Ed è tornata dietro il bancone.
La famosa barista scorbutica era stata la mia migliore amica fino all’età
delle elementari. Anche Lucia era divertita. Non sapevo più come
riprendere il filo del discorso. «Ho bisogno di fare due passi.» Volevo
pagare ma Adele non me l’ha permesso. L’ho ringraziata, ci ha salutato
augurandoci buona giornata.
Fuori, sul marciapiede, Lucia sorrideva. «È la prima volta che mi saluta
in tutti questi anni. Sicuramente è la prima volta che la vedo sorridere.»
«È sempre stata una bambina solare, buona, mi aiutava anche a fare i
compiti. Qualche anno fa suo fratello e suo marito tornavano dopo essere
stati a pescare e sono morti in un incidente stradale.»
Lucia ha cambiato espressione. «Spesso le persone scorbutiche o
maleducate sono solo persone ferite. È una cosa che so ma spesso me lo
dimentico.» Mi sono chiesto come una donna così sensibile non potesse
capire il mio disorientamento per la sua fuga.
Abbiamo camminato fino a un parco lì vicino e ci siamo seduti sotto un
bellissimo ippocastano.
«Mia nonna in autunno mi dava sempre una castagna matta da tenere in
tasca. Diceva che così non mi sarebbe venuto il raffreddore.»
«E funzionava?»
«Non mi ricordo.»
Siamo restati in silenzio. Intorno vedevo gli alberi, gli uccellini, le
persone che passeggiavano, i loro cani che annusavano ogni cosa, la luce
del sole sulle foglie. Non poteva succedere niente di brutto in mezzo a
quella meraviglia.
«Dove eravamo rimasti?» ho chiesto.
Lucia fissava il vuoto davanti a sé, come se stesse cercando cosa dire.
Poi ha parlato, con una voce bassa, quieta: «Quando mi sono separata ho
pensato che tutti i sacrifici che avevo fatto per costruire una famiglia
fossero stati inutili. Ho passato mesi amari, di grande frustrazione credendo
che quello fosse il mio più grande fallimento. Poi, con il tempo, ho capito
che, grazie a quei sacrifici e a tutte le difficoltà attraversate, avevo imparato
cose di me, e soprattutto quello che volevo dalla vita». Mi ha guardato.
«Sono stata bene con te a Parigi ma non è quello che cerco.»
«E quei due? Non li rivuoi indietro?»
«I due che siamo stati non esistono più. Siamo cambiati, per fortuna.»
«Io non sono cambiato.»
«Per questo, non posso farci nulla.»
Non era stata aggressiva o aspra. Aveva fatto scacco matto in poche
mosse, con la tranquillità di chi sa come muovere i pezzi.
Aveva deciso, ed era disarmante quanto fosse lucida, imperturbabile
nella sua risoluzione.
L’ho riaccompagnata a scuola. Ci siamo salutati in modo freddo, lei è
rientrata e io, col magone, ho guidato fino a Milano.
31

Sono andato dritto a casa, ho cenato e ho preso un sonnifero, non volevo


rischiare di passare ore a rimuginare con gli occhi al soffitto.
La mattina ho lavorato da casa al computer e per pranzo sono sceso in un
bar lì vicino, dove fanno ottimi panini.
Stavo seduto a fissare il vuoto e nella mia testa sentivo ancora la voce di
Lucia. Mi domandavo quale fosse la cosa giusta da fare, se davvero lasciar
perdere o se insistere. Magari mi stava mettendo alla prova, per vedere se ci
tenevo. A Parigi mi aveva raccontato che un giorno si era accorta che nel
suo matrimonio mancava qualcosa, che alla fine lei e il marito avevano
creduto a un’idea di famiglia stereotipata, come quelle che ci propinano nei
film o nelle pubblicità. Era così radicata che pensavano sarebbe arrivato
qualcosa di magico a sistemare tutto. «Poi un giorno, stai facendo la spesa
al supermercato, e ti accorgi che ti manca qualcosa. Non capisci subito
cosa, ma dopo lo realizzi. Non c’è nessuna magia, il tempo davanti è
sempre meno e le cose sono sempre le stesse. Mi sono resa conto che
eravamo dentro un quotidiano che non portava da nessuna parte. Alla fine
mi sono accorta che desideravo solo un nuovo inizio.»
Perché non potevo essere io quell’inizio?
Mentre affogavo nelle mie elucubrazioni, da un tavolo lì accanto un
uomo anziano mi stava osservando. Quando ho incrociato il suo sguardo,
l’ha distolto. Ogni volta che un uomo più grande mi rivolge la parola o mi
guarda penso subito che possa essere mio padre. Lo scrutavo senza dare
nell’occhio per cercare delle somiglianze, per capire se gli anni
combaciavano. Mio padre in quel momento avrebbe avuto ottantadue anni.
L’adolescenza è il periodo in cui mi è mancato di più. Volevo sapere di
lui e quando mia madre non mi rispondeva o taceva mi arrabbiavo. Avevo
bisogno di lui, anche di sapere che era dall’altra parte del mondo e si era
dimenticato di me. Tutto sarebbe stato meglio del silenzio.
Ho pensato che, anche se non lo conoscevo affatto, avrei potuto amare
quello sconosciuto come un padre.
Ho amato tutti i padri che ho incontrato nella mia vita, i professori a
scuola, Andrea l’allenatore di calcio, Silvano l’uomo che mi ha insegnato
tutto sul vino.
Ogni volta che ne incontravo uno, subito cercavo di ottenere il suo
affetto e soprattutto il suo riconoscimento. Se sono riuscito a ritagliarmi uno
spazio nel lavoro in un ambiente complicato e difficile come quello del
vino, credo che la ragione sia questa.
Si pensa che le persone abbiano successo perché hanno un talento,
qualcosa in più. Nel mio caso è stato l’opposto, a fare la differenza è stato
qualcosa in meno. Quello che mi è mancato mi ha dato la spinta che mi è
servita. Io sono il risultato delle mie mancanze. Il signore si è alzato e se ne
è andato, un altro padre che se ne va, ho pensato.
«Luca.» Mi sono voltato, era Viola, la sorella di Beatrice. Ci siamo
abbracciati, aveva un profumo di sandalo o incenso.
«Sei di passaggio o sei tornata a casa?» le ho chiesto.
«Sono tornata a casa… di passaggio» ha risposto ridendo. «E tu? Che ci
fai qui?»
«Abito qui sopra, sono sceso per un pranzo al volo.» Dietro le sue spalle
ho visto arrivare Beatrice. «Spunti all’improvviso e mi trovi sempre
impreparato.» Viola si è seduta al mio tavolo, Beatrice l’ha guardata ed è
rimasta in piedi. In quel momento è arrivata la piadina.
«Posso offrirvi qualcosa?» ho chiesto.
«Prendo anch’io qualcosa da mangiare» ha detto Viola.
Beatrice si è arresa, si è seduta accanto a sua sorella e ha ordinato
un’acqua frizzante, ghiaccio e limone.
Viola è andata in bagno, ci siamo ritrovati soli.
«Ti vedo bene» le ho detto.
Ha sorriso. «E tu?»
Mi sentivo impacciato, come se potesse leggermi nel pensiero. «Non è
un periodo facile.»
Non ha detto nulla, ha capito che non era una battuta.
«Come sta Gabriele?» le ho chiesto per cambiare discorso.
«È grande, iniziano ad andargli bene i miei maglioni.»
«Con suo padre come va?»
«Molto meglio. Marcello ha una nuova fidanzata, andiamo tutti
d’accordo. Pensa che adesso è lui a chiedermi se può prendere Gabriele.
Vanno a pesca, allo stadio, fine settimana in giro.»
Mi faceva piacere sentirlo. «E i tuoi?»
Ha sbuffato. «Un disastro.»
Ho temuto fosse morto qualcuno, poi lei ha subito aggiunto: «Si sono
lasciati».
«Ma quanti anni hanno?» Non era una domanda sensata, avrei dovuto
chiederle il motivo. Mi colpisce sentire storie di anziani che si separano, è
come se due persone corrono una maratona insieme e poi a pochi metri dal
traguardo decidono di ritirarsi. «Non è assurdo lasciarsi a questa età?» ho
chiesto.
Beatrice scuoteva la testa mentre sorrideva, come a sottolineare la
stranezza della situazione. Poi ha detto: «La cosa peggiore è il motivo».
Morivo dalla curiosità. «È andato a vivere con la sua segretaria.»
Sono rimasto pietrificato. «Ma chi? Luciana?»
Ha annuito. «Niente di più banale e scontato. Un vero cliché.»
Avevo sempre sostenuto che tra loro ci fosse qualcosa.
«Lo sapevamo tutti, anche mia madre, ma nessuno aveva pensato a un
finale così.»
«Come l’ha presa lei?»
«È andata in depressione. Prende psicofarmaci. Per questo mia sorella è
tornata, non riuscivo a starle dietro da sola.»
Siamo rimasti in silenzio. Ho pensato che Viola era tornata dalla Costa
Rica per assistere sua madre e io non andavo nemmeno a Parma per stare
vicino alla mia. Forse ero davvero un figlio orrendo.
Beatrice ha interrotto il filo dei miei pensieri: «A proposito di cliché,
come va con la ragazzina con cui ti ho visto quel giorno?».
Lo sapevo che me lo avrebbe chiesto. Sono arrossito. «È in ansia per la
maturità e la patente, a parte questo tutto bene.»
Siamo scoppiati a ridere. Era inutile cercare di difendermi, tanto valeva
scherzarci sopra. «E tu? Stai con qualcuno?»
«Non proprio.»
Non proprio voleva dire che qualcuno c’era, ho sentito un pizzico di
gelosia.
Quando Viola è tornata abbiamo pranzato tutti e tre insieme come vecchi
amici. Da fuori credo si percepisse un’abitudine, una familiarità.
Prima di salutarci, Beatrice mi ha detto che voleva comprare un
giradischi come il mio. D’impulso mi sono offerto di accompagnarla il
sabato mattina a un mercatino dove avrebbe potuto trovarne uno, e anche
dei vinili. Ha accettato. E così, senza nemmeno accorgermene, avevo un
appuntamento.
32

Mi aspettava un pranzo con Silvano. Capitava spesso di pranzare insieme,


era il modo migliore per parlare di lavoro, diceva. Avevamo affrontato
faccende amministrative, stavamo cambiando commercialista e il passaggio
era complicato, andava seguito da vicino. Tra il primo e il secondo, come se
fosse la prosecuzione di un discorso che avevamo fatto in precedenza, ha
detto: «Anche perché entro l’anno mi ritiro, sono arrivato al punto dove
sogno solo di fare delle lunghe passeggiate con Bricco».
L’ho guardato e ho posato il bicchiere. Anche lui se ne andava.
All’improvviso mi sono sentito come se avessi dodici anni, quando a inizio
stagione l’allenatore di calcio non si era presentato e ne era arrivato uno
nuovo. Non potevo crederci, non era nemmeno venuto a salutarmi. Era stato
un uomo importante per me, com’era possibile che io non fossi stato nulla
per lui? In quel momento, come allora con l’allenatore, ho pensato di aver
fatto qualcosa di sbagliato, di aver deluso in qualche maniera Silvano. Deve
essersene accorto perché subito ha detto: «Non fare quella faccia, mica ho
detto che sto morendo». Ha aspettato un momento prima di aggiungere:
«Anzi, se ci pensi avrò più tempo per i nostri pranzi». Ero pronto a fargli
cambiare idea con ogni mezzo, mi ha preceduto: «Pensavo che potresti
andare avanti tu al posto mio».
Faticavo a capire cosa intendesse. «Non ho i soldi per rilevare tutto.»
«E chi ti ha detto che voglio soldi?» Ero sempre più confuso. «Ti lascio
tutto e mi tengo una quota, giusto per avere un’entrata. Una buona quota.»
Ha sorriso. «Poi quando morirò sistemerò ogni cosa col testamento» ha
aggiunto ridendo. Anche se si era sposato due volte, non aveva figli.
Era un riconoscimento enorme. Alla tristezza per la sua decisione si
mescolava la felicità per la fiducia e la stima che mi stava dando.
«Non voglio che mi dai una risposta adesso. Voglio che ci pensi bene,
che valuti ogni aspetto. Non è uno scherzo prendere in mano tutta la
baracca.» Silvano era saggio, sentire la sua totale fiducia è stato qualcosa
che non scorderò mai.
Quella sera ho deciso di rimanere a casa solo, lo faccio sempre quando
ho un buon motivo per essere felice o uno cattivo per essere triste.
Preferisco restare solo, non riesco a condividere le emozioni forti con altri.
Ho aperto un Amarone della Valpolicella, quello con l’etichetta scritta a
mano, in onore di Silvano: un vino intenso, solido, pieno come era lui.
Seduto al tavolo della cucina, con il bicchiere pieno e la bottiglia aperta, ho
pensato che c’era una sola persona con cui avrei voluto brindare, mio padre.
Avrei voluto fargli sapere quello che mi era successo, dirgli che ero stato
così bravo da diventare il capo di me stesso, e poi gli avrei chiesto se era
fiero di me. Mi sono commosso immaginando la sua risposta e, a un certo
punto, forse anche per colpa del vino, ho pianto.
33

Ero andato a prenderla sotto casa in macchina. Non stavamo insieme in auto
da parecchio ormai.
Dopo aver parcheggiato vicino al mercatino, abbiamo bevuto un caffè in
piedi, per non fare troppo tardi. Una volta fuori, le ho chiesto se voleva
fumarsi una sigaretta, ricordavo che non amava fumare e camminare nello
stesso tempo.
«Non fumo più» mi ha risposto. Non mi era mai sembrata una di quei
fumatori con il desiderio di smettere, una delle sue risposte più ricorrenti
era: «So che fa male ma è un vizio che mi piace e che mi voglio tenere».
Camminavamo insieme verso il mercatino. «Ci sono altre novità?»
Con tono divertito ha detto: «Sono diventata una camminatrice».
Sembrava una bambina entusiasta di una scoperta recente. «Quando ho del
tempo libero vado a farmi una bella camminata.»
Non era mai stata sportiva, però camminare la faceva stare bene,
l’aiutava a chiarirsi le idee, a liberarsi dallo stress.
«Alla nostra età si comincia così poi si finisce con la bici da corsa» ho
detto.
Mi ha guardato per capire meglio.
«Non le vedi queste scie di ultracinquantenni con le tutine aderenti a
combattere l’invecchiamento a suon di pedalate?» Ha riso. «La verità» ho
continuato «è che la nostra età è veramente strana, non si capisce bene se si
è già vecchi o ancora giovani.»
«Sai cosa diceva Picasso? I cinquant’anni sono l’età in cui ci si sente
finalmente giovani, ma è troppo tardi.»
«Ma non diceva che erano i sessanta?»
Abbiamo riso. Non c’erano più tensioni tra noi, eravamo come due amici
che avevano superato le difficoltà di un tempo.
Dentro il mercatino abbiamo cominciato a passeggiare guardandoci in
giro. Ero davanti a una campana tibetana, mi piace molto il suono che
manda, ho alzato la testa per trovare Beatrice. Era sull’altro lato e stava
osservando un piccolo arazzo, mi sono avvicinato.
«Che dici? Non è il mio genere ma mi piacciono i colori.»
«È un tappetino?»
«Si può anche appendere.»
«E dove lo vorresti appendere?»
«Non lo so. In realtà non ho spazio. Però mi piace.»
«Magari un giorno compri una casa al mare e ti ritrovi piena di muri
vuoti da riempire. Il primo pensiero sarà: perché non ho preso quell’arazzo
al mercatino quel giorno?»
Ha sorriso e lo ha rimesso a posto.
Quando mi ha visto, Giovanni mi ha accolto con il solito sorriso bonario.
Ero suo cliente abituale, passavamo mattine intere a parlare di vinili,
incisioni, leggende sui musicisti. Era una persona a cui è facile voler bene,
il suo viso emanava onestà, bontà di cuore.
Aveva un giradischi perfetto per la casa di Beatrice, le casse però erano
troppo grosse. «In un paio di giorni vado a ritirarne un paio della misura
giusta, ve le porto a casa in settimana.»
Ci siamo guardati, nessuno dei due ha voluto specificare che non
stavamo insieme.
Dando un’occhiata veloce ai vinili, mi sono accorto che c’erano dischi
diversi dal solito, difficili da trovare. Giovanni mi ha detto che suo figlio
era stato a New York e aveva fatto scorta. Ne ho preso uno a cui non sono
riuscito a resistere, Ain’t That Good News di Sam Cooke, lo cercavo da
tempo e trovarmelo lì davanti, del tutto inaspettato, mi ha dato una piccola
scintilla di gioia.
Per me e Beatrice New York era una passione comune. Ci ero stato tre
volte, ma quando ci siamo andati insieme avevo potuto fare tutte le cose
romantiche che sognavo da tempo, cene nel Village con luci basse e lume di
candela, localini negli scantinati con musica dal vivo, passeggiate notturne
a Brooklyn con vista su Manhattan, colazioni nei diner dove l’odore di uova
e pancetta si mischia con quello di muffin appena sfornati e pancake.
Per ricreare la stessa atmosfera, la domenica ci piaceva andare in un
locale dove servivano il brunch newyorkese. Ormai eravamo diventati di
casa, Mario, il proprietario, ci riservava un tavolo appartato, senza che
glielo chiedessimo.
«Sei più stata da Mario?»
Beatrice mi ha guardato. «Avevo paura di incontrarti. E poi senza di te
aveva perso la sua attrattiva.» Abbiamo riso. «Perché non ci andiamo
adesso?» ha proposto. «Dovremo pure mangiare qualcosa.»
Lucia, Beatrice, per un istante mi sono domandato che cosa stesse
succedendo, perché stessi rivivendo il mio passato con loro, che senso
avesse. Poi, ho scacciato ogni pensiero e ho accettato.
Mario ci ha accolto come se ci fossimo visti la settimana prima.
Abbiamo ordinato e nell’attesa chiacchieravamo di cose piccole, stupide,
non c’era nessuna tensione seduttiva, sentivo di provare per lei un affetto
profondo.
Le ho chiesto come era stato il periodo dopo la nostra separazione. Mi ha
confessato che i primi tempi erano stati strani, anche sul lato pratico.
Quando si era ritrovata sola si era sentita lanciata in un mondo che non
conosceva più. Era impacciata. Si sentiva vecchia per rimettersi in gioco e
troppo giovane per chiudersi in casa. Allora si era sforzata di uscire ma poi,
quando era fuori, voleva solo tornarsene a casa. «Sai cos’è? Sono sempre
meno tollerante. Mi basta un niente per pensare: ma chi me lo fa fare?»
«Una volta scappavo da casa per andare alle feste, adesso scappo dalle
feste per tornare a casa» le ho detto citando una vecchia battuta.
Siamo scoppiati a ridere.
Si è voltata verso il cameriere per chiedere dell’acqua frizzante. L’ho
guardata, era ancora più bella, diversa ma non riuscivo a capire in cosa. A
parte i capelli più corti era sempre lei, e in realtà un’altra persona.
«Vuoi sentire una notizia bomba?»
Ho pensato subito che si stesse per sposare. Poi ho pensato che anch’io
avrei potuto condividere con lei la mia notizia bomba, la proposta di
Silvano. Ho preferito tenerla per me, volevo prima prendere la decisione
definitiva e comunicarla a lui. Ovviamente sarebbe stato un sì. Ho aspettato
che Beatrice parlasse.
«Ho perso l’ossessione per l’ordine.»
Ero scettico. «Non ci credo nemmeno se lo vedo.»
Ha riso.
«E come è successo?»
«Ho fatto una grande scoperta.»
Mi ha fatto aspettare tutto il tempo che le è servito per masticare un
boccone di avocado toast, poi si è pulita la bocca col tovagliolo e ha bevuto
un sorso d’acqua. «Non era una cosa mia.» Non capivo. «Era una fissazione
di mia madre che io per qualche ragione mi sono portata dietro. Realizzarlo
è stata una folgorazione. È successo grazie al mio analista.» Ero molto
colpito. «Non sai che senso di liberazione ho provato.»
Parlava con una leggerezza tale che anch’io mi sentivo sollevato.
«Non mi ero mai accorta di quanto mia madre fosse nelle mie frasi, in
certi modi di dire, convinzioni e soprattutto giudizi. Perfino alcune paure.
Viveva nella mia vita come un’edera sul tronco di una pianta. Ha fatto così
tanto parte di me che all’inizio è stato difficile capire dove fossi io in tutto
questo.»
Si è messa quasi a ridere, il suo viso aveva delle espressioni che non
avevo mai visto, sembrava ringiovanita.
«Un pezzo alla volta sono andata alla ricerca di tutto quello che non mi
apparteneva.»
Forse l’analisi avrebbe aiutato anche me, sono stato tentato di chiederle
il nome del suo analista.
«Ho capito anche cosa non ha funzionato con te.»
Sono rimasto in sospeso, ero curioso di sapere.
«Mi lamentavo di continuo delle tue mancanze, ero tutta sbilanciata su di
te e ho commesso l’errore più comune che può capitare in una relazione.»
Ha fatto una pausa per vedere se la seguivo. Aveva tutta la mia attenzione.
«Voler cambiare quello che non ci piace dell’altro.»
Sentirla ammettere questa cosa mi destabilizzava. Era riuscita a fare una
vera rivoluzione copernicana.
«Un’immagine in particolare mi ha aiutato molto a capire. Me l’ha
suggerita l’analista durante una seduta. Hai presente quando bevi il caffè al
bar e senza che te ne accorgi ti resta una piccola macchia sul naso? Finché
non sei davanti a uno specchio, non hai la più pallida idea di averla. Tu sei
stato il mio specchio, grazie a te io ho visto delle cose di me che non mi
piacevano. Solo che invece di pulirmi il viso mi sono ostinata a voler pulire
lo specchio.»
Sono rimasto senza parole, era davvero illuminante. Mi sono chiesto se
mi stesse succedendo lo stesso con Lucia, forse ero io ad aver paura. Ma di
cosa? Ero sempre più tentato di chiederle il numero dell’analista.
«Anch’io ho le mie colpe» ho detto, come se mi sentissi in dovere di
ristabilire un equilibrio e non essere da meno di lei.
«Direi più responsabilità.» Ha sorriso.
Ho ripensato al fatto che davanti a un confronto o una discussione con
lei ero sempre scappato. Sapevo che questo mio atteggiamento l’aveva
messa in difficoltà, si era sentita frustrata, ignorata, e anche poco amata. Mi
sono accorto in quel momento che la mia calma non era una manifestazione
di equilibrio o saggezza, era un modo crudele di evitarla, di tenerla a
distanza. Non ho avuto il coraggio di dirglielo.
«Ci prendiamo un altro mimosa?» ha chiesto, forse per rompere il
silenzio che si era creato. «O vuoi cambiare?»
«Ne abbiamo già bevuti due. Direi di andare avanti con quello.» Ha
sorriso di nuovo. Li ho ordinati al cameriere con un cenno della mano.
Beatrice ha proseguito: «C’è una cosa che ho odiato più di tutte».
Parlavamo apertamente di noi, senza nessuna rivendicazione. Eravamo
comprensivi, non essere più coinvolti ci permetteva chiarezza e lucidità,
fuori dalla nebbia in cui ci eravamo trovati.
«Spara.»
«Quando mi hai detto: “Beatrice, meriti di essere felice e se pensi che la
tua felicità sia altrove è giusto che tu vada”.» Ricordavo quelle parole, mi
ero sentito molto civile dicendole, evoluto.
«Eri un muro di gomma, non sapevo più cosa inventarmi per avere una
tua reazione. E invece incassavi tutto senza fare una piega.»
Ascoltandola si capiva che su questi argomenti aveva riflettuto a lungo.
O forse era solo l’effetto dei mimosa.
Ho pensato di chiederle perché non riuscivo a far funzionare le relazioni,
cosa c’era di sbagliato in me. Forse mi avrebbe aiutato con Lucia.
Quando l’ho fatto, ha cambiato espressione. «Per una cosa di questo
tipo» ha risposto «ho bisogno di un altro mimosa.» Ne ho ordinati altri due
al cameriere.
Ha aspettato prima di parlare, un tempo che sembrava le servisse per
riordinare le idee. Ha premesso che quello che mi avrebbe detto era solo il
suo punto di vista, qualcosa che aveva visto con chiarezza soltanto dopo la
nostra separazione. Con una sorta di pudore, che forse era più una
delicatezza nei miei confronti, ha detto: «Riattraversando tante situazioni
che abbiamo vissuto insieme, ho avuto la sensazione che tu fossi guidato da
un motore, che è più forte di tutti gli altri, a volte anche dell’amore». Ero
completamente assorbito dalle sue parole. «Il bisogno di sentirti speciale, di
ricevere sguardi ammirati, grati, di sentirti dire che sei bravo, e buono.
Ecco, per ottenerlo, per compiacere chi hai intorno, sei capace di mettere in
scena anche cose che non senti davvero, sei capace di costruire grandi
teatrini, ma poi, quando si tratta di mettersi davvero in gioco, non ci sei. È
come se tirassi una pallina contro un muro e non affrontassi mai un
avversario reale.»
Lì per lì, d’istinto, ho pensato che Beatrice avesse preso un abbaglio,
forse si sentiva ancora ferita per ciò che era successo tra noi e quello era il
suo modo di prendersi una piccola rivincita. Ma no, lei non era così
meschina, mi aveva parlato con sincerità, solo che in quel momento ero
troppo sulla difensiva e le sue parole erano per me impossibili da accettare.
Le avrei comprese tempo dopo, quando mi si sarebbero stampate nella testa,
come accade con le cose vere.
Eravamo un po’ brilli, e pieni di cibo. Le ho proposto di uscire e fare due
passi. Non abbiamo più parlato di noi, la connessione che avevamo a tavola
era svanita. Ci tenevo però a dire ancora qualcosa, mi sembrava che
mancasse una chiusura: «È stato faticoso lasciarci, non era semplice
separarsi dal passato vissuto insieme».
Mi ha guardato, ha sorriso. «Per me la cosa più dura non era rinunciare
al passato, ma al futuro che mi ero immaginata con te.»
Una chiamata dal suo amico speciale ci ha interrotti. Lei ha risposto con
entusiasmo, gli ha raccontato che era ancora con me, che aveva trovato un
bel giradischi e che avevamo pranzato insieme. Non gli aveva mentito e
questo fatto mi ha reso chiaro che per lei ero davvero solo un vecchio
amico, niente di diverso, perciò non aveva ragione di tenermi nascosto agli
occhi di lui.
Quando l’ho accompagnata, l’ho aiutata a portare il giradischi in casa,
era strano essere di nuovo lì. Tutto sembrava uguale, all’ingresso c’era
ancora la fotografia che avevo scattato a lei e Gabriele sul bateau-mouche.
Aveva sempre la radio in legno che avevamo comprato insieme anni
prima. «Posso collegarci il giradischi così puoi usarlo in attesa che ti
portino le casse.» Non sapeva di cosa stessi parlando. «Faccio io.»
Non ci è voluto molto. Alla fine ho preso il mio nuovo vinile e l’ho fatto
suonare per la casa, A Change Is Gonna Come cantata da Sam Cooke
riempiva la stanza. «Speravo andasse diversamente tra noi» le ho detto.
Era sorpresa, ho temuto che le mie parole l’avessero messa a disagio.
Invece ha detto: «Il dolore che ho provato per la nostra separazione ha rotto
le mie resistenze, ogni difesa. Mi ha cambiata. Perciò sono grata per ogni
minuto passato con te».
Era un addio definitivo, mi stava dicendo che non ci sarebbe mai stata
una minima possibilità per noi.
«Vorrei che tenessi questo vinile.»
Ha scosso la testa. «Non posso, eri così felice quando l’hai trovato da
Giovanni.»
«Ti prego, tienilo.» All’improvviso avevo voglia di piangere, se ne deve
essere accorta, perché mi ha abbracciato, mi ha accarezzato il viso e mi ha
dato un bacio sulla bocca, un bacio piccolo, quasi uno sfioramento. Ho
chiuso gli occhi un istante, per farlo dilatare tanto da sembrare un’eternità.
Ho sentito l’impulso di stringerla, portarla a letto e rimanere con lei, non
per fare l’amore, per sentire il calore della sua pelle, del suo corpo sul mio.
Ho desiderato che non ci fossimo lasciati, ho desiderato vivere ancora lì con
lei. Rivolevo la nostra vita insieme.
Ho aperto gli occhi, i suoi erano lì ad aspettarmi.
In quell’istante, l’uno di fronte all’altra, abbiamo sentito la voragine che
ci separava. Quello che c’era stato tra noi era un ricordo lontano e tutti i
nodi che ci avevano tenuti insieme si erano sciolti.
Non c’era spazio per nessun dubbio e nessuna nostalgia. Sono andato
verso la porta, lei mi ha accompagnato in silenzio finché non l’ho chiusa
dietro di me. Il rumore mi è risuonato nella testa per ore.
34

«Domenica dovete venire a pranzo da me.»


Così ci aveva intimato Ornella qualche giorno prima.
«Il vino lo porto io» aveva detto Francesco, sapeva che così mi sarei
dovuto inventare qualcosa, una torta, un libro, dei fiori. Mi aveva rubato la
scelta del vino perché era la più facile.
Ho comprato del gelato e un’orchidea, poi sono passato a prenderlo.
Mentre guidavo gli ho raccontato del sabato con Beatrice: «Chissà come
mai mi sta capitando di rivivere queste situazioni con le mie ex».
Mentre sistemava la pianta tra i piedi ha detto: «Quando una persona
guarda il suo passato significa che c’è qualcosa nel suo futuro che non
vuole vedere o che la spaventa». Poi ha allacciato la cintura. «Non è detto
però che sia il tuo caso.»
Francesco aveva avuto una relazione per otto anni, sette di convivenza.
Non ne ha mai parlato molto, credo sia finita con un tradimento. La
fidanzata se n’era andata con un altro. Lui aveva sofferto.
«Ma tu che non hai una relazione da anni» ho chiesto «sei felice?»
«Ma va’» mi ha risposto secco.
«Come mai non sei più stato con nessuna?»
«Non mi ha mai interessato.»
«Ma ti piacerebbe?»
«Non lo cerco, se capita va bene.»
Voltandosi verso il finestrino ha bofonchiato: «Le donne, non si può
stare con, non si può stare senza».
Ornella ci ha accolto con una vestaglia elegante, truccata e pettinata
perfettamente, raggiante.
Ero già stato da lei, la casa era piena di foto sue, una specie di culto della
personalità, piena di quadri, suppellettili, argenteria, mille cuscini ovunque,
su una mensola c’erano persino trenta boccettine di sabbia raccolta nelle
spiagge di tutto il mondo. Non c’era uno spazio vuoto. Per me, che amo
circondarmi di poco, un’esperienza soffocante. Avrei voluto aprire subito le
finestre.
In casa suonava musica classica, come sempre. La accendeva appena
sveglia e la teneva tutto il giorno.
Io e Francesco avevamo immaginato che Ornella ci avesse invitato
perché aveva bisogno di aiuto per qualche lavoretto. Era capitato in passato
di doverle sistemare delle cose, fare un buco nel muro per appendere un
quadro o sincronizzare i canali del televisore nuovo.
Ci ha servito dello champagne, abbiamo brindato. Dopo il primo sorso è
diventata seria. «È successa una cosa grave, vi prego di non giudicarmi.» Ci
ha fatto un cenno con la mano. «Venite con me.» L’abbiamo seguita fino al
ripostiglio, dove ci ha mostrato uno scatolone.
«Cos’è?» ha chiesto Francesco.
«Una scarpiera da montare.»
Ci siamo guardati.
«Il mio vecchio falegname non c’è più e dell’unica misura giusta c’era
questo. È il primo mobile dell’Ikea che entra in casa mia. Un vero
fallimento.» Siamo scoppiati a ridere. Non capivamo se fosse una delle sue
scene da attrice. Con lei è così, non si sa mai se stia scherzando o sia seria.
Naviga sempre su un confine sottile.
«Montiamola subito» ha detto Francesco. In due non avrebbe richiesto
molto tempo.
Ornella, seduta su una sedia, ci intratteneva: «Ieri sera ho scoperto che
quando morirò andrò in paradiso».
Io e Francesco ci siamo scambiati un’altra occhiata.
«Ho visto un documentario sugli antichi Egizi, secondo loro per andare
in paradiso bisognava poter rispondere sì a due semplici domande.»
La cosa si stava facendo interessante e lei ha cambiato discorso. «Vi fa
paura morire?» ci ha chiesto.
Francesco ha risposto mentre girava una brugola: «Non mi fa paura, mi
scoccia, perché mi piace stare qui. E a te?».
Ornella ha appoggiato la sua coppa di champagne. «A me non dispiace
la morte, tanto non sarò più qui. Mi dispiace quando muoiono le cose belle
che hai, un rapporto, un amore, un’amicizia, un progetto, un entusiasmo,
una leggerezza, un’allegria. Questo è il tipo di morte che mi fa male e che
ho sempre temuto di più. Guardare una persona che prima adoravi e
all’improvviso fatichi a sopportare.»
Quel discorso mi metteva a disagio. «Ragazzi» ho detto, «state
prendendo un’altra direzione. Prima io vorrei sapere quali sono le due
domande.»
In quel momento è suonato il campanello. «È arrivato il pranzo» ha
trillato Ornella.
«Non cuciniamo noi?» ha chiesto Francesco.
«È domenica, nessuno di noi deve lavorare» ha risposto lei mentre
andava alla porta. Ci siamo guardati sudati di fronte al libretto delle
istruzioni. Abbiamo riso.
Ha portato le buste in cucina. «Pollo con patate al forno, verdure saltate
in padella e altri piccoli stuzzichini.»
Quando è tornata la scarpiera era montata. «Ma che velocità.» La
osservava in silenzio. «Non è così male. Ma resta comunque nello stanzino.
Siete due angeli.»
In cucina, Ornella era di schiena e stava trafficando dentro un cassetto, si
è voltata verso di noi, tra le mani teneva una scatolina di latta, simile a
quelle che usa mia madre per le medicine. «Vi propongo di fare una cosa
insieme, perché da sola non me la sento.»
«Una seduta spiritica?» ha chiesto Francesco.
«Più o meno» ha risposto aprendo la scatolina. Dentro c’erano delle
caramelle. «Me le ha appena portate mia nipote dalla California, sono
quelle che fanno ridere. Da sola non mi fido a prenderle. Con voi sto più
serena.»
Ci siamo guardati, sorpresi. A quanto pare a Venice Beach c’era un
negozio che vendeva cioccolatini e caramelle. Ciascun tipo dava un effetto
diverso: introspezione, creatività, sonno, ilarità.
«Ma meglio prenderle prima di mangiare così l’effetto è più intenso. Mi
ha detto che si ride a crepapelle.» Era tutto assurdo, ma lei lo rendeva
normale.
Abbiamo preso due caramelle a testa, poi ci siamo seduti a chiacchierare
e abbiamo aspettato.
Tra le foto appese, ce n’era una con lei da giovane insieme a una
ragazza, in mezzo a loro un indiano. Tutti indossavano abiti locali.
«Questo era il tuo periodo “figli dei fiori”?» le ho chiesto.
Ha sorriso. «Avevo accompagnato la mia amica Valeria, una fricchettona
che voleva incontrare questo guru. Sono rimasta due mesi nell’ashram.»
L’amica era una grande fan dei Beatles e quando avevano manifestato la
loro devozione a Maharishi, li aveva voluti seguire anche in quello, come
molti altri giovani. Ornella si era appena lasciata con uno dei suoi mariti e
aveva pensato che cambiare aria le avrebbe fatto bene.
«Hai raggiunto l’illuminazione in quei due mesi?» le ha chiesto
Francesco.
«Ma va’!», e ha accompagnato la risposta con un gesto della mano. «Le
persone svenivano, perdevano i sensi, piangevano di gioia. Io niente, nada,
nisba.» Ha proseguito: «Valeria mi diceva che perché accadano certe cose
bisogna essere pronti. E io non lo ero». Poi ha messo su una finta aria
solenne. «Come diceva il guru: “Quando l’allievo è pronto il maestro
appare”.»
Non sapevo se fosse per le caramelle, la cosa cominciava a interessarmi.
«E a te alla fine è apparso?»
«Il maestro non lo so, mi è apparso un bel ragazzotto che mi ha
“illuminato” per un paio di settimane.»
Siamo scoppiati a ridere.
Alla fine siamo rimasti seduti a osservare le fotografie in silenzio. Le ho
chiesto di indicarmi chi era il pubblicitario, quello che la faceva sentire
nuda con uno sguardo. Ce l’ha mostrato e poi ci ha mostrato anche i tre
mariti, tutti stavano in bella posa sullo stesso mobile, in ordine cronologico.
«Anche lui l’ho amato tantissimo e mi sono sentita amata tantissimo, ma
non ero felice» ha detto prendendo tra le mani la foto del primo.
«Come è possibile amare, essere amati e non essere felici?» Mi
sembrava un’enorme contraddizione.
«Perché certi amori non sono fatti per renderti felice.»
Io e Francesco abbiamo accolto in silenzio il suo aforisma, senza
replicare. Poi le ho chiesto: «Che esperienza è sposarsi più volte? Ogni
volta pensi che sia quello giusto e invece scopri che non era così?».
«Se tornassi indietro li risposerei tutti e tre perché io sono fatta così,
credo fino in fondo alle cose. Non potrei mai fare come fai tu.»
L’ho guardata. «Spiegati meglio.»
Ha riposto la cornice sul mobile, al suo posto. «Tu sei come quelle
giostre che girano e girano ma alla fine sono sempre nello stesso punto.
Non ti metti mai veramente in gioco, tu fai solo del gran cinema e basta.
Passi di storia in storia ma sei sempre uguale.»
Devo aver fatto una faccia sorpresa perché Francesco è scoppiato a
ridere. «Hai poco da ridere» gli ha detto. «Tu nemmeno ci sali più sulla
giostra perché ti hanno spezzato il cuoricino. Hai proprio un’anima da
ingegnere.» Poi è tornata su di me: «Prendi Lucia per esempio, ti piangi
addosso tutto il tempo, sei molle e lamentoso». Non avevo ben chiaro se
fossero le caramelle, Ornella sembrava più diretta e senza filtri del solito.
«Tu cos’è che vuoi?»
«Voglio stare con lei» ho risposto senza esitare, sperando di non
sembrare molle e lamentoso.
«Bene, vai a prendertela, o per lo meno provaci. Da vecchi si sopportano
di più i rimorsi dei rimpianti. Almeno così mi ha detto un’amica anziana.»
Non sono riuscito a sorridere della battuta, ero ripiombato dentro uno
stato di ansia.
Ornella lo aveva capito. «Vedi, il tuo problema è che ti stai facendo
portare in giro dalle tue paure. Calmati. Rilassati. Ricordati che sopra
ognuno di noi esiste uno sguardo benevolo.»
Non mi aspettavo che Ornella fosse religiosa, l’ho guardata incredulo.
«Mi sa che le caramelle hanno iniziato a fare effetto.»
Francesco rideva. Lei ha finito la bottiglia di champagne rabboccando i
bicchieri di ciascuno. «A questo proposito vi racconto una storia.»
Quando il suo ultimo marito era in ospedale in fin di vita, lei era
distrutta. «Ero stata sola molte volte nella mia vita, anche in situazioni più
difficili, ma quella volta ero terrorizzata. La mente è il nostro peggior
nemico, ci convince di cose che poi nella realtà non esistono.»
Passava le giornate a vegliarlo, temendo il tempo che l’aspettava dopo la
sua morte. «Ero così disperata che per la prima volta in vita mia ho chiesto
aiuto al Padreterno. Dio, dammi un segno della tua esistenza.»
«Hai visto una luce? Hai avvertito una presenza?» le ha chiesto
Francesco.
«Meglio, molto meglio.»
Ero invidioso, perché ricevere un segno era sempre stato il sogno della
mia vita, visto che mia nonna non aveva mantenuto la parola, magari poteva
farlo direttamente Dio.
Ornella si è alzata. «Arrivo subito» ha detto andando in cucina.
«Senti qualcosa?» mi ha chiesto Francesco riferendosi alle caramelle.
«No, so che quando mangi qualcosa con il thc l’effetto arriva molto dopo
rispetto a quando lo fumi.»
«Ecco, perché io non sento niente.»
Ornella è tornata con una scodellina piena di pistacchi salati. «Dieci
minuti e apparecchio. Intanto ho acceso il forno così scaldiamo tutto bene.
Cosa stavo dicendo?» ha chiesto.
«Stavi raccontando di Dio che ti ha parlato» l’ho incalzata.
«Ah sì, giusto. Ero tutta presa dalla mia mente, mi ripetevo che non ce
l’avrei fatta, che la vita era ingiusta e perché doveva capitare proprio a me,
cosa avevo fatto di male per meritarmi tutto questo, Dio ti prego dammi un
segno… un secondo dopo mio marito moribondo, da sotto le lenzuola, ha
fatto uscire un suono lunghissimo, come una trombetta.»
«Cioè, scusa, ha fatto una puzzetta?» le ho chiesto.
«Infinita, sarà durata dieci secondi.»
Io e Francesco ci siamo guardati, nessuno dei due si aspettava che il
segno potesse essere quello.
«Ho iniziato a ridere da sola, è stato come se mi fossi risvegliata da
un’ipnosi, da un incantesimo negativo. È stato così liberatorio che in un
secondo sono tornata quella di sempre, forte e sicura di me.»
Siamo scoppiati a ridere, tenevo una mano davanti alla bocca per paura
di sputare i pistacchi.
Sempre ridendo, ci siamo spostati in cucina per preparare la tavola e
impiattare il cibo. Abbiamo cominciato un discorso su come capire quando
una persona è giusta per noi. Lei sosteneva che la domanda fosse sbagliata:
«Una relazione ha senso se la persona con cui stai ti aiuta a tirar fuori la
versione migliore di te, ti offre la tua bellezza e tu le offri la sua. Se non è
così, meglio stare soli». Ha preso la teglia con le patate per distribuirle nei
piatti e ha aggiunto: «Gran parte del nostro dolore e delle nostre
insoddisfazioni vengono quando non avviene questo, quando sentiamo che
dentro di noi c’è una bellezza che non si è realizzata».
Da lì si è inerpicata su un ragionamento macchinoso, a tratti
incomprensibile. Non riuscivo più a seguirla. Dopo ho sentito una vampata
di calore su tutta la faccia. Eccolo, mi sono detto pensando alle caramelle.
Mi sono voltato verso Francesco e abbiamo cominciato a ridere. «Non si
capisce un cazzo, Ornella, sei completamente fuori» le ha detto. Anche lei è
scoppiata a ridere. Siamo andati avanti mezz’ora almeno, senza riuscire a
mangiare. Mi facevano male gli addominali e non ce la facevo più.
Poi, per fortuna, l’effetto è andato scemando. A tavola ancora ridevamo,
di tanto in tanto. Provavo una sensazione piacevole, come se mi fossi
liberato di tante piccole tensioni. Ero rilassato e al tempo stesso spossato.
Dopo pranzo Francesco è andato a casa, io sono rimasto con Ornella
ancora un po’.
Mentre scendevo le scale, mi è venuta in mente una cosa e sono tornato
indietro: «Quali sono le due domande degli antichi Egizi alle quali se
rispondi sì hai accesso al paradiso?».
Ha sorriso, lentamente ha scandito: «“Hai provato gioia nella vita?” “Hai
portato gioia nella vita?”».
Sono rimasto immobile per qualche secondo, pensando in tutta onestà
cosa avrei potuto rispondere.
«Io ho due grandi sì» ha detto Ornella.
Ho sorriso anch’io. «È più la gioia che hai provato o quella che hai
portato?»
«Per me sono la stessa cosa.»
35

Nella confusione in cui ero piombato, vedevo Matilde come una boccata
d’aria, la possibilità di trovare un po’ di spensieratezza. Le ho scritto prima
di cena per invitarla da me, quella sera doveva andare a casa di un amico
con altre persone.
«Non puoi dare buca e venire qui?» Avevo un bisogno fisico di lei,
volevo sentirmi desiderato.
«Non posso, l’abbiamo organizzata da giorni.»
L’ho chiamata per essere più persuasivo, ma non ci sono riuscito, non c’è
stato davvero niente da fare. Mi sono innervosito, non capivo come fosse
possibile che considerasse quella cena più importante di vedere me. Le ho
riscritto: “Allora ti aspetto dopo cena”.
“Finiremo tardi.”
Più rilanciavo, più ricevevo rifiuti. Ormai era diventata una questione di
principio, una specie di stupida competizione.
“Non importa, vieni lo stesso.”
“Non mi va di tenerti sveglio. Facciamo un’altra volta.”
“Io ti aspetto.”
A quell’ultimo messaggio non ha risposto, ha lasciato la conversazione
sospesa.
A casa, da solo, mi sentivo un animale in gabbia. Ho cominciato a
pensare che il motivo per cui aveva rifiutato ogni mia proposta era che fosse
con un altro.
Verso le dieci le ho scritto di nuovo: “Come va? Ti stai divertendo?”.
Sono rimasto col telefono in mano ad aspettare che lo leggesse e
rispondesse. E invece niente.
Capitava che iniziassimo uno scambio di messaggi e poi lei, nel mezzo
della conversazione, scomparisse. Diceva che era con altre persone, iniziava
a parlare e si distraeva, si dimenticava di rispondermi. Anche in quelle
situazioni provavo piccole gelosie, gli altri erano più importanti di me, io
non ero in cima alle sue attenzioni.
All’una mi ha scritto. Ero sveglio e incazzato.
“Avevo il telefono in borsa perché eravamo a tavola. Tra un’oretta vado
a casa. Ci vediamo un’altra volta.”
“Scrivimi quando stai per andare a casa.”
Poi è sparita di nuovo. Ormai ero sicuro che fosse con un altro. Ho
iniziato ad affogare nel vortice di pensieri negativi, non mi sarei
addormentato nemmeno con una scatola di sonniferi. Ero acceso più che
mai.
Alle due e mezzo mi ha scritto, subito l’ho chiamata.
Ha risposto, era per strada, nel silenzio della notte sentivo il rumore dei
suoi tacchi sul marciapiede.
«Vieni da me, dài, ho bisogno di stare con te, ho bisogno di vederti.»
«Sono stanca morta, Luca, devo appoggiare la testa su un cuscino.»
«Appoggiala sul mio.»
«Sono già vicino a casa, vengo domani.»
Ho insistito ancora, ma mi sentivo patetico e l’ho salutata. Ho lanciato il
telefono sul letto e mi sono passato le mani sulla testa. Dalla bocca mi è
uscito un piccolo urlo soffocato di rabbia e frustrazione.
Ho desiderato richiamarla per dirle che mi aveva ferito e non meritava di
stare con me. Non l’ho fatto.
Devo lasciarla, ho pensato, non ha senso alla mia età vivere queste cose.
Sono un uomo, cazzo, non sono più un ragazzino.
Sapevo che questa relazione non mi avrebbe portato da nessuna parte e
che tirava fuori una parte di me infantile e immatura. Non ci riuscivo, se
l’avessi persa non avrei più trovato una ragazza così bella e giovane. Lei era
il mio ultimo giro di giostra.
Un giro molto impegnativo, anche sessualmente. Quando si fermava da
me tutto il fine settimana, non le bastava farlo una volta sola. Si
avvinghiava, mi cercava, infilava la sua mano dentro i pantaloni della tuta.
A volte me li abbassava e mi cercava con la bocca.
Per soddisfarla mi ero fatto dare da un amico delle piccole strisce simili
a un chewin gum, da sciogliere sotto il palato. Dopo qualche minuto avevo
un’erezione simile a quella di un venticinquenne. Volevo averlo duro come i
suoi coetanei e mi stavo intossicando con quella roba. Quando ti abitui a
un’erezione del genere, è difficile tornare indietro.
36

Non sapevo proprio come l’avrebbe presa, la probabilità che avessi fatto
una cazzata era altissima. Un’improvvisata, di nuovo fuori da scuola. Lei
era stata chiara, la storia era finita con Parigi, ma io ero sicuro che l’avrei
convinta. Non potevo permettermi di perderla per la seconda volta, anche
Ornella mi aveva detto che dovevo provarci, se davvero ci tenevo, che
sarebbe stato meglio avere un rimpianto piuttosto che un rimorso.
Lucia aveva la capacità di alleggerire le mie insicurezze, le ansie, le
indecisioni. Matilde faceva l’opposto, le faceva esplodere. Quello che era
accaduto qualche giorno prima ne era stato la dimostrazione, ora desideravo
Lucia ancora di più.
Mentre aspettavo in piedi, fuori dal cancello, pensavo che forse Lucia si
era fatta scoraggiare dall’eventualità di una relazione a distanza, nel timore
che prima o poi uno dei due avrebbe dovuto avvicinarsi. A Parma, dopo la
separazione, aveva trovato la sua dimensione e forse non aveva nessuna
voglia di rinunciarci. Sicuramente non avrebbe mai rinunciato al suo lavoro,
lo aveva già fatto una volta dopo la gravidanza ed era stato un disastro, una
sofferenza che ancora ricordava.
Forse invece l’ostacolo era la considerazione che aveva di me. A Parigi,
quando le avevo detto che da ragazzo ero innamorato pazzo di lei, aveva
scosso la testa sorridendo: «Eri innamorato di un’idea di noi, dei tuoi grandi
gesti, dei tuoi fuochi d’artificio. A me non servivano i fuochi d’artificio, mi
bastavi tu».
Ero assolutamente convinto che non fosse così, o che comunque non lo
era più. Dovevo solo convincere anche lei.
Il suono della campanella mi ha fatto tremare, di lì a poco sarebbe uscita.
Dopo una decina di minuti, i più lunghi che ricordi, è apparsa sul portone,
mischiata a una folla di adolescenti.
Appena mi ha visto è rimasta impassibile. Si è avvicinata e con tono
fermo ha detto: «Vieni con me».
Camminava con passo deciso, io le stavo appena dietro. Non riuscivo a
interpretare la sua reazione, non era infuriata e non era nemmeno contenta.
Ci siamo fermati davanti al cartello di divieto di sosta a cui aveva legato la
bici. Si è chinata per slegare la catena.
«Buongiorno prof» hanno detto dei ragazzi che ci sono passati accanto.
Lei ha sorriso in modo poco naturale.
Ha spinto a mano la bici fin dietro l’angolo, in una zona più tranquilla, io
la seguivo in silenzio. È entrata nell’androne di un vecchio, elegante
palazzo, con un giardino interno dove spiccavano una fontana in marmo e
un enorme albero. Ho pensato fosse un posto che conosceva bene, magari ci
abitava una sua amica. A quel punto, sempre con le mani sul manubrio, ha
rivolto lo sguardo verso di me. «Devi smetterla di cercarmi, non c’è
nient’altro che possiamo dirci, questa cosa deve finire. Soprattutto non
presentarti mai più senza preavviso.» Non era arrabbiata, aveva
un’espressione calma e determinata, come se cercasse di assicurarsi che
avessi capito le sue parole. Mi fissava negli occhi e non sembrava più la
stessa donna con cui ero stato a Parigi. Forse si è accorta di essere stata
troppo dura, con un tono più morbido ha aggiunto: «Non voglio litigare con
te, Luca, non voglio rovinare i bei ricordi. Però la situazione ti sta
sfuggendo di mano».
Ho abbassato la testa: «Mi dispiace». Mi ha guardato come si guarda un
bambino che fa sempre lo stesso sbaglio, un misto di tenerezza e
rimprovero, poi ha girato la bici per uscire. Le ho preso un braccio. «A
Parigi, tra di noi, non è stato amore?»
Dalle scale del palazzo è sceso un uomo in giacca e cravatta, parlava al
telefono e la sua voce rimbombava nell’androne. Ci ha fissati un istante, poi
è passato oltre.
Da lì in avanti ricordo poco. Ricordo di aver farfugliato qualcosa sul
fatto che ero disposto a trasferirmi a Parma per lei, anche se mia madre me
l’avrebbe rinfacciato fino alla fine dei suoi giorni. Ricordo di averle detto
che ero cambiato, non doveva avere paura, non avrei più commesso gli
stessi errori. Mentre parlavo mi rendevo conto di dire cose assurde, e più
cercavo di recuperare più peggioravo la situazione. Ero andato nel pallone.
Lei non parlava, mi guardava in silenzio come si guarda un filo
ingarbugliato.
Poi è stato come se un suono, un sibilo, mi avesse attraversato la testa e
l’avesse svuotata completamente. Lucia ha spinto la bicicletta, ho fatto un
passo indietro e l’ho lasciata andare.
L’ho guardata uscire dal portone, una silhouette che scompariva in
controluce.
37

Ero uscito da quell’incontro con la convinzione che lei sbagliasse su tutta la


linea e che solo una matta poteva rinunciare così a un’occasione di felicità
che le si presenta davanti. Sapevo di essere stato insistente e di avere
sbagliato, in mia difesa l’avevo fatto in nome del sentimento che provavo,
che lei chiaramente non meritava.
Dall’altra parte c’era una ragazza di ventiquattro anni, bellissima,
intelligente, che non si lamentava, che mi apprezzava per quello che ero,
che era in grado di godersi tutte le cose che la nostra storia le dava, senza
chiedere qualcosa in più o di diverso. Il resto era solo un abbaglio: era con
lei che dovevo stare.
Ero seduto in auto davanti alla palestra ad aspettare che uscisse per la
pausa pranzo. Avevo capito di voler iniziare un nuovo rapporto, un rapporto
più maturo, uno scatto in avanti rispetto a come stavamo. Ero disposto a
prendere una casa più grande per farle spazio, in vista di una convivenza.
Volevo anche che il nostro rapporto diventasse esclusivo, basta con quel
“possiamo fare quello che vogliamo anche con altri, a patto che non lo si
venga a sapere”.
C’era solo una cosa che avevo bisogno di chiarire prima di cominciare il
futuro insieme: doveva dirmi cos’era successo la notte in cui non aveva
voluto raggiungermi a casa. Perché ero certo che fosse con un altro. Il
mistero di quella notte mi martellava in testa. Volevo sapere con chi era
stata e quante volte si erano visti. Avevo bisogno di sapere la verità, perché
sarebbe stata meno faticosa da sostenere rispetto al mio rimuginare, alle
ipotesi, supposizioni, fantasie.
Io le avrei detto tutto di Lucia. Basta segreti.
L’ho vista spuntare dalla palestra, dopo qualche secondo era seduta in
auto accanto a me. Ci siamo baciati, ero entusiasta della proposta che le
stavo per fare.
«Cosa mi devi dire?» ha chiesto. «È meglio che mi preoccupi?»
«Niente di brutto. Almeno spero.»
Ha sorriso. «Pensavo volessi dirmi che non ti andava più di vedermi.»
Da quando ci eravamo sentiti si era immaginata solo cose brutte e aveva
passato una mattinata agitata e preoccupata. L’ho abbracciata, stringendola
forte.
Ho preso dalla tasca interna della giacca un foglietto piegato in due e
gliel’ho passato. Lei l’ha aperto, è scoppiata a ridere, poi è arrivata la
commozione. Sul foglietto era scritta una domanda: “Vuoi metterti con
me?”, e appena sotto l’opzione “sì”, “no”. Avevo pensato fosse un modo
buffo per chiederglielo.
Ci siamo baciati con una foga tale che è mancato poco facessimo
l’amore in auto, fuori dalla palestra, in pieno giorno. Una volta usciti
dall’intensità di quel momento, ho affrontato la questione che mi premeva:
«Prima però dobbiamo sgomberare il campo da tutti i cadaveri». Mi ha
guardato con occhi interrogativi. «Ci dobbiamo dire tutto. Quella notte per
esempio.»
«Quale notte?» Era genuinamente sorpresa.
«Quella in cui non sei voluta venire da me.»
La sua espressione è diventata cupa. «Ancora con questa storia?»
Erano giorni che non pensavo ad altro. «Sono sicuro che stavi con un
altro. È come aver trovato un cadavere in casa, non posso fare finta che non
ci sia. Ho bisogno di sapere chi è per potergli fare il funerale.»
Era allibita. «Cadaveri? Funerali? Ma sei impazzito?»
Senza volerlo, ho alzato la voce: «Io sono pronto a dirti tutto quello che
ho fatto, per ripartire da zero, senza segreti».
Si è allontanata da me, per quanto le dimensioni dell’abitacolo glielo
permettessero. «Non voglio sapere! Per cosa? Per stare male? Sono fatti
tuoi.» Con un tono più conciliante ha detto: «Guardiamo avanti, non
indietro».
L’ho pregata: «Ho bisogno di sapere, la mia immaginazione non mi dà
tregua».
«Tu sei una persona instabile, lasciatelo dire.» La sua voce era decisa, e
distante.
Era terribile litigare chiusi dentro uno spazio così angusto, dove ogni
parola rimbombava, senza la possibilità di muoversi. Ho finto una calma
che non avevo: «È successo solo quella notte o altre volte?».
«Smettila, Luca.» Guardava fuori dal finestrino, ne intuivo il profilo.
«Sono stato con una che si chiama Lucia.» Anche se era voltata, ho
capito di averla ferita. Ho insistito: «Non riesco ad andare avanti se non so
cosa hai fatto».
«Non mi interessa, ti ho detto che non voglio sapere niente.»
«Dobbiamo dirci tutto, e ripartire da capo.»
Si è girata, in silenzio. Ero convinto che piangesse, invece era infuriata:
«Per me la nostra storia può finire qui».
È stata una stilettata. Il pensiero di non vederla più, non fare l’amore con
lei, lasciarla nelle mani di altri era insopportabile. Eppure non riuscivo a
credere che preferisse farla finita piuttosto che dirmi la verità su quella
notte. Cosa aveva di così speciale quella notte? E quella persona? Senza
rendermene conto, mi ero messo in competizione con uno sconosciuto. E
avevo perso.
Matilde ha accartocciato il bigliettino, lo ha scagliato sul cruscotto e ha
sbattuto la portiera.
Ero paralizzato, esterrefatto. Avevo rovinato tutto. L’ansia ha cominciato
a divorarmi. Per cercare di sfuggirle, ho abbassato il finestrino e ho
ingranato la prima.
Dopo un paio d’ore mi sono ritrovato su una panchina a fissare la calma
del lago di Como. Davanti alle poche barche che veleggiavano, ho preso il
telefono dalla tasca e le ho scritto un messaggio: “I problemi non si
superano fingendo che non esistano, ma affrontandoli insieme”. Ho
premuto invio. Subito, ho realizzato di aver fatto l’ennesima cazzata. Avrei
dovuto scriverle semplicemente: “Scusa”.
Lei non ha mai risposto. Io ho cambiato palestra.
38

Silvano mi aspettava nella sua casa in Liguria. Non gli avevo ancora dato
una risposta ufficiale, anche se entrambi ci comportavamo come se fosse
scontata. Aveva già cominciato il passaggio di consegne, si era liberato dei
clienti più grossi e ormai trascorreva quasi metà settimana nella casa in
collina vista mare.
Mi ha accolto sul cancello, insieme a Bricco che scodinzolava. Aveva un
sorriso che esprimeva in maniera inequivocabile quanto fosse felice di
vedermi.
Alina, sua moglie, non c’era, era rimasta a Milano per un problema con
la caldaia. Saremmo stati da soli un paio di giorni, io e lui.
La casa era circondata da un terreno con alberi da frutta e ulivi, la vista
era mozzafiato, sembrava un paradiso in terra. Eravamo in piedi, uno
accanto all’altro, a osservare il panorama. Bricco inseguiva le farfalle. Ho
appoggiato una mano sulla spalla di Silvano. «È un bel posto per passare il
resto della vita.»
«Posso dirti la verità?» Mi ha guardato. «Mi sono già rotto i coglioni»,
indicando la vista sul mare. «Hai presente il paradosso dei gemelli di
Einstein? Ecco, nella natura sono quello che resta a terra e invecchia il
doppio rispetto al fratello.» Ridevo come un matto. Aveva passato tutta la
vita a ripetere che non vedeva l’ora di andare in pensione per non “fare un
cazzo tutto il giorno” e adesso, che stava per cominciare, era già stufo.
«Ho capito una grande cosa, questo posto è bello perché so che prima o
poi torno a Milano. L’idea di trasferirmi per sempre mi fa orrore.»
Ridevo e capivo esattamente cosa intendesse. «Stai cercando di dirmi
che vuoi tornare a lavorare?»
«Per niente. Però non voglio tumularmi qui, voglio scendere a prendere
il giornale all’edicola sotto casa, andare al bar, incontrare gente, andare al
cinema. Il caos della città mi tranquillizza. Amo il mio enorme
supermercato, vedere tutte le cose sugli scaffali, anche quelle che non
comprerò mai. Forse non sono vecchio abbastanza per godere del cinguettio
dei passerotti. Preferisco ancora di gran lunga il suono del camion della
monnezza. Mi fa sentire vivo e giovane. La natura mi invecchia.» Ero
sempre più divertito.
«Anche Bricco non è felice.»
Ho guardato il cane zampettare in mezzo all’erba. «Faccio fatica a
crederlo.»
«Ti dico di sì! A ogni rumore scatta in piedi, si spaventa per tutto. Senti,
lo faccio anche per lui.» Silvano era incredibile. «Sai perché ti ho invitato?
Perché averti qui è una boccata di ossigeno, altrimenti sai che sfrangimento
di palle!» Non riuscivo a smettere di ridere.
A pranzo ha continuato il discorso: «A una certa età bisogna avere ben
chiaro quali sono le cose a cui non si può rinunciare e quali invece lasciar
andare. Non si ha più la forza per fare tutto. Bisogna avere la maturità e la
capacità di sapere quello che serve, non tanto per poter essere felici ma per
poter essere se stessi».
Ho pensato che forse era stato troppo drastico, avrebbe almeno dovuto
provare a entrare in una nuova routine. «Anche a me Parigi le prime volte
non piaceva, poi col tempo le piccole cose sono diventate abitudini, e
adesso mi fanno sentire a casa.»
«Non è il mio caso.» Un giorno, ha raccontato, era seduto sotto un ulivo,
tutt’intorno silenzio e calma. Si sentivano le cicale, il mare era calmo e
scintillava sotto il sole. «Ogni silenzio ha la sua cosa da dire. E a me ha
detto una cosa importante.»
Ho aspettato che proseguisse.
«Che apprezzo di più le cose quando mi mancano.»
Forse era così anche per me. Siamo passati in cucina a preparare il caffè.
«Come sta tua madre?» mi ha chiesto all’improvviso.
«Bene, ha avuto un piccolo problema ma niente di grave.»
«E tu?»
Non me la sono sentita di rifilargli il solito “bene” di circostanza, in
fondo era Silvano. «È un periodo un po’ confuso. È come se mi fossi
perso.»
Silvano ha acceso il fuoco sotto la moka, poi ha preso le tazzine nella
credenza: «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva
oscura, ché la diritta via era smarrita…».
Ho sorriso appena. «Sono nel pallone. Non solo non so come muovermi,
non riesco nemmeno più a capire quali sono le direzioni, le possibilità.»
Ha sospirato. «È così per tutti.»
Mentre versava il caffè gli ho raccontato tutto quello che avevo vissuto
negli ultimi giorni, la rottura con Matilde, l’idea scellerata di aspettare
Lucia fuori da scuola, il weekend a Parigi, l’incontro con Beatrice. Mentre
parlavo avevo un tono cupo, angosciato. Si sentiva che ero davvero provato
dal momento, per qualche ragione tutto quello che mi capitava in quel
periodo mi metteva in crisi. Silvano ascoltava in silenzio, anche quando ho
finito speravo mi dicesse qualcosa, invece è rimasto seduto con gli occhi
chiusi e la tazzina del caffè vuota in una mano. Ho pensato di averlo
annoiato, o che non avesse niente da dirmi al riguardo. Per rompere il
silenzio, e perché avevo parlato solo di me, gli ho chiesto di lui.
«È un’età interessante la mia. Mi sono accorto che non mi importa più di
nulla, se ingrasso, se dimagrisco, se ho i capelli lunghi o corti, se sono
vestito bene o male. Una vera liberazione.»
È riuscito a strapparmi un sorriso. «E Alina?»
«Bene, siamo una coppia fresca, però con tutta l’esperienza di altre
relazioni. Poche aspettative e il piacere di stare insieme, quando ne abbiamo
davvero voglia. Per esempio, mi ha chiesto di dormire in camere separate,
dice che russo. A me non è dispiaciuto affatto, perché lei russa più di me.
Anche se sostiene che non è vero.» Abbiamo riso.
«Le donne non russano» ho detto in tono ironico.
«La mia ex moglie non russava. Sarei dovuto rimanere con lei.»
Abbiamo riso di nuovo. Silvano aveva spazzato via tutta la mia cupezza.
«Perché ti sei separato?» Ormai la mia era diventata una specie di
ossessione.
«Una mattina mi sono svegliato e ho capito che ero stanco di mentire.
Non avevo più le forze.» Si è alzato per prendere dell’acqua. «Sai, se le
bugie te le racconti è un conto. Il vero problema è viverle.» L’ho guardato
senza capire, mi ha passato un bicchiere pieno. «Vivere con una donna di
cui non sei più innamorato e fingere di esserlo è la fine. Quella bugia
diventa la tua quotidianità.»
Ha scolato il suo bicchiere in un sorso e ha cambiato discorso: «Ho visto
che il mese scorso hai chiuso due ordini incredibili».
Davanti ai complimenti mi imbarazzavo. «È stata una botta di culo.»
Ha aggrottato le sopracciglia. «Non sei più un ragazzino, la devi
smettere. Quando una persona ti fa un complimento devi rispondere
“grazie”, tutto il resto è immaturità o falsa modestia. È stupido vergognarsi
di essere bravi.» Capivo cosa intendesse. Poi ha cambiato tono, mi ha
guardato con un filo di tenerezza. «Sai cosa devi fare per uscire dalla tua
crisi?» Sapevo che non mi avrebbe lasciato affogare nel mio caos senza
darmi un consiglio.
«Devi trovarti qualche cosa che ti faccia vivere al di sopra del tempo.»
«Cosa intendi?»
«Hai presente quando fai una cosa o stai con una persona e ti accorgi che
sono passate ore mentre eri convinto fossero pochi minuti? Ognuno ha la
sua e può cambiare col passare degli anni.»
«E qual è la tua?» gli ho chiesto.
«Passeggiare con Bricco. Sono le mie ore preferite.» L’ho fissato come
se non ci credessi. «Solo perché sono diventato vecchio» ha aggiunto, «una
volta erano le donne.»
È squillato il suo telefono, era Alina. C’era un problema con il tecnico
della caldaia. Le ultime parole di Silvano prima di chiudere sono state: «Va
bene va bene, vengo».
L’ho guardato. «Non mi vorrai mollare qui, vero?»
«Solo per qualche ora, vado e torno. Tu intanto fai quello che ti pare, vai
al mare se vuoi.»
«Torno con te a Milano.»
«No, resta qui, ti avevo invitato per una ragione. Sono di ritorno per cena
e parliamo di tutto quanto. Mi devi una risposta.» E ha fatto uno di quei
sorrisi che sembrano volersi aprire in una risata.
39

«Ma cosa faccio qui da solo?» ho protestato tra me e me. Silvano mi aveva
appena detto che si sarebbe fermato a Milano per la notte. Mancava un
pezzo e il tecnico avrebbe finito il lavoro la mattina seguente. «Scusa, ma
non può occuparsene Alina?»
«Ecco vedi, è quello che ho pensato io e ho sbagliato. Su queste cose si
perde.»
«Non me la sento» ho piagnucolato.
«Ma dài, Luca, su con la vita! Ti riposi. Stacchi un attimo, ti ho visto
sciupato.»
«Ma se hai detto che ti rompi le palle anche tu a stare qui, adesso dovrei
godermela io?»
«Non essere arido, ho detto che mi rompo a viverci, non a starci qualche
giorno. Ti godi il panorama, la natura, pensi alle decisioni che devi
prendere. Parli con te stesso.» Mi stava sfottendo. «La natura ha tutte le
risposte di cui hai bisogno. Resta lì e chiedi. Ricordati, non è mai troppo
tardi per avere un’infanzia felice. Ci vediamo domani.»
Avevo fatto tutti quei chilometri per passare un paio di giorni con lui, in
compagnia, a cucinare, bere, chiacchierare, ridere. Avevo bisogno di
distrarmi, avevo bisogno di leggerezza. L’ultima cosa che volevo era stare
da solo in una casa non mia.
Alla fine ho deciso che sarei andato a vedere il mare, bere una birra
seduto su uno scoglio, poi avrei cenato e a quel punto sarei ripartito. Amo
guidare la notte in autostrada. A Silvano avrei detto che ci saremmo visti
un’altra volta.
Mi è squillato il telefono, era ancora lui.
«Se decidi di venire via, ti devo solo chiedere la cortesia di attivare
l’allarme.» Mi ha spiegato come fare. Prima di scendere al mare volevo
richiamarlo per dirgli che l’avevo inserito, ma non c’era campo. Anche il
wi-fi aveva smesso di funzionare. Una volta al mare, quando il cellulare
prendeva di nuovo, l’ho chiamato: «A casa ha smesso di prendere il
telefono e anche il wi-fi non va».
«Capisci perché non posso vivere lì? Ogni giorno ce n’è una. Una volta è
la connessione, una volta la centralina della corrente elettrica. Ho appena
dovuto comprare un nuovo robottino della piscina. Comunque, in cima alla
proprietà, vicino alla magnolia, a volte prende. Dipende anche dalla
compagnia telefonica.»
Non mi è mai piaciuto stare a casa di qualcuno senza il proprietario.
Vivo tutto quello che faccio come un’invasione, mi sento a disagio ad aprire
i cassetti se mi servono delle cose. Non mi sento libero. Silvano ha sbuffato:
«Non rompere i coglioni, apri tutti i cassetti che vuoi, non mi sento violato
nell’intimità se mi guardi le posate». Prima di attaccare ha aggiunto: «Dài,
non fare il pirla, aspettami lì, domani arrivo».
Ho chiuso gli occhi e ho fatto un lungo respiro, avvertivo una leggera
ansia. Era lei che mi spingeva a tornare a casa. Sapevo che stare solo
avrebbe peggiorato la situazione. Poi mi sono guardato intorno, la
montagna dietro di me, l’azzurro del mare davanti, l’aria era sottile,
profumata. Non è possibile che non sia in grado di stare qualche ora da solo
in un posto come questo, ho pensato.
Alla fine, preso da un moto d’orgoglio ho scritto a Silvano: “Ci vediamo
domani, ti aspetto”.
Ho bevuto una birra davanti al tramonto, ho fatto due passi e sono
risalito a casa.
40

Ero isolato, immerso in un silenzio totale, non potevo comunicare con


nessuno. Ho pensato: e se mi succede qualcosa?
Ho sistemato le mie cose nella stanza degli ospiti, poi ho scelto una
bottiglia di Rossese di Dolceacqua, ne ho versato un bicchiere e mi sono
seduto su una panchina accanto alla porta d’ingresso. L’ansia era sempre
presente, un leggero e costante sottofondo. Quando è sceso il buio sono
entrato a prepararmi la cena. In frigo ho trovato del pesto e una confezione
di pasta fresca.
Ho collegato il telefono alla cassa per mettere della musica. Tra le
playlist scaricate ho scelto “New York”, c’erano artisti che mi ricordavano
la città, Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Louis Armstrong, Duke Ellington.
Si sposava con l’atmosfera creata dalla luce della cappa sul fornello.
Quando avevo detto a Silvano che non capivo perché in un posto così
romantico e accogliente non avesse pensato a un giradischi, mi aveva
risposto con la solita prontezza: «È una rottura di coglioni, ogni tre, quattro
canzoni devi alzarti e cambiare il disco». Poi, indicando i faretti in sala:
«Ho anche le lampadine, se preferisci usiamo le candele. Quanto mi state
sulle palle voi nostalgici».
Mentre cucinavo e preparavo la tavola, ero tranquillo, l’ansia era sempre
in agguato, ma sotto controllo.
Quello che avevo vissuto nell’ultimo periodo rendeva lo stare solo più
complicato, il casino che avevo combinato con Matilde, il disagio che
avevo provato con Lucia.
A fine pasto, ho pulito e riordinato. Finché mi tenevo occupato, il tempo
scorreva lieve. Il problema erano le ore vuote che mi separavano dall’arrivo
di Silvano, mi sembravano sterminate.
Mi sono seduto sul divano col bicchiere di vino a fissare il vuoto. Ho
preso il telefono, un gesto automatico dettato dall’abitudine. Un pensiero mi
ha attraversato la testa: non avevo avvisato mia madre che ero lì in Liguria
e che il telefono non prendeva. Erano già le dieci passate, sicuramente
dormiva, altrimenti avrei potuto raggiungere la magnolia in cima alla
collina per provare a chiamarla. Mentre calcolavo la fatica che mi sarebbe
costato infilarmi le scarpe, prendere una torcia, uscire, cercare l’albero mi
sono detto: cos’hai, nove anni che devi sempre avvisare la mamma di tutto
quello che fai? Ho provato un sollievo e poi, subito dopo, la tristezza di
dovermi ancora guadagnare quella piccola libertà.
Eppure, a pensarci bene, mia madre era l’unica persona che si sarebbe
preoccupata, se fossi scomparso, l’unica che mi avrebbe cercato. Non avevo
una moglie, una fidanzata, figli, neppure un cane, un gatto, un pesce rosso.
Chissà se sono nei pensieri di qualcuno, mi sono chiesto. Lì, seduto sul
divano di Silvano, ho realizzato che nella mia vita qualcosa andava
cambiato, ma non avevo la più pallida idea di cosa fosse e da dove
cominciare.
Ho bevuto un sorso di vino, poi ho preso il telefono per scorrere le foto e
cancellare quelle che non volevo tenere. Sono partito dall’ultima, fatta
qualche ora prima mentre bevevo la birra sullo scoglio. Quelle recenti si
potevano eliminare quasi tutte, molte erano di lavoro, documenti, etichette
di vini, fatture, ordini.
Ne è spuntata una di Beatrice, sorridente, con il suo giradischi in mano.
L’ho tenuta, era un bel ricordo. Poi è arrivata Matilde mentre si provava dei
leggings e un top color salmone nel camerino del negozio. Ero incantato,
guardavo la pancia piatta e la linea degli addominali, il seno che sembrava
esplodere, gli occhi, le labbra, la sua pelle. Non potevo credere di aver
rovinato tutto così.
Sono arrivato al fine settimana a Parigi, le foto erano parecchie, in
alcune c’era solo Lucia, in altre sorridevamo insieme all’obiettivo. Eravamo
così felici che era impossibile prevedere come sarebbe andata a finire. Mi
sono chiesto cosa stesse facendo in quel momento, l’ho immaginata seduta
a sfogliare riviste di arte, libri di fotografie, cataloghi di qualche mostra. Ho
desiderato così intensamente che fosse sul divano con me che mi è
sembrato perfino di sentire l’odore della sua pelle. Non devo pensarci, mi
sono detto, e ho posato il telefono sulla poltrona di fronte a me. Camminavo
in giro per la casa, come faceva sempre mia nonna dopo cena, era sicura
che la aiutasse con la digestione. Era una donna forte, dura, vedova in
giovane età con una bambina da crescere.
A tavola, teneva il fiasco del vino a terra accanto alla sedia, se qualcuno
ne voleva, doveva chiederlo a lei, come se fosse la cosa più preziosa del
mondo. Forse il mio amore per il vino arrivava da lì.
A volte mi capitava di trovarla stesa a terra supina, come se fosse morta.
Soffriva di terribili mal di schiena e quella era l’unica posizione che le dava
sollievo. La cosa che ricordo con maggior chiarezza era come trattava mia
madre, non l’ho mai sentita dirle una cosa dolce, affettuosa, anche solo
trattarla con rispetto. Mia nonna mi ha sempre fatto paura.
Camminavo come un pazzo per la casa, fuori c’era un giardino immenso,
l’aria fresca e pulita, forse persino la luna che si rifletteva sul mare, e io
avevo deciso di restare chiuso dentro. Ero un animale in gabbia che passava
da una stanza all’altra, senza un ordine, senza una logica.
Mi sono fermato davanti a un poster appeso sopra il tavolino dei liquori,
una foto in bianco e nero di Jane Birkin. Mi fissava. Sono rimasto
imbambolato con gli occhi nei suoi non saprei per quanto, forse un minuto
forse mezz’ora. Finché non hanno cominciato a pizzicarmi.
Una tisana avrebbe aiutato a calmarmi, ancora meglio una camomilla.
Ho aperto la credenza della cucina e con un movimento goffo ho urtato
una confezione di riso già aperta. In un secondo è finito tutto sul pavimento.
«Merda.» Ho guardato i chicchi, sembravano migliaia. «Potrei mettermi a
contarli, per far passare il tempo.»
Ho trovato un aspirapolvere, il rumore che facevano mentre venivano
risucchiati dentro il tubo era piacevole, mi tranquillizzava. Anche la piccola
vibrazione che sentivo sulle mani al loro passaggio mi tranquillizzava, tanto
che quando ho finito sono stato tentato di rovesciarli di nuovo. Avrei potuto
aspirare chicchi di riso per tutta la notte, era una distrazione gratificante.
Quando ho staccato la spina dalla presa, ho premuto il pulsante per
riavvolgere il filo, una delle cose che amo di più al mondo. Mi piace
vederlo sparire come fosse un serpente che si ritira nella sua tana, mi piace
anche il suono che fa, prima che la spina dia la botta finale con il rischio di
finire dritta sulla parte sporgente del malleolo.
Mi sarei dovuto portare una canna, ho pensato. Anzi no, se mi fumassi
una canna adesso mi troverebbero sul soffitto come un geco. Parlavo tra me
e me.
La tisana non c’era, così ho optato per un bicchiere di latte caldo con il
miele. C’era un cartone aperto in frigo, l’odore era buono, l’ho versato in un
pentolino per scaldarlo. Mentre aspettavo, ho lavato il bicchiere del vino,
l’ho asciugato e l’ho riposto nella credenza. In quel momento il latte è
fuoriuscito dal pentolino e si è riversato sul fornello. Ho sbuffato, la serata
non girava bene. Ho mescolato nel latte rimasto una porzione abbondante di
miele, per mascherare l’eventuale sapore di bruciato. Poi, ho bevuto tutto in
un lungo sorso.
A quel punto ero pronto per provare ad andare a letto. Ho preso lo
spazzolino dal beauty case, era nuovo, setole dure. Mi lavavo i denti, prima
piano, poi, non so cosa mi sia preso, ho iniziato con un movimento più
intenso e deciso finché non ho visto la schiuma diventare rosa.
A letto, mi è venuto il dubbio di non aver chiuso la porta d’ingresso a
chiave. Non potevo dormire in quella casa isolata con il rischio che entrasse
qualcuno. Sono andato a controllare, era chiusa. Ho dato un’altra mandata.
Mentre andavo in camera, sono tornato indietro di nuovo, per un ultimo
controllo.
Mi sono finalmente infilato sotto le coperte. Continuavo a essere
inquieto, ho spento la luce e l’ho riaccesa diverse volte, l’ansia era tornata,
pesante. Avevo anche un dolore alla pancia, una specie di morsa. Dopo
poco, ho sentito un prurito strano su schiena, gambe e braccia, mi grattavo
come un tarantolato. Ho pensato che fosse l’inizio di un attacco di panico.
Non aveva senso rimanere lì e stare male, quella casa era troppo grande,
troppo silenziosa, troppo buia, troppo isolata. Era troppo tutto.
Mi sono alzato in piedi, torno a Milano, ho pensato. In quel momento un
tuono ha fatto tremare i vetri della camera da letto. Nel giro di pochi
secondi diluviava.
Mi sono rivestito e ho infilato tutto in borsa, non potevo restare oltre,
sarei uscito di testa.
Nel tragitto per raggiungere l’auto, mi sono infradiciato da tanto pioveva
forte. Ho acceso l’auto e una voce dentro di me ha detto: “Stai scappando”.
«Sì, e allora?» Ormai parlavo da solo, pura follia.
L’ansia cresceva sempre di più, la sentivo sul petto come una pietra
pesante che mi impediva di respirare. Ho abbassato il finestrino, la pioggia
è entrata subito, non mi importava, ne andava della mia vita.
Se Silvano mi avesse trovato così, chiuso in auto a parlare da solo,
avrebbe pensato che ero impazzito.
Dovevo cercare di rimanere lucido, e non farmi travolgere da pensieri
che mi germogliavano nella testa e non avevano nessuna radice nella realtà.
Avrei aspettato che spiovesse prima di mettermi in strada, era più sicuro.
Sentivo le gocce battere incessanti sulla carrozzeria, il vento le faceva
cadere in maniera irregolare, prima più intensa e poi più leggera, come a
ondate. Fuori, era un muro di acqua.
Dopo una decina di minuti, la pioggia si è calmata. Era il momento
buono per partire, ma qualcosa mi ha trattenuto, una forza, un’intenzione
contraria alla mia volontà di scappare, come avevo sempre fatto. Per la
prima volta, ho deciso di rimanere e di attraversare quella difficoltà, senza
cercare di evitarla. Ancora non sapevo una cosa che avrei imparato più
avanti: la soluzione di un dolore è dentro il dolore stesso, non va cercata
altrove.
Il buio da cui ero avvolto faceva affiorare le mie paure più intime. La
solitudine che sentivo era ampia, vasta e profonda. Sentivo una sorta di
malessere verso tutto, una specie di estraneità rispetto a me stesso e la mia
stessa vita. Era come se non riconoscessi nessuna delle decisioni che avevo
preso fino a quel momento, come se fosse stato un altro me a scegliere e
agire. Tutto mi è sembrato un fallimento, le relazioni finite, i sogni che
avevo abbandonato, le speranze ormai perse.
Una parte di me lottava contro questa consapevolezza improvvisa, e più
opponeva resistenza più stavo male.
Ero lì in quell’auto a lottare con tutte le energie che avevo,
convincendomi che ero più forte delle mie paure, che mi sarebbe bastato
entrare in casa lavarmi la faccia darmi una rinfrescata e tutto sarebbe
passato.
In realtà stavo sempre più male, fino a che d’improvviso mi sono arreso.
Non ce la faccio più, basta, mi sono detto. Ero stremato. Ma quelle parole
sembravano venire da più lontano, non era solo per come stavo in quel
momento. Ero stremato dalla vita, stremato per il mio costante e continuo
tentativo di compiacere tutti, di fare sempre la cosa giusta per ottenere
affetto e approvazione, di voler essere speciale e riconosciuto.
In quel momento è successo una specie di miracolo. Appena mi sono
arreso ho smesso di stare male, perfino la morsa che sentivo alla bocca
dello stomaco mi ha lasciato e mi sono rilassato.
Non ho vinto perché ho combattuto ma perché mi sono arreso, non
avevo più paura di quello che mi sarebbe potuto succedere. Come se a un
certo punto mi fossi affidato a un qualcosa di più grande.
Nel momento stesso in cui ho fatto così, il senso di oppressione è
svanito. Ho fatto un respiro di sollievo e la bocca mi si è riempita di saliva.
«Oh cazzo.» Ho aperto la portiera e ho vomitato. Appeso alla maniglia, con
la testa a penzoloni, ho continuato finché non mi sono svuotato di tutto.
«Era scaduto» ho detto pensando al latte.
Ero esausto, saranno state le tre o le quattro del mattino. Mi sono seduto
sulla panchina dell’ingresso, con un cuscino e una coperta presi dal
soggiorno.
Sono rimasto in silenzio, mi sentivo così vuoto e leggero che non
riuscivo neppure a pensare.
Guardavo la luna e le stelle che spuntavano dalle nuvole, la silhouette
scura delle piante, la luce di una casa in lontananza. Dopo la pioggia l’aria
era piena di odori.
Sono rimasto lì tutta la notte, la notte più strana della mia vita, quella in
cui ho trovato il coraggio che avevo sempre cercato, in cui qualcosa ha
cominciato davvero a cambiare.
Mi sono voltato verso la macchina parcheggiata a pochi metri, era come
se potessi vedermi ancora là, seduto al posto del guidatore, come se avessi
lasciato sul sedile un guscio, la crosta di quello che ero stato.
Osservavo quella specie di pesante corazza, alla guida di un’auto ferma.
Ho chiuso gli occhi, ho fatto un lungo respiro e l’ho lasciata andare. Ero
così leggero che per un istante mi è sembrato perfino di non percepire più il
corpo fisico.
Il cielo iniziava a schiarire, è diventato blu e poi si è tinto di ogni
sfumatura possibile, indaco, azzurro, verde, arancio, giallo.
Tutto avveniva senza clamore, c’era una pace che non avevo mai provato
prima. Il buio se n’era andato, portandosi via tutti i miei demoni.
Per la prima volta, senza fare niente per meritarlo, ho sentito di
appartenere a quella bellezza, vibravo insieme a lei. Il senso di solitudine
che mi aveva accompagnato per tutta la vita si era dissolto.
Appena prima che spuntasse il sole, una brezza leggera ha accarezzato
ogni cosa che incontrava, cespugli, rami, foglie, l’amaca sotto la pianta,
come un brivido, come un fremito della terra. Tutto aveva il sapore di un
nuovo inizio.
In quella calma ho capito che tutto era lì per me.
Quando poi è arrivato il sole mi è sembrato un padre che torna a casa dai
suoi figli.
Ho avvertito un lieve dolore al petto, era una morsa di pura gioia. Sono
stato invaso da un infinto senso di gratitudine e di appartenenza.
Poi sono rientrato e ho preparato un caffè. Mentre aspettavo che salisse
nella moka, mi sono lavato i denti, questa volta con cura e delicatezza.
Mi sono seduto di nuovo sulla panchina con la tazza in mano. Il sole era
alto, la luce intensa. Quello che avevo vissuto prima se n’era andato per
sempre. Avevo avuto la fortuna di essere presente e di farne esperienza.
Un nuovo giorno era iniziato, io lo avevo visto nascere.
Un pensiero mi ha attraversato la testa: “Devo scendere a chiamare mia
madre. Mi starà cercando già da ieri sera, sarà molto preoccupata”.
Stavo per alzarmi di scatto come sempre, ma il mio corpo non si è mosso
di un centimetro. È rimasto dov’era: “Non è urgente. Non c’è nulla di
grave”.
Ho sorriso a me stesso e ho continuato a sorseggiare il mio caffè.
41

Stavo apparecchiando il vecchio tavolo di legno sotto la veranda quando ho


sentito lo scoppiettio delle ruote sulla ghiaia. Senza che nemmeno me ne
accorgessi mi è comparso un sorriso.
Da qualche mese vivo in Alto Piemonte, vicino al lago d’Orta. Ho anche
preso un cane, anzi, non l’ho proprio preso, è stato più lui a prendere me.
Una mattina me lo sono trovato in cortile, il cancello di casa è sempre
aperto. Ci siamo piaciuti subito, tanto che non se n’è più andato. L’ho
chiamato Argo.
La mia nuova casa affaccia sulle vigne, è un posto silenzioso, la sera mi
apro una bottiglia e guardo la luce del tramonto che si posa delicata sui
tralci, che un giorno diventeranno forti, robusti. Producono circa cinquemila
bottiglie all’anno. È stato un azzardo passare alla produzione indipendente,
un salto nel buio, eppure mi sono reso conto che lo desideravo da tempo.
Silvano è stato di grande aiuto, anche se alla fine questa decisione mi ha
costretto a rifiutare la sua proposta. Ha capito, senza bisogno di troppe
spiegazioni. Francesco mi ha messo in contatto con il proprietario della
vigna, un signore anziano amico di suo padre. Aveva sentito che voleva
lasciare. È una zona dove i prezzi sono ancora abbordabili, però non ero
l’unico interessato. Un’azienda americana si era fatta avanti per l’acquisto.
Credo che avessero fatto anche una proposta economica leggermente più
alta della mia. Alla fine, grazie a Francesco e a suo padre, il vecchio
proprietario ha preferito me. Passa spesso a salutarmi, siamo diventati buoni
amici e ogni volta mi dà qualche consiglio utile. L’operaio che lavorava per
lui è rimasto, anche da lui imparo molto. Rimango sempre affascinato dalla
sua conoscenza delle vigne e del territorio. Come gli piace dire, ha sulle
spalle più di cinquanta vendemmie.
Appena ho visto la terra, le piante, il panorama, me ne sono innamorato.
Ho avuto la sensazione di essere a casa. Non è la California, e proprio per
questo è stato più facile per mia madre accettarlo.
Tra noi va molto meglio, ho cambiato il modo di relazionarmi con lei, e
come per magia è cambiato anche il suo nei miei confronti.
Dopo quella notte a casa di Silvano piano piano tutto si è trasformato.
Ho capito che è accaduto perché una parte profonda di me era stanca di
mentire. Per stare bene dovevo rifare il mio mondo da capo.
All’inizio è stato spaventoso, ma nessuno di noi sa quanto è forte fino a
quando essere forti non è l’unica opzione.
Mi ero chiesto come mai mi ritrovassi sempre nella stessa situazione,
con gli stessi tormenti e le stesse domande. Ho cominciato a trovare delle
risposte quando ho smesso di giudicare i miei comportamenti e ho iniziato
invece a volerne capire la ragione, la provenienza, la radice.
Così, invece di trovare un colpevole, trovavo le gabbie e le prigioni in
cui vivevo e che mi ero creato da solo.
Avevo vissuto la mia vita convinto di aver bisogno di una persona per
poter stare bene, senza capire che quella persona ero io. Ritrovarmi solo è
stata l’occasione per scoprire chi ero. La solitudine, che per tutta la vita era
stata uno spazio che mi spaventava, è diventata invece il posto dove ho
trovato la mia autenticità.
Mi sono liberato dalla convinzione che per essere amato dovessi essere
speciale, mettere in scena un personaggio. Alla fine, a forza di essere un
altro, mi ero perso.
E di questo avevo sempre addossato una grande responsabilità a mia
madre, come se lei tenesse il guinzaglio della mia vita, quando in realtà ero
stato io a metterglielo in mano.
Un giorno mentre guidavo in autostrada ho iniziato a pensare a lei. Ho
iniziato a immaginarla da bambina, e poi da ragazza. Aveva appena
vent’anni quando è rimasta incinta. Ho cercato di immaginare la sua paura,
il momento in cui l’aveva dovuto dire a mia nonna. Chissà se tremava, se
era sconvolta, terrorizzata. Chissà se aveva desiderato un futuro diverso per
sé, e come aveva accettato quello sbando del destino che sono stato per lei.
Avrà vissuto la gravidanza nella vergogna e nella paura, avrà cercato di
nascondere il più possibile la pancia che cresceva. E così, paura e vergogna
sono state le prime cose che ho conosciuto, prima ancora del latte del suo
seno.
Una domenica, dopo pranzo, si era appisolata sul divano. Avevo deciso
di passare tutto il giorno con lei perché era influenzata. Seduto sulla
poltrona, la osservavo, sembrava più piccola, una bambina. Emanava
calma, pace. Non ricordava la donna che avevo sempre conosciuto, con il
suo carattere, le convinzioni, le abitudini.
Era come se mi apparisse per la prima volta fuori da ogni ruolo, nella sua
verità, spogliata da se stessa. Era lei senza tutto quello che le era accaduto.
Per tutta la vita avevo sofferto del fatto che non mi avesse mai chiesto
come mi sentivo, cosa provavo, come era stato crescere senza un padre.
In quel momento, per la prima volta, ho capito che io e lei eravamo
uguali. Anche lei era cresciuta senza un padre. Anche lei era stata una
bambina spaventata, non vista, non ascoltata. Per la prima volta l’ho sentita
vicina. Chi, meglio di me, poteva capirla?
Ho desiderato di abbracciare la bambina che era stata, dirle di non avere
più paura, che non era sola, c’ero io.
Ho sempre cercato di capirla, e quel mio volerla capire non mi faceva
vedere la realtà, mia madre non era solo come la vedevo io, era anche altro.
Per questo non sono mai riuscito a comprenderla, la vedevo sempre e solo
attraverso i miei occhi, i miei bisogni, le mie frustrazioni, le mie attese, i
miei rancori, il mio essere figlio, e questo la rendeva in qualche modo
incompiuta.
Una vita spesa a volerla capire quando invece dovevo solo imparare ad
amare.
Mentre dentro di me accadeva tutto questo, lei ha aperto gli occhi, mi ha
guardato qualche secondo senza dire nulla. Le ho preso la mano in maniera
delicata, avevo paura potesse rompersi, non era più la donna dura e forte di
prima.
«Come ti senti?» le ho chiesto.
I suoi occhi erano trasparenti, avevano un colore che non avevo mai
visto. «Vado a prenderti dell’acqua.»
Continuava a fissarmi, poi all’improvviso, come se mi avesse
riconosciuto solo in quel momento, mi ha sorriso.
Siamo rimasti immersi in uno scambio di sguardi silenzioso. Ci stavamo
dicendo più cose che in tutta la nostra vita.
L’amore che ho sentito era così puro che in un istante, come un balsamo,
ha curato ogni nostra ferita.
42

Ho smesso di apparecchiare e sono andato incontro all’auto.


«È una totale mancanza di educazione» ha detto Ornella appena ha
aperto la portiera. Francesco ha incrociato il mio sguardo e ha scosso la
testa con un sorriso.
Ero felice di vederli, felice di sapere che avremmo passato un paio di
giorni insieme.
Mentre lui è andato a prendere i bagagli dal baule, ho offerto un braccio
a Ornella. «La ghiaia può fare brutti scherzi.»
«Certe persone sono proprio maleducate.» Era ancora infastidita. A un
incrocio Francesco aveva fatto passare una macchina che non aveva la
precedenza e il conducente non aveva ringraziato.
«È una piccola cosa, piccola e seccante. Mi fa sentire stupida aver fatto
passare un cafone che non se lo meritava.»
Ho capito subito che in quei due giorni mi sarei divertito come ai vecchi
tempi.
Il bagaglio di Ornella era un baule. «Pensavi di fermarti qualche mese?»
«Ho portato solo quello che mi serve, e non è molto. È quello che
potrebbe servirmi a fare volume.» Ho riso.
Francesco ci ha raggiunto in cucina. Raccontavo la casa, la terra, il mio
lavoro e come vivevo le giornate.
Ero convinto che Ornella avrebbe criticato la mia scelta, invece
sembrava contenta, anche se al telefono mi diceva sempre che andare
all’enoteca non era più la stessa cosa e che sperava tornassi indietro. Era il
suo modo per dirmi che le mancavo.
Ci siamo seduti fuori, alla tavola apparecchiata. «Questo per ora è il mio
posto preferito. A volte resto qui delle ore, anche se le sedie non sono
comodissime.»
Francesco si è guardato intorno. «Da bambino giocavo con gli amici in
un bosco poco lontano.» E ha sorriso.
Durante il pranzo ho aperto un Boca del 2016, un vino della zona, e poi
un Nerello Mascalese che nasce sulle pendici dell’Etna, un vino del Sud che
amo molto.
Come sempre Ornella teneva banco, anche Francesco non era cambiato,
con i suoi silenzi, la timidezza e il pudore che fanno parte di lui e che la
nostra confidenza non è riuscita a scalfire.
Quando ho portato in tavola le fragole Ornella ha detto: «Il colore le
rende uno dei frutti più belli. Guardate che rosso».
«In realtà non sono rosse.»
Ornella ha alzato gli occhi. «Leviamogli il vino», e ha allontanato il
bicchiere da Francesco.
«Quando la luce cade su un oggetto» ci ha spiegato lui «tutti i colori
sono trattenuti tranne uno, che è respinto e ritorna indietro. Ogni cosa è tutti
i colori tranne quello che vediamo.»
Siamo rimasti in silenzio.
«È filosoficamente molto interessante» ha commentato Ornella, seria.
Dopo aver sparecchiato, mi sono ritrovato in cucina solo con lei. «Ma
non hai la lavastoviglie?» mi ha chiesto quando mi ha visto mettere a bagno
i piatti nel lavello.
«Pensavo di prenderla, poi ho scoperto che mi piace lavare a mano.»
«Che orrore» ha sussurrato.
Ho riso. «Guarda che ti ho sentita.»
«Piuttosto» ha aggiunto, «Francesco ti ha detto che stiamo per diventare
parenti?»
L’ho guardata, immobile, con le mani nel lavello.
«Lui e mia nipote si stanno sentendo. Va avanti da qualche settimana.»
«Chi? Quella delle caramelle?» Ho sfilato le mani dall’acqua.
«L’unica che ho.»
Francesco non mi aveva detto nulla, eppure ci sentivamo spesso. «Ma
stanno insieme?»
«Sono in quella fase bella.»
«Quale fase bella?»
«Quella dove ci si conosce ancora poco ma già si desidera di potersi
amare tanto.»
Ho capito subito a che fase si riferisse.
«Però c’è già stato un bacio.»
Mi faceva uno strano effetto pensare a Francesco con una ragazza. Lo
avevo conosciuto così chiuso e rigido al riguardo che non me lo vedevo
proprio a flirtare e coinvolgersi. Ero felice per lui.
«All’inizio ha fatto di tutto per respingere le avance di mia nipote. Per
fortuna sono intervenuta e gli ho fatto cambiare subito atteggiamento.» Mi
ha rivolto uno sguardo divertito. «Lui non lo sa ancora ma ormai è fatta.»
Proprio in quel momento è entrato in cucina con il tagliere dei formaggi.
«Di cosa stavate parlando?»
L’ho guardato qualche secondo, poi ho risposto: «Mi stava
rimproverando perché non ho la lavastoviglie».
Ornella mi ha sorriso.
Con il caffè ho portato fuori una torta. «L’ho fatta io. Voglio sentire il
vostro parere. Onesti.»
Avevo cominciato a cucinare con più impegno, mi ero cimentato con
biscotti, torte, sformati. Il pane ancora non mi veniva bene.
«Si chiama Linzer, è la torta più antica al mondo, con la marmellata di
ribes. La mia preferita.»
«Prima Francesco» ha detto Ornella passando il piatto a lui, «aspetto di
vedere che faccia fa.»
Abbiamo riso.
Dopo il caffè, ho versato a tutti un bicchierino di passito, un Malvasia di
Bosa.
A Francesco è squillato il telefono. «Scusate» ha detto prima di alzarsi.
Era la nipote di Ornella, avrei potuto scommetterci, ma non ho detto niente.
Sapevo che me ne avrebbe parlato lui al momento giusto.
Lo abbiamo guardato mentre si allontanava col telefono all’orecchio.
«E a te con i tuoi amici speciali come va?» ho chiesto a Ornella.
«Periodaccio. Trovare un uomo decente è sempre più difficile. Non hai
idea della miseria che c’è in giro.»
«Non ci sono uomini interessanti?»
«Non ci sono uomini. Punto.»
Non mi abituavo a sentirla parlare di storie o relazioni. Ero convinto che
alla sua età non fosse più un argomento, invece le dinamiche sembravano
sempre le stesse.
«Una volta gli uomini scendevano dall’auto e ti aprivano lo sportello.
Oggi se un uomo apre la portiera dell’auto alla fidanzata significa che una
delle due è nuova.»
Sono scoppiato a ridere. Ha continuato, era in ottima forma: «La
settimana scorsa ho preso un caffè con uno di settantaquattro anni. Si è
presentato con i jeans e una felpa col cappuccio».
«Un tipo moderno. Che c’è di male?»
«Se devo uscire con un uomo in jeans e felpa allora lo scelgo giovane,
non con la gobba e la pelle in avanzo sotto il mento.»
Quanto mi era mancata.
Siamo rimasti in silenzio a guardare Francesco con la testa china al
telefono mentre con un piede giocherellava a dare piccoli calci a un cumulo
di terra. La postura, le espressioni del viso, i movimenti del corpo, tutto
raccontava l’imbarazzo che accompagna la felicità di quei momenti. Le
lunghe telefonate con la pancia piena di emozioni.
«Tu invece?» mi ha chiesto Ornella all’improvviso. «Hai deciso di
vivere qui da solo a cucinare torte come Nonna Papera?»
Ho fatto un sorriso che sembrava volesse aprirsi in una risata, poi le ho
versato altro passito.
Mi ha incalzato: «La casa è il posto dove si può essere brutti in santa
pace. Vedo che hai già la barba incolta. Se prendi quell’onda va a finire
male».
Sono scoppiato a ridere. Ornella mi fissava ed era seria, forse la sua
preoccupazione era reale. Sapevo che mi voleva bene. Un bene sincero,
vero, autentico.
«Voglio farla crescere un po’ e vedere come mi sta.»
«Te lo dico io come ti sta, ti fa le guanciotte da criceto.»
Ho gonfiato le guance.
«Però sei sempre bello» mi ha detto con tono affettuoso, come se fosse
uscita per un attimo dal suo personaggio. Era la prima volta da quando la
conoscevo che mi faceva un apprezzamento.
Sapevamo entrambi che non avevo risposto alla sua domanda. «Non
voglio fare l’eremita, non sono scappato da qualcosa o da qualcuno.
Semplicemente dopo aver passato la vita a rincorrere persone nella speranza
che mi rendessero felice ho deciso di provare a farmi felice da solo.» Ho
guardato il paesaggio. «Hai presente la storiella delle farfalle?»
Ha scosso la testa.
«Se le insegui scappano, ma se coltivi un bel giardino saranno loro a
venire da te.» Mi ascoltava in silenzio. «Nella vita si attraggono le cose in
base a ciò che siamo e non a ciò che vogliamo. E poi, come mi hai sempre
detto tu, essere felici rende irresistibili. Sono sicuro che quando sarà il
momento arriverà qualcuno con cui condividere la mia felicità.»
Ornella ha sorriso, un sorriso nuovo, dolce, che non avevo mai visto sul
suo viso.
Ha bevuto un piccolo sorso di passito, con gli occhi fissi all’orizzonte ha
detto: «Quando l’allievo è pronto, il maestro appare».
L’ho guardata. Siamo scoppiati a ridere.
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di Fabio Volo
© 2023 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Per i versi in esergo: Hey You Testo e musica di Roger G. Waters © 1979 Roger Waters Music
Overseas Ltd. Amministrato da BMG Rights Management Worldwide. Tutti i diritti riservati
per tutti i Paesi. Riprodotto su autorizzazione di Hal Leonard LLC / Hal Leonard Europe BV
(Italy)
Per i versi Amico è (inno dell’amicizia) Testo di Dario Baldan Bembo, Mike Bongiorno e Nini
M. Giacomelli, musica di Dario Baldan Bembo e Sergio Bardotti © 1982 Universal Music
Publishing Ricordi S.r.l. / Sugarmusic S.p.A. Tutti i diritti riservati per tutti i Paesi. Riprodotto
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Per i versi Tutto il resto è noia Testo di Franco Califano, musica di Francesco Del Giudice ©
1977 Universal Music Publishing Ricordi S.r.l. Tutti i diritti riservati per tutti i Paesi.
Riprodotto su autorizzazione di Hal Leonard Europe BV (Italy)
Ebook ISBN 9788835730446

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