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Un romanzo spaventoso e indimenticabile, scritto – come ha

affermato Angelo Guglielmi – «in un linguaggio secco, lucido e


fermo e insieme percorso da una strana vibrazione di natura
segreta e inudibile».
Samuel, sorvegliante di una vasca dove vengono allevate e nutrite
le sirene destinate alla produzione della «carne di mare», si lascia
tentare dal più pericoloso dei piaceri. Si unisce a una sirena
femmina, sfuggendo a stento alla reazione istintiva di lei: divorare
il maschio dopo il rapporto, come fanno le mantidi. Da quell’unione
nasce Mia – mezzo sirena e mezzo umana – e da lei avrà, forse,
origine una nuova specie cosciente.
In Sirene Laura Pugno racconta la fine del mondo degli umani,
costretti a vivere al buio e in città subacquee – perché la luce è
diventata nemica, provoca il «cancro nero» –, dominati dalle mafie
internazionali, sfiniti dal consumo di ogni risorsa planetaria. Se a
essere importante non è la vita di un singolo e nemmeno la vita di
una specie, ma la vita dell’intelligenza, «il passaggio di testimone a
un’altra specie a cui affidare la gestione del mondo», come scrisse
Tiziano Scarpa alla prima pubblicazione di questo romanzo, nel
2007, «è una via d’uscita dall’umano, dalle impasse della sua
civiltà, ma anche una sua realizzazione superiore, un superamento,
un autoannullamento e una paradossale salvezza».

LAURA PUGNO è nata a Roma. Ha pubblicato la raccolta di racconti


Sleepwalking (Sironi 2002) e i romanzi Quando verrai (minimum fax
2009), Antartide (minimum fax 2011), La caccia (Ponte alle Grazie
2012) e La ragazza selvaggia (Marsilio 2016, Premio Selezione
Campiello 2017). In poesia: Il colore oro (Le Lettere 2007), La
mente paesaggio (Perrone 2010), Bianco (Nottetempo 2016) e I
diecimila giorni: Poesie scelte 1991-2016 (Feltrinelli Zoom 2016); è
inoltre inclusa nell’antologia einaudiana Nuovi poeti italiani 6
(2012). Oggi dirige l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid.
www.laurapugno.it
Laura Pugno
Sirene

Marsilio
Della stessa autrice nel catalogo Marsilio
La ragazza selvaggia

Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano.


In copertina: Elif Sanem Karakoç, Above (particolare).
© 2017 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Prima edizione digitale 2017
ISBN 978-88-317-4192-7
www.marsilioeditori.it
ebook@marsilioeditori.it
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
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Indice

Copertina
Abstract - Autrice
Frontespizio
Della stessa autrice - Copyright
Esergo
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SIRENE
per Elio
1

Samuel salì sulla piattaforma che sovrastava le vasche e aprì


uno degli armadietti. Si tolse la tuta col logo western standard
della yakuza – una y stilizzata in un cerchio enso, che sembrava
tracciata col sangue – e indossò la muta di neoprene.
Il bordo vasca era deserto, non c’era nessun altro
nell’allevamento. Con l’epidemia di cancro nero, c’erano stati
tagli al personale. Erano rimasti solo due sorveglianti, Samuel e
Ken’nosuke, che lavoravano su turni, i tecnici veterinari e gli
addetti alla macellazione della carne.
Quello era uno degli impianti più piccoli, uno dei primi.
C’erano stabilimenti più grandi e moderni in altri punti della
riserva marina yakuza.
La monta delle sirene stava per iniziare. Subito dopo, dal
pannello di controllo del sistema di svuotamento delle vasche,
Samuel avrebbe attivato il ricambio dell’acqua. Era una delle
cose che gli piaceva fare.
L’acqua dell’oceano entrava con un risucchio e un gorgoglio.
La griglia di filtraggio ne regolava la potenza, permettendo
un’osmosi dolce e controllata tra mare esterno e mare interno,
ma se Samuel avesse commesso un errore, se non avesse fatto
incastrare perfettamente la griglia nel quadro a cerniera, la
furia dell’acqua avrebbe spazzato via tutto.
Allo stesso modo l’oceano spazzava le piattaforme esterne
degli allevamenti nella riserva yakuza al largo della costa della
Nuova Baja California, nelle acque di Underwater, dove nessuno,
e soprattutto non il governo dei Territori, avrebbe potuto
scoprirli, e certamente non avrebbe avuto voglia di mettersi lì a
controllare cosa facevano gli yakuza nelle loro riserve. Non con
l’epidemia di cancro alla pelle – cancro nero, sole nero – che
divorava la popolazione.
Se Samuel avesse voluto distruggere tutto, poteva farlo.
Questo pensiero gli era di grande conforto.
Sadako era morta l’anno prima, a diciassette anni. In piena
estate, quando il cancro nero è più feroce. Lo chiamavano
cancro ma era qualcosa di più di una proliferazione impazzita di
cellule. Era, almeno così diceva il Mermaid Liberation Front, il
giudizio di dio per quello che la specie umana aveva fatto alle
sirene.
Samuel aveva dei dreadlock biondi lunghi fino alla vita. Il
giorno in cui aveva iniettato l’eutanasia a Sadako, si era rasato a
zero. Sadako non avrebbe voluto questa forma di omaggio. Un
cranio rasato significa cancro nero quasi certo, cominciando
dalla testa, soprattutto in un fototipo I.
Ma Sadako era morta.

Sotto, nella vasca, i maschi di sirena coprivano le femmine.


La monta era frontale. Le femmine erano schiacciate contro
l’orlo delle vasche dal peso dei maschi, molto più grandi.
Di solito docili come vacche, le femmine di sirena si
rivelavano stupendamente feroci alla fine della monta. Non
appena cessato l’estro che le manteneva narcotizzate e placide,
alla mercé dei maschi, le femmine li avrebbero uccisi e in parte
divorati. Era l’unica occasione in cui la specie – o così credevano
gli scienziati – consumava carne.
Con la mattanza, l’acqua si sarebbe scurita di sangue e
sarebbe stato necessario liberare le carcasse nell’oceano,
procedere allo svuotamento delle vasche. I maschi servivano solo
a fecondare le femmine, la loro carne era velenosa per l’uomo.
Voraci come la loro fama, domate e addomesticate, le sirene
non cantavano per l’orecchio umano. A volte emettevano un
verso stridulo di gabbiano o di foca, ma il loro canto vero era un
richiamo ultrasonico che faceva impazzire i cani, e forse, per
quanto impercettibile all’udito, anche gli uomini.
Da quando era stata introdotta la macellazione meccanica al
posto del taglio manuale della gola, la carne di mare si era
diffusa rapidamente sul mercato. Le statistiche dimostravano che
i lavoranti dei macelli presentavano una spiccata tendenza al
suicidio. Per questo, negli impianti di nuova costruzione, le
vasche della morte erano insonorizzate, ma quello in cui
lavorava Samuel era uno dei più vecchi.
Solo le femmine facevano versi ed emettevano il richiamo. I
maschi erano completamente muti.
I maschi di sirena, pensò Samuel, sono fuchi.
Qualche scienziato aveva sostenuto che non si trattava di
un’unica specie, ma di due, diverse, misteriosamente ibridate in
una terza, che la forma originaria della sirena era la femmina e
che i cosiddetti maschi erano una specie commensale.
Brutta fine, per un commensale, pensò Samuel allacciando le
protezioni della muta.
Il dimorfismo sessuale era enorme. I maschi erano dugonghi
di piccola taglia, non avevano niente di umano. Le femmine
erano bestie da latte e da carne e insieme erano donne, prive di
parola, prive di gambe, il muscolo unico della coda capace di
spezzare in due la schiena di un uomo, la vagina liscia, protetta
dall’abrasione dell’acqua di mare da uno smegma
madreperlaceo, priva di peli.
Ti guardavano con occhi vuoti, spenti, verde mare o
oltremare, con le membrane nittitanti delle palpebre come pezzi
di plastica sporca, i visi poco più che musi – di vacca, pensò
Samuel – ma a complicare il loro corpo c’erano quei capelli
lunghi, se poi si potevano dire capelli, un’unica massa elastica
verdeazzurra o azzurro vivo che scendeva sulla schiena, che
ondeggiava nell’acqua come le trecce della più splendida delle
adolescenti, e le braccia verde chiaro con le mani palmate, il
seno sempre grande e pesante con i capezzoli verde cupo,
durissimi, da cui nell’estro usciva un latte dolciastro. Samuel
l’aveva bevuto più di una volta, quando gli era capitato di
rubarlo dall’allevamento.
La coda era coperta di squame, verdi o azzurre, viola in età
avanzata, ma nei macelli le sirene non arrivavano a invecchiare.
La carne diventava granulosa. Il più apprezzato era il vitello di
sirena, giovane e tenero. La carne di sirena era molto richiesta.
C’erano i bordelli con sirene, in realtà proibiti dalla legge
perché la specie era in estinzione. Le sirene erano il nuovo sport
sessuale, il nuovo caviale Beluga.
Anche gli allevamenti di sirene da carne erano proibiti dalla
legge. Per questo la yakuza teneva i suoi impianti a Underwater
e in altri posti sicuri lungo la costa della Nuova Baja California,
la NuBaCa dei resort sotto l’oceano.
I movimenti per la liberazione delle sirene, specie sorella – il
Mermaid Liberation Front, soprattutto –, erano stati distrutti
dall’epidemia.

Samuel era stato addestrato per essere un quadro, ed era


stato scartato.
La yakuza l’aveva tenuto come sorvegliante agli impianti e a
suo tempo aveva pagato le cure mediche di Sadako. Lei era
vissuta forse tre mesi in più ed era morta in ospedale, non per
strada come i disperati.
Sadako era morta e Samuel non sarebbe più entrato nei
resort suboceanici, nemmeno nelle casematte dei killer. Era
condannato alla terraferma, al sole che ti mangia vivo, come due
terzi degli abitanti della NuBaCa, di Underwater e del resto del
mondo.
Ma forse nessun abitante sano di mente della Nuova Baja
California avrebbe fatto quello che lui stava per fare adesso,
entrare in una vasca di sirene da allevamento in calore,
mescolarsi ai maschi, piazzare il suo seme in uno di quei grandi
corpi coperti da una sostanza leggermente viscida, e poi cercare
di salvare la pelle.
I bordelli stavano attenti a non proporre ai clienti gli
esemplari in vero estro. Giravano storie di qualche yakuza
troppo voglioso che si era fatto mozzare la testa. Fortunatamente
qualcuno aveva inventato gli estrosimulatori.
Quella per le sirene poteva diventare una perversione.
Qualche yakuza non riusciva più ad andare con le donne
normali, neanche con le piccole giapponesi prive di peli come la
carne di mare, pensò Samuel.
Sadako era giapponese. Scacciò il pensiero.
Aveva pronto il maschio che lo avrebbe rimpiazzato sotto i
denti della femmina. Era un esemplare particolarmente docile,
bue e non toro da monta.
Quello che sto per fare non ha senso.
Scacciò anche quel pensiero.

Aveva poco tempo, finita la monta le sirene sarebbero uscite


di scatto dalla narcosi dell’estro e avrebbero cominciato a
divorare i maschi, affondando il primo colpo mortale nel collo.
Dopo la riproduzione lui e Ken’nosuke le avrebbero portate al
macello. Gli esemplari sterili venivano inviati ai bordelli yakuza
o, se presentavano qualche malformazione minore che li rendeva
inadatti al lavoro di copula, in anticipo sugli altri del loro branco
alle vasche della morte. Tra le sirene da allevamento, dal dna
impoverito dagli accoppiamenti tra consanguinei, la sterilità era
una tara frequente. Ai bordelli sotto il mare venivano inviati solo
animali sterili: nessuna bestia gravida sottratta al profitto
yakuza, anche se a qualche cliente piaceva succhiare dai
capezzoli verde scuro il latte. Una prelibatezza proibita,
nutriente, capace di resuscitare i morti. Stronzate, pensò
Samuel. Gli sembrò quasi di risentire in bocca il sapore di quella
sostanza grassa come latte umano.
Aveva scelto la sirena più simile a una donna, un esemplare di
taglia piccola entrato in estro per la prima volta qualche giorno
prima, con un muso quasi umano.
Era una mezzoalbina, così venivano chiamate le sirene con la
pelle bianca con screziature d’argento, e gli occhi, la coda e la
palmatura delle mani più azzurri che verdi.
Le sirene albine, dagli occhi rossi di coniglio, negli
allevamenti venivano uccise alla nascita. La carne era cattiva.
Per le mezzoalbine il discorso era diverso. In realtà il riferimento
all’albinismo era improprio. La colorazione argento rientrava
nello standard, anche se di solito le mezzoalbine erano sterili.
Dall’acqua calda la sirena dalla pelle biancoargento sembrava
sorridergli con i piccoli denti aguzzi. Era in stato narcotico. La
massa muscolare dei capelli e quella della coda, il seno pesante
ondeggiavano in acqua. Perdeva un po’ di latte dai capezzoli.
Era pronta.
Samuel alzò gli occhi alla postazione di controllo con le
vetrate affacciate sulle vasche. A volte i leader yakuza venivano
a godersi lo spettacolo della monta e la mattanza dei maschi.
Nessuno lo aveva avvertito di una visita, ma i vertici amavano
capitare agli impianti di sorpresa. Lui e Ken’nosuke lo sapevano.
Avrebbe corso il rischio. Si calò in acqua.
2

La scoperta delle sirene era avvenuta una ventina d’anni


addietro a opera di un team di scienziati dei Territori, molto
prima dell’epidemia di cancro alla pelle. Epidemia era il nome
giusto. Anche se i medici avevano stentato a crederci, il cancro
nero si poteva contagiare tramite il contatto. Qualcosa era
cambiato nell’atmosfera, negli strati di protezione che
separavano la Terra dalla stella del suo sistema, e ora il sole
sembrava voler divorare l’umanità come un dio maligno. Un dio
azteco che chiedeva sacrifici.
C’era chi credeva che le sirene fossero una mutazione
genetica, un’evoluzione dei dugonghi o lamantini quasi estinti,
per fronteggiare un mondo da cui l’essere umano era destinato
a sparire. Altre creature, suboceaniche, avrebbero dominato la
Terra.
Altri sostenevano che era normale scoprire specie
sconosciute, visto che l’uomo era ormai in grado di abitare il
fondo dei mari e degli oceani, anche se ci volevano molti soldi
per farlo. Specie nuove, o forse antichissime, come le
meravigliose sirene crudeli.
Le sirene erano immuni al cancro alla pelle. Anche se
emergevano in superficie e potevano respirare fuori dall’acqua,
il sole non sembrava aggredire la loro epidermide. Gli scienziati
avevano concluso che l’immunità derivava da quella sostanza
madreperlacea, viscida al tatto – il cosiddetto umore – che
copriva la pelle della specie per proteggerla dall’azione abrasiva
dell’acqua e della sabbia del fondo, ma che funzionava
altrettanto bene, ironia dei meccanismi di adattamento genetico,
contro la deprivazione dello strato di ozono nell’atmosfera.
Quando era cominciata l’epidemia, con le prime isterie e
psicosi di massa, gli scienziati avevano provato a riprodurre
l’umore in laboratorio, ma senza riuscirci. In quella gelatina
lattescente c’erano componenti non ancora identificati, e i
tentativi di produrre un’applicazione da farmacia o da scaffale di
supermercato non avevano funzionato.
I ricchi, e tra questi gli yakuza, avevano scoperto la vita nei
resort suboceanici. La gente normale si arrangiava nei bunker,
che erano diventati il modello architettonico prevalente, e con
mute da giorno, maschere comprate al mercato nero e biacca
protettiva. I disperati, quelli che non avevano niente da perdere
o nessun particolare desiderio di continuare a vivere, andavano
avanti come prima. Vivevano nei vecchi edifici, uscivano
all’aperto.
Samuel era uno di loro.

Era entrato sotto la protezione della yakuza a cinque anni.


Suo padre era un killer inattivo, uno sleeper. Una mattina si era
svegliato, aveva massacrato la madre di Samuel e si era sparato
in bocca.
Quella mattina, il padre lo aveva chiuso a chiave nella sua
stanza. Gli aveva portato la colazione a letto, latte caldo e
biscotti, e un pacco di fumetti nuovi. Mentre Samuel sfogliava le
pagine dei comics, suo padre era uscito e aveva girato piano la
chiave. Samuel non si era accorto di niente finché non aveva
sentito i colpi di pistola e si era precipitato alla porta, sporcando
le lenzuola di latte e biscotti.
Come ogni sleeper, il padre di Samuel era tenuto sotto
osservazione. Non c’era stato alcun segnale di quello che stava
per fare, aveva detto agli emissari yakuza uno dei vicini di casa.
Era un uomo perfettamente felice.
Ecco cosa avrebbe tormentato Samuel, negli anni a venire,
mescolandosi al dolore. Suo padre era un uomo perfettamente
felice.
Sua madre era incinta di sei mesi, di una femmina. Dopo la
sua morte, Samuel bambino si era convinto che dal corpo della
madre fosse stata estratta una minuscola sirena già formata, viva
nell’amnio. Gli uomini della yakuza che avevano trovato il corpo
l’avevano divorata. Nessuno ne aveva mai saputo niente. Solo
Samuel lo sapeva, perché l’aveva sognato.
La yakuza era arrivata prima della polizia.
I vertici dei clan non avevano bisogno di ragazzini
traumatizzati. Dieci anni dopo, diventavano pessimi killer.
Psicopatici ossessionati dalla perdita, non veri professionisti.
Samuel sarebbe stato sottoposto al trattamento mente nuova.
Il padre e la madre di Samuel non erano di Underwater.
Samuel non sapeva da dove venissero. Non c’erano ricordi di
famiglia, file o fotografie. Negli archivi yakuza, Samuel era
schedato come caucasico.
Forse, pensava Samuel, i suoi venivano dai Territori esterni, le
zone libere dove si accalcavano i disperati che cercavano di
raggiungere la costa di Underwater. Col cancro nero, la città era
circondata da campi di quarantena. Non erano i fuoriusciti dai
Territori esterni a portare con sé l’epidemia, ma le autorità
sapevano che un capro espiatorio serve sempre. L’oceano
rifletteva il sole addosso agli abitanti di Underwater come un
enorme specchio, eppure migliaia di persone premevano sui
confini, si facevano chiudere nei recinti elettrificati e
aspettavano, nella speranza di vedere un giorno il mare. Forse
erano seguaci di Yemanjà-Inaè. A Underwater, un tempo, niente
era proibito. O almeno così dicevano, nei Territori esterni, i
disperati.
Adesso, le cose erano cambiate. La mappa della città era
piena di deserto, una pelle di leopardo coperta di chiazze nere.
Le aree sequestrate. Gli ospedali. I campi di detenzione
temporanea, che durava fino al momento della morte.
A Underwater, il cibo cominciava a scarseggiare, per tutti, ma
non per gli yakuza.
Tutto stava ritornando selvaggio. Underwater, i Territori,
l’oceano. Le sirene smetteranno di vivere in fondo al mare e ci
succederanno sulla Terra. Non le abbiamo addomesticate, non
ancora. Le teniamo prigioniere, mangiamo la loro carne. Ma non
siamo riusciti a addomesticarle.

La yakuza aveva preso il piccolo Samuel e lo aveva portato in


un posto sicuro. I medici lo avevano imbottito di chemical,
farmaci che bloccavano i ricordi traumatici prima che si
imprimessero sulla superficie del cervello, rigandola come vetro.
Fortunatamente, la yakuza aveva preso Samuel prima che
vedesse i corpi. La visione dei corpi sarebbe stata quasi
impossibile da cancellare. (Il padre lo aveva chiuso a chiave
nella sua stanza. Era stato per questo?) Invece così, l’esito del
trattamento era stato perfetto. Il ricordo di quella mattina era
stato lavato via dalla mente di Samuel. L’amigdala si era come
rinnovata.
Sulla scheda di Samuel c’era scritto che aveva un buon
talento per dimenticare. Per questo, quando Sadako era morta,
aveva chiesto di essere sottoposto di nuovo al trattamento. Ma
non aveva funzionato. Sadako era ancora parte del suo corpo,
come un arto fantasma.
Forse il memory cleansing era efficace solo una volta nella
vita. O forse l’agonia di Sadako era stata troppo lenta e gli aveva
massacrato la mente a poco a poco, non aveva avuto la rapidità e
la perfezione della morte di suo padre e sua madre. Avrebbe
dovuto vivere con la morte di Sadako il resto della sua vita.
Dopo, non c’era niente che valesse la pena ricordare. Solo
l’epidemia, Underwater che si andava svuotando. E il suo lavoro
agli impianti, con la routine della monta e il macello.

Il mondo in cui Samuel era nato non conosceva le sirene. Era


un bambino quando, qualche anno dopo la pesca del primo
esemplare – la grande scoperta –, c’era stata la grande morìa.
Le sirene venivano a morire sulle spiagge di Underwater. Per
due mesi, la costa era diventata un cimitero a cielo aperto. E i
turisti accorrevano da ogni parte del mondo.
La marea portava a riva i corpi delle sirene ancora vive. Era
come se cercassero la morte. Forse vedevano il futuro, e quello
che gli uomini avrebbero fatto loro, dicevano i mistici. Forse
avevano deciso di far estinguere la specie, ora che gli uomini ne
erano a conoscenza. O forse, dicevano gli scienziati, da qualche
parte, nelle profondità dell’oceano, si era verificato un
sovrappopolamento, e quella era la risposta.
Suo padre lo aveva portato a vedere le sirene sulla spiaggia
quando già si stavano decomponendo. Più di tutto, Samuel
ricordava l’odore. La grande morìa era finita e non si era più
ripetuta. Le meravigliose sirene erano grandi carcasse in
putrefazione, che puzzavano.
Samuel era rimasto deluso.
Così, mesi dopo, il giorno prima di uccidere sua madre, il
padre lo aveva portato al Museo di Nuove Scienze Naturali
appena aperto, a vedere gli scheletri di sirena e i grandi corpi
imbalsamati, senza odore. La madre di Samuel non era andata
con loro, aveva un po’ di febbre. Tornando a casa, anche Samuel
si sentiva la febbre. Forse erano state le sirene. Forse, aveva
scherzato suo padre, hai il mal di sirena. È come il mal d’Africa,
non si può guarire.
Durante la morìa le squadre del Museo avevano prelevato
alcune sirene ancora vive dalla spiaggia. Le avevano uccise con
uno shot di veleno misto a sedativo, e avevano imbalsamato i
corpi. Si diceva che avessero truccato loro il viso, per farle
sembrare più umane. Labbra verdi coperte di rossetto. La massa
muscolare dei capelli intrecciata di fiori.
Questo si diceva quando il Museo di Nuove Scienze Naturali
era andato in rovina e Samuel era adulto. Le sirene imbalsamate
erano state trafugate o vendute. Le sale del Museo erano
diventate rifugio di vagabondi che dormivano nelle teche vuote,
in frantumi, a volte senza nemmeno preoccuparsi di spazzare via
i vetri rotti. Ma dovevano passare vent’anni. Quel giorno, a
Samuel le sirene morte erano sembrate meravigliose. Lì, nelle
stanze fresche del Museo, non c’era nessun odore.
Quando si veniva sottoposti al memory cleansing, il ricordo
felice immediatamente precedente al trauma acquistava
intensità. Nel caso di Samuel, erano le sirene. Le magnifiche
bestie, già morte quando le aveva viste al Museo, e senza odore.
Il ricordo della grande morìa, invece, non gli procurava nessuna
particolare emozione.
La yakuza aveva capito presto che Samuel non sarebbe mai
diventato un buon killer. Era come suo padre, un uomo destinato
a essere, a un certo punto della vita, perfettamente felice. Ma
era bravo a seguire la monta, a scartare i feti deformi, a
selezionare il maschio per ogni femmina. Aveva occhio per gli
esemplari migliori. Non si lasciava commuovere dalla
somiglianza con la specie umana. Quando ancora si praticava la
macellazione a mano – con il taglio della gola da spalla a spalla –
era stato tra i primi.
In certi raffinati ristoranti dotati di vasche, i clienti potevano
scegliersi il pranzo. La gola alla sirena prescelta veniva tagliata
al momento.
Samuel non ci era mai stato.
3

Samuel sentì scorrere sul corpo coperto dalla muta l’acqua


calda della vasca, tenuta in movimento dai rotori sulla facciata
subacquea delle pareti. Era come un massaggio dolce sulla
pelle, come il tocco delle dita di Sadako.
Prese il guinzaglio elettrico che aveva fissato al collo del
maschio prescelto e il semidugongo lo seguì docile verso le
femmine.
Samuel si assicurò il guinzaglio al polso e tirò fuori dalle
tasche della muta una siringa di narcotico. La conficcò in
profondità sotto la pelle spessa del maschio, che si afflosciò in
superficie, rovesciando il ventre verde chiaro.
Buona notte, pensò Samuel.
La piccola mezzoalbina doveva essere feroce, non ci avrebbe
messo molto a divorare il fuco, al momento giusto.
Nessuno avrebbe visto niente. Nessuno avrebbe notato niente
di diverso. Nuotò verso di lei, due colpi di pinna.
La mezzoalbina gli tendeva le braccia. Sollevò il muso, aprì la
bocca – quasi senza labbra, solo due sottili strisce di mucosa
verdeazzurra – mostrò i piccoli denti perlati ed emise il richiamo.
Samuel non poteva sentirlo, ma ricordava la bava fra i denti
del cane da guardia di Jack, il sorvegliante che gli aveva
insegnato il mestiere, quando era più giovane e le vasche erano
all’aperto.
Il cane era un ibrido di lupo, nutrito a scarti di sirena. Come
quasi tutti gli ibridi, era più grosso di un lupo o di un pastore
tedesco, con il pelo color oro chiaro sul dorso e sul ventre e più
scuro, focato, sui fianchi. Non ha senso del branco, non è un
lupo, diceva Jack. E a volte sospetto che non sia neanche un
cane. È come se in lui migliaia di anni di domesticazione fossero
stati cancellati.
Quello era il problema con gli ibridi di lupo. Per questo un
decreto, anni prima, aveva ordinato che venissero soppressi. Ma
negli impianti yakuza al largo delle acque di Underwater, il
mezzo lupo di Jack era rimasto vivo, beatamente ignaro della
legge. Nessuno dei grandi yakuza aveva preteso che Jack facesse
fuori il suo cane. E Jack non l’avrebbe fatto comunque.
Il mezzo lupo riconosceva Jack. E Samuel. Con tutti gli altri,
poteva diventare selvaggio. Per paura, o per totale assenza di
paura. Ken’nosuke ne sapeva qualcosa. Era stato morso più
volte, e aveva anche rischiato di perdere un braccio.
Quando le sirene facevano il richiamo – non quel loro verso
da foca, a cui Samuel era ormai abituato, ma il richiamo vero,
con cui chiamavano il maschio e comunicavano tra branchi in
acque libere, il canto che l’uomo non poteva sentire – il mezzo
lupo di Jack ringhiava e sbavava. A volte sembrava che cercasse
di dominare un nemico invisibile, altre volte si rovesciava sul
dorso mostrando il ventre dorato, come se si sottomettesse a
qualcuno più forte di lui.
Grazie al canto, una mezzoalbina aveva tirato il cane di Jack
giù nella vasca e lo aveva tenuto sott’acqua con una forza
enorme finché era annegato, non senza prima dilaniarle la gola.
Samuel aveva ripescato la carcassa gonfia e aveva accompagnato
Jack al largo.
Nutrirà gli squali, aveva detto Jack.
La mezzoalbina era stata macellata con procedura accelerata.

La sirena si sfregò contro di lui, coprendogli la muta di umore


vischioso. Samuel sentì un’erezione quasi automatica. Forse era
l’odore della sirena, o così dicevano le voci sugli yakuza
ossessionati da quelle creature. Non solo l’umore della pelle,
non solo la carne e il latte di sirena, ma anche l’odore era
afrodisiaco. Samuel ci era abituato, ma non era mai stato
addosso alla carne di mare in vero estro.
Alzò nuovamente gli occhi alle vetrate della postazione di
controllo. Era deserta. I grandi yakuza avevano cose più
importanti da sistemare. Non avevano tempo per la routine della
monta, per eccitante che fosse.
Samuel aprì la parte inferiore della muta, sentì addosso
l’acqua calda della vasca e si avvinghiò alla mezzoalbina, al
garrese. Era un esemplare particolarmente bello, il migliore,
con il collo lungo, quasi da donna, bianco screziato d’argento.
Collo di cigno, corpo del colore delle piume bianche dei cigni.
Aveva fatto una buona scelta. Se la mezzoalbina fosse risultata
sterile l’avrebbero mandata ai bordelli. I vecchi yakuza
avrebbero pagato in neoyen per fare quello che stava facendo
lui ora.
La vagina della sirena era liscia e gonfia, Samuel entrò dentro
di lei e gli sembrò che la muscolatura fortissima della coda lo
stritolasse. La mezzoalbina era docile nelle sue mani,
narcotizzata dall’estro, ma Samuel sentiva la potenza della carne
della bestia, la durezza delle squame, sentiva il sangue scuro
della sirena pulsare nelle vene visibili sul collo, sotto la pelle
argentata.
Le strisce verdastre di mucosa sulla bocca non gli erano mai
sembrate tanto simili a labbra e Samuel le coprì con le sue, infilò
la lingua nella bocca della mezzoalbina temendo che gliela
troncasse con i denti affilatissimi ma lei rimase immobile,
passiva. Samuel succhiò la saliva della sirena chiedendosi se
fosse un veleno, un farmaco, un afrodisiaco o cosa, e gli sembrò
che quella sostanza gli inebriasse il sangue. Leccò il collo e le
spalle della mezzoalbina per assaggiare l’umore viscido. Cercò il
seno e succhiò voracemente i capezzoli verdi, duri sulla lingua
come un piercing.
Intorno a lui, i maschi di sirena stavano per concludere la
monta. Tra pochi istanti la mezzoalbina avrebbe cercato di
ucciderlo. Quella consapevolezza lo eccitò ancora di più e svuotò
il suo sperma nel corpo della sirena. Lei gli sembrò bellissima,
una dea della morte.
Un istante dopo, Samuel si staccò dalla mezzoalbina, senza
perder tempo a sistemarsi la muta, e i denti della sirena gli
mancarono di pochissimo la giugulare. La femmina era ancora
lenta nei movimenti e Samuel fece in tempo a scagliare contro di
lei il corpo narcotizzato del maschio, sfilando il polso dal
guinzaglio.
La mezzoalbina guardò Samuel negli occhi, come le sirene
non facevano mai, e sembrò accettare la nuova preda. Il maschio
sarebbe passato dalla narcosi alla morte. I piccoli denti di lei
stavano già facendo il loro lavoro. Intorno, le altre sirene
colpivano a morte i loro compagni di monta. Il sangue dei
maschi, verde cupo, sporcava l’acqua nelle vasche.
Samuel era abituato allo spettacolo della mattanza. Avrebbe
aspettato che le femmine finissero per far defluire le carcasse
dei maschi nell’oceano. Uscì in fretta dalla vasca e si tolse la
muta, mettendola ad asciugare.
A volte gli era capitato di dover entrare in acqua, al termine
della mattanza, per dare il colpo di grazia a qualche maschio. I
vertici yakuza conoscevano questa sua abitudine misericordiosa.
Se anche qualcuno di loro fosse arrivato tardi per godersi lo
spettacolo, non avrebbe fatto domande.
4

Samuel tornò a casa passando per i corridoi dei resort


sotterranei. In via speciale, gli avevano permesso di tenere il
pass per la rete viaria suboceanica, che in parte era ancora in
costruzione. Casa sua, invece, era sulla terraferma, in piena
luce. Aveva una meravigliosa esposizione a sud-est, era un forno
crematorio nella parte alta di Underwater, che una volta era una
bella zona. Una zona nuova, tra mille zone nuove, per la città di
Underwater che doveva espandersi fino a coprire la Terra.
Dopo la morte di Sadako, i vertici della yakuza avevano detto
a Samuel che poteva riprendersi la sua vecchia branda agli
impianti. Ma lui tornava ancora a casa, qualche volta. Questa
volta, ad esempio.
La casa era stata costruita prima dell’epidemia. Aveva enormi
finestre con vetrate e, sul tetto, impianti a energia solare. Era
stata costruita per richiamare il sole.
Quando era ancora sana, e anche dopo, finché era riuscita a
stare in piedi, Sadako curava il terrazzo. Sotto le sue cure, fiori e
foglie acquistavano una consistenza nuova. A volte, Samuel
pensava che nelle piante di Sadako si stesse sviluppando una
forma di intelligenza. Il sole che uccideva gli uomini sembrava
gonfiarle di vita meravigliosa. Forse erano destinate a ereditare
la Terra.
Ora anche le piante erano morte. Samuel le aveva lasciate
morire di proposito. Non poteva continuare quello che Sadako
aveva iniziato. Senza di lei, non poteva. O forse non avrebbe
avuto lo stesso la forza di andare avanti. La morte di Sadako era
l’alibi perfetto.
Nel frigo di casa c’era ancora del paté di soia dell’anno
prima, il preferito di Sadako. Stava marcendo, era coperto da
uno strato verde, ma non aveva odore. Non era normale che
quella cosa, per transgenica che fosse, non avesse odore, ma
Samuel non era riuscito a buttarla.
Sadako non mangiava mai niente che avesse oltrepassato la
data di scadenza, anche solo di un giorno. Sadako beveva tè
verde con ginger contro il cancro nero, ma non era servito.
Neanche la chemioterapia era servita a niente, né la chirurgia
con azoto liquido.
Il cancro nero attaccava tutto il corpo. L’intero derma. Così
dicevano da sempre i medici, che lo avevano verificato sin dai
primi casi, e ormai era conoscenza comune. I malati morivano in
strada. A un certo punto erano stati ammassati sulle spiagge, e
una buona fetta della costa, in corrispondenza della parte bassa
della città, era stata recintata.
La pelle di Sadako si era coperta di chiazze nere, le cadeva di
dosso, si era squamata come le scaglie di un serpente fino a
strati profondissimi. Un altro dei fenomeni tipici del nuovo
cancro, a cui i medici, inizialmente, avevano fatto fatica a
credere. Sadako aveva perso tutti i tatuaggi, gli ideogrammi che
le coprivano interamente il corpo tranne il viso.
Sadako tatuata era un’opera d’arte.
Senza i kanji, aveva pensato Samuel, era veramente nuda.
Era entrata nel derma bianco.

Quando Sadako era morta, prima della cremazione la yakuza


aveva chiesto l’autopsia. Era un’abitudine, forse qualcosa di più,
un rito. Da quando era scoppiata l’epidemia le inumazioni erano
state abbandonate, ma l’autopsia significava che la yakuza si
prendeva cura del tuo corpo anche nella morte. Anche se eri
solo una ragazzina giapponese, la donna di un sorvegliante delle
vasche, addestrato per diventare quadro e poi scartato.
I vertici della yakuza erano tutti giapponesi, o almeno
mezzosangue, anche se nei bassi ranghi c’era gente di ogni
etnia. Erano stati i vertici a regalare Sadako a Samuel. Era la
figlia illegittima di uno dei capi, ma questo Samuel l’aveva
saputo solo dopo, nessuno si era preoccupato di dargli
spiegazioni. Sadako era una freeter, una ragazza che viveva di
espedienti, ma era giapponese.
Lui aveva amato Sadako più di ogni altra cosa.
Quando le aveva praticato l’eutanasia, Sadako era incinta, di
un paio di mesi. Samuel l’aveva saputo dopo l’autopsia. Lei non
gli aveva detto nulla. Aveva scoperto di essere incinta quando
già sapeva di essere condannata a morte, e aveva preferito non
dirgli nulla.
Samuel era stato sul punto di impazzire, ma non era stato così
fortunato. Era dimagrito tanto da non avere più grasso sul
corpo. Mangiava scarti di sirena nella cucina degli impianti,
come il mezzo lupo di Jack.
Per Sadako, le sirene erano creature bellissime. Trascorreva
ore nella vasca da bagno. Voleva essere una sirena. Così potrei
vivere sotto l’oceano, lontana dal sole, diceva. Ma non ti
divorerei dopo la monta, promesso.
Sadako che ride.
Sadako era più sirena di chiunque altro, se le sirene erano le
perfette figlie del mare.

Una volta a casa, Samuel fece una doccia con l’acqua


desalinizzata dell’oceano. Avrebbe potuto lavarsi nelle docce
degli impianti, prima di uscire, ma ormai era fuori turno e
avrebbe dato nell’occhio. Ken’nosuke stava per dargli il cambio.
Non aveva pensato a Sadako, durante la monta. L’idea lo colpì
come un colpo di frusta elettrica, quella che usava con le sirene
per ricondurle nelle vasche di alimentazione dopo
l’accoppiamento, prima che tornassero alla solita docilità. Ma
pensare a Sadako sarebbe stato un sacrilegio. Le sirene non
avevano nulla di umano.
Per diverse notti dopo la monta Samuel si svegliò sudato, e
dovette masturbarsi per riuscire di nuovo a dormire. Ma i sogni
in cui montava la mezzoalbina non si mescolavano mai con i
sogni in cui c’era Sadako. Dalla morte di Sadako, non c’era notte
che Samuel non si svegliasse a occhi dilatati nel buio. La sirena,
la masturbazione, erano novità.
Dai sogni in cui c’era Sadako, Samuel si risvegliava urlando.
A volte erano incubi veri e propri, sogni-dèmoni, la sensazione di
un corpo che pesava sul suo, che gli occupava il torace e il
respiro fino a mozzarglielo. Quando era ancora viva, a Sadako
piaceva dormire stesa su di lui, coprendo il suo corpo,
costringendolo a stare sdraiato sulla schiena in una posizione in
cui per Samuel era quasi impossibile prendere sonno. Sadako
aveva il terrore di svegliarsi e non trovare Samuel accanto a sé.
Nei sogni di Samuel il corpo di lei, così leggero, diventava
pesante, costringendolo a sprofondare, col letto ad acqua che si
disfaceva sotto di lui in una morbidezza di alghe e melma. Le
dita di Samuel cercavano la consistenza della sabbia e trovavano
quella del fango. Gli sembrava che intorno si muovessero ombre,
come mante sul fondo dell’oceano. Sadako, dove siamo?,
chiedeva a quel punto del sogno, prima che la strana sensazione
che provava si trasformasse in angoscia e poi in terrore.
Samuel aveva imparato a riconoscere quel punto del sogno.
Cercava disperatamente di svegliarsi, di tornare nel mondo dei
vivi, ma era inutile.
Sadako non glielo permetteva.
Nel sogno lei alzava il mento e il suo volto era bianco, senza
occhi, le labbra carnose e bianco opaco, con piccoli denti aguzzi.
Incollava quelle labbra svuotate di sangue alle sue e gli
impediva di gridare. Samuel sentiva la lingua di Sadako, fredda,
muoversi nella sua bocca. Poi il corpo di lei perdeva consistenza.
Era come se la sua pelle si disfacesse in un mare bianco. L’ultima
fase del cancro, il derma bianco che l’aveva uccisa. La pelle di
Sadako diventava latte rappreso, i suoi capelli come alghe, era
una massa indistinta, morta e viva, che si disfaceva contro di lui,
incollata al suo corpo, alla sua bocca. La lingua di Sadako
diventava sempre più fredda. E il freddo circolava nel corpo di
Samuel, si trasmetteva alle mani, ai piedi, finché non sentiva più
le gambe.
Poi Sadako staccava la bocca dalla sua, si passava la lingua su
quelle labbra bianche, l’unica cosa rimasta intatta del suo corpo.
E Samuel cominciava a urlare.
Altre volte, gli incubi avevano una forma più crudele. Erano
indistinguibili dalla realtà. Il mondo era l’inferno del cancro
nero, e le spiagge meravigliose a sud di Underwater erano
coperte dai corpi dei contagiati. Samuel lavorava agli impianti
yakuza. Il solo particolare diverso era che Sadako era viva. Loro
due uscivano nelle strade, o si bagnavano al sole sul terrazzo,
come se fossero immuni, destinati a vivere per sempre.
È così, gli diceva Sadako nel sogno. Perché noi siamo già
morti.
5

La monta era stata un successo, aveva detto Ken’nosuke a


Samuel qualche giorno dopo, dandogli il cambio.
Due soli esemplari sterili, di colorazione standard, già inviati
ai bordelli. Le altre sirene erano tutte gravide.
Confusi ricordi delle lezioni di biologia elementare
riaffiorarono alla mente di Samuel. Specie diverse – uomo e
sirena – non si ibridano, o l’incrocio è sterile, come tra asini e
cavalli. Ma la mezzoalbina era gravida. Il mondo, o la scienza,
stavano cambiando. Il suo sperma era buono come quello di un
maschio di sirena, aveva superato la barriera della specie.
La riproduzione delle sirene negli allevamenti, come del resto
la crescita e l’accesso alla pubertà, era accelerata con estrogeni
e un’alimentazione particolarmente ricca di grassi – il
condizionamento ormonale – innaturale per la specie che si
nutriva di alghe e di plancton. L’accelerazione, rispetto ai ritmi
naturali, era vertiginosa. Questo viziava un po’ il sapore della
carne, ma ormai nessuno consumava più sirena selvatica.
In natura la specie era quasi estinta.
Sotto condizionamento ormonale la gravidanza durava trenta
giorni. Nel giro di sei mesi, le sirene erano sessualmente
mature, venivano fatte riprodurre e avviate al macello. Chi
lavorava alle vasche aveva visto generazioni della specie.
Samuel rifletté. La mezzoalbina era gravida.
Normalmente le sirene con la sua colorazione erano sterili,
ma non era un fatto scientificamente provato, solo una certezza
empirica dei lavoranti delle vasche e dei tenutari dei bordelli,
che mettevano sempre gli occhi sugli esemplari mezzoalbini per
prenotarli prima della monta, nel caso si fossero rivelati incapaci
di produrre altra carne da macello, e normalmente vedevano
giusto. E poi le mezzoalbine, con la loro pelle biancoargento
leggermente più morbida dello standard, erano le sirene più
simili alla femmina della specie sapiens. Si raccontava di uno
yakuza che faceva accoppiare la moglie con una mezzoalbina per
filmarla. Se la donna fosse consenziente o costretta, la storia non
lo diceva.
Samuel doveva eliminare la mezzoalbina, simulare un errore
nei registri e inviarla al macello prima che qualcuno notasse
qualcosa di strano.
O forse, con un po’ di fortuna, non avrebbe dovuto fare nulla.
Capitava infatti che le sirene partorissero con molto anticipo
feti morti o deformi, che venivano soppressi e qualche volta
adoperati in gastronomia per la loro particolare prelibatezza.
Con gli espulsi, infatti, si faceva sashimi di neonata. Bisognava
sottrarre in tempo il prematuro alla madre, che avrebbe cercato
di divorarlo. Le anomalie erano un fatto standard, con il
condizionamento ormonale potevano sempre capitare, e nessuno
ci faceva troppo caso.
Samuel ricordò la sensazione della sua lingua nella bocca
della sirena, il suo odore, il sapore dell’umore e della saliva.
L’interno di quel corpo, tanto caldo da sembrare liquido.
Doveva controllare le condizioni della mezzoalbina. Forse
sarebbe stato più sicuro mandarla comunque al macello. Prese il
registro, scese alle vasche.
Non ci sarebbe stato neanche bisogno di alterare il data-
entry, pensò ancora Samuel. Capitava che qualche sirena, dopo
la monta, non tornasse alla docilità abituale, mostrasse segni di
inquietudine.
Le cosiddette inquiete erano bestie assetate di sangue:
avevano morso i suoi predecessori e quelli di Jack, staccando
loro braccia e gambe, o li avevano tirati giù e fatti annegare
nell’acqua calda delle vasche. Era stata un’inquieta a far fuori il
mezzo lupo di Jack. La procedura standard prevedeva che le
sirene inquiete, anche se gravide, venissero immediatamente
abbattute.
La piccola mezzoalbina non mostrava nessun segno di
inquietudine. Come le sue compagne, dopo l’improvvisa ferocia
successiva alla monta era sprofondata in una letargia più
profonda del solito. Teneva la bocca semiaperta e succhiava il
plancton sparso nelle vasche all’ora del pasto. Samuel le gettò
addosso un guinzaglio elettrico e, frusta alla mano, la separò
dalle altre, isolandola in una vasca di osservazione, come si
faceva con gli esemplari sospetti.
La sirena era docilissima. Samuel si fece coraggio, prese la
siringa narcotica e uno shot di veleno per sicurezza e si
inginocchiò sul bordo della vasca, tenendosi a un braccio di
distanza. La mezzoalbina lo guardava con occhi dolci, placidi, lo
sguardo sanguinario della monta era scomparso. Presto avrebbe
ricevuto, come tutte le sirene gravide, una speciale integrazione,
oltre che di plancton, di alghe silver. Insaporivano la carne.
La mezzoalbina si avvicinò, violando la distanza di sicurezza, e
Samuel le sfiorò il muso con le dita. La pelle era morbida, e
Samuel si pentì del suo gesto. È una sirena, si ripeté, non un
essere umano.

Nei primi tempi dopo la scoperta delle sirene, qualcuno aveva


provato a tenerle come pet. Allora gli yakuza, e i ricchi di ogni
specie, vivevano ancora, almeno in quella parte del mondo, in
grandi ville con piscina, e le sirene facevano una splendida
figura nei loro acquari, al chiuso e a cielo aperto. Ma la loro
crudeltà in corrispondenza del vero estro aveva praticamente
distrutto il mercato delle sirene come animali da compagnia.
Anche se non venivano fatte accoppiare, le sirene non tornavano
alla placidità originaria. La ferocia del dopo-monta rimaneva
latente e pronta a venire a galla alla prima occasione.
Le sirene erano allora come tigri del Bengala, e anche se
qualche yakuza potente aveva fatto installare cinghie elettriche
sul fondo della piscina – i primi estrosimulatori erano costosi e
presentavano un alto margine di rischio – l’abitudine a tenere
carne di mare in casa, per i più, era cessata presto. Negli ultimi
tempi, poi, l’epidemia l’aveva praticamente cancellata. Qualche
esemplare di sirena era stato ritrovato agonizzante sulle spiagge
della NuBaCa, con un colpo di pistola in testa, e i moribondi
avevano divorato il corpo fino a lasciare solo la carcassa. Samuel
ricordava ancora quei macabri spettacoli. Era successo almeno
un paio di volte, solo a Underwater.
Nei bordelli, la yakuza stava attenta a praticare a ogni sirena
in catalogo regolari iniezioni di estrosimulatori – un prodotto
illegale, naturalmente. Così le sirene, molli e seminarcotizzate,
potevano accoppiarsi senza l’effetto collaterale della ferocia. A
ogni buon conto, chi entrava in vasca lo faceva a suo rischio e
pericolo. Ma con i maschi di sirena l’estro indotto a forza,
tramite shot o spray, non sembrava funzionare. Vogliono, pensò
Samuel, la mantide religiosa.
Samuel non sapeva perché avesse deciso di calarsi nella vasca
delle sirene durante la monta. Non se l’era chiesto finché non
aveva scoperto che la mezzoalbina era gravida, e anche in
seguito non aveva trovato una risposta. Dopo la morte di Sadako
non era più andato con una donna. La mezzoalbina non contava.
Inginocchiato sul bordo della vasca di osservazione, Samuel
narcotizzò la sirena con un gesto rapido. Lei si rovesciò sul
dorso, come aveva fatto il maschio che le aveva dato da divorare.
Ora poteva osservarla da vicino.
Toccò il ventre, già gonfio. I segni della gravidanza erano
chiari e certi. I tecnici veterinari, il giorno dopo, non avrebbero
trovato niente di strano. Le aprì la bocca, ispezionò la lingua, le
labbra, si ricordò avvinghiato a quel corpo. La sostanza vischiosa
sulla pelle, l’umore propriamente detto, gli impastava le dita.
Samuel non sapeva cosa stava cercando. Forse la prova che
poteva mandare la mezzoalbina al macello senza farsi scrupoli, e
cancellarne anche il ricordo. O al contrario, il segno che quella
non era più una bestia ma un nuovo essere umano, trasportato
nelle schiere dei suoi simili, rinato grazie allo sperma che lui
aveva sparso nel suo corpo.
Non riuscì a impedirsi di pensare a Sadako.
L’idea di Sadako tra le sirene femmine mandate alla monta lo
eccitò come sempre. Era la sua fantasia erotica favorita, quando
lei era viva. Spesso, a letto, infilando una mano tra le sue
gambe, gliela aveva descritta nei dettagli. A Sadako l’idea
piaceva.
Sadako era vegan, non mangiava carne di nessun tipo, né
latte né uova, e neanche sushi o sashimi, nemmeno di sirena,
quando Samuel riusciva a rubarlo dagli impianti. L’idea che le
sirene, le sue predilette e feroci regine del mare, venissero
allevate solo per essere mandate al macello, la disgustava.
I primi tempi, nei giorni di macello, Samuel tornava a casa
tardi, intriso dell’odore della carne di mare a cui aveva tagliato
la gola, e Sadako si rifiutava di toccarlo o anche solo di parlargli.
Guardava l’oceano dalle finestre, in pieno sole.
Il corpo narcotizzato fluttuò appena sotto le sue dita,
nell’acqua calda della vasca di osservazione, e Samuel si
riscosse.
La mezzoalbina era uguale a tutte le altre sirene. Lui l’aveva
scelta per la sua bellezza quasi umana, per il colore e la
morbidezza della pelle. E perché la credeva sterile, anche se non
avrebbe mai immaginato di poter ingravidare una sirena.
Ma c’erano buone speranze che un feto con sangue misto, di
maschio umano e sirena, nascesse morto o venisse espulso prima
del tempo. Si poteva contare sull’alta probabilità di un’anomalia.
Samuel sarebbe stato il primo a esaminare il feto, e se avesse
mostrato malformazioni umane l’avrebbe fatto sparire
adeguatamente. Quella parte del lavoro toccava sempre a lui. La
selezione degli espulsi era compito del sorvegliante anziano, e
Ken’nosuke gliela lasciava volentieri.
Le sirene che abortivano spontaneamente, o che partorivano
anzitempo feti prematuri o deformi, venivano isolate in vasche
speciali, messe all’ingrasso per recuperare le forze, e poi
mandate nuovamente alla monta, al giro seguente.
Certo, non era detto che la mezzoalbina partorisse prima del
tempo. Ma in quel caso, pensò Samuel, sarebbe vissuta un po’
più a lungo delle sue sorelle, e questo grazie a lui.
Avrebbe anche potuto montarla di nuovo, se se ne fosse data
l’occasione.
6

Anni prima dell’epidemia, alla fine del corso di


addestramento per quadri yakuza, Samuel era entrato a fare
parte del Mermaid Liberation Front. Aveva vent’anni e doveva
infiltrarsi tra le loro file. Era il suo incarico di prova per la
yakuza, non poteva fallire.
Era stato per due mesi con i militanti dell’MLF, giorno e notte.
Li aveva sentiti parlare delle sirene come sola speranza del
mondo.
Ogni volta che sentiva quella frase fatta, Samuel pensava al
sapore del vitello di sirena. Sapeva già, sapeva per istinto, che il
mondo non poteva essere salvato.
Samuel si era mosso con abilità, con i militanti dell’MLF. Era
stato con loro sulle spiagge, in luoghi segreti lungo la costa, o su
piccole barche piatte in mezzo all’oceano, di notte, a imitare lo
strano verso da foca che facevano le sirene, perché la speranza
del mondo si manifestasse. Magari nella forma di Yemanjà,
l’orixà sirena dei bahiani di Underwater, la dea del 2 febbraio.
Il leader carismatico della sede di Underwater era stato
catturato dalla yakuza e torturato a morte, poco prima che
Samuel entrasse nell’MLF. Ben prima del 2 febbraio, Samuel si
era portato a letto l’ex ragazza del leader, Ivy. Sperava di tirarle
fuori qualche informazione. Ivy aveva la pelle coperta di efelidi e
capelli rossi molto sporchi. Per essere una fanatica delle sirene,
non entrava spesso in acqua. Aveva piccoli seni con i capezzoli
scuri che diventavano rossi durante il sesso ed era, giudicò
Samuel, sufficientemente stupida.
L’aveva scelta per questo.
Non avevano avvistato sirene in mare aperto, quella notte né
le successive, ma Samuel si era fermato qualche giorno a casa di
Ivy. Lei non cucinava mai e comprava cibo per strada, in
sacchetti di carta oleata. Polpette di alghe. Polpette di granchio.
Le lenzuola del letto avevano ditate d’unto.
Samuel aveva fatto male i suoi calcoli. Ivy era brava a letto ma
sosteneva di non sapere nulla, e presto lui l’aveva scaricata.
Samuel era meticoloso sul lavoro, ma non aveva esperienza.
Ivy abbandonata aveva cominciato a mettere in giro storie su di
lui. Due ragazze della sede di Underwater, che erano sulla lista
di Samuel subito dopo Ivy, si erano chiuse a riccio. Se prima
aveva parlato poco, adesso Ivy parlava troppo.
Samuel aveva capito che cosa doveva fare.
Non era mai stato nei bordelli specializzati in sirene, ma si
diceva che la yakuza li riservasse solo ai suoi membri effettivi.
Aveva parlato del suo piano col selezionatore del corso per
quadri, e lui si era dichiarato d’accordo.
Una sera Samuel era passato sotto casa di Ivy, senza
preavviso. Le aveva chiesto di scendere. Ivy, con qualche
esitazione, aveva accettato. Lui l’aveva fatta salire in macchina e
aveva bloccato la sicura. La cintura di sicurezza aveva avvolto il
corpo di Ivy, imprigionandola, e lei si era messa a urlare.
Aspetta, aveva detto Samuel. Ora vedrai.
Aveva proseguito fino a una destinazione sulla costa e l’aveva
fatta scendere dalla macchina.
Il bordello era una costruzione sotterranea, appena sotto il
livello del mare. L’entrata era mimetizzata sapientemente con
vegetazione naturale. Per trovare quel posto bisognava
conoscerlo.
Samuel aveva due pass, per sé e per Ivy. Aveva spinto
dolcemente la ragazza attraverso l’oblò di entrata. La paratia si
era richiusa dietro di loro, in automatico. La pelle della schiena
di Ivy scottava.
Davanti alle vasche con le sirene, Ivy era rimasta a bocca
aperta. Samuel aveva letto la voglia nei suoi occhi. Non c’è
bisogno di parlare, aveva detto Samuel. Puoi fare tutto quello
che vuoi.
Aveva condotto Ivy, docile, affascinata, in un separé con un
tavolo apparecchiato, attraversato da un nastro trasportatore
come un sushi bar. Avevano bevuto un po’. Stava andando tutto
bene, finché a un certo punto Ivy non era tornata in sé. Si era
messa a gridare, si agitava. Samuel l’aveva spinta contro una
parete.
Puoi fare tutto quello che vuoi, aveva sussurrato Samuel a Ivy,
ma prima devi mangiare.
Uno slot nella parete si era aperto rivelando due vassoi.
Scorrendo sul nastro trasportatore, erano andati a posizionarsi
al centro del tavolo. Sushi di sirena.
Ivy aveva le lacrime agli occhi.
Sempre tenendo Ivy bloccata contro la parete, Samuel aveva
allungato le dita verso il tavolo e aveva preso un maki avvolto in
alghe scure. Lo aveva intinto nella soia già pronta e lo aveva
portato alla bocca di Ivy.
Su, da brava.
Ivy aveva le labbra serrate, disperatamente, e Samuel gliele
aveva aperte a forza. Le aveva spinto in bocca il sushi di sirena.
Ivy glielo aveva sputato in faccia e lui si era ripulito le guance
con le dita.
Cattiva, cattiva Ivy, aveva detto Samuel. Abbiamo tanto tempo,
sai?
Aveva frugato il corpo rigido e pieno di rabbia di Ivy con le
dita e morso la sua bocca piccola, sporca di soia. Un leggero
rossore aveva cominciato a diffondersi sulla sua pelle chiara,
macchiata di efelidi, a partire dalle clavicole.
A poco a poco Ivy era crollata e aveva aperto le labbra.
Mangia la dea, aveva detto piano Samuel.
Ivy, diventata ubbidiente, aveva finito tutto il sushi. Samuel le
aveva tirato fuori dal vestito i piccoli seni dai capezzoli scuri, con
la pelle che era diventata di un rosso violento.
Vedi?, aveva detto Samuel.
Aveva fatto entrare Ivy con lui in una delle vasche.
Davanti alla sirena prigioniera Ivy aveva perso le sue
inibizioni. Aveva leccato e succhiato ogni centimetro di quel
grande corpo. Aveva profanato la dea.
Samuel era rimasto a guardare.
Usciti dall’acqua calda della vasca, Ivy non aveva più parlato.
Samuel l’aveva portata a casa, le aveva dato un sedativo ed era
rimasto con lei finché non si era addormentata, accarezzandole i
capelli e la schiena calda.
All’alba Samuel se ne era andato. Era tornato a casa e si era
fatto una doccia. Si era addormentato profondamente, sognando
Ivy che leccava la pelle dura e coperta di umore della sirena. Lo
yakuza senza un braccio che gestiva il bordello le aveva fatte
filmare.
Era stato molto meglio di quei video che giravano su internet
con le sirene finte, ragazze paralitiche o semplici simulatrici con
una coda di pesce legata alla vita e, a volte, maschi travestiti da
sirena. Body painting in verde e argento.
Ivy aveva talento per il sesso.
A Samuel sarebbe piaciuto tornare alla casa chiusa yakuza,
con Ivy o senza di lei, ma per qualche tempo non sarebbe stato
possibile. Doveva finire il suo incarico, completare
l’addestramento.
Prima che se ne andassero, lo yakuza senza un braccio aveva
infilato nella tasca della giacca di Samuel una copia del video.
Adesso, Ivy era ricattabile.
Samuel aveva rivisto Ivy nella sede dell’MLF, qualche giorno
dopo. Da allora, la ragazza gli aveva fornito spontaneamente
tutte le informazioni che gli servivano. Non c’era stato neanche
bisogno di farle vedere il video, o di accennare alla sua
esistenza.
Poi, poco tempo dopo, senza preavviso, dalla yakuza era
arrivato l’ordine di ritirarsi, e Samuel era scomparso. Per
qualche ragione, alla yakuza il Mermaid Liberation Front non
interessava più. Samuel era d’accordo. Dopo la morte del leader,
l’MLF era del tutto innocuo.
Era tornato al corso. Era stato convocato dal selezionatore
che aveva dichiarato di approvare il suo piano, e aveva capito.
Era lui, Samuel, che non interessava più.
Poco tempo dopo, Samuel aveva saputo che Ivy si era
suicidata. La notizia, in realtà, non lo aveva sorpreso. Ivy era
debole. Ricordava la luce nera nei suoi occhi, quando le aveva
spinto in bocca il sushi di sirena. Che cosa aveva provato,
assaporando la sua dea?
Ivy, prima di morire, doveva aver parlato. E ora, sicuramente,
i suoi ex amici dell’MLF lo stavano cercando. Samuel era stato
tentato di tornare alla sede di Underwater e dire, eccomi. Le ho
dato quello che desiderate tutti, branco di ipocriti. Dovevate
vederla. Era felice.
Ma Samuel non poteva tornare e scoprire da solo cos’era
successo a Ivy dalla pelle macchiata di efelidi. Subito dopo era
stato trasferito agli impianti di macellazione, e affidato a Jack.
Col tempo, sarebbe diventato macellatore a mano e, solo dopo la
morte di Jack, sorvegliante. Il suo posto doveva essere preso da
un ragazzo appena arrivato, Ken’nosuke.
7

Pochi giorni dopo aver saputo della morte di Ivy, Samuel


aveva visto un uomo travestito da sirena sul pontile del molo
principale di Underwater, prima che venisse distrutto dalle
mareggiate.
Era il 2 febbraio, il giorno della dea Yemanjà, la sirena nera
di Bahia venuta dall’Africa, la sirena verdeargento. In mare
venivano gettati gioielli, nastri, boccette di profumo. Alcuni
fedeli offrivano frutta, soprattutto arance mature.
Per Samuel, i seguaci dell’orixà del mare erano dei fanatici,
proprio come i suoi ex amici del Mermaid Liberation Front. E i
costumi da sirena non erano certo una rarità, soprattutto il
giorno di Yemanjà-Inaè, specchio d’argento, ma quell’uomo
davanti a lui sul molo sembrava soffocare.
Samuel si era avvicinato cautamente all’uomo vestito da
sirena. Probabilmente un aspirante suicida che sognava la pace
sottomarina, l’abbraccio fresco della dea. Ma quel genere di
suicidi, Samuel lo sapeva, era pericoloso. Se qualcuno cercava di
salvarli rischiava di essere trascinato sott’acqua, restituito a
forza, e suo malgrado, a Yemanjà.
L’uomo barcollava. La coda di pesce, in stoffa rigida e
trapuntata color verde e argento, strisciava a terra
impedendogli i movimenti. Il costume era splendido, da
collezionista, poteva valere migliaia di neoyen. I costumi da
discount avevano colori troppo forti, non i toni sfumati della
pelle delle sirene vive, la loro qualità cangiante, madreperlacea,
quasi gelatinosa.
Quel costume era completo della testa, copriva la nuca e il
cranio e terminava sulla fronte in una striscia di stoffa spessa a
cui era attaccata la maschera morbida del volto, in silicone
opaco, con fori per naso e bocca. Il calco della maschera era
estremamente fedele. I calchi venivano presi nei macelli, sul
muso degli esemplari morti. I costumi da sirena erano un feticcio
per i collezionisti, da quando si era scoperta la bontà della carne
di mare e il mercato delle sirene imbalsamate era in declino.
La figura ritta sul pontile si voltò verso di lui. Dalla statura e
dalle spalle, Samuel giudicò che dentro il costume ci fosse un
uomo. Probabilmente un membro della comunità bahiana di
Underwater, i seguaci più fedeli dell’orixà sirena, quelli che si
erano trasferiti sulle spiagge della NuBaCa dopo la scoperta del
nuovo caviale Beluga, di Yemanjà vera e viva, e avevano
importato la festa.
Minuscoli specchi d’argento – argento vero, notò Samuel –
appesantivano la coda di pesce. Una cucitura rinforzata simulava
lo spacco del sesso. Questo modello, a differenza di altri, non
aveva una tasca imbottita in cui svuotare lo sperma, per gli
amanti dei travestiti-da-sirena. Ce n’erano molti, Samuel lo
sapeva, ma non riusciva a capirli. C’erano le sirene vive, pronte
nei bordelli, se uno aveva quei gusti. Lui aveva scoperto di
averli, guardando Ivy leccare la carne di mare.
Samuel fissò la maschera impenetrabile, dall’aria familiare,
ed ebbe la sensazione di riconoscere in quel muso morbido tutti
i branchi di sirene che nel suo poco tempo agli impianti aveva
visto macellare. Inghiottì a fatica e avanzò sul pontile. Non c’era
un centimetro del corpo dell’uomo che non fosse coperto da
stoffa verde e argento.
Lo avrebbe aiutato, se quello non tentava di ammazzarlo.

Senza parlare, Samuel passò un braccio intorno alla schiena


dell’uomo vestito da sirena. Gli sembrò che sul muso di silicone
si disegnasse un’espressione di sollievo. Il costume era pesante,
Samuel aveva afferrato l’uomo appena in tempo, mentre era sul
punto di cadere.
Yemanjà-Inaè, lo sentì mormorare Samuel, una litania. Donna
Janaina. Inaè.
Balbettando, l’uomo vestito da sirena chiese a Samuel di
aiutarlo ad avvicinarsi al bordo del pontile.
Non è una buona idea, aveva risposto Samuel, sempre cauto,
nel caso in cui il suo nuovo amico volesse compagnia nella morte
per acqua. È chiaro che stai male. È meglio che chiami un
medico, o un taxi per andare al pronto soccorso.
Sto morendo, aveva detto l’uomo vestito da sirena. Non ho
bisogno di un medico. Samuel aveva alzato il mento della
maschera e aveva guardato l’uomo negli occhi. Erano iniettati di
sangue e coperti da un velo opaco. Stava veramente morendo.
Samuel lo aveva aiutato ad avanzare verso il mare.
A tre passi dal bordo del pontile, Samuel si era fermato. Vai
da solo, aveva detto.
L’uomo aveva fatto un passo, o forse due, ed era crollato a
terra, rotolando sulla schiena. Si contorce come un pesce nella
cesta, pensò Samuel. Come una sirena catturata.
Stava soffocando.
Samuel gli aveva appoggiato l’orecchio sul petto, dove
spiccavano due seni di plastica dai capezzoli eretti, di un verde
vivo. Li aveva recisi col coltello elettrico che portava in tasca,
aveva cercato il battito del cuore. L’uomo vestito da sirena era
già morto.
Sotto il costume aderentissimo, difficile che avesse documenti.
Samuel aveva cercato di sollevare il corpo, rendendosi conto
di quanto fosse pesante. Con le dita aveva staccato uno degli
specchietti d’argento – argento vivo, aveva pensato Samuel;
quest’uomo era vivo, fino a un attimo fa – e lo aveva lasciato
cadere sul pontile. Poi lo avrebbe raccolto e se lo sarebbe messo
in tasca. Lo specchietto d’argento portava incisa una coda di
pesce. Anni dopo, Samuel ne avrebbe fatto un medaglione per
Sadako.
L’uomo vestito da sirena era morto. Chiunque fosse,
desiderava essere una sirena, e ora era buono per i pesci.
Con uno sforzo che rischiava di costargli la spina dorsale,
Samuel sollevò il corpo e si avvicinò all’acqua. Sarebbe bastato il
peso del costume a trascinarlo a fondo.
Intorno a loro, il pontile era deserto. Chi adorava Yemanjà era
in mezzo all’oceano, a offrire alle acque arance e gioielli. (Si
chiedono grazie agli orixà?, si era domandato Samuel. Si può
chiedere loro di liberarci dal male?) Tutti gli altri sembravano
scomparsi.
Samuel gettò il corpo nell’oceano, e l’acqua gli si richiuse
addosso con dolcezza.
Questa è la mia offerta, pensò.
Le mammelle di plastica che Samuel aveva reciso rotolavano
sul pontile. Avevano la forma e le dimensioni dei seni di Ivy.
Samuel le raccolse. Il materiale plastico era stato spalmato di
miele sintetico. Era commestibile, ma il gusto gli diede la
nausea. Buttò le protesi in mare.
Decisamente, quel costume era perfetto.
Samuel era rimasto immobile a fissare l’acqua del molo sotto
di lui, cercando di cogliere qualcosa con lo sguardo, forse la
coda di pesce dell’uomo o i seni di plastica che riaffioravano in
superficie, un segno che Inaè aveva gradito il corpo del suo
fedele (come gli uomini apprezzavano il vitello di sirena, l’orixà
divorava carne umana?), finché non si era accorto che le barche
stavano tornando.
Si chinò a raccogliere lo specchietto d’argento.

Anni dopo, quando Sadako era già stata contagiata, Samuel le


aveva comprato un costume da sirena.
Quasi tutti i negozi di Underwater erano chiusi o in rovina,
con gli scaffali privi di merce. Anche i grandi mall e i discount
che avevano fatto rapidamente fortuna, negli anni prima
dell’epidemia, adesso erano vuoti. Il circuito delle carte di
credito era andato in tilt, come tante altre cose sotto il sole nero.
Nei rari negozi aperti, i venditori stavano seduti per terra, le
gambe incrociate, a fumare sigarette di marijuana. Non ti serve
più niente, quando arriva la fine del mondo.
Nel giro di qualche anno le riserve di viveri che avevano
permesso a Underwater di sopravvivere sarebbero finite. Se non
di cancro, la città sarebbe morta di carestia.
Ma il mondo non voleva finire, non ancora. Sadako era viva.
Samuel era stato al mercato nero. Lì trovavi di tutto, se avevi i
contatti giusti. E se eri disposto a rovinarti.
Mentre tirava fuori dalle tasche i neoyen spiegazzati, Samuel
aveva pensato all’uomo sul pontile, alla meravigliosa forma
argento e verde in cui aveva imprigionato il suo corpo per
morirci dentro, tanti anni prima, prima dell’epidemia.
Come l’uomo sirena, anche Sadako adorava Yemanjà.
Alla vista del costume da sirena, Sadako aveva avuto una
reazione isterica. Cos’è questa pagliacciata?, aveva urlato,
scagliando addosso a Samuel quella superba costruzione di
stoffa e fili, con un’armatura leggera ed elastica a sostenere la
coda.
Poi era scoppiata in lacrime.
Samuel aveva raccolto il costume ed era uscito dalla stanza-
acquario di Sadako. Aveva acceso una sigaretta di marijuana e
aveva aspettato. Sapeva che cosa avrebbe fatto Sadako.
Era solo questione di tempo. Qualche ora, forse.
Sadako era comparsa dietro di lui di colpo, col suo passo
leggerissimo, aveva raccolto il costume ed era scomparsa.
Samuel non si era voltato e aveva continuato a fumare.
Sadako aveva indossato il costume da sirena. Non se l’era più
tolto finché non le era caduto a brandelli di dosso.
Aveva fatto a lungo il bagno nella vasca, rovinando il colore. I
modelli resistenti all’acqua erano inavvicinabili, per Samuel.
Troppo costosi.
Nei giorni seguenti, Sadako aveva quasi smesso di mangiare.
Inghiottiva solo i piccolissimi bocconi di cibo che riuscivano a
passare attraverso la maschera. Pezzetti di alga, pane
sminuzzato, riso. Dormiva così travestita.
Col costume da sirena Sadako sembrava felice.
Samuel non aveva visto il viso di Sadako per un numero
incalcolabile di giorni, finché non gli era sembrato che la
maschera modellata su una sirena da allevamento, un esemplare
qualsiasi già macellato, somigliasse realmente a Sadako, avesse
la sua piccola bocca carnosa, la plica epicantica degli occhi a
mandorla. (Le maschere da sirena avevano, tutte, occhi
all’occidentale. I modelli da collezionista erano completi di
membrane nittitanti in una specie di plastica morbida, un
materiale nuovo.)
Quando il costume da sirena era ormai ridotto a uno straccio
Samuel aveva costretto Sadako, con delicatezza, a toglierlo. Lei
piangeva, lacrime così leggere da essere invisibili. Sotto, il
derma era mangiato dal cancro nero, la malattia era ormai in
fase avanzata. Brandelli di pelle erano venuti via insieme alla
stoffa.
Gli ultimi giorni della vita di Sadako, con la pelle che cadeva
a pezzi scoprendo una meravigliosa superficie nuova,
morbidissima, infantile, priva di segni o cicatrici, una cute
rigenerata e irreale – era il derma bianco, il segno che la morte
non avrebbe tardato, lo sapevano tutti, e anche Sadako lo sapeva
– Samuel le aveva pazientemente rifatto i tatuaggi su tutto il
corpo, perché non si sentisse nuda con quella pelle nuova.
Il bianco degli occhi di Sadako aveva assunto una sfumatura
d’oro, segno che stava sopraggiungendo la cecità premorte.
Abbassando le palpebre, Sadako aveva sfiorato con le dita ogni
kanji. Questa, aveva detto a Samuel, è una lingua incapace di
mentire.
Con i tatuaggi Sadako sembrava di nuovo felice. Prima che
Samuel le iniettasse l’eutanasia, gli aveva assicurato che non
sentiva nessun dolore.
8

Nella specie sirena il parto era facile, subito dopo l’uscita


dall’utero la madre lacerava con i denti la placenta che
galleggiava nell’acqua delle vasche, riscaldate più del solito,
avvolgendo il corpo del nuovo nato. Se era una femmina, aveva
già cominciato a intaccarla. La dentizione delle femmine
avveniva già nell’utero e capitava che le sirene neonate
facessero sprizzare sangue dai capezzoli delle madri.
A volte le madri divoravano i piccoli maschi, anche quelli sani,
mai le femmine.
Subito dopo il parto, i seni si gonfiavano vertiginosamente di
quel loro latte ipnotico, che la piccola sirena succhiava con furia,
ma per poco. Due giorni dopo la nascita sarebbe stata messa
all’ingrasso sotto condizionamento ormonale, mentre la madre
veniva avviata al macello.
Col passare dei giorni, divenne chiaro che la mezzoalbina non
era intenzionata a partorire in anticipo. Ma se anche avesse
portato a termine la gravidanza, Samuel sarebbe stato il primo a
ispezionare il nuovo nato. Se la piccola sirena avesse mostrato
anomalie vistose, tali da tradire la sua metà umana, Samuel
aveva pronto lo shot di veleno. Purché i numeri degli animali
eliminati si mantenessero stabili, la yakuza non faceva troppe
domande. La carne di sirena era una prelibatezza e,
condizionamento ormonale a parte, lo standard qualitativo
doveva mantenersi alto. In fondo erano gli yakuza stessi a
cibarsene. Anzi, soprattutto tra i grandi yakuza, c’era chi
mangiava solo carne di mare catturata con le proprie mani, in
speciali battute di caccia.
Poiché la specie in natura era praticamente estinta, in quei
casi Samuel riceveva l’ordine segreto di liberare nell’oceano uno
o due degli esemplari più pregiati dell’allevamento. Una
femmina e un maschio. Spesso, agli yakuza piaceva catturare la
coppia, uccidere subito il maschio e tenere per dopo la femmina,
da letto o da pasto a seconda della qualità.
Era bene che le aspettative del leader non andassero deluse,
diceva il braccio destro del grande yakuza, allungando a Samuel
una manciata di neoyen.
Samuel annuiva, si produceva nella goffa imitazione di un
inchino a mani giunte, sceglieva gli esemplari giusti e li faceva
passare nelle vasche di isolamento, per poi spedirli, col ricambio
dell’acqua, nell’oceano.
Di lì a poco la battuta di caccia si traduceva in un successo.
Le sirene da allevamento non avevano idea di come cavarsela in
acque aperte, erano stupide e lente. Venivano arpionate e
portate a galla, per la soddisfazione del leader, con una buona
mancia per Samuel e Ken’nosuke.
Prima dell’epidemia le battute di caccia migliori si svolgevano
all’alba, o appena prima dell’alba, il tempo dei movimenti
segreti dei banchi di pesci nelle profondità, ma il sole aveva
spopolato le acque dagli esseri umani. Anche i grandi yakuza
erano costretti a cacciare di notte, illuminando i fondali con le
scuba light, e la caccia alla sirena si era fatta più rara. Molto più
rara, ma non era scomparsa del tutto.
Lui e Ken’nosuke liberavano sempre gli esemplari migliori.
Anche questa era una possibilità per la mezzoumana.
Samuel si sentì sollevato.

Solo una volta Samuel aveva assistito alla cattura di una


sirena selvaggia, una delle ultime, quando ancora si poteva
cacciare in pieno giorno. Era passato del tempo. Era stato prima
della morte di Jack.
Il vecchio yakuza aveva ordinato ai suoi di tenere ferma la
bestia appena pescata, con l’arpione ancora dentro, di bloccarle
i denti e le braccia, la potenza della coda. Attenti, è una
selvaggia, aveva urlato Jack, e uno degli uomini dello yakuza
aveva messo alla bestia il bavaglio in gommacciaio. Il corpo della
sirena era scivoloso per l’umore, il sapore era quello del mare. Il
vecchio aveva affondato i denti nella spalla della sirena viva, le
aveva morso il seno, aveva leccato il sangue. Poi, a fatica e
aiutandosi con un coltello, l’aveva aperta e penetrata mentre le
divorava la carne e si era svuotato dentro di lei un attimo dopo,
sussultando.
È ancora viva, aveva pensato Samuel. Più viva del vecchio
yakuza dal corpo rattrappito, perché tutti sapevano che il
grande leader stava morendo, che la guerra di successione era
aperta. Solo quando l’uomo minuscolo aveva finito con la sirena,
uno degli aiutanti le aveva tagliato la gola e aveva cominciato a
sezionare la carne per chiuderla nei freezer da asporto.
Samuel e Jack non lo avrebbero mai ammesso, perché erano
macellatori o ex macellatori professionisti, ma quella scena li
aveva scossi, perché la sirena era viva e selvaggia. Con le sirene
morte, era routine. I grandi cacciatori rifiutavano di far
sezionare subito la carne, dicevano che volevano riportare il
corpo intatto a riva, farsi fare delle foto da un fotografo
professionista con la preda, imbalsamarla forse; e appena erano
soli con la carcassa affondavano in quella carne fresca e calda
con ogni parte del corpo, la bocca, i denti, la lingua, il sesso.
Come drogati. Samuel ne aveva visti parecchi degradarsi a quel
modo, anche grandi yakuza. Gli facevano pietà.
Ma quella volta la sirena era viva. Il vecchio yakuza aveva
impedito che le tagliassero la gola, finché non aveva finito con
lei.
La successiva battuta di caccia era stata voluta dal figlio
maggiore del vecchio yakuza. Era sopravvissuto alla guerra di
successione massacrando i fratelli, e ora voleva imitare suo
padre. Jack sapeva che il figlio del vecchio yakuza era un tipo
nervoso, e aveva deciso di procurargli una preda facile,
direttamente dalle vasche della monta.
Ma quella volta, stranamente, meravigliosamente, la sirena
che Jack e Samuel avevano liberato fuori dagli impianti era
scomparsa. Gli yakuza non ne avevano trovato traccia. C’erano
squali, in giro. Forse è stata divorata da un diverso tipo di
predatore, aveva detto Jack. O forse ce l’ha fatta. Ha raggiunto il
fondo dell’oceano, il suo morbido corpo di sabbia. È la volta
buona, aveva riso Jack. E poco dopo era morto.

Era stato Jack a ricevere Samuel agli impianti, quando era


arrivato. Il ragazzo era solo uno scarto del corso per quadri
yakuza. Jack, questo era chiaro, ne aveva visti anche troppi come
lui. Samuel aveva cercato di entrare in confidenza con Jack, di
farselo amico.
Una notte, dividendo una sigaretta di marijuana, Samuel
aveva detto a Jack di Ivy. Era entrato nei particolari. Jack aveva
portato il mezzo lupo fuori e lo aveva legato. La piattaforma era
alta sulla marea, e il mezzo lupo poteva stare fuori anche tutta la
notte. Poi Jack era rientrato e aveva cominciato a prendere
Samuel a calci. Lui non era nemmeno riuscito a difendersi, si era
ritrovato a terra, sotto gli stivali di Jack, prima ancora di riuscire
a pensare. Jack non si era fermato neanche quando Samuel
aveva cominciato a vomitare. Dopo un po’, quando gli era uscito
sangue dal naso e dalla bocca, Jack aveva detto dormi bene,
Samuel, ed era tornato sulla piattaforma. Aveva slegato il mezzo
lupo, era rientrato, e Samuel aveva sentito la porta della cabina
di Jack chiudersi. Probabilmente si era versato un bicchiere di
vodka ed era andato a letto.
Samuel aveva cercato di rialzarsi, ma non ci era riuscito. Jack
non gli aveva rotto nulla, ma gli aveva inflitto dolore
dappertutto. Il giorno dopo, Jack si era comportato come sempre
e Samuel aveva fatto lo stesso. Se non altro, imparava in fretta.

Jack era morto per aver mangiato carne velenosa di sirena


maschio, indistinguibile da quella di femmina se non dopo averla
assaggiata, ma a quel punto era troppo tardi. Non esisteva un
antidoto. Forse era stato assassinato. I mandanti, se c’erano, non
erano mai stati trovati.
La yakuza, avevano detto a Samuel, avrebbe fatto delle
ricerche. Samuel non ci aveva creduto.
Uno come Jack, pensava Samuel, con la sua esperienza,
doveva essere in grado di distinguere la carne di maschio da
quella di femmina. Dall’odore, magari. O dalla consistenza, dalla
granulosità. Premendola con una bacchetta da sushi, o con una
punta di forchetta, forse ne sarebbe uscito un liquido, un siero
pieno di veleno, perfettamente trasparente.
Ma non era andata così, e Jack era morto.
Samuel aveva deciso di fare una piccola indagine. Per
vendicare il suo amico, o soltanto per sapere se un giorno
avrebbero offerto anche a lui un boccone troppo prelibato per
essere vero.
Jack era sempre diffidente. Jack non ci sarebbe mai cascato.
L’unica cosa certa era che la carne di sirena faceva impazzire
gli uomini. Anche ridotta a brandelli e mischiata a un po’ di riso
su un vassoio di plastica. Anche se era carne di maschio,
velenosa.
La morte di Jack era arrivata in una bento box. Consegna a
domicilio, nella sua cabina. E agli impianti, così lontano al largo,
non accedeva nessuno senza l’autorizzazione della yakuza.
Una volta scoperto questo, Samuel aveva smesso di farsi
domande. Sapeva che a volte la yakuza uccideva a caso, anche
tra i suoi fedelissimi. Per seminare la paura, si era detto tempo
dopo, che cresceva come le piante di Sadako sotto il sole
impazzito. Per mantenere l’ordine.
Samuel adesso aveva venticinque anni, l’età che aveva Jack
quando era stato ammazzato. O si era suicidato. Forse Jack aveva
simulato il suo assassinio. Era abbastanza intelligente,
abbastanza feroce da farlo. Per non far sapere a nessuno che
desiderava morire.
In un certo senso, per pudore.
9

Il parto della mezzoalbina ebbe luogo, con la regolarità


prevista dal condizionamento ormonale, un mese dopo, insieme
a quello delle sue compagne. Tutte le sirene partorivano
insieme, senza bisogno di aiuto, ma se qualcuna tardava,
riceveva uno shot pilotante che induceva le contrazioni.
La mezzoalbina non aveva avuto bisogno di stimoli. Anzi, era
stata la prima a espellere il feto.
La piccola sanguemisto – era una femmina – era sgusciata
dall’utero come una medusa traslucida, e la madre aveva
lacerato la placenta con i denti.
Dal suo punto di osservazione a bordo vasca, Samuel aveva
assistito alla scena. Come tutti i piccoli di sirena, anche questa
aveva immediatamente cercato il seno della madre e succhiato
senza sosta il latte.
Placida, la mezzoalbina si era lasciata mettere il guinzaglio e
tirare da Samuel, narcotico sempre alla mano, a bordo vasca.
Quello che aveva visto lo aveva lasciato senza fiato.
La forma del corpo, la coda, le minuscole mani palmate, la
piccola sanguemisto aveva tutto della sirena. Solo i tratti del viso
erano quasi umani. Una trascurabile anomalia, l’avrebbero
giudicata i tecnici veterinari. Gli occhi avevano vere palpebre,
non solo membrane trasparenti, anche se capaci di chiudersi
ermeticamente come il bisogno della specie subacquea
richiedeva, le labbra erano più carnose delle sottilissime strisce
di mucosa, che lui aveva leccato, della madre. I denti erano
affilati e mortali, come sempre nelle sirene.
La minuscola sirena staccò la bocca dal capezzolo della madre
e allungò la lingua verdeazzurra verso di lui, leccandogli le dita.
Samuel narcotizzò la madre e osservò la neonata.
Fortunatamente anche questo faceva parte della procedura.
Avrebbe ripetuto la stessa scena con tutti gli altri piccoli.
La pelle era chiarissima, con la sfumatura perlacea che
preannunciava il mezzoalbinismo nell’esemplare adulto. La parte
inferiore del corpo era perfettamente formata, con lo spacco
della vagina e la grande pinna caudale. Nessun accenno di
gambe o di ginocchia. I capelli erano un’unica massa elastica e
muscolare azzurro vivo. Fin qui tutto bene. I tecnici veterinari, il
giorno dopo, avrebbero commentato la bellezza di
quell’esemplare dalle palpebre anomale, le avrebbero
pronosticato vita lunga e felice nel miglior bordello di
Underwater, se era sterile, ma nient’altro.
Samuel prese la piccola sirena e la tenne sott’acqua a forza,
per una durata di tempo che avrebbe ucciso un neonato umano.
Niente da fare. Era anfibia. Era una sirena, non un essere
umano. A tempo debito, sarebbe finita al macello, come sua
madre. O nel letto subacqueo di qualche yakuza.
Chissà, avrebbe potuto farci dei soldi.
Che le specie, umana e sirena, potevano mescolarsi sarebbe
rimasto un segreto.

Dovevano esserci stati altri casi. Samuel era certo di non


essere stato il primo a tentare la monta durante l’estro. Ma le
sirene mezzoumane, lo capiva ora, erano identiche alle altre,
almeno al colpo d’occhio, a parte la loro bellezza.
Non era facile identificare gli incroci.
Forse, nessuno si sarebbe accorto di niente.
Trascorsi i due giorni di rito, la piccola mezzoumana venne
messa all’ingrasso.
Nel condizionamento ormonale, le sirene, come oche da paté,
succhiavano notte e giorno il loro nutrimento – un misto di alghe
standard, grasso e scarti di pesce – da grandi boccagli collegati
a tubi conficcati nella parete delle vasche e assicurati alla nuca
di ogni esemplare tramite una fascia elastica.
I polsi delle bestie venivano bloccati contro la parete in modo
che non potessero togliersi il boccaglio.
A volte, la crescita così accelerata provocava tumori,
soprattutto al seno e alle ovaie, ma le sirene venivano macellate
nel giro di pochissimo tempo e le perdite erano minime. Il caso
peggiore era il tumore al seno, che privava i clienti di una
prelibatezza ben quotata sul mercato nero, la mammella di
sirena.
Samuel si premurò personalmente di infilare il boccaglio alla
piccola mezzoumana, che cominciò a succhiare voracemente
come se il tubo fosse stato il seno della madre.
In quanto alla madre, anche per lei era giunto il momento.
Lei e le sue compagne di monta sarebbero state macellate il
giorno stesso. Era arrivata una richiesta per un grosso
quantitativo di vitello di sirena. Doveva esserci un party, da
qualche parte nei resort suboceanici, con ragazze come Sadako,
con kanji dappertutto e una voce dolce.
Samuel abbassò la leva che regolava l’apertura della paratia.
Il carico di sirene defluì verso le vasche della morte.
Mise le cuffie antiultrasuoni, un regalo di Hassan. Anche se
non poteva sentirlo, non voleva che il canto delle sirene avviate
al macello gli entrasse nelle orecchie. Portava sfortuna, Sadako
ne era convinta.
Macellare le sirene, quegli esseri splendidi, per Sadako era
una colpa irredimibile. Ma Sadako aveva già pagato per tutti e
due. E lui continuava a pagare, ogni giorno che era
sopravvissuto alla sua morte.
Alla prima occasione, doveva sottoporre la piccola
sanguemisto a un check-up privato. Capire fino a che punto era
umana.
Aveva sei mesi di tempo.
10

La prima occasione di fare il check-up alla piccola sirena si


era verificata quando aveva già raggiunto la taglia adulta,
quattro mesi dopo. Samuel l’aveva fatta passare nelle vasche
laboratorio e legata su un floating bed attrezzato.
La sirena sanguemisto era come sua madre, mezzoalbina. Uno
splendido animale.
Samuel aveva collegato gli elettrodi. La sirena era bloccata da
fasce a sensori di movimento a distanza di venti centimetri una
dall’altra.
Era la prima volta che eseguiva il check-up da solo a una
sirena adulta, ma aveva osservato spesso i tecnici veterinari
yakuza, quando c’era bisogno di controllare un esemplare
anomalo.
Samuel ripeté i gesti che aveva visto fare tante volte. Le
tabelle di comparazione dei risultati dei test erano appese sopra
il floating bed.
Mise alla sirena la mascherina. Venne preso dall’improvviso
desiderio di ficcare la lingua tra quelle labbra carnose, di
prendere quel corpo legato al floating bed come aveva fatto con
la prima mezzoalbina.
Nei bordelli le sirene non erano mai in calore, eppure non si
ribellavano.
Scacciò quel pensiero. Nelle case yakuza, Samuel lo sapeva,
le bestie venivano drogate con estrosimulatori. Pensò ai vecchi
yakuza, frequentatori dei bordelli, alla loro ossessione per le
creature del mare.
L’odore della sanguemisto era fortissimo, e dolce, con un
sottofondo di pesce o di putrefazione che risultava, invece che
disgustoso, straordinariamente eccitante. La cosa lo colpì. Lui
era abituato all’odore delle sirene. Questo era diverso. Era
mescolato a un odore umano.
Samuel controllò il display. Le cifre luminose si modificarono
a velocità vertiginosa per poi stabilizzarsi. Valori animali
standard.
Fece altri controlli. Radiografia, ecografia, body scan. La
mappa completa dello scheletro e dei tessuti molli.
La mezzoumana si agitava sul lettino. Samuel le coprì la bocca
con un pezzo di nastro adesivo, perché il suo verso da foca, o il
richiamo, non facesse entrare in agitazione il branco nelle
vasche. Dovrei mettere la cuffia, pensò.
Di umano la sanguemisto aveva solo occhi e labbra, e
l’apparato fonatorio. Lì agli impianti era impossibile fare
indagini approfondite sul cervello, pensò Samuel, area di Broca
e così via. Ma per quanto riguardava il corpo, sarebbe stato
possibile insegnarle a parlare.

All’inizio, ricordò Samuel, Sadako non parlava. Samuel non


sapeva nulla della sua storia, e lei non aveva intenzione di
raccontargliela.
Un giorno era rientrato in casa e aveva trovato una ragazza
giapponese legata al letto, il viso premuto sul cuscino, su cui
spiccavano i capelli neri. Era nuda, con la pelle coperta di
tatuaggi.
I vertici yakuza, Samuel non ci aveva messo molto a capirlo,
gli avevano fatto un regalo.
I polsi, le caviglie e la bocca della ragazza erano bloccati da
nastro adesivo nero, sempre con la y e l’enso bene in vista. Una
corda di nylon abrasivo le passava intorno alla vita e la
imprigionava al letto. Se avesse cercato di liberarsi, la pelle si
sarebbe lacerata.
La ragazza era rimasta immobile, sentendo entrare qualcuno.
Samuel le aveva scostato i capelli dal viso e tolto il nastro dalla
bocca. Lei aveva cercato di morderlo e Samuel si era ritirato di
scatto, fuori portata.
Aveva aspettato che si calmasse, recitando una specie di
nenia, di ninna-nanna per tranquillizzarla, e aveva liberato
quella strana ragazza, togliendole il nastro da polsi, bocca e
caviglie, sciogliendo la corda di nylon dal letto. Poi era andato a
sedersi dall’altro lato della stanza, mentre lei si sgranchiva
braccia e gambe e si massaggiava i lividi.
Come ti chiami?, aveva chiesto, senza ricevere risposta.
Lei si era voltata verso il muro, senza neanche girarsi a
guardarlo, rannicchiandosi in posizione fetale.
Samuel era uscito a cercarle dei vestiti, perché potesse
andarsene. Le aveva preso una tuta da ginnastica, finto old
Adidas, blu con righe bianche sui fianchi. Gli era sembrato
strano, comprare qualcosa in quella taglia da Lolita. Ma la
ragazza era rimasta. Probabilmente non sapeva dove andare.
Samuel era andato in cucina e aveva messo del riso e
dell’acqua in una piccola pentola. Il riso, lo sapeva, doveva
bollire senza essere mai toccato, mai girato, per restare vivo. A
fine cottura era diventato una pappa informe e la ragazza non
aveva voluto neanche assaggiarlo.
Ci erano voluti giorni, perché lei gli dicesse il suo nome.
Sa-da-ko, scandendo ogni sillaba.
Si era messa la tuta e non se l’era più tolta, neanche quando
Samuel l’aveva portata a comprare altri vestiti. Si lavava a pezzi,
per non togliersela mai. La tuta aveva preso il suo odore, dolce,
vegetale, di vaniglia.
Giorno dopo giorno quell’odore era diventato più forte, era
entrato in casa di Samuel e ci era rimasto, anche adesso che
Sadako era morta e casa sua era vuota, disabitata, morta a sua
volta.
A volte, quando gli capitava, per una qualsiasi ragione, di
calarsi nell’acqua riscaldata delle vasche, gli sembrava di essere
tornato da lei.
La storia di Sadako, quando lei alla fine gliel’aveva
raccontata, dava i brividi. Era la figlia illegittima di un grande
yakuza, che l’aveva tenuta con sé finché la seconda moglie, che
si credeva sterile, non era rimasta incinta. Allora lo yakuza aveva
affidato Sadako a suo fratello, a cui piacevano le bambine. La
giovane moglie lo sapeva.
Prima di cedere allo zio la piccola Sadako, il padre naturale le
aveva fatto marchiare a fuoco sulla schiena il proprio nome. Le
aveva imposto il branding, come a una sirena da macello.
A tredici anni, Sadako era stata ceduta di nuovo, su richiesta,
a un grande yakuza, un uomo anziano e molto rispettato. Sadako
si era affezionata a lui.
Era stato il vecchio, credeva Samuel, a tatuarla. La sua carne
sembrava fatta apposta, e il vecchio yakuza era stato tatuatore,
uno dei migliori del Giappone, dell’antica scuola che usava solo
aghi. Poi aveva cambiato mestiere, ed era diventato un killer.
Anche in quel caso, era stato uno dei migliori.
I tatuaggi di Sadako erano un mondo. Il vecchio aveva
previsto la posizione di ogni kanji in relazione agli altri fino a
coprire d’ideogrammi tutto il corpo, tranne la parte alta della
schiena, dov’era il marchio a fuoco. Mentre il vecchio le bucava
la pelle con gli aghi Sadako non aveva mosso un muscolo, finché
lui non le aveva chiesto di piangere e urlare, di divincolarsi per
il dolore e lei l’aveva fatto.
Samuel sapeva chi era il vecchio yakuza. Lo stesso che aveva
divorato una sirena ancora viva nel fondo di una lancia, quella
volta con Jack. Sapeva anche che quella era stata la sua ultima
battuta di caccia. Era morto poco dopo.
Questo non era stato un bene per Sadako.
Alla morte del vecchio yakuza la giovane moglie di suo padre,
che odiava Sadako, l’aveva data in premio alla sua guardia del
corpo. L’uomo si era divertito un po’ con lei, ma anche lui era
morto poco dopo, in uno scontro a fuoco.
Sadako era stata giudicata troppo usata. Nessuno si sarebbe
abbassato a prendere per sé l’ex ragazza di una guardia del
corpo.
Era stato a quel punto della storia che Samuel, entrando in
casa, l’aveva trovata legata al letto.
Quei due anni insieme erano stati perfettamente felici.
Mangiavano riso bollito con alga tagliata a pezzi, e per
Samuel un tuorlo d’uovo. Quella consistenza morbida, collosa in
bocca, era un piacere che Sadako trovava disgustoso. Riso, uovo
e alga che si mescolavano.
A volte Samuel portava Sadako al beach club del suo amico
Hassan e la faceva ubriacare. Hassan beveva con loro e
guardava Sadako.
Guardare Sadako ubriacarsi era una gioia. Ti faceva venire
voglia di drogarla, diceva Hassan, di tenerla costantemente
drogata.
Poi si buttavano in acqua, tutti e tre insieme. Questo era
prima dell’epidemia, quando era ancora possibile, di giorno,
bagnarsi nell’oceano.
La mente è una rete di canali con l’acqua dell’oceano,
ripeteva Hassan. La mente è vapore che si alza da una ciotola di
riso.
Quando Sadako era morta, Samuel aveva pensato di divorare
il corpo, prima che lo cremassero. Mangiare la sua carne voleva
dire averla dentro di sé per sempre. Qualcosa sarebbe passato,
doveva passare, nel sangue. Naturalmente avrebbe dovuto
togliere la pelle, pulita dal derma bianco e appena tatuata di
nuovo, e conservarla.
Oppure avrebbe potuto imbalsamarla. Hassan conosceva un
bravo tassidermista. La sua villa era piena di bestie
imbalsamate. Da qualche parte, doveva esserci anche una
sirena. Quando Hassan gli aveva portato via Sadako, poco prima
della fine, Samuel aveva pensato proprio questo: che volesse
ucciderla e imbalsamarla, finché era ancora in tempo. Prima che
Sadako entrasse in ospedale, con ricovero pagato dalla yakuza.
Ma poi Sadako era entrata in ospedale, lui stesso le aveva
iniettato l’eutanasia, ed era stata cremata. Spargere le ceneri
dei cremati nell’oceano era proibito, ma Samuel lo aveva fatto
ugualmente.
Il corpo di Sadako era il mare davanti alla città di
Underwater.

Samuel lisciò con un dito la pelle biancoargento della sirena


legata al floating bed, sentì il sangue verde pulsare sotto la
superficie. Le tolse il nastro adesivo dalle labbra, la mascherina
dalle palpebre.
La mezzoumana aprì gli occhi, lo guardò, come le sirene non
facevano mai, e Samuel ebbe la sensazione di qualcosa, a cui
non avrebbe saputo dare un nome.
Mia, decise.
Ti chiamerò Mia.
Era ora di rimandarla in vasca. Fece scendere il floating bed
sott’acqua, a livello della collettiva del branco. Le fasce
elettrificate scattarono, aprendosi in due come cinture di
sicurezza. La sirena lasciò la vasca laboratorio, con due spinte
della potente pinna caudale si infilò nel canale di raccordo,
raggiunse il resto del branco nella vasca maggiore.
Starai cantando adesso, pensò Samuel. Vorrei essere un cane
per sentirti, Mia, per impazzire, finalmente.
11

Erano passati cinque mesi e mezzo. Mia era quasi pronta per
la sua prima monta. Se fosse risultata sterile, per il macello.
Erano le regole, e poi era arrivato un grosso ordine di vitello di
sirena.
Se voleva portarla via, Samuel doveva agire in fretta. Ma
portarla dove? Il suo appartamento non era certo un posto
adatto.
Mi serve una barca, pensò Samuel. Una lancia da caccia.
Aveva tre settimane di tempo, calcolò. Doveva farsele bastare.
Quella sera, finito il turno, scese a Underwater on-the-beach,
che prima dell’epidemia era stato un posto meraviglioso.
Hassan aveva una lancia. Un vecchio modello, col fondo di
vetro piatto.
Anni prima, Hassan cacciava le sirene selvatiche di frodo.
Rivendeva le carni ai ristoranti yakuza. Con i primi soldi aveva
aperto il beach club. Era stato un locale di successo, e lui un
uomo di successo, ma l’epidemia aveva distrutto tutto.
Le spiagge a sud di Underwater ormai erano luoghi recintati,
discariche di moribondi. Un giorno, la polizia aveva requisito il
beach club per accatastarci i contagiati. Poi l’aveva restituito al
legittimo proprietario, ma l’alone della malattia era dappertutto.
Il posto sembrava maledetto.
Era lì, al beach club parzialmente abbattuto, che Hassan
teneva ancora la barca, forse perché non avrebbe saputo cosa
farci, se non affondarla nell’oceano. Nessuno navigava di giorno,
sotto il sole nero.
Con gli ultimi soldi del beach club, Hassan aveva comprato un
buco in uno dei nuovi bunker, il Megaï, un posto decente, vicino
alla zona dei resort. Aveva ancora qualche affare con la yakuza.
Probabilmente lavori sporchi, pensò Samuel. Ci mancava poco
che si facesse amputare il mignolo.
Era all’ex beach club che Hassan gli aveva dato
appuntamento, quando Samuel gli aveva telefonato. Gli aveva
dato la lancia e non aveva fatto domande.
Mettersi in mare aperto, sotto il sole, con tutta la biacca
protettiva equivaleva a un tentativo di suicidio con ottime
possibilità di successo. Ma il suicidio era diventato tanto comune
che persino i cattolici dei Territori avevano assunto posizioni più
aperte. I primi tempi dell’epidemia, i praticanti di Underwater si
rifiutavano di accogliere i corpi dei suicidi in terra consacrata,
ma ormai nessuno seppelliva più i cadaveri. Erano troppi. La
cremazione era la regola. Le Chiese Libere avevano legalizzato il
suicidio sin da subito, e per questa ragione erano diventate un
culto di successo.
Insieme, lui e Hassan, avevano spinto la lancia in acqua.
Samuel era salito a bordo, aveva acceso il motore. Sotto lo strato
di biacca, erano entrambi coperti di sudore. Poi Hassan era
tornato a riva.
Samuel aveva spinto il motore al massimo. Le acque di
Underwater erano deserte. Poco lontano iniziava la riserva
yakuza. Bisognava incrociare molto al largo per imbattersi in
qualche mezzo sottomarino del governo dei Territori.
Quel giorno Samuel non era di turno agli impianti. Nessuno si
aspettava di vederlo, e forse nessuno avrebbe pensato di
imputare a lui la sparizione di un esemplare pregiato.
Entrò nelle acque della riserva, che conosceva palmo a palmo
dalle battute di caccia alla sirena con i grandi yakuza. Si
avvicinò agli impianti a motore spento, manovrando la lancia col
remo a membrana in dotazione.
Era ora di pranzo. Il giovane Ken’nosuke sarebbe stato chino
sulla sua bento box. Ricordò l’espressione di piacere del ragazzo
mentre succhiava un uovo crudo dopo avervi praticato un foro
con un ago. Nella bento box di Ken’nosuke c’erano sempre uova
crude. A volte metteva l’uovo intero in bocca per romperlo con i
denti, e il rosso del tuorlo gli colava dagli angoli. Ken’nosuke si
leccava le labbra per pulirle e ingoiava anche i frammenti del
guscio. Fosse stato un animale, sarebbe stato un predatore che
ruba le uova agli uccelli, gli diceva Samuel. Un piccolo
predatore. Un ermellino, una volpe.
Con una cima, Samuel legò la lancia alla piattaforma più
esterna degli impianti. Si issò sulla superficie viscida, battuta
ininterrottamente dall’oceano, attento a non perdere
l’equilibrio.
Hassan sarebbe stato il suo alibi. La yakuza si fidava di lui.

Samuel entrò negli impianti, gettò un rapido sguardo alle


vetrate della postazione di controllo. Era deserta.
Si avvicinò alle vasche. Anche per le sirene era l’ora del
pasto. Succhiavano plancton e krill dall’acqua, a bocca aperta.
Due giorni prima della monta venivano staccate dai tubi e
alimentate con plancton e integrazione di alghe silver. Così si
cominciava a migliorare la carne di mare. La gravidanza la
frollava un po’, un leggero strato di grasso copriva i muscoli. Ma
le sirene, pensò Samuel, sono bestie da combattimento.
Ken’nosuke non è ancora tornato dal pranzo, pensò ancora,
scendendo a bordo vasca. Se la prende sempre comoda, il
ragazzo. Ha finito le uova, starà fumando una di quelle sue
sigarette di marijuana, o magari ha preso una pasticca. Addosso,
Samuel aveva ancora una dose di weeds, la droga tratta dalle
alghe, verdastra e dai filamenti aggrovigliati, che Ken’nosuke gli
aveva fatto scivolare nella tasca della tuta un paio di giorni
prima.
Samuel si inginocchiò sul bordo vasca accanto a Mia e le mise
un guinzaglio elettrico. Non poteva iniettarle uno shot di
sedativo, doveva farla uscire nell’oceano in stato lucido. Se il
corpo narcotizzato di Mia si fosse incagliato sul fondale, non ci
sarebbe stato modo di ritrovarla in tempo.
Mia si lasciò strattonare fuori dal branco, docile come un
cane. Era la fase pre-monta. Samuel la condusse nella vasca di
decompressione, attese il ricambio dell’acqua, si arrotolò il
guinzaglio intorno al polso e aprì la paratia esterna. Il flusso
dell’acqua dell’oceano rischiò di strappargli il guinzaglio dal
polso. Lo sfilò dal collo di Mia e in un attimo la vide risucchiata
dalle correnti di profondità. Samuel abbassò la leva, fece alzare
la griglia di filtraggio, l’ultima barriera tra Mia e le acque
libere. Contò fino a dieci, lentamente. Rialzò la leva.
Mia adesso nuotava nell’oceano, fuori dagli impianti.
Samuel si asciugò il sudore dalla fronte. Il più era fatto. Ora
bisognava raggiungere per i condotti di servizio la piattaforma
esterna, senza mai voltarsi indietro, come uno che non ha niente
da nascondere. Dalla vasca di decompressione, una scaletta
portava direttamente fuori.
Qualche minuto prima, mentre Samuel infilava il guinzaglio a
Mia, Ken’nosuke era apparso dietro le vetrate della postazione di
controllo. Sorpreso dalla presenza dell’amico al di fuori del suo
turno alle vasche, era rimasto a fissarlo finché non si era reso
conto di cosa stava facendo, e aveva sorriso.
Prima di aprire il portello e sgusciare all’aperto, in piedi
sull’ultimo gradino della scala che portava all’oblò di uscita della
paratia, Samuel si spalmò freneticamente la faccia di biacca
protettiva.
Come prima, alzò gli occhi alla postazione di controllo.
Non c’era nessuno.

L’oceano era pieno di squali e Mia era carne da allevamento,


carne fresca. Una sirena selvatica poteva impegnare uno squalo
in combattimento, e venire comunque uccisa. Ma le sirene
selvatiche nuotavano in branchi. Mia era da sola, e non
conosceva i fondali. Era fuori dagli impianti, libera dalla monta e
dal macello, in acque sconosciute.
Con l’epidemia, la pesca era cessata. Le spiagge per la specie
umana erano un territorio di morte. Le acque di Underwater
erano tornate selvagge.
La mente è una rete di canali con l’acqua dell’oceano, diceva
spesso Hassan. Aveva insistito perché Samuel caricasse a bordo
una scorta di cibo, acqua e una tenda gonfiabile. C’era anche
cibo secco per pesci, a ogni buon conto.
Cercando di muovere meno acqua possibile, Samuel
circumnavigò gli impianti a piccoli colpi di remo, finché si
ritenne abbastanza lontano, e al sicuro, da riaccendere il
motore, tenendolo al minimo. La lancia partì senza storie.
Aveva pochissimo tempo. Ken’nosuke stava per tornare a
bordo vasca, e gli addetti alla macellazione avrebbero attaccato
il secondo turno nel giro di una decina di minuti. In quanto ai
tecnici veterinari, per quel giorno non si sarebbero visti.
Sarebbero tornati solo dopo la nuova monta, per controllare le
bestie gravide, ed era molto improbabile che qualcuno di loro
fosse così pazzo da mettere la testa fuori sotto il sole, col riflesso
dell’oceano addosso.
Samuel completò il giro della piattaforma, fino al punto in cui
aveva liberato Mia. In mare, le sirene potevano coprire distanze
enormi in tempi brevissimi, ma contava sullo smarrimento della
piccola mezzoumana al ritrovarsi fuori dalla vasca.
Scrutò le acque dal fondo di vetro. Nessuna traccia di Mia.
Tirò fuori dalla tasca il fischietto a ultrasuoni.
Le sirene da allevamento, una volta staccate dai tubi di
alimentazione e prima di essere portate alla monta, venivano
addestrate a rispondere ad alcuni richiami a comando.
Imparavano con una rapidità sorprendente, come delfini
ammaestrati.
Uno, due, tre fischi brevi. Nessuna risposta.
Mia era scomparsa.
12

Samuel sentì il sudore colargli sotto la tuta. Non aveva molto


tempo per trovare Mia. La durata di un’applicazione di biacca
protettiva era di circa mezz’ora, più o meno il tempo di spostarsi
da un posto all’altro. Dopo trenta minuti, come recitavano i
minutissimi caratteri sul flacone, “la casa produttrice non
garantisce l’incolumità”.
Spalmatevi la biacca, o il cancro nero vi divorerà. Come uno
scherzo crudele, il vero nome del prodotto era SST, safe self tan.
Un autoabbronzante di ultima generazione, dalla sfumatura
miele o cioccolato, pronta in tubetto per la vostra pelle. I suoi
insoliti effetti collaterali – protezione integrale della pelle dalle
degenerazioni tumorali, anche se per un brevissimo periodo –
erano stati scoperti al dilagare dell’epidemia.
Ovviamente la biacca si trovava solo al mercato nero. Ma i
dipendenti yakuza godevano di certi privilegi.
Il giorno dopo, agli impianti sarebbe venuto il dermatologo.
Ogni quindici giorni, la yakuza mandava uno dei suoi medici di
fiducia nella riserva marina.
Samuel tirò fuori dalla tasca il flacone quasi vuoto di SST e se
ne spalmò un po’ su viso e collo. La tuta, in teoria, avrebbe
protetto il resto del corpo. Avrebbe avuto bisogno di una
maschera usa e getta, ma erano diventate introvabili.
Ripeté il richiamo.
Nessuna traccia di Mia.
Era capitato, in passato, che qualche esemplare riuscisse a
fuggire dagli impianti, anche se era raro che le sirene da
allevamento tentassero la fuga. Secondo Ken’nosuke, era perché
non avevano idea di cosa ci fosse fuori. Secondo Samuel, il
condizionamento ormonale spappolava loro il cervello.
Prima di venire attaccate ai tubi per essere ingozzate di
grasso, alghe standard e scarti di pesce, le sirene appena nate
sembravano sentire qualcosa. Un richiamo dall’oceano, forse. Un
istinto. Dopo il condizionamento ormonale, ingozzate come oche
– “A proposito, hai mai assaggiato il foie-gras di sirena? È
delizioso!”, era un classico esempio di conversazione da party –
erano semplice carne da macello.
Le sirene da allevamento non tentavano di fuggire. Ma
capitava ugualmente, di tanto in tanto, che qualche esemplare
finisse nell’oceano, per un errore nel funzionamento delle
paratie o della griglia di filtraggio, al momento del ricambio
quotidiano dell’acqua. O perché qualcuno dei grandi yakuza
voleva provare l’emozione della caccia.
Qualcosa si mosse, sotto il livello dell’acqua. In profondità.
Una manta. Un esemplare enorme, come un lenzuolo di carne
nell’oscurità, color nero, color niente. Erano rari a vedersi.
Un bello spettacolo, ma non era Mia.
Samuel chiuse gli occhi, li riaprì. La manta era scomparsa.
Dove ti sei cacciata, piccola mezzoumana, pensò Samuel, fatti
trovare prima che il sole mi ammazzi.
Gli venne voglia di tuffarsi, ma l’oceano avrebbe sciolto la
biacca in pochi istanti, l’acqua avrebbe concentrato i raggi del
sole sul suo corpo come una lente.
Mia aveva le ore contate, pensò Samuel. Era questione di
tempo e uno squalo l’avrebbe divorata. Ma forse quella era una
morte migliore. Meglio finire in bocca a uno squalo che sgozzata
nel macello yakuza.
Samuel immaginò la testa di Mia recisa dal corpo, come ai
vecchi tempi, quando le sirene erano macellate col taglio della
gola. Avrebbe fatto la sua bella figura, con i lineamenti quasi
umani e la pelle biancoargento, imbalsamata su una scrivania.
C’era anche un culto, i nuovi daiacchi, che collezionava teste di
sirena decapitate, e come molti altri culti predicava la fine del
mondo. I mostri sono tornati. Sirene e lebbrosi. È l’era dei
mostri. Siate pronti.
Uno dopo l’altro nella sua mente, rapidi flash di ricordi.

La polizia aveva preso il beach club la settimana dopo.


I vertici yakuza non erano riusciti a impedirne la requisizione.
Così avevano detto a Hassan. O forse non ci avevano nemmeno
provato, Hassan ne era convinto.
Non tutti amavano Hassan, nella yakuza.
Quando era stato avvisato dell’arrivo degli agenti al beach
club per la requisizione – la soffiata era arrivata per tempo, così
che potesse andarsene – Hassan era rimasto dov’era, e Samuel e
Francisco, uno dei suoi uomini, con lui. Tutto quello che poteva
essere portato via dal locale era già stato portato via.
Hassan aveva deciso di incendiare il beach club.
Faremo finta che sia stato un incidente. Tanto a loro serve
solo la spiaggia. I contagiati in pratica sono già morti.
Ti sbatteranno dentro per questo, aveva detto piano
Francisco, ma Hassan non gli aveva dato retta.
Lo sai che non aspettano altro, aveva aggiunto Samuel. Non
offrirgli l’occasione su un piatto d’argento.
Ma Hassan aveva frugato nel retro finché non aveva trovato
quello che cercava. Tre latte di benzina. Ne aveva data una a
Francisco e una a Samuel. Era chiaro che aveva preparato tutto
in anticipo.
Non ce l’avrebbero fatta a distruggere tutto. Non era stata la
polizia a fermarli, ma la massa dei contagiati che premeva fuori,
tenuta in riga dagli agenti con manganelli elettrificati e tute
protettive.
Due agenti, un ragazzino e un veterano come nei vecchi film
di genere, avevano distribuito loro le divise anticontagio: tute
bianche, da astronauti anni Sessanta del secolo scorso, che
facevano pensare allo sbarco sulla Luna.
Se mai c’era stato, lo sbarco sulla Luna.
Il ragazzino aveva gettato un occhio alle latte di benzina in
mano ai tre e aveva commentato, è una buona idea, finché non
montano i recinti. Non finiranno prima di stanotte.
Hassan, Samuel e Francisco avevano indossato le tute in
silenzio. Non c’era altro da fare.
Aprite le porte, aveva ordinato l’agente anziano.
La massa si era rovesciata all’interno come un fiume infetto,
come acqua che brucia con dentro il fuoco greco.
Hassan non aveva detto niente. Samuel e Francisco gli si
erano avvicinati, ma lui si era scostato bruscamente.
Fate quello che dovete fare, aveva detto.
Non appena tutti i contagiati ebbero varcato il confine
temporaneo di sicurezza, segnato con un pezzo di gesso
sull’asfalto davanti alla sabbia del beach club, Samuel, Francisco
e i due agenti avevano tracciato un perimetro tutt’intorno con la
benzina – una stella fiammeggiante per tenere dentro chi è
dentro e fuori chi è fuori, fino alla morte – e gli avevano dato
fuoco. Era una bella notte, con una brezza leggera. L’incendio si
era levato altissimo. Fino all’alba, i rinforzi della polizia
avrebbero finito di montare i recinti elettrici di protezione
tutt’intorno al club e provveduto al collaudo.
Volevamo lasciarvi più tempo, aveva detto l’agente giovane in
tono di scusa, ma ormai non si contano più, indicando il mucchio
di corpi confusi tra le strutture del beach club, oltre il cerchio di
fuoco.
Qualcuno di quei corpi aveva cercato di attraversare il
cerchio ed era corso fuori urlando, con le fiamme che gli
divoravano la schiena, per crollare a terra pochi metri dopo.
Non c’erano stati altri tentativi.
Nel locale non c’era più cibo né alcool. L’acqua stava per
essere tagliata. I contagiati sarebbero morti a uno a uno, di fame
se non di malattia. Nel giro di una settimana o due, aveva
calcolato Samuel.
Poi ne sarebbero arrivati degli altri.
Sei mesi dopo, inaspettatamente, la yakuza si era mossa. In
pochi giorni, il beach club era stato bonificato dai cadaveri e
restituito a Hassan. Le cucine funzionavano ancora. Intorno,
c’era ancora il recinto elettrico, a ogni buon conto.
Con l’emergenza che ormai era diventata inferno, inferno
incontrollato, la restituzione del beach club doveva far parte di
una strategia misteriosa, della yakuza o della polizia. Hassan
avrebbe potuto pagarla cara. Ma aveva deciso lo stesso di
prendere quello che gli veniva dato. Come tutti, neanche lui
sarebbe vissuto a lungo.

Qualcos’altro si mosse, sul fondo dell’oceano. Carne


biancoargento, il movimento potente della pinna caudale.
Samuel guardò meglio, fino a non avere più dubbi. Era lei,
Mia. Nelle profondità, la sirena era puro spettacolo.
Il fischietto. Il richiamo.
Mia lo aveva sentito.
Lo guardò, attraverso il fondo di vetro della lancia di Hassan,
con occhi che solo una volta le aveva visto. Occhi in cui c’era
qualcosa.
Gli stessi occhi della mezzoalbina dopo la monta, quando le
aveva offerto in pasto il maschio per salvarsi la vita.
Samuel raccolse sul fondo della lancia il guinzaglio, la frusta
elettrica, il narcotico.
Fece segno a Mia attraverso il vetro. Avvicinati, sussurrò,
come se qualcun altro potesse sentirlo.
La sirena non si mosse.
Avvicinati, sussurrò di nuovo Samuel, con disperazione.
Buttarsi in acqua sarebbe stato un suicidio, e comunque non
poteva competere con una sirena. Fuori dagli impianti, in mezzo
all’oceano, Mia aveva tutti i vantaggi.
Sarebbe bastata una mossa sbagliata per perderla per
sempre. Per farla finire in bocca a uno squalo.
Il sudore gli colava negli occhi, ma Samuel non osava
asciugarsi la fronte per paura di togliere la biacca.
Mise il guinzaglio nell’acqua e lo agitò. Mia notò il
movimento, sembrò incuriosirsi, allungò una mano, ma non si
mosse.
Continua così. Il movimento le attira.
Avanti, Mia.
Finalmente, con un unico colpo di pinna, Mia si era avvicinata
e aveva preso il guinzaglio, com’era stata addestrata a fare nelle
vasche.
Ricordava i comandi dell’addestramento. Bene.
Samuel diede uno strattone. Mia si lasciò trainare in
superficie. Emerse con la testa e il seno, fino alla vita, dove
cominciavano le squame.
Samuel stese un braccio e fece per toccarla. La sirena si
ritrasse come se l’avesse sfiorata una medusa. Era spaventata da
lui, ma più ancora, forse, dall’oceano.
Mia teneva ancora in mano l’altra estremità del guinzaglio.
Samuel la attirò piano verso di sé. Lei si lasciò portare fino alla
lancia. Chiuse gli occhi. Samuel sfiorò i capelli di Mia, la massa
azzurro metallico, muscolare e vischiosa, coperta di umore. Poi,
con una mossa precisa, le infilò al collo il guinzaglio elettrico che
si strinse automaticamente, fino ad assumere la misura giusta.
Se la sirena avesse cercato di toglierselo, sarebbe morta
strangolata.
Mia aprì gli occhi, si dibatté, sentì la presa del guinzaglio che
si serrava intorno al collo. Come tutte le sirene da allevamento,
conosceva quella sensazione. Gli occhi dalle palpebre
semiumane si riempirono di umore lacrimale, un riflesso
condizionato della stretta del guinzaglio. Samuel risentì la voce
di Jack. Gli si inumidiscono gli occhi come ai cani.
La sirena non provò nemmeno a difendersi. Avrebbe potuto
strappare il guinzaglio di mano a Samuel e sparire nelle
profondità dell’oceano, ma non lo fece. La stretta intorno al collo
sembrava averla riportata allo stato mentale di quando si
trovava nell’allevamento, a quella placidità estrema. Fino al
primo estro.
Samuel fissò il guinzaglio a uno dei ganci sulle pareti della
lancia, si assicurò che reggesse, e fece ripartire il motore al
minimo. Mia diede un colpo di coda. Nuotava al suo fianco,
adesso.
Lo strato di biacca in faccia si era quasi sciolto. Samuel si
diede un’altra passata di SST, in fretta, pregando che bastasse. Il
flacone era praticamente vuoto. Lo buttò sul fondo della lancia e
gli diede un calcio. Poi aprì le scorte che gli aveva dato Hassan e
gettò in mare una manciata di cibo per pesci. Mia lo divorò
golosamente.
Doveva portarla in un posto sicuro.
13

La vecchia villa di Hassan era sulla costa, fuori Underwater.


La zona a nord della città era ormai abbandonata. Quando
l’epidemia aveva spopolato le ville, la polizia aveva fatto
sgomberare anche gli ultimi abitanti e sequestrato l’area. In
teoria, i terreni confiscati sarebbero stati restituiti ai legittimi
proprietari a fine emergenza, col ripristino dello stato di
normalità. Questo accadeva quando ancora si pensava che fosse
possibile tornare alla normalità.
Hassan aveva comprato la villa con i primi soldi del beach
club. Era lì che aveva portato Sadako, perché Samuel non la
vedesse morire.
Prima ancora, anni prima, la villa di Hassan era stata un
posto glorioso. Ai bordi della piscina a ricambio oceanico, le
feste duravano fino all’alba. A quei tempi, le sirene erano ancora
il mondo nuovo.
Giravano strane tesi pseudoscientifiche sulla nuova specie che
avrebbe reso la Terra un posto meraviglioso.
Che le sirene non fossero mammiferi, ma ovovivipari, che
covavano l’uovo nella cavità della vagina e lo lasciavano a
schiudersi al sole sulle spiagge, come le tartarughe marine.
Che le femmine regine governassero sui maschi dugonghi,
come le api, con tutto il prevedibile battage giornalistico sulla
questione. Che le sirene regine fossero diverse dalle altre, con
seni piccoli e intelligenza umana. Solo le regine deponevano le
uova, di nuove regine e di dugonghi, consumando il proprio
grasso nell’impresa.
Che i branchi avessero un unico cervello collettivo, come le
formiche. Che dimensioni e capacità di quel cervello crescessero
e calassero con le fasi della luna.
Che non si nutrissero solo di plancton e alghe, e carne di
maschio al momento della monta, ma di pesci vivi, e carne
umana. Soprattutto carne umana.
Che si riproducessero per partenogenesi, con le femmine che
all’interno del corpo producevano sperma, anzi, come era stato
chiamato, lattesperma.
Che la loro carne a seconda della dose fosse veleno o
farmaco.
Subito, qualcuno aveva brevettato il marchio sy®ena.

Il canale di ricambio della piscina di Hassan era così ampio


che Samuel poté entrarvi con tutta la lancia. Mia lo seguiva al
guinzaglio.
Samuel chiuse le griglie e le paratie della grande vasca,
azionate da un meccanismo identico a quello degli impianti nella
riserva yakuza. Scese dalla lancia e si diresse al garage.
L’ascia elettrica di Hassan per fare legna era ancora in
garage. Lontano da Underwater, intorno alle ville, era pieno di
zone verdi. I boschi erano stati piantati dai proprietari per far
alzare i prezzi dei terreni, prima dell’epidemia.
Samuel tornò alla piscina, salì sulla lancia e cominciò a dare
colpi d’ascia sul fondo. Ci mise un po’ a intaccarlo. Secondo la
pubblicità, il vetro semi-infrangibile era stato progettato per
resistere all’attacco di un corno di narvalo. Ma Samuel sapeva
che non era vero. Presto la lancia imbarcò acqua e Samuel balzò
sul bordo della piscina.
Poco dopo, Mia si accoccolava nella carcassa sfondata della
lancia, sul fondo vasca.
Prima di affondare la barca di Hassan, Samuel aveva messo in
salvo le scorte di viveri, acqua e cibo per pesci. Di quest’ultimo
sparse una dose generosa nell’acqua della piscina.
Mia venne a galla a mangiare. Doveva essere rapida, pensò
Samuel con l’angoscia addosso, doveva tornare a nascondersi.
Ma adesso avevano un po’ di tempo, almeno la durata di un
pasto di sirena standard. Nessuno li aveva visti. La yakuza
avrebbe dato la colpa della sparizione di Mia a qualcun altro,
magari a Ken’nosuke, ma avrebbe trovato il modo per toglierlo
dai guai.
Il giorno dopo, Samuel era di turno e ci sarebbe stata la visita
dermatologica. Poteva guardarsi intorno e annusare l’aria. Forse
agli impianti nessuno si sarebbe accorto di niente. La
mezzosangue era un bell’esemplare, ma era uno dei tanti.
Hassan sarebbe stato il suo alibi.
Samuel entrò nella villa. Le porte erano sfondate, qualcuno
aveva fatto razzia, ma c’erano ancora dei mobili, dentro. I
razziatori non ce l’avevano fatta a portar via tutto, non con il
sole nero addosso.
Escrementi, di uomo e di cane. La puzza.
Samuel salì al piano di sopra. Qui le cose andavano meglio.
Trovò un letto dove era possibile stendersi – forse era quello
in cui aveva dormito Sadako – e si addormentò di colpo, per una
volta senza incubi. Prima di prendere sonno, gli sembrò che Mia
cantasse, dal fondo della piscina, e che lui potesse udirla, come
un cane randagio.

Samuel si svegliò quasi al crepuscolo, con la testa sepolta


sotto i cuscini per proteggersi dal sole che ancora filtrava dalle
finestre. Qualcuno aveva rubato le tende, e anche le serrande
elettriche che Hassan aveva fatto installare a suo tempo.
Per lui, a differenza di Mia, la villa non era affatto un posto
sicuro, ma non era riuscito a resistere al sonno. Il mio corpo si
sta indebolendo, pensò Samuel. Fototipo I.
Doveva fare scorte di biacca. Doveva vedere Hassan. Dirgli
che era andato tutto bene, per il momento.
Uscì all’aperto.
In acqua, Mia sembrava placidamente addormentata. Una
parte della piscina era coperta da un tendone, e avrebbe potuto
costituire un nascondiglio. Le squame emanavano una
luminescenza leggera.
Le sirene selvatiche, Samuel lo sapeva, cacciano soprattutto
di notte. Forse Mia si sarebbe risvegliata di lì a poco, con l’arrivo
dell’oscurità.
Anche gli esseri umani andavano a caccia con l’oscurità.
Ormai non esistevano più turisti né viaggiatori. La gente si
spostava soltanto se era obbligata, e soltanto di notte. I bus
avevano blindato i vetri. L’underground era in piena attività.
Un tempo, la costa della NuBaCa era stata un luogo
meraviglioso per gli esseri umani. Adesso emanava una bellezza
ancora maggiore, più antica e atroce, era un mondo a sé stante,
splendido e inospitale. La luna era l’unica luce naturale ancora
sopportabile.
Avrebbe raggiunto il beach club di Hassan a piedi, pensò
Samuel, passando per la spiaggia. Una lingua ininterrotta di
sabbia e conchiglie collegava la zona nord delle ville al centro
costiero di Underwater. I ghetti a recinzione elettrica dei
contagiati cominciavano solo dopo l’abitato, nella parte bassa
della città, a sud del beach club. Distinzioni di classe, dei primi
tempi dell’epidemia.
Doveva procurarsi una macchina, o un altro mezzo di
trasporto. La villa era lontana da tutto, e questo era un bene, ma
ci voleva una macchina. Solo che con una macchina rischiava di
dare nell’occhio. E la yakuza aveva occhi ovunque.
Al ritorno, avrebbe raccolto telline d’oceano per Mia. Da
quando gli esseri umani venivano in spiaggia soltanto per
morire, le telline si trovavano di nuovo, ma nessuno le
raccoglieva più.

Samuel giunse a Underwater con il fiatone. Non era più


abituato a quel genere di sforzi fisici, camminare per chilometri,
non da quando sudare all’aperto, di giorno, poteva ucciderti. E
dopo Sadako, non gli interessava andare a caccia di notte. Il
mondo aveva smesso di essere un posto meraviglioso. O anche
solo interessante.
Hassan lo stava aspettando al beach club. Era felice di sentire
che l’impresa – il furto di un magnifico esemplare mezzoalbino
dagli impianti yakuza, probabilmente per rivenderlo al mercato
nero – aveva avuto buon esito.
Lui e Samuel sarebbero tornati alla villa insieme, con la sua
macchina. Il problema del mezzo di trasporto era risolto. Hassan
risolveva sempre tutto. Nessuno si sarebbe insospettito. Era
normale, di tanto in tanto, che i proprietari facessero una
puntata sui loro vecchi terreni, di notte. C’era sempre qualcosa
da rivendere e cannibalizzare.
Bevvero una birra e un gin tonic. Hassan aveva preparato la
cena. Le attrezzature erano ancora funzionanti, anche se il
beach club era in abbandono.
Non è meglio se andiamo al Megaï?, aveva chiesto Samuel.
Non voglio che mi vedano con te al bunker, era stata la
risposta di Hassan. Non è sicuro.
Samuel si era limitato ad annuire.
Di solito, di notte, sulle strade più vicine al confine con i
Territori esterni circolavano pattuglie, ma con l’infuriare
dell’epidemia i controlli si erano diradati. La polizia di
Underwater si era trasformata in una specie di succursale della
Croce Rossa.
Hassan guidava il suo SUV coperto, uno degli ultimi rimasti, a
fari spenti. Conosceva la strada come le sue tasche, e non voleva
coinvolgere nessuno dei suoi uomini in quest’impresa. Non
voleva che ci andassero di mezzo con la yakuza. In questo modo,
quando lui fosse morto avrebbero potuto trovare un altro
ingaggio.
Lui e Samuel avrebbero agito da soli. Per Samuel, agire da
solo era naturale.
Poco dopo, erano arrivati alla villa.
Hassan fece aprire il cancello. I comandi che aveva riattivato
abusivamente sulla sua stessa proprietà rispondevano ancora.
Uscirono insieme dal SUV. Samuel puntò una torcia sul fondo,
alla ricerca di Mia.
Non si vedeva niente. La piscina era troppo grande, fuori
troppo buio. Ma dall’angolo più remoto del fondo proveniva una
luminescenza leggera.
Accendi le luci della piscina, sussurrò Samuel. Doveva essere
certo che Mia ci fosse ancora. La luminescenza poteva essere un
trucco, un’illusione ottica.
No, disse Hassan. È troppo rischioso.
Solo per un istante. Voglio vederla.
No.
Voglio che tu la veda.
Hassan ubbidì, pregando tra sé che non passassero elicotteri,
in copertura di buio.
A volte capitava che gli impianti elettrici delle ville
abbandonate, anche se in teoria erano stati tutti scollegati per
prevenire incidenti, riprendessero vita, scintillassero per un
attimo prima di spegnersi per sempre, o entrassero in
intermittenza.
I vagabondi – o i proprietari – che rientravano abusivamente
nelle ville riattivavano gli impianti, si diceva, e queste erano le
conseguenze.
Penseranno a un’intermittenza, disse Samuel. Non succederà
nulla.
Hassan accese le luci sul fondo della piscina, per la prima
volta da anni.
Mia, che dormiva raggomitolata nell’angolo più lontano, aprì
gli occhi. Richiamata dalla luce, nuotò verso la superficie.
Hassan la vide. Da tempo non vedeva da vicino una sirena
viva. Non era un grande frequentatore di bordelli yakuza.
È meravigliosa, pensò.
Mia uscì dall’acqua fino alla vita, venne verso il bordo della
piscina.
Hassan spense le luci.
Samuel cercò a tentoni il corpo della sirena, toccò le mani
palmate, la pelle coperta di umore, si avvinghiò a lei. Il ricordo
del corpo della mezzoalbina lo attraversò per un attimo.
Mia non reagì, rimase immobile nella sua presa, docile come
sempre. Hassan mise una mano sulla spalla di Samuel. Andiamo.
Samuel si divincolò dalla carne di mare.
Sempre al buio, Samuel e Hassan rientrarono nella villa. Da
adesso dovevano rimanere a luci spente.
Mia li sentì allontanarsi. Scivolò di nuovo sott’acqua,
nell’oscurità morbida del fondo.
14

Hassan rimase alla villa con Samuel fino al giorno dopo.


Samuel era di turno agli impianti. Doveva presentarsi alla
visita dermatologica. Nessuno poteva saltarla, se non voleva
attirarsi dei sospetti. Equivaleva a dichiararsi contagiato.
Ma lui e Hassan non potevano lasciare Mia a sguazzare libera
nell’acqua della piscina. Le ville erano ancora frequentate da
razziatori. E di tanto in tanto, nel cielo di Underwater passavano
elicotteri dei corpi speciali, destinati a sedare le rivolte nei
ghetti.
Sul fondo della piscina, poco lontano da dove la lancia di
Hassan giaceva ridotta a un guscio sfondato, era stata sistemata
una serie di cinghie elettriche. Serviva a legare le sirene per il
piacere degli ospiti. Il comportamento crudele della specie
subito dopo la monta aveva reso le cinghie elettriche – e i
bavagli in gommacciaio – una necessità, per quei pochi che non
avevano nessuna intenzione di rinunciare a tenere una sirena in
piscina. Erano i primi tempi. Una sirena selvatica in piscina era
uno status symbol, e tra gli yakuza c’era chi amava esibirsi
davanti a un pubblico scelto mentre si accoppiava con la
selvatica, mentre la domava, come si diceva in gergo. Anche
legate, le sirene potevano essere pericolose. Un cortocircuito
poteva sempre mandare in tilt le cinghie, e questo aggiungeva
un po’ di piccante. Era un gioco di società, in fondo, a cui non
era raro che partecipassero anche le donne. Una roulette russa
con sirena legata.
Samuel e Hassan sparsero un po’ di cibo nell’acqua della
piscina. Attesero per la durata di un pasto standard, poi
legarono Mia sul fondo.
È molto bella, aveva osservato Hassan mentre Mia si
ingozzava di plancton di sintesi. Potresti spacciarla per una
selvatica, al mercato nero se ne trovano ancora, ogni tanto. Ti
pagherebbero il suo peso in oro. O in neoyen, che è meglio.
Samuel non aveva risposto.
Raggiunsero il beach club via spiaggia. Il SUV poteva passare.
Era per questo che Hassan l’aveva comprato, prima del sole
nero.
Lui e Samuel si separarono.
Samuel scese dal SUV. La luce malata del sole lo investì in
pieno, il corpo coperto dalla tuta protettiva, il viso dalla
maschera che gli aveva portato Hassan e, ai bordi, da uno
spesso strato di biacca.

Agli impianti, la visita dermatologica stava per cominciare.


Samuel aveva fatto appena in tempo. Ken’nosuke gli aveva
tenuto un posto in fila, accanto a sé.
Tieni, hanno distribuito una bento box speciale per ciascuno.
Roba buona. Mi sono fatto dare anche la tua. La yakuza ci offre
il pranzo.
Samuel aveva preso la bento box, pensando a Jack, alla carne
velenosa di maschio. Ma Ken’nosuke sorrideva.
Il dermatologo era una vecchia conoscenza, grasso e
rassicurante. Sapeva bene che i dipendenti della yakuza avevano
un grande valore. Erano addestrati, fidati, e alcuni di loro ci
avevano rimesso la falange di un mignolo per la casa yakuza.
Non si poteva sbagliare diagnosi. Equivaleva a una condanna
a morte.
Mentre Ken’nosuke era dentro, si accese l’altoparlante.
Samuel sentì il caratteristico gracchiare, e alzò la testa. Era un
messaggio registrato, con una voce femminile.
La yakuza aveva deciso di controllare il derma dei dipendenti
ogni settimana, non più ogni quindici giorni. La salute dei
lavoratori degli impianti era preziosa per la yakuza, aveva
concluso la voce registrata.
Ken’nosuke uscì dall’ambulatorio medico. Sorrideva ancora.
Tutto a posto.
Ken’nosuke era giovane, pensò Samuel, ed era molto
prudente. Era di quelli destinati a vivere a lungo. E poi era per
metà giapponese e avrebbe fatto carriera. Forse sarebbe riuscito
a salire di grado, a infilarsi in uno dei corsi di addestramento
per quadri. Samuel non ce l’aveva fatta, ma succedeva, qualche
volta. Qualcuno di loro, anche se veniva dal niente, riusciva a
diventare quadro.
Ken’nosuke ce l’avrebbe fatta.
Non lasciare mai Sadako sola in casa, gli aveva detto più di
una volta Ken’nosuke, scherzando solo a metà. Potrei portartela
via.
Ken’nosuke gli aveva sempre invidiato Sadako, anche dopo
che lei era morta. Non sopportava che la yakuza avesse potuto
fare un regalo del genere a Samuel – e per cosa, poi? –, e
Samuel lo sapeva. Lui non era niente. Avrebbero potuto darla a
Ken’nosuke, che almeno era per metà giapponese. Il sottinteso
era che Sadako meritava di meglio.
Samuel si fece incontro a Ken’nosuke e gli batté una mano
sulla spalla. Bravo. Sei uno che sa come sopravvivere.
Ken’nosuke sorrise, un sorriso chiaro, aperto, di uno che ha
solo vent’anni.
Toccava a Samuel.
Sulla soglia dell’ambulatorio, si voltò verso Ken’nosuke, che
stava ancora sorridendo.
La scomparsa di Mia non sembrava aver fatto notizia.
Quel pomeriggio, Samuel controllò il data-entry e i registri
cartacei, alterò i numeri, cancellò le tracce.
I tecnici veterinari se n’erano andati in fretta dopo la visita,
per tornare solo alla prossima monta. E gli addetti alla
macellazione non notavano mai nulla.
L’unico che avrebbe potuto notare qualcosa era Ken’nosuke.
Ma la bento box che gli aveva tenuto da parte era ottima. E
aveva anche messo delle birre nella ghiacciaia degli impianti.
A fine turno, pensò Samuel, non si sarebbe diretto subito alla
villa. Non doveva dare nell’occhio. Meglio passare da casa,
prima. Organizzarsi.

Samuel tirò le tende nell’appartamento invaso dal sole. La


luce azzurrata gli consentì di abbassare per un istante la
guardia. La decisione già presa, forse in sogno, affiorò alla
coscienza. Avrebbe tatuato Mia, con i kanji. Dappertutto, come
Sadako.
Chissà se la pelle delle sirene si lasciava tatuare. Forse
l’umore cutaneo rappresentava una barriera per l’inchiostro.
L’avrebbe scoperto presto. Sugli animali da macello, la yakuza
preferiva il branding, il marchio a fuoco. Anche Mia era stata
marchiata sulla schiena, con il logo y/enso. Anche Sadako
bambina, con il nome di suo padre.
In un mobile a combinazione, Samuel trovò lo stilo per
tatuaggi. Da qualche parte doveva esserci ancora dell’inchiostro
subacqueo, garantito waterproof. La macchinetta per fare i
tatuaggi, gli aveva spiegato una volta Sadako, era un metodo
superato. L’acqua, in un modo che Samuel non riusciva a
spiegarsi, rendeva più sopportabile il dolore.
Sadako ravvivava continuamente i kanji con lo stilo, perché
non sbiadissero. Quando era ancora possibile bagnarsi in mare
aperto, ritoccava i tatuaggi nell’oceano. Con l’inizio
dell’epidemia aveva ripiegato sulla vasca da bagno.
Più di una volta, Samuel aveva aiutato Sadako con i tatuaggi
sulla schiena e in altre parti difficilmente raggiungibili del
corpo, come il kanji makka – la quintessenza cremisi, rosso vero,
rosso sangue – sulla nuca. Era il preferito di Sadako. Fatto con
l’ago dal vecchio yakuza, come tutti gli altri, secondo l’antica
scuola.
Lei era carta di riso, kami. La sua carne sembrava fatta
apposta.
Samuel tornò alla villa il più rapidamente possibile.
La sirena era lì dove lui e Hassan l’avevano lasciata, legata
sul fondo della piscina, placida come una vacca nonostante la
sua metà umana, gonfia di cibo. Non sembrava neanche
riconoscerlo. La nuova cattività l’aveva fatta tornare allo stato
mentale degli allevamenti.
Nel garage Samuel trovò una muta per proteggersi dal sole,
sott’acqua. Oltre che con cinghie e bavagli, le piscine dei ricchi
erano attrezzate con boccagli speciali e tubi collegati a erogatori
d’ossigeno, per far sì che gli ospiti potessero restare sott’acqua
a lungo, a giocare con le sirene legate. Quella di Hassan non
faceva eccezione.
Subito prima di immergersi, Samuel mise in azione il flusso di
ossigeno nel tubo collegato all’erogatore più vicino a Mia.
L’acqua era sorprendentemente tiepida. Samuel toccò il
fondo, si rimise in piedi e si infilò il boccaglio. Tutto a posto. Mia
era lì, a disposizione. Aveva gli occhi aperti e l’espressione
vacua. Samuel si accovacciò accanto a lei. Ricordava i tatuaggi
di Sadako a memoria.
Affondò lo stilo nella pelle di Mia. L’umore si disperse in una
lattescenza leggera, una nuvola che per un istante gli offuscò la
vista, poi l’acqua intorno tornò chiara.
Respira adesso, Samuel, respira dal tubo. Prenditi tutto il
tempo che ti serve. Rilassati.
Lei è carta di riso. Lei è una tela.
Non si fermò finché non ebbe ricoperto di tatuaggi seno,
spalle, braccia, ventre, schiena e nuca di Mia.
Tutto il corpo tranne il viso, come Sadako.
Tutto il corpo tranne la parte inferiore, animale, la coda di
pesce, e la schiena dov’era il branding yakuza, incancellabile.
Mia non aveva mosso un muscolo. La pelle era arrossata e
gonfia sotto il nero dei kanji, ma non aveva fatto croste e non
sembrava avere bisogno di cicatrizzare. Era come se si
rigenerasse dall’interno.

Hassan arrivò verso sera. Al mercato nero si era procurato


una partita di blue-crab. Mia li avrebbe divorati.
Li gettò nell’acqua della piscina. Mia venne a galla e Hassan
vide i tatuaggi.
È meravigliosa, disse, questa volta a voce alta. Stava
pensando a Sadako, naturalmente, ma non disse niente, e
Samuel gliene fu grato.
Entrarono in casa, al buio, come sempre. Dentro alla borsa
termica di Hassan non c’erano solo blue-crab.
Cibo per qualche giorno. Ma almeno per ora, niente armi.
Dovevano fare un piano. Mia non poteva restare a lungo alla
villa. Hassan sapeva che la yakuza lo teneva d’occhio. Il suo
andare e venire dalla villa sarebbe stato notato.
Salirono al piano di sopra. Nella stanza dove un tempo si era
rifugiata Sadako c’era un divano sfondato, molto comodo.
Hassan ci aveva passato sopra notti intere, guardandola morire
a poco a poco.
Hassan aprì la borsa termica.
Vuoi una birra?
Samuel era seduto sul pavimento, a gambe incrociate. Prese
la lattina gelida, strappò la linguetta e bevve avidamente. In
quella birra doveva esserci di tutto, meno che luppolo. Ma i
prodotti di sintesi ormai rasentavano la perfezione.
Hai denunciato l’intermittenza alla polizia?
Sì. Sono andato al comando centrale. Come al solito, mi
hanno detto che non si può fare niente.
Bene.
Hassan non rispose. Samuel bevve una sorsata di birra
interminabile, scosse la lattina. La lanciò a Hassan, che la
afferrò al volo.
Dobbiamo portarla via. Andare da qualche parte, lontano.
Hassan accartocciò la lattina con le dita.
Vuoi rifarti una vita con lei? Nel caso non te ne fossi accorto,
ha una coda di pesce.
Samuel sorrideva.
Hassan lanciò la lattina in un angolo. Nessuno sarebbe venuto
a pulire. Quella casa era vuota, morta. Pronta per un perimetro
di fuoco a forma di stella, per diventare un ghetto per i
contagiati.
Perché non la vendi a un bordello yakuza? La voce di Hassan
dava la pelle d’oca. A qualche clan rivale. I tuoi capi hanno dei
nemici. Scommetto che neanche loro hanno mai visto una sirena
tatuata.
Samuel si sciolse dalla posizione del loto, si alzò in piedi.
Smettila, Hassan.
Anche Hassan era in piedi, adesso.
A uno zoo, allora?
Samuel si mosse verso la porta, ma Hassan gli bloccava la
strada.
Gli zoo sono stati smantellati dieci anni fa.
Accennò un pugno, una finta, alla bocca dello stomaco di
Hassan, ma l’altro lo intercettò col palmo della mano aperta. Era
più vecchio di lui, ma era sempre stato più forte, più veloce.
Samuel, non puoi restare qui. Ti troveranno. Ti
ammazzeranno come un cane.
Un istante dopo, Hassan bloccava il braccio di Samuel dietro
la schiena.
Gli sembrò di aver bevuto qualcosa di più di una semplice
birra, e si appoggiò a Hassan per sostenersi. Era come se la voce
del suo vecchio amico gli giungesse da molto lontano.
Davvero, che cosa pensi di fare?
Hassan che gli torceva il braccio. La sensazione di dolore.
Le ho dato un nome.
Il dolore diventa più forte. È per il tuo bene.
Un nome?
Mia.
Hassan lasciò andare il braccio di Samuel, che cominciò a
massaggiarlo per riattivare la circolazione.
È un bel nome.
Fuori ormai era buio, completamente buio. A Samuel
sembrava di avere la bocca piena di ovatta, gli occhi pieni di
sabbia.
Hassan prese Samuel per le spalle e lo costrinse a voltarsi.
Ma lei non sa nemmeno di avere un nome. È meno di un cane.
I cani lo sanno.
La voce di Hassan era diventata quella di Jack.
Samuel capì che stava per cadere, che le gambe non lo
reggevano più. Abbracciò Hassan, appoggiò la testa contro la
sua spalla, chiuse gli occhi.
È una sirena, Samuel. È una bestia.
È mezzo umana.
Hassan lo afferrò per i capelli, gli tirò la testa indietro.
Sei già ubriaco?
Samuel riaprì gli occhi.
Ho montato sua madre, una mezzoalbina. Mia è mezzo umana.
Hassan lasciò andare Samuel e si scostò di colpo. Samuel
crollò a terra. Hassan si rimise seduto sul divano, riaprì la borsa
termica e tirò fuori una nuova lattina di birra ghiacciata.
Questo non cambia niente.
Fuori dalla villa, nel bosco, Ken’nosuke decise che era ora di
lasciare il suo posto di osservazione. Abbassò i binoculari a
infrarossi, si sfilò l’amplificatore audio.
15

Era ora di fare rapporto.


Samuel non si era accorto di nulla, di questo Ken’nosuke era
sicuro. E lui lo aveva denunciato subito.
Aveva tradito il suo amico, perché lui aveva tradito la yakuza.
Aveva fatto bene.
Ma la yakuza non sarebbe intervenuta, per il momento.
Samuel era stato un figlio fedele, aveva trattato Sadako come
la pupilla del suo occhio, e il padre naturale della ragazza non
aveva dimenticato.
La scappatella del fedele Samuel nelle vasche da monta,
grazie all’ancora più fedele Ken’nosuke, non era passata
inosservata, ma le conseguenze erano state meravigliose.
La mezzoumana era splendida, e avrebbe fatto la fortuna di
molti bordelli, lei e tante altre come lei. Forse Samuel poteva
diventare un riproduttore. In fondo, la mezzoumana era sua
figlia.
Era per questo che l’aveva portata via, era la figlia che non
aveva avuto con Sadako? Forse. Oppure, l’esperienza nelle
vasche da monta gli era piaciuta, anche troppo.
Ma forse la casa yakuza poteva venire incontro alle esigenze
di Samuel. Dargli un’altra sirena per il suo uso personale. Del
resto, non era destinato a vivere a lungo. Era troppo
imprudente, e la morte di Sadako l’aveva sconvolto. Sadako era
una droga, aveva detto lo yakuza zio che l’aveva avuta dai nove
ai tredici anni, anche se questo era un segreto ben custodito, e
gli altri avevano annuito.
Quindi, non c’era niente di male se Samuel voleva divertirsi
un po’. Non con la mezzoumana, certo. Era troppo preziosa. Era
un esperimento.
Ma era meglio dare un po’ di tempo a Samuel, vedere che
cosa aveva intenzione di fare.
Non aveva liberato la mezzosangue nell’oceano, come i capi
yakuza avevano temuto. Era chiaro che non aveva nessuna
intenzione di liberarla. L’aveva ripresa, tenuta al guinzaglio, e
portata nella villa del suo amico Hassan. Poi lui e Hassan si
erano visti al beach club.
Naturalmente, Hassan aveva parlato.
Samuel era stato tenuto sotto attenta osservazione da subito.
C’erano motoscafi da caccia pronti a intervenire, in agguato nei
punti ciechi della riserva marina.
Forse non ci sarebbe stato bisogno di torturare neanche lui.
Gli scienziati erano troppo vigliacchi, ossessionati dalla storia
del cancro nero, con cui non c’erano grandi soldi da fare.
I consumatori morivano. I contagiati morivano. Come le
mosche, certo. Ma nei resort il cancro nero non arrivava.
L’umanità sarebbe sopravvissuta, ancora una volta. E avrebbe
voluto delle belle sirene, mezzoumane, magari capaci di parlare.
Ecco cosa stava facendo Samuel. Le stava insegnando a parlare.
Bravo Samuel.
Forse avrebbero dovuto amputargli il mignolo.

Quello che faceva impazzire i consumatori di carne di sirena,


come gli yakuza sapevano, era il gusto umami.
Il quinto gusto. Conosciuto e sconosciuto allo stesso tempo. E
di colpo, tanto di moda da diventare una droga. Anche gli
yakuza ne andavano pazzi.
Le ragazze come Sadako avevano in borsa lo spray di
soluzione umami da spruzzare su piccoli fogli di carta filtro, o
direttamente sulla lingua.
Qualcuno degli yakuza di basso rango, occidentali, dopo aver
mangiato carne di sirena accusava senso di soffocamento, mal di
testa, eritema su collo e braccia. E i gaijin asmatici rischiavano
di vedersela brutta, con i bronchi di colpo ridotti a una spugna
strizzata.
Ma il resto dei clan s’ingozzava notte e giorno di sirena cruda
condita con alga konbu, con funghi shiitake. Con fiocchi di tonno
bonito e salsa di soia.
L’umami – l’ubriacatura di acido glutammico – sembrava
toccare un’area del cervello differente dagli altri gusti.
Stimolava una zona diversa della lingua.
Il contenuto dello stomaco di una sirena selvatica, catturata in
mare aperto e usata per esperimenti, aveva svelato molto presto
il segreto del gusto meraviglioso delle carni della specie:
un’alimentazione ricchissima di alghe, con il plancton solo come
seconda scelta. La specie poteva, per necessità, diventare
carnivora. Onnivora, persino. Il condizionamento ormonale lo
aveva provato. Ma in natura, i denti affilatissimi delle femmine
servivano solo a uccidere i maschi.
Certo, le sirene da allevamento avevano un gusto un po’
diverso da quei primi, deliziosi esemplari selvaggi, ma erano
passati anni e il “vitello”, la sirena di vasca, ormai era lo
standard.

Samuel tenne Mia legata in fondo alla piscina per settimane,


nutrendola con cibo per pesci, telline d’oceano e alghe raccolte
in spiaggia, di notte. Il gonfiore dei tatuaggi si era riassorbito
quasi subito, la pelle, intorno ai kanji, era tornata alla naturale
sfumatura biancoargento.
Per Mia si avvicinava il momento dell’estro. Era sempre
docile, ma stava cambiando. A volte cercava di morderlo, poi
sprofondava in una strana letargia. Forse, come spesso nella
specie, era già fertile. La monta mancata l’avrebbe resa crudele.
Samuel cercava di insegnarle a parlare.
Sapeva che era un’impresa disperata. Anche se l’apparato
fonatorio di Mia era in apparenza umano, non voleva dire che la
sirena fosse in grado di parlare. Di sicuro mancava qualcosa, nel
dna o nel cervello. O così gli diceva Hassan. Che aveva ragione,
probabilmente. Come sempre.
Ai tentativi di Samuel, Mia rispondeva con i suoi soliti versi
rauchi, sgraziati, simili al richiamo delle foche, o alle strida dei
gabbiani.
Samuel aveva cominciato ad assentarsi dai turni per tornare
alla villa, a controllare che fosse tutto a posto. E le sue assenze,
prima o poi, avrebbero insospettito i vertici yakuza. O anche solo
Ken’nosuke. Anche se non avessero collegato il suo
comportamento alla scomparsa della bellissima mezzoalbina,
avrebbero pensato che era stato contagiato.
Un’ipotesi anche peggiore della prima. Lo avrebbero sbattuto
in ospedale, e a quel punto il contagio sarebbe stato inevitabile.
La settimana successiva, agli impianti ci sarebbe stata la
nuova visita dermatologica. La volta scorsa, a fine visita, uno
degli addetti alla macellazione era stato portato in ospedale.
Non l’avevano più visto.
Lui e Ken’nosuke non avevano commentato la faccenda.
Di queste cose era meglio non parlare.
16

Mia ripeté il suo verso da foca.


Forse dovrei ucciderla, pensò Samuel. O liberarla, stanotte
stessa, in mare aperto.
Il terrore di Samuel era che fosse Hassan a sbarazzarsi di
Mia, avviandola all’oceano o vendendola al mercato nero,
mentre lui era agli impianti o dormiva sul divano sfondato del
piano superiore della villa, con la macchia mobile della piscina
nel buio sotto di lui.
Se Sadako fosse stata ancora viva, Hassan lo avrebbe già
fatto. Ma Sadako era morta. Se fosse stata viva, lui non avrebbe
mai montato una sirena insieme agli altri maschi, schiacciando
la mezzoalbina madre contro il bordo della vasca, spargendo
seme umano nel suo corpo, mandandola, poco dopo, al macello.
L’arrivo di Hassan lo distolse dai suoi pensieri. Aveva con sé la
solita borsa termica, piena, stavolta, di avanzi di un party
yakuza.
Dal suo posto di osservazione nel bosco, Ken’nosuke registrò
l’arrivo di Hassan. Puntuale come sempre. Hassan aveva cercato
di convincere Ken’nosuke a fare un piano per salvare Samuel,
ma Ken’ aveva dichiarato di non volersi immischiare.
Alla villa, Hassan si era inginocchiato sul bordo della vasca e
si era spalmato i polpastrelli di pasta di ricci di mare. Mia venne
in superficie e cominciò a leccargli le dita.
A tempo debito, Ken’nosuke avrebbe fatto rapporto anche su
Hassan. Guardò meglio attraverso i binoculari, ammirando i
tatuaggi sul corpo di Mia, i kanji identici a quelli di Sadako.
Quando aveva capito per quale motivo Samuel si era immerso
nella vasca insieme alla sirena, qualche settimana prima,
Ken’nosuke aveva pensato che fosse impazzito, ma poi,
segretamente, gli aveva dato ragione. Il corpo di Mia adesso era
un’opera d’arte, come era stato quello di Sadako.
Le sirene gli facevano ribrezzo, sin dall’infanzia, e ancora di
più da quando lavorava agli impianti, ma Mia era mezzo umana.
Sempre inginocchiato sul bordo della vasca, Hassan prese il
muso di Mia tra le mani. A volte imitava i tentativi di Samuel di
insegnarle a parlare.
Mia, disse Hassan, con dolcezza. Mia.
Ebbe in risposta quel verso duro, di gola. Sempre lo stesso.
Ken’nosuke aggiustò il fuoco dei binoculari.
Mia si era immersa di nuovo, e Hassan e Samuel avevano
coperto la piscina per la notte. Col buio, lasciavano la sirena
libera, perché i muscoli non le andassero in atrofia.

Quando Samuel arrivò agli impianti, fu il più anziano degli


addetti alla macellazione a dirgli che la routine della visita
dermatologica era cambiata di nuovo.
Le date non sarebbero più state fisse, ma a sorpresa. E la
visita sarebbe stata molto, molto più approfondita. Le condizioni
dell’epidemia, che infuriava più che mai, non consentivano di
fare altrimenti.
Così avevano detto i vertici. Che indubbiamente avevano
investito in nuovi e sofisticati apparecchi diagnostici, come lo
skin scan e il dermat.
Samuel si strinse nelle spalle. Dall’espressione di Ken’nosuke,
era chiaro che aveva già ricevuto la buona novella.

Il giorno dopo, Hassan era stato ucciso.


Alla villa, Samuel lo aveva atteso fino a poco prima dell’alba,
l’ora di avviarsi agli impianti per il primo turno. Hassan non era
venuto. Forse aveva solo avuto un contrattempo, ma a quel
punto, Samuel non aveva scelta. Doveva andare a cercarlo.
Mia aveva alzato il suo verso gutturale, come se si rendesse
conto che c’era qualcosa di strano. Poi si era rintanata sul fondo
della parte di piscina coperta. Samuel si era immerso e l’aveva
imprigionata con le cinghie elettriche per il nuovo giorno. Prima
di legarla, le aveva sparso davanti una dose di cibo più
abbondante del solito e aveva atteso che terminasse il pasto.
Qualcosa gli diceva che Mia avrebbe dovuto accontentarsi, per
un po’.
Non sapeva se, o quando, sarebbe tornato.
Era riemerso nell’aria fresca della notte che svaniva, senza
sentirne la dolcezza. Aveva preso il suo pass per il labirinto dei
resort e una scorta di biacca, e si era diretto verso Underwater a
piedi, passando per la spiaggia.
Già da lontano, aveva visto il fumo.
Qualcuno aveva dato fuoco al beach club. Questa volta per
davvero. Non si era accontentato di un perimetro di fuoco a
forma di stella. La vecchia struttura era divampata in un falò tra
le urla e le grida di acclamazione dei moribondi sulla spiaggia,
rinchiusi nei recinti a due passi da quella che un tempo era stata
la tana di altri come loro.
Nessuno sapeva chi fosse stato. Un vagabondo con una tanica
di benzina, o forse i seguaci di qualche culto millenarista, di
quelli per cui il beach club era stato un posto di perdizione. O
forse il suo amico Hassan aveva voluto suicidarsi, con una pira
funebre degna di un eroe greco.
Ma Hassan, Samuel lo sapeva, non era tipo da suicidarsi.
Si diresse verso i bunker Megaï. Forse lì avrebbe trovato una
risposta.
Aveva una copia contraffatta della card che apriva il bunker
di Hassan. Si erano sempre usati queste cortesie – e precauzioni
– reciproche.
Quello che Hassan chiamava il suo buco sembrava disabitato.
Samuel accese il proiettore sopra il letto. Le pareti si coprirono
del blu dell’oceano, il rumore del mare filtrò attraverso
l’impianto.
Il Megaï era un bel posto, con un effetto acquario che a
Samuel non dispiaceva. Gli ultimi giorni prima della morte di
Sadako, prima del suo trasferimento in ospedale, Samuel aveva
schermato le finestre del loro appartamento con delle tende
azzurre, verdi, qualsiasi cosa potesse bloccare la luce del sole e
dare a Sadako l’impressione di essere sott’acqua.
Il letto era privo di lenzuola. Hassan soffriva d’insonnia. Non
aveva incubi, come Samuel, semplicemente non dormiva. Il suo
corpo, negli ultimi tempi, aveva dimenticato come si fa a
dormire. Non sembrava nemmeno accusare la stanchezza.
Il frigo del bunker era semivuoto, e comunque, pensò Samuel,
in condizioni migliori del suo. Ma questo non voleva dire niente,
Hassan non cenava mai al bunker.
Samuel, forse, non avrebbe mai saputo cos’era successo
veramente. Il suo vecchio amico aveva molti affari con la yakuza,
molti conti in sospeso. E certo, Hassan poteva averlo tradito.
Lì al Megaï, Samuel ne fu certo. Hassan era stato ucciso.
Si sentì come se gli avessero dato un pugno nello stomaco,
come se fosse steso sul pavimento e lo stessero prendendo a
calci, come aveva fatto una volta Jack. Il dolore gli era entrato
nello stomaco, poi nelle ossa, e lì era rimasto.
Se non era già morto, allora Hassan era nella sala di torture
di qualche centro di comando yakuza. Nel qual caso avrebbe
parlato, e presto sarebbero arrivati a lui e Mia.
Doveva fare presto. Il bunker era certamente sotto controllo.
Ma la sua amicizia con Hassan era nota alla yakuza. Samuel
aveva denunciato la card contraffatta. Il codice di apertura non
era stato toccato.
Si aspettavano una sua visita. O non se ne curavano affatto.
La strategia della yakuza era tanto chiara quanto
indecifrabile.
Per qualche giorno, pensò Samuel, non poteva tornare da
Mia. Se nessuno aveva notato i suoi strani movimenti finora – se
era stato così incredibilmente fortunato – sicuramente li avrebbe
notati adesso.
Fortunatamente la yakuza lo considerava uno sbandato. Tutti
dicevano che la morte di Sadako gli aveva toccato il cervello. Era
vero, ma adesso giocava a suo favore.
Doveva tornare agli impianti. Il prima possibile. Subito.
Mia aveva cibo a sufficienza. Non avrebbe sentito la sua
mancanza, non più di un cane, gli sembrò di sentire nella testa
la voce di Hassan.

La visita dermatologica sarebbe stata quel giorno stesso. La


buona novella era stata rapida e inesorabile.
Gli altri erano già in fila. Gli addetti alla macellazione. Il bel
Ken’nosuke con i suoi vent’anni, che si tormentava i lunghi
capelli neri attorcigliandoli alle dita.
C’erano anche i tecnici veterinari, che avevano sempre
qualcosa di urgente da fare quando venivano agli impianti e di
solito si presentavano alla visita per ultimi.
E Ken’nosuke, Samuel lo sapeva, stava solo facendo finta di
essere nervoso. Ken’ si faceva controllare privatamente, da un
medico disposto a tacere in caso di necessità. In questo modo,
stava esaurendo i soldi che aveva messo da parte con i piccoli
incarichi che i vertici gli affidavano fuori turno, ma almeno, se
fosse stato contagiato, poteva giocare d’anticipo.
I valori di Samuel sarebbero stati alterati per la stanchezza,
ma non era questo che lo preoccupava. I medici della yakuza
non sbagliavano mai. Non potevano permetterselo.
Skin scan e dermat, stavolta. Ogni centimetro del corpo.
Ken’nosuke entrò e uscì nel giro di pochi minuti. A Samuel
sembrò che uscendo lo fissasse a lungo, con una specie di pietà.
Ma era il suo turno e non aveva tempo di fare domande.
17

Il corpo di Hassan galleggiava nelle acque estreme della


riserva marina, ai confini con l’oceano libero.
Il sole aveva sciolto completamente lo strato di biacca e
finalmente gli divorava la pelle che nella morte era diventata
quasi trasparente.
Era nudo. I segni della tortura gli coprivano il torace e le
braccia.
Lo avevano preso fuori dal bunker, nel miglior bordello
yakuza. Era con una sirena, una nuova appena arrivata nelle
vasche. Una vacca da latte al confronto di Mia, con il derma
verde chiaro butterato di cicatrici e occhi vacui, ma pur sempre
carne di mare.
Hassan aveva visto gli uomini della yakuza a bordo vasca e
aveva capito. Aveva morso a sangue il collo della sirena, per
portarsi quel sapore in bocca nella morte.
Ai suoi torturatori aveva chiesto di essere gettato nell’oceano.
Gli spazzini del mare avrebbero fatto pulizia del suo corpo. Non
gli era mai piaciuta l’idea di essere cremato.
La yakuza aveva accettato.
Le acque in cui avevano abbandonato il corpo di Hassan,
dopo averlo torturato e ucciso, erano ricche di squali. Sarebbe
diventato, anche lui, carne di mare.

Samuel entrò nell’ambulatorio degli impianti. C’era una


dottoressa nuova, giapponese, capelli neri densissimi e lunghi.
Portava il camice bianco su un kimono tradizionale, stretto in
vita dall’obi alto.
C’è qualcosa di strano, pensò Samuel. La yakuza non cambia
mai i suoi medici.
Sentì il corpo che gli si copriva di sudore dalla testa ai piedi.
La dottoressa, per qualche ragione che non riusciva a capire, gli
dava i brividi.
Sarà sorpreso, immagino, disse lei invitandolo a stendersi sul
lettino, di vedere una donna.
Samuel fece segno di no con la testa, cominciando a
spogliarsi.
La yakuza normalmente preferisce specialisti di sesso
maschile, proseguì la dottoressa, ma nel mio caso è stata fatta
un’eccezione. Prego, si accomodi. Il suo vecchio medico ci
raggiungerà tra poco.
Samuel si stese sul lettino.
Vede, disse la dottoressa, facendo scattare le cinghie
elettriche intorno ai polsi di Samuel, io sto facendo ricerche
molto approfondite sul cancro nero. Torno adesso da un
congresso a Johannesburg, in Sudafrica.
Dove tre quarti della popolazione afrikaaner sono già morti,
pensò Samuel.
La donna indossò dei guanti di plastica trasparente, seconda
pelle, e gli passò le dita sul cranio. Samuel sentì come una
scossa elettrica.
Sono stata convocata qui per dare un secondo parere.
Su cosa?
Su di lei, Samuel. Abbiamo la fondata certezza che il suo
medico ci abbia mentito.
Mentito?, ripeté Samuel, come se ci fosse bisogno di altro per
capire.
La dottoressa in obi afferrò Samuel per la nuca, bloccandogli
la testa sul lettino.
Ha alterato la sua cartella clinica.
Samuel sentì un filo di bava colargli dalla bocca,
incontrollabile, e un improvviso bruciore violento in tutto il
corpo. Urlò, si contorse sul lettino. Le cinghie si serrarono
contro la sua pelle.
La dottoressa aveva pronto in mano lo shot di narcotico, lo
stesso anestetico che usavano sulle sirene. Con i contagiati non
era il caso di andare tanto per il sottile. Conficcò la siringa nel
braccio di Samuel e osservò i muscoli che si rilassavano a forza
sotto l’effetto del farmaco.
Il giorno che Samuel aspettava da tanto tempo, da quando
Sadako, prima di lui, era stata condannata a morte, era giunto.
Ma non adesso, non adesso, pensò Samuel disperatamente,
prima di perdere i sensi.
Due addetti alla macellazione sollevarono il lettino con sopra
il corpo di Samuel.

Il dermatologo degli impianti conosceva da tempo la diagnosi,


e aveva voluto proteggere Samuel, per il poco tempo che gli
restava. Fototipo I. Il vecchio medico sapeva bene che Samuel
era un isolato, che il rischio che contagiasse qualcuno era
minimo. Al momento giusto, gli avrebbe offerto uno shot di
veleno. O forse Samuel avrebbe preferito un’overdose di
narcotico per sirene. C’erano tanti modi per morire.
Samuel riprese i sensi. Si trovava in una sala sotterranea
degli impianti, adibita a ricovero e detenzione temporanea per i
contagiati. Era lì dentro che era sparito l’addetto alle pulizie di
cui lui e Ken’nosuke non avevano mai parlato.
Era ancora legato con le cinghie al lettino.
Quanto mi resta da vivere?
Una, due settimane prima che appaiano i sintomi. Poi mi
esporranno al sole nero sul terrazzo di qualche ospedale per
accelerare la morte. Anche prima, forse, se hanno scarsità di
letti. Se l’epidemia conoscerà un’altra stagione.
Doveva fuggire dagli impianti. Poteva sperare in un blackout,
erano sempre più frequenti a mano a mano che i servizi di
manutenzione delle centrali di energia perdevano uomini.
Difficile che qualcuno venisse a liberarlo. Hassan era
sicuramente morto. Ken’nosuke, forse? Ken’? Puoi sentirmi?
Ma era solo la sua mente a gridare, la voce restava strozzata
tra le corde vocali. Quello che gli uscì di bocca sembrava il verso
da foca di Mia.
I contagiati non avevano più privacy né vita propria. Qualsiasi
cosa gli appartenesse veniva minuziosamente ispezionata per
tradire altri possibili casi infetti. Avrebbero ricostruito i suoi
spostamenti e quelli di Hassan, e avrebbero trovato Mia.
L’avrebbero riportata agli impianti, macellata a tempo di record.
Se non l’avevano seguito, spiato. Se Mia non era già nelle loro
mani.
Ken’nosuke.
Ken’nosuke.
L’angoscia accelera il decorso del cancro nero. L’aspettativa di
vita di Samuel si andava riducendo a ogni istante.

Era stato Ken’nosuke a liberarlo. Aveva tagliato le cinghie del


lettino, gli aveva dato da indossare una tuta protettiva nera,
anonima, gli aveva piantato uno shot di ricostituente mescolato a
un anestetico nel braccio e gli aveva fornito una scorta di biacca
– non per evitare il contagio, ma per rallentare il distacco del
derma – un guinzaglio e una frusta elettrica. Come armi, aveva
detto Ken’nosuke. Sembrava volersi scusare di non aver trovato
di meglio.
Samuel prese il guinzaglio e si arrotolò la frusta elettrica
impermeabilizzata intorno alla vita.
Ken’nosuke aveva allontanato gli addetti alla macellazione e i
tecnici veterinari con un diversivo, liberando in acqua due
femmine e un maschio sacrificabili, di scarso pregio. Ora stava
conducendo Samuel per uno dei condotti di servizio che davano
fuori, sulle piattaforme esterne. Col cancro nero già in corso,
Samuel poteva tranquillamente raggiungere la spiaggia a nuoto.
Davanti all’oblò di uscita della paratia, si salutarono.
Samuel si tuffò.
L’oceano addosso, il sapore, l’odore, la consistenza morbida e
placentare dell’acqua. Fece le prime bracciate. Da quanto
tempo, riuscì a pensare.
Nuotò il più possibile sott’acqua, per sfuggire alla squadra di
recupero che era uscita in mare sulle tracce delle femmine di
sirena e del fuco maschio. Non l’acqua, ma l’aria sembrava
soffocarlo.
L’avrebbero spiato, l’avrebbero seguito, questo era certo.
Volevano arrivare a Mia. Erano già arrivati a Mia. La fine era
scritta, comunque. Cancro nero per lui. Vitello di sirena, per
Mia.
Ken’nosuke era un traditore. Ma grazie a lui, era fuori.
Aveva una possibilità.

Doveva esserci stato un corto circuito, alla villa, e Mia era


riuscita a liberarsi dalle cinghie elettriche.
Era salita in superficie, si era issata a forza di braccia fuori
dalla vasca. Era rotolata fuori dalla piscina, e ora stava
agonizzando a due metri dal bordo.
Le sirene potevano restare anche a lungo fuori dall’acqua,
purché si immergessero o almeno bagnassero la pelle
regolarmente. Quasi-mammiferi, non avevano bisogno di
riemergere per respirare ossigeno, a differenza di dugonghi e
delfini, anche se potevano farlo. L’acqua, e non l’aria, era
l’elemento vitale. Agli impianti avevano fatto esperimenti in
questo senso.
Il sole infuocava l’aria, e Mia era svenuta per il caldo. Quando
aveva ripreso i sensi, dopo ventiquattr’ore, era troppo debole
per riuscire a ritornare in acqua.
Nel frattempo, il cortocircuito si era esteso. L’acqua era stata
risucchiata nelle condotte interne della piscina. Adesso si vedeva
il fondo, piastrelle blu con un mosaico che riproduceva, azzurro
su bianco, il simbolo del Tao. La paratia con l’oceano era
ermeticamente serrata. Non c’era tempo di riattivare l’impianto,
non adesso.
Samuel prese tra le braccia Mia agonizzante, con uno sforzo
atroce, e la portò dentro casa.
Il bagno privato di Hassan. La grande vasca Jacuzzi.
Samuel girò la manopola, pregò che funzionasse. L’impianto
era miracolosamente intatto. L’acqua riempì la vasca a una
velocità incredibile, l’idromassaggio partì in automatico. Samuel
gettò Mia nella vasca. Le squame e la pelle si ravvivarono, la
lingua, sbiancata, riprese il colore verde cupo naturale, il
sangue scuro riaffluì alle labbra.
Mia riaprì gli occhi. Fece il suo solito verso, poco più di un
gemito.
Samuel entrò nella vasca. Mia galleggiava senza forze,
stremata. Il seno era gonfio e durissimo. Ancora pochi giorni e
sarebbe entrata in estro, pensò Samuel senza quasi rendersene
conto.
Mia, disse a voce alta.
La mezzoumana guaì, rovesciò la testa all’indietro, scoprendo
la gola.
La mente di Samuel era spaccata in due, i pensieri stessi si
laceravano. Non era più lucido. Gli sembrò di sentire la voce di
Sadako, quella di Hassan, che si mescolavano nel suo cervello.
Mia guaì di nuovo, più forte. La lingua tremava, batteva
contro i denti, il palato si contraeva.
Samuel le prese il muso tra le mani. Qualcosa le vibrava nella
gola.
Shhh–
Sss–
S–a–a
m–u.
S–a–m–u–u.
Samuel.
Forse se l’era immaginato.
No.
Mia gli stava parlando.
S–a–a
m–u.
S–a–m–u–u.
Era poco più che un guaito, e certamente Mia non
comprendeva il concetto di nome. Ma era lui quella sequenza di
esse e di vocali sfiatate.
Mia era esausta.
Lo sforzo l’aveva sfinita, doveva recuperare le forze.
Samuel cercò di alzare il livello dell’acqua, la potenza delle
onde finte dell’idromassaggio. A Mia avrebbero ricordato
l’oceano, forse. Ma lei era una sirena nata in cattività. Dov’era il
suo istinto, fin dove arrivava la parte animale?
La scena a cui aveva assistito non significava niente. I cacatoa
facevano di meglio.
Ricordò gli occhi della mezzoalbina, la sensazione deliziosa
della monta. Somigliava a Mia, aveva un corpo identico, ma non
era umana.
Mi è andato il cervello in pappa, pensò Samuel, e poi non
riuscì più a pensare. Premette il corpo della sirena contro il suo.
Mia gli sfregò la pelle con i denti, con delicatezza, una specie di
ringraziamento. Guaì debolmente.
Samuel sentì il calore dell’acqua, del corpo di Mia che
ondeggiava contro il suo, duro e pesante, carne compatta e
luminescente al buio, umana e animale. La vista gli si
annebbiava. Biancoargento e kanjii. La pelle di Mia, tatuata
come quella di Sadako.
Cercò di montarla. Mia urlò, si contorse, gli morse a sangue
una spalla lacerando la carne. In condizioni normali lo avrebbe
ucciso all’istante, ma era indebolita dalla lunga permanenza
fuori dall’acqua.
Samuel riuscì ad afferrare il guinzaglio, fuori dalla vasca.
Legò le braccia dalle mani palmate di Mia dietro la schiena. Col
guinzaglio le diede una debole scossa elettrica. Mia continuava a
dibattersi. Samuel prese la frusta.
Colpì Mia una, due, tre volte, alzando ogni volta l’intensità
della scossa. Mia si contorse nell’acqua bassa e calda. Digrignò i
denti. Samuel le mise una mano sulla bocca e lei lo morse
ancora e ancora, facendo sprizzare il sangue. Non gli importava,
non sentiva dolore. Lo shot di anestetico che gli aveva iniettato
Ken’nosuke non aveva ancora terminato il suo effetto. Slacciò la
tuta protettiva, le aprì la vagina con le dita e le entrò dentro.
18

Samuel era svenuto. Riaprì gli occhi. Mia, sotto di lui, era
legata e insensibile. Sentì un movimento sul corpo, rivoli
d’acqua calda che defluivano sul fondo della vasca. Il livello
dell’acqua, che già si era ridotto a pochi centimetri, presto
sarebbe sceso a zero.
Qualcuno aveva azionato i comandi della Jacuzzi.
Ken’nosuke, sulla porta del bagno privato di Hassan, li stava
guardando. Più vicino, e intorno a lui, una squadra yakuza.
Bravo Samuel. Che bello spettacolo.
Ci hai fatto strada.
La vasca si svuotò del tutto.
Samuel era ancora incastrato nel corpo di Mia. Il legamento
della copula, si chiamava. Non si sarebbe liberato tanto presto,
lo sapeva, non prima di una mezz’ora. La vagina di una sirena si
apre facilmente solo nel vero estro. Era un problema che i
frequentatori dei bordelli yakuza conoscevano bene. Gli
estrosimulatori erano stati inventati per questo – oltre che per
sopprimere l’istinto assassino nella specie.
Ken’nosuke non sembrava avere fretta, e neanche i suoi
uomini.
Si sedette sul bordo della vasca, fumando una sigaretta.
Afferrò Samuel per la nuca.
L’hai tatuata come Sadako.
Mia aveva gli occhi chiusi, la bocca semiaperta. I denti di
madreperla affilata sporchi di sangue, lo stesso che colava dalla
spalla di Samuel.
Credevo tu fossi un animalista, proseguì Ken’nosuke. Uno del
Mermaid Liberation Front.
Smettila, riuscì a dire Samuel. Sentiva un riflusso di sangue in
bocca.
Più tardi, staccarono i corpi.

Ken’nosuke gli descrisse in dettaglio la tortura e la morte di


Hassan.
Non l’aveva ucciso lui personalmente, disse, ma aveva seguito
attentamente il tutto.
Il corpo di Hassan ora galleggiava nell’oceano.
Samuel sentì che il sangue in bocca cambiava in vomito; poi,
all’idea dell’oceano, provò un improvviso senso di sollievo.
Hassan voleva essere sepolto in mare.
Gli uomini di Ken’nosuke presero Mia, sempre priva di sensi.
Non la slegarono, per maggior sicurezza.
Nel parco auto della villa spiccava un furgone con vasca
container. Riempirono la vasca con l’acqua dell’oceano e ci
calarono dentro Mia.
Anche tu vieni con noi, disse Ken’nosuke gentilmente. Tese un
braccio guantato fino al gomito per aiutare Samuel, con la tuta
protettiva appiccicata al corpo che grondava acqua, ad alzarsi, e
con un sorriso ironico gli passò un asciugamano di spugna
bianca, morbidissimo, con il monogramma di Hassan. Strano che
ne fosse rimasto ancora qualcuno negli armadi del bagno, con
tutte le razzie che aveva subito la villa.
Avanti, Samuel. Sbrigati.
Perché mi hai liberato?
Volevo farti un favore.
La risata di Ken’nosuke era sempre stata atroce, rovinava la
sua bellezza. Si attorcigliò i lunghi capelli neri alle dita sottili.
Ammazzami, Ken’. Avrai una medaglia o qualcosa del genere.
La yakuza sa essere generosa.
No. Ho istruzioni di riportarti agli impianti.
Due uomini della yakuza in tuta anticontagio presero Samuel
sotto le braccia, lo aiutarono a uscire. Il furgone con Mia sopra
si era già allontanato.
L’auto di Ken’nosuke era in pieno sole, perfettamente
blindata. Dentro faceva fresco.
Samuel prese posto sul sedile davanti. Dietro di lui, i due
della yakuza gli puntavano i mitra alla testa.
Ken’nosuke mise in moto.
Poi aggiunse, sai una cosa, Samuel? Io non ne avrei avuto il
coraggio.

Mia non parlava. Qualunque stronzata avesse raccontato


Samuel al giovane Ken’nosuke, la mezzoalbina non parlava. I
vertici yakuza erano stati troppo ottimisti. Del resto, che altro
potevano aspettarsi?
Non era nemmeno entrata in estro, anche se ormai era
sessualmente matura. Le sue reazioni non erano standard. La
mezzoalbina, o mezzoumana, qualsiasi cosa fosse, sembrava
sotto shock.
Restava immobile sul fondo della vasca e rifiutava il cibo.
Avevano provato a convincerla a colpi di frusta elettrica, ma
senza successo. Era stato necessario ricominciare a nutrirla col
tubo, come una neonata.
Riprovare con il condizionamento ormonale? Farne vitello?
Ma sarebbe stato un peccato sprecare un esemplare così
bello, con dentro il sangue di Samuel e il suo prezioso dna. Non
tutti hanno il coraggio di scendere nella vasca con i maschi
durante una monta.
E non erano più i tempi degli ibridi da laboratorio. Il cancro
nero aveva decimato la comunità degli scienziati. Le priorità
erano altre.
Come sempre nella ricerca scientifica, doveva esserci una
chiave. E sicuramente, Samuel aveva la chiave. O forse, Samuel
era la chiave.
Avevano tutto il tempo. Tranne che per un piccolo particolare.
Samuel stava morendo.
Gli restava un mese al massimo. Senza cure, una, due
settimane.
Agli impianti, avevano messo Samuel in stato di narcosi per le
prime ventiquattr’ore, il tempo di sottoporre il suo corpo a un
check-up completo. Il suo organismo stava lottando
disperatamente con il cancro nero.
Avevano valutato l’ipotesi di sottoporlo al cosiddetto scrub,
come veniva chiamato in gergo medico. La sostituzione completa
degli strati superficiali del derma. Non era una terapia, ma
allungava la vita. Si poteva arrivare a tre mesi. Ma non valeva la
pena. Samuel sarebbe probabilmente morto durante
l’operazione, e il derma nuovo veniva dal mercato clandestino
degli organi. Era merce rara e molto, molto preziosa.
Tuttavia, prima di morire, Samuel doveva fare un’ultima cosa.
Provare che la mezzoumana poteva parlare.
La yakuza aveva formulato la sua richiesta in termini molto
semplici, per bocca di Ken’nosuke. Se Mia parla, è troppo
preziosa per essere mandata al macello. Ibrideremo il suo dna
con nuovo dna umano. Se non è sterile, la useremo come utero,
altrimenti come serbatoio di cellule. Morirà di vecchiaia, aveva
detto Ken’nosuke a Samuel. E la nuova specie di ibridi di sirena
ti sarà grata in eterno.
Ma se non parla, è solo un pezzo di vitello tatuato. Presto
passerà il momento migliore per la monta e il macello, quando le
carni sono più tenere. Ci resta poco tempo.
Samuel, naturalmente, aveva accettato.

Lo calarono nella vasca con Mia, legata con le cinghie


elettriche. Staccarono il tubo di alimentazione dalla bocca della
sirena e voltarono il corpo verso Samuel. Mia aveva recuperato
le forze. Aveva nuovi strati di grasso e la pelle splendente.
Mia, disse Samuel. Sono io.
Nessuna risposta.
Mia chinò la testa e la massa muscolare dei capelli le coprì il
viso. Samuel allungò le dita verso di lei, aspettandosi da un
momento all’altro che il morso della sirena gliele staccasse di
netto. Ma non accadde. Mia si limitò a voltare il viso dall’altra
parte, schivando il tocco di Samuel.
Da dietro le vetrate della postazione di controllo, Ken’nosuke
stava osservando la scena. Fece un segno a uno dei tecnici
veterinari fermo a bordo vasca e quello afferrò Mia per i capelli,
con le mani coperte da guanti di plastica, e le bloccò la nuca in
un collare a morsa. Mia non reagì.
Così va meglio, disse Ken’nosuke nell’altoparlante.
Samuel si avvicinò alla sirena prigioniera. Gli occhi di Mia
erano vacui, privi di espressione. Di colpo, gli sembrò che sulla
pelle biancoargento, i kanji di Sadako avessero un che di
grottesco.
Mia. Sono io, Samuel, sussurrò.
Nessuna risposta.
Samuel provò a imitare il sibilo sfiatato con cui una volta lei
gli aveva parlato.
Shhh–
Sss–
S–a–a
m–u.
S–a–m–u–u.
Samuel.
Niente. Se c’era stato in Mia qualcosa di diverso da una
comune sirena da carne e da latte, era scomparso.
19

Samuel tentò per giorni e giorni, in tutti i modi, di far parlare


Mia. La yakuza gli aveva garantito ampia disponibilità di mezzi.
Ken’nosuke era molto collaborativo. Era stato appena promosso
quadro, e teneva al successo dell’impresa.
In un certo senso, ti devo tutto, aveva detto Ken’nosuke a
Samuel. A te e alla mezzoumana. Non mi deludere.
La notte, Ken’nosuke si premurava personalmente di chiudere
Samuel in cella di isolamento.
Samuel si augurava che Mia cantasse, anche se non poteva
udire il richiamo ultrasonico, che quella vibrazione penetrasse
nel suo corpo, li riavvicinasse in qualche modo. Ma secondo i
display sulla vasca, e gli elettrodi collegati giorno e notte al suo
corpo, Mia non cantava.
Samuel non dormiva. Dormire era inutile. Anche con tutte le
cure interessate della yakuza, gli restavano solo pochi giorni di
vita. Come Hassan, aveva chiesto che il suo corpo fosse disperso
in mare. Anche le ceneri di Sadako si erano mescolate al mare
aperto.
L’oceano li avrebbe accolti entrambi.

Samuel pensò di uccidersi. Poteva anestetizzarsi a morte con


il narcotico per sirene, se solo fosse riuscito a mettere le mani su
una dose sufficiente. Sarebbe stata una morte dolce. Ma sperava
ancora di suscitare una reazione in Mia.
I tre giorni successivi furono un fallimento totale. Mia
continuava a rifiutare il cibo. Forse era la sua parte umana che
stava tentando di uccidersi? O semplicemente la reazione di un
animale che rifiuta la cattività?
Gli yakuza volevano risposte. Ken’nosuke più di tutti.
Avrebbero torturato Samuel davanti a Mia. Forse lo
considerava uno della sua specie, del suo branco, e avrebbe
avuto una reazione. Di violenza, o di terrore.
Dalla vasca di isolamento, Mia godeva di una vista perfetta sul
letto di tortura. La bloccarono contro la parete, perché non
potesse immergersi e restare sul fondo vasca.
Mia ormai era abituata alle cinghie.
Fecero venire un maestro torturatore dal resort suboceanico.
Era un onore, e Samuel avrebbe saputo apprezzarlo.
Il maestro torturatore era un uomo tarchiato, sulla
cinquantina, con mani bellissime. Ken’nosuke si inchinò con
grazia e rispetto davanti a lui. L’uomo ricambiò con un inchino
appena accennato. Ken’nosuke era un pesce troppo piccolo. Lui
era abituato ai grandi capi.
Condotto davanti al maestro, Samuel cercò di inchinarsi,
risultando goffo, come sempre, in quel gesto. Il maestro
torturatore lo guardò con disprezzo. Somigliava al vecchio
yakuza di Sadako, chissà se erano parenti? O forse certi uomini
finiscono col somigliarsi comunque.
Samuel non voleva umiliarsi davanti a Mia. Anche tra le
sirene c’erano animali alpha, e lei era un’alpha.
Sin dalla mattina del primo giorno di tortura, l’uomo lavorò
sul corpo di Samuel infliggendo dolore a lungo, sofisticatamente,
in profondità. Samuel, esattamente come voleva il luogo comune,
si augurò mille volte di essere già morto. Lui, comunque, era già
morto.
Mia, semplicemente, chiuse gli occhi.
La yakuza aveva deciso, niente mutilazioni su Samuel. Il ruolo
della vista e dell’olfatto nei meccanismi di identificazione dei
singoli esemplari, all’interno dei branchi di sirene, non era
ancora del tutto chiaro. Alterando la fisionomia di Samuel,
avrebbero rischiato di influenzare negativamente le capacità di
riconoscimento della mezzoumana.
Gli amputarono soltanto l’ultima falange del mignolo della
destra. Samuel sapeva che lo avrebbero fatto. Anzi, era strano
che non lo avessero fatto prima.
Il pomeriggio del primo giorno di tortura, misero a Mia un
divaricatore palpebrale. Gli occhi aperti erano tutti pupilla,
meravigliosi e indecifrabili. La sua espressione era quella di un
vitello da latte.
La mente di Mia, per mezzo umana che fosse, era una terra
perduta.
Con quella bella pelle tatuata mi farò un tappeto, pensò
Ken’nosuke. Era certo che presto la yakuza gli avrebbe trovato
una ragazza come Sadako. Per ora, frequentava i bordelli
migliori. Col suo nuovo grado, era quasi un obbligo. Ma quella
carne coperta di umore continuava a fargli ribrezzo.

Dopo la tortura, Samuel era rimasto in coma alcuni giorni, e


non solo per la perizia del maestro yakuza. Era l’on e off del sole
nero. I contagiati entravano e uscivano dall’incoscienza. Era
successo anche a Sadako. A volte, attraverso il coma,
sopravveniva una morte dolce.
Non appena fu di nuovo in grado di muovere le braccia e le
mani, Samuel si spazzò via i capelli dal cranio. Voleva essere
pulito, pronto alla morte. La ricrescita biondastra che gli copriva
il cuoio capelluto veniva via a passarci la mano sopra. Avrebbe
voluto guardarsi in uno specchio, vedersi diventare simile a
Sadako, com’era stata negli ultimi giorni, osservare su ogni
centimetro di pelle la mutazione del suo corpo.
La pelle si copriva di macchie nere, chiazze mortali di
leopardo, nèi mai visti prima che nel giro di una notte coprivano
un braccio, o mezza gamba. Era come se quel nero seppia, nero
farmaco, rigenerasse il corpo. Un laser sull’intera superficie,
una rinascita ingannevole, una fase ultima, estrema, di vitalità.
Poi, lo strato di cute bruciata cominciava a cadere. Sotto
spuntava una pelle perfetta, bambina – il derma bianco –
meravigliosamente morbida, anche in pazienti anziani, coperti
da mille cicatrici e macchie dell’età. Il corpo si rinnovava
furiosamente sotto il sole tumorale.
I malati sembravano rivivere, ringiovanire. Anche Sadako si
era ritrovata così, nuda e ripulita della sua vita precedente. I
primi pazienti se ne erano meravigliati, quasi rallegrati,
speravano di essere vicini alla salvezza. Si sbagliavano, e ora il
derma bianco era la moby dick del nuovo cancro, la bestia
temutissima, l’ultima apparizione.
Il bianco degli occhi di Sadako aveva assunto una sfumatura
d’oro.
Lui, Samuel, non era ancora a quello stadio. Ma i medici
yakuza avevano rinunciato a fargli lo scrub. Avevano
abbandonato l’accanimento terapeutico. Questo, capì, significava
una cosa sola: condanna a morte anche per Mia. La perdita delle
speranze di farla parlare, di farne una bestia da circo o il
prototipo di una nuova specie di ibridi.
Il meglio che Samuel poteva sperare per Mia, a questo punto,
era che qualche grande yakuza la volesse per sé. Succedeva, a
volte. Vecchi potenti invaghiti di bellissime sirene dal muso di
vacca, dai seni pieni di latte. Forse avevano ragione i fanatici del
Mermaid Liberation Front, i suoi vecchi amici, che veneravano le
femmine di sirena come dèe. Yemanjà-Inaè, in carne dolcissima e
coda di pesce. (Ignoravano i maschi, enormi e lenti, ben poco
adatti a incarnare un dio.) Che dicevano che il cancro nero era il
giorno del giudizio sulla Terra. L’epidemia sarebbe cessata solo
quando l’umanità avesse restituito le sirene all’oceano,
venerandole, mettendosi al loro servizio. Forse aveva ragione Ivy.
Ma di membri dell’MLF in giro ne erano rimasti ben pochi. La
yakuza si era messa d’impegno, soprattutto a Underwater:
sciupavano il giro d’affari di carne e bordelli con il loro
sentimentalismo. Anche l’incarico di Samuel – che pure aveva
fallito – era servito a questo. L’epidemia aveva fatto il resto.
Che cosa sarebbe successo, rifletté Samuel, se gli yakuza
avessero incrociato il dna di Mia, ancora e ancora, con quello di
un essere umano? La mezzoalbina, la madre animale, lo aveva
accolto nel suo corpo senza distinguerlo da un maschio della
specie sirena. Se le due specie potevano mescolarsi –
l’impossibile che nel corpo di Mia era diventato realtà – allora in
realtà erano una. O qualcos’altro ancora.
Samuel sapeva di non avere i mezzi mentali, le conoscenze
per capire fino in fondo, ma la yakuza e i suoi scienziati, se ce
n’erano di ancora vivi, sì. Ormai faceva sempre più fatica a
pensare. Il cancro gli stava mangiando il cervello. Non era più
lucido.
Presto, pensò Samuel, le macchie nere sarebbero scese sulle
sopracciglia e sulla fronte, aggredendo le palpebre da sopra e
da sotto, entrando in profondità nella carne fino a ledere il
nervo ottico, dando al bianco dei suoi occhi una sfumatura d’oro.
Presto sarebbe stato cieco.
20

La tortura su Samuel non aveva funzionato. Mia non aveva


reagito, era rimasta placida come una vacca. Le sirene normali,
senza una goccia di sangue umano in corpo, erano più vitali di
lei.
Era tutto molto sospetto. Forse la mezzoalbina e Samuel erano
d’accordo. Forse si scambiavano messaggi in un codice segreto.
Ken’nosuke era in piena paranoia.
Anche il mancato estro di Mia era sospetto. Ken’nosuke decise
di provare a indurlo artificialmente. Con la monta. Forse,
dicevano i tecnici veterinari, l’esposizione al maschio avrebbe
riscritto i suoi codici ormonali. Niente iniezione di
estrosimulatori, nella monta intraspecie non avrebbe funzionato.
Avevano scelto un magnifico esemplare di fuco, il migliore
dell’impianto. Se Mia fosse stata ingravidata, l’avrebbero fatta
abortire chimicamente. Un feto tre quarti sirena non interessava
a nessuno.
Tre quarti umano, sarebbe stata un’altra cosa.
Ken’nosuke si beava della sua logica. Era una bella mente, lo
dicevano tutti, avrebbe fatto carriera. Vedremo cosa farà Samuel
adesso.
Il maschio era enorme, del colore delle alghe essiccate. Mia
era legata, più strettamente del solito. Le avevano messo anche
il bavaglio in gommacciaio, oltre al divaricatore palpebrale. La
vasca era stata riscaldata a temperatura più che tropicale, un
particolare che facilitava sempre la monta.
Stavolta toccava a Samuel una vista perfetta sullo spettacolo.
Il maschio muggì avvicinandosi alla femmina. Avevano
spruzzato addosso a Mia una soluzione spray di estrogeni di
sirena, perché il maschio la trovasse invitante.
Il maschio leccò l’umore addosso a Mia, era la prima fase
della monta. Lo spray stava facendo effetto. Sarebbe stato il
primo maschio di sirena a sopravvivere dall’inizio della specie.
La vagina di Mia era chiusa, fuori estro. Il maschio avrebbe
dovuto aprirla a forza, come aveva fatto lui, Samuel.
Mia urlò sotto la gommacciaio. Se fosse stata libera, avrebbe
ucciso il maschio.
La monta durò poco. Stavano per staccarsi, quando successe
qualcosa.
L’effetto dello spray stava svanendo, l’odore di Mia, con la sua
strana sfumatura umana, affiorava sotto le molecole di sintesi. I
segnali olfattivi contrastanti confusero il maschio, spingendolo
ad attaccare. A differenza delle femmine, non aveva denti, ma la
forza di quelle mandibole enormi bastò a lacerare la carne di
Mia.
Ken’nosuke diede l’ordine. Il maschio venne abbattuto con
uno shot letale. Il suo corpo enorme galleggiava nella vasca
sporca di sangue verdastro.
I tecnici veterinari fecero scattare le cinghie e defluire la
sirena ferita in una vasca di medicheria.
Attenti, gridò uno di loro alla nuova squadra agli ordini di
Ken’nosuke, che aveva circondato la vasca. Potrebbe essere
pericolosa. Non avvicinatevi. Non toglietele la gommacciaio dai
denti.
Il veterinario capo iniettò a Mia una dose doppia di sedativo.
Il floating bed apparve nell’acqua e i suoi assistenti ci
adagiarono sopra la sirena narcotizzata. Fermarono il sangue
con un altro shot, antiemorragico.
Non appena il flusso verde cupo si fu arrestato, collegarono
gli elettrodi al corpo di Mia.
Valori ai minimi vitali.
Sta morendo.
Nell’ordine subacqueo del mondo, il silenzio era calato sulle
vasche. L’ultrasuonogramma che registrava il canto delle sirene
era piatto. Le compagne da allevamento di Mia avevano
percepito qualcosa. L’odore di morte che veniva dalla vasca di
medicheria.
Le sirene hanno come un sesto senso, sentono quando c’è
qualcosa che non va nel branco, diceva Jack.
Mia venne spostata in isolamento.
La dottoressa in kimono e obi era tornata. Il vecchio medico,
era venuto fuori, era morto da due giorni. Aveva chiesto di
essere disperso in mare, ma la sua richiesta non era stata
esaudita.
Sciocchezze, aveva detto la dottoressa con l’obi. L’oceano non
ci appartiene. Non diffondiamo in lui la nostra morte.
La dottoressa visitò Samuel, accuratamente.
Questa è l’ultima volta. Non ci rivedremo.
No, confermò Samuel.
Le faccio i miei migliori auguri. La donna si era stretta nel
kimono, come se sentisse un brivido.
La vista di Samuel si era già affievolita, aveva perso la
capacità di sentire i sapori e quel poco grasso che aveva sul
corpo.
Era entrato nel derma bianco.

Aveva chiesto il permesso di calarsi nella vasca di isolamento


con Mia, e Ken’nosuke glielo aveva accordato. Le sirene erano
immuni al cancro nero, e Samuel troppo debole per fare qualche
sciocchezza.
Samuel lo ringraziò. Erano stati amici, un tempo, prima di
tutto questo.
Mia era immobile, a occhi chiusi, la bocca semiaperta
succhiava plancton potenziato dall’acqua della vasca, la massa
dei capelli fluttuava. La pelle strappata dal maschio era stata
sostituita con derma sintetico a innesto, più chiaro, e senza
sfumatura argento. Un’operazione delicata, ad altissimo rischio
di rigetto, che riusciva solo per piccole parti del corpo, che si
trattasse di un essere umano o di una sirena.
Aprì gli occhi. Vide Samuel in acqua, abbastanza vicino da
ucciderlo. Samuel prese dal bordo un tubetto di unguento
newskin e se ne spalmò un po’ sulle dita. Il tappo affondò
nell’acqua della vasca. Lentamente sfiorò la pelle di Mia, nei
punti di sutura del derma sintetico a innesto. L’unguento era un
potente antidolorifico e un acceleratore di rinnovamento
cellulare.
Di colpo, Mia afferrò Samuel per la nuca con le mani palmate
e gli sbatté la testa sott’acqua.
La presa gli tolse il respiro.
È adesso. La mia morte è adesso. Sto annegando.
Mia gli tirò fuori la testa.
Samuel, semisoffocato, paonazzo, sputò acqua. Sentì i polmoni
che si dilatavano disperatamente.
Non sono morto.
Gli sembrò di essere già diventato cieco, poi ricominciò a
distinguere luci e ombre, più dense di prima, confuse. Aveva
perso il tubetto di newskin, giaceva insieme al tappo sul fondo.
Allungò nuovamente le dita, e Mia rimase ferma sotto il suo
tocco. Sfiorò i kanji sul corpo della sirena, la lingua dei tatuaggi
che Sadako gli aveva insegnato.
Notò al tatto il cambiamento nei capezzoli. Mia era gravida,
Samuel ne fu certo. Di lui o del maschio, o di entrambi. Le sirene
potevano portare fino a due feti, ma era rarissimo.
I vertici yakuza l’avrebbero scoperto presto. La nuova storia
genetica del mondo sarebbe continuata.
Mia era resistente al cancro nero, come tutta la sua specie. Il
dna di sirena era forse la cura. I corpi della nuova specie di
ibridi, miscelata al giusto grado di homo sapiens, sarebbero stati
immuni? O semplicemente, avrebbero fatto da serbatoio di
staminali di sirena, buone per creare nuova pelle, ritardare la
morte?
Non pensare. Non lo saprai mai, sarai già morto.
Concentrati. Sulla sua pelle. Sul suo corpo.
Sul tuo corpo.
Mia lo stava toccando. Ispezionava il corpo di Samuel come se
fosse stato una fonte di cibo, una tana subacquea, un piccolo di
sirena appena nato. Le mani palmate percorrevano la pelle
devastata di Samuel, che si squamava sotto quelle dita feroci.
Le gambe, più di tutto, la incuriosivano. Si immerse e nuotò
intorno a lui, premendo il muso contro i muscoli delle cosce e
l’incavo delle ginocchia, leccando il corpo di Samuel sott’acqua,
coprendolo di umore al contatto col proprio.
Mia riemerse. Era davanti a lui adesso. Soffiò, sputando
acqua. A Samuel sembrò che cercasse di ricordare qualcosa che
aveva dimenticato. Non riusciva più a vederla, la percepiva
soltanto.
La mente è vapore che si alza da una ciotola di riso.
Mia soffiò ancora, poi emise il suo verso gridato di foca. Dalle
vetrate della postazione di controllo, Ken’nosuke sorrise. Mia
soffiò, contraendo disperatamente il palato, la lingua che
tremava.
Shhh–
Sss–
S–a–a
m–u.
S–a–m–u–u.
Samuel.
E ancora.
Shhh–
Sss–
S–a–a
m–u.
S–a–m–u–u.
Samuel.
Prendetela, ordinò Ken’nosuke nell’altoparlante.
Trasportatela immediatamente nella vasca di osservazione.
Preparate il floating bed.
Samuel strinse la mano di Mia, dando il comando
d’immersione. La sirena ubbidì al segnale dell’addestramento.
Conosceva la vasca. Ispezionò le pareti al tatto, gli occhi
ormai erano inutili. Non aveva preso molta aria immergendosi.
Toccò il fondo, puntò i piedi sul pavimento. Trovò sulla parete
il vecchio set di comandi manuali, le leve di regolazione della
griglia di filtraggio e dei canali di deflusso e ricambio dell’acqua
dall’oceano.
La vasca di isolamento in cui si trovava con Mia era stata la
vecchia vasca centrale, ai tempi in cui era ancora facile cacciare
la sirena selvatica e il vitello era meno richiesto.
Dopo gli assalti del Mermaid Liberation Front – ai primi tempi
gloriosi di quel movimento, quando il mondo era nuovo – tutto
l’impianto era stato fortificato e ingrandito. La yakuza, come
sempre, aveva fatto le cose per bene, e la vecchia vasca ormai
veniva usata solo per l’isolamento.
Ken’nosuke non sapeva del set di comandi subacquei.
Neanche gli addetti alla macellazione ne erano a conoscenza,
non scendevano mai sott’acqua. Solo Samuel e, prima di lui,
Jack. Era stato Jack a parlargliene. A fargli ispezionare le vasche
in lungo e in largo, sopra e sotto la superficie.
Ken’nosuke vide Samuel e la sirena sparire sott’acqua. A
lungo, troppo a lungo. Un tentativo di suicidio, l’addio al mondo
di Samuel. Sorrise. Se lo aspettava, in fondo. Samuel era un
sentimentale. Poi vide il riflusso dell’acqua e urlò.
La riserva d’aria di Samuel era finita. Provò l’impulso
disperato di tornare in superficie, prendere fiato prima che la
mente gli si offuscasse del tutto, prima, finalmente, di
arrendersi.
Mia sentì il riflusso dell’acqua, vide il corpo di Samuel
accartocciarsi. Si abbandonò alla potenza della corrente, alla
sua gioia decisiva. Un attimo dopo nuotava nell’oceano, fuori
dagli impianti.
21

Nell’oceano, Mia prese il corpo di Samuel e lo portò sul


fondo. Strisciò sulla sabbia delle profondità, allontanandosi
rapidamente dalla riserva marina. Il biancoargento della pelle
diventava mimetico in acqua aperta, cambiava in grigio chiaro.
Nelle vasche non ce n’era mai stato bisogno.
Si fermò a riposare solo quando gli inseguitori furono
abbastanza lontani. Il rumore delle barche che la cercavano in
superficie era cessato. Le squadre di sub erano tornate alla
base.
Quello era il suo mondo. Lei era in vantaggio.
Cominciò a nutrirsi di Samuel, con grande cautela. Aveva
fame, ma sapeva di dover controllare il flusso del sangue che
usciva dal corpo per non richiamare predatori più grandi e più
forti. Squali. Un branco di delfini.
Praticò una piccolissima incisione sul collo di Samuel, con i
denti anteriori. Succhiò il sangue, lentamente, riempiendosi di
quel liquido caldo e vivo fino a svuotare completamente il corpo.
Ricordava il trito di pesce che le veniva versato in bocca dai
tubi.
Sarebbe sopravvissuta sul corpo di Samuel, nei giorni a
seguire. Prima il sangue, poi la carne. Scoprì che i denti che le
sirene usavano solo nella monta potevano frantumare le ossa. La
specie diventava onnivora.
Mia si concesse di dormire, nascosta in una vecchia tana di
murena drago, solo quando il bisogno divenne insostenibile.
Sognò come tutti i mammiferi, entrando in fase Rem. Il corpo si
irrigidì a scatti, poi si lasciò andare, ma i muscoli delle braccia
non rilassarono la presa intorno al corpo di Samuel neanche nel
sonno. Era la sua preziosa riserva di cibo.

Mia sgravò due feti, il primo vivo, pronto a succhiare


voracemente latte, l’altro morto, incompleto, le carni segnate da
morsi. Forse era stato il parto a ucciderlo. Il primo feto,
mezzoumano, era stato concepito prima, e al momento
dell’espulsione aveva trascinato con sé il secondo nato. O forse
l’ibrido era più vitale, e già nell’utero, come fanno i feti di
squalo, aveva divorato il concorrente.
Era una femmina. I maschi, privi di denti, rischiavano più
facilmente la morte al momento del parto.
Mia lacerò la placenta, aiutando la neonata. Il guscio dalla
consistenza di medusa si perse in acqua aperta. Sollevò per la
nuca, con i denti, una sirena minuscola.
Mezzoalbina. Umana per tre quarti. Occhi e bocca di essere
umano. Coda di pesce perfettamente formata.
La piccola sirena sentì l’odore della madre. Cercò il seno,
facendo sprizzare un po’ di sangue dai capezzoli. Il latte si
riversò nel suo corpo. L’acqua calda dell’oceano le cullò.
Mia aveva perso quasi tutto il grasso ormonale accumulato
negli impianti. Il suo corpo era duro, muscoli sotto uno strato di
pelle nuova, in parte cresciuto grazie al derma sintetico che poi
le si era staccato di dosso, anche se lei non aveva memoria di
quel cambiamento. Anche il suo odore era cambiato,
confondendosi con quello delle altre sirene del suo nuovo
branco.
Si passò la lingua sui piccoli denti perlati. Presto, molto
presto, sarebbe andata a caccia. In quella zona, i letti di alghe
silver e i banchi di plancton erano quasi esauriti. A differenza
delle sirene del branco, Mia amava il sapore del sangue, il pesce
grasso e vivo. Presto avrebbe rigurgitato pesce in bocca alla
sirena neonata.
Il branco era piccolo, e lei era l’alpha. Alla prossima stagione,
sicuramente avrebbe scelto il maschio migliore, di un verde
tanto scuro da sembrare quasi nero, si sarebbe fatta montare in
acqua aperta, e poi lo avrebbe ucciso, com’era nel suo dna.
La mente è vapore che si alza da una ciotola di riso.
Presto, l’epidemia avrebbe cancellato Underwater. Le acque
dell’oceano sarebbero tornate selvagge. C’era stata una nuova
scoperta e la yakuza aveva fatto due calcoli. Il futuro era in
Africa.
I semiestinti boscimani, così dicevano recentissimi dati,
sembravano immuni al cancro nero. La ricerca stava ancora
andando avanti, ma di certo c’era da far fortuna, ironicamente
sulla loro pelle. In attesa che venisse riprodotta in laboratorio,
come nuovo, rivoluzionario derma a innesto di provenienza
umana, antirigetto, se ne poteva sempre scuoiare qualcuno.
Ken’nosuke aveva davanti a sé un futuro radioso.

Nell’acqua aperta dell’oceano, Mia soffiò.


Shhh–
Sss–
S–a–a
m–u.
S–a–m–u–u.
Samuel.
Quando era molto stanca, o lontana dal branco, le tornava in
gola quel verso. Mia non soffiava mai davanti alle altre femmine,
mai davanti alle beta. Non ricordava più che era il verso di
Samuel. Non sapeva neanche dove si trovassero, lei e il suo
branco, sulle mappe degli esseri umani. Samuel avrebbe potuto
dirle che era molto, molto lontana dalla riserva marina yakuza,
ma Samuel e la yakuza, per Mia, non erano più vivi del suo
ultimo pasto.
Quello era l’oceano.
La mente di Mia era tabula rasa.

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