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Cornia, il professionale

Nato a Modena nel 1965, Ugo Cornia è uno scrittore italiano, laureato in Filosofia, che
insegna e si occupa di sostegno agli studenti delle scuole superiori modenesi.
Alcuni suoi racconti apparvero ai suoi esordi letterari su varie riviste, tra cui Il Semplice,
Diario, Il Caffè illustrato e L'Accalappiacani. Il suo percorso letterario è iniziato con il
romanzo d'esordio nel 1999, intitolato Sulla felicità ad oltranza, a cui sono seguite altre
opere come Quasi amore (2001), Roma (2004), Le pratiche del disgusto (2007), Sulla
tristezze e i ragionamenti (2008), Le storie di mia zia (e altri parenti) (2008),
L’autobiografia della mia infanzia (2010), Animali (topi, gatti, cani e mia sorella)
(2014), Sono socievole fino all’eccesso (Vita di Montaigne) (2015), Buchi (2016),
Favole da riformatorio (2019) e La vita in ordine alfabetico (2021). Nella sua scrittura
Ugo Cornia fonde filosofia e vita quotidiana con uno stile lucido e preciso, narrando le
vicende a lui più vicine.
Per dirla con la sua ironia: un tempo è stato redattore della rivista "Il Semplice", e ha un
debole per le magliette dei Cure, nonostante non conosca la band. Porta i capelli lunghi
e gli occhiali, parla lentamente ma ad alta voce e ha un vocabolario personale che
include termini come "guzzare" per dire "fare l'amore" e "morosa" per "fidanzata", che
possono essere considerate espressioni ormai obsolete da alcuni. Si tratta di un
modenese che possiede una maggiore conoscenza del territorio montuoso rispetto a
quello della pianura, nonostante il punto di vista dello stimato scrittore Walter Siti, che
ha sviluppato un quadro filosofico completo basato sulla pianura della regione in cui
vive.
Ugo Cornia è un narratore che ama semplificare il suo rapporto con il lettore. Racconta
le sue storie come se ci si trovasse seduti insieme sotto il portico della casa di
campagna, fumandosi insieme una sigaretta al buio. Le sue storie sono immediate, prive
di quelle astrazioni tipicamente letterarie o di complesse costruzioni mentali, e sono
trasmesse in modo diretto. Le sue parole penetrano nel mondo materiale, al quale lo
scrittore dà vita con pochi ed esaustivi dettagli, come un buon pittore.
Negli anni l’autore ha creato uno stile unico di narrazione con la sua raccolta di racconti
«irragionevoli». Usa un approccio bizzarro, visionario e talvolta assurdo alla narrazione,
evidente nel suo libro di racconti intitolato Operette ipotetiche (Quodlibet 2010). Un
episodio divertente riguarda un padre che torna dall'aldilà solo per urinare e incontra suo
figlio in bagno. Cornia ama creare scenari privi di senso logico, come la convinzione
che gli oggetti scompaiano non appena smettiamo di percepirli. Immagina un mondo in
cui gli edifici e le strutture possano svanire e poi riapparire in seguito, inducendo le
persone a pensare che siano sempre stati lì. I critici hanno descritto il suo stile come non
convenzionale e a tratti folle, ma è senza dubbio comico e coinvolgente. Cornia ha
un'eccezionale capacità di reinventare persone e cose che spesso vengono trascurate o
ignorate. Prende ispirazione dalla lingua parlata e dalla vita di tutti i giorni, e le sue
storie contengono spesso elementi del soprannaturale, come fantasmi e lemuri che

1
fluttuano nell'aria. Sfida la nozione di vita e morte, presentandole in ordine cronologico
inverso, e immagina un aldilà che ricorda le abitudini terrene. Il registro linguistico
unico di Cornia è una testimonianza della sua creatività: è un maestro nel trasformare il
banale in qualcosa di straordinario.
C'è un brano esilarante in Operette ipotetiche nel quale prevede un futuro dove la
chirurgia potrà trasformare gli animali in esseri umani. Cornia immagina una chirurgia
tran-specie: «Se una mucca si stanca di essere una mucca, all'improvviso, attraverso un
intervento chirurgico, diventa un essere umano. Se una ragazza si innamora del suo
cane, può portarlo all'altare: l'ex Labrador diventa un bell'uomo.»1

Sì, sì, diamola la notizia, e la notizia era che Jessica era già incinta di sei mesi, e la gravidanza andava
avanti in modo perfetto, perché con l’ingegneria trans-specifica si facevano queste operazioni di Dna con
il salto di specie. 2

Diversi sono gli apparentamenti letterari che si potrebbero costruire, in maniera libera,
sull’opera di Ugo Cornia. Se si prende, per esempio, la sua collocazione come
insegnante a scuola, sia dalle interviste che nella sua scrittura appare un tratto alienato e
nichilista che fa pensare subito a Kafka e a Il Castello. Ciò è evidente, in modo
particolare, ne Il professionale (2012) dove l’insegnante comunica al preside e al
personale della scuola il proposito di licenziarsi, ma questi non conoscono le procedure
per mettere in atto una richiesta così bizzarra (che verrà poi soddisfatta nel giro di
qualche giorno). Il rapporto con la scuola è ben lontano dalle atmosfere deamicisiane ed
essa è, al contrario, percepita dal docente come un luogo di ostinata reclusione.

Tra l’altro, pensavo, essendomi appena liberato, cioè essendo appena scappato via definitivamente da
quella orrenda istituzione, io che non volevo pensarci più a quella cosa orrenda che è la scuola, in cui io
c’ero già stato troppo proprio come studente, e c’ero addirittura tornato anche come insegnante,
comunque insomma mi dicevo che per chiudere definitivamente la questione io entro due o tre giorni
dovevo telefonare alla zia Bruna, cioè dovevo telefonarle in quanto mio unico parente adulto restato
ancora in vita, e dirle cara zia, mi sono licenziato. Perché? Perché mi sono rotto i coglioni. Ma sei matto?
Che di sicuro mia zia mi avrebbe detto così, e tra l’altro prima questi miei dialoghi immaginari, in cui io
riesco a provare anche delle emozioni di odio di una certa intensità verso la zia, ma più che odio è
insofferenza, ma intensa (…)3

Questo sentire non può che riportare a Franz Kafka:

«Non posso andar via», disse K., «sono venuto qui per restarci, e ci resterò». E con una contraddizione
che non si diede la pena di spiegare, soggiunse quasi parlando a se stesso: «Che cosa avrebbe potuto
attirarmi in questo paese così tetro se non il desiderio di rimanervi?»» 4

1
Ugo Cornia e l’assurdo, articoli e interviste, 14 Maggio 2019 (alessandromosce.com)
2
Operette ipotetiche (Quodlibet 2010)
3
Il professionale, Ugo Cornia, pag. 28
4
Il Castello, traduzione di Anita Rho, p. 162

2
Nelle interviste5 Ugo Cornia mette in scena un contenuto narcisismo, una natura
indolente e stralunata, e un’ironia guizzante. Dichiara che l’episodio della richiesta di
licenziarsi è tratto dalla vita reale, perché al mattino detesta alzarsi presto e i 50 km da
fare per recarsi al paese dove si trovava la scuola, in un certo periodo, gli richiedevano
come sacrificio esagerato una sveglia alle 6 e 30.
Detesta le riunioni serali fra docenti, i collegi e gli inevitabili impegni burocratici legati
al mestiere d’insegnante. Si trova invece benissimo con gli studenti: le lezioni per lui
sono una fonte di divertimento e curiosità, e dai temi degli studenti – essendo le sue
materie l’italiano e la filosofia – trae continuamente spunti creativi e li trova interessanti
anche a livello linguistico.
«Al di là dell’errore spicciolo, mi danno un’idea piuttosto precisa di dove la lingua stia
andando e di come cambia, e di dove invece non va.»6
Il tratto assurdo e la follia sono elementi della lingua in cui Cornia scrive, prima di
appartenere all’edificio della sua teoria letteraria. Molto probabilmente tutto questo si
deve alla potente influenza di Giorgio Manganelli:

Se ben ricordo Manganelli l’ho conosciuto un giorno in cui Ermanno Cavazzoni a lezione lesse alcuni
brani da Hilarotragoedia: il solo ascolto di una prosa così inconsueta mi colpì all’istante, dentro di me si
mosse qualcosa. A Modena negli anni in cui ero studente c’era una libreria che aveva al piano superiore
molti pezzi di modernariato a metà prezzo, in alcuni casi anche a meno. Un giorno salii e trovai una
nicchia con otto libri di Manganelli messi in fila. In sole due tranche riuscii a procurarmeli tutti perché
costavano poco, soprattutto quelli editi da Rizzoli. L’unico che non presi fu Sconclusione, che lessi invece
in biblioteca, un posto in cui andavo a preparare gli esami universitari. Poi puntualmente invece di
studiare mi mettevo a temporeggiare tra gli scaffali…
Ricordo che l’incipit di Sconclusione fu per me una sorta di folgorazione. C’è stato un periodo in cui quel
libro lo sapevo praticamente a memoria, senza che avessi mai fatto lo sforzo di memorizzarlo. Mi si era
come stampato autonomamente nel cervello. Lo trovo un racconto fenomenale, anche se mi lascia sempre
la sensazione di non averlo mai davvero letto dall’inizio alla fine. Resto sinceramente colpito dal fatto che
non sia ancora stato ripubblicato. Manganelli ha poi questo aspetto, per certi versi insospettabile, che
quando viene proposto a un gruppo di persone dal vivo le fa sempre ridere di gusto. Il ritmo della sua
prosa, nonostante abbia una lingua ipercolta, funziona perfettamente per una lettura ad alta voce. Credo
ciò avvenga per via di un dosaggio micidiale di musicalità, retorica e ironia affabile.7

Ancora su Giorgio Manganelli, Cornia precisa come nacque la sua collaborazione


raccolta di aforismi e stravaganze dal titolo Il delitto rende ma è difficile (1997):
Ai tempi collaboravo con «Comix», un giornale che aveva la redazione qui a Modena ed era edito
da Panini, gli stessi delle figurine. Sempre in quel periodo avevo scritto una piccola recensione a Centuria
e Lietta Manganelli mi aveva inviato una lettera per complimentarsi. Poco dopo ero andato a trovarla in
campagna – era un periodo in cui ero felicemente disoccupato – e così ci siamo conosciuti di persona.
Sono poi tornato da lei una seconda volta insieme a Beppe Cottafavi, che allora dirigeva «Comix» dove
nel frattempo era stata inaugurata una collana di libri di piccolo formato. Con l’occasione dell’incontro, le
chiedemmo il permesso per pubblicare una serie di inediti del padre che ci sembravano pregevoli. Ne
ricordo in particolare uno su uno sciopero dei pescatori che era fenomenale. Avendoci collaborato in
5
Intervista con Ugo Cornia, Premio narrativa Bergamo (fonte Youtube)
6
Intervista con Ugo Cornia, Premio narrativa Bergamo (fonte Youtube)
7
Intervista a Ugo Cornia, nell’ambito della rassegna Manganelli Sconclusionato a cura di Emiliano
Ceresi

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prima persona, di quel libro lì possedevo tantissime copie che nel tempo ho donato per diffondere il più
possibile il culto manganelliano. Pensando di averne un’altra in casa, ho regalato anche l’ultima… 8

Illustra nel dettaglio aspetti della poetica manganelliana che lo hanno a suo dire
influenzato, in particolare dell’opera Centuria (1995):

La prima cosa da dire è che è un libro che mi fa ridere tantissimo perché, praticamente ad apertura di
pagina, ci si trovano idee fenomenali. Ho le mie centurie preferite che ho letto – e non credo di esagerare
– centosessanta volte. Penso a quella del signore che entra in un negozio per comprare un dopobarba e
all’uscita trova solo un pulviscolo grigio e si accorge, così, che gli hanno rubato il mondo. Il momento di
quel racconto che però mi fa ridere ogni volta come fosse la prima è quando realizza di essere in parte
colpevole del furto a suo danno poiché ha dimenticato di inserire l’antifurto «a quell’oggetto così
ingombrante». L’idea di trattare un pianeta come fosse una bicicletta da assicurare a un lampione mi
lascia sempre stupefatto. Oppure quel gioco metaletterario, che potrebbe proseguire ad infinitum, su uno
scrittore che scrive su uno scrittore che scrive di uno scrittore, che alla fine risulta essere un rapinatore: la
trovo una vertiginosa prova di virtuosismo. O, ancora, quella centuria con l’angelo che sta in un
appartamento abitato da strane potenze divine che descrive come talmente grande da riempire per intero
la stanza, una creatura paradisiaca che viene praticamente assimilata a un palloncino gonfiabile. L’idea di
un angelo enorme che occupa totalmente una camera ha in sé qualcosa di meraviglioso e al contempo di
terribilmente anti-angelico: ricordo nitidamente che – anche in questo caso – la prima volta che trovai
questa immagine rimasi totalmente spiazzato. È un’immagine potente che resta impressa: azzera tutta la
precedente iconografia teologica e ne riscrive una nuova, inedita e, direi, quasi fumettistica.9

È nelle sue osservazioni sulla scuola, anche attraverso i suoi articoli, pubblicati su varie
riviste, che si possono cogliere alcuni aspetti molto generali della scrittura di Ugo
Cornia. In parte, è possibile notare come la scelta cada quasi sempre, nel suo scrivere,
sul registro comico. Tuttavia, questo esito non è vuoto ma al contrario sapiente e
calibrato, in grado di contenere la riflessione sociologica; quest’ultima viene
contaminata dal paradosso, dall’ironia che si veste di tratti di angoscia tipicamente
manganelliani.
Se è vero che l’idealtipo a cui lo scrittore ritiene di appartenere è quello dell’antieroe,
immerso in una realtà – la scuola – che sente di disprezzare, allo stesso questi tratti
antieroici contaminano anche gli studenti, come si può vedere dal seguente corsivo, nel
quale gli studenti italiani sono paragonati a quelli americani, sempre seguendo la linea
del comico e del paradossale, in un argomento riguarda la violenza nelle scuole:

Essendo insegnante bisogna che qualcosina lo dica sui recenti fatti di violenza che si stanno realizzando
in questi giorni nella scuola. In primo luogo, vorrei sottolineare quanto la scuola italiana sia in una
situazione di arretratezza, sia sul piano umano che su quello tecnologico. In America un ragazzo, uno
studente, entra in una scuola e spara a una ventina di studenti e professori. Sembra, così dice Sky Tg 24,
che avesse addirittura dichiarato: “Diventerò un esperto di stragi scolastiche”. In Italia niente di tutto
questo. Bisogna accontentarsi di uno studente che picchia una professoressa su un braccio oppure,
addirittura, di un genitore che entra nella scuola del figlio e picchia il vicepreside. Le differenze saltano
immediatamente agli occhi e non sono piacevoli. In primo luogo, potrebbe infastidire il tipico stile naïf
dello studente italiano: va a scuola e come tutti i giorni è assolutamente impreparato, secondo me fino a

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Ivi
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Ivi

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cinque minuti prima non sapeva assolutamente che cosa avrebbe fatto e neanche se avrebbe fatto
qualcosa; poi la prof. gli dice una frase che non gli piace e lui, senza la minima progettazione di niente,
picchia la prof. su un braccio. Paragoniamolo allo studente americano: se è vero quello che si dice, che
voleva diventare esperto di stragi scolastiche, siamo davanti a un ragazzo che tutti i pomeriggi si
immaginava la strage, la pianificava, comprava le armi adatte, imparava a usarle, eccetera. Possiamo dire
che, anche se non agisce a fine di lucro, siamo alle prese con uno che si comporta come un professionista,
è serio. Lo studente italiano invece è uno che si abbandona a pulsioni momentanee, quasi come un
animale, e non ha la minima idea di passare i suoi pomeriggi a progettare qualcosa in modo serio. Lui al
pomeriggio è uno che va a spasso con gli amici. Quindi, riassumendo: di qua dell’Atlantico la solita bolsa
spontaneità naïf, oltre Atlantico progettazione, preparazione individuale e spirito di iniziativa. Ma è il
secondo confronto tra le cose italiane e quelle americane che si rivela ancora più interessante. Lo studente
italiano in questo secondo caso non picchia neanche il vicepreside di persona, ma conta su suo padre, è
suo padre che lo picchia. Immaginiamoci se si comportassero così anche gli studenti americani: uno
studente americano sogna di fare una strage a scuola e tutte le sere, quando torna a casa, inizia a dire a suo
padre: “Babbo, a scuola mi trattano male sia il vicepreside che i compagni, non potresti comprare dei
mitra e andare a scuola a far fuori venti persone?”. Come se uno non potesse far niente se non ci sono la
mamma e il papà a aiutarti. E invece lo studente americano non è vittima del tipico ambiente o clima
familistico italiano. E’ uno che da sempre in primo luogo ha stima nell’individuo, poi ha stima anche
dell’individuo che è lui, non ha bisogno di far sempre riferimento alla mamma o al papà. Non essendo
mammone, o in questo caso papone, sa che può farcela da solo. Da un po’ di tempo ha deciso di
ammazzare diciassette persone nella sua scuola e, quando il padre gli dice: “ti vedo serio. C’è qualcosa
che non va?” lui gli risponde subito: “no, no, papà, è una questione mia, ma adesso me la risolvo”. E
infatti la risolve. Ma pensiamo anche al cinema: la strage di Colombine ha prodotto ben due film,
entrambi premiati, e devo dirlo, avendoli visti entrambi si trattava di film molto belli. Adesso mettiamoci
nei panni di un regista italiano (lo dico con tutta la più sincera solidarietà con i colleghi, infatti è da
qualche giorno che chiedo ai miei studenti se qualcuno ha voglia di picchiarmi, che potremmo anche
discuterne prima, ma per adesso negano), comunque mettiamoci nei panni del regista italiano che invece
di venti morti, che di per sé sono molto spettacolari, si trova o una collega ferita in un braccio o un
vicepreside malmenato dal padre di uno studente. Fare un film che non sia una commedia è molto
difficile. E’ un po’ come voler fare dei documentari sulle tigri e avere a disposizione soltanto dei gatti
verniciati.10

In sostanza, tanto insegnanti che studenti italiani appartengono allo stesso mondo di
antieroi, fanno le cose per finta, e non sono in grado di assumere risoluzioni che
implichino un qualunque senso di responsabilità e sono infine tipizzati per la loro
“italianità”. Stupisce questa scrittura, che è in grado di essere comica, e di esprimere
allo stesso tempo, fondendole insieme, ironia e senso tragico della vita.
Una delle letture preferite di Cornia, fra i classici è l’Odissea, con Ulisse che « è un
personaggio che mi ha sempre affascinato per quel suo modo di ragionare così opposto
al nostro: ha Calypso, una dea bellissima ma piange guardando il mare e pensando alla
moglie che non può vedere invecchiare; e non dimentichiamo la sua infinita astuzia, dal
cavallo di Troia allo stratagemma con cui inganna Polifemo.» 11 L’eroe (o il personaggio
letterario) sembra sempre visto in controluce, attraverso i dettagli che lo spogliano della
sua classicità per restituirlo a una maggiore corporeità e umanità, che però diventa
immediatamente analisi della sua angoscia esistenziale e della sua follia.
10
Come sono arretrati gli studenti italiani, che si limitano a picchiare i prof. Il foglio, articolo del 18
Febbraio 2018 di Ugo Cornia
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Ugo Cornia: l'Odissea, intervista a rai cultura

5
In Il professionale (2012), i lettori intraprendono un viaggio iperrealistico ed
emozionante attraverso la mente di un insegnante a cui manca la passione in classe. La
vicenda è autobiografica, e riflette un’esistenza in perenne disordine: il protagonista va
avanti noncurante, vive la sua vita, flirta e affronta i fastidi dell'insegnamento.
Condivide un legame particolare con i suoi studenti maschi, relazionandosi con essi a un
livello surreale; come loro è lontano dagli standard di maturità che ci si aspetterebbe
dagli adulti. L'unico legame familiare del protagonista è sua zia Bruna, una voce
disincarnata al telefono che rappresenta la morale e le responsabilità tipiche di una
persona matura, a differenza dello stile di vita libero del protagonista.
Il professore non sopporta la routine opprimente della scuola, con le sue tradizioni senza
senso e gli estenuanti e pericolosi spostamenti. Alla fine, decide di lasciare il suo lavoro
di insegnante e assapora diversi mesi di vita tranquilla e spensierata, fino a quando i
suoi risparmi si esauriscono ed è costretto a riprendere a lavorare.
Questo il passo in cui avviene il cambiamento fatale:

Un giorno, proprio mentre stavo guidando per andare a lavorare, mi è venuta di colpo l’idea di
licenziarmi. Poi son rimasto senza soldi e, quasi contemporaneamente, senza una donna. Una mattina
squilla il telefono e era una scuola che mi chiedeva se ero disposto a fare una supplenza sul sostegno,
allora io gli ho detto che arrivavo subito, perché a quel punto c’era da baciarsi i gomiti a tornare a
insegnare. Soltanto che la scuola che mi ha chiamato era non soltanto nello stesso paese di quella da cui
mi ero licenziato dicendo che non sarei mai più entrato in una scuola in vita mia, ma addirittura nello
stesso edificio, che era diviso in due e ospitava due scuole diverse. Quindi me n’ero andato da un posto
tutto scoglionato e dopo soltanto otto mesi ritornavo nello stesso posto.12

Il protagonista, che scrive in prima persona, e coincide con l’autore, ha lasciato la


scuola in cui insegnava nel 2001 perché non poteva più alzarsi presto, guidare per
migliaia di chilometri per rimanere mezzo addormentato, ed era stanco di insegnare. Il
fatto che ritorni a insegnare nella stessa struttura scolastica abbandonata pochi mesi
prima alimenterà dicerie sul suo abbandono, ma soprattutto ripropone la già analizzata
metafora kafkiana, Il Castello dal quale invano il protagonista cerca di uscire.
Per vivere, il professore non ha bisogno di tanti mezzi di sussistenza, dato che dispone
di qualche soldo guadagnato con i diritti d’autore dei suoi libri e con la vittoria di
qualche premio letterario.
I mesi successivi al suo ritiro volontario saranno di incertezza: nonostante abbia lasciato
la scuola, che gli sembrava una grossa trappola, e nonostante fosse stata il suo motivo
all’scrizione nella Facoltà di Filosofia che aveva frequentato all’inizio proprio con lo
scopo d’insegnare, alla fine era il suo senso di libertà a essere minato e danneggiato.
L’avventura del licenziamento inizia malissimo, perché pur non essendone responsabile
travolge in macchina un cane, nel suo rientro a casa:

Comunque questa mia nuova libertà mi era iniziata imballando un cane. E forse era stato anche giusto
così, perché uno la sua libertà può volersela iniziare in tanti modi, ma dipende sempre anche da che cosa
il mondo ti dispone davanti, perché non c’è nessuno che stia in mezzo a un’immensa sfera piena di vuoto,
12
U. CORNIA, Il Professionale. Avventure scolastiche, Milano, Feltrinelli, 2012, quarta di copertina

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ma chiunque, cioè tutti, stanno sempre in mezzo a delle sfere piene di pieni, e in questi pieni ci trovi
anche delle cose che un bel momento ti saltano davanti alla faccia, senza che tu te le aspetti e anche senza
che tu te le veda fino a un microsecondo prima. Poi sbam. Infatti io era già da vari anni che non volevo
più essere libero, e di esser libero non me ne fregava neanche più niente perché non sapevo più neanche
che cosa voleva dire essere libero, e in realtà il mio pensiero equivalente alla questione della libertà
funzionava nella mia testa in altro modo perché io, già da un po’ di anni, quando ero in mezzo a qualcosa
che capivo che non mi piaceva, o che non mi faceva star bene, che è la stessa cosa, io scappavo via a
gambe levate, appena mi era possibile. Quindi libertà uguale fuga, questo pensavo riassumendo, scappar
via appena ci è possibile.13

Attraverso la sua ampia prosa e il fraseggio elaborato, Cornia dimostra la sua capacità di
costruire lunghi passaggi incentrati sul commento e sulla riflessione intorno all'evento
più insignificante. Questa tecnica gli consente di dispiegare gradualmente frasi
complesse che costituiscono la base della sua scrittura.
La beatitudine della libertà si rivela fugace e il professore disoccupato si trova quindi
assalito da nuove pressanti circostanze. Dopo aver imprudentemente esaurito i suoi
risparmi, il protagonista ha un disperato bisogno di soldi per sopravvivere, nonostante la
sua precedente parsimonia e il consumo minimo. Alla fine, cede all'offerta di un posto di
insegnante presso un istituto agrario professionale, anche se come insegnante di
sostegno. Con appena cinquecento euro rimasti sul conto ed essendo stato abbandonato
da una donna conosciuta a Carpi durante il suo apice finanziario in Piazza del Mercato,
il lavoro scolastico è la sua ultima speranza, e decide di accettarlo.
Nella sfera professionale, riesce a riprendersi. Ha l’opportunità di interagire con i
colleghi e stabilire solide relazioni. Inoltre, stabilisce una connessione significativa con
gli studenti meno ordinari, che si trovano al confine del mondo dell'insegnamento.
Il narratore Cornia è entusiasta di tornare a insegnare, soprattutto perché ha il piacere di
lavorare al fianco di Eugenio Calza. Eugenio è uno studente unico, appassionato ed
eccentrico. Le sue peculiarità consistono in un intenso desiderio di vedere le lavatrici in
azione, e nel fervente hobby di collezionare tappi di bottiglie di birra e bottiglie di vino
(con grande disapprovazione della scuola). Nonostante le sue stranezze, Eugenio è un
ragazzo umano gentile e compassionevole. Cornia, attraverso il rapporto con il ragazzo,
si ritrova nuovamente entusiasmato dalla professione di insegnante, carriera che
ultimamente disprezzava.
Il suo nuovo impegno è in un istituto agrario che è per caso situato nello stesso edificio
scolastico che ha lasciato quando si è dimesso. Ora, è passato a insegnare all'IPSIA.
Le scuole professionali hanno una cultura diversa e alternativa in cui gli studenti spesso
e volentieri si impegnano in prove dirompenti che sono viste dal professore come atti da
circo, e sono a tutti gli effetti atti di puro vandalismo. Talvolta gli studenti dormono in
classe, saltano le lezioni, aprono le finestre durante l’inverno e fumano nei bagni.

13
U. CORNIA, Il Professionale. Avventure scolastiche, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 25-26.

7
Ogni giorno ce n'erano due o tre di sti numeri da piccolo circo, perché quelli di prima e di seconda
comunque erano sempre dietro a scancherare, fare buchi e cercare di fare piccoli fuochi, anche con
pezzettini di carta, svitare e eccetera.14

Il professor Cornia riesce a stabilire un contatto con i suoi studenti più attivi, in
particolare quelli delle classi inferiori, nonostante la loro irrequietezza e incapacità di
stare fermi. Si rivede nella loro esuberante voglia di vivere e nella loro ribellione al
rigido sistema scolastico. Cercando di comprendere le loro situazioni individuali,
stabilisce una relazione pedagogica dialettica che avvantaggia sia gli alunni che
l’insegnante, arricchendoli infine entrambi.
Ugo, insegnante atipico, si trova spesso immerso in discussioni filosofiche e dilemmi
pratici con i suoi studenti, anche quando non ne ha intenzione. Gli argomenti spaziano
dalla religione, al libero arbitrio e fino all'incomparabile individualità di ogni persona,
alla sessualità, alle tecniche di lavanderia e alla meccanica di una motosega.
Il Professionale è autofiction che racconta gli umori e i paesaggi della provincia di
Modena. La storia è intrisa di ironia e comicità amara, e il linguaggio colloquiale
utilizzato è quotidiano e pieno di termini dialettali. I pensieri del protagonista sono
contraddittori e affollati, il che si riflette nelle frasi lunghe e frammentate e nella
punteggiatura libera. Lo stile di scrittura è una miscela di espressioni oniriche, surreali,
stralunate, ripetitive, taglienti e incalzanti, che ricordano maestri letterari come Gianni
Celati e Thomas Bernhard.

E quel giorno poi così ripartivo felice anch’io verso casa, felice che mi tornava lo stipendio, e guidavo
contento guardando le case a bordo strada, coi loro giardinini, così bellini e in ordine (quelli che otto mesi
prima, essendo io di malumore, mi erano sembrati i giardinini del cazzo delle casette di merda), e poi
anche la campagna e i borghi sparsi, nel grande slargo di tutto, e così, però, mentre guidavo, diciamo a
metà strada, un po’ prima di metà strada, diciamo più o meno nel luogo di imballaggio del cane, anche se
coscientemente al cane in quel momento lì non ci pensavo, però già lì, guidando felice verso casa, risolto
per l’immediato il problema stipendiale, questi vari mesi in cui dei soldi di continuo erano usciti, senza
che neanche un soldino in cambio fosse entrato, ma a ansia calante mi saltava immediatamente agli occhi
che otto mesi prima una bella mattina, il caso aveva voluto che sempre su quella stessa strada io avevo
pensato mi licenzio, e avevo poi provato per una volta nella vita questa gioia di licenziarsi perché mi ero
stufato di farmi tutti i giorni questi cento chilometri, cinquanta a andare e cinquanta a tornare, fino a
Finale Emilia. E alzarmi prestissimo. E poi ancora mezzo rimbambito andare a più di cento all’ora» 15

Tornando alle sue vecchie abitudini e camminando lungo il percorso conosciuto, il


narratore è felice di essere tornato nel suo ruolo di insegnante. Nonostante il suo lungo
periodo di supplenza, apprezza il legame speciale con il suo allievo, Eugenio. Insieme,
metteranno in scena rievocazioni di varie scene de I Promessi Sposi, o "scenette" come
le chiamano loro. È interessante notare che Eugenio troverà sempre più facile
interpretare il ruolo di Don Abbondio, piuttosto che i minacciosi bravi che si profilano
sullo sfondo. Il legame tra il professore e il suo alunno è autentico:

14
Interruzioni, recensione intervista su U.Cornia, Il professionale.
15
U. CORNIA, Il Professionale. Avventure scolastiche cit. , pp. 48-49.

8
E comunque il giorno dopo dovevo essere a scuola alle dieci e infatti alle dieci ero già a scuola e entro e
chiedo dov’è Eugenio, cioè poi dov’era la sua classe, e mi dicono che la sua classe è nel frutteto e anche
Eugenio è nel frutteto, allora io ho chiesto dov’era il frutteto, per essere sicuro di andar nel posto giusto, e
un bidello mi ha detto adesso l’accompagno, abbiamo fatto il giro intorno alla scuola e poi mi ha indicato
e mi ha detto vede, sono quelli là, e io ho detto bene, grazie, e lì poi, guardando, era anche bello da vedere
perché c’era sto filare di meli, quel giorno lì facevano i meli, e io il bidello m’aveva lasciato a inizio filare
e io ero lì a inizio filare e guardavo il filare e trenta metri più in là c’erano il prof e la classe che
guardavano il melo e il prof lo spiegava e faceva vedere varie cose, le foglie, i rami eccetera, e tutta la
classe e il prof li vedevo da inizio filare a destra del melo, mentre Eugenio guardava anche lui il melo, ma
stava a sinistra del melo, e io lì poi gli ho urlato Eugenio e con tre salti sono arrivato fin lì da lui, che mi
ha fatto un bel sorriso, con la testa un po’ storta, perché quando sorrideva piegava sempre la testa a
sinistra, e mi ha detto ciao, ti aspettavo, che bello che sei arrivato (…) 16

Altri giochi prevedono attività ludiche come quella di scoprire se il narratore sia sposato
o meno, dato ha che ha perso la memoria e finge di non ricordare. Queste attività le
svolgerà con uno altro studente interessante, sempre di quelli «diversamente abili» come
ama chiamarli lo scrittore che, sia pure con leggerezza e comicità, in questa pagina
mostra di iniziare il confronto a partire dalle diversità e fragilità di ciascuno, invece che
da una posizione di forza e dal ruolo ancora una volta definito a priori, e standardizzato,
di professore.

Devo dire che fin dall’inizio, ogni tanto io e Eugenio, che indubbiamente come nostro carattere personale
eravamo tutti e due degli individualisti, e stavamo benissimo a imboscarci nelle aule libere del secondo
piano a studiare l’euro o a fare le nostre scenette tratte dai Promessi sposi, ogni tanto invece venivamo
coinvolti nelle attività generali del sostegno, cioè di tutti quelli che adesso dovrebbero essere chiamati i
diversamente abili, e tutti i diversamente abili, ognuno colle sue diverse abilità, facevano qualcosa
insieme, quindi ci trovavamo tutti riuniti, ragazzini e prof di sostegno, in quella auletta che si chiamava
auletta sostegno, dove c’era anche una cucina, infatti buona parte delle attività comuni consisteva nella
realizzazione di torte o frittate o frittelle, e però mentre mangiavamo io mi divertivo con Eugenio e con
gli altri diversamente abili perché ci perdevamo in considerazioni abbastanza fiabesche sulle cose, e
producevamo delle grandi fantasie, e una volta, io mi ero seduto per terra in un angolo dell’auletta, e però
era un periodo in quei tre o quattro giorni in cui avevo avuto delle mie malinconie, e allora uno di questi
ragazzini mi aveva chiesto sei triste?, e io per scherzo, visto che mi sembrava fuori luogo parlargli dei
miei problemi personali, gli avevo detto la prima cosa che mi era venuta in mente, e cioè gli avevo detto
ragazzi, ieri ho preso una botta in testa e ho perso la memoria, allora loro mi avevano detto che cosa
voleva dire che avevo perso la memoria, io gli avevo detto che non sapevo più chi ero. Loro subito mi
hanno detto ma tu sei Ugo, quello che viene da Modena, e poi Eugenio aveva detto tu sei Ugo, il mio
insegnante, e anche gli altri avevano detto che era vero, che io ero Ugo l’insegnante di Eugenio, allora io
gli avevo detto se erano sicuri che io fossi di Modena, perché con questa botta in testa che avevo preso mi
ero scordato anche dove abitavo, e gli avevo detto che quella notte lì, non sapendo più dove abitavo, ero
andato a dormire sotto un ponte del Panaro, per stare al coperto se pioveva (…)17

Cornia, come scrittore, si diverte a scavare nei pensieri di coloro che dimostrano
comportamenti misteriosi o eccentrici. Personaggi come Eugenio o Pietro, le cui
invenzioni e peculiari azioni non mancano mai di affascinarlo, sono di particolare
interesse.
16
U. CORNIA, Il Professionale. Avventure scolastiche cit., p. 51.
17
U. CORNIA, Il Professionale. Avventure scolastiche cit., p. 58-59.

9
È sempre stato strano e un po’ impossibile capire veramente che cosa c’è nella testa di un altro, e però per
me è sempre stata anche una delle cose più belle lo stare a guardare, quando appaiono, alcuni dei pezzi di
quello che tutti i cervelli, continuamente e instancabilmente, producono. Allora ti vedi queste sequenzine
di parole-pensieri-eccetera che a un certo punto saltano fuori, passano, e poi scompaiono. 18

La sua appare quindi come una didattica alternativa costruita tutta sull’empatia e sulla
curiosità dell’altro. L’empatia19 è una qualità morale molto importante perché definisce
la nostra capacità di metterci nei panni altrui. Nel caso specifico, da un lato c’è un
professore che appare del tutto estraneo al sistema scolastico, in preda all’angoscia di
vivere e alla noia, dall’altro, l’esigenza di creare qualcosa di vero all’interno della sua
esistenza. L’empatia è una tecnica relazionale viene utilizzata con la stessa finalità del
teatro greco, e in questo modo la vita diventa un palcoscenico in cui tutti possono
esibirsi.
Cornia si sforza di ottenere lo stesso effetto nel suo non-romanzo, attingendo alle
proprie esperienze di scrittore. Le sue storie, caratterizzate dalla loro natura precaria a
scuola, assumono una qualità surreale e ultraterrena quando vengono narrate, perdendo
la prospettiva leggermente sfuggente e autoreferenziale che altrimenti finirebbero per
avere. Durante tutto l'anno scolastico, il narratore vive una serie di momenti di follia
empatici e divertenti. Nel suo nuovo ruolo incontra studenti spesso divertenti o
stravaganti, come Ponzielli, che porta uno zaino pieno di merendine a causa della sua
fame costante; o due cugini, uno dei quali è molto organizzato e religioso, mentre l'altro
sfoggia i dreadlocks ed era sempre spettinato.
Il narratore si trova immerso in un universo sfaccettato e intricato, molto vario dal punto
di vista intellettuale del quale egli è in grado di cogliere tutte le più piccole sfumature.
Nonostante la follia burocratica che invade la sua professione, si sente
meravigliosamente soddisfatto. A giugno e alla fine dei suoi impegni scolastici, può
finalmente un bilancio: è trascorso un altro anno di vita, fra interessanti alti e pericolosi
bassi.
È contento di avere avuto a che fare con studenti straordinari, alcuni dei quali sono alle
prese con psicofarmaci, come Mattia che dimentica a casa la sua medicina, e chiede al
professore narratore di andargliela a recuperare. Le vite dei suoi studenti sono qualcosa
che lo affascina e lo incuriosisce, e sono ciò che in lui rompe la noia relativa
all’ordinario e forse alla vita, potremmo dire dunque che la sua passione d’insegnare,
per quanto dissimulata e alternativa, esista.
Lo stile di scrittura di Cornia è una straordinaria metafora della vita stessa. Anche se a
volte può sembrare tortuoso, ha il talento per arrivare esattamente dove il suo autore si

18
U. CORNIA, Il Professionale. Avventure scolastiche cit. , p. 66.
19
La parola deriva dal greco antico “εμπάθεια” (empátheia) a sua volta composta da en-, “dentro”, e
pathos, “sofferenza o sentimento”, che veniva usata per indicare il rapporto emozionale di partecipazione
che legava l’autore-cantore al suo pubblico. Significa en-phatos “sentire dentro”, e consiste nel
riconoscere le emozioni degli altri come se fossero proprie, calandosi nella realtà altrui per comprendere
punti di vista, pensieri sentimenti emozioni e “pathos”.

10
propone. Il suo approccio metodico porta inevitabilmente a conclusioni interessanti,
anche se talvolta inaspettate.
Anche se le giornate di Ugo sono abitate da quegli studenti che hanno la mania per i
tappi e per le lavatrici, da altri che vanno in panico se non hanno preso gli psicofarmaci,
salvo poi passeggiare sui tetti, da colleghi che si recano fuori appena possono per
andare a fumare con le colleghe più avvenenti, dalle improbabili convocazioni in giro
per la provincia e dalle classi che lasciano giornali porno sulla cattedra alla nuova
professoressa di inglese, tutto questo invece di esprimere il degrado e la distanza
dall’istituzione scolastica, viene trasformato in una sorta di segnale esuberante della
vita.
Insomma, lo sguardo di Cornia non è volto né a una propria autodisciplina, della quale è
chiaramente incapace, ma neppure si arrovella per far aderire i suoi studenti a un
modello scolastico precostituito; si accontenta piuttosto di trarre qualcosa di positivo per
sé stesso e per loro dal rispettivo incontro e tempo trascorso insieme. Manca, ed è una
fortuna, probabilmente, lo sguardo moralista sulla realtà scolastica, che viene sostituito
da un osservare disincantato, leggero, privo di qualsiasi acrimonia, ma non per questo
vuoto e privo di valori. Sono però valori diversi, che posizionano il Cornia molto
distante dalle impostazioni pedagogiche di De Amicis e del più classico romanzo
scolastico.
Ognuno dei suoi personaggi è disegnato come se si affacciasse alla finestra della sua
vita per un attimo, ogni pagina è un'avventura che può richiamare o meno una comparsa
interessante che può fornire uno spunto interessante alla narrazione.
La forza e la caratteristica di questo breve romanzo di Ugo Cornia stanno molto anche
nel linguaggio estremamente vivo e, incapace di trovare pause sintattiche.
Dal punto di vista della frase, i periodi sono estremamente dilatati, e si fa un grande uso
dell’indiretto libero. Tutto ciò ha delle conseguenze non da poco. Con l’ellissi circa i
referenti del discorso, come “dire, sostenere, affermare, dichiarare” si eliminano alcune
tra le espressioni più vetuste della narrativa, ma allo stesso tempo si pongono le basi per
una sovrapposizione tra la voce del personaggio e quella narrante, e per il flusso di
coscienza e il romanzo psicologico: tanto che si può sostenere che nel raccontare di
Cornia vi sia un po’ di schizofrenia, e che egli parli e scriva delle voci dentro la sua
testa.
L'autore gioca a spostare nel tempo e nello spazio episodi e momenti notevoli delle sue
avventure scolastiche, in modo da dare alla sua precarietà, l'immagine di un perpetuo
movimento. Nello stesso tempo, però, indugia in dialoghi più o meno immaginari anche
impegnativi nell'equilibrio complessivo del romanzo, con un montaggio che riproduce
bene le dinamiche tipiche del linguaggio cinematografico in cui trapelano stati d'animo,
quando non sentimenti, tutt'altro che effimeri. L’impressione è quella di una fragilità
reale e un po' sconfortante, che rifiuta lo sviluppo lineare e, in definitiva, un esito
predeterminato. Il suo scrivere, insomma, sembra organizzare i contenuti in virtù della
forma, della deformazione stilistica scelta dall’autore. È attorno a questo aspetto che si
potrebbe incentrare una riflessione profonda sullo stile de Il professionale.

11
Lo scrittore modenese – con alle spalle una bibliografia già piuttosto ampia, dopo
l’esordio con Sellerio nel 1999 – ha pubblicato questo romanzo che, fin dalla copertina,
richiede al lettore di immergersi in un mondo «un po’ alla rovescia» 20 e, allo stesso
tempo, più vero e realista del vero. La vernice arancione scrostata della prima di
copertina (che fa da sfondo alla combinazione tra un macchinario artigianale e una
videocassetta porno) suggerisce la possibilità del contrasto, di un quadro di pop art
come può esserlo la sua scrittura, in cui cozzano elementi contrastanti, dove non si si
finisce mai di stupirsi ma non ci si stupisce mai di nulla. Si tratta di fare il ritratto a
microcosmi meravigliosamente regolati da leggi altre rispetto a quelle del senso
comune, come sono certe scuole professionali.
Il filo della storia, dall’avventura del licenziamento al ritorno a scuola,
contemporaneamente al ritratto e al diario scolastico fa emergere e spiccare sul resto
anche la figura del protagonista e scrittore della storia, che può essere visto come un
antieroe moderno – alla Charles Bukowski, per intenderci – che propone nei suoi
romanzi semplicemente se stesso e il suo vertiginoso mescolarsi di avventure e
disavventure.
Questo è un altro modo di vedere la storia, affidata a un racconto in prima persona
condotto – siamo qui al carattere più peculiare del romanzo – attraverso una lingua
originale, ispirata all’oralità (o più spesso al “pensato”) spontanea, sgangherata e
sottoposta al procedere quasi casuale dei pensieri, provvisori, circonvoluti, immediati
dell’io narrante. Come i fatti che vengono raccontati. O come i fatti della storia,«in quel
momento e di colpo mi passava nella testa la frase “oggi io mi licenzio”» 21 . Questa la
scintilla che in un attimo dà il via alla vicenda. La motivazione è ancora più lapidaria e
gergale: «Perché mi sono rotto i coglioni»22.
Il protagonista agisce d’istinto, per indole, in maniera del tutto spontanea; indole, forse,
in parte derivata dalla condizione tutta contemporanea della sua vita di lavoratore
precario. Ciò produce una patina di inerzia e un certo neutro distacco. Non c’è,
possibilità da questo punto di vista, di contatto con la mentalità della zia Bruna, che al
contrario è una portavoce di quello che si potrebbe definire “il buon senso
tradizionalmente inteso”: «già mi suonava nella testa la voce di mia zia che diceva
Oddio, ma ti sei licenziato veramente, ma tu sei matto, che poi avrebbe anche detto che
io e mia sorella non abbiamo mai avuto il senso della realtà» 23. Ma, è lo stesso Cornia a
scriverlo, «abbiamo bisogno […] di un senso della realtà del 2001» 24, in cui le cose
capitano, vanno e vengono in un attimo, e si riproducono senza una vera e propria
logica. Per questo il racconto si occupa di raccontare i momenti, e vive della
rappresentazione di un’esistenza alla giornata, persa tra un tempo fluido e un amore
erotico. La lingua di Cornia sotto quest’aspetto è un veicolo perfetto. Sembra un vestito
sufficientemente allentato, ampio, persino sformato, per l’agio delle movenze – “buttate
20
Ivi, pag. 91
21
Ivi, pag.10
22
Ivi, pag. 27
23
Ivi, pag.16
24
Ivi, pag.17

12
lì” un po’ svogliatamente un po’ per caso – sul corpo dei fatti della storia e sopra le
azioni dei personaggi.
Sono invece meno penetranti, a livello narrativo, le pagine in cui Cornia accetta la
nuova supplenza. La mansione è quella di insegnante di sostegno di Eugenio, l’alunno
preso dalle curiose manie per i tappi di bottiglie e le lavatrici. Non sono assenti gli
episodi divertenti, soprattutto nel rapporto tra lo studente e il professore, che si ingegna
con metodi didattici anche originali ed efficaci. Affrancandosi in parte dallo stato di
inerzia, verrebbe da dire. La rappresentazione del proprio mestiere appare da un lato una
riconciliazione con se stesso e con certe illusioni giovanili che lo hanno portato a
laurearsi, dall’altro paiono una sorta di abdicazione a svolgere lo stesso mestiere in
maniera seria. Il romanzo non sembra proporre una soluzione o l’altra, ed entrambe le
interpretazioni sono accettabili e suffragabili.
L’approdo all’IPSIA Marinetti – a seguito di un altro giro di nomine e di graduatorie (il
necessario ricorso, di tanto in tanto, al “sommario pensato” dei fatti della storia da parte
della voce narrante, come per riprenderne il filo, potrebbe significare qualcosa a
proposito dell’instabilità e dello smarrimento di ogni linearità propri di certe condizioni
lavorative) – porta invece al connubio più pieno tra la cifra stilistica così sgangherata e
sfrontata da un lato, e una – a suo modo – appassionata partecipazione al nuovo contesto
dall’altro.
Il professore è ormai parte di un mondo «un po’ alla rovescia», in quel «piccolo circo»
25
che è “il professionale”.
È, appunto, il quadro di fronte al quale non si finisce mai di stupirsi, ma anche quello in
cui, poi, non ci si meraviglia stupisce più di nulla. Perché il modo migliore per starci
dentro è aderirvi, assecondarlo, assumerne la logica rovesciata. Questa sembra la vera
conquista di Cornia, la capacità cioè di adattarsi alla mancanza di logica senza
pretendere di imporre le proprie regole, in questo gioco.
C’è qualche colpo al cuore, quando i «numeri di alto circo» (puntualmente condivisi con
il lettore) si fanno pericolosi, ma anche con una certa naturalezza. Tutto gioca a suo
favore: il suo stile, il cui essere sgangherato non è più in rapporto di opposizione col
contesto. Al contrario, lo stile della scrittura del Cornia autore, gioca altrettanto a favore
della rappresentazione della realtà del professionale. Non a caso, con la fine dell’anno
scolastico, il protagonista scivola, questa volta senza fratture, in un’altra estate di
«alzarsi per due mesi quando vuoi. Basta» 26.
Fin dalle sue prime opere, il romanzo scolastico è sempre stato accompagnato da una
notevole dose di umorismo, optando per registri molto vari come l'ironia, la parodia, il
grottesco e il riso. Queste diverse variazioni dell'umorismo vengono utilizzate per
rappresentare personaggi, luoghi, lingua e significati in una luce comica.
Bakhtin ipotizza che gli antichi generi letterari del serio-comico abbiano aperto la strada
al romanzo moderno, una forma che si basa molto sull'ironia. Anche Moretti sottolinea

25
Ivi, pag. 91
26
Ivi, pag. 127

13
il significato dell'ironia nella narrativa di formazione.27 Le opere di De Amicis, Sciascia,
Giacobbe e Bernardini mostrano come l'ironia e la deformazione comica siano codici
stilistici utilizzati per rappresentare l’ambiente della scuola. La missione idealistica
degli insegnanti e la realtà delle loro limitate risorse si scontrano all’interno di queste
rappresentazioni. Il contrasto tra il messaggio di cultura e conoscenza della scuola e lo
squallore che la circonda crea un contrasto grottesco e dai tratti paradossali. Ci vogliono
grandi capacità di astrazione per insegnare poesia, arte e antiche civiltà in aule anguste,
rumorose e fatiscenti. Le parole degli insegnanti hanno un potere fragile in questo
ambiente. Mastronardi ha più volte sottolineato come le aspirazioni intellettuali degli
insegnanti contrastino con la povertà spirituale e morale che pervade alcuni ambienti
della scuola.
In questo senso, la scrittura di Cornia, ne Il professionale, riesce a trovare una propria
maniera di far sorridere e di essere comica, a metà fra il paradosso e il costantemente
anticonformista. Sparisce tutta la pesantezza della missione positiva del professore,
inchiodato al dovere e ne appare un’altra assolutamente distante, anticonvenzionale e
divertita. L’effetto comico scaturisce da due situazioni: la prima, nasce dal confronto tra
quella che dovrebbe essere la logica comportamentale classica di un professore e la
distanza dei comportamenti messi in atto dal narratore protagonista, mentre la seconda,
dall’incastro riuscito fra un mondo come la scuola, per natura folle, e la strategia mirata
alla mera sopravvivenza, messa in atto sempre dal protagonista. Questo brano lo
dimostra:

Una mattina, che avevo le due quinte in stage, e quindi avevo molte ore libere, in cui se c’era bisogno
facevo delle sostituzioni nelle classi di altri professori che per qualche motivo erano assenti, mentre se
non c’era bisogno mi sleggiucchiavo qualche libro che mi ero portato dietro e stavo in aula insegnanti,
uscendo ogni venti minuti a fumarmi una sigaretta, e poi rientravo e così via (devo dire che in generale,
praticamente in tutte le scuole in cui io sia stato, che io, fumando, e visto che adesso a fumare devi
seguire sempre dei particolari itinerari e raggiungere particolari zone, sempre esterne, pochissimo tempo
dopo che insegno in una nuova scuola dopo dieci giorni conosco già tutti i prof e tutti gli studenti che
fumano, e incontrandoci ci salutiamo eccetera eccetera, essendo diventati compagni di questa nuova
avventura che è diventata oggi il fumare, mentre di quelli che non fumano non so quasi niente, e spesso
finisco l’anno scolastico senza averli conosciuti per niente i non fumatori, e quell’anno lì poi avevo fatto
abbastanza amicizia con un insegnante di religione che fumava anche lui come un turco, e anche lui come
me usciva a fumare con qualsiasi tempo, e allora mettiamo che io arrivassi in aula insegnanti che lui era
seduto, e mettiamo che piovesse, ci facevamo un cenno veloce, prendevamo l’ombrello e uscivamo a
fumare), e comunque devo dire che in quei giorni delle classi in stage, in cui praticamente non avevo
lezione, arrivarci in fondo era veramente una noia mortale, e quindi quel giorno lì stavo già entrando a
scuola col pensiero di che cosa avrei potuto fare perché arrivasse l’una, e invece quel giorno lì appena
entro a scuola uno dei bidelli mi viene incontro e mi dice che c’è Benny che aveva bisogno di me (Benny
era Maurizio Benelli, detto da tutti Benny, cioè il vicepreside; spesso nelle ore buche lo aiutavo a buttar
fuori da scuola gli assenti, cosa che la prima volta che l’ho sentita, cioè avevo sentito la frase, cioè Benny
mi aveva detto: non hai da fare niente?, io avevo detto no, allora lui mi aveva detto vieni a aiutarmi a
buttare fuori gli assenti, e io questa cosa di buttar fuori gli assenti avevo creduto di non aver capito bene
la frase perché il concetto di buttar fuori gli assenti mi sembrava, proprio dal punto di vista del concetto,
una di quelle cose impossibili, come pensare un cerchio quadrato, perché è difficile pensare di buttare
27
F. Moretti, Il romanzo di formazione, Milano, Garzanti, 1986, p. 156.

14
fuori qualcosa che non c’è, quindi la frase non mi entrava bene in testa, e allora stavo pensando a chissà
che cosa mi aveva detto veramente Benny e avevo seguito Benny su per le scale pensando a cosa
dovevamo fare, convinto di aver capito male, e poi avevo seguito Benny nei vari bagni, dove, in questi
bagni, noi di colpo entravamo con una gran sveltezza, quasi poliziesca, e Benny di colpo apriva proprio la
porta dei cessi, e lì, quasi sempre, non c’era uno che pisciava, ma c’era uno che non pisciava e anzi,
spesso, in ogni cesso c’erano in tre o quattro, e Benny gli diceva allora, Rossi, Kabil, Monzani, siete
assenti, quindi adesso andate fuori, e magari Monzani gli diceva che fastidio gli dava, e Benny gli diceva
lo sai, e basta, te lo devo dire tutte le volte, se sei assente stai fuori da scuola, oppure se non vuoi stare
assente ti faccio il permesso di entrata in ritardo, però dopo vai in classe, e ci stai; e poi apriva l’altra
porta e guardava l’altro cesso e diceva Righi, Ayoub, fuori.28

La scena appena raccontata è emblematica. Gli studenti restano fuori dall’aula, non
partecipano alla lezione, siamo dunque al rifiuto dell’istituzione scolastica. La scuola è
vista come un grande contenitore di persone, esperienze, ma non è il luogo attivo di
conoscenza che dovrebbe essere, e gli studenti se ne stanno il più possibile lontani dalla
sua influenza.
Emerge quindi il divario tra scuola e società, come osservato nelle Cronache di
Sciascia, che è fonte insieme di divertimento e tragedia. Questa lacuna si nota anche
nelle opere di Pasolini ed è evidente nella narrazione contemporanea come quella di Dai
Prà. Emanuele Zinato una volta ha commentato Sciascia, osservando che il potere
dell'insegnamento troppo esplicito e scontato è inefficace. I migliori insegnanti sanno
che l'efficacia è sempre paradossale, indiretta e non immediatamente quantificabile. 29
L'incapacità del linguaggio poetico di trasmettere l'effetto voluto è un tema ricorrente e
autoironico in Cronache scolastiche.

Leggo loro una poesia, cerco in me le parole più chiare, ma basta che veramente li guardi, che veramente
veda come sono, nitidamente lontani come in fondo a un binocolo rovesciato, in fondo alla loro realtà di
miseria e rancore, lontani come i loro arruffati pensieri i piccoli desideri di irraggiungibili cose, e mi si
rompe dentro l’eco luminosa della poesia.30

Quando ci si rivolge a un pubblico separato da gap generazionali, la comunicazione e le


relazioni possono essere difficili e persino ostili. Ciò si traduce in uno scontro di valori,
idee e percezioni del mondo, che porta a situazioni comiche e assurde. Poiché la lingua
gioca un ruolo importante nella comunicazione a scuola, essa diventa spesso il soggetto
di queste situazioni, come si vi era visto anche in opere di Lucio Mastronardi e nei
racconti più recenti. La rappresentazione di Starnone di una scuola durante la stessa
epoca di Lezioni americane (1985) mostra la realtà profetica della pestilenziale
epidemia linguistica raccontata da Italo Calvino31.
28
Ugo Cornia, Il professionale, pag. 113
29
Zinato, Controscuole, in Leggere la scuola cit., p. 131.
30
Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra cit., p. 122.
31
«Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la
caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza
conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più
generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni
scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze.» Calvino, Esattezza, in Lezioni

15
Nei suoi scritti, Starnone documenta meticolosamente gli errori linguistici dei suoi
studenti per evidenziare l'ignoranza diffusa all'interno della sua classe. Richiama inoltre
l'attenzione sull'approccio apatico degli insegnanti che non riescono a spiegare i
significati delle parole e a dare ad esse il giusto significato. Questo dialogo è
esemplificativo:

(Un alunno sta leggendo il libro di storia)


- Professore non capisco. Mi spiega che significa?
Ho passato l’indice sotto la frase: “L’iniziativa ebbe successo ma vide la morte in battaglia di
Pelopida”.
- Qual è il problema?
Mi ha guardato dal basso in alto, disorientato.
- Chi vide la morte in battaglia?
- L’iniziativa.
- E la vide proprio ?
- Chi?
- La morte.
- Certo.
Allora c’era la morte a combattere? Con la falce? Era amica di Pelopida ?
Gli ho spiegato il senso della frase ma lui era perplesso.
Cosa bisogna pensare, di fronte a manifestazioni di questo tipo. Si va veramente estendendo nella
gioventù studiosa la tendenza a fissarsi per noia su tre o quattro parole, senza riuscire a sentirle come
parte di un periodo? Forse le parole della scuola gli studenti le sentono così irrilevanti che tendono a
rifletterci su poco: memorizzano un po’ di suoni, li ripetono per l’interrogazione e via. E così che Socrate
diventa il figlio di una lavatrice, il Griso viene battezzato il Grifo, proprio non so.32

Questo pezzo di Starnone è intrinsecamente realista ma pone le basi per il linguaggio di


Cornia, che diventa una metafora, certo sul piano stilistico, ma anche su quello
narrativo, della difficoltà di questi due mondi a comprendersi – quello degli insegnanti
adulti e dei ragazzi studenti - perché facenti parte di linguaggi e sensibilità che non
collimano più.
Ritornando all'ironia, essa è radicata in un fondamentale malcontento nei confronti del
mondo, un desiderio di qualcosa di più e un disagio di fondo. La fonte dell'impatto
comico risiede nell'umore aspro che si annida sotto le risate: un regno di ombre amare,
una verità nascosta che è solo parzialmente oscurata. Come osserva Starnone, «nelle
cose di scuola che ci fanno ridere o sorridere c’è sempre un fondo buio che ci deve
allarmare»33. Si tratta di una risata soffocata, indotta dalla pura forza di ciò che è
rimasto non detto. In questo senso, anche Il professionale dice, ma occorre leggerlo tra
le righe: l’autore manca di una presa di posizione esplicita verso i problemi e ce li
comunica per via indiretta e metaforica.
L'ironia, la commedia e il grottesco servono come qualcosa di più che semplici elementi
stilistici nella scrittura: riflettono sempre una particolare visione del mondo. Per

americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, p. 58.
32
Starnone, Il collega Starnone, in Ex cattedra cit., p. 145-146.
33
Ivi, p. 168.

16
scrivere con ironia, l'autore deve ipotizzare la presenza di un lettore che sappia
interpretare le sue intenzioni e prenderne il messaggio. Ciò è particolarmente vero per le
forme più sofisticate di ironia, che richiedono una comprensione condivisa dei valori e
del linguaggio tra chi scrive e chi legge.
Il valore di mero intrattenimento dei libri che trattano l’argomento della scuola induce a
riflettere. È fondamentale discernere tra il mondo insensato degli "stupidari" (reso
popolare dal successo di Marcello D'Orta34) la comicità nelle fiction televisive di
successo che parlano di scuola, e l’ironia arguta e intelligente che è in grado di far
pensare.
Purtroppo, a partire dagli anni Ottanta, molti scrittori e registi hanno rappresentato la
scuola in maniera grottesca, lontano dalla realtà, denigrando gli insegnanti e
descrivendo l'esperienza scolastica attraverso metafore iperboliche e paradossali. Questa
tendenza è nata come la cifra di uno stile ma ora è diventata un tratto ripetuto, uno stile
decadente e rimaneggiato. È inquietante che il pubblico italiano si abbeveri di tali
contenuti. Riflette il rapporto che si è instaurato tra scuola e società nel nostro Paese fin
dall'inizio della scuola dell'obbligo. Inoltre, riducendo la realtà a puro elemento di
folklore ed esagerando i termini della finzione in un contesto comico e leggero,
eludiamo il dovere di uno sguardo profondo sulle cose, lasciando solo il vuoto. Per
esempio, alcuni si chiedono perché in Italia non si girino film come Être et avoir
(Essere e avere) di Nicolas Philibert e Entre les murs (La classe) di Laurent Cantet.
Sebbene questi film siano adattamenti di un romanzo di Francis Bêgaudeau del 2006, un
loro attento esame rivela che non sono molto lontani dalla realtà scolastica italiana.
Al contrario, film come Notte prima degli esami (2006) di Fausto Brizzi si situano nel
filone pocanzi approfondito, dove la leggerezza diventa fine a se stessa. Il personaggio
del professore, interpretato da Giorgio Faletti, incarna lo stereotipo di un ex intellettuale
del 1968 disilluso, che è emotivamente amareggiato e ricorre all’espediente di fumare la
marijuana con uno dei suoi studenti.
Da questo punto di vista, il romanzo Il professionale di Ugo Cornia sembra muoversi
perfettamente a suo agio ma con diversa e più profonda qualità. Il suo libro parla una
comicità immediata, e il senso del ridicolo e del grottesco sono sempre in agguato e
capaci di essere rivelatori di nuove realtà e nuovi orizzonti da apprendere sulla scuola.
Anche se il romanzo privilegia l’indiretto libero e il flusso di coscienza del narratore –
una finezza non così scontata, che costringe a considerarlo anche come un romanzo
psicologico – la capacità visuale, e l’angolazione letteraria da cui si racconta è capace di
comprendere lo studente, anche quando è portatore di una diversità: come ben
esemplificato da una lingua sgangherata e inusuale dove anche l’errore sintattico e
34
M. D’Orta, Io speriamo che me la cavo. Sessanta temi di bambini napoletani, Milano, Mondadori, 1990
fu un clamoroso caso editoriale con un milione di copie vendute in Italia, numerose traduzioni all’estero,
versioni teatrali e la trasposizione cinematografica per la regia di Lina Wertmüller con Paolo Villaggio,
nei panni del maestro. Io speriamo che me la cavo è un libro di una naturale comicità costruita con gli
ingredienti caratteristici del racconto popolare, a cui si può concedere una nota di simpatia. In seguito
D’Orta ha completato la sua trilogia napoletana con altre due opere: Dio ci ha creato gratis. Il Vangelo
secondo i bambini di Arzano (1992), Romeo e Giulietta si fidanzarono dal basso. L’amore e il sesso:
nuovi temi dei bambini napoletani (1993).

17
grammaticale si presta a diventare cifra stilistica ed elemento da indagare. Gli argomenti
differiscono dalla rappresentazione più consueta, ma non ne sono una mera caricatura,
anzi invitano a guardare a fondo e con più attenzione, come in questo passo:

E però, visto che siamo andati a finire nell’argomento sessualità, quello che volevo dire è che Eugenio
aveva una sua tipica sessualità che io potrei definire come una sessualità angelica perché il sesso come
demonio non l’aveva mai sfiorato, e a mio giudizio che avesse una sua sessualità era abbastanza chiaro e
diventava evidente guardando come gli piaceva, le poche volte che succedeva, parlare per un minuto con
qualche prof ancora bella e giovane, o con qualche ragazza, che gli si apriva la faccia e gli restava aperta
finché durava la chiacchiera, e al tempo stesso però guardando quella faccia e paragonandola a altre
facce, e immaginando anche per esempio anche come doveva essere la mia di faccia, quando avevo
quindici anni, dove invece doveva già, inevitabilmente, essere arrivato il demonio del sesso, io vedevo
rifulgere in questa sua faccia che s’apriva il flusso del sesso universale del mondo senza coscienza di se
stesso (…)35

Ancora una volta è l’originalità del ritratto a sorprendere, l’approfondimento


esistenziale, l’analisi dell’angoscia e il disagio utilizzati e spremuti fino all’osso, in
contrapposizione alla scelta obsoleta e convenzionale di vedere in uno studente, solo
uno studente: e non invece una persona ricca di tutte le sfaccettature. Non meno
anarchico in quanto esecratore di modelli, Cornia lo è nell’uso della punteggiatura, nella
scelta del lessico e delle espressioni, che sebbene vengano utilizzate in maniera
apparentemente distratta e causale riflettono un’attenzione alla lingua da antropologo, e
in particolare seguono da vicino il linguaggio dei ragazzi, senza copiarlo, ma con la
necessità continuare di creare espressioni nuove, e talvolta inusitate. Come nell’episodio
che precede il licenziamento, dove la frase che apre il capitolo è questa: «Comunque
questa mia nuova libertà mi era iniziata imballando un cane». 36Appare evidente che il
verbo imballare non sia utilizzato in modo congruo ha come richiesto dalla lingua
italiana, né immediato; perciò, siamo nel crinale perfino pericoloso della più audace
sperimentazione linguistica.
L’anarchia di Cornia – e non è un caso utilizzare questo termine – ricorda da vicino
quella esistenziale, di Louis Ferdinand Céline, che si concretizza anche nella scelta di
una prosa che ha perso i riferimenti classici, le espressioni certe e si affida a vocaboli
che utilizzano una lingua di tutti e di nessuno, che scava nel gergo e nelle espressioni
regionali. Anche Céline, è ben consapevole che certe alterazioni sintattiche e di
punteggiatura servono a creare il ritmo, come si comprende bene in questo passo:

Il dattiloscritto venne mandato in composizione, e i tipografi, stupefatti di quello stile inusitato, decisero
di intervenire d’ufficio sulla punteggiatura, togliendo virgole, dando una sistemata grammaticale a quel
che sembrava un po’ eccessivo. Il dottore, spossato da tre anni di stesura, non voleva nemmeno vedere le
bozze, ma quando seppe del misfatto, fece una scenata all’editore: «Questi mi vogliono far scrivere come
Francois Mauriac! Non aggiungete una sillaba senza dirmelo! Mi buttereste all’aria il ritmo come
niente!... Ho un’aria scalcinata ma so perfettamente quel che voglio.» 37

35
Ugo Cornia, Il professionale, pag. 68-69
36
Ivi, pag. 25

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Altro elemento interessante con il quale avvicinare Céline e Cornia è il delirio cèliniano,
che si ritrova in Cornia trasformato in flusso di coscienza, ovvero racconto senza
eccessivi appigli, dove la dimensione interiore e autobiografica devono subire una
profonda trasformazione per diventare credibile, anche attraverso lo stile:

Il gesto cèliniano per eccellenza (che poi è quello di Robinson a Tolosa, e del dottor Baryton che lascia la
clinica per avventurarsi nel nord) è l’insoddisfazione, e l’eterno partire. Che poi è il bisogno di punirsi di
colpe oscure (il parricidio desiderato?) di sentirsi colpevole dei privilegi sociali che comporta una laurea
in medicina, o nel romanzo, della vaga complicità con gli Henrouille nel fallito attentato alla nonna.
Céline Bardamu Robinson è un provocatore di se stesso, qualcuno che trova la sua disperata felicità in
una sorta di ubriacatura da catastrofe, come ammetterà Cèline nelle interviste degli ultimi anni: «Cèline fa
delirare Bardamu che riferisce quel che sa di Robinson.» La cifra del racconto in prima persona è
appunto un delirio che arriva dove fallisce la presunta lucidità della ragione, è la lente deformante che
consente a Céline di giungere alle verità estreme.38

In mezzo, c’è la figura dell’insegnante, che in Cornia compie un balzo notevole: da


riferimento culturale e portatore di valori positivi, a oscuro travet impegnato non tanto a
comprendere il senso della sua vita, quanto a decifrarne il non senso per trovarvi una
soddisfazione di carattere essenzialmente ludico e di stimolo alla propria vivacità
intellettuale.
Anche la figura dell’insegnante è parte importante della letteratura relativa al romanzo
scolastico. Il tratto più tipico della sua rappresentazione lo vede spesso caratterizzato
come un insegnante che si distingue dal branco, con una spiccata personalità. Ciò è stato
spesso fatto ritraendo aspetti inerenti alla professione, come la libertà di insegnamento,
la capacità di promuovere la didattica di gruppo, scarsamente presenti nella scuola
secondaria. L’icona cinematografica più nota della rappresentazione di questa figura è
quella interpretata da Robin Williams, ne L’attimo fuggente39.
Possiamo notare come nel tempo siano cambiati l’immagine e il ruolo simbolico che si
attribuiscono alla figura dell’insegnante e come in alcuni casi essi assumano connotati
di esemplarità. La riflessione si potrebbe poi estendere al ruolo pedagogico della scuola
nella creazione di mitologie eroiche dall’Ottocento ai giorni nostri, che diventano di
volta in volta strumenti d’ordine e ubbidienza o di vitalismo e ribellismo antagonistico40.
Durante gli anni '50 e '60, un gruppo di scrittori, tra cui Sciascia, Giacobbe e don
Milani, si è posto come missione quella di evidenziare le carenze del governo nel
sistema educativo e nella politica di alfabetizzazione. Lo hanno fatto sottolineando le
lotte affrontate dagli studenti in luoghi remoti e rappresentativi. Nel frattempo, anche
37
Céline, ovvero lo scandalo di un secolo, di Ernesto Ferrero pag. 556. Il viaggio al termine della notte,
Corbaccio, 1992
38
Ivi, pag. 564
39
L'attimo fuggente (Dead Poets Society) è un film del 1989 diretto da Peter Weir e interpretato da Robin
Williams. L'American Film Institute lo ha inserito al cinquantaduesimo posto nella classifica 100 Cheers;
la frase «Carpe diem, cogliete l'attimo ragazzi, rendete straordinaria la vostra vita» ha invece ottenuto il
novantacinquesimo posto nella classifica 100 Movie Quotes.(fonte: Wikipedia)
40
In questa direzione di studi è d’obbligo segnalare il recente saggio di S. Jossa, Un paese senza eroi.
L’Italia da Jacopo Ortis a Montalbano, Roma-Bari, Laterza, 2013. Jossa riflette sul rapporto tra eroi
nazionali ed eroi dei romanzi nella letteratura tra Ottocento e Novecento.

19
Mastronardi ha cercato di affrontare gli stessi problemi, sebbene con un approccio
diverso. Ha aperto la strada all'uso dell'umorismo grottesco durante questo periodo,
svolgendo un ruolo importante nell’illustrare come venivano ridefiniti i valori sociali.
Durante gli anni '70, insegnanti che avevano una forte impronta autobiografica, come
Bernardini, operavano in modo indipendente. Erano consapevoli che le loro azioni
facevano parte di un movimento ideologico più ampio che si estendeva oltre i confini
della scuola. Questa epoca è stata segnata da un impegno costruttivo nei confronti delle
istituzioni, dalla fiducia nella possibilità del cambiamento e da una cultura di
partecipazione attiva.
Nel genere della narrativa scolastica, gli insegnanti assumono qualità epiche mentre si
sforzano di unire le loro comunità attraverso ideali condivisi. Queste figure eroiche
portano il peso di una missione che vuole contrastare l'ignoranza e la frustrazione che
pervade la maggioranza dei loro colleghi. Sono la forza guida che combatte per
impedire alla loro comunità di sprofondare in una palude di pessimismo e nichilismo.
I ritratti della comunità, i collegi, gli scrutini e le assemblee, offrono intriganti
rappresentazioni metaforiche dell'istituzione scuola. Queste immagini riflettono
l'emergere di malcontento personale, il cedimento intellettuale, l’apatia verso il
progresso e persino un sinistro conservatorismo, che spesso culminano nel degrado e nel
fallimento. Sebbene l'elogio alla collegialità non sia mai stato pienamente promosso, è
stato sentito come un punto culminante e non risolto nella storia della scuola.
Tra la metà degli anni '80 e la pubblicazione delle opere di Starnone, il genere scolastico
conosce un declino con solo pochi romanzi che fanno da sfondo. È stato un tempo in cui
di scuola si parlava più nelle aule, nei collegi di insegnamento, nelle assemblee dei
genitori, nei quartieri, nei convegni, nelle assemblee politiche e sindacali, e meno nei
libri. L'attenzione si è spostata dai singoli insegnanti alla pluralità delle storie, con un
racconto corale privo di un eroe centrale, e invece promosso attorno a personaggi
anonimi le cui gesta sono state condivise oralmente in piccoli gruppi ristretti.
Tuttavia, dagli anni '80, tutto è cambiato. La tradizione umanistica, compresa quella
romanzesca, ha perso il suo valore di patrimonio attivo ed è diventata un patrimonio
inattivo, incapace di fornire un'interpretazione significativa della realtà.
L'interpretazione della realtà si è allontanata e le opere letterarie iniziano a interpretare
il reale attraverso il verosimile, per creare un risultato artefatto, che porta al falso e
all’apocrifo, alla parodia e in definitiva risentono dell’impronta marcatamente
industriale che assume tutta la letteratura, non solo quella scolastica.41
Lo stile dei racconti scolastici di questo periodo rinvia all'incapacità della narrativa
italiana di raccontare la realtà in modo credibile. La linea della rappresentazione è
ironica, grottesca e deformata, con Domenico Starnone in testa come primo interprete,
seguito da numerosi imitatori. Lo scopo è demistificare la realtà, svelare il disordine e il
caos che si cela dietro l'apparente razionalità del sistema scolastico e del Paese.
Lo stile espressivo rispecchia la dissoluzione dei suoi contenuti, quasi come un evento
catastrofico, che ne fa da testimonianza. La perdita della nozione di progresso nel
41
Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo cit., p. 39.

20
pensiero culturale postmoderno ha portato al riemergere di un abisso tra scuola e
società. È una fessura che sembrava essere stata sigillata negli anni '70, per poi essere
nuovamente riaperta. Questo declino nell'immaginario collettivo della concezione della
scuola come strumento vitale per la vita ha reso impossibile l'ipotesi costruttivista. In
termini di forme, si assiste a una mescolanza e ibridazione di generi, stili e strutture, che
portano a un'esplosione caotica, senza possibilità di ristabilire l'ordine.
Ecco perché il ritratto dell'insegnante, come in Cornia, non può che essere quello di un
antieroe. L'ironia e l’autoironia sono tipiche di un individuo emarginato, ed essa è
inoltre appesantita dalle gravose responsabilità dell'educazione. Questa figura solitaria è
spesso ritratta come isolata dai suoi colleghi, e non si tratta più dell'eroe della propria
storia o di un orgoglioso ribelle, ma del sopravvissuto a un'ideologia in frantumi della
scuola democratica. Questo nuovo eroe, come ben descrive Stefano Jossa, è «l'eroe
della vita interstiziale»42 e descrive benissimo anche l’antieroico corniano, de Il
professionale.
Affrontiamo non solo il divario tra l'istituzione della scuola e una società che non ne
apprezza il valore, ma anche l'abisso incolmabile tra coloro che accettano la scuola
come un necessario adattamento allo status quo e coloro che si sforzano di trasformarlo,
radicandolo saldamente nel tessuto della vita. Sebbene apparentemente meno energico
dei modelli precedenti, questo sottile cambiamento segnala l'intenzione di ristabilire il
significato dell'istruzione.
Il significato delle routine quotidiane, dei piccoli atti e della dedizione costante non può
essere sottovalutato. All’interno della scuola, l'obiettivo è fondere il trasferimento delle
conoscenze con l'ascolto attivo, con conseguente applicazione pratica
dell'apprendimento. È fondamentale riconoscere che gli studenti sono individui e, come
educatori adulti, non si può abdicare alla nostra responsabilità etica nei loro confronti.
In questo particolare ambito, ci sono un certo numero di autori che possono essere
considerati un baluardo di eroi dei giorni nostri: Affinati, Albinati, Colasanti, Pusterla,
Visitilli - sono educatori con anche altre vocazioni intellettuali. La maggior parte di
loro sono giornalisti, alcuni sono scrittori, poeti, esperti di cinema o critici letterari.
Il loro stile è debitore a una varietà di campi culturali. Ciò è evidenziato dall'uso di un
linguaggio semplificato, dall'inclusione di dialoghi reali e dall'incorporazione di forti
elementi visivi. C'è anche una tendenza all'iperbole e una dipendenza dalla struttura
della cronaca. L'obiettivo è creare una rappresentazione mimetica della realtà, che
offusca il confine tra finzione e non-fiction.
I creatori di questo lavoro esistono in uno stato anfibio, sia all'interno che all'esterno del
sistema educativo tradizionale. Ciò consente una distanza necessaria da cui riflettere e
scrivere, fornendo anche una fonte di autostima e nutrimento. Anche questo aspetto
sembra di non poco conto e contribuisce all’ampliamento del loro punto di vista.
Nondimeno, il sistema educativo tradizionale può funzionare come una forza negativa,
portando spesso a una diminuzione della propria autostima a causa della mancanza di

42
Jossa, Un paese senza eroi cit., p. 190.

21
riconoscimento economico, o a causa degli scarsi risultati di apprendimento degli
studenti che il sistema stesso crea.
Non è raro che gli insegnanti esprimano frustrazione per l'onere di valutare i compiti,
che talvolta è solo una misura di quanto poco gli studenti assorbono del duro lavoro e
dalla preparazione del professore. Sfortunatamente, l'ambiente scolastico può spesso
sembrare isolato, con limitate opportunità di sviluppo professionale al di là di aree
disciplinari ristrette, e lascia molti di coloro che vi partecipano soffocati e insoddisfatti.
Ciò può portare a un senso di asfissia all'interno della vita accademica, dove le uniche
possibilità di crescita professionale sono legate a iniziative volontarie.
Per evitare di semplificare eccessivamente il ruolo dell'insegnante come eroico o
inadeguato, è essenziale chiarire la complessa interazione tra passato e presente e il
ruolo significativo dell'ironia nella narrativa scolastica. Come abbiamo illustrato, l'ironia
è uno strumento di cambiamento e di inquietudine, un'intelligenza dissolvente e
valorizzante che è sempre stata presente nell'educazione. La narrativa di scuola ha
familiarità con il potere dell'ironia.
Attraverso una lente riflessiva, doppia e dialogica, l'autore della narrazione trasforma la
tragedia in commedia e il ridicolo in malinconia. La pluralità di punti di vista nella
storia assicura che venga presentata una visione sfumata della figura dell'insegnante:
non tetra come dovrebbe essere, se scrivesse le cose come effettivamente stanno.
Per apprezzare il tono ironico che sottolinea questa osservazione, dobbiamo guardare
alle origini. In Romanzo di un maestro, De Amicis evita la tentazione di creare un eroe
a tutto tondo con il personaggio del maestro Ratti, e utilizza al contrario un tono ironico
che dà al libro il taglio di un romanzo-inchiesta. Ad esempio, l'autore ritrae i bambini
così come sono: vivaci, sporchi e affamati, con i vestiti imbrattati di terra e le mani che
si grattano la testa, deviando dall'immagine idealizzata dell'infanzia.
Le aspirazioni idealistiche dell'insegnante vengono rapidamente frantumate dalla dura
realtà del sistema scolastico. Invece di concentrarsi sull'educazione dei bambini
affamati, l'enfasi è posta sulla retorica roboante e sulle vuote promesse di figure
istituzionali che ignorano le sfide della classe. Le frustrazioni dell'insegnante crescono
mentre vedono i bambini lasciare la scuola per lavorare nei campi, mentre i politici
dichiarano guerra all'ignoranza senza intraprendere azioni concrete. Nonostante questi
contrattempi, il ritratto di Emilio Ratti si distingue come una figura genuina, imperfetta
eppure dedita all'insegnamento. Attraverso queste sfide, l'approccio dell'insegnante
all'educazione si evolve da un insegnamento con una vena sentimentale, allo stabilire
una maggiore autorità in classe, dimostrando la sua passione per l'educazione autentica.
Cuore è intriso di motivi eroici che permeano l'intero libro. Secondo Jossa, il romanzo
può essere interpretato «una vera e propria riflessione sull’eroismo patriottico.»43
Le rappresentazioni dei bambini incarnano quelle degli adulti miniaturizzati, portando
le stesse prospettive, obblighi, ambizioni e sagacia. Le cronache del diario di Enrico
Bottini, i racconti mensili del maestro Perboni, i carteggi paterni attestano questi

43
Jossa, Un paese senza eroi cit., p.165.

22
modelli storici di riferimento. Mostrano atti di eroismo, altruismo, nobiltà di carattere e
coraggio.
La presenza di Franti sconvolge le norme sociali di bontà e sacrificio con i suoi modi
sovversivi e malvagi. Infligge danni ai suoi compagni, ridicolizza i soldati feriti e le
madri in lacrime, fa il prepotente con i deboli e lancia persino pietre alla scuola serale.
Umberto Eco, nella sua celebre opera Elogio44, osserva che la grandezza delle azioni di
Franti è troppo enorme per essere ordinaria, e deve avere un valore emblematico che
riecheggia un momento di civiltà, simile al ritratto di Panurge di Rabelais. Con i suoi
continui sorrisi, risate e sberleffi sarcastici, la gratuita cattiveria di Franti riporta
bruscamente alla realtà l'Italia di De Amicis, con la sua vocazione rispettabile e
interclassista. 45 Secondo Jossa, il personaggio di Enrico in Cuore non ha le qualità
necessarie per essere considerato un eroe nazionale perché è ancora troppo coinvolto
emotivamente nella propria crescita personale. Questo, unito alla presenza di Franti,
contamina di ironia l'immagine ideale dell'eroismo. Jossa sostiene che un eroe nazionale
dovrebbe essere un archetipo astratto e ideale, privo di attaccamento emotivo e
impassibile nel comportamento.
La figura dell'insegnante è complessa, resistente a essere confinata in un unico
archetipo o simbolo nazionale. Ritratti come eroici o antieroici, i protagonisti delle
storie scolastiche mostrano tratti di incompletezza antropologica, nature problematiche e
uno slancio ironico e autoironico. Le identità dei personaggi sono spesso in evoluzione,
cosa che li rende come vere e proprie figure letterarie piuttosto che come semplici
simboli. Come per le forme letterarie contemporanee, l'insegnante è troppo realistico e
individuale per essere vincolato da modelli simbolici, proprio come i grandi personaggi
dei romanzi italiani.
Questo è anche quanto si osserva in Il professionale, dove siamo nel novero di
un’autobiografia che si sfugge ai modelli e agli archetipi; anche se sono presenti tutte le
stratificazioni appena indicate nella costruzione della figura dell’insegnante. È possibile
che in fondo in fondo, l’autore non rinunci del tutto a una vocazione pedagogica sincera,
come testimoniano i suoi numerosi laboratori di scrittura nelle scuole, che dimostrano
l’applicazione di una didattica sui generis, quale emerge da questo racconto:

Una formica voleva avere gli stessi diritti di un leone. Così un giorno fu stanca della solita vita e
decise di farsi valere e andò dal leone con aria di prepotenza. Il leone non la vide neanche arrivare e lei
subito iniziò a urlare “Ehi tu! Non mi vedi? Sono io la formica… Brutto prepotente!”. Il leone continuava
a mangiare il capriolo che aveva preso e senza neanche volere abbassò gli occhi: “Ciao piccolo
mostriciattolo come va?”. La formica offesa si girò e disse: “Ciao bestione ma chi ti credi di essere? Io
sono piccola ma sono più grande di te… Sai io non sono cresciuta perché ho avuto una grave malattia che
non mi ha permesso di crescere… altrimenti vedevi come crescevo”. Il leone cominciò a ridere a più non
posso sdraiandosi a terra e sbattendo le zampe… e disse: “Tu più grande di me? Ci credo, ci credo… mi
sa che questa grave malattia sia un bel po’ diffusa nel tuo formicaio…”. La formica ancora più offesa
sprecò l’ultimo fil di voce che aveva urlandogli: “Spero che questo possa accadere anche a te e venirmi a
chiedere qualcosa un giorno e lì in quel momento saprai conoscere la mia tristezza…”. E andò via. Al
44
U. Eco, Elogio di Franti, in Diario Minimo [1963], Milano, Mondadori, 1988, p. 92.
45
Ivi, p. 160.

23
leone quel che gli aveva detto la formica gli importava poco e niente. E continuò la sua merenda senza
problemi o dispiaceri. La formica tornò il giorno dopo con le sue amiche e disse al leone: “Allora la
smetti o ti farò vedere” ma il leone disse: “Mi fai vedere? E vediamo cosa mi fai…”. La formica urlò con
tutta la sua forza e disse: “Amiche… attaccate!!!!”. Così tutte le formiche si buttarono addosso al leone
quasi soffocandolo… Il leone da allora in poi obbedì alle formiche ed erano le formiche a dare ordini.
Questo vuol dire che non sempre la prepotenza vince.46

Paradossalmente, in questa piccola fiaba, affiora ancora una volta il tratto più autentico
di Cornia, che evidentemente pervade anche il suo insegnamento: il tentativo di
utilizzare la scuola come un laboratorio dove sperimentare linguaggi, forme espressive,
senza che ci si poggi troppo sul già detto e sul prestabilito. Una scelta, che ovviamente,
non può fare a meno dell’ironia, come in questo racconto nel quale le formiche si
coalizzano per battere il re della foresta, il leone, un simbolo: forse della tradizione, o
del potere, non è dato saperlo.
Un’idea didattica che sembra soprattutto intellettualmente curiosa e basarsi su una sorta
di risposta agli stimoli, piuttosto che sull’utilizzo degli studenti come vuoti contenitori
di nozioni. Del resto, lo stesso Dickens aveva preconizzato, in Tempi difficili47 – con
un’attenzione all’infanzia che diventa attenzione alla pedagogia, pervasa di ironia e in
grado di attuare anch’essa a livelli molto alti l’ironia come forma di conoscenza – la
possibilità che venisse creata una scuola che si basava solo su studenti ricevono
passivamente la conoscenza, senza avere una sufficiente possibilità di esercitare il
pensiero creativo, e perché no, poetico. Lo si comprende già nell’incipit di Tempi
difficili:

- Ora quel che voglio sono Fatti. Solo fatti dovete insegnare a questi ragazzi. Nella vita non c’è bisogno
che di Fatti. Piantate Fatti e sradicate tutto il resto. La mente di un animale che ragione si può plasmare
solo con i Fatti; null’altro gli sarà più di alcuna utilità. Con questo principio educo i miei figli e con lo
stesso principio educo questi ragazzi.
La scena si svolgeva in un’aula scolastica, un androne spoglio, severo, uggioso, e per dare rilievo alle sue
osservazioni l’oratore sottolineava ogni frase tracciando con l’indice squadrato una riga sulla manica del
maestro. A dare enfasi contribuiva anche la sua fronte, una parete squadrata con le sopracciglia per base e
gli occhi confortevolmente sistemati in due antri oscuri, all’ombra della parete stessa. Ulteriore enfasi era
data dalla bocca, larga, sottile, dura e dalla voce, inflessibile, secca, dittatoriale. E ancora più enfasi la
davano i capelli dell’oratore, che si ergevano ispidi intorno alla testa pelata come un’abetaia destinata a
proteggere dal vento la lucida superficie disseminata di protuberanze come la crosta di una torta di
prugne, quasi che nella testa non vi fosse spazio a sufficienza per tutti i solidi fatti che vi erano stipati.
Ogni cosa, insomma, contribuiva a dare enfasi: il rigido contegno dell’oratore, la giacca squadrata, le
gambe e le spalle squadrate e persino la cravatta, annodata quasi a serrargli la gola in una stretta
implacabile, da quel fatto ostinato che era.

46
Una favola che hanno scritto Margherita e Fatima, che nel 2003 facevano la terza a alla scuola media G.
Cavani di Serramazzoni, dove, con Ugo Cornia, abbiamo fatto un Laboratorio di scrittura.
(https://www.paolonori.it)
47
Tempi difficili (Hard Times - For These Times) è il decimo romanzo di Charles Dickens, pubblicato per
la prima volta nel 1854.

24
- Nella vita servono solo Fatti, null’altro che Fatti! A questo punto l’oratore, il maestro e il terzo adulto
presente indietreggiarono un poco, passando in rassegna con lo sguardo i piccoli recipienti, rigorosamente
allineati, in attesa di essere colmati fino all’orlo con galloni e galloni di fatti. 48

La scuola deve invece garantire la possibilità di espressione a tutti i livelli, con una
didattica aperta, fino quasi a confondere il ruolo di insegnante e studente, sembra
sostenere Cornia, naturalmente non direttamente ma attraverso la pratica della sua
scrittura.

48
Charles Dickens, Tempi difficili, Einaudi, pag. 7-8

25

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