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Linguaggio

Il discorso giuridico tra linguaggio e azioni


Isabel Trujillo

SOMMARIO: 1. Introduzione al tema. – 1.1. Le caratteristiche specifiche del


linguaggio giuridico. – 1.2. Linguaggio e azione… di chi? – 1.3. La necessità
dell’interpretazione. – 2. Sviluppo storico della tematica. – 2.1. Codificazio-
ne e linguaggio. – 2.2. Giuspositivismo e linguaggio. – 2.3. Le filosofie del
diritto dopo la svolta linguistica. – 3. Problemi emergenti. – 4. Conclusioni.
– Letture per approfondire.

1. Introduzione al tema

Il linguaggio caratterizza l’esperienza umana, e ovviamente anche quella


giuridica. Ma il linguaggio a sua volta richiama altre dimensioni umane. I
rapporti tra linguaggio e pensiero per esempio sono strettissimi, tanto da ri-
sultare difficile stabilire quale dei due venga prima, come anche solo imma-
ginare l’uno senza l’altro. L’essere umano pensa il mondo attraverso il lin-
guaggio e allo stesso tempo il suo modo di vedere il mondo è condizionato
dal linguaggio. Per questa ragione trattare del linguaggio è anche trattare
del pensiero e delle sue regole, cioè della logica 1.
Il linguaggio però non si riduce alla relazione tra la mente e il mondo,
tra il pensiero di un soggetto e la realtà esterna. Il linguaggio implica anche
l’esistenza di una sorta di comunanza di regole, di significati, ed è soprat-
tutto una forma di interazione sociale. In altre parole, il linguaggio umano
ha una struttura comunicativa o dialogica, implica cioè una relazione e una
sfera di esperienza intersoggettiva. Non si compone solo di parole, ma po-
stula l’esistenza di, e l’interazione, tra un mittente, un destinatario, un mes-

1
Una disciplina antichissima che studia le regole del giudicare e del ragionare, la cui de-
clinazione aristotelica, detta Organon, cioè strumento, resta insuperabile. Aristotele si occupa
per esempio dei concetti, delle proposizioni, dell’interpretazione, dei ragionamenti, delle opi-
nioni e delle fallacie.
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saggio, un contesto. In questa situazione intersoggettiva le parole sono im-


portanti, ma lo sono anche i ruoli, le ragioni, le azioni in gioco. Il linguaggio
crea uno spazio nuovo, che si colloca tra le parole e le azioni individuali e
sociali, quello dei significati. È in questo spazio che la dimensione normati-
va prende forma in modi diversificati: nell’arte, nella tecnica, nella morale,
nella religione, nella politica. Pure il diritto articola una comunicazione o
una interazione umana di tipo normativo in un’area specifica. Esso stabili-
sce comunicazioni tra esseri umani di carattere linguistico, se con ciò inten-
diamo indicare che si tratta di comunicazioni intenzionali, dotate di signifi-
cato, e volte all’azione. La dimensione comunicativa di carattere giuridico
ha la caratteristica di essere istituzionalizzata, cioè ha sedi proprie, appositi
ruoli, si svolge secondo certe regole e procedure. La centralità dell’azione
nel linguaggio fa sì che vi possano essere anche atti giuridici “muti” 2, che
sono sostanzialmente azioni o comportamenti dotati di significato norma-
tivo.
Il linguaggio umano, pur essendo complesso, cioè composto da unità
progressivamente più piccole, è però primariamente un discorso, un’entità
complessiva. Il famoso filosofo e teorico del diritto italiano del Novecento,
Norberto Bobbio (1909-2004), introducendo allo studio della norma giuri-
dica, ha notato come essa è una proposizione (linguistica) e «[q]uando di-
ciamo che una norma è una proposizione, vogliamo dire che essa è un in-
sieme di parole aventi un significato» 3. La proposizione consiste dunque di
parole, ma anche di significati, e, nel caso del diritto, di significati normati-
vi. A loro volta, le proposizioni, che sono composte da elementi linguistici
più semplici (parole e significati), devono essere articolate in un discorso.
Francesco Carnelutti (1879-1965) diceva che la vita del diritto è ribelle an-
che alle parole e non si comprende il diritto se non si conosce il discorso.
«La norma giuridica in sé, o un complesso di norme, un codice ad es., è un
pezzo del diritto, non tutto il diritto, cioè il diritto vivo, nella pienezza della
sua vita. Questa vita si accende, come usiamo dire, quando le norme sono
applicate o anche sono violate: nella conclusione di un contratto, nella
commissione di un delitto e nella celebrazione di un processo soprattutto.
Ma un contratto, un delitto, un processo sono degli uomini, uno di fronte
all’altro. Vuol dire che bisogna capire quegli uomini per capire il diritto.
Ma questa materia è ribelle ai numeri ed anche alle parole» 4.
Il discorso fa riferimento all’interazione, all’enunciazione, ma anche alla
risposta e alla reazione. Per questo talvolta è meglio parlare di discorso che

2
R. Sacco, Antropologia giuridica, Utet, Torino 2007.
3
N. Bobbio, Teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1993, p. 50.
4
F. Carnelutti, Matematica e diritto, in Id., Discorsi intorno al diritto, II, Cedam, Padova
1953, p. 223.
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di linguaggio. Il discorso è certamente un’entità linguistica, ma non è com-


pletamente riducibile alle sue componenti più semplici, se con ciò si inten-
dono indicare le parole o gli enunciati. Il diritto dunque è popolato da enti-
tà linguistiche, semplici e progressivamente più complesse, ma è da inten-
dersi come una attività discorsiva ed in quanto tale si comprende alla luce
di intenzioni, scopi e azioni umane.
Fatta questa introduzione, si può però affermare che, oltre a poter esse-
re caratterizzato come un linguaggio o, meglio, un’attività discorsiva, si può
anche dire che il diritto si serve del linguaggio. Nel secondo caso il linguag-
gio è inteso in senso strumentale: esso è il veicolo attraverso cui il diritto
viene formulato e comunicato, o anche controllato, ma il diritto allora è al-
tro dal linguaggio, cioè resta oltre il linguaggio, e dunque occorre stabilire
cosa esso sia (potere, forza, conflitto?). Nel primo senso invece si assume
che il linguaggio sia una dimensione umana fondamentale e consista in una
attività, ma soprattutto che il diritto non usi il linguaggio, ma sia azione di
natura linguistica e comunicativa 5. Questo è quanto sembra potersi affer-
mare se si pensa al diritto in termini di pratica sociale: il diritto è infatti una
pratica sociale di natura linguistica che ha però sue caratteristiche e finalità
proprie, distinguendosi da tutte le altre. Affrontando il tema del rapporto
tra diritto e linguaggio bisognerà approfondire questi due modi di accostar-
si al tema, cioè quello secondo cui il linguaggio del diritto è concepito in
modo strumentale e quello in cui il diritto è pensato come attività linguisti-
ca. Le implicazioni sono da entrambi punti di vista importanti.

1.1. Le caratteristiche specifiche del linguaggio giuridico

Il diritto presenta alcune caratteristiche specifiche che si riflettono nel


linguaggio giuridico. In quanto guida dell’azione umana e dunque parte
della ragione pratica, cioè della ragione umana volta all’azione, il suo carat-
tere più evidente è la normatività: il diritto riguarda il dovuto e il dover es-
sere dell’azione individuale e collettiva. La normatività presuppone l’emis-
sione di comunicazioni di un certo tipo – concretamente, di tipo prescritti-
vo –, con il proposito di imprimere un certo corso alle azioni umane. La
prescrittività è certamente una delle funzioni possibili del linguaggio in ge-
nerale e viene detta anche capacità conativa o imperativa, da distinguere
dalle funzioni descrittiva (o referenziale) ed espressiva (o emotiva). Si pos-
sono capire molte cose del diritto riflettendo sulla prescrittività, che mira
ad indurre qualcuno ad agire in un determinato modo. Ovviamente non è il
diritto il solo ad essere prescrittivo. Questa caratteristica è condivisa da al-
tre sfere della vita pratica: la morale, la religione, la politica, ma anche dalle

5
E. Anscombe, On Brute Facts, in “Analysis”, 18, 1958, pp. 69-72.
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diverse tecniche, le grammatiche, le arti. Il problema allora è quello di indi-


viduare la specificità del diritto. A questa domanda non si può rispondere
compiutamente soltanto dalla prospettiva del rapporto tra diritto e linguag-
gio. Sicuramente si può dire che il modo di guidare l’azione da parte del
diritto è attraverso regole a loro volta prodotte da altre regole.
La prescrittività è approfondita dalla logica deontica o logica del norma-
tivo 6. Essa consiste nello studio delle strutture e della comunicazione del
dover essere. Dal punto di vista delle sue caratteristiche strutturali, la quali-
tà distintiva della prescrittività è che la direzione di adattamento del discor-
so va dalle parole ai fatti e non viceversa. Mentre il discorso descrittivo,
detto anche referenziale, per essere tale deve corrispondere o adattarsi alla
realtà (al referente), e il discorso espressivo deve corrispondere ai desideri,
ai sentimenti, alle volontà del soggetto parlante, il discorso prescrittivo – e
dunque quello giuridico – mira alla trasformazione della realtà: è la realtà a
doversi adeguare al diritto. Ovviamente, la realtà cui si rivolge il diritto è
quella delle azioni umane. In altre parole, il diritto è rivolto a soggetti da
cui ci si aspetta venga seguito, cioè che trasformino il linguaggio in azioni.
Da questa peculiarità ne derivano altre: la funzione di prescrizione esige
per esempio che il linguaggio del diritto non possa essere del tutto tecniciz-
zato, perché deve essere ben compreso dai destinatari ai quali è diretto. Per
questo motivo il diritto parla la lingua del destinatario, cioè le cosiddette
lingue naturali. Il rapporto tra diritto e lingue naturali implica, tra altre
problematiche – fino a che punto il linguaggio giuridico può e deve essere
tecnicizzato? In quale misura il significato delle parole è a disposizione dei
soggetti del diritto? –, il carattere controverso dell’utilizzo di strumenti in-
formatici nell’attività giuridica, poiché il linguaggio artificiale di tali stru-
menti è più ristretto rispetto a quello delle lingue naturali. Si tratta del-
l’obiezione del “collo di bottiglia” e consiste nel notare che, ad un certo
punto, le possibilità linguistiche dei linguaggi artificiali risultano ridotte ri-
spetto alla capacità linguistica umana.
Un’altra esigenza derivante dalla specificità giuridica è che il linguaggio
del diritto deve possedere un certo grado di indeterminatezza, caratteristica
tipica delle regole. Tale indeterminatezza è necessaria e non solo inevitabi-
le: il linguaggio delle regole infatti non può essere tanto determinato da ri-
ferirsi ad un’unica azione di un unico soggetto o ad esaurirsi in unico
adempimento, né tanto poco determinato da non orientare l’azione in una
qualche direzione. Si tornerà tra breve su questo punto.

6
È stata fondata da Georg von Wright (1916-2003) con l’articolo Deontic Logic, in
“Mind”, 60, 237, 1951, pp. 1-15.
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1.2. Linguaggio e azione… di chi?

Si può notare che quando si insiste sulla funzione prescrittiva sembra


venire enfatizzata la posizione di chi emette la prescrizione, le sue caratteri-
stiche e i suoi strumenti. Da questo punto di vista, lo studio del rapporto
tra diritto e linguaggio porta all’attenzione del giurista temi quali l’autorità
del mittente, la problematica delle fonti del diritto, le caratteristiche del co-
mando, ed eventualmente le reazioni alla osservanza o inosservanza dell’im-
perativo. Tutti questi aspetti sono centrali in una concezione imperativistica
del diritto, quella teoria secondo cui il diritto è fondamentalmente l’insieme
dei comandi del sovrano trasmessi attraverso enunciati linguistici.
Eppure, per comprendere il diritto e anche il rapporto tra diritto e lin-
guaggio occorre anche considerare la prospettiva del destinatario della co-
municazione linguistica: è quello che la jurisprudence contemporanea ha
chiamato con Herbert L.A. Hart (1907-1992) il punto di vista interno, cioè
il punto di vista di chi vuole agire secondo il diritto 7, detto anche punto di
vista del partecipante al discorso giuridico 8. Da quest’ottica, come si è già
accennato, si può notare che il linguaggio del diritto è veicolo di significati
che costituiscono ragioni per agire in un determinato modo. In questa ve-
ste, la regola giuridica entra e diventa parte della deliberazione (o ragiona-
mento pratico) di chi la deve seguire 9. Il linguaggio del diritto veicola (e
rinvia a) ragioni e giustificazioni delle regole giuridiche in senso pratico,
cioè in vista dell’azione da compiere.
Questo aspetto della questione costringe a prendere le distanze dalle
concezioni meramente espressive delle norme 10, cioè quelle secondo le
quali le regole non sono altro che l’espressione unilaterale del desiderio di
qualcuno – l’autorità – che altri si comportino in un determinato modo 11.

7
Il concetto di diritto (1961), Einaudi, Torino 1991.
8
Il partecipante è chi all’interno di un sistema giuridico prende parte ad una argomenta-
zione su ciò che in questo sistema è ordinato, vietato o permesso (R. Alexy, Concetto e validi-
tà del diritto, Einaudi, Torino 1997, p. 22).
9
Essa entra nel ragionamento pratico ovviamente con le sue prerogative, cioè con la sua
autorità. Per questo Joseph Raz definisce le regole giuridiche ragioni di esclusione (J. Raz,
The Authority of Law, Clarendon Press, Oxford 1979).
10
Una versione estrema della concezione espressiva delle norme è quella della Scuola di
Buenos Aires. Si veda C.E. Alchourrón-E. Buligyn, The expressive conception of Norms, in R.
Hilpinen (ed.), New Studies in Deontic Logic. Synthese Library, Springer, Dordrecht 1981. Altre
versioni meno radicali hanno insistito sulla possibilità di distinguere tra frastico e neustico, cioè
tra la parte rappresentazionale delle norme e la modalità deontica delle regole giuridiche.
11
Il tipo di problematica cui questa concezione risponde riguarda la relazione tra la se-
mantica e la pragmatica. Si pone cioè il problema se il carattere prescrittivo del diritto intera-
gisca in alcun modo con il significato rappresentazionale. A questa questione hanno risposto
in modo diverso il realismo giuridico e la scuola analitica. Il presupposto comune è però una
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La differenza tra queste due diverse letture del diritto non sta nell’esistenza
di autorità o di regole autoritative, ma nel modo di comprendere il linguag-
gio, da un lato, e l’autorità, dall’altro. L’alternativa è tra ritenere che conti
soltanto il soggetto principale parlante (chi ha autorità) e il suo linguaggio,
oppure che rilevi la comunicazione complessivamente considerata, tenuto
conto anche di chi deve seguire il diritto. Questa alternativa fa il paio con
quella che riguarda il rapporto tra significato e forza: se sia la forza a dare
significato al diritto, oppure se siano i significati a dare forza al diritto. In
altre parole, la concezione espressiva delle norme mostra di concepire il lin-
guaggio in senso strumentale. In ultima istanza ciò che conta è la volontà di
chi comanda. Per la riuscita della pratica giuridica conta certamente il sog-
getto che detiene l’autorità e la forza con cui sostiene le regole, ma conta
anche chi opera obbedendo alle regole. Da questo secondo punto di vista il
linguaggio deve rispettare certe condizioni, per esempio che tale linguaggio
esprima significati comprensibili e praticabili. I soggetti coinvolti nella co-
municazione sono anche attivi, ed in questo senso il diritto implica un coin-
volgimento in un’azione comunicativa comune.
All’estremo opposto alla concezione espressiva delle norme si trova la
teoria secondo cui il discorso giuridico si può spiegare solo under the guise
of the good 12, cioè in riferimento a ciò che il diritto si propone di ottenere,
alle sue finalità, ai suoi obiettivi, come le regole per fare un caffè con la
macchinetta si comprendono solo alla luce di quello che quelle regole mi-
rano a realizzare (un caffè, appunto: non basta che il libretto delle istruzio-
ni dia indicazioni di un certo tipo). Da questo punto di vista, una teoria del
diritto e della sua autorità deve contenere anche una giustificazione (accet-
tabile, date le caratteristiche della impresa giuridica) del perché l’autorità è
legittimata a comandare e i destinatari hanno un dovere di obbedire. Tale
giustificazione si comprende unicamente nell’ottica di un’attività comune
da compiere o, anche genericamente, nell’ottica della necessità di una coor-
dinazione. Il presupposto inoltre è la struttura razionale degli agenti coin-
volti: sia di quelli che hanno il compito di comandare, sia di quelli che han-
no il dovere di obbedire. Da questo punto di vista, la concezione espressiva
delle norme è portatrice solo di una parziale comprensione della normativi-
tà del diritto, non certo da trascurare, ma da considerare limitata. La conce-
zione pratica invece può spiegare facilmente l’interazione comunicativa, an-
che se deve affrontare la sfida di dare conto dell’elemento della forza.
Bisogna notare infine che il linguaggio è uno degli elementi più tangibili

concezione atomistica del linguaggio. Si tornerà sulla questione in senso storico nella seconda
parte del capitolo.
È un’espressione di Verónica Rodríguez-Blanco, autrice del volume Law and Authority
12

Under the Guise of the Good, Hart Publishing, Oxford 2014.


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del diritto, e lo è ovviamente ancora di più quando è scritto. Per questo


l’insistenza sull’elemento linguistico come tratto essenziale del diritto è se-
gno di una attenzione particolare alla positività del diritto, che, peraltro, è
una sua caratteristica irrinunciabile 13. Non è un caso che il giuspositivismo
abbia frequentato spesso il binomio diritto-linguaggio, arrivando a sostene-
re per esempio che il diritto non è altro che il linguaggio di un soggetto
qualificato, cioè il legislatore. Tuttavia, come si è visto, il diritto non è solo
parola di qualcuno, né si esaurisce nell’entità linguistica nella sua materiali-
tà o una volta che essa è proferita. Se è vero che le parole (soprattutto scrit-
te) sono tangibili, lo sono meno i significati, le intenzioni, gli scopi, le giu-
stificazioni, eppure anche il giuspositivismo dovrà fare i conti con tutto ciò.
Prima ancora di essere entità linguistica, il diritto è atto comunicativo e in
quanto tale è anche intenzione di qualcuno, giustificazione, decisione, e ra-
gione per agire. Dopo che è stato proferito (o, meglio, emanato e promul-
gato perché sia noto e pubblico – un tratto comunque essenziale per la sua
prescrittività e per rispetto di chi ne è soggetto e vuole seguirlo), il diritto
deve essere (se non vuole restare lettera morta) azione, nella forma di com-
portamenti conformi; oppure, in alternativa, reazione all’omissione o alla
violazione da parte di chi ha questo compito. In ogni caso è interessante
notare che persino il linguaggio scritto – il più materialmente accertabile –
deve essere interpretato dal destinatario del testo e deve essere reso rilevan-
te per l’azione concreta in gioco. Tutte queste operazioni sono talvolta me-
no facilmente controllabili della sola esistenza della lettera scritta, ma sono
altrettanto importanti per il discorso e per la pratica giuridica.

1.3. La necessità dell’interpretazione

Il diritto usa diverse forme linguistiche: quella scritta, quella parlata, e si


esprime anche attraverso simboli, come anche tramite comportamenti. Tut-
ti questi elementi – enunciati linguistici orali o scritti, simboli, fatti – sono
segni, cioè veicolano significati, e pertanto richiedono interpretazioni. Tra-
dizionalmente, l’arte di collegare segni e significati è chiamata semiotica, ed
è attività necessaria per ogni comunicazione. Questa disciplina presenta
una sua specializzazione in campo giuridico, perché l’interpretazione del
diritto vive di presupposti non solo linguistici in senso stretto, ma relativi
all’attività in gioco, con le sue specificità non solo rispetto ad altre sfere

13
Spesso si cade nell’errore di pensare che il giusnaturalismo sia una teoria che rivendica
l’esistenza del diritto naturale a scapito del diritto positivo. È invece fondamentale sapere che
anche il giusnaturalismo valorizza la dimensione della positività del diritto, ma ad esso acco-
sta anche il diritto naturale. Quest’ultimo serve a criticare o ispirare il primo.
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pratiche, ma anche in relazione alle concrete caratteristiche del sistema in


gioco.
Da una parte, è interessante notare che senza il linguaggio non potrem-
mo capire a cosa abbiamo o no diritto, quali sono i nostri obblighi giuridici
o i poteri da esercitare. Ma, d’altra parte, è il linguaggio stesso a creare pro-
blemi giuridici nella forma di conflitti interpretativi, a causa del significato
controverso delle espressioni e degli enunciati, da un lato, e della difficoltà
a capire le situazioni in cui esso va applicato, dall’altro. Il punto è che, tut-
tavia, queste controversie non sono solo linguistiche in senso stretto, ma
piuttosto sottendono questioni pratiche, presuppongono cioè quello che si
deve o non si deve fare, chi ha il potere o la competenza per risolvere un
problema, e così via. La soluzione di queste controversie richiede certamen-
te competenze linguistiche da parte dei partecipanti alla pratica. Nondime-
no, le competenze linguistiche non bastano: occorre conoscere il diritto, le
sue finalità, le sue condizioni di funzionamento.
La irriducibilità del diritto alle sue espressioni linguistiche permea tutta
la problematica dell’interpretazione giuridica, che è una questione struttu-
rale per la pratica del diritto. La spiegazione è che ogni linguaggio parla ad
un destinatario, che ascolta, deve capire e interpretare, nel rispetto di quel-
lo che è stato detto. Questa struttura dialogica è aperta perché non è rivolta
ad un soggetto preciso, ma ad una generalità di soggetti, seppure parzial-
mente determinati (esseri umani, cittadini, persone fisiche, lavoratori, pos-
sessori di reddito). Inoltre, il diritto è anche aperto al futuro perché coin-
volge azioni da compiere, anche se spesso lo consideriamo nella sua fase pa-
tologica, cioè lo osserviamo quando deve giudicare delle azioni passate. La
prospettività del diritto implica che i contesti cambieranno e cambieranno
anche le circostanze e la vita del diritto, cioè il modo di interpretare lo stes-
so enunciato linguistico. Questa struttura aperta è talvolta resa in termini di
indeterminatezza. Per potere guidare l’azione il linguaggio del diritto ha
una struttura aperta sia in senso semantico, sia in senso casistico. Da un la-
to, non impone, permette o vieta una azione concreta, ma un modello di
azione (furto con scasso, omicidio, pagamento delle tasse, assistenza morale
e materiale tra coniugi) da concretizzare in azioni individuali o collettive; da
un altro lato, non è possibile prevedere il modo in cui quelle azioni tipizza-
te si presenteranno nel mondo reale delle azioni umane, soprattutto con il
passare del tempo e il cambiamento dei contesti. Questa indeterminatezza è
legata anche al fatto che il diritto usa le lingue naturali, ed esse presentano
la proprietà della vaghezza, cioè una inevitabile incompletezza della prede-
terminazione semantica. Tutte queste forme di indeterminatezza – che non
sono solo un difetto ma anche un pregio, perché altrimenti la dimensione
normativa non funzionerebbe – sono una questione di grado: il linguaggio
del diritto non può essere talmente indeterminato da non consentire l’indi-
viduazione dei soggetti destinatari e delle azioni dovute – per la sua vaghez-
Linguaggio 281

za o per le sue ambiguità –, ma nemmeno tanto determinato da non mante-


nere una struttura aperta a nuovi casi della vita e a nuove applicazioni 14.
La necessità dell’interpretazione, sebbene con i vincoli imposti dal “det-
to” 15 e dalle competenze da rispettare – si pensi al giudice vincolato dalla
legge o dal precedente giudiziale –, è indice dell’apertura delle regole ai casi
della vita. In questa apertura è molto importante il ruolo del procedimento
logico dell’analogia. Si tratta di una forma di ragionamento classico di
estensione del linguaggio ad una pluralità di significati. Ovviamente, nel di-
ritto l’analogia ha le sue regole e i suoi limiti per ragioni di giustizia: nell’or-
dinamento giuridico italiano, in ambito penale essa viene limitata dal prin-
cipio di tassatività a garanzia della libertà, ma la si accetta quando implica
favore per il reo. È la giustizia come proporzionalità a richiedere l’applica-
zione di analogie, in modo da realizzare una eguaglianza di trattamento, ed
è precisamente il procedimento analogico a consentire la comparazione tra
i casi, che non sono mai identici ma simili 16.
La conclusione generale è dunque che sebbene le diverse discipline lin-
guistiche – la semantica, la grammatica, la sintassi, la logica nelle sue diver-
se forme, la pragmatica, la semiotica – diano un contributo importante alla
competenza del giurista, tuttavia, quello che davvero rileva è capire la logi-
ca interna del diritto: le sue finalità, i suoi mezzi e le sue condizioni di riu-
scita. Molte di queste considerazioni possono essere ricondotte ai principi
della rule of law, cioè alle caratteristiche di un diritto ben funzionante nella
misura in cui le sue regole sono generali, chiare, praticabili, coerenti, rese
pubbliche o promulgate, interpretate secondo il loro tenore e applicate in
modo imparziale 17. La ragione è che, oltre ad essere linguaggio dell’auto-
rità, il diritto è rivolto ad agenti razionali e liberi che appunto devono pote-
re decidere di seguire le sue regole e di farlo.

14
L. Lombardi Vallauri, Norme vaghe e teoria generale del diritto, in “Ars Interpretandi”,
3, 1998, pp. 155-164.
15
Il primato del detto è conseguenza della importanza del soggetto parlante dotato di au-
torità. La rivalutazione del soggetto sottoposto all’autorità non è in contrasto con tale princi-
pio, ma piuttosto complementare, proprio perché il diritto è dialogico e non monologico.
16
L. Gianformaggio collega l’analogia alla proporzione tipica della giustizia: L’analogia
giuridica, in “Studi Senesi”, XCVII, 3, 1985, pp. 430-451.
17
Il maggiore teorico moderno della rule of law è Lon Fuller (1902-1978), che ha elencato
queste caratteristiche come espressive di una moralità interna al diritto. Si veda L. Fuller, La
moralità del diritto (1964), Giuffrè, Milano 1986.
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2. Sviluppo storico della tematica

Lo sviluppo storico del rapporto tra diritto e linguaggio può essere di-
stinto da due punti di vista e diviso in due periodi fondamentali. I punti di
vista sono quello dei giuristi in senso stretto, da un lato, e quello dei teorici
e filosofi del diritto, dall’altro. L’attenzione dei giuristi per il linguaggio è
stata costante: si pensi alla codificazione delle leggi, alle XXII Tavole, al
Corpus Iuris Iustinianeum, al Concordia discordantium canonum, alla codifi-
cazione Napoleonica, oppure alla problematica dell’interpretazione dei te-
sti giuridici e allo sviluppo degli strumenti per realizzarla (i cosiddetti cano-
ni dell’interpretazione): dai glossatori, alla scuola dell’esegesi, ai movimenti
antiformalisti. Tutte queste vicende storiche hanno ad oggetto lo stretto rap-
porto tra diritto e linguaggio.
In relazione più specificatamente al pensiero giusfilosofico, cioè nella pro-
spettiva della comprensione della natura del diritto, risultano rilevanti quel-
le teorie che hanno preso in considerazione il linguaggio come elemento
per definire il diritto. Questa tematica appartiene alla filosofia del diritto in
senso stretto e non in senso ampio: è cioè da collocare in quello spazio tem-
porale nel quale è possibile parlare di filosofia del diritto moderna 18. Da
questo punto di vista, occorre distinguere due momenti o due fasi impor-
tanti. Il primo momento risale alla temperie culturale dell’illuminismo ed è
coevo alla nascita del giuspositivismo e a quella della ideologia della codifi-
cazione napoleonica. In questo contesto il linguaggio serve ad identificare
più facilmente il diritto attraverso le sue fonti (il linguaggio del parlante do-
tato di autorità) e il linguaggio è strumento di controllo del diritto (in un te-
sto unico, per intenderci). Il secondo momento riguarda quello che viene
indicato come linguistic turn o svolta linguistica 19, cioè quel preciso svilup-
po della filosofia e della cultura occidentale del ventesimo secolo in cui as-
sume centralità filosofica l’elemento linguistico per la conoscenza e per la
scienza, ma anche per la comprensione del mondo e dell’essere umano, e
dunque anche per il diritto.
Tenuto conto di queste distinzioni, la trattazione storica dei rapporti tra
diritto e linguaggio, non potendo essere completa, sarà divisa in tre parti.
La prima riguarderà il fenomeno storico e giuridico della codificazione na-

18
Intendo per filosofia del diritto in senso ampio la riflessione sui contenuti della filosofia
del diritto, che ha una tradizione millenaria e che ha privilegiato come problema il rapporto
tra la giustizia e il diritto. In senso stretto la filosofia del diritto appare nell’Ottocento con la
comparsa di Rechtsphilosophie, Philosophie des Rechts, Jurisprudence, e si dedica alla rifles-
sione sulla natura e definizione del diritto. Questa distinzione in parte corrisponde a quella di
M. Barberis, Breve storia della filosofia del diritto, il Mulino, Bologna 2004, pp. 7-9.
19
L’espressione linguistic turn è resa popolare da Richard Rorty in un volume collettaneo
del 1967, intitolato per l’appunto The Linguistic Turn: Recent Essays in Philosophical Method.
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poleonica e darà modo di analizzare una cultura giuridica centrata su un


linguaggio-oggetto, cioè il linguaggio del legislatore. Attraverso lo studio
della scuola dell’esegesi, portatrice della teoria dell’interpretazione voluta-
mente diffusa all’epoca della codificazione, sarà possibile evidenziare aspet-
ti della teoria della interpretazione che ancora accompagnano la cultura
giuridica europea. Nella seconda parte si farà riferimento ad una prima ver-
sione della filosofia del diritto centrata sul problema del linguaggio, cioè il
giuspositivismo classico. La terza fase è proprio quella della svolta linguisti-
ca, a partire dalla quale si sono diversificate due tradizioni di pensiero che
ancora dividono i filosofi del diritto, soprattutto in Italia: la corrente della
filosofia analitica e quella dell’ermeneutica e della fenomenologia. Le vicen-
de storiche però non sono riducibili alle controversie dei teorici o al pensie-
ro di alcuni autori. Sullo sfondo si riscontra la comprensione dei rapporti
tra diritto e linguaggio, che è dimensione essenziale della pratica giuridica.
Questi tre approfondimenti sono tutti rilevanti per comprendere il diritto
del nostro tempo.

2.1. Codificazione e linguaggio

In generale, la codificazione è un meccanismo per controllare il diritto


attraverso la sua forma scritta, rendendo più facile la sua identificazione.
Rispetto alla forma orale, la forma scritta riduce il livello di incertezza del
diritto, anche se non lo può eliminare del tutto. Se questo è vero in genera-
le, lo è ancora di più nel contesto della cultura moderna della codificazione
europea. I sostenitori di questa codificazione hanno concepito il diritto co-
me una sorta di linguaggio sacro: il linguaggio del legislatore. La scienza
giuridica intorno alla codificazione viene chiamata “dogmatica giuridica”,
per indicare che si occupa di ciò che si accetta così com’è ed è fuori discus-
sione, come accade con i dogmi 20. Questo atteggiamento culturale ha origi-
ne, da un lato, in una reazione al particolarismo giuridico, cioè alla pluralità
di regimi giuridici che la consuetudine generava, e, dall’altro lato, alla affer-
mazione di poteri politici accentratori. La prima esigenza si concreta nello
sforzo di unificare il soggetto giuridico e i diversi regimi giuridici attraverso
una legislazione generale; la seconda concausa conduce al monopolio della
produzione giuridica. I giudici, bouches de la loi, avrebbero dovuto applica-
re il diritto attraverso meccanismi neutrali quali il sillogismo giudiziale, che
non a caso è sostanzialmente un calcolo in cui, una volta date le premesse

20
Sulla dogmatica giuridica e sulla sua trasformazione dopo la linguistic turn, si veda il
bel saggio di Luigi Mengoni, Dogmatica giuridica, in Id., Ermeneutica e dogmatica giuridica,
Giuffrè, Milano 1996, pp. 25-65, che mostra anche in che modo si possa riconoscere un ruolo
alla dogmatica nel diritto costituzionalizzato.
284 STRUTTURE

(normativa ed empirica), la conclusione è logicamente necessaria.


Ovviamente, più si insiste sul diritto come linguaggio oggetto, più si ri-
chiede che i giuristi abbiano competenze linguistiche: i giuristi, ma in parti-
colare i giudici, devono fare attenzione al significato preesistente delle pa-
role, alla forma logico-grammaticale delle frasi, e devono eseguire ragiona-
menti deduttivi, cioè ricavare significati normativi già presenti negli enun-
ciati legislativi attraverso la sussunzione. Molto più tardi, insieme all’idea
che il diritto è un linguaggio oggetto (il linguaggio del legislatore), la scien-
za giuridica sarà concepita come un metalinguaggio, cioè un linguaggio che
verte su un linguaggio (oggetto) 21. Questa definizione – pur successiva alla
svolta linguistica – sembra però rielaborare perfettamente la cifra della cul-
tura della codificazione.
L’operazione culturale della codificazione non poteva riuscire senza la
costruzione e la diffusione di una forma specifica della cultura giuridica: ed
è quello che fa la scuola dell’esegesi. L’insegnamento nelle scuole di diritto
del tempo della codificazione parte dai presupposti secondo i quali il dirit-
to è quanto deciso dal legislatore razionale e onnipotente (e solo quello), e
che ogni interpretazione è un tradimento. Di conseguenza, si insiste sui me-
todi o canoni dell’interpretazione letterale, logico-grammaticale e dell’in-
tenzione del legislatore. Ne resta ancora traccia nell’art. 12 delle Disposi-
zioni sulla legge in generale del Codice Civile italiano, risalente al 1942, che
afferma il primato della lettera insieme all’intenzione del legislatore 22. Esi-
stono certamente altri canoni, che la dottrina giuridica aveva elaborato nei
secoli e che la evoluzione del diritto dopo la codificazione ha recuperato,
soprattutto alla luce del fenomeno della costituzionalizzazione. Si pensi al
canone teleologico e all’argomento sistematico, che hanno riconquistato un
ruolo importante nello stato costituzionale di diritto. Il primo fa riferimen-
to alla finalità o scopo della norma; il secondo alla coerenza delle norme
con la costituzione, norma suprema. In qualche modo, questo cambiamen-
to è indicativo del fatto che la costituzione ha riempito di significati – o di
ragioni – l’ordinamento giuridico. Mentre nella prospettiva della codifica-
zione il diritto conta in virtù del suo creatore e promulgatore (il legislatore),
nella prospettiva costituzionale anche il legislatore è sottoposto ad un pro-

21
A parlare di linguaggio-oggetto è U. Scarpelli, Filosofia analitica e giurisprudenza, Nu-
voletti, Milano 1953, p. 163. A definire la giurisprudenza come un’analisi del linguaggio in
cui si esprime il legislatore è N. Bobbio, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, in U. Scar-
pelli (a cura di), Diritto e analisi del linguaggio, Edizioni di Comunità, Milano 1976, pp. 287-
324.
22
«Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese
dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legi-
slatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguar-
do alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dub-
bio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato».
Linguaggio 285

getto comune che si esprime nella costituzione e che fissa parametri di le-
gittimità per la stessa attività legislativa.
Dello stesso periodo della scuola dell’esegesi – e in polemica con quella
e con l’estensione della codificazione francese in Europa – è il paragone del
diritto con la lingua di un popolo, insegnato dalla cosiddetta Scuola Storica
del diritto e dal suo principale rappresentante, Friedrich Carl von Savigny
(1779-1861). Tale paragone viene proposto non tanto per enfatizzare l’ele-
mento linguistico del diritto, quanto per sottolineare la specificità di ogni
ordinamento giuridico. Il diritto di un popolo sarebbe come la sua lingua,
cioè ha origine nel popolo attraverso processi storici determinati e radicati,
e non attraverso atti formali come sono le decisioni del legislatore. In que-
sta scuola si sostiene, fra l’altro, che il diritto ha bisogno dell’opera dei giu-
risti, come il linguaggio ha bisogno dei grammatici. Questi ultimi sono
quelli che studiano, comprendono e controllano le strutture linguistiche pro-
fonde. L’analogia tra grammatici e giuristi ripropone un ruolo fondamenta-
le per questi ultimi nella pratica giuridica. Rispetto alla centralità del sog-
getto parlante o produttore del diritto, questa idea apre ad altri soggetti ed
alla loro rilevanza per comprendere il discorso complessivo.

2.2. Giuspositivismo e linguaggio

Sul piano della riflessione filosofico-giuridica e in qualche modo precur-


sore della svolta linguistica è stato il quasi contemporaneo di von Savigny,
l’inglese Jeremy Bentham (1748-1832). Egli non si è limitato a paragonare il
diritto alla lingua, ma ha propriamente definito il diritto servendosi del lin-
guaggio. Il diritto è infatti secondo Bentham l’espressione linguistica della
volontà del sovrano, cioè un’unione di segni comunicata attraverso il lin-
guaggio adottato dal sovrano di uno stato e riguardante la condotta da te-
nere da parte di certe persone o classi di persone sottoposte al suo potere 23.
In polemica con il giusnaturalismo – che aveva focalizzato l’attenzione
sulle ragioni, i diritti e i doveri, ritenuti da Bentham inconsistenti e mitolo-
gici – egli si concentra sugli atti linguistici come fenomeni empirici, capaci
appunto di fornire elementi per una teoria empirica del diritto. La sua teo-
ria del diritto è però costruita sui significati e sugli usi delle parole in un
senso quasi meccanico: il significato delle parole dovrebbe suscitare quasi
materialmente certe conoscenze ed emozioni in chi le riceve.
Bentham è anche in polemica con il common law, cioè con il sistema
giuridico inglese, che ritiene incontrollabile e irrazionale. Questa sua pole-
mica consente di notare che la preferenza per il diritto consuetudinario

23
J. Bentham, Of Laws in General, 1782, 1.
286 STRUTTURE

fondato su precedenti vincolanti ha come effetto la minore rilevanza del


linguaggio del legislatore all’ora di definire il diritto. Paradossalmente, un
diritto costruito attraverso fatti sociali appare – per un empirico come Ben-
tham – problematico. L’attenzione empirica per il linguaggio sarà ereditata
dalla cosiddetta filosofia analitica, che però valorizzerà elementi empirici
diversi, ora le proposizioni linguistiche, seguendo Bentham, ora i fatti so-
ciali.

2.3. Le filosofie del diritto dopo la svolta linguistica

La terza fase dei rapporti tra diritto e linguaggio è quella che si sviluppa
in seguito alla svolta linguistica, cioè a quella epoca della filosofia occiden-
tale che ha portato a concentrare l’attenzione della filosofia e delle scienze
umane sul linguaggio. Come si è detto, tale svolta è all’origine di una diva-
ricazione che ancora oggi divide la filosofia del diritto contemporanea tra
analitici, da un lato, e filosofi fenomenologi ed ermeneutici, dall’altro, e di
cui occorre comprendere la rilevanza per la comprensione del diritto. A
differenza della codificazione, questa volta non siamo di fronte ad un fe-
nomeno giuridico caratterizzato dall’attenzione al linguaggio, ma siamo di
fronte a due tendenze della filosofia del diritto, ognuna portatrice di un
modo di intendere il linguaggio e il diritto, ma che hanno in comune ap-
punto la centralità dell’elemento linguistico.
La svolta linguistica è variegata ed abbraccia una pluralità di autori e di
direzioni di ricerca. Per semplificare, si possono distinguere due grandi tra-
dizioni. La prima inizia con gli studi di Gottlob Frege (1848-1925), per il
quale il pensiero può essere studiato solo attraverso il linguaggio in cui si
esprime. Questa direzione di sviluppo troverà il suo principale animatore in
Ludwig Wittgenstein (1889-1951), sia a motivo del suo contributo alla for-
mazione del cosiddetto circolo di Vienna – un cenacolo di studiosi che pro-
muoverà il cosiddetto neopositivismo logico – con il suo Tractatus Logico-
Philosophicus (1922), sia grazie alla sua successiva teoria dei giochi lingui-
stici, proposta nelle Ricerche filosofiche (1953). D’accordo con il neopositi-
vismo logico, il linguaggio è lo specchio della realtà ma, mentre la realtà
non può essere studiata e controllata, il linguaggio sì. Ed infatti dal punto
di vista epistemologico (cioè della conoscenza), la scienza deve sostituire i
fatti con il linguaggio e dunque occuparsi di quest’ultimo. In una seconda
fase del suo pensiero, quella dei giochi linguistici, Wittgenstein ridimensio-
nerà la funzione referenziale del linguaggio e promuoverà una sorta di re-
gionalizzazione dei linguaggi, appunto, una loro diversificazione in giochi
diversi. Come esistono tanti giochi e ognuno ha le proprie regole, così esi-
stono tanti linguaggi, ognuno con regole diverse. Il significato non è altro
Linguaggio 287

che l’uso che del linguaggio si fa nel gioco di riferimento. Il significato di-
pende dunque dal gioco che si sta giocando, non ha più basi referenziali.
La filosofia analitica italiana ha tratto ispirazione soprattutto dal Witt-
genstein del neopositivismo logico, sostenendo che un discorso è scientifico
nella misura in cui è costruito rigorosamente. Norberto Bobbio, di cui ab-
biamo ricordato la definizione della scienza giuridica come metalinguaggio
su un linguaggio oggetto, ha sostenuto che la scientificità della giurispru-
denza è data dal suo metodo: l’analisi del linguaggio. La dottrina giuridica
avrebbe il compito di purificare, completare e ordinare il linguaggio del le-
gislatore.
Tuttavia, la filosofia analitica non si sviluppa solo in Italia e non si ali-
menta soltanto di neopositivismo logico. Anzi, la tradizione più forte è
quella anticipata da Bentham e da John Austin (1790-1859), discepolo del
primo anche se meno critico nei confronti del common law, primo docente
di jurisprudence 24. All’interno di questo solco il filosofo del diritto più in-
fluente è Herbert Hart, che però viene maggiormente influenzato dal se-
condo Wittgenstein, cioè quello dei giochi linguistici. In particolare, Hart
usa la teoria dei giochi linguistici per criticare il formalismo interpretativo,
cioè la presupposizione che i termini legali si riferiscono a, e riflettono, cose
oggettive nel mondo. La sua è una teoria interpretativa intermedia tra il for-
malismo e lo scetticismo (cioè la posizione secondo cui il significato delle
proposizioni linguistiche non è accessibile e dunque è deciso dall’interpre-
te). La teoria hartiana fa perno precisamente sulla struttura aperta del lin-
guaggio. Il diritto è una pratica sociale con regole specifiche di funziona-
mento.
La seconda tradizione di pensiero riconducibile pure alla svolta lingui-
stica trova il suo capostipite in Edmund Husserl (1859-1938). Secondo l’ap-
proccio fenomenologico di questo autore, il linguaggio è quella parte della
realtà che ci consente di comprendere il resto (della realtà). Tuttavia, a dif-
ferenza della filosofia analitica, l’attenzione al linguaggio è precisamente giu-
stificata dalla ricerca e dalla comprensione della realtà. Per questa ragione
talvolta si tende a qualificare questa seconda corrente come “speculativa”, a
differenza della prima, che sostituendo i fatti con il linguaggio appare più
“scientifica” perché limitata a dati empirici. La speculatività starebbe nella
tensione verso dimensioni più profonde, in questo caso, la realtà dietro il
linguaggio. Martin Heidegger (1889-1976), allievo di Husserl, ha affermato
che il linguaggio è la casa dell’essere. La metafora esprime con chiarezza la
centralità del linguaggio e il suo rapporto con l’essere. Le sue opere sono
però complesse e poco fruibili per la comprensione del diritto.
Più importante e rilevante per gli studi giuridici è il pensiero di Hans

24
Si tratta della materia equivalente alla filosofia del diritto, introdotta negli studi giuridi-
ci inglesi nella seconda metà dell’Ottocento.
288 STRUTTURE

Georg Gadamer (1900-2001), che ha tradotto in termini epistemologici il


portato della corrente fenomenologica, insistendo sulla comprensione come
metodo specifico delle scienze umane, a differenza della spiegazione, che
sarebbe il metodo delle scienze naturali e fisiche. In Verità e metodo (1960)
Gadamer getta le basi della cosiddetta corrente ermeneutica, composta da
un gruppo di teorie accomunate dall’interesse “filosofico” per l’interpreta-
zione. Tale interesse sta a testimoniare che l’interpretazione non è soltanto
una tecnica, ma piuttosto svela la stessa natura del diritto. In questa pro-
spettiva, un autore che non proviene dalla corrente fenomenologico-erme-
neutica, ma che è critico della corrente della jurisprudence anglosassone al-
l’interno della quale si è pure formato, Ronald Dworkin (1931-2013), ha di-
stinto le teorie del diritto in teorie semantiche e in teorie interpretative. Le
prime intendono il diritto come un oggetto di esperienza isolabile e descri-
vibile; le seconde invece lo vedono come una pratica sociale che è possibile
comprendere solo partecipando al discorso attraverso l’interpretazione. Que-
sta conclusione si può collocare nel solco della rivendicazione di una speci-
ficità epistemologica per le scienze umane, che sono quelle in cui è necessa-
rio interpretare per comprendere e nelle quali il significato è costruito col-
lettivamente nella pratica sociale di riferimento, anche con il contributo di
chi studia i fenomeni umani e sociali volta per volta rilevanti. Questo punto
consente di distinguere l’approccio analitico e quello ermeneutico: il primo
resta ancorato ad una epistemologia monista, cioè all’idea che vi sia un uni-
co metodo scientifico, quello empirico (sia che lo si applichi ai fatti o alle
proposizioni linguistiche). L’ermeneutica difende il pluralismo metodologi-
co: il metodo scientifico dipende dalla realtà che si studia e lo studio della
realtà umana e sociale implica in qualche modo la partecipazione al gioco
linguistico. È questa l’idea di comprensione: la conoscenza dei fenomeni
umani e sociali non è mai asettica e neutrale.
Per sintetizzare l’apporto della fenomenologia e dell’ermeneutica alla com-
prensione del diritto si può ricordare l’opera di Emilio Betti (1890-1968),
giurista italiano che elabora alcuni presupposti ermeneutici fondamentali
per accostarsi al diritto. Il primo è l’autonomia ermeneutica dell’oggetto-
diritto, che implica che il diritto abbia una specificità comprensibile alla lu-
ce del senso generale dell’impresa giuridica e dunque non si possa conosce-
re il diritto senza riflettere sulle sue finalità generali. Il secondo è la totalità
del senso, cioè la necessità di procedere dalla parte al tutto in vista della
comprensione complessiva. Ciò richiede che il processo interpretativo sia
circolare: parta cioè da aspettative di senso e viva di progressivi aggiusta-
menti della comprensione (sia del diritto in generale, sia delle proposizioni
linguistiche in particolare). Il terzo è l’attualità dell’intendere (in altre paro-
le, che l’intenzione sia attuale), il che implica che la vera interpretazione
giuridica sia quella che mira all’applicazione del diritto, cioè quella che
punta a trasformarsi in azione secondo diritto. Questo non significa che
Linguaggio 289

non ci possa essere una intenzione del legislatore storico, ma piuttosto che
essa acquista effettività quando l’interprete la attualizza in un determinato
contesto ed in relazione a certe azioni da compiere o a certi casi concreti. Il
quarto canone è quello della corrispondenza del significato, cioè l’esigenza
che chi parla e chi riceve il messaggio entrino in qualche modo in sinto-
nia 25, come si fa in un discorso.
Da questo resoconto si comprende la differenza di approccio al linguag-
gio delle due correnti. L’approccio analitico è compatibile con la considera-
zione atomistica ed empirica del linguaggio del diritto e delle sue proposi-
zioni, che in realtà è uno strumento di qualcos’altro: il potere o la forza del
legislatore, per esempio. L’ermeneutica valorizza invece il coinvolgimento
di una pluralità di partecipanti alla pratica giuridica (il legislatore e l’inter-
prete in senso lato: giurista, giudice, partecipante). La considerazione del-
l’intesa linguistica come sfera di comunanza intersoggettiva è la premessa
dell’azione individuale e sociale.

3. Problemi emergenti

Come si è visto, la problematica generale del rapporto tra linguaggio e


diritto tende costantemente a riferirsi a quella dell’interpretazione, e questo
è comprensibile alla luce della idea secondo cui il diritto è un’attività lin-
guistica o si serve del linguaggio.
Tuttavia, il percorso finora tracciato soffre di una limitazione significati-
va, ed è che si assume facilmente come presupposto che vi sia un testo o un
linguaggio (quello del legislatore, in particolare) dotati di autorità, che ci si
trova davanti, ed è da interpretare secondo certe regole. È vero che per lo
meno la corrente ermeneutica ha insistito sulla complementarietà tra il par-
lante e l’interprete. Ma la vera domanda è quella che riguarda la stessa co-
struzione del testo, cioè come si arrivi ad identificare il diritto come pratica
sociale linguistica. Un aspetto del problema affiora quando si ridimensiona
il ruolo del legislatore, sia perché il diritto è anche costruito dalle corti – il
cui linguaggio è diverso da quello del legislatore –, sia perché l’autorità giu-
ridica è dispersa in organi e sedi diverse, talvolta concorrenti, come nel caso
dei rapporti tra l’Unione europea e gli Stati membri, oppure tra autorità
nazionali e locali, oppure è prodotto dal basso attraverso quelle forme di
regolazione che oggi vengono indicate sotto la etichetta di soft law. Quali
sono le regole per partecipare a questo gioco complesso in cui è difficile
identificare il soggetto parlante dotato di autorità? Non sarà che sono le

25
Teoria generale dell’interpretazione (1955), Giuffrè, Milano 1990.
290 STRUTTURE

stesse regole ad essere autoritative? Queste sono sicuramente problemati-


che contemporanee che richiedono il ripensamento del rapporto tra diritto
e linguaggio.
Un altro aspetto importante è quello dell’accesso alla pratica in condi-
zioni di parità, laddove talvolta le stesse barriere linguistiche, ma anche la
mancanza di un’istruzione adeguata, oppure ancora di disparità di mezzi,
producono diseguaglianze nella partecipazione al discorso giuridico. Si può
addirittura venire esclusi, oppure essere ammessi in posizione di inferiorità.
Un esempio abbastanza comune si dà quando sono gli esperti a determina-
re le regole giuridiche, estromettendo i cosiddetti laici, e riducendo la pos-
sibilità di controllo da parte di istituzioni democratiche.

4. Conclusioni

Linguaggio e diritto sono strettamente collegati. Il loro rapporto è più o


meno essenziale in relazione al modo di intendere il linguaggio, ma anche al
modo di intendere il diritto e le sue condizioni di funzionamento. Nelle due
direzioni occorre evitare i riduzionismi. Da un lato, non si deve ridurre il
linguaggio alla sua materialità, cioè alle parole scritte o proferite, perché il
linguaggio implica anche il piano dei significati, delle azioni e del discorso;
né si può comprendere adeguatamente il diritto senza riferirsi alle sue fina-
lità generali o limitandosi a considerare certi interlocutori e ad escludere
altri.
D’altro lato, non si deve ridurre il diritto al linguaggio, perché il diritto
è azione comune e coordinazione che il linguaggio rende possibile. Né si
può sostenere che il diritto sia il linguaggio del legislatore, senza perdere di
vista che le caratteristiche del linguaggio giuridico attestano che il diritto è
costruito in modo cooperativo e coinvolge nel suo discorso soggetti razio-
nali e liberi ai quali è diretto.
La riduzione del diritto a linguaggio del legislatore, peraltro, oltre a man-
care di riconoscere importanza alla dimensione della rule of law, sembra
misconoscere le modalità di produzione del diritto contemporaneo, che è
fortemente caratterizzato – nella direzione del costituzionalismo – dal ridi-
mensionamento dell’elemento formale della volontà del legislatore nella
produzione del diritto, e – nella direzione dell’istituzionalismo – dal plura-
lismo giuridico.
Infine, sebbene il tema dell’interpretazione sia quello in cui appaiono le
ricadute più visibili del rapporto tra diritto e linguaggio, questo rapporto in
realtà tocca anche la natura della scienza giuridica e del suo metodo, le sue
condizioni di ben funzionamento, così come la stessa comprensione filoso-
fica della natura del diritto.
Linguaggio 291

Letture per approfondire

Barberis M., Breve storia della filosofia del diritto, il Mulino, Bologna 2004, ca-
pitolo III: La “Jurisprudence”.
Di Lucia P., Introduzione: Tre opposizioni tra diritto e linguaggio, in U. Scarpel-
li-P. Di Lucia (a cura di), Il linguaggio del diritto, Led Edizioni universita-
rie, Milano 1994, pp. 9-23.
Endicott T., Law and Language, in “The Stanford Encyclopedia of Philosophy”
(Summer 2016 Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL = https://plato.
stanford.edu/archives/sum2016/entries/law-language/.
Jori M. (a cura di), Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a
confronto, Giappichelli, Torino 1994.
292 STRUTTURE

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