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“D omani mattina troverai un’auto sotto casa tua con un biglietto aereo per
raggiungermi a Parigi. Non devi pensare a niente, ho già pensato a
tutto io. Sarà un weekend indimenticabile.”
Luca è bravissimo nelle sorprese, ha il talento di rendere speciale ogni momento,
anche le pause pranzo. È un uomo molto indipendente, però non gli piace stare da
solo.
Ha una storia importante alle spalle, finita non ha capito bene come (“quand’è che
le cose belle poi diventano brutte?”). Esce con una ragazza che ha la metà dei suoi
anni e un po’ se ne vergogna, ma lei è come una boccata d’aria fresca. Sua madre
invece dispone di lui come se non fosse mai diventato un adulto e non perde
occasione per farlo sentire sbagliato, in debito.
Un giorno, per caso, incontra Lucia, la sua fidanzata di quando aveva vent’anni. Il
loro era stato un amore da film, assieme avevano vissuto tutte le prime volte. Adesso
lei ha una figlia e si sta separando dal marito. E se provassero a tornare al punto dove
si erano fermati, vedere cosa è rimasto di quei due?
Il nuovo romanzo di Fabio Volo coinvolge ed emoziona pagina dopo pagina, con
scene romantiche in cui pare di volare – tra calici di vino buono e croissant caldi –,
dialoghi che sembrano rubati dalla nostra vita quotidiana e riflessioni in cui ritrovarsi
quando ci sentiamo un po’ persi.
Tutto è qui per te è un libro sulla linea d’ombra che ciascuno di noi si trova a
superare alle età più differenti e inaspettate. Sulla voglia di mettersi in gioco
davvero, di predisporsi ad accogliere l’amore anziché rincorrerlo ovunque. Sul
valore che può avere anche la solitudine. Sul desiderio, e la possibilità, di un nuovo
inizio.
L’autore
PINK FLOYD
DANTE
Intro
C’è voluto quasi un anno prima che fossi presentato a Gabriele come il
nuovo fidanzato della mamma, e quasi due prima che andassi a vivere con
loro.
Era tutto nuovo, non avevo mai avuto questo tipo di esperienza, e come
in tutte le cose nuove avanzavo a tentativi, a piccoli passi, qualche
aggiustamento in corsa. Non è stato facile trovare la misura.
Sono cresciuto senza un padre e forse per questo io e Gabriele ci siamo
trovati subito, lui ne aveva uno lontano. Stavo sempre attento a non
superare certi confini, senza mai fargli mancare la mia presenza.
Quella sera, dopo aver rivisto Beatrice da Francesco, ho iniziato a
corteggiarla in modo classico. Le inviavo fiori, cioccolatini, libri e finte
cartoline. Le facevo io, stampavo foto di posti improbabili e dietro scrivevo:
“Tutto bello, manchi solo tu”, “Ti penso ogni giorno mentre passeggio qui”,
“La prossima volta ci veniamo insieme”.
Una sera ci siamo scambiati dei messaggi e a un certo punto mi ha scritto
che stava per iniziare a vedere un film con Gabriele. Le ho mandato del
gelato.
Un’altra volta le ho chiesto se le andasse di uscire a cena. “Non posso”
mi ha risposto. L’ho presa subito come una mancanza di interesse per me.
Un minuto dopo mi è arrivato un altro messaggio: “Posso domani”.
La sera dopo, seduti al ristorante, mi ha detto: «Sono sicura che non sei
mai uscito con una donna che ha un figlio piccolo».
«Come lo sai?»
«Perché quando si ha un figlio piccolo è più complicato organizzare una
cena all’improvviso, dalla mattina alla sera.»
Allora provavo con i pranzi, sempre all’ultimo minuto, sempre di
sorpresa. Dopo diversi tentativi, l’ho spuntata un bellissimo giovedì di
novembre. L’ho portata al parco e abbiamo mangiato una pizza nel cartone,
seduti su una panchina, il sole era così caldo che ci siamo tolti le giacche.
Abbiamo chiacchierato, riso tanto.
Quando l’ho riaccompagnata sotto l’ufficio mi ha detto: «Allora è questo
il tuo talento? Rendere speciale una pausa pranzo». D’impulso mi sono
avvicinato e le ho dato un bacio leggero sulle labbra. Era la prima volta che
le nostre bocche si toccavano.
È andata avanti così per due mesi prima di fare l’amore. Anche questa
per me era una novità. Di solito se non era la prima sera era al massimo la
seconda, in casi rari la terza, ma tutto era sempre stato una questione di
giorni.
Eravamo da me, un sabato pomeriggio, dopo aver pranzato insieme. Ci
stavamo baciando sul divano e avevo capito che sarebbe successo. Mentre
poi stavamo nudi, l’uno sull’altra, mi ha detto: «Se lo facciamo, per me
significa che stiamo insieme».
Anche se me lo aveva detto con un tono dolce, quella frase esprimeva
tutto il suo modo di vivere. Con lei non c’erano mai irrisolti o ambiguità.
Aveva bisogno che tutto fosse chiaro e senza malintesi. Amava dare un
nome alle cose, sapere dov’era e dove stava andando. Doveva avere la
situazione sotto controllo e questo la costringeva a chiedere sempre
chiarimenti quando le cose non erano definite. Se Beatrice fosse un vino
sarebbe un Verdicchio in anfora della zona di Cupramontana, elegante,
armonico, senza compromessi.
«Per me sei già la mia ragazza» le ho risposto.
Anche se lo avevo detto con un velo di ironia, non avevo dubbi su di noi.
Mi vedevo con altre in quel periodo, ma più frequentavo Beatrice, più
desideravo solo lei. Eravamo fatti per stare insieme, lo avevo capito subito.
Anche sessualmente ci siamo trovati. A differenza di quello che
immaginavo, Beatrice, che nella vita era rigida e controllata, quando faceva
l’amore era totalmente libera e disinibita. Mi piaceva molto la persona che
era in quei momenti, appena finivamo tornava a essere quella di prima.
Una sera eravamo a casa da soli, Gabriele era dal padre, Beatrice stava
lavorando al computer. Mi sono avvicinato, ho iniziato a farle un massaggio
alle spalle e poi lentamente le ho baciato il collo. Aveva capito di cosa
avevo voglia.
Lei mi ha assecondato e ci siamo ritrovati sul divano. Appena finito, è
andata in bagno, a volte si alzava subito per paura di sporcare, e poi è
tornata al computer.
Era così, riusciva a passare da una cosa all’altra con una rapidità e una
lucidità sorprendenti. Eppure, in entrambe le cose era totalmente coinvolta.
Lavora nell’azienda del padre, settore tessile. Negli anni si è presa molte
responsabilità, sua sorella Viola invece vive in Costa Rica. Si è fatta
liquidare in anticipo la sua parte d’eredità e si è trasferita. Pare non faccia
molto, se non delle passeggiate in spiaggia a giocare con un randagio che ha
raccattato per strada.
Non sembrano nemmeno sorelle.
Beatrice, durante qualche discussione, se n’è uscita con: «Sei proprio
come mia sorella». Ho capito che c’erano delle tensioni, anche se quando si
vedevano non litigavano mai.
Ho incontrato Viola un paio di volte. Disordinata, confusa, spettinata,
sempre sorridente e piena di tatuaggi. Suo padre la adora.
Beatrice si ammazza di lavoro, si occupa di ogni cosa, grazie a lei
l’azienda è uscita da una lunga crisi che rischiava di portarla al fallimento.
Nonostante tutto, il padre fatica a riconoscerle questo merito.
La prima volta che sono andato a pranzo da loro c’era anche Viola, in
visita per qualche giorno.
«Se vuoi conoscere davvero una persona devi vederla all’interno della
sua famiglia» mi aveva detto una volta Francesco. È vero, è sorprendente
vedere come cambiamo quando siamo dentro i ruoli famigliari.
Beatrice, una donna forte, indipendente e sicura di sé, con i suoi genitori
si trasformava in una bambina perennemente sotto esame e in cerca di
approvazione.
Si comportava sempre in modo che non le si potesse rimproverare nulla.
La sorella invece era libera, apparentemente disinteressata al giudizio
degli altri, compreso il mio.
Beatrice sembrava dire: “Amami per quello che faccio”, mentre la
sorella: “Amami per quello che sono”.
Beatrice era dura con se stessa, si giudicava, si censurava, perdendosi
molte esperienze. Forse ci siamo piaciuti per questo, io ero attratto dal suo
ordine, dalla sua chiarezza; lei era rimasta sedotta dal mio caos, dal mio
vivere tutto con leggerezza e spontaneità. Forse amando me avrebbe
imparato ad amare anche sua sorella.
La vita di Beatrice era lineare e organizzata, esprimeva in maniera
naturale il suo modo di essere. Quando è entrata nella mia, ha portato subito
ordine. Tutto funzionava meglio.
La prima volta che è venuta da me, dopo aver usato il bagno, è uscita col
flacone dello shampoo in mano: «Era sul bidet. Non dirmi che ti lavi lì sotto
con questo».
Ho riso. «Mi lavo con quello che trovo, a volte il bagnoschiuma, a volte
lo shampoo, a volte il sapone per le mani.»
«Sei matto, ci vuole un prodotto che rispetti il ph e la flora batterica.»
Io ridevo e lei, dietro il tono divertito, era davvero sorpresa.
Una sera, mentre mi lavavo i denti prima di andare a dormire, ho notato
sopra al bidet un sapone intimo.
Ho fatto una foto e gliel’ho inviata. “Vedo che hai a cuore le mie parti
delicate.”
Mi ha risposto: “Ho a cuore te. Sei tutto delicato”.
È un aneddoto che abbiamo raccontato spesso agli amici, negli anni.
Beatrice era la donna di cui avevo bisogno, mentre lei aveva bisogno di
qualche imprevisto in più nella sua vita.
Quando abbiamo deciso di vivere insieme, è stato naturale che fossi io a
traslocare, lei aveva una casa più grande, oltretutto io ero in affitto. Molte
delle mie cose sono finite nella cantina e nel garage di mia madre. Ho
insistito solo per portare qualche libro e soprattutto il giradischi.
Le nostre vite avevano storie diverse. Lei era cresciuta con possibilità
che io non ho mai avuto. Anche se col lavoro ero riuscito a guadagnarmi
una vita più agiata, si capiva che da questo punto di vista non avevamo
molto in comune.
Io non sono bravo in nessuno sport che richieda un maestro,
dell’attrezzatura o degli spostamenti. Non so sciare, non so giocare a tennis,
non ho mai preso in mano una mazza da golf. Mia madre non poteva
permettersi di pagarmi le lezioni. Da bambino correvo, giocavo a calcio, a
pallamano, a basket.
La famiglia di Beatrice aveva una grande casa a Milano, una in Versilia e
una a Madonna di Campiglio. Io e mia madre non siamo mai andati in
vacanza, se non a trovare la nonna sul lago.
Quando andavamo in montagna nei fine settimana, Beatrice e Gabriele
sciavano, io restavo a casa a leggere e rilassarmi.
Durante le cene con i suoi amici, se si parlava di settimana bianca mi
vergognavo a dire che non sapevo sciare. E avevo paura che si vergognasse
anche lei. Un giorno gliel’ho chiesto. «Sono tutte paranoie tue» mi ha
risposto. Però poi insisteva perché prendessi lezioni. Mi sentivo un idiota a
scendere a spazzaneve con bambini di cinque anni, più umiliante che dire di
non essere capace.
Quando ho proposto a Gabriele le vacanze in tenda, lui è esploso con un
“sìììììììì”, mentre Beatrice mi ha guardato come se stessi per estrarle un
molare. «Io non ci vengo neanche se mi pagate.»
La sera, a letto, mi ha fatto notare che avrei dovuto prima parlarne con
lei. «Altrimenti sembro la stronza che rovina sempre tutto.»
“A volte lo sei” avrei voluto rispondere, sono stato abbastanza
intelligente da tacere. Anch’io rifiutavo di fare le vacanze in barca, cosa che
a lei è sempre piaciuta. L’idea di passare giorni interi in mare, confinato in
uno spazio angusto, mi mette ansia. Soprattutto non sopporto il pensiero di
non potermene andare se ne sento la necessità o la voglia.
Ho cercato di convincerla delle bellezze del campeggio. La spaventava
l’idea di dormire in tenda. «In vacanza mi voglio rilassare, fare colazione
comoda e soprattutto non voglio andare nei bagni comuni a sentire rumori
intestinali di gente sconosciuta che cammina con ciabatte di gomma e
asciugamani sulle spalle.» Le sue motivazioni mi facevano sorridere.
La mattina, Gabriele non parlava d’altro, il danno era fatto.
Una sera, quando sono rientrati, hanno trovato una tenda montata in sala.
«Questa notte dormiamo qui, così facciamo una prova.» Ero molto fiero
della mia trovata. «C’è posto anche per la mamma, in caso avesse cambiato
idea.» Beatrice era arrabbiata.
Gabriele non stava nella pelle, ha cenato velocemente, si è preparato per
la notte e ha scelto un paio di peluche con cui condividere l’avventura. Era
eccitato come se la tenda fosse montata sul Machu Picchu.
Alla fine, anche lei si è arresa ed è entrata con noi.
Era divertente essere lì tutti insieme. All’improvviso si è sentito un odore
tremendo. «Chi è stato?» ho chiesto. Gabriele è scoppiato a ridere.
«Ma che hai mangiato a cena, calzini sudati?»
Beatrice si è alzata per uscire, l’ho fermata. «Se dobbiamo morire,
dobbiamo morire insieme.»
Ridevamo, divertiti da quella situazione.
Quando Gabriele si è addormentato, siamo usciti e siamo andati in
camera da letto. Abbiamo fatto l’amore. Mi eccitava sentire i mugolii di
Beatrice che tentava di non farsi sentire.
Dopo, siamo rimasti abbracciati, avrei voluto addormentarmi con lei, ma
non volevo che Gabriele si svegliasse e vedesse che avevo passato la notte
su un letto vero, mentre lui dormiva sul materassino. Mi sono alzato con un
lamento da vecchio stanco.
«Ma come? Non è così bella l’avventura?» Ogni tanto Beatrice mi
sfotteva. Mi piaceva quando succedeva, dava spazio alla sua parte più
giocosa.
Appena prima che oltrepassassi la porta, ha sussurrato: «Sarebbe perfetto
se fosse sempre così. Dopo averlo fatto, te ne vai a dormire in tenda e io ho
tutto il letto a disposizione, senza nessuno che russa. Non smontarla,
usiamola per qualche giorno».
3
Se penso alla nostra relazione, mi accorgo che col tempo siamo diventati il
risultato delle nostre incomprensioni e dell’incapacità di comunicare
davvero. Non c’è stato un avvenimento che ha rovesciato tutto
all’improvviso, è stato un lento, impercettibile movimento che giorno dopo
giorno ci ha fatto sprofondare.
«Quand’è che le cose belle diventano brutte?» ho chiesto a Francesco
mentre facevo girare tra le mani un bicchiere di Pinot nero.
«Non chiederlo a me, sono single da quasi dieci anni.»
Beatrice mi aveva detto delle cose terribili, che non andrebbero dette
nemmeno durante una discussione: “Maledetto il giorno che ti ho
incontrato”, “Vattene da casa mia, non la voglio una persona come te nella
mia vita”. Una sera mi ha perfino detto che non ero un uomo, che non avrei
mai concluso nulla, e che solo una stupida come lei poteva cascarci con uno
come me. Erano frasi che, una volta uscite, non possono essere ignorate.
Poi, ha portato tutto su un altro livello.
A letto, dopo aver battibeccato su alcune cose, tra cui la quantità di
vestiti che ingombravano la poltrona, senza nemmeno guardarmi: «Forse è
arrivato il momento di lasciarci, non ha più senso stare insieme così».
Ho cercato di ammorbidire, non potevo accettare che parlasse sul serio.
«Mi sono lasciata col padre di mio figlio, non mi spaventa farlo con te.»
Sono rimasto di ghiaccio, non me l’aspettavo. Ero terrorizzato perché
non riuscivo a sopportare l’idea che tra noi finisse, e forse lei l’ha capito,
perché sentivo che traeva forza dalla mia paura.
Ho provato subito a riportare indietro tutto, scusandomi e addossandomi
la responsabilità delle nostre difficoltà. Le cose quella sera si sono
sistemate, tanto che poi abbiamo fatto l’amore.
Però aveva parlato di separazione. Certe parole non andrebbero mai dette
perché quando lo fai si infilano nella testa delle persone, che iniziano a
immaginare scenari e questi scenari diventano entità che prendono forma e
non si sa dove vanno a finire. “Il pensiero crea la materia” si dice.
Non riuscivo nemmeno a pensare all’idea di separarci, e non solo perché
non volevo perdere Beatrice, io non volevo perdere Gabriele.
Io e lui spesso facevamo a gara a chi dei due amasse più l’altro. Gli
dicevo che nessuno poteva amare una persona più di quanto io amassi lui.
Andavamo avanti così dei minuti, era diventato il nostro gioco. Poi un
giorno mi ha sorpreso: «Ti voglio più bene io e lo sanno già tutti nel mondo.
Per cui basta, ho vinto».
L’idea di perderlo mi distruggeva.
È stato Francesco a cambiare la mia prospettiva, mi ha fatto capire che
non potevo lasciare che fossero le paure a guidare la mia vita. «Quando si
ha paura si sbaglia sempre. È come quando cucini il riso. Anche se l’hai
fatto mille volte, ti sembra sempre poco e alla fine continui ad aggiungere
qualche pugnetto finché non diventa troppo. È la paura di restare con la
fame a farti sbagliare.»
Una sera, dopo una brutta discussione, Beatrice aveva preso un libro ed
era andata a letto.
Mi sono ritrovato solo sul divano a guardare la televisione. Erano giorni
che c’erano tensioni, silenzi, aria pesante. Ero stanco di sentirmi dire che
sbagliavo. Era arrivata perfino a sostenere che il mio modo di amare non
andava bene. «Non mi sento amata», aveva chiuso così quella discussione.
Mi sono addormentato e quando mi sono risvegliato erano le tre. Dalla
finestra entrava la luce dei lampioni, sono rimasto immobile ad ascoltare i
rumori che venivano dall’esterno e a osservare i fari delle auto proiettati sul
soffitto. Ho sentito la voce di un ragazzo e una ragazza, si sono detti
qualcosa e poi sono scoppiati a ridere.
Ho cercato di immaginare come fossero quei due e poi, senza nemmeno
accorgermene, quei due siamo diventati noi, noi quando ci siamo
conosciuti, quelli che non riuscivamo più a essere.
Sono stato assalito dall’ansia. In bagno, ho aperto il rubinetto e ho fatto
scorrere il getto finché l’acqua non è stata davvero fredda. Poi mi sono
sciacquato la faccia più volte. Mi sono seduto in cucina, con un bicchiere di
acqua frizzante.
Avevo paura di tornare a vivere senza di loro, paura del dolore che avrei
provato nel perderli e soprattutto paura di rimanere solo tutta la vita.
Ognuno di noi vive delle contraddizioni. La mia è che, anche se sono un
uomo molto indipendente, non mi piace stare solo. Non avevo mai vissuto
da solo, prima stavo con mia madre, poi ho diviso la casa con dei
coinquilini, poi altre piccole convivenze per necessità o comodità.
Ero diventato anche pigro, l’idea di dover ricominciare a uscire la sera
per conoscere gente mi stancava.
Era come se mi guardassi per la prima volta dopo anni, e quello che
vedevo non mi piaceva per niente: ero debole, senza forze, spossato, fiacco.
Mi sono reso conto che in quella quotidianità mi ero perso.
Da fuori ha iniziato a filtrare la luce del giorno, era arrivato il mattino
senza che me ne accorgessi.
Sono andato in camera, mi sono seduto sul lato dove dormiva Beatrice.
Ha aperto gli occhi, le ho scostato i capelli dal viso, le ho accarezzato una
guancia, ci guardavamo senza parlare. Eravamo entrambi stanchi,
appesantiti, legati a qualcosa di invisibile a cui non sapevamo neppure dare
un nome ma che ci toglieva forza, leggerezza. Non era colpa di nessuno e
nessuno voleva trovare un colpevole.
I suoi occhi sono diventati lucidi, una lacrima è scesa bagnando il
cuscino.
In quel momento abbiamo capito che era finita, qualcosa tra noi era
andato perso per sempre. Eravamo esausti e ci siamo arresi.
Mi sono vestito e sono uscito. Non volevo restare a fare colazione,
soprattutto con Gabriele.
Ho attraversato il parco. C’erano persone che correvano, altre con i cani,
altre in bicicletta.
Avevo immaginato spesso il momento in cui Beatrice mi avrebbe
lasciato, e nelle mie fantasie piangevo sempre dalla disperazione. Ho
cercato una panchina per farlo da seduto.
Quando l’ho trovata, è stato chiaro che quello che stavo vivendo, cioè la
realtà, era diversa. Stavo male, ma non sentivo il bisogno di piangere.
Stranamente, in quel dolore mi sono scoperto più libero, come se qualcosa
di pesante mi si fosse levato di dosso.
5
Quando ho visto Lucia per la prima volta, ero poco più giovane di Matilde.
Rideva ed è stato un vero colpo di fulmine, mi ha folgorato. Era un venerdì
sera, eravamo a Parma in una piazza piena di bar.
In quegli anni per comunicare bisognava incontrarsi, non esistevano i
telefonini, e non esistevano i minuti illimitati, tanto che in certe famiglie il
telefono fisso veniva chiuso con un lucchetto.
Durante i fine settimana ci si riversava tutti in piazza e l’interesse
principale era sapere dove avrebbero fatto serata gli altri. Volevamo andare
dove andavano tutti per poi dire: «Che palle, sempre le stesse facce».
Ci si conosceva, anche se le compagnie erano diverse. In quella piazza
ho visto Lucia per la prima volta. La osservavo da lontano e mi piaceva
tutto di lei, i capelli castani, il viso morbido e dolce, come era vestita: jeans,
maglietta bianca e una camicia a quadrettoni di qualche taglia più grande
(erano gli anni Novanta).
Ho preso coraggio e mi sono avvicinato. «Ciao.»
Era stupita, non mi aveva visto arrivare.
«Ti stavo guardando da lontano e mi sono accorto di non averti mai
vista. È la prima sera che i tuoi ti lasciano uscire?» ho detto, cercando la
battuta.
Ha sorriso divertita. «Chi sei? La sicurezza della piazza?»
Le sue amiche sono entrate nel bar e siamo rimasti soli.
Mi ha sorriso. «Frequentavo un’altra compagnia e non siamo mai venuti
qui.» Ho pensato che stavo andando alla grande.
Più parlavo con lei più mi piaceva, più mi piaceva più sentivo di
piacerle, più sentivo di piacerle più ero sicuro di me. Ho azzardato: «Vuoi
sapere una cosa? Molti ragazzi pensano che te la tiri, in realtà sei timida».
Lucia mi ha guardato senza dire nulla. Ho capito di aver fatto centro. «E poi
sei la classica persona buona, ma se ti fanno incazzare diventi una iena.»
Lei continuava a tacere.
Ne ho sparate altre tre o quattro finché ha detto: «Come hai fatto?».
Il mio ego è esploso.
«Come hai fatto a sbagliarle tutte.»
Credo mi sia caduta la faccia.
«Se facessero il festival del luogo comune dovresti iscriverti, vedo del
potenziale.»
Sembrava divertita e io mi sono sentito un vero idiota. Nell’imbarazzo,
ho detto altre due o tre cose che sono suonate antipatiche, come se fossi
offeso, più cercavo di rimediare più affondavo. Il culmine è stato quando le
ho detto: «Eppure sono convinto che io e te un giorno faremo l’amore».
Le sue amiche sono tornate, lei mi ha salutato dandomi le spalle e mi ha
ignorato per il resto della serata. Sei proprio un coglione, ho pensato.
Parma è una piccola città e non è passato molto prima che ci
incontrassimo di nuovo. Era domenica sera, ero stato tutta la giornata a casa
sul divano a guardare dei film addormentandomi più volte. Non avevo
nemmeno voglia di uscire ma Carlo aveva insistito. Ero uscito in tuta, per
una birra veloce: «Resto un’ora e poi torno a casa». La classica frase da non
dire quando uno non vuole fare tardi. Ho raggiunto Carlo nel solito bar e lei
era lì, di schiena, a chiacchierare con delle amiche. Ero sempre stato
disinvolto con le ragazze, ma con lei qualcosa non funzionava e quel
qualcosa ero io. Sono stato assalito dall’insicurezza, poi si è voltata e mi ha
sorriso e quel sorriso mi ha dato il coraggio di avvicinarmi di nuovo.
Teneva tra i piedi una grande sacca.
«Sei andata in palestra?»
«No, è la mia borsa da viaggio, studio a Venezia e vivo lì. Torno a Parma
nei fine settimana. Tra poco ho il treno.»
Mi sono offerto di accompagnarla alla stazione. Per un motivo che
ancora oggi non mi spiego, ha accettato. Per paura che cambiasse idea, ho
preso subito la sua borsa e ci siamo diretti verso la mia auto, che poi era
quella di mia madre.
In auto non parlavamo, ero in evidente difficoltà e lei non faceva nulla
per aiutarmi. Non mi aveva negato un’altra possibilità, ma al tempo stesso
non mi regalava nulla.
Per rompere l’imbarazzo, le ho chiesto se le piacesse vivere a Venezia:
«Sai che di solito si dice “bella ma non ci vivrei”».
«Io ci vivrei, anche dopo la laurea.»
Siamo caduti in un altro lungo silenzio, avevo sempre paura di dire
qualcosa di sbagliato. Poi, ho deciso di rischiare: «Parla tu, perché magari
io dico un’altra cazzata. Tu non sbagli di sicuro».
«Non ti preoccupare, tra cinque minuti siamo arrivati, anche se in effetti
in cinque minuti potresti…»
«Non lo dire.»
Siamo scoppiati a ridere. Si era creata una piccola complicità e la cosa
mi aveva fatto esplodere di gioia.
L’ho accompagnata fino al treno, portandole la borsa. «Ci vediamo
venerdì, se torni.»
Ha annuito. È salita, niente baci, niente abbracci. Poi, come nei film, l’ho
salutata dal finestrino mentre prendeva posto.
Mentre camminavo verso l’auto parcheggiata mi sono accorto che avrei
voluto il viaggio fosse durato ore. Non eravamo mai rimasti soli senza gli
occhi degli altri addosso, senza interruzioni di altre persone. Ero stato bene
in quei pochi minuti passati con lei. Ho sentito un impulso improvviso e ho
deciso di seguirlo. Sono corso indietro fino al binario, davanti alla sua
carrozza, stava rovistando nella borsa e non mi ha visto. Ho bussato sul
vetro, si è voltata di scatto, forse spaventandosi un po’. Avevo un gran
fiatone e le parlavo cercando di scandire bene le parole, con movimenti
lenti e ampi delle labbra. Non capiva. Accompagnavo ogni parola con dei
gesti, sembravo un mimo.
Ha sventolato una mano davanti al viso come a dire: “Sei matto?”. Le ho
fatto segno di scendere, mi ha guardato qualche secondo immobile. Proprio
in quel momento il capotreno ha fischiato, ed è stato come una sveglia
perché è scattata in piedi, ha preso sacca e borsetta e si è lanciata giù dal
treno.
Le porte si sono chiuse dietro di lei una frazione di secondo dopo. Siamo
scoppiati a ridere, io quasi senza fiato.
Qualche minuto più tardi abbiamo imboccato l’ingresso dell’autostrada.
Quella sera l’ho accompagnata fino a Venezia, l’ho lasciata sotto casa e
sono tornato a Parma.
Era stato un viaggio infinito, al ritorno faticavo a tenere gli occhi aperti.
Mi sono fermato in autogrill per un caffè doppio. Ripensando alle cose che
ci eravamo detti e alle volte che insieme eravamo scoppiati a ridere mi sono
ritrovato a sorridere da solo con la tazzina in mano. Ero stravolto, una
felicità così non l’avevo mai provata in tutta la mia vita.
Io e Lucia siamo stati insieme per quattro anni.
È stata una delle storie più importanti della mia vita, con lei ho vissuto
tutte le prime volte.
11
«Non ero sicuro di venirti a salutare, avevo paura che fossi ancora
arrabbiata.»
Mi ha guardato dritto negli occhi e ha aspettato qualche secondo, poi con
un sorriso ha detto: «Chi ha la coda di paglia vede accendini nelle mani di
tutti».
Era strano essere seduti a quel tavolino insieme. Non la vedevo da più di
vent’anni.
Ha ordinato un tè con dei biscotti, io un caffè con una fetta di torta.
«Ti piace ancora la liquirizia?» le ho chiesto indicando le confezioni di
rotelle impilate vicino alla cassa. Quando stavamo insieme, capitava che ne
finisse una busta in cinque minuti.
«Ci sto più attenta.»
Della Lucia di quegli anni sapevo molte cose, di quella di adesso non
molto.
«Sei insegnante di storia dell’arte, sei sposata e hai una bambina. Questo
è quello che so di te.»
«Più o meno tutto giusto, e tu? Io di te non so nulla.»
Le ho raccontato che non avevo figli, che lavoravo con i vini e che
questo mi portava a vivere tra Milano e Parigi.
«E ti piace Parigi? So che è una domanda stupida, piace a tutti.»
«All’inizio non molto e non capivo nemmeno l’amore che molte persone
avessero per la città. La trovavo sporca, caotica, i parigini antipatici. Adesso
mi piace ogni cosa e spesso ci resto anche se non devo lavorare.»
Parigi era completamente diversa da quella che vivevo i primi tempi.
Avevo imparato ad apprezzarla nella quotidianità. Ho raccontato a Lucia
che amavo anche solo fare la spesa, entrare in una boulangerie e comprare
una baguette o dei croissant, stare seduto all’aperto in un caffè a guardare la
gente passare, prendere un libro e andare a sedermi su una sedia ai Jardin du
Luxembourg, soprattutto il sabato o la domenica. C’erano delle volte in cui,
mentre passeggiavo, mi prendeva una strana euforia. Mi piaceva nelle
giornate di sole quando il cielo era un lenzuolo azzurro senza nemmeno una
macchia di nuvole e mi piaceva quando era grigia e pioveva, anzi, quando
era così la trovavo ancora più romantica. Tornare a casa d’inverno, la sera, e
sentire l’aria ghiacciata in faccia, con il vento che rendeva le luci dei
lampioni, dei semafori, delle auto più intense. Pensare che di lì a poco sarei
stato a casa al caldo con la luce di una abat-jour mi regalava una sensazione
difficile da spiegare. Parigi mi faceva amare la vita e il mio piccolo
appartamento diventava come una tana in cui mi nascondevo.
Lucia mi guardava nello stesso modo di quando stavamo insieme. Mi ha
sorriso. «Sei sempre stato bravo a raccontare le cose. Mi hai fatto venire
voglia di andare a Parigi.»
«Dici?» le ho risposto con un piccolo imbarazzo.
«Quando stavamo insieme mi parlavi di un libro che stavi leggendo e
non vedevo l’ora di leggerlo. Stessa cosa con i film o i dischi. Riesci a far
piacere agli altri le cose che piacciono a te.»
Ho tagliato la punta della torta con il cucchiaino e l’ho assaggiata, per
non restare immobile senza dire nulla.
«Ho sempre desiderato essere bella come una donna parigina, sono così
eleganti.»
«Lo sei» ho risposto. «Hai solo bisogno di un trench.»
Lo pensavo, Lucia portava tutti i segni del tempo, ma la sua bellezza era
intatta. Anzi, con l’età aveva qualcosa che la rendeva ancora più misteriosa.
Sorseggiava il suo tè in silenzio. Quando ha appoggiato la tazza nel
piatto, il tintinnio ha rotto la strana sospensione in cui ci trovavamo.
«La tua bambina come si chiama?»
«Giulia. Ormai ha sedici anni. Adesso è a Londra con uno scambio
scolastico per imparare bene la lingua.»
Non riuscivo a immaginarmi con una figlia di quell’età, eppure io e
Lucia avevamo solo un anno di differenza. «Cosa si prova ad avere una
figlia grande che vive da sola in un’altra città?»
Ha sorriso e mi è sembrato di cogliere della nostalgia nel suo sguardo.
«È successo tutto così in fretta che nemmeno me ne sono accorta. Se chiudo
gli occhi la vedo ancora piccola seduta al tavolo mentre confonde le “b” e le
“d” o scrive il due e il cinque al contrario. E adesso vive con un’altra
famiglia a Hampstead.»
«Sono sicuro che sei un’ottima madre.»
Lucia ha scosso la testa. «Cerco solo di non fare gli stessi errori che ha
fatto mia madre con me, e nel frattempo ne faccio altri.»
La ascoltavo in silenzio.
«Alla fine con i figli cerchi solo di essere l’adulto che avresti voluto
vicino quando eri bambino.»
Mi piacevano le cose che diceva, o magari era perché mi piaceva lei.
«Avete un buon rapporto?»
«Mia figlia mi ha salvata.»
«In che senso?»
«È una storia lunga, ma mi ha salvata. Tu invece?»
«Sono stato con una donna che ne aveva già uno e che non ne voleva
altri. Adesso la storia è finita e sono rimasto così» ho aggiunto, «solo come
un cane legato al palo della solitudine.» Abbiamo riso.
«Non ci credo che sei solo.»
Non volevo dirle che mi vedevo con una ragazza di ventiquattro anni,
l’età che avevamo quando ci siamo lasciati. «E tu? Sono anni ormai che sei
sposata» le ho chiesto per cambiare discorso.
Mi ha guardato come se stesse cercando le parole per rispondere. «Sono
separata da più di un anno.»
Non me l’aspettavo. «Mi dispiace.»
D’istinto avrei voluto chiedergliene il motivo, temevo fosse una
domanda troppo personale. L’avevo fatta anche a Beatrice quando ci
eravamo conosciuti. Il motivo di una separazione dice molto sia della
coppia sia delle singole persone. Per Beatrice il motivo era che si erano
sposati subito, avrebbero dovuto viaggiare di più, divertirsi di più, invece si
erano fatti sedurre dalla fretta di avere una famiglia, dalle immagini
romantiche dei film in cui si dipinge insieme la stanza del bambino. Poi, era
arrivato Gabriele e crescerlo era stato più duro di quanto si fossero aspettati.
Forse era successo anche a Lucia. La curiosità era grande. «Come mai
non ha funzionato?»
Si è irrigidita, appoggiandosi allo schienale della sedia e sospirando. Non
capivo se stesse pensando o se volesse evitare la domanda.
«Faccio sempre fatica a rispondere, mi chiedo se esista davvero un
motivo per cui due persone si lasciano. A te è chiaro perché vi siete
lasciati?»
Non sapevo cosa dire.
«Quando ci si lascia si hanno un sacco di idee sulla separazione, col
tempo si riesce a vedere la situazione da prospettive diverse. Più uno scava
più capisce che dietro a certi comportamenti ci sono cause lontane,
lontanissime. E le responsabilità iniziano a distribuirsi in svariate
direzioni.»
Mi guardava, aspettava che dicessi qualcosa. Mi sono appoggiato al
tavolo con i gomiti per avvicinarmi, ho accennato un sorriso guardandola
negli occhi. «Mi ha lasciato perché mi ha visto dentro.»
È scoppiata a ridere. «Questa te la rubo.»
«Lo dice Hugh Grant a Julia Robert in Notting Hill.»
All’improvviso si è creato un silenzio diverso, come se nessuno dei due
avesse voglia di continuare a parlare delle nostre vite attuali. Siamo
scivolati nel mondo nostalgico del passato. Abbiamo ricordato la prima
volta che ero andato a cena a casa sua, con i genitori. Ero così teso che nello
stringere la mano alla madre ero inciampato nel tappeto ed ero caduto.
C’era mancato poco che trascinassi a terra anche lei.
«Ti ricordi» mi ha chiesto «che dopo cena siamo andati al cinema tutti
insieme?»
Come potevo dimenticare quella serata, era stata un rituale che mi aveva
fatto entrare nel mondo adulto. Almeno così mi ero sentito. Il padre di
Lucia a fine serata aveva detto a tutti che ero un ragazzo in gamba e che
nella vita avrei fatto strada. Non scorderò mai come mi ero sentito nel
ricevere la sua fiducia, non scorderò mai come mi aveva guardato Lucia.
Dopo quella sera pensavamo che non ci saremmo mai lasciati.
«È stato bellissimo» ho detto con un misto di felicità e malinconia.
«Praticamente perfetti.»
Siamo stati seduti per più di un’ora, poi l’ho accompagnata dove aveva
legato la bicicletta e quando ci siamo salutati le ho chiesto il numero di
telefono.
Mentre guidavo verso Milano la mia testa era piena di lei. Ripensavo alle
cose che ci eravamo detti. Fermo in autogrill, dopo aver fatto benzina, le ho
mandato un messaggio: “Sono stato felice di vederti. A presto. P.s.: sembro
diventato tuo padre”.
Dopo venti minuti, il suono di una notifica: “Anch’io felice. Il brizzolato
ti dona”.
Avrei voluto scriverle ancora, ma ho avuto paura fosse troppo.
Poi, ho preso di nuovo in mano il telefono: “Scrivimi quando hai finito
in palestra, passo a prenderti”.
12
Quella sera dovevo cenare con Matilde, aveva l’ultimo turno così sono
passato da Francesco in attesa che lei si liberasse.
Il locale era quasi vuoto, la situazione perfetta per chiacchierare. Quando
glielo dico mi manda sempre a quel paese: «Se paghi l’affitto resto seduto
con te volentieri».
C’era anche Ornella. Non siamo mai riusciti a capire quanti anni abbia,
lei dice di averne settanta e qualcosa, ma ha superato gli ottanta di sicuro.
Più o meno credo abbia l’età di mia madre, ma a differenza sua è autonoma,
e rispetto a me e Francesco è più lucida. Abita sopra l’enoteca, all’ultimo
piano, e da quando abbiamo stretto amicizia è diventata una cliente fissa.
Scende, si siede a un tavolo e ordina il suo drink, sempre vodka liscia. «Non
ingrassa e combatte il diabete.»
Vive sola, ha avuto molte storie d’amore e si è spostata tre volte. Di un
marito è rimasta vedova, dagli altri due si è separata. All’inizio, quando ci
raccontava della sua vita, pensavamo fosse una mitomane, poi una sera ci
ha portato un album di fotografie lasciandoci a bocca aperta.
«Prima che pensiate che sono solo una vecchia pazza.»
«Non lo pensiamo» ho risposto.
«Certo che lo avete pensato, non sono mica stupida.»
Si capisce da come si muove che è stata una donna meravigliosa,
guardando le foto ne abbiamo avuto la conferma. Una ragazza dalla
bellezza sorprendente, circondata da uomini eleganti e famosi. C’erano foto
di lei con Fellini, Mastroianni, Celentano, Mina, Dino Risi, Walter Chiari.
Aveva fatto anche qualche particina in film dell’epoca.
Delle attrici ha la capacità di saper accostare in modo naturale il gesto
delle mani alla parola. Quando è in vena e ci racconta di quelle serate,
rimaniamo in rispettoso silenzio. Ornella è senza dubbio un Bolgheri:
intensa, corposa, dai profumi inebrianti, che conquista tutti. Ci siamo
innamorati subito di lei. Spesso la chiamiamo, perché non ha voglia di
scendere. Quando si convince, passa almeno mezz’ora prima che compaia
sulla porta perché non esce mai di casa fuori posto, vestita male, spettinata
o sciatta. Fuma sigarette sottili e per farlo si infila un guanto, detesta che le
resti l’odore sulle dita. È una delle donne più vanitose che abbia mai
conosciuto, lei lo sa, ci scherziamo spesso.
Dice quello che pensa, e non sono sicuro che sia una caratteristica
acquisita con l’età, credo fosse così anche da giovane.
Se sei vestito male te lo dice, se sei ingrassato te lo dice, se fai un
commento stupido te lo dice.
Quando l’ho conosciuta non ha avuto nessun problema a farmi sapere
che secondo lei ero più intelligente di quanto sembrassi. Non ho mai capito
se fosse un complimento o un’offesa.
Una sera, parlando dell’ennesima discussione che avevo avuto con
Beatrice, mi ha consigliato di non concentrarmi sempre e solo su come
fosse lei o come fossi io, ma di chiedermi come vedessi il mondo stando in
quella relazione.
«Cosa intendi?» Non capivo il senso della domanda.
«Le persone con cui stiamo sono come finestre. Conta molto come
vediamo il mondo, la vita, noi stessi attraverso l’altro.»
Amavo parlare con lei, aveva sempre un punto di vista originale e
diverso.
Una volta le ho chiesto se non l’avessero mai giudicata male, per i
matrimoni, i divorzi, gli amanti.
«Certo che sono stata giudicata. Più dalle altre donne che dagli uomini.
Gli uomini mi hanno capita. Ho scelto sempre di essere una donna libera
perché come diceva Simone De Beauvoir: “Una donna libera è l’esatto
contrario di una donna leggera”.»
Ornella era impareggiabile, non avevo mai conosciuto nessuna come lei.
«Sono stata tante donne, e sai perché? Perché sono sempre stata me
stessa, e solo chi è se stesso non è mai uguale.»
Per provocarla un po’ le ho chiesto: «Quindi ogni uomo con cui sei stata
direbbe di te cose diverse?».
«Certamente, non conosci la frase “una donna può indossare molti
cappelli”? Può decidere di essere spudorata con un uomo e riservata con un
altro. Andare a letto subito la prima sera con uno e far attendere un altro per
mesi. Un uomo appena conosciuto è più di tutto un’occasione per essere
una donna diversa.» Poi ha aggiunto: «Posso essere una discesa o una salita,
dipende da che parte mi prendi». Ed è scoppiata a ridere. Poi, ha aggiunto
ancora: «Ma c’è una cosa che tutti possono dire di me».
«Quale?»
«Che sono indimenticabile.»
Si faceva i complimenti con ironia, però si capiva che lo pensava
davvero. Perché lei scherzava della sua vanità, e allo stesso tempo la amava.
Un giorno mi ha detto: «Tu, Luca, sei come me, schiavo di un desiderio
istintivo di piacere. Noi entriamo in una stanza e vorremmo che tutti subito
ci amassero».
Ho pensato molto a queste sue parole, forse è vero, vorrei sempre piacere
a tutti, soprattutto a quelli a cui non piaccio.
Sono pieno di frasi di Ornella, mi capita spesso di riusarle come fossero
mie. Ha la capacità di capire le persone e le situazioni con una velocità
sorprendente: «Mi ricordi il mio primo marito, avete un estremo bisogno di
amore e approvazione, e poi, quando lo avete ottenuto, di quella persona
non vi importa più nulla».
Parlando di Francesco diceva di averlo amato nell’istante in cui le aveva
raccontato il motivo per cui aveva aperto l’enoteca: «Se vuoi conoscere una
persona le devi chiedere qual è il suo desiderio. E non importa se riesce a
realizzarlo, perché quello che dice tutto di una persona non è ciò che ha
ottenuto nella vita, ma ciò che desidera essere. La grandezza del vivere sta
in ciò che desideriamo».
Quella sera, appena sono entrato mi sono seduto subito con lei. Stava
fissando la borsetta di una ragazza seduta al bancone.
«Ti piace?»
«Molto, anche se è la brutta copia di una borsa degli anni Settanta.»
«Non so nulla di borse da donna, è un mondo che non conosco.»
«Una borsa dice molto della donna che la porta, ma non lo dice a un
uomo, lo dice a un’altra donna» mi ha risposto.
L’ho guardata con espressione interrogativa.
«Le borse sono un linguaggio tra donne che voi uomini non conoscete. È
una cosa tra di noi. Se una donna vuole dire qualcosa a un uomo glielo dice
con le scarpe.» Mentre cercavo di capire cosa intendesse esattamente, mi è
squillato il telefono, era Matilde: «Sei tornato?».
«Sono da Francesco.»
«Com’è andata? È stato triste?»
Ci ho messo un attimo a capire a cosa si riferisse, l’incontro con Lucia
mi aveva fatto scordare il motivo per cui ero andato a Parma. «Molto
triste.»
«Mi spiace, amore. Volevo solo avvisarti che finisco prima, se vuoi ti
raggiungo lì, tanto ho il motorino. Oggi hai guidato abbastanza.»
La premura di Matilde non smetteva mai di stupirmi.
«Non serve. Vengo io.»
C’è stato un piccolo silenzio. «Va bene, come preferisci.»
Ho salutato Ornella e Francesco dicendo che stavo raggiungendo
Matilde per cena.
«Non poteva venire lei qui?» ha chiesto Ornella. «Anche se è giovane
non la mangiamo mica.»
Ho riso e sono uscito.
Matilde mi aspettava sul marciapiede, fuori dalla palestra. Sembrava
infastidita, forse era successo qualcosa al lavoro ed era il motivo dell’uscita
anticipata.
«Tutto bene?»
«Sono stanca e ho una fame che mi sento svenire.»
«Cosa vuoi mangiare?»
«Qualsiasi cosa, tranne sushi.»
Siamo andati ai Navigli, in una trattoria che non frequentavo da anni.
Abbiamo parlato del funerale, ho omesso di aver visto Lucia. Non ci
sarebbe stato nulla di male a dirle che avevo incontrato una mia ex, ma
qualcosa mi ha impedito di farlo. Lei era un po’ fredda, come se avesse
avvertito qualcosa, o forse era una mia sensazione. Mi è tornato in mente
che “chi ha la coda di paglia vede accendini nelle mani di tutti”. Ho sorriso
tra me e me. Lei continuava ad avere un’espressione storta.
«C’è qualcosa che non va?»
«No.»
«È per stasera? Non ti va che dorma da te?»
«Certo che mi va.»
Ero stato costretto a chiederle di stare da lei per colpa di mia madre. Un
paio di settimane prima mi aveva chiamato mentre stavo con un cliente.
Mia madre ha un talento speciale per indovinare i momenti sbagliati. Mi
chiama quando sono sotto la doccia, quando sto con i sacchetti della spesa
in mano, mentre l’urologo mi controlla la prostata, mentre sto registrando
un vocale, obbligandomi a rifarlo da capo. Perché lei non molla fino a
quando non entra la segreteria, resta lì fino all’ultimo squillo e io sento il
fastidio salirmi dai talloni fino al collo.
Quel giorno, alla quarta chiamata a vuoto mi sono preoccupato, forse le
era successo qualcosa: «Tutto a posto?».
«Per fortuna sì, perché se fosse per te sarei già morta.»
Ho resistito all’impulso di trovare una scusa per riagganciare subito.
«Dimmi.»
«Guarda che viene da te a Milano Franco, e si ferma due o tre giorni,
adesso non mi ricordo bene quanto.» Chi cazzo è Franco, ho subito pensato.
«Ma chi? Non so chi sia.»
«Il figlio di una mia cugina. Lo hai visto una volta quando era piccolo.
Adesso è un bel ragazzotto di diciannove anni e deve venire a Milano per
un corso di qualcosa. La sua mamma mi ha chiesto di chiederti un consiglio
per qualche albergo o pensione, io le ho detto che poteva stare da te. Sono
brave persone e non lo dico perché è mia cugina.»
Mi è andato il sangue alla testa. «Scusa, non ho nemmeno la stanza per
gli ospiti. Mi si piazza sul divano e non lo conosco neanche. Ma poi, perché
inviti gente a casa mia senza chiedermi niente?»
Mi ha interrotto subito: «È il figlio di mia cugina. Per qualche giorno
puoi anche fare un sacrificio, se sapessi quanti ne ho fatti io per te quando
eri piccolo».
Per lei non sono mai diventato un adulto con una vita privata. Dispone di
me, sceglie per me, parla a nome mio come se andassi ancora alle
elementari. E non perde occasione per farmi sentire sbagliato, e in debito.
13
Quella notte, da lei, non abbiamo fatto l’amore. Ero certo che Matilde
avesse qualcosa, avevo anche capito che non le andava di parlarne.
Nemmeno io ero dell’umore giusto. Era stata una giornata intensa, avrei
preferito tornare a casa mia e avere a che fare con Franco, ma ormai ero
incastrato da lei. La sentivo respirare in silenzio dall’altra parte del letto,
cercava di muoversi il meno possibile per non svegliarmi, senza sapere che
anch’io non dormivo e facevo lo stesso. Quell’immobilità mi dava un
vantaggio, potevo pensare liberamente a Lucia, aggirarmi nei ricordi della
nostra relazione.
Nei fine settimana, quando la sua coinquilina non c’era, la raggiungevo a
Venezia, entravo nel palazzo e salivo i gradini due alla volta, con passo
veloce. Lei mi aspettava quasi sempre sul pianerottolo, appoggiata alla
ringhiera. Ci parlavamo a distanza, mentre salivo, e una volta al piano
abbandonavo a terra il borsone e lei mi saltava in braccio. Ci baciavamo in
modo vorace. La portavo dentro chiudendo la porta con un piede. Il borsone
restava fuori, dimenticato per ore.
Andavamo a letto o sul divano, oppure capitava di fare l’amore lì, nel
corridoio, appena dietro la porta d’ingresso. Ricordo ancora la fame, la
passione, come se il mondo sparisse e noi fossimo in un’altra dimensione.
Era un’età meravigliosa, tutto era nuovo, una scoperta e quindi
un’avventura. Si imparava a cucinare, a fare la spesa, la lavatrice, a pulire
casa. Si aveva la sensazione che la vita iniziasse in quel momento. Dopo
essere stati figli, per anni, finalmente potevamo essere i capitani della nostra
nave.
Le serate nella sua casa in affitto sembravano essere le prove per il
futuro insieme. Amavo starmene seduto sul divano e vederla girare in
mutande, con una mia camicia aperta e i calzettoni di lana. Il fatto di poterla
baciare, toccare, annusare mi sembrava il più grande privilegio e la più
grande fortuna del mondo.
E poi, lei era sexy senza saperlo. Non aveva bisogno di autoreggenti,
guêpière, reggiseni in pizzo. La trovavo irresistibile con le mutandine
normali, al massimo delle culotte.
Trovavo sexy anche il fatto che a Parma usasse sempre la bicicletta.
Quante volte arrivavo a un appuntamento e la trovavo mentre la legava a un
palo.
Ricordo una sera particolare, a Venezia, a casa sua. Era estate, lei era ai
fornelli e indossava solo le mutande. Mentre la guardavo ho pensato che
l’amavo tanto da volerla sposare subito, in quel momento, e lei, come se
avesse sentito il mio pensiero, si è voltata. «Che c’è?» mi ha chiesto
dolcemente.
Ero commosso da tutto l’amore che sentivo. Lei si è avvicinata. «Che
hai?» L’ho fatta sedere sulle mie gambe, poi l’ho abbracciata. L’ho guardata
negli occhi. «Ti amo. Ti amo e basta», e l’ho baciata.
Credo di aver provato il sentimento più intenso e puro della mia vita.
Con lei era tutto mescolato, l’erotismo, l’affetto, la passione, il
romanticismo. Una sera ha improvvisato uno spogliarello sulle note di
Fever. Avanzava verso di me facendo schioccare le dita e lanciando le
gambe in avanti. All’inizio ridevamo entrambi, poi quando è stata nuda mi
sono alzato, ho appoggiato la fronte sulla sua e l’ho spinta contro il muro, la
sua mano aggrappata allo stipite della porta, mentre la mia le teneva
sollevato un ginocchio.
Dentro il tempo limitato dei nostri fine settimana, ci sentivamo illimitati
e infiniti.
Nel rivederla durante il funerale e dopo, tutti i ricordi di lei sono
riaffiorati vivi, chiari e nitidi.
Nei giorni a seguire, Lucia abitava i miei pensieri per la maggior parte
del tempo. L’incontro con lei mi dava la sensazione di aver ritrovato
qualcosa di prezioso. Forse ha ragione chi dice che anche il cuore ha una
memoria, probabilmente il mio ricordava tutto di noi.
Quello che provavo non mi faceva sentire in colpa verso Matilde, Lucia
era più adatta alla mia vita, avevamo più cose in comune, oltre a un passato
che ci legava.
E comunque sarebbe stato inutile parlarne con Matilde, in fondo erano
solo ricordi, sensazioni, e forse non sarebbero mai diventati altro.
Il fatto però di averla incontrata ora che si era separata mi faceva pensare
che non fosse una coincidenza, ma il disegno di una forza più grande.
14
Erano le sei di sera, aveva soffiato un vento forte per tutto il giorno. Quando
c’è una giornata così, l’aria di Parigi si pulisce e pizzica le narici. Le luci
dei lampioni, dei semafori, dei fanali delle auto brillavano nel buio.
Camminavo verso casa con le buste della spesa. Avevo pensato a Lucia
tutto il giorno. Ero sempre più convinto che un weekend a Parigi sarebbe
stato perfetto, ci saremmo divertiti ricordando i vecchi tempi e magari
poteva rinascere qualcosa. A voler guardare bene la cosa, lei aveva sempre
risposto ai miei messaggi senza mai prendere l’iniziativa, quindi si poteva
dire che era stata più educata che interessata.
Ornella mi aveva detto che se ero convinto che lei fosse la mia occasione
di felicità avrei dovuto insistere: «Ritenta».
Al supermercato mi ero deciso a chiamarla appena fossi rientrato a casa.
Arrivato a place Dauphine sono stato catturato dalla bellezza di quel
momento. Mi capita spesso ultimamente, non so se sia l’età. Un signore
giocava col suo cane, due adolescenti si tenevano per mano, un uomo
svuotava i cestini e spazzava a terra. Tutto era avvolto dalla luce gialla dei
lampioni, che regalava un senso di magia e sospensione alla scena. Mi è
sembrato il posto giusto per chiamare Lucia. Mi sono seduto su una
panchina, le ho scritto: “Possiamo sentirci?”.
Sono rimasto lì ad aspettare la sua risposta.
Dopo un minuto è squillato il telefono. Era lei.
«Non mi aspettavo che chiamassi tu.»
«Ho pensato fosse più veloce così. Come stai? Sei già a Parigi?»
«Sono arrivato ieri sera. Sto bene, sono andato a fare la spesa. Vuoi
sapere cosa sto vedendo in questo momento?» Le ho descritto tutto nei
minimi dettagli, il colore delle case, le luci delle finestre e la scena davanti
a me.
«Mi sembra di essere lì.»
Ho sorriso. «Questa mattina mentre mi facevo la barba ho capito una
cosa.» Lei aspettava che continuassi. «Ho capito che in questi anni mi sei
mancata. Non nel senso che ti pensavo ma che sei mancata come persona,
nella mia vita. Sai quante cazzate in meno avrei fatto?»
Lucia si è messa a ridere. «È per questo che volevi sentirmi?»
«Il motivo è un altro» ho detto. «Domani mattina troverai un’auto sotto
casa con un biglietto aereo a nome tuo e la prenotazione in un hotel qui nel
Marais, vicino a casa mia. Le stanze sono silenziose, il letto comodo, e
servono ottime colazioni. All’aeroporto di Parigi ci sarà un’altra auto che ti
accompagnerà in albergo.»
«Tu sei pazzo.»
Stava per proseguire, non le ho lasciato il tempo. «Non devi rispondere
ora, non voglio sapere se salirai su quell’auto. Domani sera ti aspetterò in
hotel, andiamo a cena e prima a bere qualcosa. Non scrivermi cosa
deciderai di fare.»
«È tutto?»
«È tutto.» L’ho salutata. Dopo un paio d’ore le ho mandato un ultimo
messaggio: “Vorrei solo tornare al punto dove ci siamo fermati”.
17
Lucia è salita in camera, io l’aspettavo fuori. L’aria della sera era frizzante,
ho fatto un lungo respiro. C’era un uomo accanto a me, fumava. Mi sono
allontanato di qualche passo. Ricordo bene il piacere che si prova, e
nonostante questo ogni volta che vedo quel gesto ringrazio di aver avuto la
forza di smettere.
Due ragazze mi hanno chiesto se avessi da accendere, ho indicato loro
l’uomo che stava fumando poco distante. In quel momento è uscita Lucia.
«Nemmeno il tempo di lasciare la borsa e mi hai già rimpiazzato.»
L’ho abbracciata e le ho dato un bacio vicino alla tempia, era lì che la
mia bocca si trovava nel nostro incastro, poi l’ho guardata. «Ti va di fare
due passi? Il posto è a un quarto d’ora di distanza.»
«Ho bisogno di prendere un po’ d’aria.»
Ci siamo incamminati. Le ho detto che, se le andava, nel fine settimana
le avrei mostrato alcuni dei miei posti preferiti.
«Non devi lavorare?»
«Mi sono tenuto libero tutto il weekend.»
«Sei sempre stato molto organizzato» ha risposto con un tono nel quale
mi è sembrato di scorgere della malizia. Forse era solo nella mia testa.
«Quando uno non ha un talento deve avere almeno un metodo.»
Ha sorriso, poi mi ha chiesto quanto tempo passassi a Parigi.
«Sommando i giorni, in un anno arrivo a tre, quattro mesi.»
«Te ne vieni, fai le tue passeggiate tranquillo. Ti gestisci il lavoro. È
bello vedere che vivi ancora facendo solo quello che vuoi. Non avere figli ti
ha reso più libero.»
Stavo per risponderle, ma proprio appena saliti sul Pont Neuf lei ha
indicato un bateau-mouche che stava passando in quel momento sulla
Senna. «Immagino che tu non sia mai salito su uno di questi, come fanno
tutti i turisti.»
«Una volta, con la mia ex.»
«La gita romantica» mi ha detto prendendomi in giro.
«Nessuno dei due voleva andarci ma Gabriele insisteva. Alla fine mi è
anche piaciuto.»
Era stata una domenica indimenticabile. Gabriele aveva avuto ragione,
Parigi da quella prospettiva era stata una sorpresa. Sul battello li avevo
fotografati di profilo, con Beatrice che lo teneva da dietro. La foto era uscita
così bene da finire incorniciata, nell’ingresso di casa. Quando l’avevamo
vista ingrandita, avevamo notato che dietro di loro c’era una donna che
guardava l’obiettivo. Ci faceva ridere il fatto che una sconosciuta fosse stata
immortalata in una foto di famiglia e che fosse lì all’ingresso, pronta a
guardare chiunque entrasse. Con Gabriele ci divertivamo a inventare storie
su di lei, era diventato un gioco.
Ho chiesto a Lucia se avesse un buon rapporto con sua figlia.
«Cambia sempre, adesso è in una fase bellissima. Mi piace vedere che
sta cercando la sua strada, si impegna, è determinata. Ora è lei a
raccontarmi il mondo. A volte mi sento come se ormai fossi io la figlia.»
«E poi ti ha salvata, giusto?»
Era sorpresa che mi ricordassi le sue parole.
Ci siamo infilati in rue Bonaparte.
«All’inizio la sua partenza mi spaventava.» Ha fatto una pausa. «L’idea
di rimanere da sola con mio marito mi spaventava. Come avremmo
riempito le nostre giornate io e lui? Non avevamo più nulla in comune.»
Anche Beatrice mi aveva detto che l’allontanamento è cominciato
quando si è resa conto di non avere più nulla in comune con Marcello.
«Intendi dire che la sua scelta ha accelerato la separazione?»
«Mia figlia è una ragazza speciale, e non lo dico perché sono sua madre,
è molto matura. Parlava come un adulto già da bambina, faceva
impressione. Ha capito che ero infelice. Mio marito non si è accorto di
nulla, lei sì.»
Anche Gabriele mi aveva stupito più volte, ogni tanto le sue parole
lasciavano intendere che sentiva e capiva molto più di quello che noi
credevamo. «I bambini sono istintivi, sentono tutto.»
Ha sorriso. «Se a un bambino dici che sei felice e non è vero, non ci
crede. Se vuoi che ci creda, devi esserlo davvero.»
Era un po’ come dire che essere felici è una priorità non solo per se
stessi ma per le persone che ci stanno intorno.
«Abbiamo un piccolo rito, da quando era piccola. Ogni tanto ce ne
stiamo sole in bagno e io la pettino, le faccio la treccia. È stato lì che mi ha
detto che se non ero felice dovevo lasciare suo padre. “Non voglio una
mamma triste” ha detto.»
L’ho guardata, con il sospetto che non fosse andata proprio così, a volte i
genitori raccontano cose ingigantite sui propri figli.
Lei era convinta. «Quattordici anni. Capisci?»
«Ha preso da te.»
Ha riso. «Ma va’, io a quattordici anni non sapevo allacciarmi le stringhe
delle scarpe. Ha preso da suo padre.»
È passata un’ambulanza a sirene spiegate, la via era così stretta che il
suono è diventato insopportabile, abbiamo dovuto aspettare che si
allontanasse per continuare a parlare.
«Comunque nella vita non ho fatto solo quello che volevo. Anche se
capisco che possa sembrare così.» Sono tornato all’improvviso sulla sua
considerazione, non mi andava che rimanesse in sospeso.
«Ti sei offeso?» mi ha detto quasi ridendo.
«Non vorrei tu avessi una idea sbagliata della mia vita.»
Stavamo ridendo tutti e due.
«Ci sono state occasioni che non ho colto, e non per mia scelta.»
Mi ha guardato, l’avevo incuriosita. «Avanti, quali?»
Ho lasciato passare qualche secondo per tenere accesa la sua curiosità.
«Mi avevano offerto un ottimo lavoro in California.»
Con lo sguardo mi incalzava a proseguire.
«Non me la sono sentita di lasciare mia madre.»
«Potevi portare anche lei» ha detto in tono ironico.
«Certo, a fare surf.»
Abbiamo riso. Quando gliel’avevo detto, mia madre mi aveva subito
ricordato quanto fosse pericolosa l’America: «Si sparano nelle scuole,
lascia perdere. E poi io cosa faccio qui da sola?». Non contenta, sulla porta
di casa, aveva rincarato la dose: «Luca, non puoi abbandonare la tua
mamma». Ha sempre avuto una tendenza al melodramma.
A Lucia questo non l’ho detto.
«A me avevano offerto un posto in una galleria d’arte. Ho avuto paura di
essere fagocitata dal lavoro, di non riuscire più ad avere tempo per stare con
mia figlia.»
Eravamo arrivati, siamo rimasti in silenzio davanti alla porta del bistrot.
«Ti chiedi mai come sarebbe stata la tua vita se avessi detto di sì? A
volte mi immagino in California in situazioni bellissime.» Mi sono subito
vergognato di averle confessato questa fantasia.
«Anch’io lo faccio» ha detto con un filo di malinconia.
Quei destini non imboccati muoiono nella vita reale ma dentro la nostra
testa vivono per sempre e offrono ancora il loro riverbero. Almeno questo è
quello che succedeva a me.
«Alla fine siamo anche le strade che non abbiamo scelto» ho detto.
Prima di entrare, mi ha guardato negli occhi. «Grazie per le liquirizie.
Non le ho aperte, altrimenti adesso sarei ancora in albergo a mangiarle.»
In camera gliene avevo fatto trovare un sacchetto enorme.
19
Era sdraiata con la nuca appoggiata al mio petto. Sentivo il suo respiro
caldo sulla pelle, il suo corpo incollato al mio, il profumo dei suoi capelli.
Fare l’amore con lei era stato tutto un conoscere e riconoscere. Pur
avendolo già fatto, era stato tutto nuovo, e bello come allora. Il suo corpo ai
miei occhi così familiare e al tempo stesso nuovo. La nostra affinità,
l’alchimia che avevamo sempre sentito erano rimaste intatte. I nostri corpi
si incastravano ancora perfettamente. Era stata un’estasi di gioia.
Stavamo in silenzio, nudi, avvinghiati sotto il piumone. Lontano, si
sentivano le persone chiacchierare per strada. Tutto era sospeso, io, lei, i
suoni, la vita stessa. Mi sentivo innamorato e forse lo ero veramente.
In passato, più facevo l’amore con lei più desideravo farlo. Il desiderio
appena soddisfatto, invece che diminuire, aumentava e rendeva
insopportabile il tempo senza di lei. Qualsiasi altra cosa perdeva intensità,
valore.
Nella quiete, come se avesse intuito i miei pensieri, mi ha dato un bacio
sul petto. Avevo la sensazione che ci fossimo ritrovati.
«In questi anni ho pensato spesso a noi» ha detto, immobile. Mi è
sembrato che si stesse aprendo, più volte avevo avuto il dubbio che il nostro
riavvicinamento fosse stato un desiderio solo mio.
«Mi sono aggrappata al ricordo di noi ogni volta che avevo una
difficoltà, come se il destino di quei due fosse il destino che avrei dovuto
seguire. Ogni tanto chiudevo gli occhi e immaginavo i momenti insieme
che non abbiamo vissuto. Quando ero incinta mi è capitato anche di
chiedermi come sarebbe stato se fosse stato tuo. E sai perché quei momenti
erano perfetti?»
«Perché siamo fatti per stare insieme» le ho risposto subito.
Ho capito dal respiro che stava sorridendo.
«Perché non sono mai esistiti, sono frutto della mia immaginazione.»
È stata una frase fredda, molto razionale e poco romantica. «Può darsi,
oppure erano perfetti perché siamo fatti per stare insieme.»
Ha sorriso di nuovo. «Mai rovinare una bella storia con la verità.»
Ci siamo ritrovati in un silenzio lungo e dilatato, un momento diverso da
quello di prima.
Quando è tornata a parlare, mi è sembrato che fosse distante. «Ti ricordi
quando stavamo a letto a giocare a “per cosa vale la pena vivere”?»
Era una cosa nostra, che facevamo spesso. La prima volta era successo
da lei a Venezia. Avevamo appena finito di vedere Manhattan. In una scena
Woody Allen si sdraia sul divano, prende il microfono di un registratore e
inizia a elencare le cose per cui vale la pena vivere. Finito il film abbiamo
fatto anche noi le nostre liste. Ricordo che lei disse subito: i film di Woody
Allen. Ero d’accordo.
«Avevi una lista lunghissima: il gelato alla nocciola, il bagno nel mare,
le lasagne, i libri, il vino, gli spaghetti con le vongole e altri che non ricordo
più. Poi alla fine avevi concluso dicendo che avresti salvato i miei baci, il
mio sorriso, il mio seno e l’odore della mia pelle. Ti ricordi?»
Avevo un vago ricordo delle mie risposte. «Confermo tutto, soprattutto i
tuoi baci, le tette e l’odore della pelle.»
Lucia ha appoggiato la testa sul cuscino. «Che ti piacciano ancora i miei
baci e l’odore della mia pelle posso anche crederlo. Le tette ormai sono
andate. L’età e mia figlia me le hanno svuotate. Ho allattato per più di un
anno.»
«A me piacciono. Mi piace ancora tutto di te, anche più di prima. Sei un
Barolo di Serralunga, un vino con un’evoluzione infinita, che dà il proprio
meglio con il passare degli anni» le ho risposto prima di avvicinarmi e
baciarla. «Della tua lista non ricordo nulla tranne fare l’amore con me.»
Ci siamo guardati negli occhi, lei ha sorriso di nuovo.
«Vale ancora?» le ho chiesto. Avevo avuto la sensazione che le fosse
piaciuto, ma volevo sentirmelo dire, per vanità.
«Hai una cosa che non tutti hanno e che a me piace molto. Ma non ti
montare la testa adesso.»
Mi sono sistemato il cuscino per stare comodo, volevo sentire cosa fosse
questa cosa. L’ho guardata aspettando che parlasse.
«Non so» ha detto, «può darsi che me lo tenga per me.»
Ho iniziato a farle il solletico, lo soffre tantissimo, da sempre. A volte
basta muovere le dita vicino alla sua pelle, per farla ridere. Si è arresa
subito: «Va bene, va bene te lo dico».
Ha lasciato scivolare la coda delle risate e poi mi ha detto: «Si sente che
ti piace fare l’amore, e questo fatto lo fa piacere di più anche a me».
«A quale uomo non piace fare l’amore?»
«Intendo dire che tu fai l’amore con tutto il corpo, fai l’amore con lo
sguardo. Sei completamente presente e mi trascini così nel profondo che
tutto diventa un unico orgasmo che sale e scende e sembra non finire mai.
Dopo, non so se ho avuto più orgasmi o uno solo, lungo.»
Il mio ego stava esplodendo. «Adesso dimmi tu come faccio a non
montarmi la testa.»
Ha riso.
«Hai fame?» le ho chiesto. «Io potrei mangiare un frigorifero intero.»
Ci siamo alzati e rivestiti. Le ho dato una tuta per stare più comoda.
In cucina abbiamo finito di preparare il pranzo. Ogni tanto ci
sfioravamo, ci davamo una carezza, un abbraccio, un sorriso, tutto
punteggiato di piccoli baci che sapevano di vino.
Mi sembrava davvero di vedere quei due di tanti anni prima.
23
Dopo pranzo ci siamo seduti sul divano con le tazze del caffè. Stavamo
abbracciati.
«Che buon profumo questa candela.»
È un’abitudine che ho ereditato da mia nonna, le piaceva tenere sempre
una candela accesa. Le sue erano più dei ceri, bianchi, sottili e lunghi, io
invece uso candele profumate dentro un bicchiere di vetro. Sempre la stessa
fragranza: ambra.
«Domani ti porto nel negozio dove le compro. Voglio portarti anche in
un panificio dove fanno dei dolci da perdere la testa. Unica pecca è la
proprietaria, una delle persone più scorbutiche e maleducate che abbia mai
conosciuto in vita mia.»
Lucia ha riso. «Devono essere davvero buoni i dolci se continui ad
andarci.»
«I migliori. E poi a quella signora devo molto.»
La prima volta che ero entrato nella sua boulangerie, mi aveva trattato
così male che ero stato tentato di tirarle il sacchetto in faccia. Mi ero
ripromesso di non tornarci più. Poi avevo pensato che magari non fosse in
giornata. Invece no, era proprio in quel modo, sempre scorbutica. «Ho
desiderato così tanto litigare con lei che ho studiato francese con più
intensità. È stato uno stimolo a imparare più in fretta.»
Lucia era divertita dalla storia. «Mi succede la stessa cosa con la ragazza
che lavora al bar accanto alla scuola, è sempre di cattivo umore. Hai
presente quei posti dove c’è un cartello con scritto “guasto” sulla porta del
bagno?»
Abbiamo riso delle comuni sventure. Ho guardato fuori dalla finestra,
l’aria era limpida, tersa. «Usciamo?» le ho chiesto, lei ha annuito.
Mentre ci vestivamo, osservavo la sua schiena dall’altra parte del letto,
mi ha fatto pensare a un quadro di Schiele.
«Facciamo il gioco della verità?» le ho detto.
Si è voltata e ha sorriso. «Cosa vuoi sapere?»
«Di queste ore insieme qualcosa ti ha deluso?»
Si è alzata in piedi per infilarsi i pantaloni. «Vuoi la verità?» mi ha
chiesto lanciandomi un’occhiata veloce. «Perché il problema è che spesso è
più difficile sentirla che dirla.»
«Tutta la verità» ho risposto con tono ironico.
«La delusione più grande è che non ci sono state delusioni. È più bello di
quanto avevo immaginato.»
L’ho afferrata per i fianchi, ci siamo guardati negli occhi, eravamo
vicinissimi. Le ho spostato un ciuffo di capelli e l’ho baciata. Poi, le ho
detto: «Speriamo di non rovinare tutto nel tempo che rimane».
La magia che avevamo sempre vissuto da ragazzi era ancora lì. E aveva
ragione lei, tutto era ancora più bello. «Sai qual è l’espressione con cui
definirei quello che provo quando siamo insieme?»
Sorrideva. «Sentiamo.»
«“Da sempre per sempre.” Perché è uguale dalla prima volta che ti ho
visto.»
«Mi piace» ha detto lei.
Quando siamo usciti la giornata era ancora bella, c’era il sole e qualche
nuvola qua e là. Dopo essere passati in albergo a recuperare un paio di
scarpe, ci siamo incamminati verso il Louvre, il posto dove volevo portarla
era lì vicino. Quando siamo arrivati all’incrocio con rue du Renard, il
semaforo era rosso, senza pensarci le ho dato un bacio, come un ragazzino.
Un turista mi ha fermato e mi ha chiesto indicazioni per place des
Vosges. Mi regala sempre una bella sensazione quando conosco il tragitto
per raggiungere una certa destinazione. Mi fa sentire uno del posto.
Poi così, all’improvviso, senza nemmeno pensarci ho fatto qualcosa che
ha sorpreso anche me: «Mi dispiace di averti tradito, ero immaturo, non
l’ho fatto per cattiveria».
Pensavo si sarebbe fermata, invece ha continuato a camminare. «Ti ho
perdonato quasi subito. Anche io ho fatto cose di cui non vado fiera. Quello
che è stato è stato.»
Mi sono fermato in mezzo alla strada. «Aspetta, anche tu mi hai
tradito?»
Lucia era avanti di qualche passo, si è voltata e ha fatto un sorriso che
sembrava un principio di risata.
«Rimango qui fermo immobile finché non mi rispondi.»
Anche se il tono era scherzoso, sentivo un leggero disagio. Ero sempre
stato geloso di lei, l’idea che avesse fatto l’amore con un altro mi
infastidiva, anche dopo tutti questi anni, anche se ero stato il primo a
tradirla.
Lucia era divertita. «Muoviti, te lo dico mentre andiamo.»
«Non mi muovo. Resto qui anche tutta la notte.»
Continuava a ridere, poi con un sorriso affettuoso ha detto: «Non ti ho
mai tradito, almeno nel senso in cui lo intendi tu. Però forse una piccola
forma di tradimento c’è stata».
È bastato per rassicurarmi, ci siamo avviati di nuovo.
Morivo dalla curiosità, volevo capire tutto quello che mi ero perso di lei,
sapere cose di cui non avevo neppure sospettato.
«Oggi possiamo dirci tutto, visto che sono passati decenni. Funziona
come per certi segreti di Stato.»
Ho sorriso anche se non ho capito esattamente a cosa si riferisse. «Di che
segreti stiamo parlando?»
«I tuoi, per esempio. Mi hai mai mentito?»
Sicuramente le avevo mentito, dovevo solo cercare di ricordarmi quando
e a che proposito. «Ti ricordi la sera che mi hai chiamato, non ti ho risposto
e sono sparito fino al giorno dopo?»
Ha annuito.
«Ti ho detto che avevo dimenticato il cellulare a casa di un amico.»
«Mi ricordo.»
«Ecco, non era vero. Avevo incontrato una ragazza ed ero finito a casa
sua.»
Anche se erano passati molti anni, anche se la sensazione era che fosse
successo in un’altra vita, mi sono vergognato e credo di essere arrossito. Lei
non sembrava turbata, ero io quello che aveva accusato il colpo. «Sei
arrabbiata?»
«Sono passati più di vent’anni. Se me la prendessi adesso avrei dei seri
problemi.» Poi ha aggiunto: «Il tuo tradimento mi ha dato la scusa perfetta
per lasciarti. Era una cosa che avevo deciso da tempo ma mi mancava
sempre l’occasione o il coraggio di farlo».
Touché. Questo riscriveva tutta la nostra storia, o almeno quello che
avevo sempre pensato riguardo a chi e come l’avesse fatta finire. Le ho
chiesto se le andava un caffè, volevo approfondire la cosa ma preferivo
farlo mentre ci guardavamo negli occhi. Lì vicino c’era un bistrot dove ero
già stato più volte.
Ci siamo seduti nel dehors. «Forse, dati i temi della conversazione è
meglio del vino o un pastis.»
Ha riso. Mi sono diretto al bagno e ho ordinato due bicchieri di Pinot
Nero della Borgogna Clos de Vougeot. Volevo eleganza.
Mentre col getto cercavo di centrare una mosca disegnata sull’orinatoio,
pensavo che non avevo mai lontanamente immaginato volesse lasciarmi. Mi
ero sentito così in colpa in quel periodo, e invece le avevo quasi fatto un
favore.
Seduto di nuovo con lei, in attesa del vino, le ho detto: «Non vedo l’ora
che tu apra la cassaforte dove tieni nascosti tutti i segreti che ci riguardano.
Inizierei dal condividere con me la ragione per cui mi volevi lasciare». Mi è
uscita una voce aspra, una specie di recriminazione nei suoi confronti.
La cosa pareva divertirla, giocava con me come il gatto col topo. «Il
fatto che qui ci si sieda uno di fianco all’altro guardando verso la strada ti fa
venire voglia di restare ore. Il passaggio delle persone e delle auto è
ipnotico.»
È arrivato il cameriere, ha appoggiato i due bicchieri, ha infilato lo
scontrino sotto il posacenere e le ha passato un biglietto.
«Di nuovo?» Lo ha aperto e ha letto: «È sicura che non l’ha tradito?».
«Vedi? È una curiosità sua, io non c’entro.» Lo avevo scritto quando ero
entrato per andare in bagno, volevo dissipare il momento di tensione che si
era creato. «Ma la vera domanda è: perché volevi lasciarmi?»
Lucia ha riposto il biglietto nella borsetta, come se volesse conservarlo.
«All’inizio, appena ti capitava una cosa bella mi chiamavi subito, non
vedevi l’ora di condividerla con me. Nei fine settimana facevamo l’amore e
poi restavamo svegli a parlare di mille cose, eri curioso della mia vita,
parlavamo del futuro, di sogni. Tu eri lì per me e io per te.»
Era esattamente come ricordavo.
«Poi» ha continuato «la voglia di condividere è scomparsa. Sono
cominciate le risposte secche, “bene”, “male”, “niente di che”. Dopo
l’amore, non sapevamo più come riempire il tempo che ci restava. Sono
arrivate le mie chiamate senza risposta, le tue scuse recitate male, e piano
piano siamo diventati come quelle coppie che stanno insieme perché non
hanno la forza di lasciarsi.»
Non mi piaceva affatto l’uomo che aveva appena descritto, ma era stato
così.
«Sedurre e conquistare una donna» ha proseguito «è sempre stata una tua
debolezza, come una sete inestinguibile. La continua conferma di quanto
vali, di quanto sei bravo e desiderabile. Per uomini come te, una donna non
basta.» Aveva un tono pacato, lieve. «Vivi tutto intensamente finché non
l’hai consumato, svuotato di ogni interesse, per poi passare ad altro. Hai
bisogno sempre di novità, alla lunga diventa sfiancante.»
Ero io a sentirmi in difficoltà, lei sembrava parlare di qualcosa che non
la riguardava.
«Vorrei poter tornare indietro.»
«Eravamo giovani, abbiamo sbagliato in due. L’importante è che adesso
siamo qui.» Era sincera, si sentiva che la sua serenità era reale.
Dopo essermi visto attraverso i suoi occhi, facevo fatica a perdonarmi. È
sempre stato più facile per me trovare una ragione, un motivo agli sbagli
degli altri. Con i miei sono molto più severo.
Lucia ha alzato il bicchiere per un brindisi.
«Almeno tu mi hai perdonato.» Sono rimasto con il bicchiere in mano
per qualche secondo.
«Perdonare libera. Le cose che fanno male non si possono dimenticare,
si possono solo accettare. Perdonare è un regalo che si fa a se stessi, si
recide una volta per tutte il legame con il dolore che ci ha causato quello
sbaglio.»
A Beatrice non avevo perdonato molto e ogni volta che pensavo a certe
situazioni ancora riaffioravano la frustrazione e il malessere che avevo
provato, come fossero successe il giorno stesso.
In pochi minuti il tempo è cambiato, il cielo si è coperto di nuvole e ha
iniziato a tirare un vento gelido.
«Secondo me tra poco diluvia.» Ci siamo diretti verso l’hotel, che era più
vicino rispetto a casa mia.
A qualche isolato di distanza, siamo stati sorpresi da un forte
acquazzone. Ci siamo riparati dentro il BHV .
«Un po’ mi vergogno a dirlo, questo è uno dei miei posti preferiti.» Era
vero, mi piaceva molto salire le scale mobili e passeggiare sui piani di quel
grande magazzino. Siamo finiti in quello più basso, dove c’è un’enorme
ferramenta.
«A Venezia mi avevi appeso una mensola, ti ricordi? Avevi infilato quei
cosi nel muro.»
«I fischer. Non sai come mi ero sentito uomo.»
Ha sorriso. «Anch’io avevo provato una bella sensazione, c’era qualcuno
che si prendeva cura di me.»
Quando siamo usciti l’acquazzone era finito, abbiamo camminato sotto
una pioggia fine. L’ho lasciata in hotel, sarei passato a prenderla più tardi,
per cena. Prima di rientrare nel mio appartamento, le ho comprato un paio
di scarpe simili a quelle che aveva perso. Gliele ho fatte consegnare in
camera.
A casa mi sono addormentato sul divano, mi ha svegliato un messaggio:
“Grazie, sono meglio delle originali”.
24
Ho aperto gli occhi, la parte di letto accanto alla mia era vuota. Ho preso il
telefono per vedere l’ora, quasi le dieci. Non dormivo così a lungo da
tempo. Sono rimasto sdraiato qualche minuto per raccogliere le forze.
Quando dormo molto, per assurdo mi sveglio e ho la sensazione di essere
stanco e senza energie. Arrivavano dei rumori dalla cucina, forse Lucia
stava preparando la colazione. Con tutta probabilità era già scesa a prendere
i croissant. Sono andato in bagno a fare pipì e sciacquarmi la faccia. Allo
specchio mi sono visto sciupato. Mi sono infilato i pantaloni della tuta, la
camicia di cotone a quadrettoni che uso in casa e sono andato in cucina. Lei
non c’era, i rumori che sentivo provenivano da fuori. O era scesa per i
croissant, o era tornata in hotel a cambiarsi.
Ho aperto il rubinetto e ho fatto scorrere l’acqua, volevo berla fredda. Ho
svuotato un bicchiere d’un fiato e ne ho riempito un secondo. Le tazze delle
tisane che non avevamo mai bevuto erano posate a scolare sul lavandino.
Ho pensato di controllare il telefono, nel caso in cui mi avesse mandato
dei messaggi. Nell’andare in camera mi sono accorto che sul tavolo,
appoggiato al vaso di fiori, c’era un biglietto: “grazie per questi giorni”, in
stampatello, e appena sotto: “da sempre per sempre” in corsivo, nell’angolo
in basso un cuoricino.
Mi si è chiuso lo stomaco. Mi sono precipitato sul cellulare, l’ho
chiamata, era irraggiungibile. Mi sembrava uno scherzo grottesco.
Ho lanciato il telefono sul letto, mi sono vestito e sono corso in hotel. La
porta di casa ha sbattuto così forte che il rumore ha rimbombato
dappertutto, sembrava fosse caduto il soffitto, hanno tremato perfino i vetri
delle finestre sulla tromba delle scale.
Appena dentro la hall mi sono guardato intorno, come se fosse da
qualche parte e potessi vederla lì. Di lei nessuna traccia. Ho controllato
nella sala delle colazioni. «Entro un momento, sto cercando un’amica» ho
detto alla ragazza sulla porta.
La sala era quasi vuota. A quel punto ho chiesto in reception di
annunciarmi, volevo raggiungerla nella sua stanza.
«La signora della 102 ha fatto check-out questa mattina presto.» Il
receptionist deve aver visto la mia faccia, perché ha subito aggiunto: «Je
suis désolé».
Il suo telefono è rimasto spento per ore, ho pensato fosse scarico, oppure
che avesse cambiato il volo e fosse irraggiungibile. Le avevo mandato dei
messaggi, le avevo lasciato dei vocali. All’ultimo senza risposta, avevo
smesso di cercarla.
La sera erano comparse le due spunte blu, quindi aveva letto. D’impulso
ho scritto delle frasi da persona offesa, ma le ho cancellate subito dopo
averle inviate. E questa cosa ha peggiorato la mia situazione, mi ha fatto
sentire un insicuro, uno che non sa far fronte alle situazioni. Un po’ era
vero, non mi era mai capitata una cosa simile.
La sua sparizione era un gran mistero, tanto che mi capitava di pensare
che non stesse succedendo davvero, che avesse avuto un imprevisto magari
legato a sua figlia e che presto mi avrebbe spiegato tutto.
Lunedì, a pranzo, le ho mandato un altro messaggio. Ero certo non
avrebbe risposto, come aveva fatto con gli altri, mi sbagliavo: “Scusami, ho
pensato fosse la cosa giusta da fare”.
L’ho chiamata subito sapendo che stavo alzando l’asticella, la telefonata
è a un altro livello rispetto ai messaggi. Sentivo squillare il telefono e a ogni
squillo mi convincevo sempre di più che avrebbe lasciato suonare e che
stessi peggiorando la situazione, finché non ho sentito la sua voce. L’avevo
cercata per ore e, adesso che mi aveva risposto, ero impreparato. Ho esitato,
la mente vuota. La sua fuga mi aveva lasciato spaesato. Ha rotto il mio
silenzio iniziale con delle scuse, cosa che mi ha illuso su come sarebbe
proseguita la conversazione e mi ha dato il coraggio di chiederle cosa fosse
successo.
«Niente» ha risposto.
«Non sei stata bene?»
«Molto.»
«E allora?»
«Allora cosa?»
«Perché sei scappata via?»
«Perché per me era sufficiente così.»
Era stata bene, ma tutto finiva lì, con quella sua fuga finale. La
conversazione diventava sempre più assurda e surreale.
«Non capisco perché tu voglia buttare via tutto per paura.»
«La paura non c’entra niente.»
«E allora perché?»
Non ha risposto subito, forse l’avevo messa in difficoltà.
«Mi hai invitata per un fine settimana a Parigi e io ho accettato. Siamo
stati bene. Me ne sono andata in quel modo perché mi sono sentita di farlo,
forse ho sbagliato e ti ho chiesto scusa. Che altro devo dire?»
«Perché deve finire qui? È questo che non capisco.»
«Perché la vita non è un fine settimana romantico a Parigi.»
Non capivo. «Lo so, ma che significa?»
Ha risposto con una calma estrema: «Cosa credevi? Di incontrarmi dopo
più di vent’anni, passare due giorni insieme e che io mi buttassi tra le tue
braccia? Me lo hai detto tu che era tutto un gioco, e io ho giocato. Passare
due giorni insieme e iniziare una relazione sono due cose molto diverse.
Almeno per me».
Non capivo se facesse finta di non comprendere la situazione. Mi
sembrava di trovarmi davanti a un muro di gomma. Ero disperato e ho fatto
una mossa disperata: «Possiamo vederci per parlarne? Vengo io da te».
«Parlare di cosa?»
«Di noi, di come siamo stati e di come potremmo stare.»
«Ora devo andare. Domani torna mia figlia e ho mille cose da fare. Ci
sentiamo nei prossimi giorni.»
L’ho salutata. Non sono stato in grado di fare o dire altro.
27
Ero fuori dalla scuola ad aspettare che finisse l’ora, come quando andavo a
prendere Gabriele.
La sera prima le avevo scritto, ero in città da mia madre e mi avrebbe
fatto piacere vederla per un caffè.
Aveva accettato.
A Parigi eravamo stati come due innamorati, tutto era filato liscio, poi lei
se n’era andata. Ora me ne stavo lì davanti e morivo dalla voglia di capire
cosa fosse successo. Ero convinto che avesse avuto paura, spaventata
dall’intensità del nostro incontro e dai cambiamenti che sarebbero seguiti.
Anche a me era capitato, con la California, e ancora pensavo a
quell’occasione mancata. Non le avrei permesso di fare lo stesso con noi
due. Dovevo solo prenderla per mano, rassicurarla e farle capire che stare
insieme era la nostra occasione di felicità. Aveva soltanto bisogno di sentirsi
al sicuro con me, non ero più il ragazzino di una volta.
La campanella ha suonato, ho avvertito lo stesso senso di liberazione di
quando ero studente. Dopo qualche minuto è uscita.
Quando mi ha visto mi ha sorriso e mi ha salutato con la mano.
«Speriamo non mi vedano i miei alunni, altrimenti poi mi prendono in giro»
ha detto con tono ironico.
«Puoi sempre dire che sono tuo fratello.»
Si è messa a ridere. «Ti va bene andare al bar qui vicino?»
«Quello della barista scontrosa?»
«Sì, così puoi scoprire chi vince tra lei e la tua panettiera parigina.»
Ci siamo incamminati. Non c’era nessun imbarazzo o tensione da parte
sua. La difficoltà era tutta mia, come se fossi io quello che se n’era andato.
Per non farle intuire il mio disagio, le ho chiesto come andavano le cose.
«È un periodo molto intenso al lavoro, ma è così ogni anno.» Quando
siamo arrivati al bar, prima di entrare con un cenno della testa mi ha
indicato la proprietaria, che era rivolta verso la macchina del caffè.
Abbiamo salutato e ci siamo seduti. Non ha risposto, ho pensato che non ci
avesse sentiti visto che il macinino del caffè era in funzione. Quando l’ho
detto a Lucia, mi ha indicato la porta del bagno, un foglio diceva: “guasto”.
La barista si è voltata e ci ha chiesto cose volessimo senza avvicinarsi al
tavolo.
Tutta la mia attenzione era focalizzata sul motivo per cui ero lì, sono
andato subito al punto: «Perché te ne sei andata così?», tanto che Lucia ne è
rimasta sorpresa.
Ha appoggiato la borsa su una sedia vuota. «So di aver sbagliato e mi
sono già scusata.»
Ho giocato la mia carta: «Non è che è stato tutto troppo, ti sei spaventata
e sei scappata?».
Senza nemmeno guardarmi ha detto: «Non credo».
Sembrava non dare importanza alla nostra conversazione, come poteva
non averci pensato in questi giorni e non avere una idea chiara di quello che
era accaduto? Ho appoggiato la mano sulla sua. «Guardami.»
In quel momento è arrivata la barista con i caffè, non mi toglieva lo
sguardo di dosso, tanto che ho pensato di aver fatto qualcosa di sbagliato.
Quando se ne è andata mi sono voltato di nuovo verso Lucia.
«Non è successo niente, Luca. Me ne sarei dovuta andare comunque più
tardi.» Non sembrava vedere l’assurdità del suo gesto.
«E il biglietto? Perché hai lasciato quel biglietto?»
Ha sorriso. «Mi sembrava un bel modo per salutarti.»
Dava un peso diverso a tutta la faccenda. «Ma tu non hai sentito quello
che ho sentito io? Cosa sono stato, una scopata nostalgica con l’ex?»
Mi ha guardato come si guarda un idiota, con commiserazione.
In modo calmo, ha cominciato dall’inizio: «Quando mi hai chiamato con
la storia dei biglietti e dell’auto, ho subito pensato che fosse una cazzata,
che fossi troppo grande per certe cose. I miei ultimi anni sono stati davvero
difficili, soffocanti. Alla fine mi sono detta: perché no? Una ventata di aria
fresca, una piccola follia. Come una gita scolastica, due tre giorni fuori da
tutto. Poteva essere un gioco divertente, e se dovevo giocare tu eri la
persona perfetta. Sei quello di passaggio, come eri tornato saresti andato
via. È così che fai».
Le ho preso di nuovo la mano. «Questa volta è diverso, voglio stare con
te.»
Mi ha sorriso come si sorride a un bambino. «Ho accettato di passare
quei giorni con te anche se era chiaro che eri la cosa sbagliata di cui avevo
bisogno.»
Sono scoppiato in una risata nervosa. «In che senso la cosa sbagliata?»
«Nel senso che non mi avrebbe portato da nessuna parte, se non a Parigi
per un fine settimana.»
Mentre cercavo delle parole per ribattere, è tornata la barista, continuava
a fissarmi, ho pensato perfino volesse attaccare briga. «Sei Luca?» mi ha
chiesto. L’ho guardata senza capire. «Non ti ricordi? Sono Adele,
abitavamo nello stesso condominio da bambini.» In un istante sul suo viso è
comparsa la mia amica d’infanzia del secondo piano.
«Adele! Come stai?» Mi sono alzato in piedi.
«Bene, a te non lo chiedo perché si vede.»
Lucia aveva la faccia più sorpresa della mia. Adele abitava proprio sotto
di noi, avevamo la stessa età e ogni pomeriggio dopo la scuola giocavamo
insieme, io, lei e suo fratello di un anno più piccolo.
«Non voglio disturbarvi» ha detto, «un giorno passa a trovarmi, io sono
qui.» Ed è tornata dietro il bancone.
La famosa barista scorbutica era stata la mia migliore amica fino all’età
delle elementari. Anche Lucia era divertita. Non sapevo più come
riprendere il filo del discorso. «Ho bisogno di fare due passi.» Volevo
pagare ma Adele non me l’ha permesso. L’ho ringraziata, ci ha salutato
augurandoci buona giornata.
Fuori, sul marciapiede, Lucia sorrideva. «È la prima volta che mi saluta
in tutti questi anni. Sicuramente è la prima volta che la vedo sorridere.»
«È sempre stata una bambina solare, buona, mi aiutava anche a fare i
compiti. Qualche anno fa suo fratello e suo marito tornavano dopo essere
stati a pescare e sono morti in un incidente stradale.»
Lucia ha cambiato espressione. «Spesso le persone scorbutiche o
maleducate sono solo persone ferite. È una cosa che so ma spesso me lo
dimentico.» Mi sono chiesto come una donna così sensibile non potesse
capire il mio disorientamento per la sua fuga.
Abbiamo camminato fino a un parco lì vicino e ci siamo seduti sotto un
bellissimo ippocastano.
«Mia nonna in autunno mi dava sempre una castagna matta da tenere in
tasca. Diceva che così non mi sarebbe venuto il raffreddore.»
«E funzionava?»
«Non mi ricordo.»
Siamo restati in silenzio. Intorno vedevo gli alberi, gli uccellini, le
persone che passeggiavano, i loro cani che annusavano ogni cosa, la luce
del sole sulle foglie. Non poteva succedere niente di brutto in mezzo a
quella meraviglia.
«Dove eravamo rimasti?» ho chiesto.
Lucia fissava il vuoto davanti a sé, come se stesse cercando cosa dire.
Poi ha parlato, con una voce bassa, quieta: «Quando mi sono separata ho
pensato che tutti i sacrifici che avevo fatto per costruire una famiglia
fossero stati inutili. Ho passato mesi amari, di grande frustrazione credendo
che quello fosse il mio più grande fallimento. Poi, con il tempo, ho capito
che, grazie a quei sacrifici e a tutte le difficoltà attraversate, avevo imparato
cose di me, e soprattutto quello che volevo dalla vita». Mi ha guardato.
«Sono stata bene con te a Parigi ma non è quello che cerco.»
«E quei due? Non li rivuoi indietro?»
«I due che siamo stati non esistono più. Siamo cambiati, per fortuna.»
«Io non sono cambiato.»
«Per questo, non posso farci nulla.»
Non era stata aggressiva o aspra. Aveva fatto scacco matto in poche
mosse, con la tranquillità di chi sa come muovere i pezzi.
Aveva deciso, ed era disarmante quanto fosse lucida, imperturbabile
nella sua risoluzione.
L’ho riaccompagnata a scuola. Ci siamo salutati in modo freddo, lei è
rientrata e io, col magone, ho guidato fino a Milano.
31
Ero andato a prenderla sotto casa in macchina. Non stavamo insieme in auto
da parecchio ormai.
Dopo aver parcheggiato vicino al mercatino, abbiamo bevuto un caffè in
piedi, per non fare troppo tardi. Una volta fuori, le ho chiesto se voleva
fumarsi una sigaretta, ricordavo che non amava fumare e camminare nello
stesso tempo.
«Non fumo più» mi ha risposto. Non mi era mai sembrata una di quei
fumatori con il desiderio di smettere, una delle sue risposte più ricorrenti
era: «So che fa male ma è un vizio che mi piace e che mi voglio tenere».
Camminavamo insieme verso il mercatino. «Ci sono altre novità?»
Con tono divertito ha detto: «Sono diventata una camminatrice».
Sembrava una bambina entusiasta di una scoperta recente. «Quando ho del
tempo libero vado a farmi una bella camminata.»
Non era mai stata sportiva, però camminare la faceva stare bene,
l’aiutava a chiarirsi le idee, a liberarsi dallo stress.
«Alla nostra età si comincia così poi si finisce con la bici da corsa» ho
detto.
Mi ha guardato per capire meglio.
«Non le vedi queste scie di ultracinquantenni con le tutine aderenti a
combattere l’invecchiamento a suon di pedalate?» Ha riso. «La verità» ho
continuato «è che la nostra età è veramente strana, non si capisce bene se si
è già vecchi o ancora giovani.»
«Sai cosa diceva Picasso? I cinquant’anni sono l’età in cui ci si sente
finalmente giovani, ma è troppo tardi.»
«Ma non diceva che erano i sessanta?»
Abbiamo riso. Non c’erano più tensioni tra noi, eravamo come due amici
che avevano superato le difficoltà di un tempo.
Dentro il mercatino abbiamo cominciato a passeggiare guardandoci in
giro. Ero davanti a una campana tibetana, mi piace molto il suono che
manda, ho alzato la testa per trovare Beatrice. Era sull’altro lato e stava
osservando un piccolo arazzo, mi sono avvicinato.
«Che dici? Non è il mio genere ma mi piacciono i colori.»
«È un tappetino?»
«Si può anche appendere.»
«E dove lo vorresti appendere?»
«Non lo so. In realtà non ho spazio. Però mi piace.»
«Magari un giorno compri una casa al mare e ti ritrovi piena di muri
vuoti da riempire. Il primo pensiero sarà: perché non ho preso quell’arazzo
al mercatino quel giorno?»
Ha sorriso e lo ha rimesso a posto.
Quando mi ha visto, Giovanni mi ha accolto con il solito sorriso bonario.
Ero suo cliente abituale, passavamo mattine intere a parlare di vinili,
incisioni, leggende sui musicisti. Era una persona a cui è facile voler bene,
il suo viso emanava onestà, bontà di cuore.
Aveva un giradischi perfetto per la casa di Beatrice, le casse però erano
troppo grosse. «In un paio di giorni vado a ritirarne un paio della misura
giusta, ve le porto a casa in settimana.»
Ci siamo guardati, nessuno dei due ha voluto specificare che non
stavamo insieme.
Dando un’occhiata veloce ai vinili, mi sono accorto che c’erano dischi
diversi dal solito, difficili da trovare. Giovanni mi ha detto che suo figlio
era stato a New York e aveva fatto scorta. Ne ho preso uno a cui non sono
riuscito a resistere, Ain’t That Good News di Sam Cooke, lo cercavo da
tempo e trovarmelo lì davanti, del tutto inaspettato, mi ha dato una piccola
scintilla di gioia.
Per me e Beatrice New York era una passione comune. Ci ero stato tre
volte, ma quando ci siamo andati insieme avevo potuto fare tutte le cose
romantiche che sognavo da tempo, cene nel Village con luci basse e lume di
candela, localini negli scantinati con musica dal vivo, passeggiate notturne
a Brooklyn con vista su Manhattan, colazioni nei diner dove l’odore di uova
e pancetta si mischia con quello di muffin appena sfornati e pancake.
Per ricreare la stessa atmosfera, la domenica ci piaceva andare in un
locale dove servivano il brunch newyorkese. Ormai eravamo diventati di
casa, Mario, il proprietario, ci riservava un tavolo appartato, senza che
glielo chiedessimo.
«Sei più stata da Mario?»
Beatrice mi ha guardato. «Avevo paura di incontrarti. E poi senza di te
aveva perso la sua attrattiva.» Abbiamo riso. «Perché non ci andiamo
adesso?» ha proposto. «Dovremo pure mangiare qualcosa.»
Lucia, Beatrice, per un istante mi sono domandato che cosa stesse
succedendo, perché stessi rivivendo il mio passato con loro, che senso
avesse. Poi, ho scacciato ogni pensiero e ho accettato.
Mario ci ha accolto come se ci fossimo visti la settimana prima.
Abbiamo ordinato e nell’attesa chiacchieravamo di cose piccole, stupide,
non c’era nessuna tensione seduttiva, sentivo di provare per lei un affetto
profondo.
Le ho chiesto come era stato il periodo dopo la nostra separazione. Mi ha
confessato che i primi tempi erano stati strani, anche sul lato pratico.
Quando si era ritrovata sola si era sentita lanciata in un mondo che non
conosceva più. Era impacciata. Si sentiva vecchia per rimettersi in gioco e
troppo giovane per chiudersi in casa. Allora si era sforzata di uscire ma poi,
quando era fuori, voleva solo tornarsene a casa. «Sai cos’è? Sono sempre
meno tollerante. Mi basta un niente per pensare: ma chi me lo fa fare?»
«Una volta scappavo da casa per andare alle feste, adesso scappo dalle
feste per tornare a casa» le ho detto citando una vecchia battuta.
Siamo scoppiati a ridere.
Si è voltata verso il cameriere per chiedere dell’acqua frizzante. L’ho
guardata, era ancora più bella, diversa ma non riuscivo a capire in cosa. A
parte i capelli più corti era sempre lei, e in realtà un’altra persona.
«Vuoi sentire una notizia bomba?»
Ho pensato subito che si stesse per sposare. Poi ho pensato che anch’io
avrei potuto condividere con lei la mia notizia bomba, la proposta di
Silvano. Ho preferito tenerla per me, volevo prima prendere la decisione
definitiva e comunicarla a lui. Ovviamente sarebbe stato un sì. Ho aspettato
che Beatrice parlasse.
«Ho perso l’ossessione per l’ordine.»
Ero scettico. «Non ci credo nemmeno se lo vedo.»
Ha riso.
«E come è successo?»
«Ho fatto una grande scoperta.»
Mi ha fatto aspettare tutto il tempo che le è servito per masticare un
boccone di avocado toast, poi si è pulita la bocca col tovagliolo e ha bevuto
un sorso d’acqua. «Non era una cosa mia.» Non capivo. «Era una fissazione
di mia madre che io per qualche ragione mi sono portata dietro. Realizzarlo
è stata una folgorazione. È successo grazie al mio analista.» Ero molto
colpito. «Non sai che senso di liberazione ho provato.»
Parlava con una leggerezza tale che anch’io mi sentivo sollevato.
«Non mi ero mai accorta di quanto mia madre fosse nelle mie frasi, in
certi modi di dire, convinzioni e soprattutto giudizi. Perfino alcune paure.
Viveva nella mia vita come un’edera sul tronco di una pianta. Ha fatto così
tanto parte di me che all’inizio è stato difficile capire dove fossi io in tutto
questo.»
Si è messa quasi a ridere, il suo viso aveva delle espressioni che non
avevo mai visto, sembrava ringiovanita.
«Un pezzo alla volta sono andata alla ricerca di tutto quello che non mi
apparteneva.»
Forse l’analisi avrebbe aiutato anche me, sono stato tentato di chiederle
il nome del suo analista.
«Ho capito anche cosa non ha funzionato con te.»
Sono rimasto in sospeso, ero curioso di sapere.
«Mi lamentavo di continuo delle tue mancanze, ero tutta sbilanciata su di
te e ho commesso l’errore più comune che può capitare in una relazione.»
Ha fatto una pausa per vedere se la seguivo. Aveva tutta la mia attenzione.
«Voler cambiare quello che non ci piace dell’altro.»
Sentirla ammettere questa cosa mi destabilizzava. Era riuscita a fare una
vera rivoluzione copernicana.
«Un’immagine in particolare mi ha aiutato molto a capire. Me l’ha
suggerita l’analista durante una seduta. Hai presente quando bevi il caffè al
bar e senza che te ne accorgi ti resta una piccola macchia sul naso? Finché
non sei davanti a uno specchio, non hai la più pallida idea di averla. Tu sei
stato il mio specchio, grazie a te io ho visto delle cose di me che non mi
piacevano. Solo che invece di pulirmi il viso mi sono ostinata a voler pulire
lo specchio.»
Sono rimasto senza parole, era davvero illuminante. Mi sono chiesto se
mi stesse succedendo lo stesso con Lucia, forse ero io ad aver paura. Ma di
cosa? Ero sempre più tentato di chiederle il numero dell’analista.
«Anch’io ho le mie colpe» ho detto, come se mi sentissi in dovere di
ristabilire un equilibrio e non essere da meno di lei.
«Direi più responsabilità.» Ha sorriso.
Ho ripensato al fatto che davanti a un confronto o una discussione con
lei ero sempre scappato. Sapevo che questo mio atteggiamento l’aveva
messa in difficoltà, si era sentita frustrata, ignorata, e anche poco amata. Mi
sono accorto in quel momento che la mia calma non era una manifestazione
di equilibrio o saggezza, era un modo crudele di evitarla, di tenerla a
distanza. Non ho avuto il coraggio di dirglielo.
«Ci prendiamo un altro mimosa?» ha chiesto, forse per rompere il
silenzio che si era creato. «O vuoi cambiare?»
«Ne abbiamo già bevuti due. Direi di andare avanti con quello.» Ha
sorriso di nuovo. Li ho ordinati al cameriere con un cenno della mano.
Beatrice ha proseguito: «C’è una cosa che ho odiato più di tutte».
Parlavamo apertamente di noi, senza nessuna rivendicazione. Eravamo
comprensivi, non essere più coinvolti ci permetteva chiarezza e lucidità,
fuori dalla nebbia in cui ci eravamo trovati.
«Spara.»
«Quando mi hai detto: “Beatrice, meriti di essere felice e se pensi che la
tua felicità sia altrove è giusto che tu vada”.» Ricordavo quelle parole, mi
ero sentito molto civile dicendole, evoluto.
«Eri un muro di gomma, non sapevo più cosa inventarmi per avere una
tua reazione. E invece incassavi tutto senza fare una piega.»
Ascoltandola si capiva che su questi argomenti aveva riflettuto a lungo.
O forse era solo l’effetto dei mimosa.
Ho pensato di chiederle perché non riuscivo a far funzionare le relazioni,
cosa c’era di sbagliato in me. Forse mi avrebbe aiutato con Lucia.
Quando l’ho fatto, ha cambiato espressione. «Per una cosa di questo
tipo» ha risposto «ho bisogno di un altro mimosa.» Ne ho ordinati altri due
al cameriere.
Ha aspettato prima di parlare, un tempo che sembrava le servisse per
riordinare le idee. Ha premesso che quello che mi avrebbe detto era solo il
suo punto di vista, qualcosa che aveva visto con chiarezza soltanto dopo la
nostra separazione. Con una sorta di pudore, che forse era più una
delicatezza nei miei confronti, ha detto: «Riattraversando tante situazioni
che abbiamo vissuto insieme, ho avuto la sensazione che tu fossi guidato da
un motore, che è più forte di tutti gli altri, a volte anche dell’amore». Ero
completamente assorbito dalle sue parole. «Il bisogno di sentirti speciale, di
ricevere sguardi ammirati, grati, di sentirti dire che sei bravo, e buono.
Ecco, per ottenerlo, per compiacere chi hai intorno, sei capace di mettere in
scena anche cose che non senti davvero, sei capace di costruire grandi
teatrini, ma poi, quando si tratta di mettersi davvero in gioco, non ci sei. È
come se tirassi una pallina contro un muro e non affrontassi mai un
avversario reale.»
Lì per lì, d’istinto, ho pensato che Beatrice avesse preso un abbaglio,
forse si sentiva ancora ferita per ciò che era successo tra noi e quello era il
suo modo di prendersi una piccola rivincita. Ma no, lei non era così
meschina, mi aveva parlato con sincerità, solo che in quel momento ero
troppo sulla difensiva e le sue parole erano per me impossibili da accettare.
Le avrei comprese tempo dopo, quando mi si sarebbero stampate nella testa,
come accade con le cose vere.
Eravamo un po’ brilli, e pieni di cibo. Le ho proposto di uscire e fare due
passi. Non abbiamo più parlato di noi, la connessione che avevamo a tavola
era svanita. Ci tenevo però a dire ancora qualcosa, mi sembrava che
mancasse una chiusura: «È stato faticoso lasciarci, non era semplice
separarsi dal passato vissuto insieme».
Mi ha guardato, ha sorriso. «Per me la cosa più dura non era rinunciare
al passato, ma al futuro che mi ero immaginata con te.»
Una chiamata dal suo amico speciale ci ha interrotti. Lei ha risposto con
entusiasmo, gli ha raccontato che era ancora con me, che aveva trovato un
bel giradischi e che avevamo pranzato insieme. Non gli aveva mentito e
questo fatto mi ha reso chiaro che per lei ero davvero solo un vecchio
amico, niente di diverso, perciò non aveva ragione di tenermi nascosto agli
occhi di lui.
Quando l’ho accompagnata, l’ho aiutata a portare il giradischi in casa,
era strano essere di nuovo lì. Tutto sembrava uguale, all’ingresso c’era
ancora la fotografia che avevo scattato a lei e Gabriele sul bateau-mouche.
Aveva sempre la radio in legno che avevamo comprato insieme anni
prima. «Posso collegarci il giradischi così puoi usarlo in attesa che ti
portino le casse.» Non sapeva di cosa stessi parlando. «Faccio io.»
Non ci è voluto molto. Alla fine ho preso il mio nuovo vinile e l’ho fatto
suonare per la casa, A Change Is Gonna Come cantata da Sam Cooke
riempiva la stanza. «Speravo andasse diversamente tra noi» le ho detto.
Era sorpresa, ho temuto che le mie parole l’avessero messa a disagio.
Invece ha detto: «Il dolore che ho provato per la nostra separazione ha rotto
le mie resistenze, ogni difesa. Mi ha cambiata. Perciò sono grata per ogni
minuto passato con te».
Era un addio definitivo, mi stava dicendo che non ci sarebbe mai stata
una minima possibilità per noi.
«Vorrei che tenessi questo vinile.»
Ha scosso la testa. «Non posso, eri così felice quando l’hai trovato da
Giovanni.»
«Ti prego, tienilo.» All’improvviso avevo voglia di piangere, se ne deve
essere accorta, perché mi ha abbracciato, mi ha accarezzato il viso e mi ha
dato un bacio sulla bocca, un bacio piccolo, quasi uno sfioramento. Ho
chiuso gli occhi un istante, per farlo dilatare tanto da sembrare un’eternità.
Ho sentito l’impulso di stringerla, portarla a letto e rimanere con lei, non
per fare l’amore, per sentire il calore della sua pelle, del suo corpo sul mio.
Ho desiderato che non ci fossimo lasciati, ho desiderato vivere ancora lì con
lei. Rivolevo la nostra vita insieme.
Ho aperto gli occhi, i suoi erano lì ad aspettarmi.
In quell’istante, l’uno di fronte all’altra, abbiamo sentito la voragine che
ci separava. Quello che c’era stato tra noi era un ricordo lontano e tutti i
nodi che ci avevano tenuti insieme si erano sciolti.
Non c’era spazio per nessun dubbio e nessuna nostalgia. Sono andato
verso la porta, lei mi ha accompagnato in silenzio finché non l’ho chiusa
dietro di me. Il rumore mi è risuonato nella testa per ore.
34
Nella confusione in cui ero piombato, vedevo Matilde come una boccata
d’aria, la possibilità di trovare un po’ di spensieratezza. Le ho scritto prima
di cena per invitarla da me, quella sera doveva andare a casa di un amico
con altre persone.
«Non puoi dare buca e venire qui?» Avevo un bisogno fisico di lei,
volevo sentirmi desiderato.
«Non posso, l’abbiamo organizzata da giorni.»
L’ho chiamata per essere più persuasivo, ma non ci sono riuscito, non c’è
stato davvero niente da fare. Mi sono innervosito, non capivo come fosse
possibile che considerasse quella cena più importante di vedere me. Le ho
riscritto: “Allora ti aspetto dopo cena”.
“Finiremo tardi.”
Più rilanciavo, più ricevevo rifiuti. Ormai era diventata una questione di
principio, una specie di stupida competizione.
“Non importa, vieni lo stesso.”
“Non mi va di tenerti sveglio. Facciamo un’altra volta.”
“Io ti aspetto.”
A quell’ultimo messaggio non ha risposto, ha lasciato la conversazione
sospesa.
A casa, da solo, mi sentivo un animale in gabbia. Ho cominciato a
pensare che il motivo per cui aveva rifiutato ogni mia proposta era che fosse
con un altro.
Verso le dieci le ho scritto di nuovo: “Come va? Ti stai divertendo?”.
Sono rimasto col telefono in mano ad aspettare che lo leggesse e
rispondesse. E invece niente.
Capitava che iniziassimo uno scambio di messaggi e poi lei, nel mezzo
della conversazione, scomparisse. Diceva che era con altre persone, iniziava
a parlare e si distraeva, si dimenticava di rispondermi. Anche in quelle
situazioni provavo piccole gelosie, gli altri erano più importanti di me, io
non ero in cima alle sue attenzioni.
All’una mi ha scritto. Ero sveglio e incazzato.
“Avevo il telefono in borsa perché eravamo a tavola. Tra un’oretta vado
a casa. Ci vediamo un’altra volta.”
“Scrivimi quando stai per andare a casa.”
Poi è sparita di nuovo. Ormai ero sicuro che fosse con un altro. Ho
iniziato ad affogare nel vortice di pensieri negativi, non mi sarei
addormentato nemmeno con una scatola di sonniferi. Ero acceso più che
mai.
Alle due e mezzo mi ha scritto, subito l’ho chiamata.
Ha risposto, era per strada, nel silenzio della notte sentivo il rumore dei
suoi tacchi sul marciapiede.
«Vieni da me, dài, ho bisogno di stare con te, ho bisogno di vederti.»
«Sono stanca morta, Luca, devo appoggiare la testa su un cuscino.»
«Appoggiala sul mio.»
«Sono già vicino a casa, vengo domani.»
Ho insistito ancora, ma mi sentivo patetico e l’ho salutata. Ho lanciato il
telefono sul letto e mi sono passato le mani sulla testa. Dalla bocca mi è
uscito un piccolo urlo soffocato di rabbia e frustrazione.
Ho desiderato richiamarla per dirle che mi aveva ferito e non meritava di
stare con me. Non l’ho fatto.
Devo lasciarla, ho pensato, non ha senso alla mia età vivere queste cose.
Sono un uomo, cazzo, non sono più un ragazzino.
Sapevo che questa relazione non mi avrebbe portato da nessuna parte e
che tirava fuori una parte di me infantile e immatura. Non ci riuscivo, se
l’avessi persa non avrei più trovato una ragazza così bella e giovane. Lei era
il mio ultimo giro di giostra.
Un giro molto impegnativo, anche sessualmente. Quando si fermava da
me tutto il fine settimana, non le bastava farlo una volta sola. Si
avvinghiava, mi cercava, infilava la sua mano dentro i pantaloni della tuta.
A volte me li abbassava e mi cercava con la bocca.
Per soddisfarla mi ero fatto dare da un amico delle piccole strisce simili
a un chewin gum, da sciogliere sotto il palato. Dopo qualche minuto avevo
un’erezione simile a quella di un venticinquenne. Volevo averlo duro come i
suoi coetanei e mi stavo intossicando con quella roba. Quando ti abitui a
un’erezione del genere, è difficile tornare indietro.
36
Non sapevo proprio come l’avrebbe presa, la probabilità che avessi fatto
una cazzata era altissima. Un’improvvisata, di nuovo fuori da scuola. Lei
era stata chiara, la storia era finita con Parigi, ma io ero sicuro che l’avrei
convinta. Non potevo permettermi di perderla per la seconda volta, anche
Ornella mi aveva detto che dovevo provarci, se davvero ci tenevo, che
sarebbe stato meglio avere un rimpianto piuttosto che un rimorso.
Lucia aveva la capacità di alleggerire le mie insicurezze, le ansie, le
indecisioni. Matilde faceva l’opposto, le faceva esplodere. Quello che era
accaduto qualche giorno prima ne era stato la dimostrazione, ora desideravo
Lucia ancora di più.
Mentre aspettavo in piedi, fuori dal cancello, pensavo che forse Lucia si
era fatta scoraggiare dall’eventualità di una relazione a distanza, nel timore
che prima o poi uno dei due avrebbe dovuto avvicinarsi. A Parma, dopo la
separazione, aveva trovato la sua dimensione e forse non aveva nessuna
voglia di rinunciarci. Sicuramente non avrebbe mai rinunciato al suo lavoro,
lo aveva già fatto una volta dopo la gravidanza ed era stato un disastro, una
sofferenza che ancora ricordava.
Forse invece l’ostacolo era la considerazione che aveva di me. A Parigi,
quando le avevo detto che da ragazzo ero innamorato pazzo di lei, aveva
scosso la testa sorridendo: «Eri innamorato di un’idea di noi, dei tuoi grandi
gesti, dei tuoi fuochi d’artificio. A me non servivano i fuochi d’artificio, mi
bastavi tu».
Ero assolutamente convinto che non fosse così, o che comunque non lo
era più. Dovevo solo convincere anche lei.
Il suono della campanella mi ha fatto tremare, di lì a poco sarebbe uscita.
Dopo una decina di minuti, i più lunghi che ricordi, è apparsa sul portone,
mischiata a una folla di adolescenti.
Appena mi ha visto è rimasta impassibile. Si è avvicinata e con tono
fermo ha detto: «Vieni con me».
Camminava con passo deciso, io le stavo appena dietro. Non riuscivo a
interpretare la sua reazione, non era infuriata e non era nemmeno contenta.
Ci siamo fermati davanti al cartello di divieto di sosta a cui aveva legato la
bici. Si è chinata per slegare la catena.
«Buongiorno prof» hanno detto dei ragazzi che ci sono passati accanto.
Lei ha sorriso in modo poco naturale.
Ha spinto a mano la bici fin dietro l’angolo, in una zona più tranquilla, io
la seguivo in silenzio. È entrata nell’androne di un vecchio, elegante
palazzo, con un giardino interno dove spiccavano una fontana in marmo e
un enorme albero. Ho pensato fosse un posto che conosceva bene, magari ci
abitava una sua amica. A quel punto, sempre con le mani sul manubrio, ha
rivolto lo sguardo verso di me. «Devi smetterla di cercarmi, non c’è
nient’altro che possiamo dirci, questa cosa deve finire. Soprattutto non
presentarti mai più senza preavviso.» Non era arrabbiata, aveva
un’espressione calma e determinata, come se cercasse di assicurarsi che
avessi capito le sue parole. Mi fissava negli occhi e non sembrava più la
stessa donna con cui ero stato a Parigi. Forse si è accorta di essere stata
troppo dura, con un tono più morbido ha aggiunto: «Non voglio litigare con
te, Luca, non voglio rovinare i bei ricordi. Però la situazione ti sta
sfuggendo di mano».
Ho abbassato la testa: «Mi dispiace». Mi ha guardato come si guarda un
bambino che fa sempre lo stesso sbaglio, un misto di tenerezza e
rimprovero, poi ha girato la bici per uscire. Le ho preso un braccio. «A
Parigi, tra di noi, non è stato amore?»
Dalle scale del palazzo è sceso un uomo in giacca e cravatta, parlava al
telefono e la sua voce rimbombava nell’androne. Ci ha fissati un istante, poi
è passato oltre.
Da lì in avanti ricordo poco. Ricordo di aver farfugliato qualcosa sul
fatto che ero disposto a trasferirmi a Parma per lei, anche se mia madre me
l’avrebbe rinfacciato fino alla fine dei suoi giorni. Ricordo di averle detto
che ero cambiato, non doveva avere paura, non avrei più commesso gli
stessi errori. Mentre parlavo mi rendevo conto di dire cose assurde, e più
cercavo di recuperare più peggioravo la situazione. Ero andato nel pallone.
Lei non parlava, mi guardava in silenzio come si guarda un filo
ingarbugliato.
Poi è stato come se un suono, un sibilo, mi avesse attraversato la testa e
l’avesse svuotata completamente. Lucia ha spinto la bicicletta, ho fatto un
passo indietro e l’ho lasciata andare.
L’ho guardata uscire dal portone, una silhouette che scompariva in
controluce.
37
Silvano mi aspettava nella sua casa in Liguria. Non gli avevo ancora dato
una risposta ufficiale, anche se entrambi ci comportavamo come se fosse
scontata. Aveva già cominciato il passaggio di consegne, si era liberato dei
clienti più grossi e ormai trascorreva quasi metà settimana nella casa in
collina vista mare.
Mi ha accolto sul cancello, insieme a Bricco che scodinzolava. Aveva un
sorriso che esprimeva in maniera inequivocabile quanto fosse felice di
vedermi.
Alina, sua moglie, non c’era, era rimasta a Milano per un problema con
la caldaia. Saremmo stati da soli un paio di giorni, io e lui.
La casa era circondata da un terreno con alberi da frutta e ulivi, la vista
era mozzafiato, sembrava un paradiso in terra. Eravamo in piedi, uno
accanto all’altro, a osservare il panorama. Bricco inseguiva le farfalle. Ho
appoggiato una mano sulla spalla di Silvano. «È un bel posto per passare il
resto della vita.»
«Posso dirti la verità?» Mi ha guardato. «Mi sono già rotto i coglioni»,
indicando la vista sul mare. «Hai presente il paradosso dei gemelli di
Einstein? Ecco, nella natura sono quello che resta a terra e invecchia il
doppio rispetto al fratello.» Ridevo come un matto. Aveva passato tutta la
vita a ripetere che non vedeva l’ora di andare in pensione per non “fare un
cazzo tutto il giorno” e adesso, che stava per cominciare, era già stufo.
«Ho capito una grande cosa, questo posto è bello perché so che prima o
poi torno a Milano. L’idea di trasferirmi per sempre mi fa orrore.»
Ridevo e capivo esattamente cosa intendesse. «Stai cercando di dirmi
che vuoi tornare a lavorare?»
«Per niente. Però non voglio tumularmi qui, voglio scendere a prendere
il giornale all’edicola sotto casa, andare al bar, incontrare gente, andare al
cinema. Il caos della città mi tranquillizza. Amo il mio enorme
supermercato, vedere tutte le cose sugli scaffali, anche quelle che non
comprerò mai. Forse non sono vecchio abbastanza per godere del cinguettio
dei passerotti. Preferisco ancora di gran lunga il suono del camion della
monnezza. Mi fa sentire vivo e giovane. La natura mi invecchia.» Ero
sempre più divertito.
«Anche Bricco non è felice.»
Ho guardato il cane zampettare in mezzo all’erba. «Faccio fatica a
crederlo.»
«Ti dico di sì! A ogni rumore scatta in piedi, si spaventa per tutto. Senti,
lo faccio anche per lui.» Silvano era incredibile. «Sai perché ti ho invitato?
Perché averti qui è una boccata di ossigeno, altrimenti sai che sfrangimento
di palle!» Non riuscivo a smettere di ridere.
A pranzo ha continuato il discorso: «A una certa età bisogna avere ben
chiaro quali sono le cose a cui non si può rinunciare e quali invece lasciar
andare. Non si ha più la forza per fare tutto. Bisogna avere la maturità e la
capacità di sapere quello che serve, non tanto per poter essere felici ma per
poter essere se stessi».
Ho pensato che forse era stato troppo drastico, avrebbe almeno dovuto
provare a entrare in una nuova routine. «Anche a me Parigi le prime volte
non piaceva, poi col tempo le piccole cose sono diventate abitudini, e
adesso mi fanno sentire a casa.»
«Non è il mio caso.» Un giorno, ha raccontato, era seduto sotto un ulivo,
tutt’intorno silenzio e calma. Si sentivano le cicale, il mare era calmo e
scintillava sotto il sole. «Ogni silenzio ha la sua cosa da dire. E a me ha
detto una cosa importante.»
Ho aspettato che proseguisse.
«Che apprezzo di più le cose quando mi mancano.»
Forse era così anche per me. Siamo passati in cucina a preparare il caffè.
«Come sta tua madre?» mi ha chiesto all’improvviso.
«Bene, ha avuto un piccolo problema ma niente di grave.»
«E tu?»
Non me la sono sentita di rifilargli il solito “bene” di circostanza, in
fondo era Silvano. «È un periodo un po’ confuso. È come se mi fossi
perso.»
Silvano ha acceso il fuoco sotto la moka, poi ha preso le tazzine nella
credenza: «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva
oscura, ché la diritta via era smarrita…».
Ho sorriso appena. «Sono nel pallone. Non solo non so come muovermi,
non riesco nemmeno più a capire quali sono le direzioni, le possibilità.»
Ha sospirato. «È così per tutti.»
Mentre versava il caffè gli ho raccontato tutto quello che avevo vissuto
negli ultimi giorni, la rottura con Matilde, l’idea scellerata di aspettare
Lucia fuori da scuola, il weekend a Parigi, l’incontro con Beatrice. Mentre
parlavo avevo un tono cupo, angosciato. Si sentiva che ero davvero provato
dal momento, per qualche ragione tutto quello che mi capitava in quel
periodo mi metteva in crisi. Silvano ascoltava in silenzio, anche quando ho
finito speravo mi dicesse qualcosa, invece è rimasto seduto con gli occhi
chiusi e la tazzina del caffè vuota in una mano. Ho pensato di averlo
annoiato, o che non avesse niente da dirmi al riguardo. Per rompere il
silenzio, e perché avevo parlato solo di me, gli ho chiesto di lui.
«È un’età interessante la mia. Mi sono accorto che non mi importa più di
nulla, se ingrasso, se dimagrisco, se ho i capelli lunghi o corti, se sono
vestito bene o male. Una vera liberazione.»
È riuscito a strapparmi un sorriso. «E Alina?»
«Bene, siamo una coppia fresca, però con tutta l’esperienza di altre
relazioni. Poche aspettative e il piacere di stare insieme, quando ne abbiamo
davvero voglia. Per esempio, mi ha chiesto di dormire in camere separate,
dice che russo. A me non è dispiaciuto affatto, perché lei russa più di me.
Anche se sostiene che non è vero.» Abbiamo riso.
«Le donne non russano» ho detto in tono ironico.
«La mia ex moglie non russava. Sarei dovuto rimanere con lei.»
Abbiamo riso di nuovo. Silvano aveva spazzato via tutta la mia cupezza.
«Perché ti sei separato?» Ormai la mia era diventata una specie di
ossessione.
«Una mattina mi sono svegliato e ho capito che ero stanco di mentire.
Non avevo più le forze.» Si è alzato per prendere dell’acqua. «Sai, se le
bugie te le racconti è un conto. Il vero problema è viverle.» L’ho guardato
senza capire, mi ha passato un bicchiere pieno. «Vivere con una donna di
cui non sei più innamorato e fingere di esserlo è la fine. Quella bugia
diventa la tua quotidianità.»
Ha scolato il suo bicchiere in un sorso e ha cambiato discorso: «Ho visto
che il mese scorso hai chiuso due ordini incredibili».
Davanti ai complimenti mi imbarazzavo. «È stata una botta di culo.»
Ha aggrottato le sopracciglia. «Non sei più un ragazzino, la devi
smettere. Quando una persona ti fa un complimento devi rispondere
“grazie”, tutto il resto è immaturità o falsa modestia. È stupido vergognarsi
di essere bravi.» Capivo cosa intendesse. Poi ha cambiato tono, mi ha
guardato con un filo di tenerezza. «Sai cosa devi fare per uscire dalla tua
crisi?» Sapevo che non mi avrebbe lasciato affogare nel mio caos senza
darmi un consiglio.
«Devi trovarti qualche cosa che ti faccia vivere al di sopra del tempo.»
«Cosa intendi?»
«Hai presente quando fai una cosa o stai con una persona e ti accorgi che
sono passate ore mentre eri convinto fossero pochi minuti? Ognuno ha la
sua e può cambiare col passare degli anni.»
«E qual è la tua?» gli ho chiesto.
«Passeggiare con Bricco. Sono le mie ore preferite.» L’ho fissato come
se non ci credessi. «Solo perché sono diventato vecchio» ha aggiunto, «una
volta erano le donne.»
È squillato il suo telefono, era Alina. C’era un problema con il tecnico
della caldaia. Le ultime parole di Silvano prima di chiudere sono state: «Va
bene va bene, vengo».
L’ho guardato. «Non mi vorrai mollare qui, vero?»
«Solo per qualche ora, vado e torno. Tu intanto fai quello che ti pare, vai
al mare se vuoi.»
«Torno con te a Milano.»
«No, resta qui, ti avevo invitato per una ragione. Sono di ritorno per cena
e parliamo di tutto quanto. Mi devi una risposta.» E ha fatto uno di quei
sorrisi che sembrano volersi aprire in una risata.
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«Ma cosa faccio qui da solo?» ho protestato tra me e me. Silvano mi aveva
appena detto che si sarebbe fermato a Milano per la notte. Mancava un
pezzo e il tecnico avrebbe finito il lavoro la mattina seguente. «Scusa, ma
non può occuparsene Alina?»
«Ecco vedi, è quello che ho pensato io e ho sbagliato. Su queste cose si
perde.»
«Non me la sento» ho piagnucolato.
«Ma dài, Luca, su con la vita! Ti riposi. Stacchi un attimo, ti ho visto
sciupato.»
«Ma se hai detto che ti rompi le palle anche tu a stare qui, adesso dovrei
godermela io?»
«Non essere arido, ho detto che mi rompo a viverci, non a starci qualche
giorno. Ti godi il panorama, la natura, pensi alle decisioni che devi
prendere. Parli con te stesso.» Mi stava sfottendo. «La natura ha tutte le
risposte di cui hai bisogno. Resta lì e chiedi. Ricordati, non è mai troppo
tardi per avere un’infanzia felice. Ci vediamo domani.»
Avevo fatto tutti quei chilometri per passare un paio di giorni con lui, in
compagnia, a cucinare, bere, chiacchierare, ridere. Avevo bisogno di
distrarmi, avevo bisogno di leggerezza. L’ultima cosa che volevo era stare
da solo in una casa non mia.
Alla fine ho deciso che sarei andato a vedere il mare, bere una birra
seduto su uno scoglio, poi avrei cenato e a quel punto sarei ripartito. Amo
guidare la notte in autostrada. A Silvano avrei detto che ci saremmo visti
un’altra volta.
Mi è squillato il telefono, era ancora lui.
«Se decidi di venire via, ti devo solo chiedere la cortesia di attivare
l’allarme.» Mi ha spiegato come fare. Prima di scendere al mare volevo
richiamarlo per dirgli che l’avevo inserito, ma non c’era campo. Anche il
wi-fi aveva smesso di funzionare. Una volta al mare, quando il cellulare
prendeva di nuovo, l’ho chiamato: «A casa ha smesso di prendere il
telefono e anche il wi-fi non va».
«Capisci perché non posso vivere lì? Ogni giorno ce n’è una. Una volta è
la connessione, una volta la centralina della corrente elettrica. Ho appena
dovuto comprare un nuovo robottino della piscina. Comunque, in cima alla
proprietà, vicino alla magnolia, a volte prende. Dipende anche dalla
compagnia telefonica.»
Non mi è mai piaciuto stare a casa di qualcuno senza il proprietario.
Vivo tutto quello che faccio come un’invasione, mi sento a disagio ad aprire
i cassetti se mi servono delle cose. Non mi sento libero. Silvano ha sbuffato:
«Non rompere i coglioni, apri tutti i cassetti che vuoi, non mi sento violato
nell’intimità se mi guardi le posate». Prima di attaccare ha aggiunto: «Dài,
non fare il pirla, aspettami lì, domani arrivo».
Ho chiuso gli occhi e ho fatto un lungo respiro, avvertivo una leggera
ansia. Era lei che mi spingeva a tornare a casa. Sapevo che stare solo
avrebbe peggiorato la situazione. Poi mi sono guardato intorno, la
montagna dietro di me, l’azzurro del mare davanti, l’aria era sottile,
profumata. Non è possibile che non sia in grado di stare qualche ora da solo
in un posto come questo, ho pensato.
Alla fine, preso da un moto d’orgoglio ho scritto a Silvano: “Ci vediamo
domani, ti aspetto”.
Ho bevuto una birra davanti al tramonto, ho fatto due passi e sono
risalito a casa.
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