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I patriarchi non sono figure storiche, nel senso che assume oggi questo

termine. Essi però hanno influenzato profondamente la storia del po Alessandro Sacchi
polo ebraico. Le antiche tradizioni che li riguardavano sono state rilette
dopo l’esilio in modo da far loro esprimere il senso profondo della
religione israelitica, come l’avevano riformulata i giudei deportati in
Mesopotamia. Essi vi hanno ritrovato le origini dell’alleanza tra
e Israele, nonché dell’elezione del popolo e del suo diritto al possesso
della terra di Canaan. Ma al tempo stesso nelle vicende di quei lontani
ABRAMO ISACCO GIACOBBE
progenitori hanno colto l’esigenza di una fede austera, che mette Dio
al primo posto ed esige una vita conforme alla sua volontà.
PADRI DI EBREI CRISTIANI E MUSULMANI
Ciò che rende interessante ancora oggi lo studio dei racconti patriarcali
consiste anche nel fatto che i loro protagonisti sono considerati come
tre religioni in dialogo
padri nella fede dai seguaci di tre grandi religioni che per questo sono
dette «abramitiche»: ebraismo, cristianesimo e islam. Si prospetta dun
que, a partire da questi testi, la possibilità di un serrato dialogo interre
ligioso che permetta di cogliere l’insegnamento specifico di ciascuna di (Genesi 12-50)
esse in rapporto con le altre e con la cultura moderna ormai incalzante
in tutto il globo.

, presbitero del Pontificio Istituto Missioni Estere, ha conseguito


la laurea in Scienze Bibliche presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma e ha inse
gnato esegesi biblica nello studentato del suo Istituto. È stato anche docente nel
Seminario Regionale di Hyderabad (India) e nell’Università Cattolica del S. Cuore di
Milano. Ha curato il volume (Logos 6 - 1995). Inoltre ha
pubblicato diversi volumi, tra i quali (1999; 2014);
(2000; 2012); .
(2012); (2008); (2014);
(2015); (2016);
La sfida di un enigma (2016).
   
    
Titolo | Abramo Isacco e Giacobbe.
Padri di ebrei, cristiani e musulmani
Autore | Alessandro Sacchi

ISBN | 978-88-92672-65-9

© Tutti i diritti riservati all’Autore


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il preventivo assenso dell’Autore.

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ABRAMO ISACCO GIACOBBE


PADRI DI EBREI CRISTIANI E MUSULMANI

tre religioni in dialogo

(Genesi 12-50)

Milano
2017

Youcanprint Self-Publishing


I morti non sono morti

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Prefazione

Il lungo racconto della Genesi di cui sono protagonisti


i patriarchi ebrei ha perso da tempo quella qualifica di
storicità che ha avuto per secoli. È ormai opinione comune
infatti che in esso non si racconti un seguito di vicende
storicamente attendibili. Si può dunque parlare di una sa-
ga in cui sono riportate leggende popolari frutto di una
fantasia creatrice.
Questa constatazione potrebbe avere l'effetto di far
considerare questi racconti come insignificanti dal punto
di vista religioso. E invece proprio la rinunzia a trovare in
essi qualche brandello di storia ha portato a rivalutare la
profonda teologia, elaborata in chiave narrativa, in essi
contenuta. Proprio mediante racconti in gran parte privi
di un fondamento storico la tradizione orale e poi i narra-
tori biblici hanno voluto esprimere il meglio della fede di
Israele. La loro importanza consiste nel fatto che, descri-
vendo le vicende dei progenitori del popolo ebraico, que-
sti racconti vogliono offrire al credente un paradigma sul
quale misurare e formare la propria fede.
Se da una parte i racconti dei patriarchi contengono
una profonda ispirazione religiosa, dall’altra essi rispec-
chiano una società che, dal punto di vista dell’uomo mo-
derno, contiene aspetti criticabili o addirittura scandalosi.
È quindi importante distinguere tra messaggio e cultura,
mostrando come il primo vada ben al di là di quelle che
erano le usanze e le consuetudini dell’epoca in cui i testi
sono stati composti e spesso lo superi.
Il condizionamento provocato dalla cultura del tempo
si percepisce soprattutto quando ci si rende conto che
questi racconti, letti nel contesto di culture tradizionali
7
ancora impregnate di una visione mitologica del mondo,
esercitano un fascino a noi ignoto. Ciò avviene pratica-
mente in tutti i Paesi del Sud del mondo nonché in am-
bienti del Nord ancora influenzati dalla cultura tradiziona-
le. In essi i lettori potrebbero essere spinti a trovare nei
racconti patriarcali una legittimazione di strutture arcai-
che ancora presenti nella loro società o addirittura a farne
uno strumento di contestazione della modernità che sta
ormai penetrando anche al loro interno. Si pensi per
esempio alla famiglia patriarcale, alla condizione subordi-
nata della donna, alla poligamia, al levirato, alla condanna
dell’omosessualità.
In questa prospettiva lo studio delle vicende patriarca-
li è molto utile per comprendere come la cultura moderna
metta in crisi non il messaggio ma la sua formulazione
originaria. Ciò non significa rifiutare in blocco una cultura
arcaica, ma piuttosto entrare con essa in un rapporto dia-
lettico in forza del quale si assumono i valori di cui è por-
tatrice e, al tempo stesso, si attuano un superamento e una
purificazione di ciò che può essere limitante o negativo. A
prima vista potrebbe sembrare che questo processo non
sia richiesto laddove vige ancora una cultura analoga a
quella dei patriarchi. Ma proprio lì è più necessaria una
riflessione che serva a superare le strutture ingiuste, spes-
so presentate come parte integrante del messaggio.
Lo studio dei racconti patriarcali risulta ancora più in-
teressante in quanto i loro protagonisti sono riconosciuti
come padri nella fede dalle tre grandi religioni che, dal
primo di essi, sono dette «abramitiche». A partire da que-
sti racconti si apre la via a un dialogo proficuo che permet-
ta di cogliere l'insegnamento specifico di queste religioni,
in vista di un migliore rapporto tra di loro e con la cultura
moderna ormai incalzante in tutto il pianeta.

8
I
INTRODUZIONE

La seconda parte del libro della Genesi, a partire dal


cap. 12, segna una svolta decisiva nel racconto biblico, in
quanto l’attenzione del narratore si focalizza non più su
tutta l’umanità, ma sulla storia dei «patriarchi», cioè dei
progenitori del popolo d’Israele. Le vicende narrate ri-
guardano quindi solo un piccolo numero di persone; tut-
tavia, sullo sfondo dei primi undici capitoli, appare come
essi siano portatori di un bene (salvezza) che riguarda non
solo i loro discendenti, ma tutta l’umanità, anzi l’intero co-
smo.

I protagonisti dei racconti patriarcali sono i progenito-


ri di un clan di pastori seminomadi che si muovono con le
loro greggi nella zona montuosa, scarsamente abitata, del-
la Palestina centrale. Il primo di essi, Abramo, proviene
dalla Mesopotamia e, dopo una lunga attesa, ha un figlio di
nome Isacco. Ma è sul terzo, Giacobbe, chiamato anche
Israele, che si concentra la maggior parte del materiale
narrativo. È da lui che i «figli di Israele» prendono il loro
nome. In seguito a una carestia, Giacobbe si reca in Egitto
con la famiglia, preceduto da uno dei suoi figli, Giuseppe,
che era stato venduto come schiavo dai fratelli. La sua vi-
cenda fa da premessa all’esodo delle tribù dall'Egitto.
I racconti patriarcali sono, come è ovvio, un’opera let-
teraria nella quale l'autore racconta eventi passati, dei
quali egli stesso non è stato testimone, e li interpreta alla
luce delle sue idee e delle sue convinzioni religiose. È
dunque necessario distinguere il periodo in cui, secondo la
Bibbia, sono vissuti i protagonisti dei racconti da quello in
cui questi sono stati scritti.
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1. L’EPOCA DEI PATRIARCHI

Le tradizioni patriarcali non contengono alcun accen-


no a fatti o situazioni conosciute al di fuori della Bibbia. È
dunque difficile dare una collocazione storica alle vicende
che in esse sono riferite. Non resta quindi che verificare i
dati contenuti nei racconti stessi o in altri testi biblici.

a. Cronologia biblica
Secondo la Bibbia, Giacobbe, il terzo dei patriarchi,
scese in Egitto con la sua famiglia quattrocentotrent’anni
prima dell’esodo degli israeliti (cfr. Es 12,40-41; invece,
secondo Gn 15,13, l’oppressione in Egitto è durata 400
anni). Egli aveva allora centotrent’anni (Gn 47,9.28) ed era
nato quando suo padre Isacco ne aveva una cinquantina
(Gn 25,20); questi a sua volta era nato quando Abramo
aveva cent’anni (Gn 21,5). Tenendo conto che l’esodo
dall’Egitto è solitamente situato nel 1250 a.C., risulta
quindi che Abramo sarebbe vissuto verso il 1850 a.C.

b. Agganci storici
La datazione indicata dalla Bibbia sembra confermata
dal fatto che nei racconti patriarcali appaiono dati che si
armonizzano con la situazione geopolitica di quel tempo.
In essi si afferma che i progenitori di Israele non erano
originari della terra di Canaan ma della Mesopotamia. Te-
rach, padre di Abramo, proveniva da Ur dei Caldei (Gn
11,28.31; 15,7; cfr. Ne 9,7): a parte l’uso anacronistico del
termine «caldei», la città di Ur, che si trova nella Mesopo-
tamia meridionale, presso la confluenza del Tigri e
dell’Eufrate, era fiorente proprio all’inizio del II millennio.
Nella sua migrazione verso la terra di Canaan egli giunge a
Carran, nella Mesopotamia settentrionale (11,31), una cit-
tà anch’essa fiorente nello stesso periodo e collegata a Ur
10
sia commercialmente sia religiosamente. Alcuni familiari
di Abramo portano nomi di città allora esistenti in Meso-
potamia (Aran, Serug, Nacor e Terach). Anche il nome di
Abramo appare sotto la forma di Abarama («Egli ama il
padre») e di Abi-ram («Mio padre è esaltato», oppure
«Grande in rapporto a suo padre»).

Il nome «ebrei», fatto derivare da Eber, progenitore di


Abramo (cfr. Gn 10,21), è usato in riferimento ai patriarchi
unicamente da stranieri (cfr. Gn 39,14.17; 41,12) o in rap-
porto a stranieri (cfr. Gn 14,13; 40,15). Esso ha forse a che
fare con gli úabiru (o >apiru), nominati in diversi docu-
menti tra la fine del III millennio e il secolo XII a.C., sia co-
me mercenari e predatori stranieri e senza terra, sia come
prigionieri o schiavi. Sembra quindi che si tratti, più che di
un gruppo etnico, di una categoria di persone prive di cer-
ti diritti fondamentali, alle quali i patriarchi potevano es-
sere facilmente associati.
Infine gli spostamenti dei patriarchi potrebbero essere
visti come una componente delle grandi migrazioni di po-
polazioni semitiche del II millennio, le quali erano attratte
dalle terre fertili, dove potevano trovare maggiore sicu-
rezza e benessere.

c. Usi e costumi
I costumi dei patriarchi sono molto arcaici. Essi sono
pastori seminomadi che si muovono ai margini del deserto
e allevano greggi di capre e di pecore. Vivono raggruppati
in clan o famiglie, percorrono i bordi della Mezzaluna fer-
tile in cui trovano pascoli e rifornimento di acqua e hanno
rapporti solo sporadici con gli abitanti delle città dove si
recano a vendere i loro prodotti. Durante la stagione secca
si spostano verso i terreni coltivati, nei quali le pecore
possono nutrirsi di ciò che resta dopo la mietitura.
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La religione dei patriarchi è caratterizzata dal culto
del «dio dei padri», cioè del dio che era venerato dai loro
antenati. In questa forma di religione, ogni clan adora una
certa divinità a motivo del rapporto speciale che con essa
aveva avuto il proprio progenitore: a essa sono attribuite
particolari promesse, come quella di una discendenza
numerosa o del possesso delle terre nelle quali il clan ten-
deva a sedentarizzarsi. Una volta entrati nella terra di Ca-
naan, i clan israelitici identificano il dio dei padri con «<El»
(forma singolare di <Elohîm, Dio), il capo del pantheon ca-
naneo, che era venerato con diversi nomi nei vari santuari
locali; ad esso viene associato come tipico del periodo pa-
triarcale il nome El Shaddaj, che probabilmente significa
«dio della montagna» (cfr. Gn 17,1; Es 6,3). Diverse usanze
dei patriarchi si differenziano da quelle codificate in segui-
to nella Bibbia, come la venerazione della divinità in san-
tuari diversi, l’assenza di sacrifici, la venerazione di ogget-
ti sacri come alberi, stele, i rapporti normalmente sereni
con le popolazioni residenti in Canaan.
Alcune usanze dei patriarchi non si ritrovano nella le-
gislazione ebraica o sono in contrasto con essa, ma sono
attestate in documenti medio-orientali del II millennio.
Fra questi, si possono ricordare le trattative per l’acquisto
da parte di Abramo della grotta di Macpela (Gn 23,1-20) o
il matrimonio di Giacobbe con due sorelle (Gn 29,15-30; in
contrasto con Lv 18,18).
Da questi dati risulta che le storie riguardanti i pa-
triarchi contengono ricordi antichi e i loro protagonisti
non sono personaggi inventati ma individui che hanno
svolto un ruolo speciale alle origini dei clan che formeran-
no in seguito il popolo di Israele. Ma ciò non autorizza il
lettore a cercare in questi racconti il ricordo di eventi
straordinari che dimostrino un intervento divino nella
storia umana.
12
2. LA FORMAZIONE DEI TESTI

Nonostante il carattere arcaico di molto materiale


contenuto nei racconti patriarcali, non si possono dedurre
da essi conclusioni certe circa la storicità dei personaggi e
dei fatti narrati: lo impediscono il carattere leggendario
dei racconti, i numerosi anacronismi e il fatto che usi ar-
caici possono sussistere per lungo tempo anche all’interno
di società ormai diverse. A ciò si aggiunge il fatto che, a
un’attenta analisi critica, risulta che questi testi sono stati
composti nel periodo postesilico di cui riflettono situazio-
ni e problemi.

a. Situazioni e problemi del postesilio


Secondo il racconto biblico, dopo l'uscita degli israeliti
dall'Egitto e il loro ingresso nella terra di Canaan, si è for-
mata in essa un'entità statale prima sotto il re Saul (1030-
110 a.C.) e poi sotto Davide (1010-970 a.C.) e Salomone
(970-930 a.C.). Alla morte di quest'ultimo si sono formati
due regni, quello del Nord, chiamato Israele, con capitale
Samaria, e quello del Sud, limitato alla tribù di Giuda, con
capitale Gerusalemme. L’espansione assira nel secolo VIII
a.C. ha provocato la caduta di Samaria, capitale del regno
di Israele (721 a.C.), e la deportazione della parte più qua-
lificata della sua popolazione. Gerusalemme invece è cadu-
ta sotto i colpi dei babilonesi prima nel 597 e poi nel 587
a.C., quando è stato distrutto il tempio e deportata l’élite
dei suoi abitanti. A seguito di questi eventi drammatici, nel
territorio palestinese è rimasta la parte meno qualificata
della popolazione a cui si sono aggiunti i deportati di altre
nazioni (cfr. 2Re 17).
Mentre gli esuli dell’antico regno di Israele si sono in
gran parte assimilati alle popolazioni fra le quali risiede-
vano, i giudei hanno mantenuto in esilio la loro identità e
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hanno rielaborato la loro religione in modo nuovo. Sotto la
guida di esponenti del movimento profetico, essi hanno
espresso il loro rapporto con YHWH sotto forma di
un’alleanza che egli ha stabilito con loro dopo averli libe-
rati dall’Egitto: in quell’occasione egli aveva fatto di loro il
suo popolo eletto e li aveva introdotti in una terra in cui
scorre latte e miele. Questo dono però esigeva come con-
tropartita la fedeltà alla sua volontà espressa nella legge
mosaica.
Nel 538 a.C. il re Ciro, dopo aver sconfitto Babilonia,
permette ai giudei di ritornare in Palestina per ricostruire
il tempio di Gerusalemme. Il libri di Esdra e Neemia, anche
se più tardivi, hanno conservato il ricordo di questo even-
to. In carovane successive, molti di loro affrontano il viag-
gio verso la Giudea e le difficoltà che esso comportava. Al
loro arrivo essi trovano nella regione una popolazione mi-
sta, dedita a un culto sincretista di YHWH, di cui non rico-
noscono l’ascendenza israelitica (cfr. 2Re 17,24-41). Anzi-
tutto essi rifiutano l’aiuto dei residenti nella ricostruzione
del tempio di Gerusalemme. Nasce quindi da parte loro
un’opposizione che li costringe a interrompere i lavori
(Esd 4,1-23); questi sono poi ripresi fra mille difficoltà per
ordine del re Dario (Esd 6,1-18). Un’altra difficoltà è gene-
rata dai matrimoni tra rimpatriati e popolazione locale,
Esdra denunzia questo comportamento come grave infe-
deltà nei confronti di YHWH e impone perciò agli interessa-
ti di allontanare le loro mogli e i figli nati da esse (cfr. Esd
10,10-11.44; Ne 13,23-27). È chiaro che è questa la circo-
stanza nella quale tale norma è stata formulata e poi inse-
rita nella Torah (cfr. Es 34,16; Dt 7,3-4).

b. L’origine dei racconti patriarcali


Numerosi indizi attestano che i racconti patriarcali,
come adesso si presentano, hanno avuto origine nel con-
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testo del ritorno dei giudei nella terra promessa. Dell’ori-
gine mesopotamica di Abramo si parla infatti soltanto in
pochi testi (Gn 11,28.31; 12,1-3; 15,7 e poi in Ne 9,7), tutti
di origine postesilica. Secondo gli altri racconti che lo ri-
guardano, Abramo vive in Canaan come se fosse la sua ter-
ra d’origine. Quando scoppia la carestia (Gn 12,10), non
ritorna in Mesopotamia ma va in Egitto. Gli accenni ai
«caldei», noti solo a partire dal IX secolo a.C., sono un evi-
dente anacronismo. Anche gli aramei, con i quali i patriar-
chi hanno numerosi contatti (cfr. anche Dt 26,5), sono una
popolazione la cui presenza nella regione della Siria Me-
sopotamia è segnalata solo verso il 1100 a.C.
Quando Giacobbe è costretto a emigrare in Mesopota-
mia (Gn 28,15), Dio gli promette di farlo ritornare nella
«sua» terra, la terra di Canaan. Il racconto del suo «ritor-
no», che rappresenta il leit motif della sezione che lo ri-
guarda (Gn 31,3.13; 32,10; 33,18), allude chiaramente al
ritorno in Palestina dei giudei esuli a Babilonia.
Il racconto del servitore inviato da Abramo a Carran
per trovare una moglie per Isacco è un testo molto tardi-
vo, in quanto dà per scontato che esistesse la norma
dell'endogamia, la quale si afferma invece solo dopo l'esi-
lio. Stranamente la non osservanza di questa norma non
crea problemi a proposito del matrimonio di Giuseppe e di
quello di Giuda e dei suoi figli, ma ciò è dovuto forse
all’origine diversa di questi racconti. Altri temi chiaramen-
te postesilici sono quelli dell'alleanza, della circoncisione,
del possesso della terra e dei rapporti con le popolazioni
che vi risiedono. La vicenda di Giuseppe non è ricordata in
nessun documento egiziano, mentre la conoscenza
dell’Egitto che rivela la sua storia non va oltre quello che
ogni abitante un po’ colto della Palestina poteva sapere.
Da queste e altre considerazioni risulta che i racconti
riguardanti i patriarchi sono in gran parte una rilettura di
15
testi più antichi, nei quali la comunità postesilica ha visto
una prefigurazione e una legittimazione del suo «ritorno»
nella terra di Canaan. È dunque nel contesto del ritorno
dall'esilio che si situa la composizione delle tradizioni pa-
triarcali, il cui scopo era quello di attestare che i giudei
rimpatriati avevano il diritto di abitare nella Giudea. Al
tempo stesso questi racconti, in base al concetto secondo
cui il progenitore rappresenta tutti i suoi discendenti
(personalità corporativa), hanno lo scopo di fornire ad es-
si modelli di vita religiosa a cui ispirarsi.

3. LA COMPOSIZIONE LETTERARIA

Le storie patriarcali, sebbene riflettano le idee proprie


dei redattori finali, lasciano ancora trasparire le tracce
della lunga tradizione orale di cui sono il punto d’arrivo. Il
materiale che i narratori avevano a disposizione per rico-
struire la storia e l’esperienza religiosa dei progenitori
non era certo di prima qualità. Esso consisteva soprattutto
in racconti eziologici, leggende cioè con le quali si descri-
veva l’origine di un luogo di culto, racconti edificanti, no-
velle riguardanti le avventure di personaggi famosi, rac-
conti sapienziali, aneddoti familiari. Si trattava dunque di
un materiale molto vario, che a volte originariamente ave-
va un rapporto piuttosto blando con i personaggi a cui
Israele faceva risalire la sua origine.
I racconti sono stati trasmessi oralmente per un lungo
periodo di tempo, prima in modo isolato, poi in cicli ri-
guardanti un certo personaggio e infine sono stati fusi in
un unico grande racconto. Per comprendere a fondo
un’opera così vasta e complessa, è necessario senz’altro
identificare i mattoni e le pietre con cui la costruzione è
stata fatta. Ma soprattutto bisogna esaminare il racconto
16
in se stesso, mettendo in luce i metodi narrativi adottati e
cercando di afferrare quello che, in modo narrativo,
l’autore vuole comunicare ai suoi lettori circa la situazione
in cui essi si trovano a vivere. Per questo è importante te-
ner presenti i principi caratteristici della narrativa biblica
che sono soprattutto quattro: uso dei termini, espedienti
narrativi, il ricorso al dialogo e al discorso diretto, gli in-
terventi del narratore.

a. L’uso dei termini


L’espediente più caratteristico della narrativa biblica è
l’uso di Leitwort, cioè di parole che vengono ripetute nei
punti strategici del racconto, con lo scopo di mettere in
luce l’aspetto morale, storico, psicologico e teologico della
vicenda o per indicare il significato di ciò che accade al
protagonista del racconto. Un esempio significativo è la
ripetizione del termine «benedizione» nei racconti pa-
triarcali. Anche la sostituzione di un termine con un sino-
nimo o con una parola o un’espressione del tutto diversa
da quella che ci si sarebbe aspettata può essere indicativa
del significato che l’autore vuole dare al suo racconto.
Inoltre, quando il racconto scorre in maniera lineare, il
fatto che si adotti o si tralasci un tratto lessicale specifico
può essere molto importante. La narrativa biblica non ab-
bonda di dettagli, per cui quando si trova un dettaglio par-
ticolare (per es. Esaù «fulvo e peloso» o la bellezza di Ra-
chele) si può pensare che esso abbia una funzione, più o
meno immediata, nello sviluppo tematico del racconto.

Analogamente l’uso di un appellativo relazionale (pa-


dre di, fratello di, sorella di), aggiunto o sostituito al nome
di un personaggio significa in genere che il narratore sta
mettendo in luce qualcosa di importante senza ricorrere
ad un commento esplicito. Anche l'etimologia dei nomi di
17
persona gioca un ruolo essenziale nella trama del racconto
di cui spesso dà la chiave interpretativa.

b. Espedienti narrativi
Il narratore si serve spesso di procedimenti letterari
diversi da quelli a cui è abituato il lettore moderno. Anzi-
tutto è significativa la concatenazione, che consiste nel fat-
to che a volte due o più episodi sono saldamente collegati
in modo che l'uno appaia come la causa dell’altro. Ciò è
messo spesso in risalto mediante un grande numero di
elementi ad essi comuni che rafforzano la percezione di
una connessione causale. Per esempio, tutto ciò che ac-
cade a Giacobbe deriva dal momento fatale in cui egli
compra la primogenitura da Esaù per un piatto di lentic-
chie. Questo fatto del resto era stato prefigurato dalla lotta
intrauterina fra i gemelli ed è seguito, sia sul piano causale
che su quello analogico, da tutta una catena di eventi: il
furto della benedizione, la fuga di Giacobbe, i suoi scontri
con le due sorelle rivali che sono le sue mogli, i litigi con lo
scaltro cognato, la sua lotta con l’angelo; dal suo errore
iniziale derivano persino i guai che avrà con i figli, i quali
lo inganneranno con un indumento, la tunica di Giuseppe,
proprio come lui, travestendosi da Esaù, aveva ingannato
suo padre con un vestito.
Un altro metodo spesso usato dai narratori è la ripeti-
zione, che si ha quando vengono proposte versioni diverse
del medesimo racconto. Così due volte YHWH conclude
un’alleanza con Abramo, Agar lascia due volte la casa di
Abramo, la nascita di Isacco è annunziata due volte; i pre-
parativi per l'incontro di Giacobbe con Esaù sono descritti
in due tempi; addirittura l’episodio della moglie fatta pas-
sare come sorella è ripetuto due volte in riferimento ad
Abramo e una a Isacco. In certi casi è ragionevole ipotizza-
re che lo scrittore abbia fatto ricorso a fonti diverse. Fino a
18
tempi molto recenti l’interesse dei commentatori era ri-
volto specialmente alla ricerca di queste fonti, identificate
come tre grandi documenti o tradizioni (yahwista, elohi-
sta, sacerdotale). Attualmente si preferisce chiedersi per-
ché l’autore abbia fuso racconti diversi, qualunque sia la
fonte da cui sono ripresi.
Un altro procedimento letterario caro ai narratori bi-
blici è quello del discorso diretto e del dialogo. I rapporti
tra i personaggi e le vicende che li riguardano si snodano
proprio mediante le parole che essi dicono. L'intervento
del narratore apparentemente è ridotto al minimo, ma
non è così. È lui infatti che ha scelto sapientemente il mo-
mento in cui il personaggio rivela se stesso mediante un
discorso; a volte mette in scena personaggi che fingono di
dialogare senza veramente darsi una risposta; altre volte
riporta un dialogo che s’interrompe bruscamente, senza
riportare la replica dell'interlocutore. Infine capita che un
personaggio ripeta ad altri, quasi alla lettera, intere frasi o
persino intere serie di frasi che si era scambiato con un
suo precedente interlocutore.
A volte può capitare che espressioni o frasi intere, usa-
te in un primo momento dal narratore, non rivelino il loro
significato pieno finché non sono ripetute, o fedelmente o
con alterazioni, e sempre in discorso diretto, da uno o più
personaggi. A volte i personaggi fingono di dialogare sen-
za veramente darsi una risposta l’un all’altro.

Infine il narratore non esita a fare ricorso ai sogni per


indicare in antecedenza il corso che prenderanno gli even-
ti, mostrando così che nulla avviene casualmente ma è
preordinato da Dio. I sogni di Giuseppe, per esempio, dan-
no in anticipo il senso di tutto ciò che avverrà in seguito,
mostrando come Dio sia all'opera anche quando non in-
terviene direttamente con comandi o direttive.
19
Nei racconti biblici il narratore dimostra di avere una
conoscenza amplissima non solo degli eventi ma anche di
dettagli che non potevano essere noti se non ai diretti in-
teressati, come pensieri, sentimenti, dialoghi riservati. A
volte può decidere di lasciare i suoi lettori nel dubbio, al-
tre volte commenta o spiega, anche solo con poche parole,
i fatti che riferisce. Quando lo fa, il suo intervento è deter-
minante per comprendere il senso che egli dà al susse-
guirsi degli eventi.
Gli scrittori ebrei sapevano dipingere con arte i loro
personaggi e le loro azioni, e così provocavano l’interesse
e il piacere dei loro ascoltatori o lettori. Tutti gli aspetti
del racconto devono essere debitamente valutati per capi-
re quello che i narratori vogliono trasmettere. Ma bisogna
ricordare che la loro arte narrativa aveva sempre uno sco-
po religioso e spirituale: con i loro racconti essi volevano
comunicare qualcosa su Dio e sul suo rapporto con l’uomo.

4. STRUTTURA GENERALE

Le articolazioni dei racconti patriarcali sono segnalate


dal termine tôledôt (genealogia, storia della posterità). Es-
so è usato a proposito di Terach, padre di Abramo (11,27),
per indicare la storia della sua famiglia, cioè di Abramo; al
termine del ciclo che lo riguarda si trova un brano intitola-
to «tôledôt di Ismaele» (25,12-18), che contiene i nomi di
dodici capi-tribù generati dal figlio che Abramo aveva avu-
to dalla schiava Agar. La parte successiva è introdotta co-
me tôledôt di Isacco (cfr. 25,19), ma in realtà riguarda suo
figlio Giacobbe; a Isacco personalmente non è dedicato un
ciclo completo ma solo una serie di racconti posti all'in-
terno del ciclo di Giacobbe (Gn 26). Anche al termine del
ciclo di Giacobbe si trova un brano intermedio intitolato
20
«tôledôt di Esaù/Edom» (36,1-43), che riporta l’elenco dei
suoi discendenti. Infine si narrano le tôledôt di Giacobbe
(37,2), cioè le vicende della sua famiglia, e in modo specia-
le di suo figlio Giuseppe. La storia patriarcale abbraccia
perciò tre grandi sezioni narrative:

I. Ciclo di Abramo (Gn 12,1–25,18)


II. Ciclo di Giacobbe (Gn 25,19–36,43)
III. Storia di Giuseppe (37,1–50,26).

I cicli riguardanti i singoli patriarchi rivelano caratteri-


stiche abbastanza diverse. Abramo vive soprattutto a
Ebron, nel Sud del paese, e ha contatti con l’Egitto (Gn
12,10-20) e con i filistei (Gn 20-21), mentre Isacco si situa
piuttosto nei pressi di Bersabea, nella zona del Negheb.
Giacobbe invece ha rapporti con gli aramei della regione
di Carran e dimora nei pressi di Sichem e Betel.
I racconti che li riguardano sono diversi, non solo per il
quadro geografico ma anche per trama e atmosfera reli-
giosa. Isacco rimane piuttosto isolato, mentre la storia di
Giuseppe si distingue nettamente per il suo stile e per il
colore egiziano che la caratterizza. Tutto lascia supporre
che a ciascuno di essi facessero capo i ricordi di gruppi
originariamente autonomi. Solo successivamente, quando
i cicli che li riguardavano sono stati unificati in un com-
plesso più grande, si è stabilito fra essi un rapporto di pa-
rentela, mettendo al primo posto Abramo, il quale aveva
originariamente un’importanza secondaria, ma identifi-
cando in Giacobbe/Israele il vero capostipite delle dodici
tribù.
In un momento piuttosto recente, tutto il complesso è
entrato a far parte del Pentateuco. È probabile che ciò sia
avvenuto sotto l’influsso del Deuteronomio, dove per la
prima volta le vicende dei patriarchi diventano la premes-
21
sa dell’esodo (cfr. ad esempio Dt 7,8; 26,3.15); d’altra par-
te è significativa l’assenza di riferimenti ai patriarchi nella
tradizione sinaitica (a parte i due testi tardivi di Es 32,13 e
33,1) e di accenni espliciti all’esodo nei racconti patriarca-
li (eccetto il testo ugualmente tardivo di Gn 15,13-16).

***

Nei racconti patriarcali, Israele ha visto soprattutto la


libertà e la gratuità della chiamata divina che lo ha rag-
giunto quando ancora non esisteva. L’amore di YHWH per i
patriarchi sarà presentato come il motivo fondamentale
che lo ha spinto a scegliere fra tanti questo popolo, a farlo
uscire dall’Egitto e a unirlo a sé in un modo specialissimo
(cfr. Dt 7,7-8). In questi racconti però è indicata anche la
risposta che Israele deve dare alla chiamata del suo Dio in
modo da realizzare il progetto che Dio voleva attuare per
mezzo suo.
Per i lettori moderni restano aperti diversi problemi:
come valutare nei singoli casi il comportamento etico dei
patriarchi; che importanza assegnare al loro condiziona-
mento culturale. Ci si può chiedere anche se il loro com-
portamento sia imitabile da parte di quei cristiani che vi-
vono in una struttura sociale simile alla loro. La fede di cui
sono dotati può essere un esempio ancora oggi? Queste
domande devono essere tenute presenti se si vuole che i
patriarchi restino un modello di vita anche per noi.

22
II
CICLO DI ABRAMO
(Gn 12,1–25,18)

Abramo non è soltanto il primo dei patriarchi, ma è an-


che quello che ha suscitato maggiore interesse nella rifles-
sione religiosa di Israele. Egli si chiama Abram, e solo in
un secondo momento riceve il nome di Abraham (Abra-
mo). Nel ciclo a lui dedicato si nota una sproporzione tra
la lunghezza del racconto e la povertà del materiale narra-
tivo in esso contenuto. In realtà la storia di Abramo è co-
struita mediante un accavallarsi di racconti che spesso
non sono altro che narrazioni dello stesso fatto desunte da
diverse tradizioni. Molti racconti sono eziologie riguar-
danti l’origine di un luogo di culto. Dio è presentato come
colui che dirige gli avvenimenti, entrando personalmente
in scena e manifestando direttamente agli interessati il
suo volere.

Nelle vicende di Abramo si intrecciano due temi di


grandissima importanza, quello relativo alle promesse di-
vine e quello della fede con cui l’uomo si apre a Dio e alla
sua iniziativa salvifica. La fede di Abramo è presentata non
come qualcosa di perfetto fin dall’inizio ma piuttosto come
un atteggiamento interiore che si sviluppa e giunge a ma-
turazione attraverso difficoltà e prove, cadute e riprese
coraggiose. Dio è sempre al suo fianco, ma è lui che deve
trovare la sua strada in mezzo a difficoltà e tentazioni.

Questo difficile percorso, non del tutto lineare e pro-


gressivo, può essere delineato in quattro momenti in cui si
mescolano, in modo contraddittorio, fedeltà e debolezza:
23
1. Una vocazione impossibile (12,1–14,24)
2. Una fede ancora vacillante (15,1–17,27)
3. Il figlio della promessa (18,1–20,18)
4. La prova finale della fede (21,1–25,18)

1. UNA VOCAZIONE IMPOSSIBILE (Gn 12,1–14,24)

La persona di Abramo (il cui nome fino a 17,5 è


Abram) era già stata presentata al termine della sezione
precedente (11,27-32). Egli è figlio di Terach, discendente
di Sem, il quale aveva avuto, oltre a lui, altri due figli, Na-
cor e Aran, padre di Lot. Aran era morto in Ur dei Caldei,
terra originaria del clan. Abramo aveva come moglie Sarai,
il cui nome sarà in seguito cambiato, mentre Nacor era
sposato con Milca, anch’essa figlia di Aran e quindi sorella
di Lot.
Per un motivo sconosciuto, Terach aveva preso
Abram, suo nipote Lot e sua nuora Sarai, ed era uscito (si
noti il linguaggio ispirato all’esodo) con loro da Ur dei Cal-
dei per andare nel paese di Canaan. Però, giunto a Carran,
nella Mesopotamia settentrionale, per un motivo anch’es-
so sconosciuto vi si era stabilito e lì era morto all’età di
duecentocinque anni. La migrazione di Terach rientra
dunque nel piano di Dio, ma non risponde a un suo ordine
specifico. Dio apparirà sulla scena solo con la vocazione di
Abramo.
In quello stesso brano si dà una notizia che avrà in se-
guito un impatto dirompente: Sarai, la moglie di Abram,
non ha figli perché è sterile. Non si dice invece nulla di Na-
cor, la cui discendenza viene ricordata solo in seguito (cfr.
Gn 22,20-24), come premessa al matrimonio di Isacco con
Rebecca. In quel contesto si verrà a sapere che Nacor abi-
tava a Carran (29,4) in Aram Naharaim (24,10).
24
In questa prima sezione è raccolto un materiale a pri-
ma vista eterogeneo, che però risponde a una logica narra-
tiva ben precisa: Abramo riceve la chiamata di Dio che ac-
cetta con grande obbedienza (12,1-9); ma subito la sua
fede vacilla e, recatosi in Egitto, abbandona la moglie alle
voglie del faraone (12,10-20); nonostante ciò la benedi-
zione comincia a realizzarsi: i suoi beni si moltiplicano ed
egli è costretto a separarsi da Lot (13,1-18); infine libera
Lot, sequestrato dai re dell'Oriente, e riceve la benedizione
di Melchisedek (14,1-20).

a. La chiamata di Abramo (Gn 12,1-9)


Il primo atto della vicenda di Abramo è la sua chiama-
ta da parte di Dio, che rappresenta l’atto di nascita di
Israele. Il narratore, che ha composto personalmente que-
sto brano, fa irrompere bruscamente Dio nella vicenda di
Abramo, designandolo subito all’inizio con il nome del Dio
di Israele (YHWH) e gli attribuisce una richiesta molto dra-
stica: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla
casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» (v. 1).
A quel tempo, abbandonare patria, clan, famiglia, cioè tutti
i propri legami naturali, significava per un uomo trovarsi
solo di fronte a un mondo ostile e pieno di pericoli (cfr. Gn
4,14). Dio inoltre chiede ad Abramo di avviarsi verso un
paese di cui solo strada facendo gli indicherà il nome e
l’ubicazione. Il lettore può supporre che si tratti della terra
di Canaan, verso la quale si era diretto Terach con la sua
famiglia (cfr. 11,31), ma Dio non lo dice e neppure spiega
quale sarà il suo rapporto con tale paese. Ad Abramo non
resta altro che andare verso l’ignoto, lasciandosi guidare
ciecamente da Dio.
Alle richieste divine corrispondono delle promesse lu-
singhiere e impegnative: «Farò di te una grande nazione e
ti benedirò, renderò grande il tuo nome e farò di te una
25
benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro
che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette
tutte le famiglie della terra» (vv. 2-3). Anzitutto Abramo
sarà il progenitore di un grande popolo. Non è spiegato
però come ciò possa realizzarsi, dal momento che, come il
narratore ha annotato poco prima (cfr. Gn 11,30), la mo-
glie di Abramo, Sarai, è sterile.
Inoltre Dio benedirà Abramo e renderà grande il suo
nome, cioè gli darà un grande successo. Questa promessa
si aggancia al racconto della torre di Babele, dove si dice
che l’umanità, ancora indivisa, aveva voluto farsi un nome
e con esso una potenza (cfr. Gn 11,4), e proprio per questo
era stata dispersa: Abramo invece diventerà lo strumento
mediante il quale Dio intende riaggregare l’umanità di-
spersa. Inoltre Dio si prenderà cura di lui, in quanto bene-
dirà quelli che lo benediranno, e maledirà quelli che lo ma-
lediranno. La sua grandezza sarà tale che in lui tutte le fa-
miglie della terra «si diranno benedette», cioè si augure-
ranno l’una all’altra di essere benedette come Abramo
(cfr. Gn 48,20); questa promessa ha un’apertura universa-
listica, che è resa più esplicita nella traduzione greca dei
LXX e nelle citazioni del NT, dove questa espressione è
tradotta «In te saranno benedette tutte le famiglie della
terra», cioè per mezzo suo, otterranno la benedizione di-
vina. È stridente il contrasto tra questa promessa di bene-
dizione e l’insicurezza cui Abramo deve andare incontro
lasciando la sua famiglia, la sua tribù e il suo popolo.
Di fronte alla richiesta e alle promesse divine, Abramo
non parla ma si mette in viaggio portando con sé il nipote
Lot, la moglie Sarai e tutti i beni e le persone che aveva ac-
quistato in Carran e si reca nella terra di Canaan (v. 4-5).
Lot segue Abramo, ma per lui non c'è una chiamata specia-
le; egli persegue un progetto personale che lo porterà in
una direzione opposta a quella del patriarca. Alla laconica
26
informazione circa la partenza di Abramo il narratore
aggiunge che egli aveva allora settantacinque anni: in base
ai dati riportati precedentemente (cfr. Gn 11,26.32), risul-
ta che Abramo ha dovuto effettivamente separarsi da suo
padre Terach che, al momento della sua partenza, era an-
cora vivo. La migrazione di Abramo richiama da vicino
quella dei giudei che, al termine dell’esilio, sono partiti
dalla Mesopotamia per recarsi nella terra promessa ai loro
padri.
Il racconto continua con l’arrivo di Abramo a Sichem,
nel centro del paese, presso la Quercia di More: è difficile
immaginare che cosa rappresentasse questo albero, ma è
possibile che esso fosse il luogo di una manifestazione di-
vina e quindi un oggetto di culto da parte dei cananei. È lì
che Giacobbe seppellirà gli idoli dei suoi famigliari al ri-
torno da Carran (cfr. 35,4). Dopo aver comunicato l'arrivo
di Abramo a Sichem, il narratore annota che «nel paese si
trovavano allora i cananei» (v. 6). È in questo momento
che Dio fa ad Abramo una terza promessa, quella cioè di
dare proprio quella terra alla sua discendenza (v. 7). An-
che qui si nota un evidente contrasto tra la promessa divi-
na e l’impossibilità, umanamente parlando, che essa si at-
tui, dal momento che la terra è già abitata. Per gli esuli, che
si sentivano colpiti dalle minacce contenute nell’alleanza,
doveva essere di grande incoraggiamento il potersi rifare
a questa promessa totalmente gratuita di cui era portatore
il loro lontano antenato.

Ancora una volta Abramo tace. Ma, proprio in quel


luogo, costruisce un altare al Signore. Poi si sposta verso
sud e si accampa vicino a Betel, dove costruisce un altro
altare e invoca il nome di YHWH; infine scende nel deserto
del Negheb e vi si stabilisce (vv. 8-9). Abramo percorre
quindi tutto il paese da Nord a Sud: questa sua peregrina-
27
zione rappresenta simbolicamente una presa di possesso.
Gli altari, eretti in una terra straniera, abitata da altre po-
polazioni, sono piccoli segni di fede nella promessa divina.
In questo brano introduttivo il redattore finale indica
in anticipo lo scopo del suo racconto. La vocazione di
Abramo mette in luce un progetto divino in base al quale
verrà ridata a tutta l’umanità la salvezza (benedizione)
persa col peccato. Dio conferisce dunque ad Abramo e, per
mezzo suo, al popolo che nascerà da lui, non un privilegio,
ma una missione di ampiezza universale. Nella risposta
silenziosa del patriarca appaiono i connotati essenziali di
una autentica esperienza di fede: ascolto, abbandono delle
proprie sicurezze, fiducia, disponibilità a mettersi in cam-
mino.

b. La moglie abbandonata (Gn 12,10–20)


Subito dopo l'arrivo di Abramo scoppia nella terra di
Canaan, una carestia: è questo, come quello dell'acqua, un
tema ricorrente nei racconti patriarcali. In quella occasio-
ne Abramo scende in Egitto per soggiornarvi (v. 10): si
tratta di una decisione presa dal patriarca per motivi con-
tingenti, non per un ordine divino. Per il lettore ebreo si
tratta di una decisione non certo lodevole, in quanto
l’Egitto è la terra della schiavitù dalla quale Dio ha liberato
il suo popolo. E di fatto, in una situazione analoga, Dio im-
pedisce a Isacco di fare altrettanto (cfr. Gn 26,1-5). Ma c’è
di peggio. Prima di entrare in Egitto, Abramo fa a sua mo-
glie uno strano discorso: «Vedi, io so che tu sei una donna
di aspetto avvenente. Quando gli egiziani ti vedranno,
penseranno: “Costei è sua moglie”, e mi uccideranno, men-
tre lasceranno te in vita. Di’, dunque, che tu sei mia sorella,
perché io sia trattato bene per causa tua e io viva grazie a
te» (vv. 11-13). Per salvarsi la vita e ottenere dei vantaggi,
il patriarca è disposto a cedere la moglie alle brame degli
28
egiziani. E, difatti, quando arriva in Egitto, gli egiziani
vedono che la donna è molto avvenente e la conducono
alla reggia per metterla a disposizione del faraone. A causa
di lei, egli tratta bene Abramo, che riceve in dono greggi,
armenti, asini, schiavi e cammelli (vv. 14-16).
Ma «YHWH colpì il faraone e la sua casa con grandi pia-
ghe per il fatto (dabar, cosa, parola) di Sarai, moglie di
Abram» (v. 17). È possibile interpretare l’intervento di
YHWH come la risposta a una «parola», cioè a una preghie-
ra di Sara che nella sua umiliazione si era rivolta a lui.
Stranamente Dio interviene ma, invece di biasimare o pu-
nire Abramo per la sua menzogna, colpisce con grandi
piaghe il faraone. Non si dice quali fossero queste piaghe e
come il faraone sia giunto a stabilire un nesso tra esse e il
fatto di Sara. Queste piaghe hanno lo scopo non di punire,
ma solo di impedire un male più grande. Allora il faraone
convoca Abramo e gli dice: «Che mi hai fatto? Perché non
mi hai dichiarato che era tua moglie? Perché hai detto: “È
mia sorella”, così che io me la sono presa in moglie? E ora
eccoti tua moglie: prendila e vattene!». Poi il faraone dà
disposizioni ad alcuni uomini, che lo allontanano insieme
con la moglie e tutti i suoi averi (vv. 18-20).
Le piaghe inflitte al faraone e ai suoi famigliari richia-
mano quelle che hanno colpito gli egiziani al tempo
dell’esodo, così come l’espulsione di Abramo con tutti i
suoi beni, compresi quelli da lui ottenuti in Egitto, richia-
ma il fatto che gli israeliti sono usciti dall’Egitto, come poi
dalla Mesopotamia, dopo aver spogliato gli abitanti del
luogo (cfr. Es 13,35-36; Esd 1,6).
In questo brano il redattore finale utilizza una leggen-
da che certamente aveva colpito l’immaginazione degli
israeliti, al punto tale che essa viene ripresa altre due vol-
te, una di nuovo a proposito di Abramo (cfr. Gn 20,1-18) e
l’altra di Isacco (cfr. Gn 26,6-11). Forse lo scopo originario
29
era quello di esaltare la bellezza e l’attrattiva delle donne
israelite, in modo da scoraggiare i matrimoni con donne
straniere. Nel contesto attuale, il protagonista diventa
Abramo, al quale viene così attribuita una meschinità
sconcertante, che lo porta a cedere la sua sposa, senza
neppure consultarla, in cambio di vantaggi materiali. Ma
soprattutto egli rivela la sua poca fede, in quanto mette a
repentaglio proprio colei attraverso la quale doveva otte-
nere la discendenza promessa. Abramo però non lo sa an-
cora e pensa ad altre soluzioni. Il narratore non commenta
il fatto, ma si limita a riportare le parole critiche del farao-
ne; egli lascia che i fatti parlino da sé, riservando la valuta-
zione etica di questo comportamento al racconto parallelo
di Gn 20,1-18.

c. Separazione di Lot da Abramo (Gn 13,1-18).


Il racconto della discesa di Abramo in Egitto lascia il
posto a un episodio riguardante i rapporti tra il patriarca e
il nipote Lot. Il collegamento con l’episodio precedente
viene fornito dalla notizia secondo cui Abramo viene al-
lontanato dall’Egitto con sua moglie e tutti i suoi averi (cfr.
13,20); qui si aggiunge però che egli risale nel Negheb e
con lui si trova anche suo nipote Lot, di cui si parlerà in
questo capitolo (v. 1). Il narratore osserva che Abramo
possedeva una grande quantità di bestiame, argento e oro
(v. 2): si suppone che questa ricchezza sia quella acquista-
ta da lui in Egitto (cfr. 12,16). Dal Negheb egli si reca a Be-
tel, nel luogo dove precedentemente aveva costruito un
altare, e lì invoca il nome di YHWH (vv. 3-4). Forse consa-
pevole dell’errore commesso, il patriarca ritorna al punto
di partenza del suo peregrinare nella terra di Canaan.
Anche Lot aveva greggi, armenti e tende, e il territorio
non era tale da consentire che abitassero insieme (vv. 5-
6). Per questo sorge una lite tra i mandriani di Abramo e
30
quelli di Lot. Il narratore osserva che i cananei e i perizziti
abitavano allora nella terra di Canaan (v. 7): Abramo e Lot
formavano quindi un gruppo seminomade, che doveva ne-
cessariamente conservare dimensioni limitate per avere
accesso alle risorse che il territorio offriva.
Abramo affronta la situazione dicendo a Lot: «Non vi
sia discordia tra me e te, tra i miei mandriani e i tuoi, per-
ché noi siamo fratelli». E gli propone di separarsi da lui
lasciandogli la scelta del territorio in cui muoversi, o a si-
nistra (Nord) o a destra (Sud) della terra di Canaan (vv. 8-
9). Lot invece si rende conto che la valle del Giordano, fino
a Soar (cfr. 19,20-23), era un luogo irrigato da ogni parte
come il giardino del Signore o come la terra d’Egitto. Tutto
ciò però era vero prima che YHWH distruggesse Sodoma e
Gomorra. Il narratore osserva infatti che gli uomini di So-
doma erano malvagi e peccavano molto contro il Signore
(vv. 10-13): per questo si profila la loro distruzione. Lot
non poteva sapere ciò che sarebbe accaduto, ma forse non
era all'oscuro di quanto accadeva in quella regione: tutta-
via egli sceglie per sé tutta la valle del Giordano e traspor-
ta le tende verso oriente e le pianta vicino a Sodoma,
quindi al limite della terra promessa. La scelta di Lot è sta-
ta quindi determinata da un puro interesse materiale, a
prescindere da ogni altra considerazione. La sua però è
stata una decisione avventata, che avrà serie conseguenze
per lui e per la sua famiglia.
Abramo invece si stabilisce nella terra di Canaan. Lot
ormai se n'è andato e Dio rinnova ad Abramo la promessa
di dargli quella terra:

Alza gli occhi e, dal luogo dove tu stai, spingi lo sguardo ver-
so il settentrione e il mezzogiorno, verso l’oriente e l’occi-
dente. Tutta la terra che tu vedi, io la darò a te e alla tua di-
scendenza per sempre. Renderò la tua discendenza come la

31
polvere della terra: se uno può contare la polvere della terra,
potrà contare anche i tuoi discendenti. Alzati, percorri la ter-
ra in lungo e in largo, perché io la darò a te (vv. 14-17).

Rispetto alla prima versione di questa promessa (cfr.


12,7) si nota ora un'importante precisazione: la terra sarà
data nella sua totalità non solo ai discendenti di Abramo,
ma anche a lui personalmente e «per sempre». Ciò comin-
cerà a realizzarsi con l'acquisto della grotta di Macpela.
Per tutta risposta, Abramo si sposta di nuovo con le sue
tende verso Sud e va a stabilirsi ad Ebron, presso le Quer-
ce di Mamre, e vi costruisce un altare a YHWH.
Questo episodio, a cui difficilmente corrisponde una
leggenda precedente, rappresenta la premessa di sviluppi
successivi riguardanti i rapporti tra Abramo e Lot. Con es-
so il narratore intende mostrare come la benedizione di-
vina cominci ormai a manifestarsi nella vita del patriarca:
benedizione divina e benessere materiale vengono stret-
tamente collegati. D’altra parte il narratore vuole presen-
tare un esempio di composizione dei conflitti, in contrasto
con quello che avviene tra altri due fratelli, Caino e Abele.
Abramo, che avrebbe avuto il diritto di prendere per sé
quello che riteneva meglio, lascia al nipote la scelta. Così
facendo, dimostra di aver superato la meschinità che lo
aveva portato a consegnare la moglie al faraone. La sua
generosità comporta però il rischio per lui di perdere il
possesso almeno di parte della terra promessa. Per que-
sto, solo dopo che Lot si è allontanato, Dio sottolinea che
tutta la terra apparterrà a lui e ai suoi discendenti.

d. Liberazione di Lot e
benedizione di Melchisedek (Gn 14,1-20)
I guai di Lot cominciano subito dopo la sua separazio-
ne da Abramo. Egli viene coinvolto in un grosso evento di
32
carattere geopolitico che riguarda cinque re di altrettante
città che si trovavano nella valle di Siddim, cioè del Mar
Morto: Bera re di Sodoma, Birsa re di Gomorra, Sinab re di
Adma, Semeber re di Seboim e Soar il re di Bela. Tutti co-
storo per dodici anni erano stati sottomessi a Chedorlao-
mer, re dell’Elam, ma il tredicesimo anno si ribellano. Allo-
ra Chedorlaomer e altri tre re dell’Oriente, cioè Amrafel re
di Sinar, Arioc re di Ellasar e Tidal re di Goim, muovono
guerra contro di loro (vv. 1-4).
Nell’anno seguente Chedorlaomer e i re che erano con
lui invadono la Palestina e sconfiggono diverse popolazio-
ni che vi abitano (vv. 5-7). Allora i re di Sodoma, di Go-
morra, di Adma, di Seboim e di Bela si schierano contro di
loro nella valle di Siddim. Questa era piena di pozzi di bi-
tume; messi in fuga, il re di Sodoma e il re di Gomorra vi
cadono dentro, mentre gli altri fuggono sulla montagna.
Gli invasori prendono tutti i beni di Sodoma e Gomorra
nonché tutti i loro viveri e se ne vanno. Fra gli altri cattu-
rano anche Lot e si impossessano dei suoi beni (vv. 8-12).
Ma un fuggiasco va ad avvertire Abramo l’ebreo, che si
trovava alle Querce di Mamre l’Amorreo, fratello di Escol e
fratello di Aner, suoi alleati. La qualifica di «ebreo» viene
data agli israeliti solo da stranieri e deriva dal termine
hapiru che, nei documenti egiziani e mesopotamici, indica
non una etnia ma gli appartenenti a uno stato sociale
normalmente povero o emarginato: senza dubbio Abramo
era così designato perché apparteneva ad esso e non per-
ché discendente di Eber (cfr 11,14-15). Quando Abramo
viene a sapere che Lot è stato fatto prigioniero, organizza i
suoi uomini esperti nelle armi, schiavi nati nella sua casa.
Egli li divide in squadre, insegue i rapitori, li sconfigge e li
insegue fino a Coba, a settentrione di Damasco. Recupera
così tutti i beni e anche Lot suo fratello, i suoi beni, con le
donne e il popolo (vv. 13-16).
33
È impossibile scoprire l’origine di questo racconto e
l’identità dei suoi protagonisti: si può ritenere che in esso
sia contenuto qualche ricordo storico, ma gli anacronismi,
le contraddizioni e i dettagli inverosimili ne fanno un pez-
zo più di fantasia che di storia. Esso è l’unico nel quale
Abramo appare in vesti bellicose. Il numero dei suoi uo-
mini, trecento diciotto, è certamente simbolico, ma il suo
significato non è chiaro. I nemici contro cui combatte ven-
gono dalle regioni dell’Oriente, da dove sarebbero venuti
un giorno coloro che avrebbero deportato i suoi discen-
denti. Abramo è superiore a loro, nonostante l’esiguità
delle forze a sua disposizione. Egli però non combatte per
appropriarsi dei beni altrui, ma solo per liberare le vittime
della guerra. Il narratore si serve di questo racconto per
esaltare la figura di Abramo, presentando i suoi beni come
effetto della benedizione divina. Al tempo stesso però
mette in luce che, se i suoi discendenti dovranno affronta-
re delle guerre, queste dovranno avere solo uno scopo di-
fensivo.
Quando Abramo è di ritorno, il re di Sodoma, che qui
riappare illeso nonostante quello che gli era capitato (se-
gno del sovrapporsi di tradizioni diverse), gli esce incon-
tro nella valle di Save, cioè la valle del Re. Qui il racconto si
interrompe per lasciare il posto all’episodio di Melchise-
dek, re di Salem. Questo personaggio, anche lui venuto dal
nulla (cfr. Eb 7,3), offre pane e vino: egli era sacerdote del
Dio altissimo. Melchisedek poi benedice Abramo con que-
ste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, crea-
tore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo,
che ti ha messo in mano i tuoi nemici». Dopo di ciò Abra-
mo gli dà la decima di tutto (vv. 17-20). Si suppone quindi
che la spedizione gli avesse fruttato un ingente bottino.
Dopo l'inciso riguardante Melchisedek, il narratore ri-
prende il filo del racconto che era stato interrotto. Il re di
34
Sodoma dice ad Abramo: «Dammi le persone; i beni pren-
dili per te» (v. 21). Abramo risponde:

Alzo la mano davanti a YHWH, il Dio altissimo, creatore del


cielo e della terra: né un filo né un legaccio di sandalo, niente
io prenderò di ciò che è tuo; non potrai dire: io ho arricchito
Abram. Per me non voglio niente, se non quello che i miei
servi hanno mangiato; gli uomini che sono venuti con me,
Aner, Escol e Mamre, si prendano la parte che spetta loro
(vv. 22-24).

L’incontro con Melchisedek ha luogo nella valle del Re,


vicino a Gerusalemme (Gn 14,18-20). Melchisedek, il cui
nome significa «il mio re (malk») è giustizia (§edeq, appel-
lativo della divinità)» è re di Salem (la futura Gerusalem-
me) e quindi anche, proprio in quanto re, sacerdote del
Dio Altissimo (<El >elion), la divinità adorata in quella città.
Il pane e il vino da lui offerti sono probabilmente un cibo
fornito ad Abramo e ai suoi uomini per rifocillarsi e non
un sacrificio offerto alla divinità: ma siccome Melchisedek
è presentato come sacerdote, è possibile che una parte del
cibo sia stata offerta precedentemente alla divinità.
La benedizione è pronunziata da Melchisedek nel no-
me della sua divinità locale, il Dio Altissimo. Ma subito do-
po, nel giuramento che Abramo fa al re di Sodoma, il Dio
Altissimo è identificato con YHWH (v. 22): ciò significa che
in realtà la benedizione proviene dal Dio di Israele che ha
chiamato Abramo. Che essa sia pronunziata da un sacer-
dote non israelita implica però un apprezzamento della
religiosità cananea che è inaudito nel Pentateuco, ma che
si armonizza con l’orizzonte universalistico su cui è pre-
sentata la figura del patriarca.
Nella sua forma originaria, il racconto dell'incontro
con Melkisedek voleva forse inculcare l’obbligo da parte
del popolo israelitico (Abramo) di sottomettersi al re di
35
Gerusalemme, discendente di Davide, al quale è conferito
un sacerdozio, analogo a quello di Melchisedek, cioè di ca-
rattere regale, diverso da quello di Aronne (cfr. Sal 110,4).
Il pagamento della decima da parte di Abramo non fa altro
che sottolineare tale esigenza. Nel contesto attuale il rac-
conto rappresenta una conferma della benedizione data
da Dio ad Abramo e probabilmente ha lo scopo di inculca-
re ai giudei reduci dall'esilio la necessità di sottomettersi
al sommo sacerdote di Gerusalemme: questi infatti, dopo
l’esilio, ha assunto un ruolo regale in quanto ha ricevuto
dall’imperatore il compito di governare la Giudea.

Temi e spunti di riflessione


In questa sezione i temi più importanti sono quelli del-
la vocazione di Abramo e della fede con cui egli accoglie il
progetto divino.

1) La vocazione
La vocazione di Abramo segna l’inizio e lo svolgimento
di tutte le vicende riguardanti i patriarchi. Essa viene si-
tuata dopo la storia primordiale, dove si narra l’estendersi
in diverse tappe del peccato dell’umanità a cui si oppone
ogni volta la misericordia di Dio. Dopo l’episodio della tor-
re di Babele, presentato come l’ennesima ribellione
dell’umanità, la vocazione di Abramo e del popolo che da
lui nascerà viene vista come un argine che Dio oppone al
dilagare del peccato.

La sua vocazione rappresenta dunque un nuovo inizio:


il peccato non ha l’ultima parola. Abramo deve credere che
veramente Dio gli affida un compito così grande in funzio-
ne di un bene che riguarda tutta l’umanità. Egli non riceve
un privilegio ma viene coinvolto in un progetto da realiz-

36
zare. La consapevolezza di essere chiamati in Abramo per
compiere una missione era molto importante per i giudei
reduci da Babilonia: per loro la ricostituzione della nazio-
ne giudaica doveva essere in funzione di un progetto di
Dio che voleva realizzare la salvezza di tutta l’umanità.
Ogni volta che nella Bibbia si parla di vocazione, questa
deve essere intesa non come un privilegio ma come il con-
ferimento di una missione di carattere universale.
La chiamata di Abramo è accompagnata da tre grandi
promesse: essere il progenitore di un popolo, ricevere in
dotazione una terra in cui abitare e ottenere una benedi-
zione che in qualche modo riguarderà anche tutte le na-
zioni. Le difficoltà che si frappongono alla realizzazione di
queste promesse sono molte: l’età avanzata, la moglie ste-
rile, l’insicurezza dovuta a un distacco radicale dai suoi, il
fatto che la terra promessa è già abitata da altre popola-
zioni, ma soprattutto l'inadeguatezza del prescelto. Uma-
namente parlando il compito che Dio assegna ad Abramo è
irrealizzabile. Ma proprio questa constatazione deve far
comprendere che si tratta di un progetto che non viene
dagli uomini ma da Dio. Solo questa convinzione poteva
spingere gli esuli a reinsediarsi nella terra promessa, no-
nostante le difficoltà che si frapponevano alla ricostituzio-
ne della nazione giudaica.

2) La fede di Abramo
Al Dio che lo chiama Abramo non chiede ulteriori
spiegazioni ma si mette in cammino. Con questa obbe-
dienza silenziosa Abramo manifesta la sua fede. Egli appa-
re subito all'inizio come un migrante, immagine e modello
dei suoi lontani discendenti. È nel corso delle loro pere-
grinazioni che Abramo e i patriarchi scoprono sempre
meglio il progetto di Dio. Nonostante la sua prontezza nel
rispondere alla chiamata di Dio, la fede di Abramo è anco-
37
ra vacillante. A volte egli fa delle scelte sbagliate: discende
in Egitto per un interesse materiale; cede la moglie sterile
al faraone in vista di vantaggi materiali. Dio non interviene
per riprendere Abramo. Il giudizio viene lasciato allo svol-
gersi degli eventi, dai quali egli dovrà capire, e il lettore
con lui, in che cosa ha sbagliato. Ma l’importante è la cer-
tezza che Dio non lo abbandona anche quando sbaglia.
La benedizione divina si manifesta prima di tutto me-
diante il benessere materiale. Per grazia di Dio, Abramo
diventa molto ricco. Egli è così potente da vincere i re
orientali, che hanno sequestrato Lot e un giorno porte-
ranno in esilio gli israeliti. Dio si serve addirittura di un
sacerdote straniero, Melchisedek, per benedirlo, affer-
mando così che gli uomini di buona volontà non possono
non riconoscere la missione che gli è affidata. È questa la
base su cui gli esuli tornati in patria dovranno regolare i
loro rapporti con la popolazione ivi residente. Il benessere
è un dono di Dio, ma non deve diventare il motivo di una
scelta religiosa. Abramo non se ne appropria in modo
egoistico, ma dimostra il suo disinteresse nella separazio-
ne da Lot, nel pagamento della decima a Melchisedek e nel
rifiutare qualsiasi vantaggio dalla vittoria sui re nemici. Il
rapporto con Dio all’interno di un’esperienza comunitaria
è un fattore di progresso anche materiale. Per i giudei ri-
tornati in Palestina era importante realizzare migliori
condizioni di vita, ma non doveva essere questo lo scopo
primario a cui tendere.

2. UNA FEDE ANCORA VACILLANTE


(Gn 15,1–17,27)

I tre capitoli precedenti, dedicati alla presentazione


della figura di Abramo hanno ritardato l’emergere del ve-
38
ro problema che tocca da vicino la fede del patriarca: la
mancanza di un figlio. Ora il narratore affronta diretta-
mente questo problema in un brano in cui si mescolano
diverse tradizioni: anzitutto si mette in luce la fede in for-
za della quale Abramo viene dichiarato giusto (15,1-6), poi
si descrive l’alleanza che Dio conclude con lui (15,7-21);
ma subito dopo si racconta un passo falso di Abramo che,
per avere un figlio, fa ricorso a una maternità surrogata
(16,1-16). Viene poi riportato un racconto che ha nuova-
mente come tema l'alleanza tra Dio e Abramo: in questo
contesto viene data come segno la circoncisione e viene
rinnovata la promessa di un figlio (17,1-27).

a. Fede e giustizia (Gn 15,1-6)


Nonostante la generosità con cui ha aderito alla chia-
mata di Dio e le benedizioni di cui ha appena visto la rea-
lizzazione, Abramo sta ancora passando un momento di
dubbio circa la nascita del figlio che Dio gli ha promesso.
YHWH allora gli appare e gli dice: «Non temere, Abram. Io
sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande». È
chiaro che si tratta dell’erede che Abramo aspetta invano.
Abramo risponde sconsolato: «Signore Dio, che cosa mi
darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è
Eliezer di Damasco». Poi soggiunge: «Ecco, a me non hai
dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». Al
colmo della prova, Abramo è ormai rassegnato ad adottare
come erede, secondo un uso attestato a Nuzi, il suo mag-
giordomo.

Ma Dio non è dello stesso parere. Perciò soggiunge:


«Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo
erede». Poi lo conduce fuori e gli dice: «Guarda in cielo e
conta le stelle, se riesci a contarle; così sarà la tua discen-
denza». L’erede sarà un figlio generato da Abramo e da lui
39
nascerà una discendenza numerosa come le stelle del cie-
lo. Per tutta risposta «Abram credette al Signore, che glielo
accreditò come giustizia». Il verbo «credere» deriva dalla
radice <aman che significa «diventare saldo», «fidarsi» (cfr.
Is 7,9b; 28,16; 30,15; Es 15,31). Abramo pone tutta la sua
fiducia nella promessa divina; Dio dal canto suo considera
la sua fedeltà come «giustizia»: questo termine indica
l’atteggiamento di chi mantiene e sviluppa con coerenza il
rapporto che lo lega a Dio, obbedendo alla sua volontà
(cfr. Dt 6,25; Ez 18,5-9). Fidandosi di Dio, Abramo ha di-
mostrato di essere giusto, e come tale è stato riconosciuto
da Dio stesso (cfr. Sal 106,31). È questo un programma di
vita, a cui gli esuli tornati dalla Mesopotamia dovranno
strettamente attenersi.

b. L’alleanza tra Dio e Abramo (Gn 15,7-21)


Nel brano successivo il narratore riporta un’altra tra-
dizione nella quale si illustra in un modo nuovo il rapporto
che si è instaurato tra Dio e Abramo; questa volta però
l’accento è posto sulla promessa riguardante la terra. Il
Signore appare ad Abramo e gli dice: «Io sono YHWH, che ti
ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso que-
sta terra»: questa proclamazione ricalca da vicino quella
con cui inizia il decalogo (cfr. Es 20,2). Abramo risponde
chiedendo un segno che gli garantisca la realizzazione di
questa promessa. Allora YHWH gli dice: «Prendimi una gio-
venca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre an-
ni, una tortora e un colombo». Abramo va, prende questi
animali, li divide in due e colloca ogni metà di fronte
all’altra; non divide però gli uccelli. Gli uccelli rapaci,
simbolo forse di sventura, calano su quelle carcasse, ma
Abramo li scaccia. Mentre il sole stava per tramontare,
Abramo cade in un profondo torpore (tardemah, cfr. Gn

40
2,21) accompagnato da terrore, segno dello smarrimento
provocato dalla presenza di Dio (vv. 1-12).
A questo punto il narratore interrompe il resoconto
della tradizione che sta riportando e introduce un brano in
cui YHWH spiega un dettaglio non ancora menzionato:

Sappi che i tuoi discendenti saranno forestieri in una terra


non loro; saranno fatti schiavi e saranno oppressi per quat-
trocento anni. Ma la nazione che essi avranno servito, la giu-
dicherò io: dopo, essi usciranno con grandi ricchezze. Quan-
to a te, andrai in pace presso i tuoi padri; sarai sepolto dopo
una vecchiaia felice. Alla quarta generazione torneranno qui,
perché l’iniquità degli amorrei non ha ancora raggiunto il
colmo (vv. 13-16).

Tra la promessa e la sua attuazione vi sarà dunque un


lungo periodo di schiavitù. Originariamente i racconti ri-
guardanti Abramo prevedevano forse un’immediata at-
tuazione delle promesse; quando poi sono stati fusi con le
tradizioni dell’esodo, è stato necessario spiegare il sog-
giorno in Egitto come un ritardo voluto da Dio, il quale
appare così come il signore della storia.
Per far entrare gli israeliti nella terra promessa, Dio
dovrà allontanare da essa la popolazione che già vi risiede,
designata in modo generico con il termine di «amorrei».
Ciò è ritenuto pacifico, perché Dio è il padrone di tutta la
terra. Ma bisogna dimostrare che si tratta di una decisione
giusta: l’autore lo fa, in un modo certamente discutibile,
affermando che Dio vuole punire gli amorrei, come farà
tra breve con gli abitanti di Sodoma (Gn 19); d’altra parte
però la loro malvagità non è ancora giunta al colmo: que-
sto giustifica il ritardo nel conferimento della loro terra ai
discendenti di Abramo.
Quando il sole è tramontato e si è fatto buio fitto, un
braciere fumante e una fiaccola ardente passano in mezzo
41
agli animali divisi. In quel giorno YHWH conclude con
Abramo un’alleanza dicendo: «Alla tua discendenza io do
questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume
Eufrate; la terra dove abitano i keniti, i kenizziti, i kadmo-
niti, gli ittiti, i perizziti, i refaim, gli amorrei, i cananei, i
gergesei e i gebusei» (vv. 17-21).
Quello che viene qui descritto è un arcaico rito di al-
leanza (cfr. Ger 34,18), nel quale ciascuno dei due con-
traenti passa in mezzo alle vittime squartate, scongiuran-
do gli dèi di riservargli, in caso di infedeltà agli impegni
presi, la sorte toccata a esse. La fiaccola ardente che passa
tra le vittime spezzate rappresenta YHWH stesso che, in
questo modo, «conclude» (da karat, tagliare) un’alleanza
con Abramo, in base alla quale si impegna ad attuare la
promessa di dare la terra di Canaan alla sua discendenza:
da questo rito deriva forse l’espressione ebraica «tagliare
l’alleanza» con cui si indica la conclusione di un patto.
Il fatto che Dio solo passi fra le parti degli animali in-
dica il carattere unilaterale e gratuito dell’alleanza. Per
Abramo questo rito è un segno che conferma in modo in-
discutibile l’attuazione di quanto Dio gli aveva promesso.
Solo ora appare un elenco di dieci popoli che abitano la
terra di Canaan. L’estensione della terra di Israele come è
indicata in questo brano, cioè dal torrente el Arish (tra Ga-
za e il delta del Nilo) fino all'Eufrate, si situa nella Bibbia
solo al tempo del re Salomone (cfr. 1Re 5,1). Mentre nel
brano precedente era stato Abramo a rapportarsi a Dio
mediante la sua fede, ora è Dio stesso che si rivolge a lui
garantendogli la sua amicizia in modo unilaterale e quindi
irrevocabile.

c. Una maternità surrogata (Gn 16,1-16)


Nonostante la garanzia delle promesse divine, il pro-
blema dell’erede non è ancora risolto. Dal racconto prece-
42
dente è risultato chiaro che egli non sarà un estraneo ma
un figlio naturale di Abramo. Ma come potrà avvenire se la
moglie è sterile? È Sara stessa che suggerisce ad Abramo
una scappatoia: «Ecco, il Signore mi ha impedito di aver
prole; unisciti alla mia schiava: forse da lei potrò avere fi-
gli». Abramo ascolta l’invito di Sara e così, dieci anni dopo
l’arrivo nella terra di Canaan, Abramo si unisce alla schia-
va di Sara, di nome Agar, che resta incinta. Questa iniziati-
va si ispira a una prassi legale, attestata anch’essa a Nuzi,
che permette a un uomo di aver rapporti con una schiava
della moglie, alla quale appartengono di diritto i figli da lei
generati. Il bambino così concepito sarà figlio di Abramo
ma non di Sara, se non in forza di un dispositivo legale.
Dio non ostacola il piano dei due coniugi, ma gli avve-
nimenti successivi mettono in luce lo sbaglio commesso.
Agar, appena si accorge di essere incinta, intende esercita-
re in prima persona il ruolo di sposa e di madre. Sara, of-
fesa nella sua dignità di moglie, dice ad Abramo: «L’offesa
a me fatta ricada su di te! Io ti ho messo in grembo la mia
schiava, ma da quando si è accorta d’essere incinta, io non
conto più niente per lei. Il Signore sia giudice tra me e te!».
Tocca ad Abramo intervenire: egli lo fa dicendo a Sara:
«Ecco, la tua schiava è in mano tua: trattala come ti piace».
Sara allora la maltratta, tanto che ella fugge (vv. 1-6). Così
appare che il progetto degli anziani coniugi ha poche pro-
babilità di riuscita.
A questo punto il narratore concentra la sua attenzio-
ne sulla vicenda della schiava fuggitiva. Presso una sorgen-
te d’acqua, le va incontro il messaggero di YHWH e le dice:
«Agar, schiava di Sarai, da dove vieni e dove vai?». Ella ri-
spose: «Fuggo dalla mia padrona Sarai». Il messaggero di
YHWH le dice: «Ritorna dalla tua padrona e restale sotto-
messa». E soggiunge: «Moltiplicherò la tua discendenza e
non si potrà contarla, tanto sarà numerosa». Poi formula
43
la sua promessa in questi termini: «Ecco, sei incinta:
partorirai un figlio e lo chiamerai Ismaele, perché YHWH ha
udito il tuo lamento. Egli sarà come un asino selvatico; la
sua mano sarà contro tutti e la mano di tutti contro di lui,
e abiterà di fronte a tutti i suoi fratelli» (vv. 7-12). L’invio
di un messaggero è l’immagine a cui spesso la Bibbia ri-
corre per indicare l’intervento di Dio nelle vicende umane.
Nel nome del figlio è significata la benevolenza divina
(Ismaele = Dio ascolta). Anche a lui Dio riserva, per la sua
benevolenza verso Abramo, un grande futuro. La promes-
sa fatta ad Agar, se da una parte manifesta la misericordia
di Dio verso suo figlio, implicitamente le fa capire che egli
non sarà l’erede legittimo di Abramo.
Il brano termina spiegando come la visione di Agar
abbia dato origine al nome del luogo in cui è avvenuta.
Ella lo chiama Lacai-Roi («al vivente che mi vede»), dicen-
do: «Non ho forse visto qui colui che mi vede?». A questo
nome viene così attribuito un duplice significato: da una
parte è Agar che vede, incontra Dio, dall’altra è Dio che
vede, cioè protegge Agar. Questo pozzo si trova tra Kades
e Bered: esso sarà citato altre due volte come sede di Isac-
co (cfr. Gn 24,62; 25,11). È possibile che sia stato proprio
il nome di questo pozzo a dare origine al racconto (eziolo-
gia). Poi Agar ritorna da Sara e partorisce un figlio che
Abramo chiama Ismaele. Egli sarà considerato come il
progenitore delle tribù arabe del deserto. Abramo aveva
allora ottantasei anni (vv. 13-16).
In questo racconto è Sara che prende l’iniziativa pro-
ponendo al marito di avere rapporti con la sua schiava:
paradossalmente è questo il modo da lei scelto per rimuo-
vere la sua umiliazione e per riaffermare la sua dignità di
donna, e così assumere il ruolo di moglie feconda, anche
se per interposta persona. Abramo ha accettato l’iniziativa
della moglie, ma in realtà l’ha esclusa una seconda volta: le
44
ha anteposto una schiava e non ha tenuto conto delle con-
seguenze che ne derivavano. Egli ha avuto effettivamente
un figlio, ma non nel modo giusto, conforme alla volontà
divina: colui che è nato, anche se fisicamente e legalmente
è suo figlio, non è ancora il figlio della promessa, il quale
quindi dovrà nascere non solo da lui ma anche da Sara.
Una «maternità surrogata» non è nei piani di Dio. In que-
sto racconto prende rilievo la figura della schiava che non
si rassegna a essere utilizzata come un semplice strumen-
to, ma assume fino in fondo la sua maternità e viene pre-
miata con una numerosa discendenza.
Pur essendo stato riconosciuto come giusto e avendo
ottenuto l’alleanza con Dio, Abramo ha voluto fare di testa
sua e così ha commesso un grave errore. Egli infatti ha
pensato di poter escludere la moglie Sara dal progetto di
Dio, ritenendo che nel matrimonio sia importante solo la
procreazione e non la partecipazione di ambedue i coniugi
a un progetto comune. E inoltre ha pensato che il figlio
della promessa potesse nascere da una donna straniera,
cioè da un rapporto che nel postesilio era severamente
vietato agli israeliti (cfr. Dt 7,1-4; Esd 9,12). L’errore del
patriarca non è messo in rilievo dal narratore se non me-
diante gli effetti negativi che provoca nella sua famiglia; le
parole rivolte da Dio ad Agar nel deserto sono una con-
ferma che Dio non abbandona il patriarca. Sebbene la sua
fede sia ancora vacillante, egli resta però l’uomo scelto da
Dio per un progetto grandioso che si realizzerà non per i
meriti dell’uomo ma per l’intervento straordinario di Dio.

d. Alleanza e circoncisione (Gn 17,1-27)


Questo brano contiene un altro racconto dell’alleanza
tra Dio e Abramo, parallelo a quello riportato preceden-
temente (cfr. 15,7-12.17-21); il testo potrebbe essere stato
originariamente il racconto della vocazione di Abramo,
45
così come era narrato dalla tradizione sacerdotale. È solo
nella redazione attuale che assume il significato di una ri-
presa del rapporto con Dio che Abramo ha messo in peri-
colo con il suo zelo poco illuminato.
Abramo ha novantanove anni quando YHWH si manife-
sta a lui e gli dice: «Io sono Dio l’Onnipotente (<El ’addaj,
Dio della montagna o della steppa): cammina davanti a me
e sii integro» (v. 1). Il nome con cui Dio si rivela è forse
quello dato a <El nel santuario cananeo di Mamre: questo
nome divino è considerato dalla tradizione sacerdotale
come caratteristico del periodo patriarcale (cfr. Es 6,3). Al
patriarca Dio chiede di «camminare davanti a lui», sotto il
suo sguardo, cioè in conformità al suo volere (cfr. Gn 5,24,
dove di Enoc si dice che aveva camminato con Dio), e di
essere perfetto, ossia totalmente fedele a lui.
Dal canto suo, Dio «stabilisce» la «sua» alleanza con
Abramo e gli promette di renderlo numeroso, cioè di dar-
gli una grande discendenza (v. 2). Secondo questa tradi-
zione, l’alleanza è una realtà oggettiva e preesistente, data
da Dio per sua iniziativa, che implica un certo comporta-
mento ma non esige l’adempimento di alcuna condizione
previa. Essa contiene la promessa di una discendenza nu-
merosa. Abramo non risponde ma subito si prostra con il
viso a terra (v. 3). È tipico del patriarca esprimere il suo
assenso interiore non a parole ma con gesti.
Dio allora continua: «Quanto a me, ecco, la mia allean-
za è con te: diventerai padre di una moltitudine di nazioni.
Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abraham
(Abramo), perché ti renderò padre di una moltitudine di
nazioni» (vv. 4-5). Il nuovo nome dato al patriarca viene
spiegato, mediante una etimologia popolare, come «padre
(<ab) di una moltitudine (hamôn) di popoli». In realtà si
tratta di una variante dello stesso nome, che significa «mio
padre (Dio) è grande»: ma in essa viene colto un nuovo
46
significato più confacente alla dimensione universalistica
della vocazione di Abramo: egli dovrà essere non solo una
benedizione, come gli era stato promesso all’inizio, ma di-
venterà il padre di molti popoli. La tradizione lo dimostre-
rà facendo nascere da Abramo non solo gli ismaeliti, ma
anche altri gruppi etnici che in qualche modo avranno a
che fare con gli israeliti (cfr. Gn 25,1-18). Accanto a una
discendenza numerosa viene confermata ad Abramo la
promessa riguardante il possesso della terra di Canaan.
E continua: «Ti renderò molto, molto fecondo; ti farò
diventare nazioni e da te usciranno dei re. Stabilirò la mia
alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te, di ge-
nerazione in generazione, come alleanza perenne, per es-
sere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te» (vv. 6-
7). Questa volta si dichiara che l’alleanza di Dio con Abra-
mo è perenne poiché si estenderà a tutti i suoi discenden-
ti: secondo questa tradizione, è proprio il ricordo dell’al-
leanza con Abramo che spingerà YHWH a intervenire in fa-
vore degli israeliti schiavi in Egitto (cfr. Es 2,24; 6,5).
D’altra parte nelle professioni di fede sono i patriarchi che
occupano il primo posto, e spesso l’unico, come coloro a
cui si rifà l’elezione di Israele (cfr. Dt 7,8; 26,5-10; Sal
105,8-10).
L’alleanza con Abramo, proprio perché ha carattere di
perennità, si colloca all’interno di quella, ugualmente pe-
renne, stabilita con Noè (cfr. Gn 9,9.16), che non è stata
abrogata. Il rapporto di Dio con Israele si gioca quindi sul-
lo sfondo di un’iniziativa di salvezza che riguarda tutta
l’umanità. In forza dell’alleanza la terra dove Abramo è
forestiero, cioè tutta la terra di Canaan, sarà data in pos-
sesso per sempre a lui e alla sua discendenza dopo di lui;
egli sarà il loro Dio (v. 8): è in essa che il popolo dovrà
adorarlo. Non si tratta quindi di una vera proprietà, ma
del semplice uso, che verrà tolto se il popolo non sarà fe-
47
dele ai suoi impegni, come in realtà è avvenuto in occasio-
ne della conquista babilonese.

Anche l’alleanza con Abramo, come quella stipulata


con Noè, è caratterizzata da un segno, quello della circon-
cisione. Questa dovrà essere applicata, otto giorni dopo la
nascita, a tutti i maschi del suo clan, non solo ai suoi di-
scendenti ma anche agli schiavi; chi ne sarà privo dovrà
essere escluso dal popolo (vv. 9-14). La circoncisione è un
antico rito, originario dell’Africa, dove si pratica ancora
oggi al momento della pubertà, al fine di consacrare alla
divinità la funzione generativa. Il significato originario di
questo rito è ancora ricordato nella Bibbia (cfr. Es 4,24-
26). Non si sa quando gli israeliti lo abbiano adottato, an-
ticipandolo all’ottavo giorno dopo la nascita e facendo di
esso il segno dell’appartenenza al popolo dell’alleanza.
Certamente questo rito ha assunto rilevanza durante l'esi-
lio come marchio di identità. È strano che, nonostante ciò,
venga circonciso anche Ismaele, il quale non erediterà le
promesse di Abramo.
Infine, anche il nome di Sarai viene cambiato in Sara.
In realtà anche qui non si tratta che di una variante dello
stesso nome che significa «principessa». A esso è attribui-
to il significato di «progenitrice di molti popoli». È da lei
che Abramo riceverà il figlio della promessa (vv. 15-16).
Finalmente viene detto espressamente che la nascita del
figlio di Abramo deve avvenire mediante sua moglie Sara.

A questa promessa, Abramo risponde con un gesto


contraddittorio e blasfemo: si inchina davanti a Dio in se-
gno di adorazione e al tempo stesso ride, pensando
all’assurdità di avere un figlio in età così tarda. Egli poi
chiede a Dio che almeno Ismaele possa vivere davanti a
lui, cioè possa ereditare le promesse. Un’altra volta dun-
48
que la fede di Abramo vacilla. Ma Dio non dà importanza
alle sue parole e, pur assicurando ampie benedizioni an-
che a Ismaele, afferma che entro un anno Sara avrà un fi-
glio, il quale dovrà essere chiamato Isacco (vv. 17-22).
Questo nome, il cui significato originario è «Dio ride» (yz-
úak-el) in segno di benevolenza, è spiegato in rapporto al
riso di Abramo: il figlio tanto atteso porterà per sempre il
ricordo dell’incredulità del padre. Il narratore conclude
descrivendo l’attuazione degli ordini divini concernenti la
circoncisione: quando Abramo si fa circoncidere ha no-
vantanove anni, mentre Ismaele, suo figlio, ne ha tredici.
In quello stesso giorno sono circoncisi tutti gli uomini del-
la sua casa (vv. 23-27).

L’alleanza è dunque presentata come effetto di un in-


tervento totalmente gratuito di Dio, che però esige da
Abramo un comportamento adeguato al dono che gli è sta-
to fatto. Essa comporta per lui il privilegio di essere padre
di molti popoli. Questa alleanza è strettamente collegata
con il segno della circoncisione. Secondo questa tradizione
è questa l’alleanza che fa di Israele il popolo di Dio (cfr. Es
2,24): gli eventi del Sinai sono solo l’occasione in cui Dio
rivela al suo popolo le leggi riguardanti il culto. Infine si
mette chiaramente in luce, per la prima volta, che il figlio
della promessa nascerà non solo da Abramo ma anche da
Sara: ciò richiede un supplemento di fede da parte di am-
bedue, data l’età avanzata non solo del futuro padre ma
anche di sua moglie, la quale per di più è anche sterile.

Temi e spunti di riflessione


In questa sezione si affrontano alcuni temi molto im-
portanti per la religione di Israele: fede e alleanza, la cir-
concisione e il ruolo della donna nella realizzazione del
progetto di Dio.
49
1) Fede e alleanza
Il rapporto che Dio stabilisce con Abramo viene defini-
to due volte, alla luce delle concezioni religiose dei giudei
del postesilio, come un’alleanza. La prima volta l’alleanza
viene espressa mediante un antico rito di passaggio, la se-
conda mediante un pronunciamento attribuito diretta-
mente a Dio. In ambedue i casi si tratta di un intervento
totalmente libero e gratuito da parte di Dio. Il narratore fa
precedere il primo racconto da un testo nel quale Abramo
manifesta la sua fede nelle promesse di Dio. Anche nel se-
condo racconto non vi sono condizioni, ma solo l’invito a
camminare davanti a Dio ed essere perfetto. Esso viene
riportato dopo l’errore commesso da Abramo unendosi ad
Agar: il narratore vuole così garantire la continuità del
rapporto con Dio, nonostante l’errore commesso dal pa-
triarca.
Il carattere gratuito e incondizionato all’alleanza con
Abramo ha fatto sì che i giudei ritornati dall’esilio prefe-
rissero rifarsi ad essa, piuttosto che a quella del Sinai.
Questa infatti non dava le stesse garanzie di perennità in
quanto aveva come condizione l’osservanza della legge,
con dure sanzioni nei confronti dei trasgressori: e pur-
troppo si era già verificato il caso in cui la sua trasgressio-
ne aveva provocato la distruzione della nazione.

La fede di cui si parla in Gn 15,6 non consiste nell’ade-


sione intellettuale a particolari verità astratte, ma nella
fiducia in Dio che ha la capacità di realizzare le sue pro-
messe nonostante tutti gli ostacoli che vi si oppongono. La
difficoltà più grossa per Abramo è quella di dover credere
che sia possibile per lui diventare il progenitore di un
grande popolo, nonostante gli sia preclusa la possibilità di
avere un erede. Ma Dio gli garantisce che ciò avverrà.
Abramo crede alla promessa di Dio, dimostrando così di
50
essere un uomo giusto, cioè fedele senza tentennamenti, e
come tale è riconosciuto da Dio. Fede e giustizia sono
strettamente collegate. La perfezione invece appare come
una meta a cui egli deve continuamente tendere. L’alle-
anza è dunque un’immagine con cui Israele ha messo in
luce un ruolo specifico che è assegnato a tutto un popolo
in funzione di una salvezza universale.

2) La circoncisione
In ambedue i racconti che la riguardano, l’alleanza è
strettamente connessa con un rito. La prima volta si tratta
di un rito di passaggio con il quale viene confermato
l’impegno di Dio nei confronti di Abramo. È Dio che si im-
pegna, l’uomo non deve far altro che lasciarsi coinvolgere.
La seconda volta l’alleanza comporta un segno che non
consiste semplicemente in un rito transitorio, ma in un
marchio impresso nella carne. La circoncisione è impor-
tante perché contraddistingue la persona e ne indica
l’identità. Essa è incancellabile, e di conseguenza non
permette che l’identità giudaica sia perduta o venga na-
scosta quando può essere causa di discriminazioni.
Questo rito ha avuto una forte sottolineatura al tempo
dell’esilio, quando è stato considerato, insieme con l’osser-
vanza del sabato e delle norme alimentari, come il segno
distintivo del popolo dell’alleanza. La sua pratica è diven-
tata sorgente di grandi sofferenze nei periodi di persecu-
zione, come è avvenuto al tempo dei Maccabei.

3) Il ruolo femminile
Abramo pensa di poter dare origine da solo a un gran-
de popolo e ritiene superflua la partecipazione della mo-
glie. Già all’inizio era stato disposto a sacrificare Sara alle
voglie del faraone. Poi pensa di poter avere una discen-

51
denza tramite uno schiavo senza la partecipazione della
moglie. Essendosi chiusa questa strada, egli pensa che an-
che da una schiava gli sia possibile avere il figlio della
promessa. Per lui l’unica preoccupazione è quella di avere
un erede. Egli sbaglia perché cerca di attuare il progetto di
Dio con mezzi umani. Pensa che sia determinante la sua
iniziativa e si serve persino della debolezza altrui per rag-
giungere i suoi scopi. Come avveniva normalmente in una
società patriarcale, Sara è succube del marito e per farsi
valere non teme neppure di rinunziare provvisoriamente
al suo diritto di moglie. Abramo dal canto suo si dimostra
incapace di comprendere il dramma delle due donne.
La vicenda di Abramo e Agar mostra come, nonostante
tutto, fino all’ultimo il patriarca sia impreparato ad accet-
tare il ruolo di Sara nell’adempimento delle promesse. Ma
il fallimento della sua iniziativa dimostra che i modi e i
tempi dell’uomo non sempre sono quelli di Dio. Sarà pro-
prio lei, Sara, sebbene novantenne, ad avere un figlio. La
promessa riguarda dunque fin dall’inizio non solo Abramo
ma anche Sara: una famiglia infatti sta in piedi soltanto se
marito e moglie aderiscono insieme a un progetto più
grande, che ha come scopo il bene non solo loro e della
loro famiglia ma di tutta l’umanità. In una cultura patriar-
cale come quella di Abramo, ma non solo in essa, il ricono-
scimento che il ruolo della donna non è solo la procrea-
zione ma un impegno nella società e nel mondo è vera-
mente rivoluzionario.

3. IL FIGLIO DELLA PROMESSA (Gn 18,1–20,18)

Dopo l’affermazione esplicita secondo cui il figlio tanto


atteso sarebbe nato da Sara, si apre una sezione all’inizio
della quale questa promessa viene rinnovata (18,1-15).
52
Viene poi riportata una leggenda che ha per oggetto la di-
struzione di Sodoma (18,16–19,38), a cui fa seguito un
doppione riguardante la sposa abbandonata (20,1-18).

a. La promessa rinnovata (Gn 18,1-15)


Il primo racconto di questo ciclo ha come tema
un’ulteriore apparizione di Dio che per la seconda volta
(cfr. Gn 17,19) preannunzia l’imminente nascita del figlio
promesso. Dio si manifesta ad Abramo presso le Querce di
Mamre. Mentre siede all’ingresso della tenda nell’ora più
calda del giorno, egli vede tre uomini in piedi accanto a lui.
Egli corre loro incontro, si prostra fino a terra e dice: «Mio
signore (<adonî), se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non
passare oltre senza fermarti dal tuo servo». Si noti che
Abramo si rivolge ai viaggiatori come se fossero un’unica
persona; in seguito però i verbi sono al plurale. Quelli ac-
cettano e Abramo fa lavare loro i piedi, li fa sedere sotto
l’albero e ordina a Sara di cuocere delle focacce. Poi corre
lui stesso all’armento, sceglie un vitello ancora tenero e lo
dà al servo perché lo prepari. Con la carne del vitello
prende anche della panna di latte fresco e porge tutto
quanto ai visitatori. Mentre essi mangiano egli sta in piedi
accanto a loro sotto l’albero (vv. 1-8).

Infine essi chiedono ad Abramo: «Dov’è Sara, tua mo-


glie?». Egli risponde: «È là nella tenda». A questo punto
uno solo interviene dicendo: «Tornerò da te fra un anno a
questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio». Intan-
to Sara stava ad ascoltare. Il narratore osserva che Abra-
mo e Sara erano vecchi, avanti negli anni; erano cessate a
Sara le mestruazioni. Allora Sara ride dentro di sé e dice:
«Avvizzita come sono, dovrei provare piacere, mentre il
mio signore è vecchio!». Questa volta è YHWH che interpel-
la Abramo: «Perché Sara ha riso dicendo: “Potrò davvero
53
partorire, mentre sono vecchia”? C’è forse qualche cosa
d’impossibile per YHWH? Al tempo fissato tornerò da te tra
un anno e Sara avrà un figlio» (vv. 9-15). Il tema
dell’onnipotenza di Dio è uno dei motivi ispiratori dei rac-
conti patriarcali: proprio le difficoltà insormontabili che si
frappongono alla realizzazione del progetto assegnato ad
Abramo sono la conferma del fatto che l’iniziativa è pro-
prio e soltanto di Dio. Il riso di Sara è una nuova allusione
al nome del nascituro.

Originariamente questo brano era forse una leggenda


sull’ospitalità, di cui si trovano paralleli nella mitologia:
tre divinità, Zeus, Poseidone ed Ermete, si recano in Boe-
zia dove sono accolti con grande senso di ospitalità da
Ireo, al quale annunziano la nascita di un figlio. Un raccon-
to analogo si trova nella Bibbia a proposito del profeta Eli-
seo che, ospitato a Sunem da una donna, come segno di
riconoscenza le annunzia la nascita di un figlio (cfr. 2 Re
8,16). Ad Abramo appaiono tre viandanti che risultano es-
sere YHWH e due messaggeri (cfr. 19,1); anche la sua ospi-
talità viene compensata con l'annunzio dell’imminente na-
scita del figlio.

b. La distruzione di Sodoma (Gn 18,16–19,38)


Il problema riguardante la nascita del figlio è ormai
avviata alla soluzione. In attesa che l’evento si verifichi, il
narratore riporta alcune leggende riguardanti la sorte ri-
servata alla città di Sodoma, dove risiedeva Lot, nipote di
Abramo. Dio annunzia la distruzione della città e Abramo
intercede per essa (18,16-33); i due messaggeri vanno a
prendere visione della situazione (19,1-14). Segue il rac-
conto della distruzione della città (19,15-29) a cui fa se-
guito l’incesto delle figlie di Lot (19,30-38).

54
1) Intercessione di Abramo (18,16-33)
Gli uomini che erano andati da Abramo si alzano e
vanno a contemplare Sodoma dall’alto e Abramo li accom-
pagna per congedarli. YHWH allora gli dice:

Devo io tenere nascosto ad Abramo quello che sto per fare,


mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e po-
tente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della ter-
ra? Infatti io l’ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la
sua famiglia dopo di lui a osservare la via del Signore e ad
agire con giustizia e diritto, perché il Signore compia per
Abramo quanto gli ha promesso (vv. 17-19).

Abramo appare qui espressamente come modello e


guida per i suoi discendenti, ai quali deve insegnare la giu-
stizia e il diritto. È questo lo scopo di questo testo che, in-
sieme al motivo dell’elezione gratuita di Israele, ha dato
origine ai racconti patriarcali. È proprio mediante questi
racconti, trasmessi oralmente per un lungo periodo, che
Abramo continua a educare i suoi figli.
Poi YHWH soggiunge: «Il grido di Sodoma e Gomorra è
troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scen-
dere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è
giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!» (vv. 20-21).
Allora due degli uomini vanno verso Sodoma; Gomorra
non viene più menzionata se non al termine del racconto.
Abramo resta ancora alla presenza del terzo uomo, che
ormai appare espressamente come YHWH in persona, e gli
dice:

Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cin-


quanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non
perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che
vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con
l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio! Forse il
55
giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia? (vv. 22-
25).

In forza del suo ruolo di difensore della giustizia, che


gli è stato appena conferito, Abramo si permette di esigere
da Dio un comportamento giusto, ritenendo che non sia
conforme a esso trattare il giusto come l’empio. Ciò com-
porterebbe un’ingiustizia che il giudice di tutta la terra
non può permettersi. Per il principio di solidarietà, come il
peccato di alcuni può determinare il castigo di molti, così
la giustizia di alcuni può allontanare il castigo meritato dai
peccatori. Inizia allora una specie di contrattazione al ri-
basso tra Abramo e Dio il quale, alla fine, acconsente a non
distruggere Sodoma anche se si troveranno in essa soltan-
to dieci giusti (vv. 26-32). Poi YHWH se ne va e Abramo ri-
torna alla sua abitazione (v. 33).
Questo brano non deriva da una tradizione precedente
ma esprime in forma narrativa alcune concezioni religiose
del narratore. Il tema dell'intercessione è frequentemente
attestato nella Bibbia. Dopo l'adorazione del vitello d'oro,
Mosè intercede per stornare l'ira di YHWH dal popolo (Es
32,11-14.30-32; Dt 9,12-19) e da suo fratello Aronne (Dt
9,20); egli prega per il popolo anche in altri casi di ribel-
lione (Nm 11,1-2; 21,4-9; Dt 9,22-26), e intercede per
Aronne e Maria che, per invidia, lo hanno criticato (Nm
12,1-16). Anche i profeti intercedono per il popolo (Am
7,2-3.5-6; Is 53,12). Il ruolo di intercessione dei sacerdoti
è presupposto in Eb 7,25.
Dell'intercessione di Abramo in quanto profeta si par-
la anche in Gn 20,7. È sorprendente il fatto che nei due ca-
si la sua intercessione è in favore rispettivamente di un re
straniero e di un popolo non solo straniero ma anche cor-
rotto: ancora una volta viene messo in luce il ruolo di
Israele nei confronti delle altre nazioni (cfr. Es 19,6). In
56
primo luogo però questo dialogo ha lo scopo di illustrare il
modo di agire di Dio nella storia: egli non punisce indi-
scriminatamente giusti e peccatori, anzi non può interve-
nire se in un gruppo umano c’è anche solo qualche perso-
na giusta. Per i giudei al tempo dell’esilio questo racconto
doveva fornire una chiave di lettura per comprendere il
motivo della catastrofe che aveva colpito i due regni israe-
litici (cfr. 2Re 17,7-23) e dare loro la speranza di un nuovo
inizio.

2) I due messaggeri a Sodoma (19,1-14)


Mentre YHWH si intrattiene con Abramo, i due messag-
geri giungono a Sodoma. Lì incontrano Lot seduto alla por-
ta della città. Stranamente egli non è più un pastore di
greggi ma risiede nella città con moglie e figlie: chiara-
mente inizia qui una tradizione diversa dalle altre che lo
riguardano. Egli invita i due viandanti con insistenza a
pernottare presso di lui. Essi accettano e Lot si dà da fare
per preparare il cibo per loro (vv. 1-3).
Dopo che essi hanno mangiato e si sono coricati, si af-
follano attorno alla casa tutti gli uomini della città, giovani
e vecchi, e pretendono che Lot faccia uscire i suoi ospiti
perché possano abusare di loro. Lot esce fuori e cerca di
dissuaderli, offrendo loro in cambio le sue due figlie. Essi
però gli rispondono: «Tirati via! Sei venuto qui come stra-
niero e vuoi fare il giudice!» (vv. 4-9a). Lot è l’unico giusto,
ma è uno straniero, segno questo che la corruzione è ve-
ramente generale.
Gli uomini cercano di entrare ma i messaggeri tirano
dentro Lot, chiudono la porta e bloccano gli aggressori
rendendoli ciechi. Essi dicono allora a Lot di chiamare i
suoi generi, e di invitarli a uscire da quel luogo, perché
YHWH sta per distruggere la città. Costoro però, credendo
che egli voglia scherzare, non accettano (vv. 9b-14). Nella
57
città non c’è dunque proprio nessuno che sia giusto eccet-
to uno straniero che si è stabilito in quel luogo.
Questo racconto rispecchia forse una leggenda più an-
tica, utilizzata anche in altro modo in Gdc 19,11-28. In es-
so non viene condannata direttamente l'omosessualità ma
la mancanza di rispetto nei confronti della persona, so-
prattutto di chi, come il forestiero, chiede ospitalità (cfr.
Ez 16,49,50; Sap 19,13-14).

3) Distruzione di Sodoma (19,15-29)


Il narratore prosegue raccontando che al mattino i due
messaggeri fanno uscire Lot, la moglie e le due figlie, ordi-
nando loro di fuggire senza volgersi indietro. La presenza
di quattro persone esenti dal crimine dei sodomiti non è
sufficiente per fermare il castigo, ma i giusti non vengono
puniti con i malvagi: anche qui è percepibile l’allusione al
piccolo resto scampato alla distruzione di Gerusalemme,
dal quale nascerà il nuovo Israele. Lot indugia e ottiene di
potersi fermare in un villaggio di nome Soar. Poi la città è
distrutta: la moglie di Lot trasgredisce l’ordine di non
guardare indietro e viene trasformata in una statua di sale
(vv. 15-26). Di buon mattino Abramo va nel posto in cui
aveva parlato con YHWH, guarda dall’alto il luogo dove si
trovavano Sodoma e Gomorra e vede che da tutta la valle
in cui si trovavano sale un fumo come quello di una forna-
ce (vv. 27-29). Di fronte alla tragedia dei sodomiti la figura
di Abramo si staglia con inaudita solennità.

In questo brano è ripreso un vecchio racconto eziolo-


gico il cui scopo era quello di spiegare il motivo dell’affos-
samento di tutta la zona del mar Morto. Anche il particola-
re della moglie di Lot, trasformata in una statua di sale, è
un racconto eziologico che spiega l'origine di una forma-
zione salina presente nella zona.
58
4) L’incesto delle figlie di Lot (19,30-38)
Lot lascia poi Soar e va con le sue due figlie sulla mon-
tagna dove si rifugia in una caverna. Le due figlie, pensan-
do che il genere umano fosse ormai del tutto distrutto,
fanno ubriacare il padre e hanno rapporti con lui. Esse lo
fanno non per la ricerca del piacere ma per dare una di-
scendenza al padre. Ne nascono due figli il cui nome, me-
diante un’etimologia popolare, viene messo in rapporto
con la situazione in cui sono stati concepiti: il primo è
chiamato Moab, cioè «(uscito) dal padre», e il secondo
Ammon, «figlio del mio popolo» (vv. 30-38). Essi sono i
capostipiti di due popoli, i moabiti e gli ammoniti, confi-
nanti con Israele e spesso in lotta con esso.
In origine la leggenda aveva forse significato positivo
in quanto indicava la purezza etnica di queste popolazioni.
Nel contesto attuale getta invece un’ombra di vergogna
sulla loro origine in quanto l'incesto era severamente
proibito dalla legge israelitica (cfr. Lv 18,6; 20,17; Dt
27,22). Con questo racconto si afferma la parentela di
questi due popoli con Israele, e al tempo stesso si alza una
barriera di disprezzo nei loro confronti.
In questo complesso narrativo predomina una visione
negativa delle popolazioni cananee che abitavano nella
regione. In esse è diffusa la violenza, specialmente in cam-
po sessuale, e due popoli vicini a Israele hanno origine da
un incesto. Abramo però dimostra una grande larghezza di
idee intercedendo per un popolo straniero; Lot è invece
un uomo giusto che viene salvato con tutta la sua famiglia,
anche se poi fa una brutta fine.

c. La moglie abbandonata (Gn 20,1-18)


Come appendice della sezione viene riportata un’altra
versione dell’increscioso episodio del patriarca che ab-

59
bandona la moglie nelle mani di un principe locale, che
questa volta è Abimelec, re di Gerar (cfr. Gn 12,10-20).
Questo racconto è qui chiaramente fuori posto perché
spezza la trama della narrazione e riguarda una donna,
Sara, che ormai è molto vecchia. Il nuovo racconto però
presenta numerose novità rispetto al precedente: ciò
spiega come mai il narratore non abbia voluto tralasciarlo.

Abramo lascia Ebron, dove soggiornava presso le


Querce di Mamre (cfr. 18,1), e si dirige verso la regione del
Negheb. Prima si stabilisce tra Kades e Sur, poi soggiorna
come straniero a Gerar. Anche questa volta egli dice che
Sara è sua sorella. Allora Abimelec, re di Gerar, manda a
prenderla per introdurla nel suo harem. Ma Dio gli appare
in sogno e gli dice: «Ecco, stai per morire a causa della
donna che tu hai preso; lei appartiene a suo marito». Abi-
melec, che non si era ancora accostato a lei, risponde:
«Mio Signore, vuoi far morire una nazione, anche se giu-
sta? Non è stato forse lui a dirmi: “È mia sorella”? E anche
lei ha detto: “È mio fratello”. Con cuore retto e mani inno-
centi mi sono comportato in questo modo». Dio risponde
ad Abimelec:

So bene che hai agito così con cuore retto e ti ho anche im-
pedito di peccare contro di me: perciò non ho permesso che
tu la toccassi. Ora restituisci la donna di quest’uomo, perché
è un profeta: pregherà per te e tu vivrai. Ma se tu non la re-
stituisci, sappi che meriterai la morte con tutti i tuoi (vv. 6-
7).

Allora Abimelec chiama Abramo e gli dice: «Che cosa


ci hai fatto? E che colpa ho commesso contro di te, perché
tu abbia esposto me e il mio regno a un peccato tanto

60
grande? Tu hai fatto a mio riguardo azioni che non si fan-
no». Abramo risponde:

Io mi sono detto: certo non vi sarà timore di Dio in questo


luogo e mi uccideranno a causa di mia moglie. Inoltre ella è
veramente mia sorella, figlia di mio padre, ma non figlia di
mia madre, ed è divenuta mia moglie. Quando Dio mi ha fat-
to andare errando lungi dalla casa di mio padre, io le dissi:
«Questo è il favore che tu mi farai: in ogni luogo dove noi ar-
riveremo dirai di me: è mio fratello» (vv. 11-13).

Abimelec prende poi greggi e armenti, schiavi e schia-


ve, li dà ad Abramo e gli restituisce la moglie Sara. Inoltre
egli dice: «Ecco davanti a te il mio territorio: va’ ad abitare
dove ti piace!». E per Sara dà ad Abramo mille pezzi
d’argento come risarcimento per l’offesa da lei subita.
Abramo poi prega Dio il quale guarisce Abimelec, sua mo-
glie e le sue serve, sì che possano ancora aver figli. La ste-
rilità è dunque il male con cui il Signore aveva colpito tutte
le donne della casa di Abimelec a causa di quanto aveva
fatto a Sara, moglie di Abramo.
Rispetto alla versione precedente, questo racconto
denota una maggiore sensibilità di carattere etico: Abra-
mo non ha mentito a riguardo di Sara perché era vera-
mente sua sorella; Abimelec non viene punito ma solo
ammonito affinché non compia un’azione illecita. Contra-
riamente a quanto Abramo pensava, Abimelec, pur essen-
do un gentile, appare dotato di un profondo senso morale.
Il ruolo della coscienza personale viene sottolineato for-
temente. Abramo è presentato come un profeta a cui è af-
fidato il compito di intercedere per il popolo (vv. 7.17; cfr.
Gn 18,16-33). Infine è importante che Abimelec consenta
ad Abramo di abitare nel suo territorio perché ciò indica
già un certo insediamento nella terra che apparterrà ai
suoi discendenti.
61
Temi e spunti di riflessione
Questa sezione del ciclo di Abramo non ha una temati-
ca ben definita e contiene un materiale narrativo che ha
poco a che vedere con le vicende del patriarca. Tuttavia in
essa si affrontano temi che riguardano i suoi lontani di-
scendenti, nei confronti dei quali egli ha il compito di es-
sere non solo un modello ma anche una guida sicura nelle
situazioni difficili in cui verranno a trovarsi.

1) Abramo, Israele e le nazioni


In Gn 18-20 si affronta direttamente il tema del rap-
porto di Abramo e dei suoi discendenti con le popolazioni
con cui Israele avrà a che fare durante tutta la sua storia.
In primo piano vi è un contrasto molto forte tra quello che
è lo status religioso e morale del patriarca e quello delle
popolazioni della terra di Canaan e in genere della zona
intorno al Giordano. Subito all’inizio si descrive l’ospitalità
di Abramo nei confronti di sconosciuti, quindi estranei e
potenzialmente nemici.
Al comportamento di Abramo si oppone quello dei so-
domiti, i quali non solo vengono meno al dovere di ospita-
lità ma anzi vogliono abusare di coloro verso i quali
avrebbero dovuto esercitarla. Il loro comportamento ap-
pare biasimevole anzitutto perché ispirato da una violenza
cieca e immotivata. Per loro i due viandanti sono solo un
mezzo facilmente disponibile per soddisfare i loro istinti
più bassi. La sessualità per loro non è al servizio della vita
ma rappresenta semplicemente un ambito di piacere.
L’omosessualità appare quindi come un vizio esecrabile
non in se stessa, ma in quanto collegata con la violenza e
con il desiderio perverso.
Il fatto che tutti a Sodoma siano ugualmente corrotti
rappresenta un giudizio molto negativo non solo nei con-

62
fronti di quella popolazione ma di tutte quelle che viveva-
no in quell’area geografica. Non bisogna dimenticare che
in esse erano comuni i culti basati sulla sessualità, con la
pratica della prostituzione sacra, che era vista dagli israe-
liti come qualcosa di abominevole. Questo giudizio viene
però corretto dall’esempio di Abimelec il quale, contra-
riamente a quanto Abramo stesso pensava, ha un forte
senso morale che lo spinge a rispettare la donna d’altri e a
considerare l’adulterio come un peccato esecrabile. Egli
ricava il proprio orientamento morale dalla sua coscienza.
In ciò egli rappresenta un monito nei confronti di Abramo,
che non teme di cedere la propria moglie a un estraneo.
Anche i giudei dovranno saper capire che non tutti coloro
che non appartengono al loro popolo sono corrotti e vio-
lenti.
Infine bisogna sottolineare come la storia di Lot sfoci
nella nascita di due popoli, gli ammoniti e i moabiti. An-
ch'essi, nonostante i rapporti difficili che hanno avuto con
gli israeliti, sono loro parenti e come tali devono essere
considerati.

2) Misericordia e ira di Dio


In questa sezione si nota un forte senso della miseri-
cordia di Dio, pur in un contesto in cui avrà la prevalenza
la sua ira. Si può dire che Dio fa di tutto per risparmiare la
città corrotta. Con un forte antropomorfismo si dice che
Dio vuole rendersi conto personalmente di come stanno le
cose. Se ne parla prima ad Abramo, lo fa non solo perché
egli deve istruire i suoi discendenti perché non seguano
l'esempio dei sodomiti, ma anche per dargli l'occasione di
intercedere in favore della città peccatrice e per sottoli-
neare come la sciagura che colpirà la città non sia frutto di
arbitrio da parte di Dio ma sia la conseguenza del fatto che
neppure una minima parte dei suoi abitanti è esente dal
63
peccato. La misericordia si manifesta anche nel fatto che
Lot, l’unico giusto, viene risparmiato con la sua famiglia:
Dio non può fare nulla contro la città finché egli non si sia
allontanato. Dio quindi non restringe la sua misericordia
agli israeliti ma la estende a tutti.
La misericordia di Dio è condivisa da Abramo il quale
si sente quasi investito del compito di insegnare questa
virtù a Dio stesso. Anche qui il narratore fa ricorso a un
forte antropomorfismo. In realtà Abramo assume un at-
teggiamento che gli deriva dalla sua fede. Il suo intervento
è tanto più significativo in quanto Dio gli ha appena detto
che lo ha scelto perché obblighi i suoi figli e la sua famiglia
dopo di lui a osservare la via del Signore e ad agire con
giustizia e diritto. Quello che fa Abramo deve dunque ser-
vire da modello a Israele il quale, proprio in forza dell'al-
leanza, deve diventare un popolo sacerdotale che funge da
intermediario tra Dio e tutta l'umanità (cfr. Es 19,5-6; Is
61,6).
Infine bisogna osservare che l’idea di un’ira distruttri-
ce quale si manifesta nei confronti di Sodoma ha più che
altro uno scopo didattico: Israele era andato incontro ad
una simile manifestazione dell’ira di Dio al momento della
conquista di Gerusalemme da parte dei babilonesi. Ma an-
che in questo caso un piccolo resto si è salvato. Il popolo
deve dunque far tesoro di questa esperienza per non rica-
dere nei peccati che l’hanno portato alla rovina.

3) Abramo e Lot: i rischi di una risposta a metà


Importante è anche il contrasto tra Abramo e Lot: il
primo cresce sempre più in dignità e rispetto, il secondo
invece declina progressivamente verso una fine indecoro-
sa. Egli infatti ha una fede vacillante: mentre dà grande
importanza all'ospitalità, è disposto a dare le figlie in balìa
degli aggressori, indugia nel fuggire, intercede per il vil-
64
laggio di Soar, ma solo per il proprio vantaggio, e finisce
miseramente abusato dalle figlie. Gli israeliti dovranno
seguire l’esempio di Abramo, non quello di Lot, evitando
ogni cedimento alla corruzione delle popolazioni che han-
no trovato al ritorno dall’esilio; al tempo stesso però do-
vranno tollerare la loro presenza sul territorio e interce-
dere per loro.
In questa sezione la statura morale di Abramo assume,
sullo sfondo delle vicende riguardanti gli abitanti di So-
doma, una grandezza incomparabile: egli è l’uomo di Dio
che intercede per l’umanità peccatrice. Emerge qui ancora
una volta il carattere universale della sua vocazione. Da lui
sta per nascere un popolo che egli deve orientare, con il
suo esempio e la sua parola, sulla via della giustizia. Egli è
un uomo di Dio, un profeta, e quindi il modello e
l’iniziatore di quella corrente profetica che svolgerà un
ruolo tanto importante nella religione yahwista.
Resta problematico il concetto di un’ira divina che si
scatena in modo violento e distruttivo: in esso si riflette
una visione del peccato e del castigo che, al termine
dell’esilio, ha spinto i giudei ad addossarsi la responsabili-
tà della tragedia che li aveva colpiti per credere di poter
ricominciare in forza della misericordia divina che non
poteva venir meno.

4. LA PROVA FINALE DELLA FEDE (Gn 21,1–25,18)

Dopo tante vicissitudini, il figlio della promessa final-


mente nasce. Il narratore si limita a darne la notizia. Ora la
sua attenzione si concentra sulle conseguenze di questa
nascita nei confronti del primogenito Ismaele (21,1-21).
Viene poi riportato un nuovo episodio riguardante Abra-
mo e Abimelec (21,22-34). A questo fa seguito il racconto
65
della terribile prova che Abramo deve superare a motivo
dell’ordine divino di sacrificare il figlio, seguito da un'ap-
pendice riguardante la discendenza di Nacor (22,1-24).
Dopo di esso vengono riportati il racconto della morte e
della sepoltura di Sara (23,1-20) e quello del matrimonio
di Isacco (24,1-67). Al termine viene comunicata la notizia
della morte di Abramo, corredata da altre informazioni
che lo riguardano (25,1-18).

a. Isacco e Ismaele (Gn 21,1-21)


Nel tempo che Dio aveva fissato, Sara partorisce ad
Abramo un figlio nella sua vecchiaia: egli aveva allora
cent’anni. Come Dio gli aveva comandato, egli lo circonci-
de otto giorni dopo la nascita e lo chiama Isacco. Questo
nome viene spiegato con le parole della madre: «Motivo di
lieto riso mi ha dato Dio: chiunque lo saprà riderà lieta-
mente di me!». Poi ella aggiunge: «Chi avrebbe mai detto
ad Abramo che Sara avrebbe allattato figli? Eppure gli ho
partorito un figlio nella sua vecchiaia!» (vv. 1-7).
In realtà il nome Isacco, «egli ride», è una forma ab-
breviata di ytzúak-el, «Dio ride» (in segno di benevolenza),
che però nel contesto richiama il riso di gioia di Sara e il
sorriso ironico della gente, ma anche il riso di incredulità
sia del padre (cfr. 17,17) che della madre (cfr. 18,13): il
bambino porterà per sempre nel suo nome il ricordo della
gioia, ma anche dell’incredulità che hanno accompagnato
la sua nascita.

Il bambino cresce e, quando è svezzato, Abramo fa un


grande banchetto. Ma Sara vede che il figlio di Agar «ride»
con suo figlio Isacco. Il termine «ridere», che allude al no-
me di Isacco, questa volta è usato nel significato forse di
«scherzare», «fare giochi osceni» (cfr. Es 32,6 dove lo stes-
so verbo è usato per indicare il culto orgiastico del vitello
66
d’oro). Allora Sara dice ad Abramo: «Scaccia questa schia-
va e suo figlio, perché il figlio di questa schiava non deve
essere erede con mio figlio Isacco» (vv. 8-10).

La cosa non piace ad Abramo ma Dio gli dice: «Non


sembri male ai tuoi occhi questo, riguardo al fanciullo e
alla tua schiava: ascolta la voce di Sara in tutto quello che
ti dice, perché attraverso Isacco da te prenderà nome una
stirpe. Ma io farò diventare una nazione anche il figlio del-
la schiava, perché è tua discendenza» (vv. 11-13). Abramo
allora prende del pane e un otre d’acqua e li dà ad Agar, le
consegna Ismaele, che stranamente è ancora un piccolo
fanciullo, e la manda via.
Agar se ne va e si smarrisce nel deserto di Bersabea.
L’acqua dell’otre viene a mancare. Allora ella depone il
fanciullo sotto un cespuglio, va a sedersi di fronte a lui, al-
la distanza di un tiro d’arco e, piangendo, dice: «Non vo-
glio veder morire il fanciullo!» (vv. 14-16). Dio ode la voce
del fanciullo e il messaggero di Dio, cioè Dio stesso, chia-
ma Agar dal cielo e le dice: «Che hai, Agar? Non temere,
perché Dio ha udito la voce del fanciullo. Alzati, prendi il
fanciullo e tienilo per mano, perché io ne farò una grande
nazione». Dio le apre gli occhi ed ella vede un pozzo
d’acqua. Allora va a riempire l’otre e dà da bere al fanciul-
lo (vv. 17-19). Il narratore conclude affermando che Dio fu
con il fanciullo, che crebbe e abitò nel deserto di Paran e
divenne un tiratore d’arco. Sua madre gli prese una moglie
della terra d’Egitto (vv. 20-21).

Questo racconto è parallelo a quello della fuga di Agar


(cfr. 16,1-16), a cui aggiunge due importanti dettagli. Qui è
Sara che prende l’iniziativa di far espellere Ismaele con la
madre. Inoltre è difesa l'onestà di Abramo il quale si op-
pone alla richiesta della moglie e cede solo in seguito a un
67
comando divino e alla promessa di fare diventare il fan-
ciullo progenitore di una grande nazione. Pur mostrando
come la benevolenza divina si estenda a tutti coloro che
hanno origine da Abramo, il racconto si ispira alla rigida
disciplina postesilica in forza della quale i matrimoni con
donne straniere devono essere sciolti e i figli mandati via
con le madri. La discendenza promessa ad Abramo passa
dunque per il solo Isacco.

b. Abramo e Abimelec (Gn 21,22-34)


In questo racconto riappare in modo inatteso Abime-
lec. Egli si reca con Picol, capo del suo esercito, da Abramo
e gli fa anzitutto una grande lode, riconoscendo che Dio è
con lui in tutto quello che intraprende. Poi gli dice: «Giu-
rami qui per Dio che tu non ingannerai né me né la mia
prole né i miei discendenti: come io ho agito lealmente con
te, così tu agirai con me e con la terra nella quale sei ospi-
tato». Abramo acconsente e fa il giuramento richiesto (vv.
22-24). Nella richiesta di Abimelec si nota una certa diffi-
denza, determinata dal fatto che in precedenza Abramo
l’aveva ingannato facendo passare la moglie per sua sorel-
la.
In seguito però è Abramo che rimprovera Abimelec
perché i suoi servi si sono appropriati di un pozzo d’acqua
che apparteneva a lui. Abimelec protesta di essere com-
pletamente all’oscuro della cosa. Allora Abramo prende
alcuni capi del gregge e dell’armento e li dà ad Abimelec:
essi concludono così tra loro un’alleanza (vv. 25-27). Poi
Abramo mette da parte sette agnelle del gregge. Abimelec
gli chiede che significano e Abramo risponde: «Tu accette-
rai queste sette agnelle dalla mia mano, perché ciò mi val-
ga di testimonianza che ho scavato io questo pozzo». Ac-
cettandole Abimelec riconosce dunque il diritto di Abramo
sul pozzo.
68
Il narratore conclude osservando che per questo mo-
tivo quel luogo si chiamò Bersabea, perché là essi fecero
un giuramento (vv. 28-31). In ebraico i due termini «set-
te» e «giuramento», derivati ambedue dalla radice shaba>,
stanno all’origine dell’etimologia popolare del nome di
Bersabea, che viene interpretato come «pozzo dei sette» o
come «pozzo del giuramento». Questa seconda etimologia
del nome di Bersabea è ripresa nel brano parallelo riferito
a Isacco (cfr. 26,33).
Dopo che ebbero concluso l’alleanza a Bersabea, Abi-
melec e Picol ritornano nel territorio dei filistei. Abramo
pianta un tamerisco a Bersabea, e lì invoca YHWH, Dio
eterno (<El >Ôlam). In seguito vive come forestiero nel ter-
ritorio dei filistei per molto tempo (vv. 32-34).
Il racconto di questa alleanza ha uno stretto rapporto
con la promessa della terra fatta da YHWH ad Abramo. Que-
sti resta forestiero nella terra dei filistei, ma ha la proprie-
tà riconosciuta di un pozzo, fonte di vita, e pianta un albe-
ro con il quale vuole affermare che quella terra appartie-
ne a YHWH il quale un giorno la darà ai suoi discendenti.
Certamente l’albero che Abramo pianta a Bersabea, come
gli altari che altre volte egli costruisce, è un arcaico simbo-
lo religioso: esso era collegato probabilmente con l’appel-
lativo di «Dio Eterno» che era proprio di una divinità loca-
le venerata in quel luogo.

c. Il sacrificio del figlio (Gn 22,1-24)


Dopo tanta attesa e diversi passi falsi, Abramo ha ot-
tenuto un figlio mediante il quale si attuerà la promessa di
diventare il padre di un popolo numeroso. Ma proprio al-
lora succede l’imprevedibile. Dio dice ad Abramo: «Prendi
tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio
di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti in-

69
dicherò» (vv. 1-2). L’olocausto era il sacrificio per eccel-
lenza, nel quale tutta la carne della vittima veniva bruciata
sull’altare (cfr. Lv 1,1-9). Secondo la Bibbia, nella religione
cananea vigeva l’uso di sacrificare alla divinità i primoge-
niti (cfr. Lv 18,21; 20,2-5; 2Re 3,27; Mi 6,7; Ez 16,20-21).
Anche in Israele i primogeniti appartengono a Dio: essi
però non devono essere sacrificati, ma vengono riscattati
e al loro posto è offerto il sacrificio di una vittima (cfr. Es
13,1-2.11-16; 34,20). Il luogo del sacrificio di Isacco è
identificato con il monte Moria (22,2), dove un giorno sor-
gerà il tempio di Gerusalemme (cfr. 2Cr 3,1).
La richiesta fatta ad Abramo è chiaramente assurda:
dopo che la promessa di avere un figlio si era realizzata fra
tante difficoltà, non aveva senso chiederne l'uccisione. Il
narratore lo sottolinea osservando che si tratta del suo
figlio unigenito e quindi molto amato: Ismaele ormai non è
più in questione. Perciò si dà premura di avvertire il letto-
re che si tratta di una prova. Nell’AT a volte è Dio che met-
te alla prova tutto il popolo (cfr. Es 15,27; 20,20; Dt 8,2.16;
13,4); altre volte è il serpente (Gn 3) oppure satana che,
con il permesso di Dio, tenta un singolo individuo (cfr.
2Sam 24,1; 1Cr 21,1; Gb 1). Nel NT Gesù è condotto nel
deserto dallo Spirito per essere tentato da satana (cfr. Mt
4,1 e par.) e il discepolo deve chiedere a Dio di non essere
indotto in tentazione (cfr. Mt 6,13).

Abramo non sospetta neppure che si tratti di una pro-


va. Perciò obbedisce senza nulla obiettare e senza manife-
stare alcun sentimento. Egli prende questa decisione da
solo: Sara non ne è coinvolta e forse neppure lo viene a
sapere. Abramo si alza di buon mattino, sella l’asino,
prende con sé due servi e il figlio Isacco, spacca la legna
per l’olocausto e si mette in viaggio. Il terzo giorno giun-
gono nei pressi del luogo che Dio gli aveva indicato: non si
70
tratta qui di una semplice indicazione temporale ma di un
lasso di tempo che precede e prepara una manifestazione
divina (cfr. Es 19,15; Os 6,2).
Allora Abramo dice ai suoi servi: «Fermatevi qui con
l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e
poi ritorneremo da voi»: stranamente le sue parole sugge-
riscono che anche il figlio ritornerà con lui. Abramo pren-
de poi la legna dell’olocausto e la carica sul figlio Isacco ed
egli prende in mano il fuoco e il coltello, poi proseguono
tutti e due insieme. A un certo punto Isacco si rivolge al
padre e gli chiede: «Padre mio! Ecco qui il fuoco e la legna,
ma dov’è l’agnello per l’olocausto?». Egli risponde: «Dio
stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!»
(vv. 3-8): è toccante questo dialogo con il quale il narrato-
re lascia intuire che il ragazzo fosse consapevole di quanto
stava per accadere.
Essi giungono così al luogo che Dio aveva indicato; qui
Abramo costruisce l’altare, colloca la legna, lega suo figlio
Isacco e lo depone sull’altare, sopra la legna. Poi prende il
coltello per immolare suo figlio. Ma il messaggero di YHWH
lo chiama dal cielo e gli dice: «Non stendere la mano con-
tro il ragazzo e non fargli del male! Ora so che tu temi Dio
e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito». Allora
Abramo vede un ariete, impigliato con le corna in un ce-
spuglio, va prenderlo e lo offre in olocausto al posto del
figlio. Abramo chiama quel luogo «YHWH vede»; perciò,
soggiunge il narratore, oggi si dice: «Sul monte YHWH è vi-
sto» (vv. 9-14). Queste parole dovrebbero essere la spie-
gazione del nome di un luogo di culto che però manca. Re-
sta il gioco di parole tra l’attivo e il passivo del verbo «ve-
dere» con cui si indica l’esperienza di Abramo che si rende
conto di vedere Dio e di essere visto da lui.
A questo punto il narratore inserisce un’aggiunta che
potrebbe aver composto lui stesso per collegare il raccon-
71
to al tema della promessa. Il messaggero di YHWH chiama
Abramo dal cielo per la seconda volta e gli dice:

Giuro per me stesso: perché tu hai fatto questo e non hai ri-
sparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedi-
zioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le
stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua
discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno
benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra,
perché tu hai obbedito alla mia voce (vv. 15-18).

In questa dichiarazione, che riprende il tema delle


promesse divine, appaiono alcuni elementi nuovi: Dio giu-
ra per se stesso (cfr. soltanto Es 32,13); Abramo ha meri-
tato le benedizioni divine; la sua discendenza si impadro-
nirà delle città dei nemici (cfr. le conquiste di Giosuè). Al
termine del racconto il narratore informa il lettore che
Abramo ritorna dai suoi servi e insieme si mettono in
cammino verso Bersabea dove Abramo dimora (v. 19).
Il racconto del sacrificio di Isacco potrebbe essere sta-
to originariamente la storia della fondazione di un santua-
rio nel quale erano esclusi i sacrifici umani. Nella versione
attuale il protagonista della vicenda è identificato con
Abramo mentre il collegamento con un determinato san-
tuario è caduto ed è stato sostituito da un difficile gioco di
parole (cfr. 22,14).
La situazione che si crea a seguito del comando divino
è paradossale: quando ormai, dopo un’attesa lunga e sof-
ferta, il figlio della promessa è nato, Dio domanda ad
Abramo di dargli personalmente la morte. Non si tratta
qui soltanto della perdita di un figlio, unico e amato, ma
anche della rinunzia all’oggetto stesso della promessa di-
vina. In altre parole, ad Abramo è chiesto di credere che
Dio, anche senza Isacco, può ancora realizzare le sue pro-
messe. Naturalmente si tratta di una prova molto impe-
72
gnativa, il cui scopo non è quello di rivelare l’animo di
Abramo a Dio, il quale scruta i cuori (cfr. 1Sam 16,7; Sal
139,1-3), ma di far comprendere ai suoi discendenti fino a
che punto deve giungere la fedeltà a Dio. Questa volta
Abramo supera la prova e la sua fede raggiunge il suo
culmine. Alla luce di questo brano, Isacco appare per la
seconda volta come un dono gratuito di Dio: infatti, dopo
essere stato donato da Dio ad Abramo per mezzo di una
madre anziana e sterile, ora gli è ridonato come uno che è
scampato dalla morte.
Il fatto che il luogo del sacrificio di Isacco fosse identi-
ficato con quello su cui sorgerà il tempio di Gerusalemme
suggerisce una profonda riflessione sul significato dei sa-
crifici di animali: come il capro che aveva sostituito Isacco,
così anche le vittime che venivano offerte nel tempio do-
vevano rappresentare simbolicamente l'offerta che tutto il
popolo faceva di se stesso a YHWH (cfr. Sal 40,7-9).

Al termine del brano è inserita la notizia secondo cui


Nacor, fratello di Abramo, aveva avuto da Milcha, sua mo-
glie, otto figli, di cui l’ultimo, Betuel, ha avuto una figlia di
nome Rebecca (vv. 20-24). Si prepara così il racconto del
matrimonio di Isacco.

d. Morte e sepoltura di Sara (Gn 23,1-20)


Dopo il racconto del sacrificio di Isacco il ciclo di
Abramo giunge ormai al termine. Il narratore informa che
Sara muore all’età di centoventisette anni a Kiriat-Arba,
cioè Ebron, nella terra di Canaan. Abramo, che si era stabi-
lito a Bersabea (Gn 22,19), si reca a Ebron per compiere i
riti funebri sulla defunta (vv. 1-2).
Poi egli si reca dagli ittiti che abitano in quella regione
e fa loro questa richiesta: «Io sono straniero residente (ger
wetôshab) in mezzo a voi. Datemi la proprietà di un sepol-
73
cro in mezzo a voi, perché io possa portar via il morto e
seppellirlo». Abramo si definisce qui come uno straniero
che risiede provvisoriamente in un certo territorio (in
greco paroikos e parepidêmos), quindi privo di una pro-
prietà terriera. Gli ittiti gli rispondono: «Tu sei un principe
di Dio in mezzo a noi: seppellisci il tuo morto nel migliore
dei nostri sepolcri. Nessuno di noi ti proibirà di seppellire
il tuo morto nel suo sepolcro» (vv. 3-6). Per loro la sepol-
tura di un morto non esige per uno straniero la necessità
di possedere una terra.

Ma è proprio questo ciò che Abramo vuole. Perciò non


accetta l’offerta che gli viene fatta e si rivolge direttamente
a uno di loro, Efron, figlio di Socar, chiedendo che gli ven-
da la sua caverna di Macpela, che è all’estremità del suo
campo, dietro pagamento del suo prezzo reale (vv. 7-9).
Efron risponde ad Abramo, in presenza di tutti gli ittiti e di
quanti si trovavano alla porta della sua città, dicendo che
gli cede il campo con la caverna che vi si trova, perché
possa seppellirvi Sara. Abramo però non accetta e insiste
per pagarlo. Efron allora cede alla richiesta di Abramo e
fissa il prezzo a quattrocento sicli d’argento. Abramo ac-
cetta e, senza contrattare, paga a Efron la somma richiesta
(vv. 10-16).

Il narratore conclude che in tal modo sia il campo di


Efron, che si trovava a Macpela, di fronte a Mamre, sia la
caverna e tutti gli alberi che erano in esso passarono in
proprietà ad Abramo, alla presenza degli ittiti e di quanti
erano convenuti alla porta della città (vv. 17-18). Si tratta
quindi di un atto ufficiale, di cui sono garanti i maggiorenti
della città. Il campo e la caverna che vi si trovava diventa-
no così proprietà sepolcrale di Abramo. Egli allora vi sep-
pellisce Sara (vv. 19-20).
74
Per il narratore questo episodio ha una grande impor-
tanza: Abramo, infatti, pur non avendo visto l’adempi-
mento della terza grande promessa, riguardante il posses-
so della terra, è diventato a tutti gli effetti un abitante di
Canaan. Di conseguenza non solo Sara ma in seguito egli
stesso (cfr. 25,9), Isacco (cfr. Gn 35,27-29) e Giacobbe (cfr.
50,13) saranno sepolti nella grotta di Macpela, cioè in un
luogo che è già «terra di Israele»: per i giudei che ritorna-
vano dall’esilio, il sepolcro dei padri era un segno che le-
gittimava il loro diritto al possesso della terra.

e. Il matrimonio di Isacco (Gn 24,1-67)


L’ultimo racconto del ciclo di Abramo riguarda il ma-
trimonio del figlio della promessa. Si tratta di una lunga
novella in cui Dio, pur senza entrare direttamente in sce-
na, guida tutta la vicenda verso il fine che si è prefissato,
quello cioè di assicurare una discendenza al figlio della
promessa.
Il racconto inizia con un dialogo tra Abramo e il suo
servo. Il patriarca, ormai vecchio e consapevole delle be-
nedizioni ricevute da Dio, chiama il suo servo più anziano
e gli dà il compito di scegliere una moglie per suo figlio.
Egli però deve impegnarsi con giuramento di cercarla non
nel paese di Canaan ma nel suo paese di origine e fra la
sua parentela. Se la donna non vorrà seguirlo, sarà sciolto
dal suo giuramento; ma dovrà guardarsi dal condurre colà
suo figlio; Dio stesso manderà il suo angelo che garantirà
la riuscita della sua missione (vv. 1-9).
Il racconto prosegue con la descrizione del viaggio
compiuto dal servo. Con dieci cammelli egli si reca in Aran
Naharaim nella città di Nacor. Giunto al pozzo fuori della
città nell’ora in cui le donne escono ad attingere acqua, il
servo prega Dio e gli chiede un segno: la ragazza alla quale
dirà: «Abbassa l’anfora e lasciami bere», ed ella risponde-
75
rà: «Bevi pure e anche ai tuoi cammelli darò da bere», sia
quella che ha scelto come moglie per il suo servo Isacco.
Le cose vanno esattamente come il servo aveva previsto.
Rebecca, nipote di Abramo, alla quale si era già accennato
precedentemente (cfr. Gn 22,20-24), viene al pozzo e offre
acqua da bere a lui e ai cammelli. Allora il servo, convinto
che sia lei la donna designata da Dio, prende un pendente
d’oro del peso di mezzo siclo e glielo mette alle narici, e
alle sue braccia mette due braccialetti del peso di dieci si-
cli d’oro. Solo allora le domanda di chi è figlia e chiede se è
possibile per lui trascorrere la notte nella casa di suo pa-
dre. Rebecca gli risponde di essere figlia di Betuel, figlio di
Nacor e lo invita a passare la notte a casa sua. La scena si
conclude con una preghiera del servo che ringrazia Dio
perché non ha cessato di usare bontà e fedeltà verso il suo
padrone (vv. 10-27).
Rebecca torna a casa e riferisce quello che le è capita-
to. Suo fratello Labano allora, vedendo il pendente e i
braccialetti alle braccia della sorella, corre al pozzo, invita
a casa sua il servo di Abramo e gli offre da mangiare. Que-
sti però ha fretta di concludere la sua missione. Egli rac-
conta tutto l’accaduto partendo dall’incarico ricevuto da
Abramo fino all’incontro con Rebecca. Allora Labano e Be-
tuel, che qui appare per la prima volta, riconoscono che la
cosa viene dal Signore e consentono che Rebecca diventi la
moglie del figlio del suo padrone. Il servo fa allora altri
doni a Rebecca e infine mangiano e bevono. Al mattino
dopo il servo esprime il desiderio di ripartire subito. Il fra-
tello e la madre della ragazza vorrebbero ritardare la par-
tenza. Siccome il servo ha premura di partire, chiamano
Rebecca e le chiedono se vuole partire con quell’uomo.
Rebecca acconsente ed essi la congedano con una benedi-
zione che ha per oggetto la fecondità e la prosperità dei
suoi discendenti (vv. 28-61).
76
Allora Rebecca e le sue ancelle si alzano, salgono sui
cammelli e partono con il servo. Intanto Isacco, che abita-
va nella regione del Negheb, si trovava sul far della sera
presso il pozzo di Lacai-Roi, quello dove Dio era apparso
ad Agar, quando vede venire i cammelli. Anche Rebecca lo
vede e chiede al servo chi è quell’uomo che viene attraver-
so la campagna incontro a loro. Il servo risponde: «È il mio
padrone». Allora ella si copre il volto con il velo. Il servo
racconta a Isacco tutto ciò che era capitato. Questi prende
in moglie Rebecca, la ama e la introduce nella tenda che
era stata di sua madre Sara. Così Isacco trova conforto do-
po la morte della madre (vv. 62-67).
Il racconto contiene diversi aspetti che stanno a cuore
al narratore. Anzitutto egli si rifà alla norma che vietava
agli israeliti di sposare donne straniere. Ma più ancora egli
è preoccupato di sottolineare che il figlio di Abramo non
deve ritornare in Mesopotamia perché il Signore gli ha
giurato di dargli appunto la terra in cui risiede. Tutto il
racconto dimostra che, anche se Dio non interviene mai in
prima persona, la vicenda è guidata da lui in tutti i suoi
dettagli. Rebecca appare subito all’inizio come la moglie
ideale del figlio della promessa: è molto avvenente, è ge-
nerosa e, sebbene non partecipi alle trattative per il suo
matrimonio, è consenziente ed è disposta ad andare im-
mediatamente con il servo di Abramo; invece suo fratello
Labano appare meschino e interessato, come dimostrerà
successivamente la storia di Giacobbe.

f. La morte di Abramo (25,1-18)


Il ciclo di Abramo termina con alcune notizie. Anzitut-
to si dice che egli ha preso un’altra moglie di nome Ketura,
dalla quale ha avuto sei figli i quali sono capostipiti di al-
trettanti popoli. Fra di essi si trovano i madianiti, con i
quali gli israeliti avranno rapporti molto difficili (vv. 1-4).
77
Il narratore aggiunge poi che Abramo diede tutti i suoi
beni a Isacco. Invece, «ai figli delle concubine che aveva
avuto, Abramo fece doni e, mentre era ancora in vita, li li-
cenziò, mandandoli lontano da Isacco suo figlio, verso il
levante, nella regione orientale» (vv. 5-6). Isacco deve es-
sere l’unico suo erede e ogni mescolanza con altre popola-
zioni, anche imparentate con lui, deve essere evitata.
Infine viene dato l’annunzio della morte di Abramo:
egli muore all’età di centosettantacinque anni e viene se-
polto dai suoi figli, Isacco e Ismaele, nella caverna di
Macpela che Abramo aveva comprato dagli ittiti e nel qua-
le aveva sepolto Sara. Dopo la morte di Abramo, Dio bene-
dice suo figlio Isacco il quale pone la sua dimora presso il
pozzo di Lacai-Roi (vv. 7-11).
Vengono poi elencati i dodici discendenti di Ismaele,
ciascuno capo di una tribù (vv. 12-16). E si aggiunge che
Ismaele muore all’età di centotrentasette anni dopo aver
abitato da Avila fino a Sur, che è lungo il confine dell’Egit–
to; egli fece fronte, cioè forse si oppose, a tutti i suoi fratel-
li (vv. 17-18).
In questo testo appare che Abramo è il progenitore di
molti popoli: si è attuata così la promessa secondo cui il
patriarca sarebbe diventato il padre di una moltitudine di
nazioni (Gn 17,4-5). Alcune di esse sono qui nominate non
solo per ricordare la loro parentela con gli israeliti ma an-
che per sottolineare la loro separazione da essi, in quanto
appartenenti a rami collaterali, privi di ogni partecipazio-
ne alle promesse.

Temi e spunti di riflessione


La nascita di Isacco pone termine a una tribolata vi-
cenda, intessuta di fede e di errori. Finalmente il figlio del-
la promessa è nato. Ma è un figlio «tutto da ridere», che
porta espresso nel suo nome un insieme di promesse, spe-
78
ranze, delusioni, mancanza di fede e gioia per l'evento più
importante di tutta la vicenda di Abramo.

1) Dio mette alla prova i suoi eletti


La nascita di Isacco porta con sé un’incongruenza,
questa volta voluta espressamente da Dio: l’allontana-
mento di Ismaele. Questo gesto viene solo parzialmente
compensato dalle promesse fatte anche a lui da Dio. La
scelta di Dio non si trasmette necessariamente di padre in
figlio ma a chi è stato scelto da lui. Nella storia patriarcale,
come nel seguito della storia biblica, ciò si verificherà di-
verse volte. Non soltanto Dio sceglie chi vuole, ma ha una
preferenza per coloro che non hanno diritti o qualità da
far valere. Deve essere chiaro infatti che l'iniziativa divina
è totalmente libera e non è subordinata alle qualità o ai
meriti dell'uomo. Resta però il fatto che il trattamento ri-
servato ad Agar è profondamente ingiusto, nonostante le
promesse fatte da Dio a Ismaele.
La richiesta di sacrificare il figlio può sembrare una
pretesa brutale e arbitraria da parte di Dio. Il racconto pe-
rò ha lo scopo non di approvare ma di escludere i sacrifici
umani. Ciò che è fondamentale è l’esigenza di non appro-
priarsi dei doni di Dio. Ciò che si riceve è sempre un dono
a cui bisogna saper rinunziare se le circostanze lo richie-
dono. L’episodio è un richiamo a una fede austera, che ri-
nunzia a costruire il regno di Dio a proprio uso e consumo.
La dedizione a Dio deve essere totale, senza aspettarsi
contropartite.
Questo pensiero era molto importante per i giudei ri-
tornati dall’esilio, ai quali doveva essere chiaro che la ri-
nascita del popolo eletto avrebbe richiesto sofferenze e
rinunzie molto grandi, che potevano essere superate con
la fede nel Dio che li aveva chiamati per realizzare il suo
progetto. Soprattutto dovevano ricordare che i sacrifici
79
offerti nel tempio restaurato avevano senso solo se signi-
ficavano la fedeltà e la dedizione totale a lui.

2) Significato del matrimonio


Il matrimonio di Isacco con Rebecca mostra come Dio
abbia programmato nei dettagli la discendenza di Abramo,
facendo sì che non ci fosse alcuna mescolanza con la popo-
lazione di Canaan. Il clan di Abramo non deve imparentar-
si con la popolazione del luogo poiché questa non ha parte
alle promesse fatte al patriarca. In base alle consuetudini
del tempo, i due promessi sposi non si conoscono prima
del matrimonio.
Tuttavia essi accettano con totale disponibilità le deci-
sioni dei loro genitori, vedendo in esse la manifestazione
di un piano divino che riguarda non solo la loro famiglia
ma il bene vero di tutta la società. Il rapporto di coppia,
qualunque sia il modo con cui ha inizio, trova la sua stabi-
lità unicamente nella condivisione di un progetto che va al
di là del puro interesse personale.

3) La terra promessa
L’accordo di Abramo con Abimelec mette in luce il
progressivo attuarsi, anche se in modo ancora simbolico,
della promessa secondo cui i discendenti di Abramo pos-
sederanno la terra di Canaan. Non si deve trattare di una
conquista violenta, come altre tradizioni affermeranno,
ma di una convivenza pacifica tra nuovi arrivati e la popo-
lazione residente: un modello per i giudei che ritorneran-
no dall’esilio.
L’acquisto della grotta di Macpela vuole significare
che, se non altro dopo la morte, i patriarchi hanno il privi-
legio di riposare in un lembo di terra che già appartiene a
loro. Anche la promessa della terra si sta già realizzando.

80
Questa terra non è però un assoluto da rivendicare ma il
segno di un dono che va al di là del fattore geografico. Essa
è il luogo in cui Israele potrà risiedere solo se sarà fedele
al suo Dio, come lo era stato il suo progenitore Abramo. E,
di riflesso, per chi osserva la legge di Dio ogni luogo geo-
grafico è la terra promessa.

* * *
La storia di Abramo mette in luce diversi temi che
erano importanti per i giudei ritornati dall’esilio. Essi sono
presentati in modo narrativo e di conseguenza si ripetono
e si intersecano l’uno con l’altro. Ciò che emerge in primo
piano è la concezione di un Dio che guida la storia umana
attraverso vie che spesso non sono a prima vista com-
prensibili neppure a coloro che ne sono coinvolti in prima
persona. Perciò quello che è importante è la fede, che con-
siste nel fidarsi di Colui che ha creato il mondo e lo assiste
con saggezza nel suo continuo evolversi.
La fede consiste nel credere in un progetto superiore
che va al di là di tutti gli interessi umani, spesso contin-
genti ed egoistici. Questo progetto riguarda non singole
persone o particolari gruppi umani, ma il bene di tutta
l’umanità. Il vero credente è colui che si mette a disposi-
zione per la realizzazione di questo progetto e impegna
per questo scopo tutte le sue risorse. Pur avendo colto e
accettato il progetto di Dio, l’uomo può capire in che modo
esso si realizzerà solo in una prospettiva a lunga scadenza.
Ciò comporta naturalmente dubbi e difficoltà che sono
comprensibili nella misura in cui uno non perde di vista la
meta a cui tendere.
L'esperienza di Abramo mette in luce l’identità del po-
polo che da lui ha avuto origine. Esso non ha il monopolio
della divinità ma è chiamato a esercitare un servizio a fa-
vore di tutto il consesso delle nazioni. In questo impegno
81
per un bene superiore è implicito un nuovo modo di con-
cepire le realtà della vita quotidiana: la sessualità, il rap-
porto di coppia, la dignità della donna e dei bambini. La
fede comporta anche il superamento delle barriere de-
terminate dalla razza e dalla religione. Da Abramo deriva-
no non solo Israele ma anche un grande numero di popoli.
Per tutti egli è destinato a essere una benedizione. Perciò
nei loro confronti non si deve avere un senso di superiori-
tà e tanto meno di disprezzo. La corruzione diffusa fra loro
non deve chiudere gli occhi nei confronti dei propri limiti
morali, segnalati dalle vicende stesse dei patriarchi. Inol-
tre è importante riconoscere che anche tra gli altri popoli
vi sono persone oneste, dalle quali c’è molto da imparare.

82
III
CICLO DI GIACOBBE
(Gn 25,19–36,43)

La seconda parte della storia patriarcale è presentata


dal redattore finale della Genesi come la storia (tôledôt) di
Isacco, cioè della sua famiglia (cfr. Gn 25,19 e 35,27-29).
Di Isacco personalmente sono riferiti però solo alcuni epi-
sodi poco significativi, concentrati in Gn 26, i quali non
sono altro che doppioni di brani analoghi riguardanti
Abramo. Il vero protagonista di tutta la sezione è Giacob-
be, di cui sono narrati i travagliati rapporti con il fratello
Esaù e il suo emergere, contro ogni aspettativa, come il
capostipite delle dodici tribù di Israele.
In questo ciclo sono sfociati numerosi racconti di ori-
gine diversa, fra i quali predominano gli aneddoti di carat-
tere familiare e tribale. Tutto questo materiale è stato ri-
fuso, forse già in parte nello stadio della trasmissione ora-
le, in modo tale che ne risultasse un susseguirsi di eventi
molto simile a una piccola biografia. In essa i redattori fi-
nali si sono resi presenti soltanto con qualche annotazione
e aggiunta.

Nella storia di Giacobbe, diversamente da come avve-


niva nel ciclo di Abramo, Dio non interviene se non rara-
mente in modo diretto. L’autore, però, è convinto che, die-
tro le scelte umane, spesso determinate da calcoli o inte-
ressi personali, vi sia una precisa volontà divina, che egli
mette in luce soprattutto mediante quattro episodi signifi-
cativi, nei quali Dio interviene in prima persona per indi-
care al protagonista della vicenda le sue decisioni (cfr. Gn
25,23; 28,10-22; 32,23-33; 35,5-15).
83
In base alle situazioni in cui il patriarca viene a trovar-
si, la storia di Giacobbe si articola in tre momenti:

1. Isacco, Esaù e Giacobbe (25,19–27,46)


2. L’esilio in Oriente (28,1–30,43)
3. Il ritorno in Canaan (31,1–36,43).

1. ISACCO, ESAÙ E GIACOBBE (Gn 25,19–27,46)

In questa prima parte del ciclo il narratore concentra


la sua attenzione sulla storia della famiglia di Isacco. Il pa-
triarca, che dovrebbe essere il protagonista di questa se-
zione, appare sullo sfondo, senza un ruolo determinante.
In primo piano vi è invece la contesa tra Esaù e Giacobbe
per la primogenitura, che appare poi come l’eredità delle
promesse che Dio ha fatto ad Abramo. Il contenuto di que-
sta sezione comprende quattro momenti: la nascita dei
due gemelli (25,19-26); Esaù vende la primogenitura
(25,27-34); intermezzo riguardante Isacco (26,1-35); Gia-
cobbe carpisce con l’inganno la benedizione del padre
(27,1-46).

a. Nascita dei due gemelli (Gn 25,19-26)


Isacco ha quarant’anni quando prende in moglie Re-
becca. Anche in questo caso riappare il tema della sterilità
della moglie che però non ha gravi conseguenze. Isacco
prega per lei ed è esaudito. Rebecca concepisce due figli;
siccome essi si urtavano nel suo seno, ella viene presa dal
panico e decide di consultare YHWH (vv. 19-22). Il narrato-
re non dice come ciò avvenga, ma probabilmente pensa
che Rebecca si rivolga a un indovino, il quale interroga la
divinità servendosi di uno dei tanti mezzi di divinazione
allora in uso. Nel suo responso ciò che avviene nel seno di
84
Rebecca prelude al rapporto tra i due nascituri non tanto
come individui quanto piuttosto come progenitori di due
popoli: «Due nazioni sono nel tuo seno e due popoli dal
tuo grembo si divideranno; un popolo sarà più forte
dell’altro e il maggiore servirà il più piccolo» (v. 23). Le
due nazioni sono quelle degli israeliti e degli edomiti, delle
quali la seconda sarà sottomessa alla prima: ciò si realiz-
zerà mediante la conquista degli edomiti da parte di Da-
vide (cfr. 2Sam 8,13-14). Questa vicenda futura verrà anti-
cipata nei rapporti tra i due nascituri.
Quando i due gemelli nascono, al primo viene dato il
nome Esaù: egli si distingue per il colore rossastro dei suoi
peli. Il secondo invece, siccome esce dal seno materno te-
nendo in mano il calcagno del fratello, viene chiamato Gia-
cobbe (da >aqeb, calcagno) (vv. 24-26): in seguito il suo
nome sarà spiegato in rapporto al verbo >aqab, «soppian-
tare» (cfr. Gn 27,36).

Posto all’inizio della vicenda di Giacobbe, questo re-


sponso divino, pur essendo ancora vago e generico, mette
già in guardia il lettore circa un progetto che si attuerà en-
tro breve termine, in contrasto con quello che avrebbe do-
vuto essere il corso normale degli eventi. Subito all’inizio
il narratore vuole mettere in chiaro che tutta la storia che
narrerà, anche se ciò non apparirà espressamente, è gui-
data da Dio verso un fine da lui stabilito.

b. Esaù vende la primogenitura (Gn 25,27-34)


I ragazzi crescono e rivelano diverse attitudini: Esaù
diviene un abile cacciatore, mentre Giacobbe è un uomo
tranquillo, che dimora sotto le tende. Isacco predilige
Esaù, perché la cacciagione era di suo gusto, mentre Re-
becca predilige Giacobbe (vv. 27-28). Una volta Giacobbe

85
aveva cotto una minestra; Esaù, arrivando sfinito dalla
campagna, gli chiede di poterne mangiare. Il narratore os-
serva che Esaù dal colore rosso di questa minestra fu
chiamato anche Edom, nome che richiama anche il colore
dei suoi peli. Giacobbe ne approfitta e chiede in cambio di
quel cibo la sua primogenitura: questa non riguarda qui le
promesse fatte ad Abramo ma solo la leadership del clan.
Esaù brontola che la primogenitura non gli serve a nulla
dal momento che sta per morire di fame. E così gliela ven-
de con giuramento. Esaù mangia il pane e la minestra, poi
si alza e se ne va. Il narratore osserva che così facendo egli
ha disprezzato la primogenitura (vv. 29-34). Indiretta-
mente il narratore lascia intendere che l’errore commesso
da Esaù giustifica in qualche modo il comportamento, non
certo encomiabile, di Giacobbe.

c. Intermezzo: vicende di Isacco (Gn 26,1-35)


Segue un intermezzo in cui si raccontano le vicende di
Isacco. A parte i brani redazionali in cui si mostra come
siano passate a lui le promesse fatte ad Abramo, vengono
attribuiti a questo patriarca pochi avvenimenti e per di più
si tratta di doppioni riguardanti episodi già riportati nel
ciclo di suo padre: Isacco a Gerar (vv. 1-5); la moglie sorel-
la (vv. 6-11); contesa per i pozzi (vv. 12-25); accordo con
Abimelec e matrimoni di Esaù (vv. 26-35).

1) Isacco a Gerar (vv. 1-5)


In seguito a una carestia, Isacco si reca a Gerar presso
Abimelec, re dei filistei. Stranamente il narratore pone in
scena lo stesso personaggio che aveva avuto a che fare con
Abramo (cfr. Gn 20,1-18) senza tener conto che da allora
molti anni erano passati. Si suppone che Isacco avesse
l’intenzione di proseguire verso l’Egitto, come aveva fatto

86
di testa sua Abramo in un'analoga circostanza (cfr. 12,10).
Ma YHWH interviene e lo ferma con queste parole:

Non scendere in Egitto, abita nella terra che io ti indicherò,


rimani come forestiero in questa terra e io sarò con te e ti
benedirò: a te e alla tua discendenza io concederò tutti que-
sti territori, e manterrò il giuramento che ho fatto ad Abra-
mo tuo padre. Renderò la tua discendenza numerosa come le
stelle del cielo e concederò alla tua discendenza tutti questi
territori: tutte le nazioni della terra si diranno benedette nel-
la tua discendenza; perché Abramo ha obbedito alla mia vo-
ce e ha osservato ciò che io gli avevo prescritto: i miei co-
mandamenti, le mie istituzioni e le mie leggi.

In questo testo, chiaramente redazionale, YHWH trasfe-


risce a Isacco le promesse fatte ad Abramo. In più si ag-
giunge che YHWH farà ciò perché Abramo ha obbedito alla
sua voce e ha osservato le sue leggi. Questa aggiunta spo-
sta l’accento dalla fede di Abramo (15,6) al merito da lui
acquisito obbedendo non solo alla voce di YHWH (sacrificio
di Isacco) ma anche alle sue leggi, di cui non si parla nei
racconti che lo riguardano: in questo inciso trova dunque
voce la spiritualità dei giudei che, al ritorno dall'esilio,
erano fortemente preoccupati per l'osservanza della legge.

2) La moglie sorella (vv. 6-11)


Al rinnovo delle promesse fa seguito un racconto che
è un doppione di quelli riportati in Gn 12,10-20; 20,1-18.
Mentre Isacco dimora a Gerar, gli uomini del luogo gli fan-
no domande sulla moglie, ma egli dice: «È mia sorella»;
egli infatti temeva che, se avessero saputo che era sua mo-
glie, avrebbero potuto ucciderlo per causa sua, poiché era
di bell’aspetto. Un giorno però Abimelec, re dei filistei, lo
vede «scherzare» (da tzaúaq, ridere, essere in intimità,

87
gioco di parole con il nome di Isacco) con Rebecca e capi-
sce che è sua moglie, lo chiama e gli dice: «Sicuramente
ella è tua moglie. Perché dunque hai detto: “È mia sorel-
la”?». Isacco risponde: «Perché mi son detto: "Che io non
abbia a morire per causa di lei!"». Abimelec allora lo rim-
provera dicendo: «Poco ci mancava che qualcuno del po-
polo si unisse a tua moglie e tu attirassi su di noi una col-
pa». Egli poi dà a tutto il popolo quest’ordine: «Chi tocca
quest’uomo o sua moglie sarà messo a morte!». Anche qui
si attribuisce ad Abimelec un forte senso morale; al tempo
stesso si esclude la possibilità stessa che qualcuno abbia
disonorato Rebecca.

3) Contesa per i pozzi (vv. 12-25)


Anche il brano seguente è un doppione di quello ri-
portato in Gn 21,22-34. A motivo di un raccolto partico-
larmente abbondante, dovuto alla benedizione divina,
Isacco si arricchisce di greggi, di armenti e di numerosi
schiavi. Allora i filistei cominciano a invidiarlo, chiudono i
pozzi scavati da Abramo e Abimelec gli dice di andarsene
perché è più potente di loro. Isacco va allora ad accampar-
si lungo il torrente di Gerar e riattiva i pozzi d’acqua, sca-
vati dai servi di suo padre, che i filistei avevano chiuso do-
po la sua morte, e li chiama con il nome originario (vv. 12-
18).
I suoi servi poi scavano nella valle e vi trovano un
pozzo di acqua viva. Ma i pastori di Gerar pretendono che
l’acqua appartenga a loro. Allora egli chiama il pozzo Esek
(lite). L’episodio si ripete e Isacco chiama il nuovo pozzo
Sitna (ostilità). Una terza volta scava un altro pozzo per il
quale non avviene nessuna contesa; perciò egli lo chiama
Recobot (ampiezza) dicendo: «Ora il Signore ci ha dato
spazio libero, perché noi prosperiamo nella terra» (vv. 19-
22). La proprietà indiscussa di questo pozzo, dopo le con-
88
troversie precedenti, è un segno che preannunzia il pos-
sesso di tutta la regione da parte dei discendenti di Isacco.
Isacco sale poi a Bersabea e in quella notte gli appare
YHWH che gli dice: «Io sono il Dio di Abramo, tuo padre;
non temere, perché io sono con te: ti benedirò e moltipli-
cherò la tua discendenza a causa di Abramo, mio servo».
Isacco allora costruisce in quel luogo un altare e invoca il
nome di YHWH. Egli poi pianta la tenda in quella località e i
suoi servi scavano un nuovo pozzo (vv. 23-25): sia la co-
struzione dell’altare che lo scavo del pozzo sono segni di
adesione al progetto di Dio che gli darà quella terra e pre-
ludono alla sua realizzazione.

4) Accordo con Abimelec (vv. 26-35)


Questo racconto è un doppione di Gn 21,22-34. Abime-
lec, avendo visto che Dio aveva benedetto Isacco, si reca
da lui con Acuzzat, suo consigliere, e Picol, capo del suo
esercito e gli propone di concludere con lui un’alleanza
per evitare futuri conflitti. Così fanno. Terminato il rito
giungono i servi di Isacco e lo informano che avevano sca-
vato un pozzo e avevano trovato l’acqua. Allora egli lo
chiama sheba (giuramento) da cui deriva il nome Bersabea
(pozzo del giuramento): in Gn 21,31 era stata data di que-
sto nome una duplice genealogia popolare, da sheba che
significa «sette» (agnelle) e «giuramento».

Il capitolo termina con la notizia dei matrimoni di


Esaù con due donne straniere, Giuditta, figlia di Beeri
l’Ittita, e Basmat, figlia di Elon l’Ittita: il narratore osserva
che Isacco e a Rebecca ne sono stati molto amareggiati
(vv. 34-35).
La figura di Isacco è piuttosto scialba. Di lui erano note
le vicende che hanno portato alla sua nascita miracolosa,
al suo sacrificio e al suo matrimonio. Egli, come figura au-
89
tonoma, non deve aver colpito particolarmente la fantasia
degli israeliti perché di lui non è stata conservata alcuna
tradizione specifica. Non resta perciò un vero e proprio
ciclo di Isacco. Quanto si dice di lui in questo capitolo ha
solo lo scopo di mostrare la continuità delle promesse
fatte ad Abramo, fra le quali affiora quella dell’insedia-
mento nella terra, che almeno simbolicamente sta pren-
dendo corpo. Tutta l’attenzione del narratore è invece ri-
volta alle vicende della sua famiglia, cioè di suo figlio Gia-
cobbe.

d. Giacobbe carpisce la benedizione paterna (Gn 27,1-46)


Al racconto dell’acquisto della primogenitura da parte
di Giacobbe fa seguito un altro racconto, parallelo a esso,
in cui si narra come egli abbia ghermito con l’inganno la
benedizione del padre, che spettava per diritto a Esaù.
Il testo inizia con un’introduzione in cui si dice che
Isacco è ormai vecchio ed è diventato quasi cieco. Egli
chiama il figlio maggiore, Esaù, e gli dice di andare a caccia
per procurare della selvaggina, preparare un piatto di suo
gradimento e di portarglielo; egli avrebbe mangiato e poi
lo avrebbe benedetto prima di morire (vv. 1-4).

Il racconto prosegue con l’intervento di Rebecca. Ella,


che aveva ascoltato tutto, quando Esaù se ne va, riferisce
a Giacobbe l’accaduto. Poi gli dice di andare al gregge e di
portarle due capretti; con essi ella avrebbe preparato un
piatto secondo il gusto del padre e lui glielo avrebbe por-
tato per ricevere la sua benedizione. Giacobbe esprime
alla madre la sua perplessità perché Esaù è peloso, mentre
lui ha la pelle liscia. Il rischio è che il padre si accorga
dell’inganno e, invece di benedirlo, lo maledica. Ma sua
madre insiste dicendo: «Ricada pure su di me la tua male-
dizione, figlio mio!». Giacobbe obbedisce. Rebecca prepara
90
il cibo, fa indossare a Giacobbe i vestiti più belli di Esaù e
con le pelli dei capretti riveste le sue braccia e la parte li-
scia del collo. Così travestito lo invia dal padre con il piatto
e il pane che aveva preparato (vv. 5-17).

Viene poi la scena della benedizione. A Isacco, il quale


si stupisce che abbia fatto così in fretta a trovare la selvag-
gina, Giacobbe risponde con sottile ironia: «Il Signore tuo
Dio me l’ha fatta capitare davanti». Allora Isacco lo tocca
per accertarsi se è proprio Esaù e dice: «La voce è quella
di Giacobbe, ma le braccia sono di Esaù». Poi insiste: «Tu
sei proprio il mio figlio Esaù?». Egli lo rassicura. Allora il
padre gli dice: «Servimi, perché possa mangiare della sel-
vaggina di mio figlio, e ti benedica». Dopo aver mangiato
Isacco gli dice: «Avvicinati e baciami, figlio mio!». Senten-
do l’odore dei suoi abiti Isacco allora lo benedice augu-
randogli rugiada dal cielo, terre grasse, frumento e mosto
in abbondanza. E aggiunge: «Popoli ti servano e genti si
prostrino davanti a te. Sii il signore dei tuoi fratelli e si
prostrino davanti a te i figli di tua madre. Chi ti maledice
sia maledetto e chi ti benedice sia benedetto!» (vv. 18-29).
Isacco dunque invoca sul figlio il benessere materiale, la
vittoria sui nemici e la leadership del clan. Solo l’ultima
frase, che ha come tema la maledizione e la benedizione,
richiama implicitamente la promessa fatta ad Abramo.
Infine viene raccontata la delusione di Esaù. Questi
torna dalla caccia e prepara anch’egli una pietanza, la por-
ta al padre e gli dice: «Alzati e mangia la selvaggina che ti
ho preparato, perché tu possa benedirmi». Isacco allora si
rende conto dell’inganno ed è colto da un fortissimo tre-
mito.
Quando Esaù viene a sapere che suo fratello è stato
benedetto al suo posto, scoppia in alte, amarissime grida e
dice al padre: «Benedici anche me, padre mio!». Ma Isacco
91
risponde: «È venuto tuo fratello con l'inganno e ha carpito
la benedizione che spettava a te». Esaù, giocando sul fatto
che il verbo >aqab significa «soppiantare», commenta:
«Forse perché si chiama Giacobbe mi ha soppiantato già
due volte? Ha carpito prima la mia primogenitura ed ora la
mia benedizione!». E soggiunge: «Non hai forse in serbo
qualche benedizione per me?». Isacco non può ritirare la
benedizione impartita a Giacobbe; tuttavia dà anche a lui
una benedizione con la quale gli predice che abiterà lon-
tano dalle terre fertili, vivrà della sua spada e servirà suo
fratello; ma verrà il giorno in cui si riscuoterà e spezzerà il
suo giogo (vv. 30-40). In questa benedizione si predice la
vittoria sugli edomiti da parte di Davide (2Sam 8,12-14) e
la loro riscossa sotto Salomone (1Re 11,14-22.25).
Come conseguenza dell’inganno perpetrato a suo dan-
no, Esaù perseguita Giacobbe e progetta di ucciderlo subi-
to dopo la morte del padre. Venuta a conoscenza di questo
proposito, Rebecca ne mette a conoscenza Giacobbe e lo
invia a Carran da suo fratello Labano, dandogli la conse-
gna di rimanere là per qualche tempo, finché l’ira di suo
fratello si fosse placata. Allora lo avrebbe mandato a
prendere. E a Isacco dà come motivo di questo allontana-
mento la necessità di impedire che anche Giacobbe prenda
come moglie una donna del posto (vv. 41-46).

La benedizione conferiva a chi la riceveva il diritto di


diventare, alla morte del padre, il suo successore alla gui-
da del clan (cfr. 27,29): la contesa tra i due fratelli non
aveva quindi lo scopo di ottenere a proprio vantaggio
l’attuazione delle promesse fatte ad Abramo che, come av-
verrà poi per i figli di Giacobbe, potevano passare ad am-
bedue. Ma nel corso del racconto apparirà che era proprio
questa la posta in palio, perché Dio aveva deciso che sol-
tanto da Giacobbe sarebbe sorto il suo popolo.
92
Temi e spunti di riflessione
La storia di Giacobbe e di Esaù presenta diverse sfac-
cettature che riguardano i rapporti famigliari, impregnati
di egoismi e di sopraffazione, dei protagonisti. Il narratore
si astiene da qualsiasi giudizio, lasciando che i fatti stessi
parlino al suo posto. Egli è soprattutto preoccupato di non
nascondere gli aspetti profondamente discutibili dei pro-
genitori del suo popolo, perché solo così apparirà come
non siano i meriti dell'uomo ma la libera volontà di Dio a
determinarne la storia.

1) La personalità dei protagonisti


L’aspetto più sconvolgente di questa sezione è quello
della personalità di coloro che vi sono coinvolti. Anzitutto
colpisce la figura di Isacco, il quale non sa gestire in modo
appropriato la sua famiglia. Nonostante il suo amore per
Rebecca, egli è disposto a cederla ai filistei e solo l’onestà
di Abimelec la preserva da una brutta esperienza. Egli è
interessato unicamente alla preservazione dei suoi pozzi e
alla crescita dei suoi beni. Inoltre per futili motivi ha una
preferenza per Esaù e in questo non va d’accordo con la
moglie che invece preferisce Giacobbe: il dissidio tra i co-
niugi è tale che la moglie non rifuggirà dall’imporsi con un
raggiro, rivalendosi così della poca considerazione che il
marito ha per lei. Isacco inoltre si dimostra molto ingenuo
e subordina la sua benedizione al piacere di un buon
pranzo. In fondo risulta che Rebecca ha fatto la scelta giu-
sta perché fin dall’inizio la precedenza nel piano di Dio è
assegnata a Giacobbe; ciò non giustifica però la disonestà
del suo comportamento.
Anche i due fratelli denotano caratteristiche poco gra-
devoli. Esaù è senz’altro quello che riscuote più simpatia,
in quanto è fiero e fondamentalmente onesto, ma anche

93
ingenuo e disimpegnato nei confronti della famiglia al
punto di vendere su due piedi la primogenitura per un
piatto di lenticchie. Egli sposa due donne cananee, senza
rendersi conto dell’amarezza che suscita ai genitori, e
quando si accorge di essere stato ingannato armeggia per
togliere di mezzo il fratello. Giacobbe invece è un imbro-
glione, attaccato alle gonne della madre, desideroso di
prendere il posto del fratello, anche a costo di un inganno.
I rapporti tra questi personaggi degenerano al punto di far
prevedere un omicidio.
Questo racconto mette in luce i rapporti difficili e
complessi che a volte si creano nelle famiglie. Spesso pre-
valgono i limiti delle persone che danno origine a situa-
zioni difficilmente gestibili. Neppure gli uomini scelti da
Dio sono esenti da vicende drammatiche e dolorose.

2) Il piano di Dio
Ancora più problematico è il comportamento di YHWH.
Apparentemente egli non interviene in queste vicende fa-
migliari né con rimproveri né con esortazioni. Tuttavia
appare chiaro che, dietro le quinte, egli guida le vicende
umane verso il fine che lui ha prestabilito. La cosa più
strana è che Dio rifiuti il primogenito, il quale aveva più
titoli per essere l’erede delle promesse, e scelga quello che
umanamente è il meno raccomandabile. Il narratore in
questo modo vuol mostrare che le scelte di Dio non dipen-
dano dai meriti degli uomini. Infatti deve essere chiaro che
è Dio ad attuare il suo progetto, e il fatto che scelga perso-
ne inadatte dimostra ancora più chiaramente che è lui ad
avere l’iniziativa e non i protagonisti con le loro discutibili
decisioni. Ciò deve valere soprattutto per Israele, la cui
elezione non è dovuta ai suoi meriti ma alla libera volontà
divina (cfr. Dt 7,7-8). Da qui deriva la fiducia in una rina-
scita dopo l'esilio.
94
2. L’ESILIO IN ORIENTE (Gn 28,1–30,43)

La maggior parte delle tradizioni concernenti Giacob-


be riguardano il suo viaggio in Oriente, che è conseguenza
dell’inganno che egli ha operato ai danni del fratello. Il
racconto comprende i seguenti momenti: partenza (28,1-
9); il sogno di Betel (28,10-22); il duplice matrimonio
(29,1-30); nascita dei figli (29,31–30,24); rapporti con La-
bano (30,25-43).

a. Partenza di Giacobbe (Gn 28,1-9)


Giacobbe ha ottenuto quello che voleva, ma ciò ha
come conseguenza immediata la necessità di fuggire.
D’intesa con Rebecca, Isacco chiama Giacobbe, lo benedice
con queste parole:

Ti benedica Dio l’Onnipotente, ti renda fecondo e ti moltipli-


chi, sì che tu divenga un insieme di popoli. Conceda la bene-
dizione di Abramo a te e alla tua discendenza con te, perché
tu possieda la terra che Dio ha dato ad Abramo, dove tu sei
stato forestiero.

Per la prima volta appare che è in gioco non sempli-


cemente la primogenitura ma la trasmissione delle pro-
messe fatte ad Abramo. Da quanto gli è capitato, Isacco ha
capito che è Giacobbe e non Esaù colui dal quale dovrà
avere origine la discendenza promessa ad Abramo, alla
quale Dio darà la terra di Canaan. Egli perciò comanda a
Giacobbe di non prender moglie tra le figlie di Canaan ma
di andare in Paddan-Aram, nella casa di Betuel, e di pren-
dere una moglie tra le figlie di suo zio Labano (vv. 1-5).

Esaù allora capisce la lezione e sposa anche lui una pa-


rente, Macalat, figlia di Ismaele (vv. 6-9). L’opposizione nei

95
confronti dei matrimoni misti, tipica del periodo postesili-
co, viene qui chiaramente affermata.

b. Il sogno di Giacobbe (Gn 28,10-22)


Dopo la partenza da Bersabea, Giacobbe capita in un
luogo, dove passa la notte, coricandosi per terra con una
pietra come guanciale. Nel sonno vede una scala che pog-
giava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo e
su di essa i messaggeri di Dio che salivano e scendevano.
Allora gli appare YHWH che gli dice:

Io sono YHWH, il Dio di Abramo, tuo padre, e il Dio di Isacco.


A te e alla tua discendenza darò la terra sulla quale sei cori-
cato. La tua discendenza sarà innumerevole come la polvere
della terra; perciò ti espanderai a occidente e a oriente, a set-
tentrione e a mezzogiorno. E si diranno benedette, in te e
nella tua discendenza, tutte le famiglie della terra. Io sono
con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritor-
nare in questa terra, perché non ti abbandonerò senza aver
fatto tutto quello che ti ho detto (vv. 10-15).

Questa volta è Dio stesso che designa Giacobbe come


colui mediante il quale si realizzeranno le promesse fatte
ad Abramo (cfr. Gn 12,1-3.7). In più YHWH si impegna a
proteggerlo nelle sue peregrinazioni e a riportarlo a casa
sano e salvo. Quando si sveglia dal sonno, Giacobbe dice:
«Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo».
Preso dal timore aggiunge: «Quanto è terribile questo luo-
go! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del
cielo». La mattina seguente Giacobbe si alza, prende la pie-
tra che si era posta come guanciale, la erige come una ste-
le, versa olio sulla sua sommità e chiama quel luogo Betel,
mentre prima di allora la città si chiamava Luz. Poi Gia-
cobbe fa un voto:
96
Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto
facendo e mi darà pane da mangiare e vesti per coprirmi, se
ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre, YHWH sarà il
mio Dio. Questa pietra, che io ho eretto come stele, sarà una
casa di Dio; di quanto mi darai, io ti offrirò la decima (vv. 16-
22).

In questo racconto si intrecciano due tradizioni che ri-


guardano l’origine del santuario di Betel, dove già Abramo
aveva eretto un altare (cfr. Gn 12,8). Nella prima di esse
(Gn 28,10.13-16.21b.19), YHWH appare direttamente a
Giacobbe e gli conferisce le promesse fatte ad Abramo;
Giacobbe dal canto suo chiama quel luogo «Betel» (Bêt <el,
casa di Dio) e ivi riconosce YHWH come suo Dio.

Secondo l’altra tradizione (Gn 28,11-12.17-18.20.21a-


22), Giacobbe sogna di trovarsi in una specie di tempio
mesopotamico, in cui vi sono una camera superiore (abi-
tazione della divinità) e una sala inferiore (luogo dell’ap-
parizione), congiunte l’una all’altra da una gradinata: su
questa gradinata egli vede salire e scendere i messaggeri
di Dio, i quali sono gli esecutori dei suoi ordini. Egli rico-
nosce allora di trovarsi nella «casa di Dio» (Bêt <el) e fa vo-
to che, se Dio lo assisterà e lo ricondurrà sano e salvo alla
casa di suo padre, egli farà di quel luogo la casa di Dio e
pagherà la decima.

Questo racconto, collocato in un punto strategico della


vicenda di Giacobbe, fa comprendere come, dietro la frode
da lui perpetrata ai danni del fratello, vi fosse una volontà
divina ben precisa, la quale, senza togliere nulla alla re-
sponsabilità personale del patriarca, conduceva la storia
verso uno scopo prestabilito, che era quello di fare di lui
l’unico erede delle promesse.

97
c. Il matrimonio di Giacobbe (Gn 29,1-30)
Dopo l’esperienza di Betel, Giacobbe si rimette in
cammino verso Oriente. Non si dice qual è la destinazione
precisa, ma il lettore sa che si tratta di Carran, il luogo da
cui proveniva Abramo. Circa il suo viaggio il narratore non
ha nulla da raccontare mentre invece avrà molto da dire
circa il suo ritorno.

1) Incontro di Giacobbe con Rachele (vv. 1-14)


Il fatto viene raccontato secondo lo schema tipico
dell’«incontro presso il pozzo». Quando giunge nel territo-
rio di Carran, vede nella campagna un pozzo e tre greggi di
piccolo bestiame. Sulla bocca del pozzo c’era una grande
pietra che i pastori facevano rotolare solo quando tutte le
greggi si erano radunate per abbeverare il bestiame; poi
rimettevano la pietra al suo posto. Giacobbe chiede loro da
dove vengano ed essi rispondono che sono di Carran, co-
noscono Labano e gli assicurano che sta bene.

Nel frattempo arriva Rachele con il bestiame del pa-


dre; allora Giacobbe si fa avanti e fa rotolare la pietra dalla
bocca del pozzo e fa bere le pecore di Labano. Poi, pian-
gendo, bacia Rachele e le rivela di essere suo parente. Al-
lora Rachele corre a riferirlo al padre. Quando questi viene
a sapere che era giunto il figlio di sua sorella, gli corre in-
contro, lo abbraccia, lo bacia e lo conduce nella sua casa.
Giacobbe racconta le sue vicende a Labano il quale gli di-
ce: «Davvero tu sei mio osso e mia carne!». Così Giacobbe
resta presso di lui per un mese.

2) Alle dipendenze di Labano (vv. 15-20)


Al termine del primo mese di soggiorno nella sua casa,
Labano dice a Giacobbe: «Poiché sei mio parente, dovrai
98
forse prestarmi servizio gratuitamente? Indicami quale
deve essere il tuo salario». Ora Labano aveva due figlie; la
maggiore si chiamava Lia e la più piccola si chiamava Ra-
chele. Lia aveva gli occhi smorti, mentre Rachele era bella
di forme e avvenente di aspetto, perciò Giacobbe si era in-
namorato di lei. Giacobbe allora si dice disposto a servire
suo zio sette anni per ottenere in moglie Rachele. Labano
accetta. Così Giacobbe lo serve per sette anni che gli sem-
brano pochi giorni, tanto grande era il suo amore per lei.

3) Le due spose di Giacobbe (vv. 21-30)


Al termine del periodo stabilito, Giacobbe chiede a La-
bano di dargli Rachele come sposa. Labano accetta e im-
bandisce un banchetto al quale invita tutta la gente del
luogo. Quando è sera, egli conduce la sposa da Giacobbe ed
egli, senza sapere che non è Rachele ma Lia, si unisce a lei.
Quando è mattino Giacobbe si rende conto dell'equivoco e
dice a Labano: «Che cosa mi hai fatto? Non sono stato al
tuo servizio per Rachele? Perché mi hai ingannato?». La-
bano risponde: «Dalle nostre parti non si usa dare in sposa
la figlia più piccola prima della primogenita. Finisci questa
settimana nuziale, poi ti darò anche l’altra per il servizio
che tu mi presterai per altri sette anni». E così, terminata
la settimana nuziale, Labano dà in moglie a Giacobbe an-
che Rachele. Egli si unisce a lei e la ama più di Lia. Così re-
sta al servizio di Labano per altri sette anni. Alle figlie La-
bano dà due schiave, Zilpa a Lia e Bila a Rachele.

Quello tra Giacobbe e Rachele è l’unico «matrimonio


d’amore» ricordato nei racconti patriarcali. Esso non è
idealizzato o proposto come esempio. Anzi le vicende suc-
cessive mostrano come gli effetti non siano positivi. Inol-
tre il patriarca è costretto con l’inganno a prendere in
moglie anche Lia, di cui non era innamorato. Egli riceve
99
così il contraccambio per la frode da lui perpetrata nei
confronti del proprio padre. Le due sorelle sono effettiva-
mente mogli a tutti gli effetti, contro quella che sarà la
prescrizione della legge (cfr. Lv 18,18). Si forma così una
famiglia poligamica: è questo l’unico caso che si verifica
nella sezione della Bibbia dedicata ai patriarchi. Il narra-
tore si limita a descrivere i fatti, lasciando al lettore il
compito di farsi un giudizio alla luce degli sviluppi suc-
cessivi.

d. I figli di Giacobbe (Gn 29,31–30,24)


Dopo il duplice matrimonio viene narrata la nascita
dei figli di Giacobbe, che saranno i capostipiti delle dodici
tribù. Vedendo che Giacobbe trascurava Lia a vantaggio di
Rachele, YHWH si schiera dalla sua parte e la rende fecon-
da, mentre Rachele rimane sterile. Lia concepisce dunque
e partorisce quattro figli e dà loro dei nomi simbolici, il cui
significato è spiegato mediante una etimologia popolare. Il
primo figlio lo chiama Ruben («Guardate, un figlio»), per-
ché dice: «Il Signore ha guardato la mia umiliazione; certo,
ora mio marito mi amerà». Poi concepisce nuovamente e
partorisce un altro figlio dicendo: «YHWH ha udito che io
ero trascurata e mi ha dato anche questo». E lo chiama Si-
meone («Ha udito»). Lia concepisce un’altra volta e parto-
risce un figlio e dice: «Questa volta mio marito mi si affe-
zionerà, perché gli ho partorito tre figli». Per questo,
guardando al futuro, lo chiama Levi («affezionarsi»). Infi-
ne concepisce nuovamente e partorisce un figlio che
chiama Giuda («Egli loderà) perché dice: «Questa volta
loderò il Signore». In seguito Lia cessa di avere figli
(29,31-35).
Rachele, vedendo che non le era concesso di diventare
madre, diviene gelosa della sorella e dice a Giacobbe:
«Dammi dei figli, se no io muoio!»: una donna senza figli è
100
come un ramo secco che viene tagliato. A queste parole
Giacobbe reagisce irritato: «Tengo forse io il posto di Dio,
il quale ti ha negato il frutto del grembo?». Allora ella ri-
corre all’espediente già adottato da Sara e gli dice: «Ecco
la mia serva Bila: unisciti a lei, partorisca sulle mie ginoc-
chia cosicché, per mezzo di lei, abbia anch’io una mia pro-
le». Giacobbe si unisce a Bila la quale partorisce un figlio
che legalmente appartiene a Rachele. È lei quindi che gli
dà il nome: «Dio mi ha fatto giustizia e ha anche ascoltato
la mia voce, dandomi un figlio». Per questo lo chiama Dan
(«Egli ha giudicato»). Bila, la schiava di Rachele, concepi-
sce ancora e partorisce a Giacobbe un secondo figlio che
Rachele chiama Nèftali dicendo: «Ho sostenuto contro mia
sorella lotte tremende e ho vinto!». E: l’etimologia di que-
sto nome è incerta. Allora Lia, vedendo che aveva cessato
di aver figli, prende la propria schiava Zilpa e la dà a Gia-
cobbe. Ella partorisce a lui un figlio e Lia esclama: «Per
fortuna!» e lo chiama Gad («Con il suo aiuto»). Zilpa parto-
risce a Giacobbe un secondo figlio e Lia lo chiama Aser
(«Beato») in quanto dice: «Per mia felicità! Certamente le
donne mi chiameranno beata» (30,1-13).
Al tempo della mietitura del grano, Ruben trova nei
campi delle mandragore, a cui si attribuiva un potere cu-
rativo della sterilità, e le porta a sua madre Lia. Rachele
allora dice a Lia: «Dammi un po’ delle mandragore di tuo
figlio». Ma Lia risponde: «Ti sembra poco avermi portato
via il marito, perché ora tu voglia portare via anche le
mandragore di mio figlio?». Riprende Rachele: «Ebbene,
Giacobbe si corichi pure con te questa notte, ma dammi in
cambio le mandragore di tuo figlio». La sera, quando Gia-
cobbe arriva dalla campagna, Lia gli corre incontro e gli
dice: «Devi venire da me, perché io ho pagato il diritto di
averti con le mandragore di mio figlio». Così egli si corica
con lei quella notte. Il Signore esaudisce Lia, la quale con-
101
cepisce e partorisce a Giacobbe un quinto figlio e lo chia-
ma Issaacar («Salario») in quanto dice: «Dio mi ha dato il
mio salario, perché ho dato la mia schiava a mio marito». E
Lia concepisce e partorisce ancora un sesto figlio a Gia-
cobbe e dice: «Dio mi ha fatto un bel regalo: questa volta
mio marito mi preferirà, perché gli ho partorito sei figli». E
lo chiama Zabulon (etimologia incerta). In seguito partori-
sce una figlia e la chiama Dina: nulla si dice circa il signifi-
cato del suo nome. Infine anche Rachele concepisce e par-
torisce un figlio e dice: «Dio ha tolto il mio disonore». E lo
chiama Giuseppe («Egli ha aggiunto»), dicendo: «Il Signore
mi aggiunga un altro figlio!» (3,14-24).

Le vicende delle due mogli di Giacobbe sono una con-


ferma molto chiara di Lv 18,18, dove il matrimonio di un
uomo con due sorelle è proibito proprio a motivo delle
rivalità che si creano tra di loro. Da Lia e Rachele e dalle
loro schiave Zilpa e Bila nascono a Giacobbe dodici figli. In
questa storia famigliare appare per la prima volta il «si-
stema delle dodici tribù», le quali appaiono qui suddivise
in quattro gruppi corrispondenti alle mogli e alle concubi-
ne di Giacobbe.
• Lia: Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Issacar, Zabulon, Dina
• Zilpa: Gad e Aser
• Rachele: Giuseppe
• Bila: Dan e Neftali
Il fatto che sotto il nome di Lia siano raggruppate tribù
che, successivamente, non avranno fra loro alcun rapporto
di carattere territoriale, fa supporre che questo testo ri-
fletta un tempo più remoto, nel quale i rapporti fra tribù
erano diversi. In questa lista è ricordata anche Dina, la
quale in seguito scomparirà per lasciare il posto a Benia-
mino. Diversamente da quanto era capitato per Ismaele e
102
poi per Esaù, nessuno dei dodici figli è escluso dalla tra-
smissione delle promesse fatte ad Abramo.

A ciascun figlio il nome è dato dalla madre e a esso,


mediante etimologie popolari, è assegnato un significato
simbolico, determinato da una circostanza della nascita o
da un augurio riguardante il futuro. È importante notare
come tutti i figli di Giacobbe, eccetto Beniamino, nascano
in Mesopotamia. Come Abramo, anche i capostipiti delle
tribù provengono dalla terra in cui sono stati deportati gli
abitanti della Giudea: ciò dimostra che la terra è un dono
di Dio e anche il nuovo Israele postesilico deve nascere da
una migrazione.

e. Giacobbe e Labano (Gn 30,25-43)


Giacobbe era fuggito da Canaan senza possedere nulla.
Ora si trova a capo di una famiglia numerosa. Dopo che
Rachele ebbe partorito Giuseppe, Giacobbe chiede a Laba-
no di poter tornare nella sua terra con le mogli e i figli. La-
bano risponde che il Signore lo ha benedetto per causa sua
e gli propone di restare ricevendo un salario per il suo la-
voro. Giacobbe si esime e gli propone invece di riservare
per sé ogni capo di colore scuro tra le pecore e ogni capo
chiazzato e punteggiato tra le capre (vv. 25-33).
Sapendo che gli animali con queste caratteristiche so-
no pochi, Labano accetta. Per ridurre il numero degli ani-
mali dovuti, Labano mette da parte i capri striati e chiaz-
zati e tutte le capre punteggiate e chiazzate e li affida ai
suoi figli che si trovano con i loro greggi a una distanza di
tre giorni di cammino da Giacobbe, il quale pascola l’altro
parte del bestiame di Labano (vv. 35-36).

Giacobbe però sa come fare per aumentare le sue pro-


prietà: prende rami freschi di pioppo, di mandorlo e di
103
platano, ne intaglia la corteccia in modo che ne appaiano
strisce bianche. Mette i rami così scortecciati nei luoghi
dove andavano a bere le capre, perché queste li vedessero
quando erano in calore. Così le capre generavano capretti
striati, punteggiati e chiazzati. Quanto alle pecore, Giacob-
be le separa e fa sì che al momento del concepimento ab-
biano davanti a sé gli animali striati e tutti quelli di colore
scuro (vv. 37-40). Egli applica questo sistema solo quando
andavano in calore le bestie più robuste. Così i capi di be-
stiame deboli erano per Labano e quelli robusti per Gia-
cobbe. Egli si arricchisce oltre misura e entra in possesso
di greggi in grande quantità, schiave e schiavi, cammelli e
asini (vv. 41-43).

Il metodo applicato da Giacobbe per moltiplicare gli


animali che gli spettavano non è chiaro e soprattutto sup-
pone la convinzione che le circostanze esterne al momen-
to del concepimento esercitassero un influsso quasi magi-
co sui piccoli che ne nascevano. Il suo comportamento non
è disonesto in se stesso, ma non è neppure corretto in
quanto implica un ricorso alla furbizia per fare i propri
interessi. Il narratore però riporta questo discutibile epi-
sodio per far passare l’idea che Dio assiste Giacobbe e il
benessere materiale che acquista è un segno della sua be-
nevolenza.

Temi e spunti di riflessione


In questa sezione viene approfondito il tema della
scelta discutibile da parte di Dio di un uomo come Giacob-
be il cui carattere ambiguo non lo raccomanda certamente
come erede delle promesse fatte ad Abramo. Accanto a
esso vengono affrontati altri temi che toccavano profon-
damente la sensibilità dei giudei ritornati dall’esilio.
104
1) Le migrazioni
Nel Deuteronomio Giacobbe è designato come un
«arameo errante» (Dt 26,5). Le tradizioni riferiscono che i
patriarchi vengono dalla Mesopotamia e sono pastori se-
minomadi che si spostano nel territorio della Mezzaluna
fertile. Abramo definisce se stesso come un forestiero che
risiede provvisoriamente nella terra (cfr. Gn 23,4) e ottie-
ne come proprietà soltanto una grotta per farne un cimite-
ro. Solo i suoi discendenti otterranno la terra, ma anch’essi
vi abiteranno come «forestieri residenti» perché la terra
appartiene a YHWH (cfr. Lv 25,23). Egli l’ha data a Israele
non in possesso ma in uso (Dt 6,1-3.10-12.18) e il popolo
vi potrà sussistere solo a patto che compia la volontà del
suo Dio (cfr. Dt 28,63-66). Se gli israeliti si dimentiche-
ranno del loro Dio e seguiranno altri dèi essi periranno
come le nazioni che, a causa della loro malvagità, Dio ha
scacciato per fare posto a loro (Dt 8,20; 9,5-6).
Ma se Dio è padrone della terra di Canaan, lo è anche
di tutta la terra che egli ha creato. È dunque importante
difendere il diritto di tutti all’uso della terra e il dovere di
utilizzarla per il bene di tutti. Nessuno deve essere privato
di quella terra che gli assicura la sopravvivenza. La terra
perciò non deve essere sfruttata al punto tale da renderla
improduttiva per le generazioni successive. In una certa
misura la condizione del migrante è tipica non solo dei pa-
triarchi ma di ogni credente (cfr. 1Pt 1,1)

2) Una famiglia poligamica


Nella Bibbia la poligamia non è condannata esplicita-
mente se non quando si prendono come mogli due sorelle
(cfr. Lv 18,18). Anzi, sono ricordati uomini di tutto rispet-
to che, come il padre di Samuele (cfr. 1Sam 1,1-2), aveva-
no diverse mogli. Neppure viene condannato l’uso di ave-

105
re, accanto alla propria moglie, anche delle concubine.
Queste usanze non devono essere considerate come una
degenerazione della famiglia o come un allontanamento
dal progetto iniziale di Dio, ma come la risposta ad esigen-
ze tipiche di una certa struttura sociale. Si tratta però di
una scelta discutibile, di cui i racconti patriarcali mettono
chiaramente in luce le debolezze e i limiti. D'altra parte
però nelle tradizioni patriarcali non si nascondono le diffi-
coltà anche delle coppie monogamiche. Certo dal punto di
vista sociologico la famiglia monogamica rappresenta uno
stadio più avanzato in quanto preserva meglio la dignità
della donna. Il successo di una famiglia non dipende per-
ciò dalla sua struttura, ma dai valori che uniscono i coniugi
nella ricerca di un bene che va al di là di essa.

3) Fecondità e sterilità
La possibilità di avere figli appare come la suprema
ambizione di una donna. Ciò è dovuto al fatto che una fa-
miglia numerosa era necessaria per fare fronte alla morta-
lità infantile in un contesto agricolo in cui la sopravviven-
za era condizionata dal numero delle braccia lavorative.
Nei racconti patriarcali la fecondità è vista come un dono
di Dio che viene elargito dopo periodi di sterilità. Attra-
verso questa esperienza dolorosa sono passate le mogli di
Giacobbe, come d’altronde Sara e Rebecca. Con questo
espediente letterario si vuole far comprendere che i figli
sono un dono di Dio per il bene di una comunità e di tutta
la società e non un mezzo per ottenere più benessere.

3. IL RITORNO IN CANAAN (Gn 32,1–36,43)

La terza parte del ciclo di Giacobbe è dedicata al suo


ritorno nella terra di Canaan. La sezione inizia con il rac-
106
conto della fuga di Giacobbe e della riconciliazione con
Labano (31,1-54), a cui fa seguito la seconda parte del
viaggio e l'incontro con Esaù (32,1–33,20). Vengono poi
narrati due episodi: la violenza fatta a Dina e la vendetta
dei fratelli (34,1-31) e il ritorno di Giacobbe a Betel segui-
to dalla morte di Rachele (35,1-22); in appendice sono ri-
portati un nuovo elenco dei dodici patriarchi, la notizia
della morte di Isacco e la genealogia di Esaù (35,23–
36,43).

a. Il distacco da Labano (Gn 31,1-54)


Dopo i reciproci dispetti con Labano, il soggiorno di
Giacobbe in Mesopotamia si conclude in un modo brusco,
che rischia di compromettere i rapporti tra i due parenti.
Il narratore descrive la fuga di Giacobbe, l’inseguimento
da parte di Labano e infine la riconciliazione.

1) Partenza di Giacobbe (vv. 1-21)


Il patriarca viene a sapere che i figli di Labano lo ac-
cusano di essersi arricchito a spese del padre e, d’altra
parte, si rende conto che l’atteggiamento di Labano nei
suoi confronti non è più quello di prima. YHWH gli dice:
«Torna alla terra dei tuoi padri, nella tua famiglia e io sarò
con te». Allora Giacobbe manda a chiamare Rachele e Lia,
che erano in campagna presso il gregge, e le mette al cor-
rente della situazione. Egli difende l’onestà del proprio
operato e afferma che è stato YHWH a favorirlo. Poi le in-
forma che il messaggero di YHWH gli è apparso in sogno e
gli ha detto: «Io sono il Dio di Betel, dove tu hai unto una
stele e dove mi hai fatto un voto. Ora alzati, parti da questa
terra e torna nella terra della tua famiglia!». Rachele e Lia
sono d’accordo con lui, anzi esprimono il loro risentimen-
to verso il padre che le ha vendute e si è anche mangiato il

107
loro denaro. Allora Giacobbe carica i figli e le mogli sui
cammelli e prende tutti i beni che si era acquistato in Pad-
dan-Aram, per ritornare da Isacco, suo padre, nella terra
di Canaan. Rachele prende con sé gli idoli del padre. Elu-
dendo l’attenzione di Labano Giacobbe si dirige verso i
monti di Galaad.

2) Inseguimento di Labano (vv. 22-42)


Quando viene a sapere della fuga di Giacobbe, Labano
lo insegue con i suoi parenti e lo raggiunge sulle montagne
di Galaad. Dio però gli appare in sogno e gli ingiunge di
non fare niente di male a Giacobbe. Quando lo raggiunge,
Labano lo rimprovera per essere fuggito di nascosto, sen-
za permettergli di congedarlo con una festa e di baciare le
figlie e i nipoti. Aggiunge che potrebbe fargli del male, ma
il Dio di suo padre gliel’ha proibito. Egli può capire che
Giacobbe sia partito perché aveva nostalgia per la casa di
suo padre, ma lo rimprovera per aver rubato i suoi idoli.
Giacobbe riconosce di aver avuto paura che gli togliesse le
sue figlie. Ma nega di avergli rubato gli idoli, anzi lo invita
a ispezionare le sue tende giurando che colui presso il
quale li avesse trovati sarebbe stato punito con la morte.

Allora Labano entra nella tenda di Giacobbe e poi nella


tenda di Lia e nella tenda delle due schiave, ma non trova
nulla. Poi entra nella tenda di Rachele la quale aveva mes-
so gli idoli nella sella del cammello, poi vi si era seduta so-
pra. Ella dice al padre: «Non si offenda il mio signore se io
non posso alzarmi davanti a te, perché ho quello che av-
viene di regola alle donne». Labano dunque non trova gli
idoli. Giacobbe allora si adira contro di lui, difende il pro-
prio operato e accusa Labano di averlo sfruttato. Se il Dio
di suo padre non fosse stato con lui, egli lo avrebbe lascia-
to andar via a mani vuote.
108
3) Riconciliazione (vv. 43-54)
Labano riconosce la buona fede di Giacobbe, dice di
non voler far del male alle sue figlie e ai nipoti e propone
di concludere un’alleanza con lui. Giacobbe allora prende
una pietra e la erige come stele. Poi raccolgono delle pie-
tre, ne fanno un mucchio e su di esso mangiano. Labano lo
chiama Iegar-Saaduta, mentre Giacobbe lo chiama Galaad
(Gal-Ed, mucchio della testimonianza). Labano chiede a
Giacobbe di impegnarsi con un giuramento a non maltrat-
tare le sue figlie e a non prendere altre mogli. In una cultu-
ra poligamica era possibile che, con il passare degli anni, il
marito prendesse un’altra donna conferendole il diritto di
moglie. Inoltre quel mucchio e quella stele dovranno esse-
re testimoni che egli non li oltrepasserà per fargli del ma-
le. Labano giura per il Dio di Abramo e il Dio di Nacor
mentre Giacobbe giura per il Terrore di Isacco suo padre.
Poi offre un sacrificio sulle montagne e invita i suoi paren-
ti a prender cibo.

Probabilmente tutto il racconto è sorto per regolare i


rapporti geopolitici tra gli israeliti, discendenti di Giacob-
be, e gli aramei discendenti di Labano. I due popoli sono
imparentati, ma tra essi vi saranno continue tensioni che
potranno essere superate solo tenendo conto dei limiti
territoriali fissati da un ancestrale trattato di buona vici-
nanza.

b. Il viaggio verso Canaan (Gn 32,1–33,20)


Giacobbe ha rotto ormai i ponti con il padre delle sue
due mogli. Ora può riprendere il viaggio verso la terra di
Canaan. Si profila però un ostacolo: egli dovrà incontrarsi
con suo fratello, il cui odio e desiderio di vendetta l'aveva-
no costretto a partire per la Mesopotamia. Egli deve dun-

109
que agire con prudenza: anzitutto sono menzionati i suoi
preparativi (32,1-22); viene poi riportato il racconto della
lotta con Dio (32,23-33) e infine è descritto l'incontro con
Esaù (33,1-20).

1) I preparativi (32,1-22)
Labano si alza di buon mattino, bacia le figlie e i nipoti
e li benedice. Poi parte e ritorna a casa. Anche Giacobbe
parte e lungo la via incontra dei misteriosi personaggi che
identifica come messaggeri di Dio. Perciò chiama quel luo-
go Macanaim che da lui viene spiegato come «Accampa-
menti di Dio»: mediante questa etimologia popolare il nar-
ratore vuole sottolineare la continua assistenza di Dio nei
confronti del suo eletto.

Poi Giacobbe si prepara all’incontro con Esaù. Egli ha


paura che il fratello si vendichi per il torto subito, perciò
manda avanti a sé alcuni messaggeri per informarlo del
suo arrivo. Questi ritornano e gli riferiscono che Esaù gli
sta venendo incontro con quattrocento uomini. Giacobbe
si spaventa e divide la gente che era con lui, il gregge, gli
armenti e i cammelli in due gruppi pensando che, se Esaù
raggiunge il primo e lo sconfigge, l’altro si salverà. Poi ri-
volge un’accorata preghiera a YHWH chiedendo il suo aiuto
in questo difficile frangente; infine prende capre, capri e
cammelli, li divide in gruppi e li manda uno dopo l’altro in
dono al fratello.

In questi preparativi appare ancora una volta il carat-


tere meschino e calcolatore di Giacobbe, il quale non si fi-
da del fratello ed è disposto a perdere una parte dei suoi
beni o addirittura alcuni dei membri della sua famiglia per
preservare gli altri. Anche la sua preghiera, nella quale si
appella alle promesse fatte, è interessata.
110
2) Lotta con Dio (32,23-33)
Presso il fiume Iabbok (Nahr ez Zerqa) ha luogo uno
strano episodio. Giacobbe ha fatto passare sull’altra riva le
mogli, le schiave, i suoi figli e tutti i suoi averi. Egli rimane
solo e un uomo lo assale e lotta con lui. Vedendo che non
riusciva a vincerlo, l’uomo lo colpisce all’articolazione del
femore provocandogli una slogatura. Venuta l’aurora
l’uomo gli dice: «Lasciami andare, perché è spuntata
l’aurora». Giacobbe risponde: «Non ti lascerò, se prima
non mi avrai benedetto!». Egli allora gli domanda: «Come
ti chiami?». Giacobbe dice il suo nome ed egli soggiunge:
«Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai
combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacob-
be allora gli chiede: «Svelami il tuo nome». L’altro rispon-
de: «Perché mi chiedi il nome?». E poi lo benedice. Allora
Giacobbe chiama quel luogo Penuel («faccia di Dio») di-
cendo: «Davvero ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia
vita è rimasta salva». Spuntava il sole, quando Giacobbe,
zoppicando, lascia Penuel. Per questo gli israeliti, fino ad
oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articola-
zione del femore.

Originariamente il racconto era forse una leggenda


eziologica riguardante un luogo di culto: nelle ore nottur-
ne uno spirito o un dèmone assale un uomo, il quale lotta
con lui e riesce a carpire qualcosa del suo potere sopran-
naturale e gli dedica il santuario di Penuel, in Transgior-
dania, nel quale forse si praticava una danza zoppicante
simile a quella descritta in 1Re 18,26. Ora questa antica
leggenda è applicata a Giacobbe; l'essere misterioso che lo
assale però non è un dèmone ma Dio stesso: un analogo
evento avrà come protagonista Mosè al ritorno in Egitto
(cfr. Es 4,24-26). Il fatto che a Giacobbe sia stato assegnato
un nuovo nome è forse in realtà il risultato della fusione di
111
due gruppi diversi che hanno identificato le loro tradizioni
e i loro capostipiti.

Questo antico racconto fornisce una lettura retrospet-


tiva di tutta la vicenda di Giacobbe. In esso si mette in luce
anzitutto che egli è un vincitore, in quanto ha lottato con-
tro Dio, che aveva fatto di lui il secondogenito, e contro gli
uomini, cioè il padre, il fratello e lo zio, ottenendo di di-
ventare il depositario delle promesse. Ma Giacobbe è an-
che un vinto: come ha dovuto sottomettersi al misterioso
assalitore, così dovrà essere sottomesso a Dio e attuare la
sua volontà. In altre parole, egli ha lottato per qualcosa di
grande, ma per ambizione e desiderio di grandezza; ora ha
ottenuto quanto desiderava, ma deve arrendersi a Dio,
servendolo con fede e umiltà. È questo il vero momento
della conversione e della vocazione del patriarca. Da que-
sto momento, il «soppiantatore» (Giacobbe) diventa il
«forte» (Israele). Nel contesto attuale l’esperienza fatta da
Giacobbe anticipa e prefigura quella del popolo che da lui
prende nome.

3) L’incontro con Esaù (33,1-20)


Rassicurato dalla benedizione divina, Giacobbe va in-
contro a Esaù. Egli lo vede arrivare accompagnato da
quattrocento uomini. Allora organizza la sua carovana in
modo tale da proteggere le persone che gli sono più care:
alla testa mette le schiave con i loro bambini, più indietro
Lia con i suoi bambini e infine Rachele con Giuseppe. An-
cora una volta appare il carattere ambiguo e pavido di
Giacobbe, il quale non si fida del fratello e fa di tutto per
evitare che una eventuale vendetta da parte sua ricada su
tutta la famiglia.
Egli passa poi davanti a loro e si prostra sette volte fi-
no a terra davanti al fratello che si avvicina. Ma Esaù gli
112
corre incontro, lo abbraccia e lo bacia e ambedue piango-
no. Poi, vedendo le donne e i bambini, Esaù domanda: «Chi
sono questi con te?». Giacobbe rispose: «Sono i bambini
che Dio si è compiaciuto di dare al tuo servo». Allora si
fanno avanti le schiave con i loro bambini, poi Lia con i
suoi bambini e Rachele con Giuseppe; tutti si prostrano.
Poco dopo, quando arriveranno a Sichem, i figli di Giacob-
be appariranno come uomini già adulti e capaci di maneg-
giare le armi.
Esaù domanda poi che scopo hanno i beni che Giacob-
be gli ha inviato. Questi risponde: «È per trovar grazia agli
occhi del mio signore». Esaù vorrebbe rifiutare i doni di
suo fratello, ma dietro le sue insistenze li accetta. Poi pro-
pone di incamminarsi insieme ma Giacobbe si esime con
delle scuse e ciascuno va per la sua strada. Mentre Esaù si
dirige verso Seir, Giacobbe si accampa a Succot, località
così chiamata perché egli vi costruisce una casa per sé e fa
delle capanne per il gregge. Poi si reca nella terra di Ca-
naan e si accampa di fronte alla città di Sichem che, secon-
do questo testo, prende nome da uno dei figli di Camor,
capo degli evei, la popolazione cananea ivi residente. Lì,
per cento pezzi d’argento, acquista la porzione di terra in
cui aveva piantato la tenda ed erige un altare dedicato a
«El, Dio d’Israele»: egli identifica così una divinità cana-
nea, El, con il suo Dio, cioè YHWH.

c. Violenza a Dina e vendetta dei fratelli (Gn 34,1-31)


A Sichem accade un fatto deplorevole. Dina, la figlia di
Giacobbe e di Lia, va a trovare le ragazze del posto. La nota
Sichem, figlio di Camor, il quale la rapisce e le fa violenza.
Ma poi s’innamora di lei, la conforta e chiede a suo padre
di poterla prendere come moglie. Giacobbe viene a saperlo
e ne parla con i suoi figli quando tornano dalla campagna.
Costoro ne sono addolorati e s’indignano molto, conside-
113
rando il gesto di Sichem come un’infamia che non si deve
compiere in Israele. Intanto Camor va da loro e dice:

Sichem, mio figlio, è innamorato della vostra figlia; vi prego,


dategliela in moglie! Anzi, imparentatevi con noi: voi darete
a noi le vostre figlie e vi prenderete per voi le nostre figlie.
Abiterete con noi e la terra sarà a vostra disposizione; potre-
te risiedervi, percorrerla in lungo e in largo e acquistare
proprietà». Sichem aggiunge: «Alzate pure il prezzo nuziale e
il valore del dono; vi darò quanto mi chiederete, ma conce-
detemi la giovane in moglie! (vv. 1-12).

I figli di Giacobbe rispondono che non possono dare la


loro sorella a un uomo non circonciso; perciò esigono da
loro che ogni maschio si faccia circoncidere. Solo a questa
condizione potranno dare loro in mogli le proprie figlie e
sposare le loro, diventando così un solo popolo (vv. 13-
17).
Camor e Sichem acconsentono e tutti i maschi del loro
popolo si fanno circoncidere. Ma il terzo giorno, quando
essi sono ancora sofferenti per l'operazione subita, i due
figli di Giacobbe, Simeone e Levi, fratelli di Dina, prendono
ciascuno la propria spada, entrano indisturbati nella città
e uccidono tutti i maschi, poi saccheggiano la città e por-
tano via Dina. Allora Giacobbe dice a Simeone e a Levi:
«Voi mi avete rovinato, rendendomi odioso agli abitanti
della regione, ai cananei e ai perizziti. Io ho solo pochi
uomini; se essi si raduneranno contro di me, mi vinceran-
no e io sarò annientato con la mia casa». Essi però rispon-
dono: «Si tratta forse la nostra sorella come una prostitu-
ta?» (vv. 18-31).
Questo racconto conserva forse il ricordo di un tenta-
tivo di insediamento in Canaan di alcuni gruppi di israeliti,
poi scomparsi (cfr. Gn 49,5-7). La violenza da parte di un
uomo nei confronti di una donna indifesa viene vista come
114
un’infamia che non deve accadere in Israele. La reazione
dei figli di Giacobbe è però ancora più violenta e per di più
perpetrata con l’inganno. Giacobbe condanna esplicita-
mente il misfatto compiuto dai suoi figli, ma porta unica-
mente una motivazione di carattere utilitaristico.
Per i giudei ritornati dall’esilio, l’episodio era, da una
parte, una condanna nei confronti della violenza sessuale
commessa dai cananei e, dall’altra, un monito a evitare atti
di forza verso le popolazioni residenti in Palestina, se non
altro per non mettere a rischio la propria sopravvivenza.
Nel testo manca invece una condanna esplicita della vio-
lenza in tutte le sue forme.

d. Ritorno a Betel e morte di Rachele (Gn 35,1-29)


La necessità di sfuggire alla vendetta dei sichemiti non
è l’unico motivo che spinge Giacobbe a lasciare Sichem.
Egli deve sciogliere il voto fatto a Betel mentre si recava in
Mesopotamia. Solo così il periodo più cruciale della sua
vita potrà dirsi concluso.

1) L’arrivo di Giacobbe a Betel (vv. 1-15)


Dio comanda a Giacobbe di recarsi a Betel e di co-
struirgli un altare dove gli era apparso quando fuggiva da
suo fratello Esaù. Allora Giacobbe dice ai suoi di eliminare
gli dèi degli stranieri che hanno con loro, di purificarsi e di
cambiare gli abiti per recarsi con lui a Betel: là infatti in-
tende costruire un altare al Dio che lo ha esaudito al tem-
po della sua angoscia ed è stato con lui in tutto il suo
cammino. Essi consegnano a Giacobbe tutti gli dèi che
possedevano e i pendenti che avevano agli orecchi, e Gia-
cobbe li sotterra sotto la quercia presso Sichem.
Poi partono e un grande terrore assale gli abitanti del-
le città all’intorno, impedendo loro di inseguire Giacobbe e

115
i suoi. Essi arrivano a Luz, cioè Betel, nella terra di Canaan.
Qui egli costruisce un altare al Dio che gli era apparso,
quando fuggiva da suo fratello. Allora muore Debora, la
nutrice di Rebecca, e viene sepolta ai piedi di una quercia
che per questo è stata chiamata Quercia del Pianto. Dio
appare un’altra volta a Giacobbe e lo benedice dicendo:

Il tuo nome è Giacobbe. Ma non ti chiamerai più Giacobbe:


Israele sarà il tuo nome. Io sono Dio l’Onnipotente. Sii fecon-
do e diventa numeroso; deriveranno da te una nazione e un
insieme di nazioni, e re usciranno dai tuoi fianchi. Darò a te
la terra che ho concesso ad Abramo e a Isacco e, dopo di te,
la darò alla tua stirpe (vv. 10-12).

Giacobbe erige allora una stele di pietra dove Dio gli


aveva parlato e su di essa fa una libagione e versa olio. Egli
chiama quel luogo Betel.

II racconto dell’arrivo a Betel fornisce l’ultima chiave


di lettura di tutta la storia di Giacobbe. Esso è costruito
ancora una volta con spezzoni di tradizioni diverse, ri-
guardanti l’origine del santuario di Betel. La tradizione
sacerdotale colloca a questo punto il cambiamento del
nome di Giacobbe in quello di Israele e il conferimento al
patriarca delle promesse fatte ad Abramo. Nel suo insieme
questo brano mostra che tutta la vicenda di Giacobbe è
stata guidata da Dio, il quale ha saputo servirsi dei limiti e
delle miserie del patriarca per attuare, proprio attraverso
di lui, il secondogenito, le promesse fatte ad Abramo.

2) La morte di Rachele (vv. 16-22)


Dopo la sosta a Betel, Giacobbe riparte per il Sud. Ra-
chele, la sua moglie prediletta, è incinta. Prima di arrivare
a Efrata, viene il momento del parto che appare subito dif-
116
ficile. Per incoraggiarla, la levatrice le dice: «Non temere:
anche questa volta avrai un figlio!». Ma Rachele non ce la
fa. Mentre sta per esalare l’ultimo respiro, alludendo alla
sua condizione, ella chiama suo figlio Ben-Oni (figlio del
mio dolore); ma Giacobbe, per evitare che questo nome
diventi per lui di cattivo augurio, lo cambia in Beniamino
(Ben Yamin, figlio della destra, cioè fortunato). Rachele
muore e viene sepolta lungo la strada verso Efrata, cioè
Betlemme. Giacobbe erige sulla sua tomba una stele che
esiste ancora oggi.

Questo episodio viene situato nei pressi di una località


chiamata Efrata, che si trova presso Rama (cfr. Ger 31,15;
1Sam 10,2), 9 km a nord di Gerusalemme. In seguito, que-
sta località sarà confusa con un’altra Efrata, situata presso
Betlemme, a sud di Gerusalemme (cfr. Mi 5,1), dove sarà
erroneamente localizzato il sepolcro di Rachele. Il nuovo
nome dato da Giacobbe al neonato rappresenta un segno
della speranza e della fiducia che egli ripone in Dio nono-
stante la prova che lo colpisce.
Dopo la morte di Rachele, Giacobbe riprende il suo
viaggio e pianta la tenda al di là di Migdal-Eder. Mentre
abita in quel territorio, Ruben si unisce con Bila, concubi-
na di suo padre, il quale lo viene a sapere ma non riprende
suo figlio. Ancora una volta appare l’ambiguità del perso-
naggio. Una critica al comportamento del figlio apparirà
solo nel testamento di Giacobbe (cfr. Gn 49,4).

e. Aggiunte (Gn 35,23–36,43)


A conclusione della sezione viene riportato un nuovo
elenco dei dodici figli di Giacobbe, fra i quali è ormai inclu-
so Beniamino ed esclusa Dina (Gn 35,23-26). Chiude la
storia il resoconto della morte di Isacco a Mamre, a Kiriat-
Arba, vicino a Ebron, dove Abramo e Isacco avevano sog-
117
giornato come forestieri. Isacco ha raggiunto l’età di cen-
tottant’anni. Lo seppelliscono i suoi figli Esaù e Giacobbe
(35,27-28).

Vengono inoltre riportate alcune notizie su Esaù


(36,1-43). Le sue tre mogli, Ada, Oolibama e Basmat, gli
partoriscono cinque figli. Poi Esaù prende con sé le mogli,
i figli e le figlie e tutti i suoi averi e va in una regione lon-
tana dal fratello Giacobbe. Infatti i loro possedimenti era-
no troppo grandi perché essi potessero abitare insieme, e
il territorio dove soggiornavano come forestieri non ba-
stava a sostenerli a causa del loro bestiame. Così Esaù si
stabilisce sulle montagne di Seir. Il narratore precisa che
Esaù è Edom, il progenitore degli edomiti.

Temi e spunti di riflessione


Mentre la fuga di Giacobbe era stata narrata per som-
mi capi, il suo ritorno in Canaan viene raccontato con nu-
merosi dettagli che ne mettono in luce il significato. Il nar-
ratore sottolinea come l'evento fosse provocato non da
cause contingenti, ma da una esplicita volontà divina che
prevedeva l'insediamento delle tribù israelitiche nella ter-
ra che era stata promessa ad Abramo e a suo padre Isacco.

1) Una scelta difficile


In Mesopotamia Giacobbe si era fatto una famiglia e
aveva conseguito un grande benessere. Egli aveva buoni
motivi per fermarsi in quella regione. È l'ostilità di suo
suocero Labano e dei suoi figli che lo spinge a ritornare
nella terra di Canaan. La decisione però non è facile per-
ché lì c'è ancora Esaù che aveva deciso di vendicarsi per
l'inganno subito. Perciò è Dio stesso che interviene per
farlo decidere e suggerisce a Labano di non fargli del male.

118
In realtà le cose vanno meglio del previsto ed Esaù ha ver-
so di lui un comportamento amichevole.

Anche per i giudei esuli in Mesopotamia la decisione di


ritornare nella propria terra comportava tutta una serie di
problemi difficili da risolvere. In primo luogo vi era la ne-
cessità di staccarsi da una terra nella quale spesso si era
ottenuto un certo benessere e da persone con le quali si
erano stabiliti legami anche di parentela. C’era poi
l’imprevisto di un viaggio pieno di incognite specialmente
perché della carovana facevano parte anche donne e bam-
bini. Infine suscitava problemi non indifferenti il fatto che
le popolazioni del luogo, con cui erano imparentati, non
avevano fatto le stesse esperienze, specialmente in campo
religioso. Solo la ferma convinzione secondo cui il ritorno
avrebbe provocato un bene più grande per tutto il popolo
poteva spingere gli esuli a mettersi in viaggio. In questa
situazione Giacobbe, nonostante tutte le sue titubanze,
rappresentava certamente un esempio da imitare.

2) Dio guida le vicende umane


Esistevano anche altri motivi che portavano a mettere
in dubbio la buona riuscita del ritorno nella terra promes-
sa. La mancanza di interventi diretti e miracolosi di Dio in
queste vicende poteva essere per i rimpatriati motivo di
disorientamento. Anche le manchevolezze dei capi delle
carovane che partivano dalla Mesopotamia potevano esse-
re viste come un ostacolo difficilmente superabile. La vi-
cenda di Giacobbe metteva in luce la necessità di avere
fiducia nella continua assistenza divina. La figura del pa-
triarca, pieno di timori e pronto a far ricorso a espedienti
umani, aiutava a prendere consapevolezza dei propri limi-
ti e soprattutto del fatto che Dio opera mediante esseri
umani deboli e limitati.
119
3) La lotta con Dio e la preghiera
Nel contesto della storia di Giacobbe è significativa
soprattutto la lotta con Dio. Questo episodio è importante
perché da esso proviene il nome del popolo. Alla sua luce
la vita di Giacobbe appare come una lotta nella quale ap-
pare tutta la sua debolezza. Egli è il secondogenito, usa la
furbizia invece del coraggio, si lascia condizionare dalla
madre e dalle mogli, non ha fiducia in suo fratello. È dispo-
sto a sacrificare una parte della sua famiglia pur di salvare
le persone a cui è più affezionato. Di fronte a lui Esaù è
una figura molto più significativa per fierezza e capacità di
perdono. Nonostante ciò Giacobbe risulta vincitore perché
Dio lo sceglie non per i suoi meriti ma perché così ha deci-
so nella sua imperscrutabile volontà di conferire una sal-
vezza a tutta l’umanità. Ancora una volta appare che Dio
non sceglie in base alle facoltà umane perché è proprio
con i più deboli che si manifesta la sua potenza. Non sce-
glie i migliori ma prende gli ultimi e li fa crescere. La lotta
con YHWH è stata interpretata impropriamente come una
metafora della preghiera con la quale si ottiene da Dio il
compimento della sua volontà (cfr. Rm 15,30).

* * *

Mentre la storia di Abramo aveva delineato un com-


plesso e profondo cammino di fede, le vicende di Giacobbe
mostrano come la storia della salvezza non elimini il gioco,
complesso e drammatico, di ambizioni umane, gelosie e
meschinità; ma, al tempo stesso, sottolineano come Dio sia
capace di servirsi anche del male per realizzare i suoi pro-
getti, trasformando uomini piccoli e deboli in autentici
strumenti di salvezza.
Lo sfondo è quello dell'esilio: esso non è stato sempli-
cemente una sventura, ma ha provocato benefici non in-
120
differenti se non altro a un certo settore della popolazione
che era stata deportata. Per molti giudei il ritorno era sta-
to o si prospettava come un grosso rischio per la loro stes-
sa sopravvivenza. La vicenda di Giacobbe rappresentava
un punto di riferimento per comprendere il significato di
un cammino umanamente senza prospettive. In esso gli
esuli potevano scoprire un progetto di salvezza che anda-
va ben al di là dei loro piccoli interessi materiali e li pone-
va al servizio del Dio dei loro padri per un bene che ri-
guardava tutta l'umanità.

121
IV
STORIA DI GIUSEPPE
(Gn 37,1–50,26)

Un terzo blocco di materiale narrativo riguardante i


patriarchi è presentato dal redattore finale della Genesi
come «tôledôt di Giacobbe» (37,2), cioè come storia della
sua famiglia e in particolare di Giuseppe. Questa sezione si
distacca dagli altri racconti patriarcali non solo per il suo
carattere unitario ma anche perché, nel suo nucleo origi-
nario, narra una vicenda totalmente umana, senza rivela-
zioni, comandi o interventi divini. Ciò non significa che Dio
sia assente nello svolgersi degli avvenimenti: il lettore co-
glie fin dall’inizio che è lui a guidare le azioni umane, ma la
sua opera è messa in luce attraverso gli eventi stessi, le
scelte giuste o sbagliate dei protagonisti, i loro sogni e le
loro riflessioni.
Per le sue caratteristiche letterarie, la storia di Giu-
seppe si presenta come un breve romanzo storico o una
lunga novella a sfondo sapienziale. La corrente sapienzia-
le, diversamente da quella di ispirazione profetica, rivolge
anzitutto la sua attenzione alle realtà della natura e della
vita umana. Essa non esclude Dio ma lo considera come
l'Essere supremo che ha dato origine all'universo e si ma-
nifesta nell'armonia del creato, senza bisogno di una par-
ticolare rivelazione. Proprio per questo la riflessione sa-
pienziale non è legata a un popolo o a una religione parti-
colari ma si rivolge a tutti gli uomini, specialmente ai gio-
vani, per insegnare loro ciò che è buono e utile per avere
successo e felicità nella vita. La sapienza si esprime prin-
cipalmente mediante massime (proverbi), che sono frutto
di osservazione e di esperienza. Non mancano però opere
122
più ampie ed elaborate come per esempio, nella Bibbia, il
libro di Giobbe o il Qohelet
La sapienza biblica ha significativi paralleli nella lette-
ratura dell'antico Medio Oriente. Per quanto riguarda la
storia di Giuseppe, il modello letterario che più le si avvi-
cina è uno scritto egiziano, composto tra il 1500 e il 1000
a.C., intitolato Racconto dei due fratelli. In esso si narra di
un giovane che resiste alla seduzione della moglie del
proprio fratello: costei, per timore che il fatto sia risaputo,
lo accusa presso il marito di tentato adulterio. Il giovane
allora è costretto a fuggire e inizia per lui una lunga serie
di avventure, in cui intervengono a più riprese personaggi
divini.
È difficile stabilire dove e quando la storia di Giuseppe
abbia avuto origine. Il racconto contiene forse i ricordi di
un gruppo di israeliti, residenti nella Palestina centrale,
che riconoscevano come loro antenati Efraim e Manasse,
figli di Giuseppe. Se così fosse, il racconto si sarebbe for-
mato nel regno del Nord e poi, dopo la caduta di Samaria
(722 a.C.), sarebbe stato trasmesso nel regno di Giuda. Ciò
è però difficilmente dimostrabile. L’atmosfera sapienziale
che vi si respira, l’apertura internazionale, l’interesse per i
luoghi e costumi dell’Egitto, tutto fa pensare che il raccon-
to, pur utilizzando ricordi arcaici, sia stato composto dopo
l’esilio.
Secondo la teoria documentaria, il racconto sarebbe
stato composto con materiale ricavato da due fonti diver-
se, una jahwista e l’altra elohista. Nel complesso però la
storia di Giuseppe si presenta come un’opera unitaria che
nel corso del tempo ha subito ritocchi e aggiunte. Special-
mente quando fu collegata alle tradizioni patriarcali, la
novella si arricchì di alcuni brani: la visione di Giacobbe
(Gn 46,1-5), la benedizione dei due figli di Giuseppe,
Efraim e Manasse (Gn 48,1-22), e il testamento di Giusep-
123
pe (Gn 50,23-25); in seguito furono inseriti nel racconto
due brani a esso estranei: la storia di Giuda (Gn 38), che
riguarda l’origine della tribù omonima, e le benedizioni di
Giacobbe (Gn 49,1-28), che adombrano anch’esse eventi di
carattere tribale; infine, al momento della redazione finale
della Genesi, furono fatte alcune aggiunte di carattere sa-
cerdotale, tendenti a presentare la storia di Giuseppe co-
me ponte tra l’epoca dei patriarchi e quella dell’esodo (cfr.
Gn 37,1-2; 41,46a; 46,6-27; 47,27b-28; 49,29-33).
Nella sua stesura attuale, la storia si sviluppa in due
momenti:

1. La famiglia di Giacobbe (Gn 37,2–38,30)


2. Giuseppe e i suoi fratelli (Gn 39,1–50,26).

1. LA FAMIGLIA DI GIACOBBE (Gn 37,2–38,30)

La sezione che vede come protagonista Giacobbe e i


suoi figli si può dividere in due parti: Giuseppe venduto
dai fratelli (Gn 37,1-36); la storia di Giuda (Gn 38,1-30).

a. Giuseppe venduto dai fratelli (Gn 37,1-36)


Giacobbe si stabilisce nella terra di Canaan dove suo
padre era stato forestiero. Suo figlio Giuseppe all’età di
diciassette anni pascolava il gregge con i suoi fratelli. Es-
sendo ancora giovane, stava con i figli di Bila e i figli di Zil-
pa, mogli di suo padre. Israele amava Giuseppe più di tutti
i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli ave-
va fatto una tunica a larghe maniche. I suoi fratelli, veden-
do che il loro padre amava lui più di tutti loro, lo odiavano
e non riuscivano a parlargli amichevolmente, anche per-
ché riferiva al padre quanto la gente diceva sul loro conto
(vv. 1-4).
124
L'odio dei fratelli aumenta quando Giuseppe fa un so-
gno che egli stesso racconta in questi termini: «Noi stava-
mo legando covoni in mezzo alla campagna, quand’ecco il
mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni si posero
attorno e si prostrarono davanti al mio». Allora i suoi fra-
telli gli dicono: «Vuoi forse regnare su di noi o ci vuoi do-
minare?». Egli fa un altro sogno e lo narra ai fratelli dicen-
do: «Il sole, la luna e undici stelle si prostravano davanti a
me». Ma il padre lo rimprovera dicendo: «Che sogno è
questo che hai fatto! Dovremo forse venire io, tua madre e
i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te?».
Questi sogni sono un chiaro espediente letterario con
il quale il narratore dà in anticipo il senso di tutta la storia,
mostrando che i fatti narrati sono preordinati da Dio. In
seguito ai sogni di Giuseppe i suoi fratelli diventano invi-
diosi di lui, mentre il padre tiene per sé la cosa (vv. 5-11).
Stranamente il narratore non ricorda che la madre di Giu-
seppe, Rachele, era morta e non nomina Beniamino di cui i
fratelli parleranno per la prima volta a Giuseppe in Egitto.

Un giorno, quando i suoi fratelli erano andati a pasco-


lare il gregge del padre a Sichem, Giacobbe manda Giu-
seppe da loro per vedere come stavano. Egli parte dalla
valle di Ebron e giunge a Sichem. Un uomo però gli dice
che essi avevano lasciato quel luogo ed erano andati a Do-
tan. Allora Giuseppe riparte per Dotan. I fratelli lo vedono
arrivare e, prima che giunga da loro, complottano contro
di lui dicendo: «Eccolo! È arrivato il sognatore. Orsù, ucci-
diamolo e gettiamo il suo corpo in una cisterna! Poi dire-
mo: “Una bestia feroce l’ha divorato!”. Così vedremo che
ne sarà dei suoi sogni!». Ma Ruben, volendo salvarlo e ri-
condurlo dal padre, interviene dicendo: «Non togliamogli
la vita. Gettiamolo invece in questa cisterna che si trova
nel deserto». Quando Giuseppe arriva presso di loro, essi
125
lo afferrano, lo spogliano della sua tunica a larghe maniche
e lo gettano in una cisterna vuota (vv. 12-24).
Poi si siedono per mangiare quando vedono arrivare
una carovana di ismaeliti provenienti da Galaad e diretti in
Egitto, con i cammelli carichi di resina, balsamo e làudano.
Allora Giuda dice ai fratelli: «Che guadagno c’è a uccidere
il nostro fratello e a coprire il suo sangue? Vendiamolo agli
ismaeliti e non facciamogli del male, perché è nostro fra-
tello e nostra carne». I suoi fratelli gli danno ascolto; essi
tirano su Giuseppe dalla cisterna e per venti sicli d’argento
lo vendono a questi mercanti i quali lo conducono in Egit-
to. Secondo un'aggiunta inserita nel testo sono invece dei
madianiti che estraggono Giuseppe e lo vendono agli
ismaeliti (vv. 25-28).
Quando Ruben torna alla cisterna non vi trova più
Giuseppe. Allora si straccia le vesti, torna dai suoi fratelli e
dice loro: «Il ragazzo non c’è più; e io, dove andrò?». Allora
prendono la tunica di Giuseppe, sgozzano un capro e in-
tingono la tunica nel sangue. Poi mandano al padre la tu-
nica con le larghe maniche con questo messaggio: «Ab-
biamo trovato questa; per favore, verifica se è la tunica di
tuo figlio o no». Egli la riconosce e dice: «È la tunica di mio
figlio! Una bestia feroce l’ha divorato. Giuseppe è stato
sbranato». Giacobbe allora si straccia le vesti, si pone una
tela di sacco attorno ai fianchi e fa lutto per molti giorni.
Tutti i figli e le figlie vengono a consolarlo, ma egli non
vuole essere consolato dicendo: «No, io scenderò in lutto
da mio figlio negli inferi». Intanto i madianiti (confusi qui
con gli ismaeliti) portano Giuseppe in Egitto e lo vendono
a Potifar, eunuco del faraone e comandante delle guardie
(vv. 29-36).
Il tentativo di eliminare il proprio fratello per motivi
di gelosia rappresenta il triste epilogo della vicenda di
Giacobbe che, a sua volta, aveva «soppiantato» il fratello
126
Esaù e si era arricchito alle spalle di Labano. Quello che ha
fatto agli altri ora si ripete nella sua stessa famiglia: il con-
to che deve pagare è veramente molto salato.

b. Intermezzo: la storia di Giuda (Gn 38,1-30)


Il narratore lascia da parte per un momento la vicenda
di Giuseppe e rivolge la sua attenzione a Giuda. Questi
aveva consigliato ai fratelli di non uccidere Giuseppe ma di
venderlo ai mercanti ismaeliti e successivamente prende-
rà posizione in favore di Beniamino di fronte a Giuseppe.
Di lui il narratore pensa che i lettori debbano sapere qual-
cosa di più. La sua storia però è un'aggiunta che non ha
nessun rapporto con quella di Giuseppe.
Giuda si separa dai suoi fratelli e si stabilisce ad Adul-
lam presso un uomo di nome Chira. Qui sposa una cananea
di nome Sua che gli dà tre figli: Er, Onan e Sela. Quando il
primogenito Er diventa grande, lo fa sposare con una don-
na del posto di nome Tamar. Ma egli muore senza figli. Se-
condo il narratore ciò avviene perché Er si era reso odioso
a YHWH (v. 7): si riflette qui l’antica concezione secondo cui
una grave disgrazia, come una morte prematura, deve per
forza essere causata da un peccato. Allora Giuda, in forza
della legge del levirato (cfr. Dt 25,5-10), dà la vedova al
suo secondogenito Onan, affinché generi un figlio al fratel-
lo defunto. Ma Onan, sapendo che la prole da lei generata
non sarebbe stata sua, evita di avere rapporti completi con
Tamar. Anche lui muore e il narratore commenta che ciò è
capitato perché egli era venuto meno a un dovere preciso
verso il fratello morto.
A questo punto Giuda avrebbe dovuto dare alla vedo-
va, il terzo dei suoi figli, Sela, ma, per timore che anche lui
facesse la stessa fine dei suoi fratelli, prende la scusa che è
ancora troppo giovane e rimanda Tamar a casa sua (vv. 8-
11).
127
Dopo un po’ di tempo muore la figlia di Sua, moglie di
Giuda. Questi compie i riti funebri, poi si reca con Chira, il
suo amico di Adullam, a Timna dove si trovava il suo greg-
ge: era il tempo della tosatura. La notizia giunge a Tamar
la quale si era resa conto che Sela era ormai cresciuto, ma
Giuda non si decideva a darglielo come marito. Ella dun-
que si toglie gli abiti vedovili, si copre il viso con un velo e
si pone a sedere all’ingresso di una località chiamata
Enaim, che si trova sulla strada per Timna. Quando Giuda,
passando di lì, la vede, la scambia per una prostituta e le
chiede di poter andare con lei. In cambio le promette un
capretto del gregge. Ella però gli chiede come pegno il suo
sigillo, il suo cordone e il bastone che ha in mano. Giuda
glieli dà e si unisce a lei, poi si alza e se ne va.
Dopo di ciò Tamar, che è rimasta incinta, si toglie il ve-
lo e riprende gli abiti vedovili. Intanto Giuda, per mezzo
del suo amico di Adullam, manda alla donna il capretto per
riprendere il pegno che le aveva dato, ma egli non la trova.
Domanda allora agli uomini di quel luogo dov’è quella
prostituta che stava a Enaim, sulla strada. Ma rispondono:
«Qui non c’è stata alcuna prostituta». Egli torna da Giuda e
gli dice che non l’ha trovata, anzi ha saputo che in quel
luogo non c’era alcuna prostituta. Allora Giuda dice: «Si
tenga quello che ha! Altrimenti ci esponiamo agli scherni.
Io le ho mandato questo capretto, ma lei non si è fatta tro-
vare» (vv. 12-23).

Circa tre mesi dopo, viene portata a Giuda la notizia


che Tamar, sua nuora, si è prostituita ed è rimasta incinta.
Giuda allora ordina: «Conducetela fuori e sia bruciata!».
Mentre veniva condotta fuori, ella manda a dire al suoce-
ro: «Io sono incinta dell’uomo a cui appartengono questi
oggetti. Per favore, verifica a chi appartengano questo
sigillo, questi cordoni e questo bastone». Giuda li ricono-
128
sce e dice: «Lei è più giusta di me: infatti, io non l’ho data a
mio figlio Sela». E non ha più rapporti con lei (vv. 24-26).
Quando giunge il momento del parto, Tamar si rende
conto di avere nel grembo due gemelli. Durante il parto,
uno di loro mette fuori una mano e la levatrice prende un
filo scarlatto e lo lega attorno alla sua mano. Egli poi ritira
la mano e viene alla luce suo fratello. Allora ella esclama:
«Come ti sei aperto una breccia?» e lo chiama Peres (brec-
cia). Poi esce suo fratello, che aveva il filo scarlatto alla
mano, e viene chiamato Zerach (comincia a risplendere)
(vv. 27-30). Anche questa volta il secondo dei due gemelli
prende il posto del primo.
Questo racconto è arcaico in quanto il matrimonio di
un israelita con una donna straniera non provoca nessun
problema sebbene si narri la nascita dei due capostipiti
della tribù di Giuda, a cui appartenevano gli esuli rimpa-
triati da Ciro. Onan è punito non per un generico rifiuto di
procreare ma perché, venendo meno al dovere del levira-
to, condanna all’estinzione la famiglia di suo fratello. An-
che Giuda, volendo risparmiare il terzo figlio, ha commes-
so lo stesso sbaglio. Tamar, invece, è riconosciuta come
«giusta» perché, pur senza essere israelita, ha messo a re-
pentaglio la propria vita per dare una discendenza al ma-
rito defunto. Tutto il racconto si comprende nella prospet-
tiva di quello che sarà il futuro della tribù di Giuda: Peres
(Fares), il secondo che è uscito per primo dal seno mater-
no soppiantando il fratello, sarà il progenitore di Davide
(cfr. Rt 5,18-22; 1Cr 2,5-15), dal quale un giorno nascerà il
Messia (Gn 49,8-12; cfr. Mt 1,3-6; Lc 3,31-33).
In tutto il racconto Dio non entra in campo e viene
nominato solo per dire che ha punito sia Er che Onan: per
il narratore la loro morte prematura non poteva spiegarsi
diversamente. Tuttavia per il lettore è importante render-
si conto che gli eventi sono guidati da Dio, nonostante gli
129
inizi non certo esemplari della tribù di Giuda e della dina-
stia davidica.

Temi e spunti di riflessione


La prima parte della storia di Giuseppe presenta un bi-
lancio fallimentare per quanto riguarda la famiglia di Gia-
cobbe e le origini della tribù di Giuda a cui appartenevano
gli esuli ritornati dalla Mesopotamia.

1) La famiglia di Giacobbe
La storia di Giacobbe è veramente sconcertante. Egli è
stato scelto a preferenza del fratello Esaù per essere il
progenitore del popolo promesso ad Abramo, che da lui
prende il nome di Israele. Egli però è un uomo debole, il
cui comportamento è molto problematico: all'inizio deno-
ta una forte dipendenza dalla madre, poi dimostra una
preferenza per una delle due mogli e infine ha un atteg-
giamento discriminatorio nei confronti dei figli.
La preferenza di Giacobbe per Giuseppe getta lo
scompiglio nella famiglia fino al punto di provocare un
tentato omicidio: in realtà è proprio lui la vera causa del
tentativo criminale dei figli. Presentandolo in questo mo-
do poco onorevole, il narratore vuol mostrare come, al di
là di qualsiasi dubbio, il popolo eletto non abbia avuto ori-
gine da uomini particolarmente virtuosi ma da una deci-
sione libera di Dio e quindi al di fuori di qualsiasi merito
da parte loro. Ciò era importante per gli esuli, che attri-
buivano le loro sventure ai peccati commessi da loro e dai
loro padri. Se da una parte Abramo è il modello di quella
fede che li avrebbe riportati nella terra promessa, i limiti
di Giacobbe li aiutano a non perdersi d’animo per le pro-
prie colpe. Nella sua misericordia Dio li ha accolti e ha
cancellato le loro colpe.

130
2) Il progenitore dei giudei
La vicenda di Giuda è ugualmente fallimentare. Egli
sposa una donna che non appartiene al suo popolo. Anche
al suo primogenito, che sarebbe stato il capo del clan, egli
sceglie una moglie straniera. Il suo secondo figlio non vuo-
le dare una discendenza al fratello defunto, dimostrando
così un eccesso di egoismo e, probabilmente il desiderio di
diventare lui il capo del clan. Giuda stesso è pronto a sacri-
ficare il diritto del primogenito di avere un discendente. In
questa storia appare chiaramente il ruolo della legge del
levirato, la cui applicazione era determinante per stabilire
gli equilibri all’interno della famiglia. L’unica che si salva è
Tamar, una straniera, che dimostra di essere fedele al ma-
rito defunto più di quanto lo fosse Giuda nei confronti del
suo primogenito. Ella però, per raggiungere il suo scopo, è
costretta a far ricorso a un incesto. Non è questo un titolo
d’onore per la tribù di Giuda e per il re Davide, discenden-
te di Peres (cfr. Rt 4,18-22), da cui dovrà nascere il Messia.

3) La legge del levirato


La vicenda di Giuda offre l’occasione per prendere in
considerazione la legge del levirato (dal latino levir, cogna-
to, in ebraico yabam), promulgata in Dt 25,5-10, ma la cui
pratica è attestata solo qui e nel libretto di Rut. Non è
chiaro che cosa implicasse realmente. Due aspetti però
sono importanti. Il primo è che essa è praticata dal fratello
del defunto non per interesse personale, ma per un auten-
tico amore fraterno. In secondo luogo risulta che la sua
osservanza, pur facendo parte di una struttura sociale
consolidata, non era obbligatoria: ciò giustifica in qualche
modo il comportamento di Giuda, il quale non le dà appli-
cazione. Nondimeno però la sua trasgressione è fonte di
vergogna e di biasimo.

131
2. GIUSEPPE E I SUOI FRATELLI (Gn 39,1–50,21)

Dopo la parentesi riguardante Giuda, riprende la sto-


ria di Giuseppe. Il testo è ripetitivo e ridondante. In esso è
significativo il ricorso al metodo sapienziale La sezione
abbraccia due momenti: Giuseppe alla corte del faraone
(Gn 39,1–41,57); i fratelli di Giuseppe in Egitto (Gn 42,1–
45,28). Seguono poi alcune aggiunte (Gn 46,1–50,21).

a. Giuseppe alla corte del faraone (Gn 39,1–41,57)


Arrivato in Egitto, Giuseppe è venduto come schiavo a
Potifar, un ufficiale del faraone. Lo aiuta negli affari facen-
dolo prosperare; diventa così suo intendente per diversi
anni. Un giorno Giuseppe rifiuta il corteggiamento della
moglie dell'ufficiale; accusato quindi ingiustamente dalla
donna, Giuseppe viene rinchiuso in prigione dove erano
detenuti i carcerati del re. Ma il Signore è con lui ed egli
ottiene il favore del guardiano che gli affida la gestione di
tutta la prigione (39,1-23).
Dopo un po’ di tempo, sono messi nella stessa prigione
il capo coppiere e il capo panettiere del re d’Egitto. Cia-
scuno di essi fa un sogno che racconta a Giuseppe, il quale
ne dà l’interpretazione, pronosticando a uno la liberazione
e all’altro la condanna. Le previsioni di Giuseppe si realiz-
zano: il capo panettiere è giustiziato e il capo coppiere ri-
torna alle sue mansioni (40,1-23).
Dopo due anni anche il faraone fa un sogno. Egli vede
prima sette vacche, belle e grasse, che escono dal Nilo e si
mettono a pascolare fra i giunchi; dopo di esse salgono al-
tre sette vacche, brutte e magre, che divorano le preceden-
ti. Successivamente vede sette spighe, grosse e belle, spun-
tare da un unico stelo; ma subito dopo spuntano altre set-
te spighe, vuote e arse dal vento d’Oriente, che inghiotti-
scono le precedenti. Al mattino il faraone convoca tutti gli
132
indovini e i saggi e racconta loro i suoi sogni, ma nessuno
li sa interpretare (41,1-8).
Allora il capo dei coppieri si ricorda di Giuseppe il
quale in carcere aveva interpretato il suo sogno e ne parla
al faraone. Questi lo convoca e gli racconta il sogno (41,9-
24). Giuseppe dice al faraone che si tratta di un unico so-
gno. Le sette vacche grasse rappresentano sette anni di
fecondità e di benessere mentre le sette vacche magre e
brutte rappresentano sette anni di carestia. Lo stesso si-
gnificato hanno le spighe belle in rapporto a quelle vuote.
Stanno dunque per venire sette anni in cui ci sarà grande
abbondanza in tutta la terra d’Egitto. A questi succede-
ranno sette anni di carestia che faranno dimenticare tutta
l’abbondanza precedente. Il fatto che il sogno si è ripetuto
due volte, aggiunge Giuseppe, significa che la cosa è decisa
da Dio il quale la eseguirà quanto prima (41,25-32).
Poi Giuseppe suggerisce al faraone di istituire com-
missari sul territorio, per prelevare un quinto sui prodotti
della terra d’Egitto durante i sette anni di abbondanza e di
tenerlo in deposito nelle città sotto l’autorità del faraone.
Questi viveri serviranno di riserva al paese per i sette anni
di carestia; così il paese non sarà distrutto. Per fare ciò gli
consiglia di trovare un uomo intelligente e saggio e di met-
terlo a capo della terra d’Egitto. (41,33-36).
Colpito dalla sapienza di Giuseppe, il faraone lo nomi-
na suo viceré, gli conferisce un nome egiziano, Zafnat-
Paneach («Dio parla ed egli vive»), e gli dà in moglie Ase-
nat, figlia di Potifera, sacerdote di On. Durante i sette anni
di abbondanza Giuseppe ammassa in ogni città una grande
quantità di frumento. Intanto gli nascono due figli: il pri-
mo lo chiama Manasse, dicendo: « Dio mi ha fatto dimen-
ticare ogni affanno e tutta la casa di mio padre». Al secon-
do dà nome Efraim, dicendo: «Dio mi ha reso fecondo nella
terra della mia afflizione». Dopo sette anni di abbondanza,
133
cominciano i sette anni di carestia e Giuseppe è in grado di
vendere grano non solo agli egiziani ma anche agli stra-
nieri (41,37-52).
Il successo di Giuseppe è presentato dal narratore co-
me effetto della sua saggezza. Ma è chiaro che essa pro-
viene da Dio, il quale la concede a chi vuole. D’altronde lo
stesso Giuseppe riconosce che, mediante il dono di inter-
pretare i sogni, Dio gli ha dato la possibilità di conoscere
in anticipo i suoi progetti.

b. I fratelli di Giuseppe in Egitto (Gn 42,1–45,28)


La carestia colpisce anche la terra di Canaan: quando
Giacobbe viene a sapere che in Egitto è in vendita del gra-
no, manda i suoi figli ad acquistarlo. Ma non permette che
vada con loro Beniamino, fratello di Giuseppe, per timore
che gli succeda qualche disgrazia: per la prima volta appa-
re nel racconto questo giovanetto al quale Giacobbe ha
trasferito la predilezione una volta riservata a Giuseppe
(42,1-5).
Quando giungono i suoi fratelli, Giuseppe li riconosce
e, senza manifestarsi, li accusa di essere spie. Per difen-
dersi essi dicono di essere dodici fratelli, dei quali il più
giovane è rimasto presso il padre e un altro non c’è più.
Giuseppe allora ordina loro di condurgli il fratello minore,
mentre uno di essi resterà come ostaggio. Il lettore può
capire fin d’ora che il suo scopo è quello di dare ai fratelli
la possibilità di compiere nei confronti di Beniamino ciò
che avevano fatto a lui, in modo da verificare se i loro sen-
timenti sono cambiati: in caso contrario, una vera riconci-
liazione non sarebbe possibile. Essi accettano, ma la situa-
zione provoca un amaro dialogo fra loro in cui attribui-
scono le attuali disavventure al torto fatto a Giuseppe
(42,6-23). Questi ascolta e si commuove. Poi sceglie fra
loro Simeone, lo fa incatenare sotto i loro occhi, dà loro le
134
provviste di grano e li congeda. Prima però fa mettere il
denaro di ciascuno nel suo sacco. Essi partono e, giunti a
casa, riferiscono a Giacobbe l’accaduto. Quando poi cia-
scuno trova nel sacco il proprio denaro, essi si impauri-
scono. Vorrebbero ritornare immediatamente con Benia-
mino in Egitto, ma Giacobbe si oppone (42,24-38).
Una volta terminate le provviste, Giacobbe si rassegna
a rimandare i suoi figli in Egitto con Beniamino. Al loro
arrivo, Giuseppe li tratta cordialmente ma, quando ripar-
tono, fa mettere nuovamente nei sacchi di ciascuno il suo
denaro e in più fa mettere la sua coppa d’argento in quello
di Beniamino. Poi li fa inseguire con l’accusa di aver porta-
to via la sua coppa. Quando questa si ritrova nel sacco di
Beniamino, essi tornano da Giuseppe e si dicono disposti a
diventare tutti suoi schiavi. Giuseppe rifiuta e dice di voler
trattenere solo il colpevole. Allora Giuda, che a suo tempo
aveva consigliato ai fratelli di vendere Giuseppe agli
ismaeliti, si fa innanzi e, dopo aver ricapitolato quanto era
capitato, conclude che non può tornare dal padre senza
Beniamino e si offre di restare lui in prigione al suo posto
(43,1–44,34).
Le parole di Giuda sono decisive: esse dimostrano che
nel cuore dei fratelli non ci sono più invidia e rancore, ma
un vivo senso di responsabilità verso il padre e verso tutta
la famiglia. Il fatto che essi, come risulta dal discorso di
Giuda, siano ora disposti a sacrificarsi personalmente
piuttosto che abbandonare Beniamino, è per Giuseppe una
sufficiente garanzia del loro pentimento. Perciò, dopo aver
ascoltato le parole di Giuda, Giuseppe manda via tutti i
presenti e si fa riconoscere dai suoi fratelli. Egli piange a
gran voce, chiede ancora notizie di suo padre e, siccome
essi sono atterriti, li rassicura spiegando loro che quanto è
avvenuto faceva parte di un piano di Dio che voleva salva-
re molta gente. Dopo averli rassicurati, Giuseppe dice ai
135
fratelli di ritornare dal padre e di condurlo in Egitto dove
troveranno sostentamento lui e tutta la sua famiglia. Sulle
prime Giacobbe non crede alle loro parole; poi si convince
e decide di andare in Egitto (45,1-28).
Le parole che Giuseppe rivolge ai suoi fratelli fanno
comprendere la morale di tutto il racconto. Dio ha per-
messo il male allo scopo di ricavarne un bene maggiore, e
ciò proprio a favore di coloro che lo compivano. Così fa-
cendo ha dimostrato in anticipo il suo perdono e la sua
benevolenza: quindi, se Giuseppe ora non volesse perdo-
narli, andrebbe contro la volontà stessa di Dio. Con questa
riflessione egli dimostra di essere un vero saggio perché
sa scoprire, dietro le vicende belle o brutte dell’esistenza
umana, una volontà superiore che orienta ogni cosa a un
fine di salvezza.

c. Aggiunte (Gn 46,1–50,21)


Al termine della novella, il redattore finale riporta al-
cuni brani il cui scopo è quello di collegare la vicenda di
Giuseppe con il grande complesso della storia patriarcale.
In essi si mescola materiale ricavato da diverse tradizioni.

1) Giacobbe in Egitto (Gn 46,1–47,31)


La decisione di recarsi in Egitto sembra presa da Gia-
cobbe per motivi puramente umani. Ma il Dio dei suoi pa-
dri interviene per confermare questa scelta, mostrando
che rientra in un progetto salvifico più grande (Gn 46,1-7):
è questo un primo collegamento della storia di Giuseppe
alle vicende patriarcali. Segue l’elenco dei settanta figli e
nipoti di Giacobbe che vengono a trovarsi con lui in Egitto
(46,8-27 = P; cfr. Es 1,5). Giacobbe e tutti i suoi arrivano al
paese di Gosen. Giuseppe va loro incontro e abbraccia
piangendo il vecchio padre (46,28-34). Egli presenta poi

136
cinque rappresentanti dei suoi fratelli al faraone, il quale
permette al clan di Giacobbe di rimanere nella terra di Go-
sen (Gn 47,1-12).

2) La politica agraria di Giuseppe (47,13-26).


Un lungo brano spiega poi i criteri a cui Giuseppe si è
ispirato nella sua amministrazione. Quando scoppia la ca-
restia egli vende il grano alla gente e in cambio raccoglie
tutto il denaro che si trovava nella terra d'Egitto e nella
terra di Canaan e lo consegna al faraone. Quando poi la
gente chiede altro pane, Giuseppe esige in cambio il loro
bestiame. Passato un altro anno, la gente non ha più nien-
te da dare in cambio per il grano di cui ha bisogno se non
il proprio terreno. Allora Giuseppe acquista per il faraone
tutto il terreno dell'Egitto, ad eccezione di quello dei sa-
cerdoti i quali avevano un'assegnazione fissa da parte del
faraone ed esige per il faraone, in cambio del seme che dà
loro, un quinto del raccolto. Così Giuseppe viene esaltato
dalla gente come un benefattore. Il narratore conclude os-
servando che proprio a Giuseppe risale la legge secondo
cui in tutti i territori dell'Egitto, ad eccezione di quelli dei
sacerdoti, la quinta parte spetta al faraone.

3) I figli di Giuseppe (47,27–48,22)


Intanto nel territorio di Gosen gli israeliti prosperano
e diventano molto numerosi; Giacobbe vive ancora dicias-
sette anni. Ormai vicino alla morte, chiama Giuseppe e gli
fa giurare di seppellirlo nel sepolcro dei suoi padri (Gn
47,27-31). Giuseppe porta con sé dal padre i suoi due figli
Manasse ed Efraim. Giacobbe allora li adotta come suoi
figli, preconizzando che saranno i capostipiti di due tribù
(48,1-7). Al momento della benedizione, Giuseppe li pre-
senta al padre in modo tale che Manasse, il maggiore, sia

137
alla sua destra ed Efraim, il minore, alla sinistra: al primo
spetta, infatti, la benedizione più efficace, quella data, cioè,
con la mano destra.
Ma Giacobbe, incrociando le braccia, pone la mano de-
stra sul capo di Efraim e la sinistra su quello di Manasse, e
così pronunzia la benedizione. Resosi conto dello scambio
di persone, Giuseppe cerca di far cambiare la posizione
delle mani, ma Giacobbe gli spiega che dal figlio minore
nascerà una discendenza più grande che dal maggiore. E
soggiunge: «Di voi si servirà Israele per benedire, dicendo:
Dio ti renda come Efraim e come Manasse!» (cfr. la bene-
dizione di Abramo in Gn 12,3b) (48,8-20). Poi dice a Giu-
seppe che Dio sarà con tutti loro e li farà tornare al paese
dei loro padri. Infine gli lascia in eredità un «dorso (šekem,
spalla) di monte», che aveva tolto agli amorrei (48,21-22;
cfr. Gn 33,18): con queste parole egli allude a Sichem, che
sarà il centro più importante delle tribù di Efraim e di Ma-
nasse (cfr. Gs 24,32). È questo un secondo aggancio della
storia di Giuseppe a quella dei patriarchi.

4) Benedizioni di Giacobbe (Gn 49,1-28)


A questo punto l’autore inserisce un’antica composi-
zione poetica in cui è riportata una serie di oracoli che,
sotto forma di benedizioni, preannunziano le vicende fu-
ture delle tribù (testi analoghi sono Dt 33; Gdc 5). Il gene-
re letterario è quello del testamento pronunziato da un
personaggio famoso prima della morte. A ciascuno dei
suoi figli Giacobbe annunzia quello che gli accadrà nei
tempi futuri. Fra tutti questi oracoli, i più significativi sono
quelli che riguardano Ruben, Simeone e Levi, Giuda e Giu-
seppe. Di Ruben Giacobbe dice che, benché sia il primoge-
nito, esuberante in fierezza e in forza, non avrà un posto
speciale fra i suoi fratelli, perché si è unito con la sua con-
cubina Bila (vv. 3-4; cfr. Gn 35,22).
138
Simeone e Levi vengono condannati per la violenza
con cui hanno vendicato l’offesa fatta a Dina (cfr. Gn
34,25-31). Giacobbe si dissocia da loro e annunzia che i
loro discendenti saranno dispersi in Israele (vv. 5-7). Di
fatto la tribù di Simeone scomparirà, mentre quella di Levi
sarà dedita al culto e quindi non otterrà un suo territorio:
l’origine delle prerogative proprie dei leviti saranno spie-
gate altrove (cfr. Es 32,25-29; Dt 33,8-11).
Una benedizione speciale è riservata a Giuda (vv. 8-
12). In questo testo è preannunziato il futuro primato del-
la tribù di Giuda, dovuto al fatto che a essa spetterà la re-
galità: questa promessa allude chiaramente alla dinastia
davidica, appartenente appunto a questa tribù. A Giuda è
assicurato il regno «finché verrà colui al quale esso appar-
tiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli» (v. 10b): è
questo il significato più probabile di una difficile espres-
sione ebraica che, così tradotta, preannunzia un futuro di-
scendente di Davide al quale apparterrà un regno di am-
piezza universale. La sua venuta inaugura un’epoca di
grandissima prosperità, attestata da una inconsueta pro-
duzione di vino, al punto tale che non crea problema il fat-
to di legare l’asinello alle viti: infatti anche se ne mangia le
foglie non riuscirà a distruggere la vigna. Questo testo an-
nunzia dunque non solo il sorgere della dinastia davidica,
ma anche i suoi futuri sviluppi messianici descritti dai
profeti (cfr. Is 11,1-9): all’origine di questa tematica si può
intravedere la promessa che Dio farà a Davide per mezzo
del profeta Natan (cfr. 2Sam 7,11b-12).
A Giuseppe è riservato l’oracolo più lungo (vv. 22-26),
nel quale si sottolinea la potenza del suo gruppo e la sua
superiorità sulle altre tribù. In esso è conservato forse il
nucleo più antico della composizione, che riflette un pe-
riodo in cui la supremazia non era ancora passata alla tri-
bù di Giuda. Nel complesso, la presentazione delle dodici
139
tribù d’Israele contenuta in questo testo rispecchia il pe-
riodo di Davide, anche se alcuni elementi sono forse ante-
riori alla monarchia e altri rispecchiano le attese sorte du-
rante l’esilio.

5) Morte di Giacobbe (Gn 49,29–50,14)


Giacobbe muore dopo aver chiesto di essere sepolto
presso i suoi padri nella caverna che si trova nel campo di
Macpela di fronte a Mamre, nel paese di Canaan, quella
stessa che Abramo aveva acquistato con il campo di Efron
l’hittita (Gn 49,29-33). Giuseppe piange suo padre e fa im-
balsamare il suo corpo: l’operazione dura quaranta giorni.
Gli egiziani lo piangono per settanta giorni, al termine dei
quali Giuseppe ottiene dal faraone il permesso di andare a
seppellirlo nel paese di Canaan (Gn 50,1-14).

6) Riconciliazione definitiva (Gn 50,15-26)


Dopo la morte di Giacobbe, si insinua nei fratelli di
Giuseppe il dubbio che questi li abbia trattati bene solo
per riguardo al loro padre. Essi perciò temono che ora egli
possa vendicarsi del male che gli avevano fatto e chiedono
nuovamente il suo perdono. Giuseppe però non usa questa
parola e non entra neppure in questo argomento ma ripe-
te loro quanto aveva detto in antecedenza (cfr. Gn 45,5-8).
Egli è convinto che la provvidenza divina guidi le vicende
di questo mondo. Se Dio si è servito di un male per rica-
varne un bene, a modo suo ha già giustificato i colpevoli: a
lui non resta altro da fare che prendere coscienza del pia-
no di Dio e adeguarsi a esso. Se volesse vendicarsi, Giu-
seppe andrebbe contro il volere di Dio e quindi si sostitui-
rebbe a lui. Al contrario, proprio lui, che è stato lo stru-
mento del piano divino, si prenderà cura di loro e dei loro
figli. In questo ragionamento si manifesta ancora una volta

140
una saggezza profondamente umana, che non ha bisogno
di rivelazioni o di ordini divini.
Giuseppe continua poi ad abitare in Egitto con la fami-
glia di suo padre: egli vive fino all’età di centodieci anni.
Così vede i figli di Efraim fino alla terza generazione e an-
che i figli di Machir, figlio di Manasse, nascono sulle sue
ginocchia (vv. 22-23). Infine anche per Giuseppe giunge il
momento di lasciare questo mondo. Egli allora dice ai suoi
fratelli: «Io sto per morire, ma Dio verrà certo a visitarvi e
vi farà uscire da questo paese verso il paese che ha giurato
di dare ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe» (v. 24). Con
queste parole, la vicenda di Giuseppe è ricollegata nuova-
mente alla storia dei patriarchi: Dio non è intervenuto
semplicemente per salvare una popolazione dalla rovina
ma per attuare le promesse fatte ad Abramo.
Ciò comporta però che i figli di Israele soggiornino per
un certo periodo in Egitto, dopo il quale la terra di Canaan
sarà effettivamente concessa ai loro discendenti (cfr. Gn
15,13-16). Inoltre Giuseppe fa giurare ai suoi fratelli che,
quando Dio li farà uscire dall’Egitto, porteranno con sé le
sue ossa. Poi anche Giuseppe muore all’età di centodieci
anni, viene imbalsamato e sepolto in Egitto (vv. 25-26).
Queste aggiunte danno alla storia di Giuseppe un’in-
terpretazione più profonda che si sovrappone all’origina-
ria riflessione sapienziale: attraverso di lui, Dio non si è
limitato a salvare dalla carestia un piccolo gruppo di pa-
stori seminomadi, ma ha preservato dalla rovina tutto il
popolo che in Abramo aveva scelto come strumento di una
salvezza universale. È precisamente questa la meta verso
cui si proietta la benedizione di Giuda (49,8-12). La fami-
glia di Giacobbe si trova ora in Egitto. Sarà questo il luogo
in cui si moltiplicherà prodigiosamente, fino a diventare
un grande popolo. Viene così preparato il terreno per il
dramma dell’oppressione, da cui prenderà l’avvio una
141
grande liberazione che farà dei figli di Israele il popolo
dell’alleanza.

Temi e spunti di riflessione


La storia di Giuseppe e dei suoi fratelli può essere letta
su due livelli, quello della ricerca sapienziale e quello della
storia della salvezza. Il primo risulta direttamente dalla
narrazione delle vicende che lo riguardano mentre il se-
condo viene messo in luce soprattutto nelle aggiunte che
sono state fatte a livello di redazione finale.

1) La religione di Giuseppe
Nella storia di Giuseppe, Dio non entra mai diretta-
mente in scena. Tuttavia è lui che guida le vicende di que-
sto mondo e manifesta i suoi progetti mediante sogni che
possono essere interpretati solo da chi egli vuole. Dio ap-
pare così come una potenza benefica che conduce a buon
fine i destini di tutta l’umanità, senza alcuna preclusione.
Giuseppe è un uomo religioso. Egli stesso afferma di «te-
mere Dio» (Gn 42,18). La sua fede però non gli impedisce
di inserirsi in una corte straniera, sposare una donna del
luogo, adattandosi anche a costumi paganeggianti come
quello di usare una coppa per la divinazione (cfr. Gn 44,5):
ben diverso sarà l’atteggiamento di Daniele alla corte ba-
bilonese (cfr. Dn 1,1-21).
Egli si trova a un crocevia fra religioni e culture diver-
se, tra le quali si muove con grande rispetto e adattamen-
to, senza con ciò abbandonare la sua fede nel Dio dei suoi
padri. Sa scoprire l'azione di Dio nelle circostanze con-
traddittorie della vita e sa saggiamente adeguarsi agli
eventi in cui è coinvolto. Il suo modo di intendere il rap-
porto con Dio può fornire un ottimo punto di partenza per
il dialogo interreligioso.

142
2) Un modello di saggezza
Nella storia di Giuseppe sono chiaramente riflesse le
caratteristiche tipiche della ricerca sapienziale. Egli è pre-
sentato come il modello del giovane saggio, esperto delle
cose di questo mondo. In lui si trovano in massimo grado
le virtù più apprezzate dai saggi: l’arte della parola, la di-
sciplina e la padronanza di sé. Esemplare, a questo propo-
sito, è il suo atteggiamento verso la donna tentatrice. Il
narratore afferma che YHWH era con Giuseppe e faceva riu-
scire tutto ciò che egli faceva: in tal modo egli sottolinea
come solo il senso religioso della vita comporti un vero
progresso per tutti.
La saggezza di Giuseppe appare soprattutto nel modo
di comportarsi con i fratelli: egli non porta verso di loro
nessun rancore, ma prima di perdonarli mette saggiamen-
te alla prova le loro disposizioni d’animo. Il suo compor-
tamento può essere preso come esempio quando si tratta
di comporre liti, recuperare chi compie azioni devianti o
riconciliare parti sociali in contrasto tra loro.

3) La carestia e le sue conseguenze


Il tema della carestia appare per ben tre volte nei rac-
conti patriarcali. Anzitutto è Abramo che, spinto da una
carestia, si reca in Egitto dove espone Sara alle brame del
faraone (Gn 12,10); in una situazione analoga, Isacco vor-
rebbe recarsi anche lui in Egitto ma deve desistere in se-
guito a un intervento divino (Gn 26,1-5). Infine è Giacobbe
che, in seguito a una carestia che colpisce non solo la terra
di Canaan ma anche l'Egitto, trova in questo paese cibo e
rifugio. Ancora oggi le carestie affliggono una gran parte
del pianeta; ad esse si aggiunga la desertificazione che
priva intere popolazioni dei mezzi di sostentamento ne-
cessari.

143
In questo contesto la politica agraria di Giuseppe viene
presentata in chiave positiva, come il tentativo di assicu-
rare a tutti l'esercizio di un diritto fondamentale, quello
dell'accesso al cibo necessario per la sussistenza propria e
della propria famiglia. Naturalmente il narratore non con-
sidera il risvolto negativo della sua politica, in forza della
quale un'intera popolazione viene privata della proprietà
delle sue terre e sottoposta all'arbitrio dello stato.

4) Giuseppe nella storia di Israele


Pur essendo presentato come il modello del giovane
saggio, Giuseppe è profondamente inserito nella storia di
Israele. Egli è il figlio prediletto di Giacobbe ed è il padre
di due figli che vengono adottati da Giacobbe. Essi dunque
sono capostipiti di altrettante tribù, le quali sono elencate
a pari diritto con le altre dieci, in quanto la tribù di Levi è
stata dedicata al culto e non ha avuto il possesso di una
parte della terra di Canaan.
La vicenda di Giuseppe fa da ponte tra la storia dei pa-
triarchi e quella dell’esodo in quanto spiega come mai i
figli di Israele si trovassero in Egitto e da lì siano stati libe-
rati per opera di Mosè (cfr. Gn 15,13-16). Egli è giunto in
Egitto non per sua volontà, ma è stato inviato da Dio stes-
so in quel paese per procurare la salvezza di tutto il popo-
lo (cfr. Gn 50,20). Giuseppe rappresenta le tribù di Israele
le quali non sono ritornate dall’esilio dopo essere state
deportate dagli assiri. Nonostante tutte le critiche rivolte
nella Bibbia agli abitanti del regno di Israele (cfr. in sintesi
2Re 17,7-23), essi rimangono israeliti a tutti gli effetti e
devono osservare nella diaspora i comandamenti della
Torah. La riunificazione di tutte le tribù sarà uno degli
eventi che caratterizzeranno la fine dei tempi.

***
144
La storia di Giuseppe, nella sua duplice valenza di rac-
conto sapienziale e di anello della storia della salvezza,
svolge un ruolo molto importante nella Bibbia in quanto
segna il punto di incontro tra la corrente sapienziale e
quella profetica. Nella persona di Giuseppe si compie un
forte processo interculturale e interreligioso, in forza del
quale la fede israelitica, pur mantenendo integra la sua
identità, si fonda armonicamente con la cultura egiziana.
Con il suo esempio egli mostra che i valori del Dio biblico
si possono trovare anche in una religione diversa. Il carat-
tere esclusivista che la religione giudaico-cristiana ha as-
sunto in diversi momenti della sua storia è nettamente
superato. La capacità di perdonare che Giuseppe ha dimo-
strato nei confronti dei suoi fratelli indica ancor oggi la
strada per sanare le ferite provenienti da sopraffazioni e
violenze e per impedire che i conflitti sociali provochino
odi e rancori insuperabili.

145
V
I PATRIARCHI NELLE RELIGIONI
ABRAMITICHE

La figura di Abramo occupa un posto centrale nelle tre


grandi religioni monoteiste: ebraismo, islam e cristiane-
simo. Esse riconoscono in lui non il fondatore, ma il loro
unico antenato e il modello da seguire in un cammino di
fede. Anche gli altri patriarchi sono ricordati come signifi-
cative figure di riferimento. È dunque importante, dopo
aver presentato il dato biblico, chiedersi in che modo que-
ste diverse tradizioni religiose hanno visto gli antenati
comuni.

1. L'EBRAISMO

Nell’ebraismo è riconosciuto ai patriarchi un posto di


primaria importanza. Nei libri biblici al di fuori della Ge-
nesi i patriarchi sono nominati abbastanza raramente e
sempre in riferimento al loro ruolo di progenitori del po-
polo eletto e di garanti dell'alleanza che YHWH ha concluso
con Israele.
Nella tradizione successiva invece si riprendono i trat-
ti biblici delle figure dei patriarchi e si cerca di completare
i racconti riguardanti le loro vicende colmando lacune e
chiarendo gli aspetti più problematici. L’attenzione dei
narratori si concentra soprattutto su Abramo di cui si rac-
contano i fatti che precedono la sua vocazione, viene ap-
profondito il racconto del sacrificio del figlio Isacco; so-
prattutto il patriarca è presentato come esempio di osser-
vanza della legge.
146
a. Il Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe
Nei libri canonici del Primo Testamento YHWH è spesso
chiamato: «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» (cfr. Es
3,6; 1Re 18,36). Egli ascolta il gemito degli israeliti e si ri-
corda della sua alleanza con i patriarchi (Es 2,24; cfr. 1Cr
16,16-18). A loro si è rivelato non con il suo nome di Si-
gnore (YHWH) ma come Dio l’Onnipotente (<El Shadday), ha
stabilito con loro la sua alleanza e ha promesso di dar loro
la terra di Canaan, nella quale farà entrare gli israeliti (Es
6,2-8). Quando viene a sapere che il popolo ha adorato il
vitello d’oro, Mosè prega Dio con queste parole: «Ricordati
di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giu-
rato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità
numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di
cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederan-
no per sempre”» (Es 32, 13; cfr. Lv 26,42).
Nel Deuteronomio viene spesso ricordato il giuramen-
to fatto ai patriarchi con il quale YHWH si è impegnato a da-
re la terra di Canaan agli israeliti (cfr. Dt 1,8; 29,12;
30,20). YHWH li ha scelti non perché fossero più forti e nu-
merosi di altri popoli ma perché ha voluto mantenere il
giuramento fatto ai loro padri (Dt 7,8). Essi sono «seme di
Abramo» (cfr. Is 41,8; Ger 33,26). Questi fu scelto (Ne 9,7)
redento (Is 29,28) e benedetto da Dio (Mi 7,20). Nel di-
scorso con cui apre il rito di rinnovamento dell’alleanza,
Giosuè ricorda in sintesi la storia dei patriarchi, sottoli-
neando che Abramo apparteneva a una famiglia i cui
membri servivano altri dèi (Gs 24,2-4). La storia dei
patriarchi viene ripresa nei salmi (cfr. Sal 105,8-11).
Giuditta incoraggia il popolo di Betulia ricordando
quanto Dio aveva fatto con Abramo, quali prove ha subito
Isacco e quello che è accaduto a Giacobbe in Mesopotamia,
quando pascolava le greggi di Labano, suo zio materno

147
(Gdt 8,26). Nel Deuteroisaia Abramo riceve l'appellativo di
«amico di Dio» (Is 41,8; cfr. Dn 3,35; Gc 2,21-23). Di lui si
dice: «Guardate ad Abramo, vostro padre, a Sara che vi ha
partorito; poiché io chiamai lui solo, lo benedissi e lo mol-
tiplicai» (Is 51,2). In Michea si legge questa preghiera:
«Conserverai a Giacobbe la tua fedeltà, ad Abramo il tuo
amore, come hai giurato ai nostri padri fin dai tempi anti-
chi» (Mi 7,20). Secondo Malachia Dio, riferendosi ai fatti
narrati nella Genesi, dice: «Vi ho amati. E voi dite: “Come ci
hai amati?”. Non era forse Esaù fratello di Giacobbe? Ep-
pure ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù» (Ml 1,2-3). In
Ger 9,3 si accenna al carattere di ingannatore attribuito a
Giacobbe, mentre in Os 12,13 si ricordano le sue peripezie
nella regione di Aram. Davide ricorda che tutto proviene
dalla mano del Signore «perché davanti a te noi siamo fo-
restieri residenti (gerîm wetôshebîm) come tutti i nostri
padri» (1Cr 29,15). La stessa espressione viene applicata a
se stesso dal salmista (Sal 39,13). Nel libro di Daniele Aza-
ria invoca la misericordia di Dio appellandosi al suo amore
per Abramo, Isacco e Israele, ai quali ha promesso di mol-
tiplicare la loro stirpe come le stelle del cielo e la sabbia
del mare (Dn 3,35-36).
I patriarchi sono dunque ricordati per il loro rapporto
speciale con Dio, in forza del quale i loro discendenti sono
stati scelti come popolo eletto. Perciò solo imitando il loro
esempio gli israeliti potranno ottenere il favore divino e
risiedere stabilmente, anche se come forestieri, nella terra
che era stata loro promessa.

b. Abramo prima della chiamata


Nei racconti riportati dalla Genesi non si dice nulla
della vita di Abramo prima della sua chiamata. Le tradi-
zioni successive si preoccupano di colmare questa lacuna,
descrivendo minuziosamente la prima parte della vita del
148
patriarca. Nel libro dei Giubilei si riprende tutta la storia
del mondo dalla creazione sino all'istituzione della Pasqua
(da Gn 1 a Es 12). L'infanzia e la giovinezza di Abramo so-
no esposte nei capitoli 11-12. Abramo, figlio di Terach, na-
sce nell'anno 1876 dalla creazione del mondo, in un'epoca
particolarmente critica per l'umanità. Una serie di catacli-
smi colpiscono infatti il mondo: idolatria, guerre, violenze
e anche carestie. A 14 anni (due volte sette!) Abramo sco-
pre la corruzione del mondo e decide di non adorare più i
falsi dèi. Tenta di convincere anche il padre ad abbando-
nare il culto degli idoli, ma invano. Decide allora di brucia-
re le loro statue. Il fratello Aran cerca di salvarle, ma muo-
re tra le fiamme. Ciò spiega la sua morte prematura segna-
lata dalla Bibbia (cfr. Gn 11,28).
Terach abbandona allora Ur dei Caldei con tutta la fa-
miglia per stabilirsi a Carran (cfr. Gn 11,31). Qui Abramo
invoca Dio per sapere che cosa deve fare: se rimanere a
Carran o ritornare a Ur. Dio gli risponde con le note parole
di Gn 12,1: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla
casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò».
Abramo lascia allora il padre per obbedire all'ingiunzione
di Dio.
Il commento midrashico Bereshit Rabba e la tradizio-
ne ebraica della haggada aggiungono alcuni particolari
inediti: Abramo sarebbe nato al tempo di Nimrod, proprio
dopo l'episodio della torre di Babele (cfr. Gn 11,1-9). Nim-
rod, ricordato in Gn 10,8, è un tiranno sanguinario e un
astrologo, che viene avvertito della futura nascita di
Abramo da numerosi fenomeni celesti; egli decide allora
di far sopprimere tutti i primogeniti del suo regno, ma
Abramo sfugge miracolosamente a tale massacro.
Allontanandosi dall'idolatria, il cui culto è promosso
da Nimrod, Abramo scopre il vero Dio. Le versioni diver-
gono circa il momento, il modo e il motivo di tale conver-
149
sione. Alcuni ritengono che Abramo abbia fatto questa
scoperta da giovanissimo, dopo essersi rifugiato in una
grotta nel deserto; altri, più numerosi, pensano invece che
il padre dei credenti abbia adorato gli astri prima di rico-
noscere a 48 anni l'unico vero Dio e creatore dell'universo.
Alcune tradizioni affermano che l'insegnamento gli è stato
trasmesso dalla famiglia sin dall'epoca di Noè e di Sem.
Altre tradizioni ritengono che Abramo sia giunto da solo
alla verità, contemplando il mondo e il cielo.
Una volta convertito, Abramo diventa araldo della ve-
ra fede e combatte gli idoli, distruggendoli e mettendoli in
ridicolo in quanto oggetti che non possono né parlare né
agire: egli avrebbe così adottato la linea seguita in diversi
testi biblici (cfr. Is 40,19-20; 41,6-7; Sap 13,11-19). Il pa-
dre stesso di Abramo, Terach, è costruttore di idoli al ser-
vizio di Nimrod e non è troppo incline a seguire il proprio
figlio, il quale viene scoperto, arrestato e gettato in una
fornace ardente proprio come capiterà a Daniele e ai suoi
compagni (cfr. Dn 3). Ma sfugge al castigo ed esce indenne
dalla fornace. In alcune leggende interviene l'arcangelo
Gabriele per salvare Abramo. Questa interpretazione è
frutto di una lettura midrashica di Gn 15,7 («lo sono il Si-
gnore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei») che gioca sul
fatto che il termine ebraico «Ur» può significare sia la città
di Ur (in Caldea), sia la fornace.
I procedimenti usati dalla tradizione midrashica sono
abbastanza chiari: essa ha ripreso alcuni elementi da altri
racconti o testi biblici per applicarli ad Abramo. Il suo de-
stino prefigura dunque quello di altri grandi personaggi,
come Mosè, Giobbe, Daniele e i suoi compagni. La tradi-
zione riprende anche elementi della predicazione dei pro-
feti, come la polemica del Deuteroisaia contro gli idoli. Lo
scopo di tale rilettura è di presentare Abramo come un
modello per tutti gli ebrei che vivono isolati in un mondo
150
governato da prìncipi gentili spesso ostili verso di loro. La
tradizione dei midrashîm vuole infondere ai membri di
Israele dispersi nel mondo ellenistico la certezza che essi
hanno un avvenire assicurato. L'obbedienza di Abramo è
la garanzia della sopravvivenza di Israele per sempre.

Per esaltare la figura di Abramo, l'autore del libro dei


Giubilei omette una serie di episodi meno gloriosi o più
compromettenti della storia del patriarca, come il suo
comportamento nei due episodi in cui Sara è rapita dal
faraone o da Abimelech, re di Gerar (cfr. Gn 12,10-20 e
20,1-18), l'intercessione di Abramo in favore di Sodoma
(cfr. Gn 18,22-33) e la storia di Lot e delle sue figlie (cfr.
Gn 19,30-38).

c. Il sacrificio di Isacco
Un altro tema ampiamente sfruttato nel giudaismo è
quello della prova che Abramo ha dovuto superare quan-
do gli è stato chiesto di sacrificare Isacco (Gn 22,1-19). Nel
libro dei Giubilei si evita la difficoltà suscitata dal fatto che
Dio «tenta» Abramo raccontando che il principe dei de-
moni chiamato Mastema scommette con Dio che il patriar-
ca è più attaccato al proprio figlio che a lui. Dio accetta la
sfida e così inizia la prova di Abramo (Giub 17; cfr. Gn
22,2). Chiaramente il libro dei Giubilei si è ispirato all'ini-
zio del libro di Giobbe (Gb 1,9-12). Sulla stessa linea i mi-
drashîm attribuiscono la tentazione a Mastema, il principe
dei demoni, o a satana o ad angeli invidiosi del patriarca
che ne mettono in dubbio la fedeltà e la dedizione al vero
Dio. Durante la prova, satana interviene a più riprese per
far fallire il patriarca. Sotto le spoglie di un vegliardo si
avvicina ad Abramo, interpella padre e figlio, giunge sino a
rivelare a Sara che Abramo va a sacrificare il loro unico
figlio. Tutti i suoi sforzi però sono vani.
151
La tradizione ebraica innova anche su un altro punto
essenziale. Mentre nel testo biblico il padre e il figlio anco-
ra bambino rimangono completamente in silenzio (cfr. Gn
22,9-10), secondo il Targum, Isacco era già adulto al mo-
mento del sacrificio. Abramo, ricevuto il comando divino,
avverte il figlio che prontamente accetta di essere sacrifi-
cato per poter ottenere al popolo di Israele la benedizione
promessa da Dio. Anzi, Isacco stesso chiede di essere sal-
damente legato per essere immolato al primo colpo: da
qui deriva l'appellativo di >Aqedah (legamento) dato a
questo evento. Infatti, se il padre lo avesse soltanto ferito,
Isacco sarebbe divenuto inadatto per un sacrificio rituale,
poiché la vittima dev'essere senza difetti, e una ferita era
considerata come un difetto (cfr. Lv 1,3; 3,1.6; 22,21-22).
Quando poi si trova con la faccia rivolta al cielo, ha una
visione di angeli e ode una voce che dice: «Ecco i miei due
unici: uno sacrifica e l’altro è sacrificato. Colui che sacrifica
non esita e colui che è sacrificato tende la gola» (cfr. Tg Gn
22,10). Il termine «figlio unico» (yahîd), che in Gn 22,2 si
riferisce a Isacco, è tradotto in greco agapêtos, amato. Se-
condo 1Mac 2,52 la fede che giustificò Abramo non è la
fiducia nella promessa divina ma l’obbedienza al comando
divino che gli imponeva di sacrificare il figlio Isacco.
L'obbedienza di Abramo trova dunque il suo equiva-
lente nella disponibilità e nella sottomissione del figlio.
Questi poi rappresenta Israele che è chiamato ad offrirsi a
Dio nell’obbedienza alla sua volontà. L’atto meritorio di
ambedue è una garanzia di fedeltà per tutte le generazioni
future del popolo d'Israele.

d. L'osservanza della legge


Alla fine del libro dei Giubilei si racconta che Abramo
riunisce figli e nipoti per rivolgere loro le sue ultime rac-
comandazioni (Giub 20-22). Egli insiste in particolare sul
152
rifiuto dell'idolatria e sulla fedele osservanza della Legge
di Dio, in particolare sulla celebrazione delle feste.
La tradizione rabbinica posteriore, nella Mishna e nel
Talmud, ha soltanto accentuato ciò che le generazioni pre-
cedenti avevano già messo in evidenza. Tra l'altro, essa fa
di Abramo un «rabbino» che avrebbe osservato la Legge
molto prima di Mosè. Abramo ha anche fatto il necessario
per salvare in anticipo il suo popolo. Così Dio consente al
suo popolo di attraversare il Mar Rosso (cfr. Es 14) perché
Abramo ha spaccato la legna per il sacrificio d'Isacco (cfr.
Gn 22,3). A motivo di Abramo, Dio ha dato la Legge a Mosè
(cfr. Es 19-24). Dio risparmia il suo popolo che ha adorato
il vitello d'oro (cfr. Es 32), perché Abramo è stato disposto
a sacrificare il proprio figlio (cfr. Gn 22) e per lo stesso
motivo Dio impedisce a Balaam di maledire Israele (cfr.
Nm 22- 24). Dio accompagna e nutre il suo popolo nel de-
serto, perché il patriarca ha offerto latte intero e latte ca-
gliato ai suoi ospiti divini (cfr. Gn 18,6) e si è comportato
in maniera esemplare verso di loro (cfr. Gn 18,1-16). In
primo piano dunque è messo il merito che Abramo si è ac-
quistato con la sua obbedienza (cfr. Giub 24,11; 12,19).

Infine Abramo è il primo convertito al vero Dio e il


primo missionario. Infatti egli riceve il compito di ricon-
durre tutti i gentili al culto del vero Dio. Il suo ruolo uni-
versale è ancora sottolineato in un altro modo. Abramo è
come la «pietra di fondazione» dell'universo. Dio crea
Adamo a motivo dei meriti di Abramo e quest'ultimo è in-
caricato di espiare la colpa del primo uomo. Se Dio non
manda più il diluvio per distruggere l'umanità perversa, è
ancora in considerazione di Abramo. Il suo ruolo in favore
dell'umanità è molteplice: egli guarisce i malati, insegna la
scienza ai re, guida le navi verso la sicurezza dei porti e
ottiene la pioggia per la terra.
153
Ma, in fin dei conti, la vera grandezza di Abramo viene
non da lui stesso, ma dalla Torah, la legge, che egli ha os-
servato scrupolosamente. Proprio perché predecessore di
Mosè e fedele osservante dei precetti divini, Abramo è un
esempio tanto onorato dalla tradizione rabbinica. Il suo
prestigio è di essere una finestra aperta sulla Legge di Mo-
sè. In un mondo dominato dalla cultura ellenistica, il rife-
rimento ad Abramo doveva aiutare il popolo ebraico a su-
perare la tentazione del sincretismo e a lottare per salva-
guardare la propria identità.

e. Abramo in veste ellenistica


Nell'ebraismo ellenistico, Abramo, più che un «rabbi-
no ante litteram», è un saggio, un erudito e un filosofo se-
condo l'ideale greco. Giuseppe Flavio e Filone di Alessan-
dria sono i principali testimoni di questa «ellenizzazione»
della figura del patriarca. Ma ancor prima di loro, gli ebrei
del mondo ellenistico, senza dubbio per rispondere alle
sfide di una cultura dominante largamente superiore in
molti settori, hanno fatto di Abramo un precursore nel
campo delle scienze e della virtù. Abramo è presentato a
volte come il creatore dell'astrologia caldea e il maestro
che ha formato i sacerdoti di Eliopoli. Il quarto libro dei
Maccabei insiste piuttosto sulla virtù di Abramo, che ha
unito ragione e religione secondo l'ideale greco. Egli do-
mina le sue passioni per obbedire alla ragione. Il suo
esempio ispira il comportamento della madre dei sette
figli martirizzati da Antioco la quale, seguendo il modello
di Abramo, li incoraggia a subire con coraggio il martirio
(4Mac 7,16-23; 8,1-11; cfr. 2Mac 7,1-42).
Giuseppe Flavio (I sec. d.C.) dedica 11 capitoli del I li-
bro delle sue Antichità giudaiche all'antenato di Israele
(1,7-17). Il suo scopo principale è apologetico: vuole di-
mostrare al mondo ellenistico l'eccellenza delle tradizioni
154
del suo popolo. Abramo è presentato da Giuseppe Flavio
come un filosofo e un erudito, dotato di grande saggezza e
virtù. Egli diviene monoteista contemplando gli astri: il
loro movimento lo convince che essi possono essere gui-
dati soltanto da uno spirito superiore. Facendo leva sul
grande interesse per l'astronomia che caratterizza il mon-
do ellenistico dell'epoca, soprattutto in Egitto, Giuseppe
Flavio presenta Abramo come un precursore nel mondo
delle scienze: insegna l'astrologia e l'aritmetica ai saggi
dell'Egitto, mentre ne corregge gli errori.
Anche Filone di Alessandria (I sec. d.C.) dipinge Abra-
mo con i tratti di un filosofo ellenistico. Nel suo libro De
Abrahamo egli sottolinea la fedeltà di Abramo alla legge
divina, ma per lui questa non è anzitutto la legge mosaica,
ma piuttosto la legge iscritta da Dio nella natura umana.
La legge divina è scoperta attraverso la contemplazione
filosofica (cfr. § 60). La migrazione di Abramo, descritta in
Gn 12,1-4, non è più presentata come un percorso geogra-
fico da Ur a Canaan ma come un itinerario spirituale (cfr. §
67). Abramo infatti si distacca dal mondo sensibile per ri-
trovare la sua «vera patria», cioè il mondo delle realtà di-
vine (cfr. § 77-78).

Il sacrificio di Isacco, sotto la penna di Filone, assume


una colorazione stoica. Abramo, infatti, accetta di sacrifi-
care Isacco, il cui nome significa «ridere - riso», che dun-
que evoca la gioia. Ciò vuol dire, per il filosofo di Alessan-
dria, che il patriarca è pronto a sacrificare tutto a Dio, an-
che la propria gioia, perché la vera gioia si trova soltanto
in lui (cfr. § 202). Tale ritratto ha molto in comune con
quello dei «terapeuti» che, secondo quanto riferisce il filo-
sofo nella sua Vita contemplativa, lasciano le città per vi-
vere nel deserto allo scopo di dedicarsi alla contemplazio-
ne dell'unico Dio.
155
Nel giudaismo dunque è riconosciuto ad Abramo un
posto centrale nei rapporti tra Dio e il suo popolo. Egli ha
conosciuto e osservato fedelmente la legge molto prima
che Mosè l'avesse proclamata; assicura e garantisce la sal-
vezza a tutti i suoi discendenti, perché ha in qualche modo
meritato per loro la benedizione nelle prove che ha subìto
e superato; è il padre dei credenti, ma anche il primo mis-
sionario della fede in un Dio unico e, per questo, diventa il
primo vero benefattore dell'umanità. In definitiva nella
figura di Abramo la tradizione ebraica esalta anzitutto gli
aspetti che ne fanno un precursore e un modello per gli
ebrei osservanti di tutte le epoche successive.

2. LA LETTERATURA CRISTIANA

La prima generazione cristiana ha riletto la figura di


Abramo alla luce di Cristo. Varie e ricche sono le riflessioni
che ne sono scaturite e che percorrono il Nuovo Testa-
mento: il patriarca è qualificato come l'antenato del popo-
lo d'Israele, ma di fronte alla novità portata da Gesù si fa
sempre più strada un interrogativo critico circa l'autentica
appartenenza alla discendenza di Abramo; le promesse a
lui fatte si illuminano e si ampliano in senso universale;
egli diventa il tipo del credente cristiano, colui che ha ad-
dirittura anticipato la fede in Gesù Cristo.

a. I vangeli sinottici
Nel più antico dei vangeli sinottici, quello di Marco, il
nome dei patriarchi appare solo una volta nell’espressione
«Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» (Mc 12,26). Ciò
non significa però che i racconti patriarcali siano scono-
sciuti. Marco infatti riporta tre volte un’allusione a Isacco.
La prima è contenuta nella scena del battesimo di Gesù
156
dove la voce dal cielo dà a Gesù l’appellativo di figlio
«amato» (agapêtos) (cfr. Mc 1,11 e par.). Questo aggettivo,
come si è visto, è la traduzione greca del termine «unico»
(yahîd), che viene attribuito a Isacco in Gn 22,2 e nella
tradizione giudaica. Lo stesso aggettivo viene ripreso nella
scena della trasfigurazione (Mc 9,7; Mt 17,5) e in quella
dei vignaioli omicidi (cfr. Mc 12,6; Lc 20,13).
Nei testi comuni a Matteo e Luca si deve notare la sua
presenza nella genealogia di Gesù, che in Matteo inizia
precisamente con Abramo (Mt 1,1-2), mentre in Luca risa-
le ad Adamo (Lc 3,34). Inoltre in ambedue viene riportata
la predicazione di Giovanni il Battista, il quale rimprovera
i giudei dicendo: «Fate opere di conversione e non comin-
ciate a dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per padre! Per-
ché io vi dico che Dio può far nascere figli a Abramo da
queste pietre» (Mt 3,8-9; Lc 3,8). L’appartenenza alla stir-
pe di Abramo non può da sé garantire la salvezza.
Secondo Matteo e Luca Gesù, lodando la fede del cen-
turione, aggiunge un commento in cui estende la salvezza
ai non israeliti: «Molti verranno da oriente e da occidente
e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel
regno dei cieli, ma i figli del regno saranno gettati fuori...»
(Mt 8,11; cfr. Lc 13,28).
Fra i testi propri al solo Luca, i due cantici che aprono
il vangelo presentano l'azione misericordiosa che Dio sta
compiendo come l'adempimento delle promesse fatte ad
Abramo. Maria afferma: «Ha soccorso Israele suo servo
ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso
ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza» (Lc
1,55). Anche Zaccaria esalta il compimento della promessa
giurata al patriarca: «Si è ricordato della sua santa allean-
za, del giuramento fatto ad Abramo nostro padre» (1,72).
Anche a lui, come ad Abramo, Dio ha promesso un figlio
(1,13) e, come avvenne per Isacco (cfr. Gn 17,19), anche in
157
questo caso Dio stabilisce in anticipo il nome del bambino:
«Lo chiamerai Giovanni», cioè YHWH fa grazia.
Sempre in Luca, nella parabola del ricco epulone (Lc
16,22-30), Lazzaro alla sua morte è accolto nel «seno di
Abramo» mentre il ricco precipita nell’inferno: due luoghi
tra i quali, secondo quanto Abramo stesso dichiara, è im-
possibile comunicare. Inoltre solo «ascoltando Mosè e i
profeti», cioè la Scrittura, si apre l'ingresso nella benedi-
zione promessa ad Abramo. A Zaccheo infine è assicurata
la salvezza in quanto, convertendosi, ha dimostrato di es-
sere vero figlio di Abramo (Lc 19,9). Il nome di Abramo
ritorna nel discorso che, secondo gli Atti degli apostoli,
Pietro fa agli abitanti di Gerusalemme dopo la guarigione
dello storpio: egli si rivolge a loro con l'appellativo di «figli
dell'alleanza» e annuncia che lo stesso Dio che ha concluso
il patto con Abramo ha ora «risuscitato» il suo servo Gesù,
che è venuto a «benedire» la «discendenza», secondo le
promesse fatte al patriarca (At 3,25-26).
In questi testi Abramo appare principalmente come il
progenitore del popolo giudaico, che da lui ha ereditato le
promesse che si sono attuate in Cristo.

b. L’epistolario paolino
Paolo vede nelle promesse fatte ad Abramo il prean-
nunzio della nuova economia instaurata da Cristo. Nella
lettera ai Galati, Paolo afferma che la giustificazione di
Abramo avvenne, come si legge in Gn 15,6, per mezzo del-
la fede, in forza della quale egli è modello di tutti coloro
che verranno giustificati. Sono genuini «figli di Abramo»
quanti sono guidati dalla fede. In questo senso Abramo è
stato fatto «padre di molti popoli»: ogni distinzione tra
giudei e gentili è esclusa. Paolo inoltre afferma che il ter-
mine «discendenza» (sperma), che è un singolare colletti-
vo, fa riferimento ad una sola persona, Cristo. Solo cre-
158
dendo in questa «discendenza» si entra in possesso della
benedizione annunciata al capostipite (GaI 3,6-29). Coloro
che si ostinano a cercare salvezza nella legge riflettono la
condizione di Ismaele, figlio della schiava; i credenti in
Cristo si richiamano al figlio della moglie libera, il figlio
della grazia (Gal 4,22-31).

Un discorso analogo è riportato in Rm 4, dove Paolo


interpreta la storia di Abramo alla luce di Cristo. Dio ha
stabilito con il patriarca un’alleanza, promettendogli «in
eredità il mondo», senza chiedergli contropartita, ma solo
un atto di fede nella sua promessa: egli dunque non ha
nessun motivo per vantarsi di fronte a Dio. Abramo è giu-
sto per questa fede che ha professato anche in condizioni
disperate: essa prefigura la fede di tutti i credenti in Cri-
sto. Un’allusione al sacrificio di Isacco si trova nel brano in
cui, per dimostrare la misericordia di Dio, Paolo si fa que-
sta domanda: se Dio non ha risparmiato il proprio figlio
ma lo ha dato per tutti noi, non ci darà ogni cosa insieme
con lui? (Rm 8,32).

Infine Paolo sottolinea come non tutti i discendenti di


Abramo siano suoi figli, ma solo quelli che provengono
dalla promessa perché rimanesse fermo il disegno divino
secondo cui l'elezione si basa non sulle opere, ma sulla vo-
lontà di Dio (Rm 9,6-9); anche Rebecca ha avuto due figli,
ma Dio ha amato Giacobbe e ha odiato Esaù (Rm 9,10-12;
cfr. Ml 1,2-3).

Per Paolo dunque la vicenda di Abramo e dei patriar-


chi è la dimostrazione della gratuità del dono di Dio, che si
può ricevere non mediante le opere ma solo per fede. In
questo, polemizzando con i giudaizzanti, egli si ricollega
all’ispirazione più profonda delle tradizioni patriarcali.
159
c. Gli scritti postpaolini
Al di fuori delle lettere paoline un riferimento esplicito
ad Abramo si trova nella lettera di Giacomo dove non si
esclude il ruolo della fede nella giustificazione di Abramo
ma si pone l'accento sulla cooperazione tra le opere e la
fede. Abramo è stato giustificato per la sua disponibilità a
sacrificare suo figlio. Giacomo qualifica questo gesto come
«opera» e conclude, rivolgendosi al lettore: «Vedi che la
fede cooperava insieme alle sue opere e che per le opere
quella fede divenne perfetta e si compì la Scrittura che di-
ce: Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia
e fu chiamato amico di Dio» (Gc 2,21-23). Un riferimento
ai patriarchi si trova anche in 1Pt dove i cristiani sono de-
finiti «stranieri residenti» (2,11).

La lettera agli Ebrei (7,1-10) vede nell'atto di omaggio


compiuto da Abramo verso Melchisedek il riconoscimento
di una misteriosa superiorità. In realtà, afferma l'autore
della lettera, questo personaggio è senza pari, superiore
allo stesso sacerdozio levitico, «senza padre, senza madre,
senza genealogia, egli non ha né inizio di giorni né fine
della vita ma, assimilato al Figlio di Dio, rimane sacerdote
in eterno» (Eb 7,3). Secondo questa interpretazione, che si
basa su Gn 14,17-20, ma suppone anche l'esegesi messia-
nica del Salmo 110,4, Melchisedek è figura di Cristo e il
fatto che Abramo gli offra la decima rappresenta un incon-
sapevole atto di fede nel Messia.
Nello stesso scritto è dato grande spazio ad Abramo
nella serie di personaggi testimoni della fede (Eb 11).

Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un


luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere
dove andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa
come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come
160
anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa.
Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui
architetto e costruttore è Dio stesso (vv. 9-10).

Egli mantenne tale fede anche nella più dura prova


chiestagli da Dio: l'ordine di immolare Isacco. Obbedendo
alla richiesta divina Abramo dimostrò di credere che Dio
può risuscitare i morti (Eb 11,17-19). La stessa fede ha
guidato anche gli altri patriarchi (Eb 11,20-22). Esaù inve-
ce viene presentato come un fornicatore e profanatore in
quanto, in cambio di una sola pietanza, vendette la sua
primogenitura e per questo fu privato della benedizione
(Eb 12,16-17).

d. La letteratura giovannea
Nel vangelo di Giovanni si trova un’unica allusione ad
Abramo. Gesù invita i presenti a diventare suoi discepoli
perché così conosceranno la verità e la verità li farà liberi.
A queste parole i giudei rispondono: «Noi siamo discen-
denti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno»
(Gv 8,33). Essi concepiscono questa prerogativa non come
un dono, ma come un possesso sicuro di cui gloriarsi e con
cui difendersi davanti alla novità proposta da Gesù. Questi
li contesta perché pretendono di essere figli di Abramo ma
«non fanno le opere di Abramo» (8,38-39). Alla libertà che
essi pretendono di avere in quanto figli del patriarca, Gesù
contrappone una libertà ottenuta mediante la verità, cioè
mediante la rivelazione personale di Dio nel Figlio suo.
Allora i giudei gli chiedono: «Sei tu più grande del no-
stro patriarca Abramo?» (8,53). Questa domanda offre a
Gesù l'occasione per fare del patriarca il più grande elogio:
«Abramo vostro padre esultò nella speranza di vedere il
mio giorno, lo vide e si rallegrò» (Gv 8,56). Non sappiamo
a che cosa si riferisca Gesù, ma le sue parole vogliono
161
semplicemente dire che lui è il vero discendente di Abra-
mo nel quale si attuano le promesse fatte al patriarca.
Nella figura di Abramo i primi cristiani hanno dunque
visto non tanto l'esempio dell’uomo che ha obbedito alla
volontà di Dio quanto piuttosto il modello della fede nelle
promesse di Dio. In forza di questa fede egli è diventato il
padre dei credenti in Cristo, non solo di coloro che prove-
nivano dal giudaismo ma anche di tutti i gentili. Proprio in
forza di questa fede chiunque può ottenere la giustifica-
zione ed entrare così nel popolo di Dio adunato da Gesù.

3. IL CORANO

Nel Corano si trovano diversi testi riguardanti i pa-


triarchi; essi riecheggiano normalmente le Scritture cano-
niche ebraiche e cristiane, ma a volte vi sono divergenze
notevoli. A esse si appellano i teologi musulmani per af-
fermare l'assoluta verità del Corano e l'imperfezione degli
altri Libri sacri.
Abramo (in arabo Ibrahim) è una delle massime figure
di profeta citate nel Corano. La sua storia è ricordata in 25
delle 114 sure di cui si compone il Libro; la sura 14 porta
il suo nome, «sura di Abramo», pur essendo dedicata an-
che ad altri personaggi e ad altri temi. Degli altri patriarchi
Giuseppe è l’unico del quale le vicende sono narrate per
esteso. A lui è dedicata tutta la sura 12, detta appunto «Su-
ra di Giuseppe», considerata come la più bella del Corano,
nella quale si segue il racconto biblico (Gn 37-50) soffer-
mandosi specialmente sui tentativi della padrona egiziana
di indurre Giuseppe a peccare. Di Abramo si ricordano di-
versi episodi della sua vita ma soprattutto sono messi in
luce la sua funzione profetica e il fatto di aver dato origine
al pellegrinaggio islamico.
162
a. La vita di Abramo
L'origine dei vari racconti dedicati ad Abramo è cer-
tamente biblica, diretta o indiretta; le fonti però sono state
trasformate nel corso di una lunga trasmissione orale che
ha incorporato diversi midrashîm. Numerosi cambiamenti
sono stati introdotti per rendere la sua figura più confor-
me al messaggio islamico.
Nel Corano si racconta che Abramo abbandona il pro-
prio paese per raggiungere la terra promessa, ma si insiste
sulla rottura drastica tra Abramo e il suo popolo, ancora
immerso nell’idolatria, che voleva ucciderlo, condannan-
dolo alla lapidazione (sura di Maria 19,41) oppure alla
morte sul rogo (sura dei Profeti 21,68). In questo modo il
Corano fa di Abramo una prefigurazione di Muhammad
che romperà il legame di sangue con i meccani e a sua vol-
ta se ne andrà e compirà l'egira.
Secondo la sura dei Profeti, Abramo riduce in pezzi tutti
gli idoli venerati dai suoi tranne il più grande. Quando gli
chiedono: «Sei stato tu, Abramo, che hai fatto questo ai
nostri dèi?» egli risponde: «No, è stato il più grande di lo-
ro. Interrogate questi idoli, se possono parlare». Essi allo-
ra gli dissero: «Sai bene che non parlano».

Allora Abramo disse: «Adorate chi non sa giovarvi né recarvi


danno, anziché Dio? Vergogna a voi e a quelli che adorate
anziché Dio. Non capite?» Gridarono: «Bruciatelo, e soccor-
rete i vostri dèi, se volete fare qualcosa». Ma Noi dicemmo:
«Fuoco, sii fresco e dolce per Abramo». Volevano fargli del
male ma Noi li rendemmo i massimi perdenti, e salvammo
lui e Lot nella terra benedetta da Noi per i mondi; gli abbia-
mo donato Isacco e Giacobbe e di tutti facemmo dei buoni,
delle guide che indicassero agli uomini il Nostro ordine. Ab-
biamo rivelato loro le buone azioni da fare, la preghiera da
compiere e l'elemosina da dispensare; essi adoravano sol-
tanto Noi (21,52-74).
163
In questo testo è nominato Isacco il figlio di Abramo,
nato da madre anziana e sterile; in molte ricorrenze si ri-
corda anche Ismaele, ma senza mai alludere alla sua nasci-
ta e tanto meno al ripudio di Agar su richiesta di Sara, né
all'espulsione di Ismaele dall'eredità di Abramo. In esso si
afferma semplicemente che Abramo e Ismaele giunsero
alla Mecca, restaurarono o costruirono l'edificio della
ka'ba, e insieme compirono un pellegrinaggio.
Nella sura detta della Vacca, la seconda, si legge:

Ricorda quando Abramo disse: «Signore mio, mostrami co-


me ridoni la vita ai morti». Dio disse: «Non sei credente?».
«Sì - rispose Abramo, - Te lo chiedo perché il mio cuore si
acquieti». Dio disse: «Prendi quattro uccelli e poi falli a pezzi
e metti un pezzo su ogni montagna, poi chiamali ed essi tor-
neranno di corsa da te. Sappi che Dio è potente e saggio»
(2,260).

In questo testo si allude all’episodio del patto di


Abramo con Dio, che prevedeva da parte di Abramo lo
smembramento di corpi animali, in particolare degli uccel-
li (cfr. Gn 15,9-11). Ma invece del rito solenne che segna
l'alleanza tra Abramo e il Signore, nel Corano il Signore
fornisce ad Abramo, restituendo quegli uccelli alla vita,
una prova della resurrezione finale. La scelta degli uccelli
non è casuale: infatti si armonizza con la vivificazione
dell'uccello d'argilla che, secondo gli apocrifi, è stata ope-
rata da Gesù allo stesso scopo (cfr. 3,49 e 5,110).
Il Corano ricorda anche la visita dei messaggeri divini
che annunziano la nascita di Isacco, senza però sottolinea-
re l’ospitalità di Abramo (Sura 11; cfr. Gn 18,1-16). Si ac-
cenna anche a diverse riprese all’intercessione di Abramo
non tanto per Sodoma quanto piuttosto per Lot e la sua
famiglia (sura 11,74-76; 15,57-60; 29,1-32; 51,31-36; cfr.
Gn 18,17-33). In sintesi viene anche menzionata la vicen-
164
da riguardante la distruzione di Sodoma, la liberazione di
Lot e la punizione di sua moglie (11,77-83; 27,54-58; cfr.
Gn 19,1-29).
Anche nel Corano si trova il racconto del sacrificio del
figlio (37,99-113; 2,124; cfr. Gn 22,1-1). Esso però si allon-
tana in diversi punti da quello riportato nella Bibbia: il pa-
triarca vede in sogno che sta immolando suo figlio; perciò
lo avverte ed egli accetta subito di essere sacrificato. En-
trambi «si sottomettono» all'ordine divino e Abramo, per
dimostrarlo, mette contro la terra la fronte del figlio; allo-
ra Dio interviene per mettere fine alla prova. È interessan-
te notare come il Corano, in questa sura come in altre, non
dica il nome del figlio che Abramo accetta di sacrificare. È
molto probabile che nei testi più antichi questi fosse Isac-
co, come nella Bibbia; ma più tardi egli sarà identificato
con Ismaele. Anche qui c'è uno strano parallelo tra la vita
di Abramo e quella di Maometto; infatti il profeta aveva un
figlio maschio di nome Ibrahim, che morì molto giovane.

b. Funzione profetica di Abramo


La vera peculiarità dell'Abramo islamico consiste nella
funzione profetica che gli è attribuita. Nonostante l’accen-
no fatto in Gn 20,7, nella Bibbia il patriarca non è presen-
tato come un profeta in senso proprio. Invece il Corano lo
inserisce in un sistema religioso in cui un compito speciale
è assegnato ai profeti. Secondo la visione islamica, l'unico
Dio ha creato gli uomini affinché gli rendano grazie e of-
frano un culto a lui soltanto. Ma essi sono incostanti, ne-
gligenti, pronti a dimenticare la loro vocazione monotei-
sta, e così continuamente nella storia si volgono all'adora-
zione degli idoli. Ma Dio, nella Sua clemenza e misericor-
dia, non ha smesso di ricordare all'umanità ciò cui è chia-
mata e ha inviato ai diversi popoli dei profeti, incaricati
ogni volta di restaurare i fondamenti del monoteismo ori-
165
ginario. Tale è anche la missione di Abramo, che si presen-
ta come uno degli anelli fondamentali di questa storia sa-
cra che culmina con l’invio di Muhammad il profeta dell'I-
slam.
Nella sura delle Donne, la quarta, Abramo è presentato
come amico di Dio, cioè khalil (cfr. Is 41,8; 2Cr 20,7; Gc
2,23), legato a lui da un vincolo profondo di intimità e fa-
miliarità. In questo passo Dio dichiara che non c'è religio-
ne migliore di quella di Abramo. Il termine arabo per indi-
care la religione è din, che nel lessico coranico non indica
una religione tra le altre ma l'Islam. In altri termini, la sura
delle Donne dichiara che aderire alla comunità religiosa di
Abramo, seguirne le orme, adeguarsi a essa equivale a os-
servare la religione islamica che si configura come un
«sottomettere il proprio volto a Dio». Ora, «sottomettere»
è in arabo aslama, il verbo da cui deriva islam, e indica una
sottomissione alla volontà di Dio con il cuore non umiliato
ma pacificato (si ricordi l'affinità semantica tra islam e sa-
lam o «pace»).
Nella prospettiva islamica, Abramo è dunque un mu-
sulmano. Di lui si dice: «Abramo non era né ebreo né cri-
stiano ma monoteista, era sottomesso a Dio e non era un
idolatra» (3,67). Ogni autentico convertito nella storia
dell'umanità, e a maggior ragione ogni profeta, non può
che essere, in qualche modo, un musulmano, parte inte-
grante della comunità islamica. Non deve quindi meravi-
gliare se il Corano fa anche di Giuseppe figlio di Giacobbe
un musulmano; nella sura che gli è intitolata, la dodicesi-
ma, Giuseppe prega Dio così: «Tu sei il mio patrono nella
vita terrena e nell'aldilà, fammi morire sottomesso a Te
(oppure: da musulmano)» ( 12,101).
Abramo rappresenta dunque uno stadio della religio-
ne che è anteriore alla Legge di Mosè e all'avvento di Gesù;
cosicché non può essere rivendicato né dagli ebrei né dai
166
cristiani. Questo carattere per così dire pre-confessionale
o sovra-confessionale di Abramo si trasmette, secondo il
Corano, anche alla sua discendenza; come si legge nella
sura della Vacca: «Pretendete che Abramo e Ismaele e
Isacco e Giacobbe e le dodici tribù fossero ebrei o cristia-
ni? Di' loro ancora: "Ne sapete più voi di Dio?"» (2,140).

c. Il pellegrinaggio islamico
Il Corano afferma che la ka'ba, il tempio della Mecca, è
stata ricostruita da Abramo che, insieme a Ismaele, la tolse
al culto politeista ripristinando il culto monoteista (2,125-
129). In tal modo, la figura di Abramo si trova intimamen-
te legata ai riti islamici del pellegrinaggio canonico o hajj,
che è uno dei «cinque pilastri dell'Islam» e rappresenta un
obbligo individuale del musulmano. Nella storia sacra
scandita dal clemente invio dei profeti alle varie comunità,
ogni ciclo profetico riecheggia il ciclo islamico, cioè le vi-
cende di Muhammad e dei primi musulmani. Ed è soprat-
tutto a proposito del pellegrinaggio che Abramo appare
come una retroproiezione di Muhammad in quanto ha
compiuto nel passato ciò che Muhammad eseguirà nuo-
vamente nell'ultima fase della storia sacra. Abramo aveva
pregato Dio di inviare alla Mecca un profeta arabo: «Si-
gnore nostro, fa' che vi sia tra loro un inviato, uno di loro
(... )» (2,129). E la nascita di Muhammad fu la risposta alla
sua preghiera.
Secondo la dottrina islamica, il sacrificio dei montoni,
previsto per il decimo giorno del mese del Pellegrinaggio,
quello che i musulmani in tutto il mondo compiono con-
temporaneamente ai pellegrini, evoca l'immolazione del-
l'animale che la provvidenza sostituì al figlio di Abramo.
Anche il rito della lapidazione del demonio, che lo prece-
de, corrisponde al rifiuto che il profeta ha opposto alla
tentazione di satana che gli suggeriva di rinunciare all'atto
167
sacrificale. Altri riti del cosiddetto «pellegrinaggio mino-
re», da compiersi al di fuori del mese canonico, corrispon-
dono ad alcuni racconti, non coranici ma assai popolari,
sull'arrivo di Ismaele e di Agar alla Mecca e alla loro prov-
videnziale salvezza grazie allo sgorgare di una fonte.
L'importanza di Abramo nel sistema dottrinale dell'I-
slam non va sottovalutata. Di lui si mette in luce soprattut-
to la qualità di profeta che preannunzia la venuta di Mao-
metto, che rivive nella sua vita varie situazioni tipiche del
patriarca. Come tutti i profeti Abramo non appartiene né
all’ebraismo né al cristianesimo, ma è già un musulmano.

***
I racconti che hanno come protagonisti Abramo e gli
altri patriarchi hanno svolto un ruolo determinante nelle
tre religioni «abramitiche». Ciascuna di esse ha sottolinea-
to un aspetto diverso della loro esperienza religiosa. Gli
ebrei hanno messo in luce maggiormente la loro obbe-
dienza a Dio nell'osservanza della legge, i cristiani hanno
dato più importanza al loro cammino di fede, i musulmani
hanno visto in loro dei profeti che hanno prefigurato e in-
carnato i tratti caratteristici dell'Islam.
Al di là di queste diversità, però, i patriarchi restano
portatori di valori condivisi dai credenti della maggior
parte dell'umanità. Soprattutto il loro modo di rapportarsi
a Dio indica la strada maestra per superare quell'esclusi-
vismo di cui tante volte si sono macchiate proprio le reli-
gioni che a essi si rifanno.
È dunque importante che a queste figure di antichi
uomini di Dio si faccia riferimento nel dialogo fra le tre
religioni abramitiche per favorire quella pace tra le reli-
gioni da cui dipende in gran parte la pace nel mondo.

168
VI
CONCLUSIONE

Nel contesto del ritorno dei giudei in Palestina al ter-


mine dell'esilio babilonese nasce l'interesse per gli antichi
progenitori di Israele, i quali sono fatti oggetto di un’atten-
zione privilegiata da parte di Dio. È lui che prende l'inizia-
tiva e porta a compimento un progetto di dimensioni uni-
versali. Dai patriarchi è richiesta una fede che consiste es-
senzialmente nel saper accogliere il progetto di Dio e nel
farsene carico con fedeltà e fiducia. La loro chiamata li
mette in cammino con determinazione verso una meta an-
cora lontana, ma questo non risparmia loro errori e con-
traddizioni, faticosi confronti e dure lotte, ad analogia di
quanto dovevano sostenere i giudei ritornati dall’esilio

La vocazione di Abramo segna una svolta decisiva nel


racconto della Genesi. Egli viene separato da un’umanità
di cui è stata appena narrata la degenerazione progressiva
ed è coinvolto in un rapporto specialissimo con l’unico
Dio. Tuttavia gli viene affidata una responsabilità nei con-
fronti di tutte le genti, con le quali mantiene un rapporto a
volte difficile e contraddittorio. Per esse, egli sarà una be-
nedizione, ma riceve lui stesso la benedizione da parte di
Melchidesek, un re e sacerdote cananeo, (Gn 14,19-20);
deve insegnare ai suoi figli ad agire con giustizia e diritto
(18,19), ma al tempo stesso intercede senza successo per
una popolazione destinata alla rovina; sarà padre di molti
popoli, ma riceve una lezione di moralità dal faraone
d’Egitto e da Abimelec, re di Gerar. Egli è il capostipite del
popolo di Israele, ma anche degli ismaeliti, degli edomiti e
di numerosi altri popoli. Sia Giacobbe in Mesopotamia, sia
169
suo figlio Giuseppe in Egitto trovano accoglienza presso
nazioni straniere mentre sono in lotta con i membri del
loro stesso clan.
Ad Abramo Dio fa alcune promesse che saranno ripe-
tute frequentemente nel resto del libro: egli sarà benedet-
to da Dio, diventerà capostipite di un grande popolo, i suoi
discendenti possederanno la terra di Canaan (Gn 12,1-3).
Queste promesse si attueranno in ritardo e solo parzial-
mente al tempo dei patriarchi. Abramo si è messo in cam-
mino con la sola sicurezza che gli proveniva dalla parola di
Dio e, tra alti e bassi, slanci e defezioni, è arrivato a capire
che la sua piena attuazione si situa in un futuro che tra-
scende ogni previsione umana. Giacobbe ha dovuto lottare
prima di ottenere la primogenitura e Giuseppe è stato
strumento di una salvezza che solo in futuro raggiungerà
la sua pienezza. Tutto ciò non poteva non essere fonte di
ispirazione per i loro lontani discendenti che, dopo la dura
esperienza dell’esilio, si ritrovavano nuovamente come
forestieri nella loro terra. Anche per loro l’attuazione delle
promesse si situa in un futuro imprevedibile.
L’incontro con Dio si attua nel contesto di un’alleanza.
Questo tema porta con sé una forte carica messianica, per-
ché implica che Dio stesso si impegna a costruire, per e
con il suo eletto, un avvenire migliore. L’esperienza di una
presenza attiva e costante di Dio non esclude il confronto
e la lotta. Il sacrificio di Isacco, che Dio richiede ad Abra-
mo, rappresenta una sfida al di là di ogni comprensione
umana: nonostante il lieto fine, questo episodio fa com-
prendere come Dio si aspetti da Israele un dono totale, di
cui i sacrifici del tempio saranno un simbolo inadeguato.
Giacobbe diventa Israele solo in seguito a un aspro con-
fronto con Dio, dal quale esce malconcio e zoppicante.
In questo quadro complesso e a volte contraddittorio,
emerge in primo piano la figura di Giuda che, proprio da
170
una donna pagana più «giusta» di lui (Gn 38,26), ottiene
due figli che gli assicureranno una discendenza. Pur aven-
do salvato da morte Giuseppe (Gn 37,26), egli si sente
responsabile del suo destino, ma poi si adopera per evita-
re che Beniamino finisca la sua vita come schiavo in Egitto
(Gn 44,18): ciò che lo ispira è la lealtà verso Israele suo
padre, e quindi verso il popolo che porterà questo nome. A
lui perciò Giacobbe assegna la funzione regale in Israele,
che si attuerà mediante un suo lontano discendente, Davi-
de. Proprio questa profezia di Giacobbe morente, che
esplicita in chiave messianica la promessa fatta inizial-
mente alla discendenza della donna (Gn 3,15), mette in
luce la tensione, propria di tutti i racconti patriarcali, ver-
so un futuro nel quale le promesse di Dio si compiranno in
modo pieno.
Alla luce delle vicende patriarcali, i giudei ritornati
dall’esilio potevano interpretare senza difficoltà la loro
esperienza e il loro destino. Anch’essi si sentivano deposi-
tari di una promessa legata a un’alleanza più antica di
quella del Sinai, l’alleanza con Abramo (cfr. Gn 15,7-21;
17,1-27). Questa si era già attuata in parte con il ritorno
degli esuli nella loro terra, ma presto avrebbe raggiunto il
suo compimento perché, diversamente da quella del Sinai,
era incondizionata. In un periodo in cui la dinastia davidi-
ca era ormai scomparsa, i giudei fondavano sulle promes-
se fatte a Giuda (49,10-11) l’attesa di un suo lontano di-
scendente che avrebbe regnato su tutte le nazioni
all’interno di un mondo rinnovato. Anche il popolo di
Israele, come i patriarchi, trova il suo significato in qualco-
sa di più grande che ancora non conosce e non può preve-
dere, ma che attende con fiducia da Dio.
La seconda parte della Genesi, pur concentrando
l’attenzione sui progenitori di un popolo particolare, non
rinunzia dunque all’orizzonte universalistico che era pro-
171
prio della storia primordiale. Tutta l’umanità è destinata-
ria della salvezza offerta ai patriarchi e la stessa chiamata
di Abramo e del popolo che da lui nascerà ha lo scopo di
portare una benedizione a tutte le nazioni. Per gli esuli,
che ritornano nella loro terra dopo essere stati dispersi in
mezzo ad altri popoli, ciò comporta la consapevolezza di
una responsabilità non solo verso i propri connazionali,
ma verso tutto il mondo.
L'esperienza di fede dei patriarchi, pur con tutti i con-
dizionamenti propri della cultura di coloro che l'hanno
raccontata, resta perciò ancora oggi un punto di riferimen-
to per milioni di credenti, siano essi seguaci di una deter-
minata religione o liberi ricercatori di verità, desiderosi di
dare un senso alla loro vita.

172
Bibliografia

Alonso Schökel L., Dov’è tuo fratello? (Biblioteca di Cultura


Religiosa), Paideia, Brescia 1987.
Alter R., L’arte della narrativa biblica, Queriniana, Brescia
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di esegesi e teologia, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo
1991, pp. 419-434.
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seppe, in Id., Il libro sigillato e il libro aperto, Dehonia-
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173
Tottoli R., I profeti biblici nella tradizione islamica (Studi
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scia 21978.
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Zappella L., Manuale di analisi narrativa biblica, Claudiana,
Torino 2014.
Zilio Grandi I., Abramo nel Corano e nella tradizione islami-
ca, in Egitto Copto (22/12/2010).

174
CRONOLOGIA BIBLICA

2050 III dinastia di Ur (sumeri)


2000 Migrazione degli amorrei (semiti occidentali)
• Mari, sul medio Eufrate (1950)
• Regno assiro antico (1850-1780)
• Regno babilonese (I dinastia: 1830); Hammura-
bi (1750).

1800 Espansione degli hurriti nella Mesopotamia sett.


Regno del Mitanni (1500-1400)
1400 Rinascita degli ittiti in Mesopotamia sett. ed espan-
sione in Siria Palestina
Regno di Suppiluliuma I (1370-1336)
1100 Migrazione degli aramei (Siria)
1720 Gli hyksos in Egitto (capitale Tanis)
1550 Egitto: Cacciata degli hyksos
• Tutmosi III (1468-1436)
• Amenofis IV-Akhenaton (1372-1354): culto di
Aton, capitale Akhetaton (Tell el Amarna). Con-
trollo egiziano sulla Siria Palestina
• Tutankamon (1347-1338 a.C.): restaurazione.
1304 Egitto: XIX dinastia
• Seti I (1304-1229 a.C.
• Ramses II (1290-1224 a.C.): con capitale Pi-
Ramses, nel delta del Nilo.
1250 Esodo degli israeliti dall'Egitto e ingresso in Pale-
stina (?)
1030-110 Regno di Saul
1010-970 Regno di Davide
970-930 Regno di Salomone
930 Separazione dei regni di Israele e di Giuda

175
722 Caduta di Samaria sotto gli assiri. Deportazione
622 Ritrovamento del «Libro della legge» (Deuterono-
mio) da parte del re Giosia (?)
597 Caduta di Gerusalemme e prima deportazione
587 Caduta e distruzione di Gerusalemme e del tempio
– Seconda deportazione. Esilio
538-333 Impero persiano
538 Editto di Ciro - Ritorno dei giudei in Palestina
515 Ricostruzione del tempio di Gerusalemme
458 Missione di Esdra (se Esd 7,7 si riferisce al 7° anno
di Artaserse I)
445 Prima missione di Neemia
423 Seconda missione di Neemia
428 Missione di Esdra
(se in Esd 7,7 si legge anno 37° invece di 7°)
398 Missione di Esdra
(se Esd 7,7 si parla di Artaserse II)
333 Alessandro Magno conquista la Palestina
Inizio dell'epoca ellenistica
323 La Palestina sotto il dominio dei Lagidi (Egitto)
200 La Palestina sotto il dominio dei Seleucidi (Siria)
167-164 Persecuzione di Antioco IV e rivolta dei Maccabei
63 La Palestina sotto il dominio romano
37-4 Regno di Erode il Grande

176
177
178
179
180
Indice dei temi principali

acqua, 11, 28, 43, 67-68, 75, esuli, 13, 15, 27, 37-38, 40,
88, 89 119, 121, 129-130, 171-172
alleanza, 14-15, 18, 27, 39, 40- famiglia, 8-9, 10, 20, 25-26, 31,
42, 45-51, 64, 68-69, 89, 45, 52, 55, 59, 63-64, 80, 83-
109, 142, 146-147, 157-159, 84, 90, 93-94, 100, 103,
164, 170-171 105-107, 110, 112, 118,
amore, 22, 93, 99, 131, 148 120, 122, 124, 127, 129-
benedizione, 17-18, 25-26, 28, 131, 135, 141, 144, 147,
32, 34-35, 36-38, 47, 76, 81, 149-150, 164
84, 88, 90-93, 95, 112, 123, fecondità, 76, 106, 133
137-139, 141, 152, 156, fede, 7, 8, 22-25, 28, 30, 36-38,
158-159, 161, 169, 172 42, 45, 47-50, 64-65, 72, 78-
benessere, 11, 32, 38, 91, 104, 79, 81, 87, 109, 112, 120,
106, 118-119, 133 130, 142, 145, 146, 150,
carestia, 9, 15, 28, 86, 133-134, 152, 156-162, 169, 172, 174
137, 141, 143 figli, 9, 14-15, 18, 24, 39, 43,
castigo, 56, 58, 65, 150 55, 58, 60-61, 64, 66-67, 73,
circoncisione, 15, 39, 45, 48- 75, 77-78, 84, 89, 91-92, 95,
49, 51 99, 100, 102-103, 106-107,
coppia, 80-81 111, 113-115, 117-118,
discendenza, 12, 24, 27, 30-31, 123-124, 126-128, 130,
39, 41-43, 45-47, 51, 58, 65, 133-138, 140-142, 144, 152,
67, 71, 72, 75, 79, 87, 89, 154, 157-159, 161, 169, 171
95-96, 129, 131, 138, 156- fratello/i, 9, 17, 31, 33, 44, 56,
158, 167, 171 60, 73, 76-78, 83, 85, 91-95,
donna, 8, 28, 44-45, 49, 52, 54, 97, 107, 109-110, 112-132,
59-60, 62, 75, 81, 92, 100, 134-145, 148-149, 173
106, 109, 114, 127-129, giudei, 13-16, 27, 36-38, 49,
131-132, 142-143, 171 50, 57, 63, 65, 74, 79, 80-81,
elezione, 47, 55, 94, 159 87, 104, 115, 119, 121, 131,
esilio, 13, 15-16, 27, 36, 38, 48, 157-158, 161, 169, 171, 176
50-51, 57, 64-65, 74, 79, 80- grazia, 38, 53, 113, 158-159
81, 84, 87, 94-95, 104, 115, guerra, 33-34
120, 123, 140, 144, 169-171 legge, 14, 50, 59, 80, 87, 100,
181
127, 131, 137, 146, 148, 85, 88, 92-93, 105, 112, 114,
152, 154-156, 158, 164, 119-120, 122, 130-131, 141,
167, 172, 176 144, 146-148, 152-156, 158,
levirato, 8, 127, 129, 131 162-163, 169-171
madre, 43, 60, 66-67, 72, 76- primogenitura, 18, 84-86, 90,
77, 90-91, 94, 100-101, 103, 92, 94-95, 161, 170
120, 125, 130, 154, 160, 164 promessa, 15, 24, 26-28, 30-
matrimonio, 12, 15, 24, 45, 65, 32, 37, 39-43, 45-50, 52-53,
73, 75, 77, 79, 89, 95, 98- 65, 67, 69-72, 74-75, 77-78,
100, 102, 129 80, 91, 95, 118-119, 130,
migranti/migrazioni 10, 11, 139, 148, 152, 157-160,
15, 24, 27, 37, 103, 105, 155 163, 171, 173
misericordia, 36, 44, 63, 65, riconciliazione, 107, 134, 185
130, 148, 157, 159, 165 sacrificio, 35, 69, 72, 73, 87,
nazioni, 13, 37, 46-47, 55-56, 89, 109, 146, 151, 152, 153,
62, 71, 78, 81, 85, 87, 105, 155, 159, 165, 167, 170
116, 170-172 sorella/e, 12, 17-18, 24, 28, 29,
obbedienza, 25, 37, 139, 151- 60, 61, 68, 76, 86, 87, 98,
153, 172 100, 102, 105, 114
omosessualità, 8, 62 sterile/sterilità, 24, 26, 37-38,
pace, 41, 166 43, 49, 61, 72, 84, 100-101,
padre, 10-11, 17-18, 20, 24-25, 106, 164
27, 46-47, 49, 58-60, 66, 69, terra, 5, 10-16, 24-28, 30-35,
71, 78-79, 84, 86-92, 96-98, 37, 40-43, 46-47, 53, 55-56,
100, 105, 107-109, 112-113, 61-62, 67-69, 71, 73-74, 77,
117-118, 124-126, 133-137, 80, 87-90, 95-96, 103, 105-
140-141, 144, 148-152, 107, 109, 112-114, 116,
156-162, 169, 171 118-119, 124-125, 130,
peccato, 28, 36, 55-56, 60, 62- 133-134, 137, 141, 143-144,
63, 65, 127 147-148, 153, 160, 163,
perdono, 120, 136, 140 165, 170-172
poligamia, 8, 105 vendetta, 107, 109, 112-113,
popolo, 7, 9, 12, 14, 22, 26, 28, 115
33, 35, 36-37, 47-51, 56, 59, violenza, 59, 62, 107, 113-115,
61, 63-65, 69-70, 73, 79, 81, 139

182
182
INDICE GENERALE

Prefazione .................................................................................... 7
I. INTRODUZIONE ....................................................................... 9
1. L’EPOCA DEI PATRIARCHI ............................................................... 10
a. Cronologia biblica ................................................................... 10
b. Agganci storici .......................................................................... 10
c. Usi e costumi ............................................................................ 11
2. LA FORMAZIONE DEI TESTI............................................................. 13
a. Situazioni e problemi del postesilio ................................ 13
b. L’origine dei racconti patriarcali .................................... 14
3. LA COMPOSIZIONE LETTERARIA .................................................... 16
a. L’uso dei termini ...................................................................... 17
b. Espedienti narrativi.............................................................. 18
4. STRUTTURA GENERALE ................................................................... 20
II. CICLO DI ABRAMO (Gn 12,1–25,18) ............................. 23
1. UNA VOCAZIONE IMPOSSIBILE (Gn 12,1–14,24) ................... 24
a. La chiamata di Abramo (Gn 12,1-9) ............................... 25
b. La moglie abbandonata (Gn 12,10–20) ........................ 28
c. Separazione di Lot da Abramo (Gn 13,1-18). .............. 30
d. Liberazione di Lot e
benedizione di Melchisedek (Gn 14,1-20) .................... 32
Temi e spunti di riflessione ..................................................... 36
2. UNA FEDE ANCORA VACILLANTE (Gn 15,1–17,27) .............. 38
a. Fede e giustizia (Gn 15,1-6) ................................................ 39
b. L’alleanza tra Dio e Abramo (Gn 15,7-21) ................... 40
c. Una maternità surrogata (Gn 16,1-16) ......................... 42
d. Alleanza e circoncisione (Gn 17,1-27)............................ 45
Temi e spunti di riflessione ..................................................... 49
3. IL FIGLIO DELLA PROMESSA (Gn 18,1–20,18)........................ 52
a. La promessa rinnovata (Gn 18,1-15) ............................. 53
b. La distruzione di Sodoma (Gn 18,16–19,38) ............... 54
c. La moglie abbandonata (Gn 20,1-18) ............................ 59
Temi e spunti di riflessione ..................................................... 62
183
183
4. LA PROVA FINALE DELLA FEDE (Gn 21,1–25,18) ................. 65
a. Isacco e Ismaele (Gn 21,1-21) ............................................ 66
b. Abramo e Abimelec (Gn 21,22-34)................................... 68
c. Il sacrificio del figlio (Gn 22,1-24) .................................... 69
d. Morte e sepoltura di Sara (Gn 23,1-20) ......................... 73
e. Il matrimonio di Isacco (Gn 24,1-67) .............................. 75
f. La morte di Abramo (25,1-18) ........................................... 77
Temi e spunti di riflessione ..................................................... 78
III. CICLO DI GIACOBBE (Gn 25,19–36,43) ...................... 83
1. ISACCO, ESAÙ E GIACOBBE (Gn 25,19–27,46) ...................... 84
a. Nascita dei due gemelli (Gn 25,19-26)........................... 84
b. Esaù vende la primogenitura (Gn 25,27-34) ............... 85
c. Intermezzo: vicende di Isacco (Gn 26,1-35) ................. 86
d. Giacobbe carpisce la benedizione
paterna (Gn 27,1-46) ............................................................ 90
Temi e spunti di riflessione ..................................................... 93
2. L’ESILIO IN ORIENTE (Gn 28,1–30,43)................................... 95
a. Partenza di Giacobbe (Gn 28,1-9) .................................... 95
b. Il sogno di Giacobbe (Gn 28,10-22) ................................. 96
c. Il matrimonio di Giacobbe (Gn 29,1-30) ........................ 98
d. I figli di Giacobbe (Gn 29,31–30,24) ............................. 100
e. Giacobbe e Labano (Gn 30,25-43) .................................. 103
Temi e spunti di riflessione .................................................... 104
3. IL RITORNO IN CANAAN (Gn 32,1–36,43) ........................... 106
a. Il distacco da Labano (Gn 31,1-54) ............................... 107
b. Il viaggio verso Canaan (Gn 32,1–33,20).................... 109
c. Violenza a Dina e vendetta
dei fratelli (Gn 34,1-31) ...................................................... 113
d. Ritorno a Betel e morte di Rachele (Gn 35,1-29) .... 115
e. Aggiunte (Gn 35,23–36,43) ............................................... 117
Temi e spunti di riflessione .................................................... 118

IV. STORIA DI GIUSEPPE (Gn 37,1–50,26)..................... 122


1. LA FAMIGLIA DI GIACOBBE (Gn 37,2–38,30)...................... 124
a. Giuseppe venduto dai fratelli (Gn 37,1-36) ................ 124
b. Intermezzo: la storia di Giuda (Gn 38,1-30) .............. 127
Temi e spunti di riflessione .................................................... 130
184
184
2. GIUSEPPE E I SUOI FRATELLI (Gn 39,1–50,21) .................. 132
a. Giuseppe alla corte del faraone (Gn 39,1–41,57) .... 132
b. I fratelli di Giuseppe in Egitto (Gn 42,1–45,28) ....... 134
c. Aggiunte (Gn 46,1–50,21) .................................................. 136
Temi e spunti di riflessione .................................................... 142
V. I PATRIARCHI NELLE RELIGIONI ABRAMITICHE ... 146
1. L'EBRAISMO.................................................................................. 146
a. Il Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe ..................... 147
b. Abramo prima della chiamata ........................................ 148
c. Il sacrificio di Isacco ............................................................. 151
d. L'osservanza della legge .................................................... 152
e. Abramo in veste ellenistica ............................................... 154
2. LA LETTERATURA CRISTIANA .................................................... 156
a. I vangeli sinottici ................................................................... 156
b. L’epistolario paolino ............................................................ 158
c. Gli scritti postpaolini ............................................................ 160
d. La letteratura giovannea................................................... 161
3. IL CORANO .................................................................................... 162
a. La vita di Abramo.................................................................. 163
b. Funzione profetica di Abramo ......................................... 165
c. Il pellegrinaggio islamico .................................................. 167
VI. CONCLUSIONE .................................................................. 169
BIBLIOGRAFIA ........................................................................ 173
CRONOLOGIA BIBLICA ......................................................... 175
INDICE DEI TEMI PRINCIPALI ........................................... 181
INDICE GENERALE ................................................................. 183

185
185
I patriarchi non sono figure storiche, nel senso che assume oggi questo
termine. Essi però hanno influenzato profondamente la storia del po-
polo ebraico. Le antiche tradizioni che li riguardavano sono state rilette
dopo l’esilio in modo da far loro esprimere il senso profondo della
religione israelitica, come l’avevano riformulata i giudei deportati in
Mesopotamia. Essi vi hanno ritrovato le origini dell’alleanza tra yhwh
e Israele, nonché dell’elezione del popolo e del suo diritto al possesso
della terra di Canaan. Ma al tempo stesso nelle vicende di quei lontani
progenitori hanno colto l’esigenza di una fede austera, che mette Dio
al primo posto ed esige una vita conforme alla sua volontà.
Ciò che rende interessante ancora oggi lo studio dei racconti patriarcali
consiste anche nel fatto che i loro protagonisti sono considerati come
padri nella fede dai seguaci di tre grandi religioni che per questo sono
dette «abramitiche»: ebraismo, cristianesimo e islam. Si prospetta dun-
que, a partire da questi testi, la possibilità di un serrato dialogo interre-
ligioso che permetta di cogliere l’insegnamento specifico di ciascuna di
esse in rapporto con le altre e con la cultura moderna ormai incalzante
in tutto il globo.

AlessAndro sAcchi, presbitero del Pontificio Istituto Missioni Estere, ha conseguito


la laurea in Scienze Bibliche presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma e ha inse-
gnato esegesi biblica nello studentato del suo Istituto. È stato anche docente nel
Seminario Regionale di Hyderabad (India) e nell’Università Cattolica del S. Cuore di
Milano. Ha curato il volume Lettere paoline e altre lettere (Logos 6 - 1995). Inoltre ha
pubblicato diversi volumi, tra i quali Marco. Un vangelo per i lontani (1999; 2014); Israele
racconta la sua storia (2000; 2012); Per un mondo senza frontiere. Lettere autentiche di Paolo
(2012); Paolo e i non credenti (2008); Alle origini della missione. Atti degli Apostoli (2014); La
morte del Messia (2015); Il cattolicesimo nelle lettere postpaoline (2016); Un Dio misericordioso:
La sfida di un enigma (2016).

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