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MICHEL FOUCAULT: "Archeologia del sapere"

A cura di Diego Fusaro

L' “ Archeologia del sapere ”, opera pubblicata nel 1969, si presenta come un libro diverso rispetto
a tutti quelli scritti da Foucault. E' un libro che l'autore stesso definisce “ di metodo ”, in quanto ha
voluto esporre in esso i fondamenti teorici del suo lavoro e spiegare quale strada ha seguito per
costruire i libri precedenti. Ne “ Le parole e le cose ” Foucault aveva dichiarato che il suo intento
nello scrivere la “ Storia della follia ”era stato quello di tracciare “ una storia dei limiti ”, ossia di
quelle esperienze che, sebbene emarginate e poste tra parentesi nel presente storico, costituiscono lo
sfondo da cui si dà la possibilità stessa della storia. Scrivendo una storia della follia, Foucault ha
voluto studiare l'insieme di istituzioni, di misure etiche, giuridiche, amministrative e poliziesche che
hanno imprigionato la follia e costruito la ragione. Ma cosa significa tracciare la storia di queste
esperienze-limite? Che cosa significa affermare che la ragione moderna si è costituita a partire da
un gesto che ha escluso e poi disegnato la follia come oggetto, di volta in volta, del sapere medico,
giudiziario, etico, ecc.? Per dare risposta a questi interrogativi, seguiremo passo passo la riflessione
sviluppata da Foucault nell'opera l' “Archeologia del sapere”, mantenendo l'ordine e la titolazione
proposti dall'autore.

Introduzione
Nell'introduzione all' “ Archeologia del sapere ”, Foucault osserva che a poco a poco nel lavoro
degli storici si è realizzato uno spostamento dell'attenzione: dalla ricerca delle vaste unità che si
descrivevano come "epoche" o "secoli" verso i "fenomeni di rottura". Il grande problema che si apre
in ogni analisi non è più quello di rintracciare una tradizione compatta, un unico disegno sottesi alla
molteplicità degli eventi, “ ma quello della frattura e del limite, non più quello del fondamento che
si perpetua, ma quello delle trasformazioni che valgono come fondazione e rinnovamento delle
fondazioni ”. Questa posizione comporta una serie di conseguenze. Innanzitutto Foucault parla di
un “ effetto di superficie ”, ossia del moltiplicarsi delle fratture nella storia delle idee ("effetto di
superficie" nel senso che non bisogna andare alla ricerca di qualcosa di più profondo e veritiero
rispetto a ciò che appare appunto alla superficie, ma proprio dei diversi livelli, delle varie relazioni
che compaiono in superficie): il metodo proposto implica l'impossibilità di individuare una lineare
catena di cause per definire le relazioni tra i fatti. Ciò che si presenta al nostro sguardo sono invece
delle serie di avvenimenti di cui dobbiamo definire di volta in volta gli elementi, i limiti, i rapporti.
Ciò conduce alla denuncia di qualsiasi ricerca storica che chiami in causa la cronologia continua
della ragione, il continuismo fondato sull'idea di una coscienza che produce e progredisce
linearmente. Foucault introduce poi la nozione di " discontinuità ". Se per la storia classica la
discontinuità coincide con l'insieme di avvenimenti dispersi - dal punto di vista della loro
collocazione temporale e del loro senso - che devono venire delimitati e ricompresi nell'orizzonte di
una continuità progressiva, ora invece essa è intesa come l'oggetto di studio liberato da qualsiasi
pretesa teleologica e, contemporaneamente, come lo strumento stesso della ricerca: essa diventa
quasi un concetto operativo. E' la stessa discontinuità che individua le diverse aree da studiare, che
“ delimita il campo di cui rappresenta l'effetto ”. Inizia perciò a perdere forza il progetto di una
"storia globale", ossia di quella storia che vuole rintracciare il significato comune alla base di tutti
gli avvenimenti di uno stesso periodo, una rete fissa di causalità capace di spiegare linearmente i
fatti. Alla storia come continuum narrativo-documentario si oppone la " storia generale " che
problematizza gli scarti, le fratture, i diversi tipi di relazione esistenti; che rifiuta di riportare i

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fenomeni ad un unico centro, ad un'unica visione del mondo, ma che “ dovrebbe invece mostrare
tutto lo spazio di una dispersione ”. Ciò che finora ha ostacolato lo sviluppo di una "storia generale"
è stata la paura di veder frantumata la sovranità della coscienza. La storia alla ricerca della
continuità, dell'origine e del principio unico ha garantito la sovranità della coscienza umana,
restituendo ad essa, sotto forma di coscienza storica, l'unità ed il dominio su tutto ciò che appariva
lontano, indipendente da essa: “ fare dell'analisi storica il discorso della continuità e fare della
coscienza umana il soggetto originario di ogni divenire e di ogni pratica, costituiscono i due aspetti
di uno stesso sistema di pensiero ”. Sono state le ricerche della psicanalisi, della linguistica e
dell'etnologia, dopo il colpo mortale inferto dalla genealogia nietzschiana, a decentrare
ulteriormente il soggetto dal suo luogo di signore della storia, della natura, dei suoi desideri, del suo
linguaggio e a metterne in crisi la presunta attività sintetica. Si colloca in questo orizzonte il
progetto dell' “Archeologia del sapere”: Foucault tenta di individuare le trasformazioni nel campo
della storia, eliminando quella che definisce la "soggezione antropologica", ossia quel riferimento
alla funzione fondatrice del soggetto come custode di nozioni quali quelle di tradizione, sviluppo,
evoluzione, spirito, autore, opera finalizzate a costruire delle sintesi poste sotto il segno dell'identità,
dell'unità e della continuità. Queste sintesi sono in realtà delle costruzioni che devono venire
problematizzate, attraverso un movimento che riconduca i concetti dal piano della produzione
ideale a quello dei sistemi enunciativi che ne producono la formulazione. Il terreno in cui si muove
Foucault è dunque quello dei discorsi, scritti e pronunciati: ma non dei discorsi intesi come il
risultato ultimo di un'elaborazione linguistica e teorica che avverrebbe altrove (nel campo della
lingua o del pensiero), ma come sistemi caratterizzati da precise regole di emergenza e di esistenza
che esercitano una funzione concreta nella storia delle idee e delle istituzioni. La teoria
dell'enunciato arriverà a scardinare i comuni concetti di soggettività, scienza, storia, mostrando il
loro reale terreno di radicamento e le loro regole di esistenza. Vedremo in seguito come Foucault
approfondisca e precisi sempre più il concetto di enunciato e di sistema enunciativo. In quale modo
spiegare però un tale spostamento teorico? Se queste sintesi non sono evidenti, e neppure
posseggono una struttura concettuale rigorosa, ma esercitano una funzione ben precisa, sarà allora
necessario individuarne le condizioni di emergenza e le regole di esistenza e funzionamento. Solo
mettendo in questione queste forme "immediate" di continuità, si libera “ tutta una folla di
avvenimenti nello spazio del discorso… Si delinea in tal modo il progetto di una descrizione pura
degli avvenimenti discorsivi come orizzonte per la ricerca delle unità che vi si formano ”.

1. Le regolarità discorsive

1.1. Le unità del discorso


Il progetto di Foucault si presenta quindi come un lavoro negativo teso a smascherare la vera natura
di quei concetti che da sempre hanno costituito il fulcro del tema della continuità:

il concetto di "tradizione", la cui funzione è stata quella di pensare la dispersione degli avvenimenti
storici sotto il segno dell'identità;

il concetto di "influenza" che ha permesso di applicare la relazione di causalità a fenomeni vicini


nel tempo e simili nella costituzione;

i concetti di "sviluppo" e di "evoluzione" con cui si è raggruppata una successione di eventi,


collocati tra un'origine e una conclusione lontane da noi, secondo un unico principio organizzatore
che doveva conferire loro coerenza e consequenzialità;

il concetto di "spirito" che ha permesso di istituire una unità di senso tra diversi fenomeni,
riportandone la spiegazione alla sovranità di una coscienza collettiva.

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Ci sono inoltre due altre unità concettuali, che a prima vista appaiono come le più immediate da
accettare, che bisogna smontare: la nozione di " libro " e quella di " opera ". Il libro è un'unità
materiale ed economica debole che rimanda sempre ad altri testi, ad altre frasi, che si costituisce
quasi come il nodo di un reticolo, a partire da un complesso campo del discorso. L'opera, come
somma di testi, viene pensata come l'espressione del pensiero, dell'esperienza, dell'immaginazione,
dell'inconscio del suo autore. Ma questa unità non è assolutamente evidente ed immediata, e tanto
meno omogenea: essa si costituisce piuttosto a partire da un'operazione interpretativa. Secondo
Foucault è necessario abbandonare due atteggiamenti: il primo che va alla ricerca di un'origine
segreta e che così rifiuta la possibilità dell'irruzione improvvisa degli avvenimenti; il secondo,
collegato al precedente, che cerca di rinvenire dietro ad ogni discorso manifesto un "non detto" che
lo condannerebbe ad essere sempre interpretazione di altro. Bisogna, invece, accogliere gli eventi e
i discorsi nel momento del loro apparire, accettare la loro irruzione: “ non bisogna rimandare il
discorso alla lontana presenza dell'origine; bisogna affrontarlo nel meccanismo della sua istanza ”.
Questo significa che il piano dell'indagine si sposta verso l'analisi di queste costruzioni, verso la
domanda che chiede ragione delle regole e delle condizioni della loro emergenza ed esistenza, verso
il campo dei fatti discorsivi a partire da cui esse si sono costituite. Se Foucault si propone di
affrontare il discorso nella limitatezza e singolarità del suo essere evento, ossia cogliendolo nel
momento stesso del suo farsi realtà, allora l'attenzione dovrà necessariamente spostarsi sui
meccanismi della sua emergenza ed esistenza, bisognerà cioè occuparsi degli enunciati effettivi che
sono comparsi, ossia dell'insieme finito e concretamente individuato degli enunciati che sono stati
formulati. Questo programma non coincide con quello che appartiene all'analisi della lingua: la
lingua è infatti un insieme finito di regole che permettono un numero infinito di produzioni. Il
campo degli eventi discorsivi, invece, rappresenta “ l'insieme sempre finito e attualmente limitato
delle sole sequenze linguistiche che siano state formulate ”. Anche le domande che i due campi di
analisi si pongono sono profondamente diverse: mentre l'analisi della lingua si chiede quali sono
state le regole di costruzione di un determinato enunciato e come, quindi, a partire da esse sia
possibile costruire altri enunciati simili, la descrizione degli eventi discorsivi si chiede come mai sia
apparso in un certo momento proprio un determinato enunciato e non un altro, ossia qual è la
ragione della sua comparsa, della sua esistenza. È per questo che l'analisi del campo discorsivo si
differenzia dalla storia del pensiero: mentre questa va alla ricerca dell'intenzione di un soggetto
parlante o dell'attività inconscia che è all'origine di una certa produzione, l'altra tenta di studiare
l'enunciato nella singolarità e nelle condizioni del suo emergere, delimitandone lo spazio effettivo
di esistenza, individuando le sue relazioni con gli altri enunciati e rispondendo, perciò, ad una
precisa domanda: “ qual è dunque quella esistenza singolare che viene alla luce in quello che si
dice, e non mai altrove? ”. Cercare di cogliere quella che è stata definita la "singolarità" di un
enunciato non significa, però, isolarlo facendone quasi una nuova unità autonoma o cercando in
esso un qualche discorso segreto, ma significa, invece, poterlo descrivere nei meccanismi di
relazioni in esso e fuori di esso. Ma come scampare al pericolo che sembra sempre incombente di
riutilizzare quelle stesse categorie che abbiamo sottoposto a profonda critica? Come essere certi che
non ci riferiremo nuovamente alle nozioni di opera, autore, spirito, evoluzione, insomma a tutte le
vecchie categorie antropologiche? Secondo l'autore, l'unico modo, forse, per sottrarsi a questa
tirannia consiste nell'analizzare gli enunciati attraverso i quali queste stesse categorie si sono
costituite, “ l'insieme degli enunciati che hanno scelto come oggetto il soggetto dei discorsi (il loro
soggetto) e si sono messi ad analizzarlo come campo di conoscenza ” . Si spiega così la preferenza,
comunque provvisoria, accordata da Foucault ai discorsi appartenenti al campo delle "scienze
dell'uomo": in esse i differenti enunciati sembrano mostrare più chiaramente le relazioni che li
legano; l'analisi di ampi campi del sapere pare favorire la rinuncia alle cosiddette "categorie
antropologiche"; e, infine, il soggetto dei discorsi si trasforma in oggetto da studiare. Iniziamo
allora a vedere più da vicino che cosa sono queste formazioni discorsive.

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1.2. Le formazioni discorsive
Nella descrizione degli enunciati si presentano subito una serie di problemi. Quando si parla di
quelle unità come la grammatica, la medicina, l'economia politica, a cosa ci si sta effettivamente
riferendo? Che tipo di legami si instaurano tra gli enunciati che le contraddistinguono? La prima
ipotesi ritiene che diversi enunciati formino un unico insieme in quanto si riferiscono ad uno stesso
oggetto, ad esempio l'oggetto "pazzia" per la psicopatologia. Ma si tratta sempre e veramente dello
stesso oggetto? Secondo Foucault questa convinzione è frutto di una pura illusione, in quanto ogni
oggetto di cui parliamo si forma in modo diverso a seconda degli enunciati che lo nominano, lo
spiegano, lo delimitano. Il problema subisce quindi una curvatura: non consiste più nella ricerca
dell'unicità e della persistenza di un oggetto, ma nell'individuazione “ dello spazio in cui si
profilano e continuamente si trasformano diversi oggetti ”. Quindi l'unità di un discorso non si
baserebbe più sull'esistenza di un oggetto determinato e classificato una volta per tutte, ma
consisterebbe nel "meccanismo delle regole che rendono possibile per un dato periodo la comparsa
di oggetti" (oggetti individuati, quindi, da meccanismi di repressione, da pratiche quotidiane, dalle
regole della giurisprudenza, ecc.). E allora descrivere un insieme di enunciati assume
paradossalmente la forma di una descrizione della loro "dispersione", ossia delle trasformazioni che
si producono nella loro presunta identità nel corso del tempo. La seconda ipotesi individua l'unità di
un gruppo di enunciati nella loro "forma" o "concatenazione", ossia nel loro comune riferimento ad
uno stesso vocabolario, ad un medesimo stile enunciativo, ad una stessa modalità di guardare le
cose ossia di stile percettivo. In realtà si deve abbandonare anche questa ipotesi perché
continuamente cambiano le scale di riferimento, i tipi di sguardo verso gli oggetti, i sistemi di
informazione. Altra ipotesi: gli enunciati potrebbero avere il loro filo conduttore nei concetti
permanenti e coerenti da essi utilizzati. Ma se ad esempio pensiamo ai concetti utilizzati dalla
grammatica, vediamo che nozioni come quelle di soggetto, attributo, verbo, parola, sufficienti forse
per descrivere le analisi fatte dagli autori di Port-Royal, risultano addirittura incompatibili con gli
studi successivi. Forse tale unità non è tanto da cercare nella permanenza dei concetti, nella loro
architettura più o meno nascosta, quanto nella loro differenza, distanza, nell'analisi di ciò che
Foucault definisce "il meccanismo delle loro apparizioni e della loro dispersione" . Ultima ipotesi
proposta è quella della ricerca della persistenza e identità dei temi. In realtà ad un'attenta analisi,
considerando ad esempio il tema evoluzionista, si scopre che lo stesso tema conduce a discorsi
differenti (il tema evoluzionista nel XVIII secolo considerava come centrale il continuum della
specie prestabilito fin dall'inizio o costituito nel tempo; lo stessa tema nel XIX secolo partiva,
invece, dalla descrizione di gruppi discontinui e dalle modalità di interazione tra organismi simili e
l'ambiente circostante). Forse non nella persistenza dei temi, ma proprio nella descrizione di questi
momenti di rottura, di dispersione, si possono individuare delle correlazioni fra gli enunciati, uno
spazio comune, un collegamento nelle loro trasformazioni. Nel caso in cui si possa descrivere un
simile sistema di dispersione, individuandone le regolarità - un ordine, delle trasformazioni, delle
correlazioni, dei funzionamenti -, allora avremo di fronte una formazione discorsiva. Le condizioni
di esistenza a cui rispondono gli elementi di questo insieme saranno le regole di formazione che
caratterizzano una data ripartizione discorsiva. Questo è il campo che Foucault si propone di
studiare.

1.3. La formazione degli oggetti


A questo punto è necessario riempire queste regole di formazione con dei contenuti, per capire quali
sono state le modalità di comparsa degli oggetti, le ragioni della loro esistenza come oggetti di
discorso. Foucault parla innanzitutto di "superfici di emergenza" dei concetti che cambiano a
seconda delle epoche; poi di "istanze di delimitazione", riferendosi ai vari campi del sapere che
individuano in modo differente e così delimitano gli oggetti; e infine di "griglie di specificazione",
ossia di quei "contenitori" a cui ci si riferisce parlando di un certo oggetto (ad esempio l'anima, il
corpo, la vita e la storia degli uomini, i meccanismi delle correlazioni neuro-psicologiche come
griglie del discorso psichiatrico del XIX secolo). Ma il discorso non coincide solamente con il luogo

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in cui si sovrappongono e si incontrano degli oggetti già precedentemente strutturati: "l'oggetto non
aspetta nel limbo l'ordine che lo libererà e gli permetterà di incarnarsi in una visibile e loquace
oggettività; non preesiste a se stesso, quasi fosse trattenuto da qualche ostacolo alle soglie della
luce. Esiste nelle positive condizioni di un complesso ventaglio di rapporti". Queste relazioni, in cui
emergono le condizioni di esistenza degli oggetti e che si stabiliscono tra istituzioni, processi
economici e sociali, forme di comportamento, norme, ecc., non determinano l'oggetto nella sua
trama interna, non ne definiscono la razionalità immanente, ma ciò che permette ad esso di apparire
e di apparire in quel determinato modo. Le relazioni discorsive, allora, non sono qualcosa di interno
al discorso, quasi un'architettura o una gerarchia che si instaura tra le proposizioni; ma non sono
neppure esterne, quasi fossero delle forme di costrizione applicate al discorso: esse caratterizzano,
invece, il discorso in quanto pratica, ossia "determinano il fascio di rapporti che il discorso deve
effettuare per poter parlare di questi e di quegli oggetti, per poterli trattare, nominare, analizzare,
classificare, spiegare, ecc." . Questo non significa cercare oltre il discorso, fare di esso il segno di
qualcos'altro, ma anzi farlo emergere in tutta la sua ricca complessità: dimenticare in qualche modo
le cose che si darebbero prima del discorso, a favore delle formazioni degli oggetti che si danno,
invece, solo al suo interno; non considerare insomma solo i significati degli oggetti stabiliti dai
soggetti parlanti, ma la pratica discorsiva come luogo in cui si forma e si deforma, compare e
scompare un certo insieme di oggetti. Il compito che Foucault si propone, dunque, è quello di
mostrare che i discorsi non sono un semplice intreccio di cose e parole, di realtà e lingua.
Analizzando i discorsi si scopre l'esistenza di un insieme di regole che non concernono la muta
realtà degli oggetti, ma il loro stesso regime di esistenza: ciò significa non poter più considerare i
discorsi come un insieme di segni che si riferiscono a dei contenuti o a delle rappresentazioni già
date, ma come delle pratiche che formano gli stessi oggetti di cui parlano.

1.4. La formazione delle modalità enunciative


Quali sono le domande che bisogna porsi per trovare le leggi degli enunciati?

a) Chi parla? Ossia qual è lo status - legato alle competenze - posseduto da coloro che sono
autorizzati a pronunciare un certo discorso?
b) Quali sono le posizioni istituzionali da cui le persone tengono i loro discorsi (ad esempio
l'ospedale pubblico o l'ambulatorio privato per il medico)?
c) Quali sono le posizioni dei soggetti in rapporto ai campi o ai gruppi di oggetti (soggetti che
parlano, che guardano, che ascoltano, che utilizzano determinati strumenti, ecc.)?

Come si vede dal tipo di domande formulate, non si possono riferire le differenti modalità di
enunciazione all'unità del soggetto e alla sua sintesi unificatrice; anzi, i diversi enunciati rimandano
piuttosto alla sua "dispersione", alla differenziazione continua dei piani da cui esso parla: "perciò
rinunceremo a vedere nel discorso un fenomeno di espressione, la traduzione verbale di una sintesi
operata altrove, vi cercheremo piuttosto un campo di regolarità per diverse posizioni di
soggettività". Se quindi né le parole né le cose possono definire una formazione discorsiva, adesso
possiamo anche affermare che neppure il ricorso a una soggettività psicologica o a un soggetto
trascendentale è in grado di definire il regime delle enunciazioni.

1.5. La formazione dei concetti


Il problema ancora una volta non è tanto quello di costruire un edificio i cui mattoni sarebbero i
concetti, quanto quello di descrivere l'organizzazione del campo di enunciati in cui i concetti
compaiono. Foucault individua alcuni piani di questa organizzazione/descrizione:

a) le forme di successione, ossia i diversi tipi di dipendenza degli enunciati (ipotesi-verifica, legge-
applicazione, ecc.), gli schemi retorici secondo cui si combinano gli enunciati (rapporti di
dipendenza, deduzione, ecc.);

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b) le forme di coesistenza (enunciati già formulati che vengono ripresi o rifiutati o accettati
implicitamente);
c) le procedure d'intervento che si applicano ai vari enunciati sotto forma di tecniche di riscrittura di
enunciati già esistenti adottando altri schemi o quadri classificatori, di metodi di trascrizione
secondo linguaggi più o meno formalizzati, di modi di traduzione degli enunciati qualitativi in
quantitativi e viceversa.

Sono tutti questi elementi che concorrono a costruire una formazione concettuale. Ma ancora una
volta Foucault precisa che attraverso essi non si ricostruisce la genesi dei concetti nello spirito degli
uomini o la loro articolazione interna, quanto la loro dispersione in opere e testi, dispersione che
definisce tra i concetti relazioni di deduzione, coerenza, incompatibilità, esclusione, ecc.: "una
simile analisi concerne […] il campo in cui i concetti possono coesistere e le regole a cui questo
campo è soggetto" , non rimandando quindi a un orizzonte di idealità posto o scoperto da un gesto
fondatore e neppure ad un a priori collocato ai confini della storia, ma allo spazio di emergenza, di
formazione dei concetti e alle regole effettivamente in funzione che caratterizzano una pratica
discorsiva. Le regole di cui parliamo si collocano quindi nel discorso stesso, nella sua determinata e
specifica realtà, senza rimandare ad alcun orizzonte ideale.

1.6. La formazione delle strategie


Le "strategie" sono delle organizzazioni di concetti; potremmo pensare ad esse come ad una sorta di
temi e teorie, che sorgono all'interno di certi discorsi: ad esempio la grammatica del XVIII secolo
diede luogo al tema della lingua originaria, la fonologia del XIX secolo al tema della parentela tra
tutte le lingue indoeuropee. In che modo sorgono e si distribuiscono nella storia queste "strategie"?
È una necessità che le fa sorgere o si tratta di incontri casuali tra diverse idee? Anche in questo caso
Foucault afferma che dietro esse non esiste una scelta originaria, un progetto unitario che
determinerebbe in anticipo i discorsi e i temi: bisogna invece mostrare come esse derivino, pur nella
loro diversità, da uno stesso meccanismo di relazioni, come siano modi differenti di trattare gli
stessi oggetti del discorso.

1.7. Osservazioni e conseguenze

L'obiezione che può venire immediatamente avanzata a questo discorso riguarda proprio il tema
dell'unità: se fin dall'inizio ci si è mossi nella direzione della critica alle sintesi operate dal pensiero,
non tanto per proibirle, quanto per descriverne la formazione, perché introdurre nuovi tipi di unità,
di raggruppamenti? E non si era inoltre affermato che in discorsi come quelli della medicina clinica
o dell'economia politica ci si imbatteva piuttosto in una dispersione di elementi? Il fulcro della
risposta sta proprio nella nozione di dispersione: se essa viene descritta nella sua singolarità, l'unità
che allora si individua non risiede in una sorta di coerenza visibile degli elementi che la
compongono, ma nel sistema che rende possibile e governa la formazione dei suoi stessi elementi
(le scelte strategiche, i concetti, le modalità di enunciazione), nel loro essere posti in una
determinata relazione da parte della pratica discorsiva. Questi sistemi di formazione non sono delle
gabbie originate dai pensieri e dalle rappresentazioni degli uomini e neppure sono delle
determinazioni che si formano nei diversi campi del sapere e che costringono, quasi dal di fuori, il
discorso: essi, al contrario, sono insiti nel discorso stesso. "Per sistema di formazione si deve
dunque intendere un complesso fascio di relazioni che funzionano come regola: esso prescrive ciò
che si è dovuto mettere in rapporto, in una pratica discorsiva, perché essa si riferisca a questo e a
quell'oggetto, perché essa faccia intervenire questa e quella enunciazione, perché essa utilizzi questo
e quel concetto, perché essa organizzi questa e quella strategia." (p. 98). L'analisi delle formazioni
discorsive si distingue, pertanto, da tutti gli altri tipi di descrizioni, in quanto non ricerca ciò che
dovrebbe stare, nascosto, dietro o oltre i discorsi, racchiuso in una sorta di silenzio pre-discorsivo,
appartenente al puro pensiero o ad una pura coscienza che poi lo trascriverebbero sulla superficie

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del discorso: questo genere di analisi rimane, invece, nella dimensione del discorso, definendo le
regole che esso applica in quanto pratica e scoprendo non "la vita ribollente, la vita non ancora
catturata, ma un immenso spessore di sistematicità, un folto insieme di molteplici relazioni."

2. L'enunciato e l'archivio

2.1. definire l'enunciato


Foucault ha interrogato il discorso a livello delle regole della sua formazione: questo significa
dunque chiedersi secondo quali regole di volta in volta un insieme di segni costituisce un campo
definito di significati. Finora però il termine "discorso" è stato utilizzato in molti modi, in
riferimento a tutti gli enunciati o a certe pratiche che individuano determinati enunciati. È
necessario dunque definire prima di tutto che cosa si intenda esattamente quando si parla di
"enunciato". L'enunciato è identificabile con quell'unità elementare del discorso che potrebbe
coincidere con la proposizione? Secondo Foucault no, perché mentre le proposizioni possono essere
tra loro equivalenti in relazione al significato anche al variare di alcuni elementi che le
compongono, non lo stesso si può dire rispetto alla loro enunciazione. Le proposizioni "Nessuno ha
sentito" e "È vero che nessuno ha sentito" non differiscono rispetto al loro significato, ma in quanto
enunciati non svolgono la stessa funzione né possono occupare lo stesso posto nel discorso. "Se si
trova la formula "Nessuno ha sentito" nella prima riga di un romanzo, si sa, fino a nuovo ordine,
che si tratta di una constatazione fatta o dall'autore o da un personaggio (ad alta voce o sotto forma
di un monologo interiore); se si trova la seconda formula "È vero che nessuno ha sentito", ci si può
trovare soltanto all'interno di un complesso di enunciati che costituiscano un monologo interiore,
una discussione muta, una contestazione con se stessi, o un frammento di dialogo, un insieme di
domande e di risposte." È forse l'enunciato identificabile con la frase? Neppure questo è vero,
perché vi può essere un enunciato laddove ci sia una frase, ma non vale il contrario, in quanto è
possibile enunciare qualcosa senza aver bisogno di alcuna struttura fraseologica. "Un albero
genealogico, un libro contabile, le stime di una bilancia commerciale sono degli enunciati: dove
sono le frasi?" L'enunciato non è neppure un atto illocutorio (lo speech act degli analisti inglesi,
ossia l'atto di formulazione: si riferisce a quelle espressioni come la preghiera, il giuramento,
l'ordine, la promessa, il contratto e simili, dove non è in questione l'intenzione del parlante, né
l'effetto prodotto dall'espressione, ma il fatto stesso della formulazione in quanto si è prodotto nel
modo in cui si è prodotto): se questo si risolve nella sua formulazione, non lo stesso si può dire per
il suo senso che ha bisogno a volte, per apparire, di una reiterazione: "Giuramento, preghiera,
contratto, promessa, dimostrazione richiedono il più delle volte un certo numero di formule distinte
o di frasi separate: sarebbe difficile rifiutare a ciascuna di esse lo statuto di enunciato con il pretesto
che tutte quante sono attraversate da un unico atto illocutorio" . Ma allora che cos'è veramente un
enunciato? Dobbiamo pensare forse che qualunque serie di segni dia luogo ad un enunciato? La
tastiera di una macchina da scrivere non è un enunciato, ma la serie di lettere Q, Z, E, R, T, scritta
in un manuale di dattilografia rappresenta l'enunciato dell'ordine alfabetico adottato dalle macchine
italiane. I primi risultati sono ancora solamente negativi: l'enunciato non richiede una costruzione
linguistica regolare, ma neppure è sufficiente, perché esso esista, un semplice insieme materiale di
elementi linguistici. L'enunciato non è quindi una struttura che mette in relazione degli elementi
variabili, ma è invece "una funzione di esistenza che appartiene in proprio ai segni e a partire dalla
quale si può decidere successivamente […] se essi "hanno senso" oppure no, in base a quale regola
si succedano o si sovrappongano, di che cosa siano segno e quale tipo di atto si trovi ad essere
effettuato grazie alla loro formulazione." È questa "funzione di esistenza" che ora Foucault si
propone di descrivere, nelle sue regole, nelle sue condizioni e nel campo in cui si effettua.

2.2. La funzione enunciativa

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In che modo singolare l'enunciato esercita la sua funzione d'esistenza? Foucault ripropone l'esempio
delle lettere della tastiera della macchina da scrivere. È il fatto di ricopiarle su un foglio che le fa
diventare un enunciato e non un gruppo aleatorio di lettere? È l'intervento di un soggetto? In realtà
il problema consiste nella speciale relazione che si instaura tra queste due serie di lettere. Ma non
potrebbe questo rapporto consistere in una semplice relazione tra significante e significato, tra nome
e suo referente, tra frase e suo senso? Secondo Foucault il rapporto tra l'enunciato e ciò che esso
enuncia è qualcosa di diverso. Mentre un nome può occupare diverse posizioni all'interno delle
varie costruzioni grammaticali, un enunciato, anche se ripetiamo i nomi, le parole e le frasi da cui è
composto, non sarà necessariamente lo stesso enunciato. Un enunciato ha un rapporto diverso con
ciò che enuncia anche rispetto a quello esistente tra la proposizione ed il suo referente. Infatti
mentre la proposizione "La montagna d'oro è in California" risulta priva di referente, non lo stesso
possiamo dire dell'enunciazione di cui essa potrebbe far parte: "Supponiamo infatti che la
formulazione "La montagna d'oro è in California" non si trovi in un manuale di geografia né in un
racconto di viaggi, ma in un romanzo, o in una invenzione qualunque: le si potrà riconoscere un
valore di verità o di errore (a seconda che il mondo immaginario a cui si riferisce autorizzi oppure
no una simile fantasia geologica e geografica)." L'enunciato sembra essere allora l'antecedente della
proposizione, nel senso che è esso a fissare lo spazio ed il tipo di relazione tra questa ed il suo
referente. Il rapporto tra l'enunciato e ciò che esso enuncia non è poi neppure identificabile con il
rapporto tra la frase ed il suo senso. Se consideriamo, infatti, una frase senza senso, stiamo già
pensando ad una precisa possibilità di esistenza, ad esempio ad una realtà visibile, in cui tale frase è
appunto priva di senso. Significa che abbiamo già stabilito il piano della sua enunciazione: se
fossimo, infatti, all'interno di un sogno o di un testo poetico, quella frase avrebbe una precisa e
diversa relazione con il suo senso: possederebbe, ad esempio, il senso datole dall'appartenere
all'enunciazione del sogno. Ma allora come spiegare la funzione svolta dall'enunciato prescindendo
dai rapporti di senso e dai valori di verità a cui solitamente ci si riferisce? Dopo aver escluso che il
correlato dell'enunciato possa essere un individuo o un oggetto singolo identificato da un nome
oppure uno stato di cose che verificherebbe la validità di una proposizione, è possibile affermare
che "ciò che si può definire come correlato dell'enunciato è un insieme di campi in cui possono
apparire simili oggetti o si possono determinare simili relazioni" Foucault intende dire con questo
che l'enunciato non ha di fronte a sé un correlato come qualcosa di immobile e già dato; l'enunciato
cioè non si riferisce a delle cose, a degli oggetti, a delle realtà precostituiti, ma apre esso stesso un
orizzonte di possibilità di esistenza per gli oggetti: "La referenzialità dell'enunciato forma il luogo,
le condizione, il campo di emergenza, l'istanza di differenziazione degli individui o degli oggetti,
degli stati di cose e delle relazioni che vengono messe in opera dall'enunciato stesso; definisce le
possibilità di apparizione e di delimitazione di ciò che dà il senso alla frase, e alla proposizione il
suo valore di verità". Questa referenzialità è propriamente ciò in cui consiste il livello enunciativo
della formulazione e che si distingue tanto dal livello grammaticale quanto dal livello logico.
Foucault passa poi ad analizzare la speciale relazione tra l'enunciato ed il suo soggetto. Il soggetto
dell'enunciato coincide forse con l'individuo reale che ha scritto o pronunciato una frase? Secondo
Foucault il soggetto dell'enunciato si distingue dall'autore di una formulazione. Prendiamo
l'esempio di un trattato di matematica: sicuramente nella spiegazione del perché il trattato sia stato
scritto, in quali circostanze, con quali metodi, ecc., il soggetto coincide con l'autore di tali
formulazioni; ma se si considera la proposizione "Due quantità uguali ad una terza sono uguali tra
di loro", il soggetto dell'enunciato è la posizione neutra, indifferente al tempo e allo spazio, identica
in qualsiasi sistema linguistico e che ogni individuo occupa quando pronuncia una simile
proposizione. Ciò che Foucault vuol dire è che il soggetto di un enunciato non è identico all'autore
di una formulazione, né è la causa o l'istanza intenzionale che articola gli enunciati facendoli
comparire alla superficie del discorso. Esso è piuttosto "un posto determinato e vuoto che può
essere effettivamente colmato da individui differenti…" Descrivere quindi una formulazione non
significa analizzare il rapporto tra l'autore e ciò che ha detto, ma determinare quale sia la posizione
che ogni individuo può occupare per esserne il soggetto. Altro carattere della funzione enunciativa

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analizzato da Foucault è quello dell'esistenza di un campo associato. Per determinare quando siamo
in presenza di una proposizione o di una frase, è sufficiente individuare se esse rispettano
determinate regole (ad esempio un certo ordine sintattico dei loro elementi). Questo sistema di
regole non è però un campo associato quanto piuttosto un qualcosa che viene supposto affinché si
possa costruire una proposizione o una frase. Ma quando parliamo di funzione enunciativa, non è
sufficiente considerare una frase o una proposizione in rapporto ad un soggetto o ad un campo di
oggetti affinché si dia un enunciato. Quando parliamo di enunciato è necessario riferirsi a tutto un
campo più vasto che non coincide semplicemente con il contesto, in quanto è proprio questo più
ampio campo a rendere possibile il contesto. Il campo associato è qualcosa di più complesso:

"è costituito dalla serie delle altre delle altre formulazioni all'interno delle quali l'enunciato
s'inscrive e di cui costituisce un elemento […];

è costituito anche dall'insieme delle formulazioni a cui l'enunciato si riferisce (implicitamente o no)
sia per ripeterle, sia per modificarle o adattarle, sia per opporvisi, sia per parlarne a sua volta […];

è costituito anche dall'insieme delle formulazioni di cui l'enunciato predispone l'ulteriore possibilità,
e che possono venire dopo di lui come sua conseguenza […];

è costituito dall'insieme delle formulazioni di cui l'enunciato in questione condivide lo statuto, tra
cui prende posto senza considerazioni d'ordine lineare, con cui si cancellerà o con cui invece verrà
valorizzato, conservato, sacralizzato e offerto, come oggetto possibile, a un discorso futuro […]"
Non esiste quindi alcun enunciato che si trovi libero da tutto un campo di coesistenza, di funzioni,
di ruoli; ed ogni frase ed ogni proposizione non possono venire analizzate se non a partire dal
campo enunciativo in cui esistono. Ultima condizione affinché una sequenza di segni linguistici
possa essere considerata un enunciato è che essa deve avere un'esistenza materiale. L'enunciato ha
sempre bisogno di una voce che lo articoli, di una memoria, di uno spazio dove esistere ed è proprio
questa materialità dell'enunciato che fa sì che una frase cambi a seconda che compaia in una pagina
stampata, sia pronunciata da una voce, ecc. Parlando di materialità dell'enunciato Foucault non si
riferisce alla materialità sensibile (ad esempio le diverse edizioni di un libro o le diverse copie di
una stessa edizione non danno luogo a differenti enunciati), ma ad un più complesso regime di
istituzioni materiali. Facciamo degli esempi: un enunciato può essere lo stesso se scritto su un
manoscritto o pubblicato in un libro; non è più lo stesso quando un romanziere pronuncia una frase
nella vita quotidiana e poi la attribuisce ad un personaggio in un libro. Con questo Foucault intende
dire che la materialità di un enunciato non è da riportare tanto alle coordinate spazio-temporali,
quanto piuttosto all'ordine dell'istituzione che definisce le possibilità di trascrizione e di reiscrizione
(la stessa frase "i sogni realizzano i desideri" non costituisce lo stesso enunciato in Platone e in
Freud; e al contrario un testo in inglese e lo stesso testo tradotto in un'altra lingua costituiscono lo
stesso enunciato). Ancora una volta appare la fondamentale importanza di saper collocare un
enunciato in un determinato campo di utilizzazione, saper individuare i modi e le condizioni della
sua ripetibilità, il suo statuto, il reticolo di relazioni in cui vive e in cui la sua identità si conserva o
scompare.

2.3. La descrizione degli enunciati


Nel corso dell'analisi la descrizione dell'enunciato ha assunto una nuova prospettiva: non più
descrizione dell'enunciato atomico, ma del campo d'esistenza della funzione enunciativa. Sorgono a
questo punto due domande: come intendere ora il progetto iniziale della descrizione degli enunciati?
In che modo si intrecciano la teoria dell'enunciato e l'analisi delle formazioni discorsive? Iniziamo
con la prima domanda. a) Innanzitutto è necessario precisare il vocabolario utilizzato:

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Performance linguistica: l'insieme di segni prodotti da una lingua naturale o artificiale;

Formulazione: l'atto che fa apparire questo insieme di segni su un materiale e secondo una certa
forma;

Frase o proposizione: le unità riconosciute dalla grammatica o dalla logica;


< li> Enunciato: le modalità di esistenza di questi insiemi di segni;

Discorso: insieme di sequenze di segni - di enunciati - caratterizzate da particolari modalità di


esistenza.
Ciò che Foucault si propone di dimostrare è che quello che finora ha chiamato formazione
discorsiva è la legge degli enunciati, della loro dispersione e ripartizione e che quindi il termine
discorso costituisce "l'insieme degli enunciati che appartengono a uno stesso sistema di formazione;
in questo modo potrò parlare di discorso clinico, di discorso economico, di discorso della storia
naturale, di discorso psichiatrico" . b) Descrivere un enunciato significa allora non isolare un
elemento come si può fare con una proposizione, ma individuare le condizioni di attuazione di una
funzione che ha dato luogo ad una serie specifica di segni. Ma come ci appare l'enunciato? Foucault
afferma che esso è contemporaneamente non visibile e non nascosto: non nascosto perché
caratterizza le modalità di esistenza di un insieme di segni effettivamente prodotti a cui si chiede
non ciò che non hanno detto o che tengono celato, "ma in che modo esistano, che cosa significhi per
loro esser state manifestate, aver lasciato delle tracce e forse restare lì per una eventuale
riutilizzazione, che cosa significhi per loro essere apparse proprio loro, e nessun'altra al loro posto" :
ciò che si guarda è insomma l'evidenza del linguaggio effettivo (e se anche scopriamo più sensi e
significati, lo sfondo enunciativo può essere il medesimo o comunque essi possono dipendere
proprio dalle precise modalità di enunciazione in cui si nascondono). c) Ma l'enunciato è anche non
direttamente visibile, nel senso che non si offre immediatamente alla nostra percezione. Questo
perché esso non si trova accanto alle proposizioni, non caratterizza ciò che si trova in loro, ma il
fatto stesso che esse si diano e che si diano in un certo modo. Anche se il linguaggio sembra sempre
rimandare ad altro (a degli oggetti, ad un senso, ad un soggetto esterni e lontani), dobbiamo invece
soffermarci sulla sua dimensione attuale che determina la sua stessa esistenza singola e limitata, lo
spazio della sua possibilità. La comparsa di una frase, di una proposizione, di un senso non
provengono da quella che Foucault chiama ironicamente "la primitiva notte del silenzio". È vano
cercare un campo libero da qualsiasi forma di positività dove si librerebbe un soggetto autonomo o
dove si rivelerebbe l'apertura di una qualche destinazione trascendentale: prima di tutto esistono le
condizioni in base alle quali si effettua la funzione enunciativa. Consideriamo ora la seconda
domanda che riguarda la relazione che si viene a creare tra la descrizione degli enunciati e l'analisi
delle formazioni discorsive: Foucault vuole cioè mostrare come l'analisi delle formazioni discorsive
si centri proprio sulla descrizione degli enunciati nella loro specificità. Abbiamo visto come
parlando di enunciato ci siamo riferiti ad una posizione occupata dal soggetto, ad un campo
associato, ad una materialità. Descrivere gli enunciati significa descrivere la funzione enunciativa
che essi esercitano e a cui obbediscono i gruppi di performances verbali. Le quattro direzioni in cui
si è analizzato il livello enunciativo (formazione degli oggetti, delle posizioni del soggetto, dei
concetti, delle scelte strategiche) corrispondono anche ai campi in cui questo livello esercita la sua
funzione. Formazione degli oggetti : Campo di formazione degli oggetti (superfici di emergenza,
griglie di specificazione, istanze di delimitazione) Posizione del soggetto : Campo di regolarità per
diverse posizioni di soggettività (status, posizioni istituzionali, ecc.) Formazione dei concetti :
Campo di emergenza dei concetti (forme di successione, forme di coesistenza, procedure
d'intervento) Formazione delle scelte strategiche : Campo delle relazioni tra temi e teorie
(incompatibilità, equivalenza, appropriazione da parte di un determinato gruppo di individui) E se le
formazioni discorsive si sono liberate dalle vecchie unità rappresentate dal testo, dall'architettura

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deduttiva, dalla figura dell'autore, questo è potuto succedere perché esse implicano il livello
enunciativo con tutti gli elementi che lo caratterizzano. A partire da qui è possibile avanzare una
serie di conclusioni:

1) la descrizione dell'enunciato e dei modi della sua esistenza permette l'individuazione delle
formazioni discorsive e viceversa l'individuazione delle formazioni discorsive permette
l'enucleazione dei diversi enunciati;
2) la regolarità degli enunciati è definita dalla formazione discorsiva stessa "poiché, per gli
enunciati, essa costituisce non una condizione di possibilità ma una legge di coesistenza";
3) il discorso sarà allora quell'insieme di enunciati che appartengono alla stessa formazione
discorsiva e che sono caratterizzati dalle medesime condizioni di esistenza;
4) è possibile ora specificare che cosa si intende per "pratica discorsiva": essa non è tanto
l'operazione con cui un soggetto formula un'idea, ma "è un insieme di regole anonime, storiche,
sempre determinate nel tempo e nello spazio che hanno definito in una data epoca, e per una data
area sociale, economica, geografica o linguistica, le condizioni di esercizio della funzione
enunciativa".

Prima di indagare che cosa sia possibile scoprire attraverso questo genere di analisi, quali
conseguenze scaturiscono per il campo della storia delle idee, vediamo di descrivere che cosa sia
necessario e che cosa escluda l'analisi del campo enunciativo.

2.4. Rarità, esteriorità, cumulo Il più delle volte l'analisi del discorso tenta di riportare la
molteplicità degli enunciati ad un unico senso che dovrebbe emergere al di sotto di questa
proliferazione. L'analisi degli enunciati, invece, va in direzione opposta: essa vuole descrivere il
principio che ha fatto apparire solo quegli insiemi significanti che sono stati enunciati. Foucault
chiama questo principio legge di rarità. Vediamo di cosa si tratta. Si parte dalla consapevolezza che
non si dica mai tutto, ossia che rispetto alla combinatoria illimitata del linguaggio, gli enunciati non
esauriscano tutta la gamma di possibilità. La formazione discorsiva appare allora come "principio di
scansione" dei discorsi e come "principio di vacuità" nel linguaggio. Si tratta di studiare gli
enunciati nel momento e nei modi in cui sorgono, a partire dall'esclusione di altri enunciati, non
perché rimasti non detti o nascosti, ma perché ciò che interessa è un limitato sistema di presenze.
Non si va dunque alla ricerca di un testo sottostante, in quanto il campo enunciativo è tutto quanto
in superficie: si tratta di vedere come esso si ramifichi, quale sia la posizione occupata dai singoli
enunciati. L'analisi delle formazioni discorsive si rivolge proprio a questa rarità, prendendo come
oggetto il valore degli enunciati, determinato non dalla loro verità, ma dalla loro posizione, dalle
loro trasformazioni, dai loro rapporti. Altra caratteristica della descrizione degli enunciati: questi
vengono trattati nella forma dell'esteriorità. Se la storia tradizionale ha sempre cercato di passare da
queste esteriorità - intese come pura contingenza o dato materiale - ad una essenziale interiorità, al
nucleo della soggettività fondatrice, ad un Logos che scorrerebbe sotto la storia manifesta (ciò che
Foucault definisce "tema storico-trascendentale"), l'analisi enunciativa tenta di liberarsi da tutto ciò,
descrivendo gli enunciati nella loro dispersione "per analizzarli in una esteriorità indubbiamente
paradossale poiché non rimanda a nessuna forma contraria di interiorità. [...] Per riafferrare proprio
la loro irruzione, nel luogo e nel momento in cui si è prodotta. Per ritrovare la loro incidenza di
evento". Ciò significa che il campo enunciativo non deve essere considerato come la traduzione di
qualcosa che ha la sua origine in un altro luogo (nel pensiero o nell'inconscio degli uomini
considerati il modello di ciò che diventa visibile), ma come un campo effettivo di relazioni, di
regolarità, di avvenimenti. L'analisi degli enunciati si effettua senza alcun riferimento ad un cogito,
non chiama in causa colui che parla o che si nasconde dietro ciò che viene detto: essa si colloca
piuttosto in quel piano che Foucault definisce "livello del "si dice"", non da intendersi come una
sorta di opinione comune o collettiva o di grande voce anonima, ma come "l'insieme delle cose
dette, le relazioni, le regolarità e le trasformazioni che vi si possono osservare, il campo che con

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certe figure, con certe intersecazioni indica la posizione particolare di un soggetto parlante che può
ricevere il nome di autore. "Chiunque parla", ma quello che dice, non lo dice da una posizione
qualunque. È necessariamente implicato nel meccanismo di una esteriorità". Ultimo carattere
dell'analisi enunciativa: essa si rivolge a delle forme di "cumulo" che non si presentano né come
ricordo né come totalità di documenti. In realtà non si tratta di far risvegliare dal loro sonno o dal
loro passato gli enunciati: si tratta, invece, di seguirli lungo la loro vita, per scoprire che cosa li
caratterizza in quanto conservati, riutilizzati, dimenticati o anche distrutti. Questo tipo di analisi
presuppone che gli enunciati vengano considerati:

nella loro persistenza (non da cercare nel campo della memoria, ma sotto forma di strumenti,
istituzioni, tecniche attraverso cui essi si sono conservati o meno);

nella loro additività (intesa come modo specifico di raggruppamento degli enunciati);

nella loro ricorrenza (gli enunciati comportano un campo di elementi antecedenti in rapporto ai
quali si situano e che riorganizzano e ridistribuiscono).
E' necessario liberarsi dalla figura del ritorno come recupero della purezza della parola e del
linguaggio non immersi ancora in nessuna materialità; dalla figura della soggettività come origine o
intenzione a cui obbedirebbero gli enunciati; dalla figura dell'origine come totalità o punto zero da
cui deriverebbero tutti gli enunciati e a partire da cui tutti sarebbero interpretabili. Gli enunciati
devono invece essere considerati nello spessore del cumulo in cui si trovano e che continuano a
modificare: ciò "significa stabilire quel che volentieri chiamerei una positività".

2.5. L'a priori storico e l'archivio


Questa positività non è ciò che permette di stabilire, ad esempio, quale di due discorsi possiede la
verità, ma ciò che consente di definire tra essi uno spazio di comunicazione ossia di manifestare
delle identità formali, delle continuità o discontinuità tematiche: " In tal modo la positività riveste il
ruolo di quello che si potrebbe chiamare un a priori storico. […] Con esse [queste due parole
giustapposte] intendo designare un a priori che sia non condizione di validità per dei giudizi, ma
condizione di realtà per degli enunciati". Questo concetto qui introdotto per la prima volta è
fondamentale per capire cosa Foucault intenda per positività e in che modo abbia finora concepito il
suo progetto di descrizione dei sistemi enunciativi. Foucault specifica che la ricerca non deve voler
rintracciare ciò che rende legittima una affermazione, ma evidenziare le condizioni di emergenza
degli enunciati, la specificità della loro esistenza, le leggi di coesistenza con altri enunciati, i
principi delle loro trasformazioni. Il termine "a priori" si riferisce alla storia che si è effettivamente
data, alle cose che sono state effettivamente dette e non ad una verità o ad un divenire estranei alla
storia specifica. Proprio per questo l'a priori di cui parla Foucault non è estraneo alla storicità, non
costituisce una struttura atemporale che domina dall'alto gli avvenimenti: esso può essere definito
come l'insieme di regole che caratterizzano e che appartengono ad una certa pratica discorsiva. "L'a
priori delle positività non è soltanto il sistema di una dispersione temporale; è esso stesso un
insieme trasformabile" e questo proprio perché è storico, assolutamente empirico a differenza di
tutti gli a priori formali. Non vi sono più pensieri costituiti che si traducono in parole, ma si hanno,
nelle pratiche discorsive, dei sistemi che instaurano gli enunciati come degli eventi. Foucault
chiama questi sistemi di enunciati con la parola archivio. "L'archivio è anzitutto la legge di ciò che
può essere detto, il sistema che governa l'apparizione degli enunciati come avvenimenti singoli".
Esso è ciò che fa sì che le cose dette sorgano secondo certe regolarità, inserite in un sistema
enunciativo che predispone determinate possibilità di esistenza per esse. L'archivio è ciò che
definisce il modo di esistenza attuale dell'enunciato, costituendone il sistema di funzionamento.
Esso si distingue dalla lingua: se questa stabilisce il sistema di costruzione delle frasi possibili,
l'archivio definisce il campo di una pratica che fa sorgere determinati enunciati, è insomma "il

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sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati", costituendo quindi per
l'enunciato-evento il sistema della sua enunciabilità. L'archivio non è però descrivibile nella sua
totalità in quanto noi stessi parliamo al suo interno, siamo dentro le sue regole, le sue possibilità.
Esso si dà invece per frammenti, per regioni. In questo senso è possibile affermare che esso ci
delimita, stabilendo delle soglie di esistenza che via via cambiano, compaiono e scompaiono. Ecco
perché Foucault afferma che l'archivio spezza il filo di tutte le telelologie trascendentali, dissipa la
categoria antropologica della soggettività sovrana ed autonoma: proprio perché storico ed empirico,
esso "fa brillare l'altro e l'esterno. […] Stabilisce che noi siamo differenza, che la nostra ragione è la
differenza dei discorsi, la nostra storia la differenza dei tempi, il nostro io la differenza delle
maschere. Che la differenza non è origine dimenticata e sepolta, ma quella dispersione che noi
siamo e facciamo. " La descrizione mai definitiva dell'archivio rappresenta l'orizzonte che abbraccia
l'analisi delle formazioni discorsive, l'analisi delle positività e del campo enunciativo. Questo tipo di
ricerca assume il nome di "archeologia", non come rinvenimento di un origine lontana, ma come
descrizione del già detto a livello dei modi della sua esistenza, come descrizione dei discorsi in
quanto pratiche specifiche appartenenti all'archivio.

3. La descrizione archeologica

3.1. Archeologia e storia delle idee


Una volta introdotte tutte queste nuove nozioni, queste nuove unità, questi nuovi campi di indagine,
è necessario però analizzare cosa effettivamente sia in grado di offrire, a differenza di altri tipi di
descrizioni, l'"archeologia". Questa analisi si differenzia veramente da quella che finora è stata
chiamata "storia delle idee" (come tipo di analisi che reinterpreta le diverse discipline, che va alla
ricerca dell'esperienza originaria nascosta dietro i discorsi, della continuità e del progresso lineare
dietro la differenza dei temi e dei discorsi)? La storia delle idee, e con essa anche molti tipi di
analisi storica, è caratterizzata dalla ricerca della genesi, della continuità e della totalizzazione;
l'archeologia è invece proprio abbandono della storia delle idee e delle sue procedure. Sono quattro
le principali differenze individuate da Foucault tra i due tipi di analisi:

1) L'archeologia non vuole descrivere ciò che si cela dietro i discorsi - intenzioni, pensieri,
rappresentazioni - ma proprio i discorsi in quanto pratiche governate da precise regole. Non però i
discorsi in quanto documenti interpretabili, in quanto segni di qualcos'altro, ma i discorsi nel loro
spessore concreto e specifico.
2) L'archeologia si presenta come un'analisi differenziale delle modalità del discorso: essa vuole
cioè definire i discorsi nella loro specificità, mostrando i sistemi di regole che li governano e non
cercando di risalire ad una identità unica e costante sottesa ad essi.
3) L'archeologia non si rifà alla figura dell'opera, ma si riferisce a delle pratiche discorsive che
attraversano le singole opere: rifiuta così l'istanza del soggetto creatore come principio di unità e
ragione d'essere dell'opera.
4) L'archeologia, infine, non cerca di rinvenire ciò che si è effettivamente pensato, desiderato,
immaginato con un certo discorso; non cerca un'identità che sarebbe stata squarciata e persa dal
discorso. Essa è invece una sorta di riscrittura di un discorso fatto oggetto, di ciò che è stato detto o
scritto.

3.2. L'originale e il regolare


Abbiamo visto come secondo Foucault nella storia delle idee sia centrale la problematica
dell'origine. Questa ricerca apre da subito due problemi metodologici: quello della "somiglianza" e
quello della "precessione". La storia delle idee ritiene che tutti gli avvenimenti e i discorsi siano
collocabili in un'unica grande serie in grado di fissare dei punti di riferimento cronologici
omogenei, che tra i vari dati sia possibile, cioè, distinguere l'elemento originario, primario dal punto
di vista temporale (tema della precessione) e l'elemento somigliante o identico tra i diversi tipi di

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formulazioni (tema della somiglianza). Secondo Foucault non è possibile parlare allo stato puro né
di precessione né di somiglianza, in quanto entrambe sono rinvenibili solo a partire dall'analisi del
campo discorsivo in cui le si rintraccia. L'archeologia non vuole stabilire tra le varie frasi una
gerarchia, ma rinvenire le "regolarità" degli enunciati: regolarità intesa non come ciò che si ripete
opponendosi a ciò che è apparso per la prima volta in modo originario ed unico, ma come l'insieme
delle condizioni secondo cui si esercita ogni funzione enunciativa. La regolarità non consiste in una
sorta di indice di frequenza o di probabilità; essa specifica, invece, un campo effettivo di
apparizione. Ciò che si contrappone non è la regolarità di un enunciato all'irregolarità di un altro
(che sarebbe più innovativo, singolare), ma le diverse regolarità che caratterizzano gli enunciati le
quali concernono, quindi, tanto le affermazioni che fanno apparire qualcosa di nuovo, quanto quelle
che riprendono ciò che è stato detto. "Il campo degli enunciati non è un insieme di plaghe inerti
scandito da momenti fecondi; è un campo attivo da cima a fondo". Nel momento in cui l'archeologia
si interessa ai campi delle regolarità enunciative sta dunque differenziandosi tanto dall'analogia
linguistica (ossia la traducibilità degli enunciati) quanto dall'identità o equivalenza logica: possono
esserci, infatti, frasi equivalenti dal punto di vista grammaticale o logico che si differenziano però
per la pratica enunciativa a cui appartengono. Ciò non significa che ogni enunciato apre un nuovo
campo discorsivo, in quanto molti enunciati derivano, all'interno dello stesso discorso, da altri che
costituiscono degli "enunciati rettori" i quali definiscono le strutture osservabili, il campo degli
oggetti, i codici percettivi. Questo sistema di derivazione non è da confondere con una struttura
deduttiva in cui i significati delle esperienze e delle concettualizzazioni verrebbero fatti derivare da
un certo numero di assiomi o da un nucleo filosofico originario: "L'ordine archeologico non è
quello delle sistematicità né quello delle successioni cronologiche", anche se tra questi diversi
ordini possono esserci dei parallelismi. L'analisi delle formazioni discorsive in Foucault non vuole
essere un tentativo di periodizzazione totalitaria, come se in un certo periodo tutti pensassero allo
stesso modo pur con delle differenze di superficie. L'archeologia descrive dei livelli di omogeneità
enunciativa, individuando degli ordini, delle relazioni, delle gerarchie e non, invece, una sincronia
globale e data una volta per tutte.

3.3. Le contraddizioni
La storia delle idee di fronte alle contraddizioni, all'incompatibilità tra le proposizioni o
all'irregolarità nell'uso delle parole ha sempre cercato di restituire al discorso la sua unità, la sua
coerenza. Ma questa coerenza ed unità, proprio perché spesso non esplicite, sono il risultato della
ricerca e dell'analisi le quali le hanno dovute supporre, dare per certamente esistenti al di là delle
superficiali contraddizioni, per poterle ricostruire: si possono cercare a livello del soggetto parlante,
il cui discorso però non è stato capace di rivelare; o si possono cercare nelle strutture utilizzate,
anche inconsciamente, dall'autore, o nell'epoca, nelle tradizioni a cui un individuo appartiene. La
coerenza così trovata mostrerebbe che ciò che ci è inizialmente sembrato contraddittorio non è altro
che "luccichio superficiale; e che bisogna ricondurre ad un unico centro focale tutto questo insieme
di bagliori dispersi”. L'analisi proposta dalla storia delle idee vuole smascherare questa
contraddizione e ricondurla alla pacificazione di un'unità e una coerenza nascoste. Dopo questo
lavoro, per lo storico delle idee rimangono o delle contraddizioni accidentali oppure la
contraddizione fondamentale, che consiste nello scontro all'origine del sistema stesso di princìpi e
postulati tra loro incompatibili: il primo genere di contraddizioni è ciò che bisogna superare facendo
emergere l'unità profonda del discorso che rappresenta, quindi, la figura ideale da rinvenire al di là
degli elementi accidentali; l'altro tipo di contraddizione è ciò che emerge attraverso il discorso, il
quale ne diventa così la figura empirica. Analizzare il discorso significa allora far scomparire alcune
contraddizioni e renderne manifeste altre. Per l'analisi archeologica le cose cambiano radicalmente:
le contraddizioni non devono essere né superate in quanto accidentali né evidenziate in quanto
principi segreti da portare alla luce: sono invece degli oggetti da descrivere, da collocare in un
luogo preciso di emergenza e di esistenza. Non si cerca di scoprire dietro esse una tematica comune,
ma la misura del loro divario: "In rapporto a una storia delle idee che voglia risolvere le

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contraddizioni nell'unità semioscura di una figura globale, o che voglia trasferirle in un principio
generale, astratto ed uniforme d'interpretazione o di spiegazione, l'archeologia descrive i differenti
spazi di dissenso". L'archeologia studia quindi i diversi tipi di contraddizione, i diversi livelli in cui
esse si possono rintracciare e le diverse funzioni che possono esercitare. Una formazione discorsiva,
quindi, non è un testo lineare, privo di contraddizioni o in grado di risolverle riportandole ad un
qualche tipo di unità pacificante: essa è invece uno spazio di dissensi, di trasformazioni di cui
l'archeologia si propone di descrivere i livelli ed il funzionamento. "Si tratta insomma di mantenere
il discorso nelle sue molteplici asperità; e conseguentemente di sopprimere il tema di una
contraddizione uniformemente perduta e ritrovata, risolta e sempre rinascente, nell'elemento
indifferenziato del Logos".

3.4. I fatti comparativi


Nel descrivere le formazioni discorsive, l'archeologia deve confrontarle, contrapporle, fissarne i
limiti cronologici, presentandosi così come uno studio al plurale e distinguendosi allo stesso tempo
da tutti gli altri tipi di descrizione. Quando infatti si comparano diverse formazioni discorsive non si
va alla ricerca di forme generali, ma di configurazioni particolari (ad esempio, confrontando la
Grammatica generale, l'Analisi delle ricchezze e la Storia naturale nell'epoca classica non si ricerca
la mentalità generale o la forma di razionalità a loro sottesa, ma gli insiemi determinati di
formazioni discorsive che posseggono specifici rapporti descrivibili). Queste configurazioni si
trovano poi in relazione con altri gruppi di discorso formando quella che Foucault definisce una
"configurazione interdiscorsiva". Di conseguenza, questa analisi non vuole essere esaustiva, proprio
perché il suo obiettivo non è la descrizione dello spirito di un'epoca, del volto di una cultura ma la
descrizione di una "regione d'interpositività"; e proprio perché sceglie solo alcune delle formazioni
discorsive esistenti tra tutte quelle appartenenti ad una data epoca, essa presenta solo uno degli
insiemi descrivibili: "L'orizzonte a cui si rivolge l'archeologia, non è una scienza, una razionalità,
una mentalità, una cultura; è un groviglio d'interpositività di cui non si possono fissare di colpo i
confini e i punti d'incontro. L'archeologia: un'analisi comparativa che non è destinata a ridurre la
diversità dei discorsi e a delineare l'unità che li deve totalizzare, ma è destinata a suddividere la loro
diversità in figure differenti. Il confronto archeologico non ha un effetto unificatore, ma
moltiplicatore". Ma cosa vuole effettivamente mettere in luce l'analisi archeologica? Essa vuole
analizzare il meccanismo delle analogie e delle differenze che caratterizzano le formazioni
discorsive così come esse appaiono a livello delle regole di formazione. Questo significa:

mostrare gli isomorfismi archeologici (come elementi discorsivi differenti si formino a partire da
regole analoghe);

definire il modello archeologico di ogni formazione (come le regole si applichino o meno, si


concatenino o no nei vari tipi di discorso);

mostrare l'isotopia archeologica (come concetti diversi occupino un posto analogo nei diversi
sistemi di positività);

mostrare i divari archeologici (come un'unica nozione abbracci due elementi archeologicamente
distinti);

individuare le correlazioni archeologiche (come tra diversi gruppi di positività si possano stabilire
rapporti di subordinazione o complementarietà).
Ciò che interessa alla descrizione archeologica non sono tanto le influenze, gli scambi, ma piuttosto
ciò che li ha resi possibili. Si descrive cioè il campo che ha costituito la condizione di possibilità
storica per tutti questi scambi. L'archeologia vuole anche studiare i rapporti tra le formazioni

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discorsive e quelle non discorsive (le istituzioni, gli avvenimenti politici, i processi economici).
Essa però non cerca di rinvenire le motivazioni di un certo insieme di fatti enunciativi (ricerca del
contesto di formulazione) e neppure ciò che si esprime in esso (compito dell'ermeneutica), ma vuole
individuare i modi in cui si articolano questi due generi di formazioni. Relazioni di causalità, di
riflesso, di simbolizzazione si possono individuare, secondo l'analisi archeologica, soltanto dopo la
descrizione delle positività e delle regole di formazione di queste positività. Ma se l'archeologia
rifiuta la ricerca delle cause come metodo del suo lavoro, se non vuole vedere nel discorso la
superficie di riflesso di avvenimenti che accadono altrove, se vuole eliminare il ricorso alla figura di
un soggetto-padrone , non è per affermare di contro l'assoluta indipendenza del discorso, ma per
scoprire che questo non possiede uno statuto puramente ideale e astorico, ma vive all'interno di un
vasto campo di istituzioni, di processi economici, politici e di rapporti sociali.

3.5. Il cambiamento e le trasformazioni


L'archeologia pare però in qualche modo pietrificare la storia nella miriade di unità che vuole
descrivere, spesso prescindendo dalle loro concatenazioni temporali: "Più eternità che si succedono,
un complesso di immagini fisse che si eclissano a turno, tutto ciò non realizza né un movimento, né
un tempo, né una storia". La descrizione delle regole di formazione degli enunciati, del campo in
cui esse funzionano, non elimina l'elemento temporale, ma mette semplicemente da parte l'idea che
la successone sia un assoluto, evidenziando invece le diverse forme di successione che si
intersecano nel discorso. L'archeologia vuole liberarsi di due modelli: il modello lineare della parola
secondo il quale gli avvenimenti si succedono gli uni agli altri e il modello del flusso della
coscienza in cui il presente è considerato come conservazione del passato e apertura del futuro. Il
discorso considerato dall'archeologia non consiste in una coscienza che esterna il suo progetto sotto
forma di linguaggio, ma è una pratica che presenta determinate forme di concatenazione e di
successione. Secondo aspetto che dobbiamo specificare: l'archeologia, come abbiamo visto, invece
di riannodare i fili che dovrebbero unire i discorsi, gli avvenimenti, ricerca piuttosto le differenze, le
discontinuità e cerca di analizzarle, di differenziarle. Ma in quale senso avviene questo?
Innanzitutto l'archeologia distingue diversi piani di eventi: quello degli enunciati, dei concetti, degli
oggetti, delle scelte strategiche; in secondo luogo li analizza, ma riportandoli non al modello
teleologico o psicologico e cioè riferendosi non in modo generale al cambiamento, ma
analizzandone le trasformazioni (gli elementi di un sistema, i rapporti tra le regole di formazione,
tra le diverse positività, ecc.). Trasformazioni che non implicano la scomparsa improvvisa dei
concetti, degli oggetti, delle enunciazioni, ma il sorgere di nuove regole di formazione (che,
ripetiamo, è il principio della molteplicità e della dispersione dei concetti e degli oggetti e non della
loro determinazione). Non c'è opposizione tra continuo e discontinuo, quasi che il secondo fosse
sinonimo di irrazionalità: l'archeologia vuole "mostrare come il continuo si formi secondo le stesse
condizioni e in base alle stesse regole della dispersione; e che esso rientra [...] nel campo della
pratica discorsiva". La frattura non deve quindi essere vista come un'interruzione rispetto a due
epoche: essa è una discontinuità tra due positività caratterizzata da specifiche trasformazioni.
L'archeologia non si concentra allora né solo sulle epoche, che non rappresentano più il suo
orizzonte ed unico oggetto, né solo sulle fratture come confine dell'analisi condotta, ma sulle
pratiche discorsive che attraversano con le loro trasformazioni le epoche e i discorsi.

3.6. Scienza e sapere


Ma l'archeologia, con i nuovi concetti introdotti, le nuove unità di riferimento, che rapporto può
instaurare con l'analisi delle scienze?
a) Positività, discipline, scienze
Si potrebbe forse credere che l'archeologia con i termini "formazione discorsiva" e "positività" non
sia in grado di affrontare l'analisi del discorso scientifico, concentrandosi piuttosto su altri tipi di
discipline. Insomma l'archeologia parrebbe poter analizzare quelle discipline che non sono delle
vere e proprie scienze, ma degli abbozzi di scienze future. Secondo Foucault, al contrario,

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l'archeologia non descrive delle discipline ma delle positività, delle formazioni discorsive, che in
alcuni casi possono coincidere con delle discipline ma in altri no. Non c'è infatti alcuna relazione
biunivoca tra le discipline istituite e le formazioni discorsive (questo è quanto scoperto, ad esempio,
nella Storia della follia, in cui analizzando la nuova disciplina psichiatrica comparsa nel XIX secolo
sono emerse una serie di formazioni discorsive, di relazioni tra istituzioni che non si sono potute
descrivere come semplici elementi di una disciplina: tutte queste pratiche oltrepassavano la
disciplina stessa appartenendo a diversi campi - a quello dell'amministrazione, della filosofia e della
letteratura, dell'organizzazione del lavoro e dell'assistenza, ecc.). Ma allora ciò che è stato indicato
con il nome di formazione discorsiva non potrebbe essere il nucleo delle futura scienza?
L'archeologia non andrebbe così alla ricerca di tutti quegli elementi eterogenei che andranno poi a
costituire la base da cui prenderà avvio una scienza? Anche qui Foucault dà una risposta negativa:
ciò che ad esempio è stato chiamato grammatica generale non comprende tutto ciò che poi si è detto
sul linguaggio o di cui si è occupata la filologia. Ma allora la relazione tra le positività e le scienze è
cronologica o forse di esclusione? Se non si possono identificare le formazioni discorsive con le
scienze ma neppure con le discipline in generale e se neppure è lecito escludere una qualche
relazione tra esse, quale rapporto esiste tra le positività e le scienze?
b) Il sapere
Le positività non definiscono una forma di conoscenza e neppure il grado raggiunto da una
conoscenza in un dato momento: "analizzare delle positività significa mostrare in base a quali
regole una pratica discorsiva possa formare dei gruppi di oggetti, degli insiemi di enunciazioni, dei
complessi di concetti, delle serie di scelte teoriche" . Esse non costituiscono né una scienza né, però,
delle conoscenze eterogenee e raggruppate insieme magari da un soggetto. Possiamo pensare ad
esse come la condizione preliminare di ciò che in seguito si rivelerà e funzionerà come conoscenza
o errore, acquisizione o perdita. "Questo insieme di elementi, regolarmente formati da una pratica
discorsiva e indispensabili alla costituzione di una scienza, benché non necessariamente destinati a
darle vita, si può chiamare sapere." L'archeologia segue un cammino diverso da quello coscienza-
conoscenza-scienza: essa infatti segue il percorso pratica discorsiva-sapere-scienza in cui il soggetto
non è più il fulcro ma è sempre situato e dipendente (posizione del soggetto). Ecco perché è
necessario distinguere tra campi scientifici e territori archeologici: allo stesso campo di scientificità
appartengono le proposizioni che rispettano determinate leggi di costruzione; i territori archeologici
attraversano invece testi letterari, scientifici, filosofici perché il sapere non corrisponde solo alle
dimostrazioni ma comprende anche testi fantastici, racconti, decisioni politiche. La pratica
discorsiva allora non coincide con l'elaborazione scientifica che può sorgere da essa: piuttosto si
può dire che le scienze appaiono sullo sfondo di un sapere. Si aprono così nuovi problemi a cui
Foucault non darà risposta, ma proporrà una direzione di analisi: come collocare e definire la
funzione di una regione di scientificità all'interno di un territorio archeologico? Secondo quali
processi emerge una regione di scientificità in una formazione discorsiva?
c) Sapere e ideologia
Una scienza una volta costituita non assorbe in sé la formazione discorsiva in cui era comparsa, ma
neppure la cancella: essa svolge la sua funzione collocandosi in un campo di sapere e modificandosi
insieme alle trasformazioni delle formazioni discorsive. L'analisi archeologica vuole studiare il
rapporto tra scienza e sapere, mostrando come la prima funzioni all'interno del secondo. Proprio in
questo spazio si determinano i rapporti tra l'ideologia e le scienze, ossia nel punto di contatto tra il
sapere e le scienze, laddove queste modificano e insieme confermano il sapere. Foucault porta come
esempio quello dell'economia politica: essa svolge una precisa funzione all'interno dell'economia
capitalistica che può essere rinvenuta nella difesa degli interessi della società borghese; ma ciò non
basta per descrivere a fondo i rapporti tra la struttura epistemologica dell'economia e la sua funzione
ideologica: sarà necessario "passare attraverso l'analisi della formazione discorsiva che le ha dato
luogo e dell'insieme degli oggetti, dei concetti, delle scelte teoriche che ha dovuto elaborare e
sistematizzare", oltre che attraverso l'analisi dei rapporti con le altre pratiche discorsive e non
discorsive con cui è entrata in contatto.

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d) Le diverse soglie e la loro cronologia
Per una formazione discorsiva si possono descrivere diverse soglie di emergenza:

soglia di positività quando una pratica discorsiva s'individualizza e a partire da cui si inizia ad
impiegare un unico sistema di formazione degli enunciati;

soglia di epistemologizzazione quando un insieme di enunciati vuole far valere delle regole di
verifica e coerenza;

soglia di scientificità quando la figura epistemologica così formata non obbedisce solo a regole
archeologiche di formazione, ma anche a leggi di costruzione delle proposizioni;

soglia di formalizzazione quando il discorso svilupperà l'intero edificio formale (assiomi necessari,
strutture proposizionali, trasformazioni).
Lo studio di queste soglie e della loro cronologia (che non è automatica, in quanto non tutte le
formazioni discorsive passano attraverso tutte queste soglie e non sempre secondo lo stesso ordine)
costituisce un importante campo di studio per l'archeologia.
e) I diversi tipi di storia delle scienze
Ad ognuna delle soglie individuate corrisponde un diverso tipo di analisi storica.

L'analisi del livello di formalizzazione è ad esempio quella realizzata dalla storia che la matematica
racconta di se stessa nel processo continuo della sua elaborazione, in quanto essa non cancella mai
come non scientifico ciò che è stata in un dato momento, ma continuamente lo ridefinisce al suo
interno.

L'analisi che interessa la soglia della scientificità si chiede come sia possibile che un concetto si sia
liberato di tutte le risonanze non ancora scientifiche per assumere statuto scientifico. È quindi un
tipo di storia che racconta l'opposizione tra errore e verità, tra purezza e impurità, tra scientifico e
non scientifico.

L'analisi che parte dalle soglie di epistemologizzazione cerca di individuare le pratiche discorsive
che danno vita ad un sapere che assumerà in seguito lo statuto di scienza; significa cioè partire dalla
descrizione delle pratiche discorsive per far vedere come si sia giunti a delle norme di scientificità,
e a volte anche alla soglia della formalizzazione. "L'analisi delle formazioni discorsive, delle
positività e del sapere nei loro rapporti con le figure epistemologiche e le scienze, la si è chiamata
[…] l'analisi dell'episteme. […] L'episteme non è una forma di conoscenza o un tipo di razionalità
che, passando attraverso le scienze più diverse, manifesti la sovrana unità di un soggetto, di una
mente o di un'epoca; è l'insieme delle relazioni che per una data epoca si possono scoprire tra le
scienze quando si analizzano al livello delle regolarità discorsive".
La descrizione dell'episteme non può dunque mai dirsi conclusa; e così pure l'episteme stessa non
costituisce un campo immobile, proprio perché è l'insieme mobile di relazioni tra le positività, le
pratiche discorsive, le figure epistemologiche e le scienze. Questo tipo di analisi si differenzia
quindi da tutte quelle che individuano il diritto di una scienza a ritenersi tale nel fondamento
costituito dal soggetto trascendentale, in quanto essa guarda invece all'esistenza stessa della scienza
e ai suoi processi in quanto pratica storica.
f) Altre archeologie
Ultimo problema esaminato da Foucault: è proprio necessario che la descrizione archeologica
guardi sempre all'episteme, ai discorsi scientifici o può interessarsi anche ad altre regioni? Foucault
prende come esempio un possibile studio futuro sulla sessualità. Invece di analizzare come siano

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sorte le figure epistemologiche della sessualità elaborate dalla biologia o dalla psicologia, ci si
potrebbe chiedere quale pratica discorsiva fosse implicata dai comportamenti e dalle
rappresentazioni sessuali; ossia se la sessualità, al di fuori del discorso scientifico, costituisse un
campo di oggetti di cui parlare, un campo di enunciazioni (liriche, giuridiche o altro), un insieme di
concetti e di scelte. Un'analisi archeologica di questo tipo si chiederebbe come i divieti, i limiti, le
manifestazioni verbali e non concernenti la sessualità possano essere legate a una determinata
pratica discorsiva. E mostrerebbe come un certo modo di parlare possa essere una delle forme,
anche se non scientifiche, secondo cui descrivere la sessualità: in questo caso, ad esempio, l'analisi
non andrebbe in direzione dell'episteme, quanto piuttosto dell'etica. Altro esempio: l'analisi di un
quadro. Per analizzarlo è possibile indagare il discorso non detto del pittore, la sua nascosta visione
del mondo, l'epoca in cui si trovò a vivere e operare. L'analisi archeologica, invece, segue un'altra
direzione: considera se lo spazio, i colori, la luce, le proporzioni, ecc. non siano stati
concettualizzati e enunciati in una certa pratica discorsiva, secondo precise forme di insegnamento,
di tecniche. Essa non vuole far vedere come la pittura sia un modo di dire che non ricorre alle
parole, ma dimostrare che la pittura è una particolare pratica discorsiva caratterizzata da tecniche ed
effetti: "… la pittura non è una pura visione che si debba poi trascrivere nella materialità dello
spazio; tanto meno è un gesto nudo i cui significati muti e infinitamente vuoti debbano venire
enucleati da ulteriori interpretazioni. Essa è permeata tutta quanta - e indipendentemente dalle
conoscenze scientifiche e dai temi filosofici - dalla positività di un sapere." È vero. Finora Foucault
ha indagato in direzione dell'episteme, ma solo perché le formazioni discorsive nelle nostre culture
tendono ad epistemologizzarsi. Ma come già detto all'inizio si tratta solamente di un punto di
partenza provvisorio e preferenziale per l'archeologia, non di certo obbligato.

Conclusione
Nella conclusione del libro Foucault presenta una serie di possibili obiezioni che potrebbero
venirgli mosse.

Foucault sembra non aver voluto utilizzare gli strumenti proposti dallo strutturalismo, né alcun tipo
di formalizzazione nelle sue descrizioni, lasciando intendere, quasi implicitamente, che il campo
studiato si sottraeva a qualsiasi schema. Ma non è forse questa una sorta di impotenza che ha voluto
darsi il nome di metodo, ricorrendo di volta in volta all'uso di nuovi termini (positività, formazioni,
pratiche discorsive, ecc.)? E l'aver rifiutato il ricorso alle varie categorie antropologiche, la figura
del soggetto parlante, e soprattutto il riferimento del discorso alla sua temporalità, non coincide
forse con l'incapacità di vedere il discorso come qualcosa di essenzialmente storico? Foucault
riconosce di aver rifiutato di riferire il discorso ad una soggettività, ma questo per far apparire i
diversi livelli possibili di analisi, per far vedere come i discorsi non nascondessero delle leggi o
delle forme applicate da tutti i soggetti in una data epoca, ma come diversi individui nella stessa
epoca potessero parlare di oggetti differenti, usando concetti differenti. Foucault non ha voluto
evitare il problema del soggetto, ma ha voluto affrontarlo definendo le posizioni e le funzioni da
esso assolte nella diversità del discorso: "Non ho negato la storia, ho tenuto in sospeso la categoria
generale e vuota del cambiamento per far apparire delle trasformazioni di livelli differenti; rifiuto
un modello uniforme di temporalizzazione per descrivere di ogni pratica discorsiva le regole di
accumulo, di esclusione, di riattivazione, le forme particolari di derivazione e i modi specifici di
inserimento in successioni diverse".

Se anche ormai è possibile accettare che vi siano delle leggi di struttura che governano la lingua,
l'inconscio e l'immaginazione degli uomini, non si può invece accettare di analizzare i discorsi nella
loro successione senza riferirli ad un'attività costitutiva, senza supporre un progetto originario o una
teleologia che li legherebbe tutti. È lecito sì indagare sulle relazioni, sugli elementi singoli, sulle
discontinuità, ma non "risalire fino alle forme del discorso che le rende possibili e mettere in

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discussione il luogo stesso da cui noi parliamo oggi. La storia di quelle analisi in cui si evita la
soggettività conserva dentro di sé la propria trascendenza". Foucault traduce l'obiezione avanzata in
questi termini: "Certo, ormai dobbiamo accettare che l'analisi dei discorsi, delle opere, dei sistemi
filosofici non sia più riportata esclusivamente alla storia dell'anima o a un progetto d'esistenza, ma a
delle strutture secondo cui i vari campi della realtà si articolano. Ma la sovranità della coscienza, il
tema storico-trascendentale potranno essere recuperati in seconda istanza attraverso l'analisi di tutte
queste analisi, la ricerca della loro origine, della loro destinazione, del loro senso che sarà sempre e
comunque fissato dalla ragione e dalla sua intrinseca designazione trascendentale" Foucault ha
voluto spingersi oltre proprio questa posizione e "affrancare la storia del pensiero dalla soggezione
trascendentale. […] Si trattava di analizzare questa storia in una discontinuità che non fosse ridotta
in anticipo da nessuna teleologia; di rintracciarla in una dispersione che non potesse essere
racchiusa da nessun orizzonte preliminare, di lasciare che si manifestasse in un anonimato a cui
nessuna costituzione trascendentale imponesse la forma del soggetto; di aprirla a una temporalità
che non promettesse il ritorno di nessuna aurora”. La vera opposizione a questa nuova proposta di
analisi viene, secondo Foucault, proprio dalla volontà di garantire il ruolo fino allora svolto dalla
coscienza, il suo potere costitutivo. Tutto il misconoscimento del metodo di lavoro e del significato
dell'archeologia (il considerarla come una ricerca fallita dell'origine, degli atti fondatori, o come
un'analisi delle totalità culturali incapace di cogliere l'orizzonte empirico, a differenza del lavoro del
vero storico) appare coerente con il tentativo di salvare le vecchie categorie antropologiche. Ed è
anche funzionale all'attacco rivolto allo strutturalismo il quale, nel tentativo di applicare i suoi
metodi a tutti i campi del sapere, correrebbe il rischio di cadere in una sorta di ontologia della
struttura. In realtà il rifiuto dell'archeologia è teso a mascherare la crisi di tutte le forme di filosofia
trascendentale, di tutte le ideologie umanistiche che si fondavano sullo statuto del soggetto.

Ma come si possono legittimare le analisi di Foucault nel momento in cui rifiutano il ricorso ad un
soggetto costitutivo? Come si sottraggono all'accusa di non essere altro che un genere ingenuo di
positivismo? E poi a che campo appartengono, a quello della storia o della filosofia? Foucault
risponde che per ora il suo discorso non determina il luogo da cui parla, in quanto è discorso su dei
discorsi; non va alla ricerca di leggi nascoste o di un'origine dimenticata, ma effettua una
"diagnosi", che non vuole riconoscere un privilegio ad alcun centro, ma far invece emergere le
differenze, analizzandole in quanto oggetti e concetti. Se la filosofia è ricerca dell'origine lontana,
allora Foucault afferma che la sua indagine non può essere definita filosofica; e se la storia è ricerca
di questo filo unificatore, allora la sua ricerca non può neppure essere chiamata storica.

Si può pensare allora che per come è stata presentata l'archeologia, essa non possa essere
considerata una scienza: è una descrizione di cui non si esplicitano i fondamenti scientifici e per
questo è destinata a scomparire. È sicuramente vero che l'archeologia non è mai stata presentata
come scienza. Ma il suo campo di indagine (performances verbali, enunciato, archivio, regolarità
enunciative, positività, ecc.) si pone in rapporto con le scienze e le analisi di tipo scientifico, le quali
costituiscono per l'archeologia delle scienze-oggetto: essa si pone delle domande che riguardano le
altre scienze (la domanda sul soggetto coinvolge la psicanalisi; la ricerca delle regole di formazione
dei concetti riguarda il problema delle strutture epistemologiche; lo studio dei campi di formazione
dei concetti e dei discorsi interessa l'analisi delle formazioni sociali). Foucault ritiene che sia ancora
impossibile stabilire se l'archeologia costituisca una disciplina specifica o se sia solamente uno dei
modi di sollevare e affrontare un determinato gruppo di problemi.

Foucault, costringendo i discorsi e le azioni degli individui entro sistemi ben precisi di regole, non
avrebbe negato qualsiasi tipo di libertà, qualsiasi spazio di azione in cui muoversi per intervenire
nella realtà? Secondo Foucault affermando questo si sta commettendo un duplice errore che
riguarda tanto le pratiche discorsive quanto la libertà umana. Le positività descritte non devono
essere pensate come delle costrizioni che si impongono dall'esterno al pensiero o che risiedono in

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esso da sempre: esse sono invece l'insieme di condizioni secondo cui si esercita una pratica che dà
luogo a determinati enunciati. Non sono dei confini, ma il campo in cui la pratica esiste, le regole
secondo cui essa si articola, le relazioni che instaura. Ciò significa che parlare non vuol dire solo
esprimere quello che si pensa o far funzionare le strutture di una lingua, ma significa compiere
qualcosa di più complesso che comporta delle condizioni e delle regole; che un cambiamento nel
discorso non presuppone solo delle idee nuove, ma delle trasformazioni concrete all'interno di una
pratica. E per quanto riguarda l'idea di libertà, non è proprio la ricerca ostinata del senso, del
progetto, del soggetto costitutivo, del Logos sotteso agli avvenimenti che impediscono di pensare al
tema del cambiamento? Quale paura si nasconde nella ricerca del destino storico-trascendentale al
di là delle trasformazioni e delle fratture? Foucault sostiene che a questa domanda forse l'unica
risposta sarebbe di tipo politico e per il momento ne sospende l'approfondimento. Foucault è
consapevole della difficoltà della sua indagine e delle conseguenze che essa comporta per quanto
riguarda il colpo assestato alla coscienza e alla visione della storia come continuum. Afferma di
capire coloro che si oppongono al suo discorso a difesa del loro potere totale su ciò che pensano,
dicono, immaginano. Ma a costoro rimane da dire solamente che "il discorso non è la vita: il suo
tempo non è il vostro, in lui non vi riconcilierete con la morte; è possibile che abbiate ucciso Dio
sotto il peso di tutto quello che avete detto; ma non illudetevi di costruire con tutto quello che dite,
un uomo che vivrà più di lui".

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