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Helen Adams Keller, Come ho imparato a leggere e a sentire le emozioni

Helen A. Keller (1880 – 1968), nata a Tuscumbia (Alabama) da famiglia di origine svizzera,
a 19 mesi una misteriosa malattia le toglie vista e udito. Grazie al successo dell’istruzione
impartita dalla maestra Ann Sullivan, ipovedente, per la prima volta una sordo cieca
raggiunge un titolo di studio superiore e universitario. Il libro: La storia della mia vita narra i
successi ottenuti in campo scolastico. Nel 1959 William Gibson lo trasforma in una
commedia di successo: The Miracle Worker che diventerà la base del film di Arthur Penn:
Anna dei miracoli.

Sopraggiunse la malattia che mi chiuse gli occhi e le orecchie e mi precipitò


nell’incoscienza di una neonata. La diagnosticarono come una congestione acuta dello
stomaco e del cervello e il dottore temette che non potessi sopravvivere. Invece una mattina
la febbre mi lasciò, misteriosamente come era venuta….
Il più importante ricordo della mia vita è quello del giorno in cui arrivò la mia maestra
Ann Mansfield Sullivan. Sono sopraffatta dalla meraviglia quando considero l’immenso
contrasto esistente fra le due vite delle quali quel giorno costituisce il punto di congiunzione.
Era il 13 marzo 1887, tre mesi prima che compissi sette anni. Nel pomeriggio di quel giorno
memorabile stavo nel portico immobile, in attesa. Avevo avvertito vagamente dai segni della
mamma e da un affrettato andirivieni per la casa che stava per accadere qualcosa di
inconsueto, perciò uscii dalla porta e mi misi ad aspettare sugli scalini. Il sole pomeridiano
penetrando attraverso la massa del caprifoglio che copriva il portico mi batteva il viso
sollevato verso l’alto. Con le dita sfioravo inconsciamente quelle foglie che mi erano tanto
familiari e i germogli che incominciavano appena a verdeggiare. nella dolce primavera del
Sud. Ignoravo quanto di meraviglioso e sorprendente mi preparava il futuro. La collera e
l’amarezza mi avevano devastata e a quella lotta violenta seguiva un profondo languore.
Siete mai stati sul mare in una nebbia densa che sembra imprigionare dentro a una notte
bianca quasi palpabile il transatlantico che cerca di raggiungere la costa a tentoni servendosi
di segnali telegrafici e degli scandagli mentre voi attendete col cuore palpitante per il timore
di tutto quello che può accadere? Prima che cominciasse la mia rieducazione io ero come
quel transatlantico, ma non avevo la bussola o lo scandaglio, né potevo misurare in alcun
modo la distanza che mi separava al porto, “Luce, datemi la luce” era il grido inarticolato
dell’anima mia e proprio in quell’ora la luce dell’amore brillò su di me.
Sentii dei passi che si avvicinavano e tesi la mano, credendo fosse la mamma.
Qualcuno la strinse e io fui sollevata e chiusa fra le braccia di colei che mi avrebbe svelato
l’universo e soprattutto mi avrebbe amata.
La mattina dopo la maestra mi portò nella sua stanza e mi regalò una bambola. Me la
mandava una piccola cieca dell’Istituto Perkins ed era stata vestita da Laura Bridgman. Ma
tutto questo lo seppi molto più tardi. Allora io giocai un po’ con la bambola, mentre la
signorina Sullivan scandiva sulla mia mano la parola “b-a-m-b-o-l-a”. Subito mi interessai al
gioco delle sue dita, cercando di imitarlo e quando finalmente riuscii a formare
correttamente la parola mi gonfiai di orgoglio e di gioia infantile. Corsi giù dalla mamma e
tenendola per la mano formai le lettere della parola bambola. Non sapevo di compitare una
parola, anzi non sapevo neppure che le parole esistessero, ma muovevo le dita imitando i
gesti come una scimmia. Nei giorni seguenti imparai a compitare in quel modo strano molte
parole come spillo, cappello, tazza e qualche verbo come sedere, pettinare, e camminare. Ma
mi ci vollero parecchie settimane prima di arrivare a rendermi conto che ogni cosa aveva un
nome. Un giorno mentre giocavo con la bambola nuova la signorina mi mise in grembo
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anche la mia grossa bambola di stoffa e compitò “b-a-m-b-o-l-a” e cercò di farmi capire che
la parola “b-a-m-b-o-l-a” si riferiva a tutte due.
Pochi giorni dopo avemmo uno scontro per le parole “t-a-z-z-a” e “a-c-q-u-a”. La
signorina aveva cercato di imprimermi bene in mente che “t-a-z-z-a” è tazza e acqua è acqua
ma io continuavo a confondere le due cose. Allora la signorina accantonò la questione per
riprenderla al momento opportuno. Ma i suoi reiterati tentativi mi irritarono tanto che scagliai
in terra la bambola nuova. Quando sentii ai miei piedi i pezzi della bambola fracassata mi
sentii sollevata e rasserenata senza il minimo pentimento o rimorso per la mia violenza. Non
volevo bene alla bambola, in quel mondo oscuro e silenzioso in cui vivevo non c’era posto
per i sentimenti e la tenerezza. Sentendo che la maestra raccoglieva i pezzi in un angolo del
caminetto provai un senso di soddisfazione perché la causa del mio disagio era rimossa.
La signorina mi portò il cappello e io capii che saremmo andate a godere il tepore del
sole: questo pensiero, se si può chiamare pensiero una sensazione inarticolata, mi fece saltare
e sgambettare per la gioia.
Ci avviammo al sentiero che conduceva al pozzo attratte dalla fragranza del caprifoglio
che lo ricopriva. Qualcuno attingeva l’acqua e la maestra mise la mia mano sotto il getto poi
mentre la corrente fresca mi scorreva sulla mano scandì’ sull’altra la parola ‘acqua’,
dapprima lentamente poi sempre più presto. Io stavo lì immobile tutta intenta al movimento
delle sue dita. All’improvviso ebbi l’oscura percezione di qualcosa di dimenticato – un
fremito per la ricomparsa di un pensiero sopito e mi si svelò il mistero del linguaggio. Capii
che “a-c-q-u-a” significava quella frescura meravigliosa che scorreva sulla mia mano. Le
parole vivificatrici risvegliavano l’anima mia, la illuminavano, la allietavano, le donavano la
speranza. Le barriere c’erano ancora è vero, ma col tempo sarebbero state abbattute.
Mi allontanai dal pozzo tutta presa dall’ansia di imparare. Tutte le cose avevano un
nome e ogni nome faceva nascere un nuovo pensiero.
Tornata a casa mi sembrava che ogni oggetto che toccavo vibrasse di una nuova vita.
Era perché io vedevo tutto con quella strana vista che avevo appena ricevuta.
Sulla porta d’ingresso mi ricordai della bambola che avevo rotta. Corsi al caminetto e
raccolsi i pezzi, cercando inutilmente di rimetterli insieme. Allora i miei occhi si riempirono
di lacrime, perché capii quello che avevo fatto e per la prima volta provai il pentimento e il
dolore.
Quel giorno imparai tante parole nuove: Non ricordo quali fossero, ma so che tra l’altro
imparai: “madre”, “padre”, “sorella”, “maestra”, parole che fecero fiorire il mondo per me,
“come la verga di Aronne”.
Quando la sera mi coricai sul lettino, sarebbe stato difficile trovare una bimba più
felice di me, tutta vibrante come ero per le gioie di quella giornata memoranda che si sarebbe
prolungata nei giorni avvenire.
La tappa successiva della mia educazione fu imparare a leggere. Appena fui in grado di
compitare qualche parola la maestra mi diede dei cartoncini su cui erano stampate in rilievo
delle parole.
Imparai subito che ogni parola corrispondeva ad un oggetto, un atto o una qualità.
Avevo un telaietto su cui potevo disporre le parole formando delle brevi frasi: ma prima di
formare le frasi sul telaietto mi divertivo a disporle sugli oggetti. Per esempio, trovavo i
cartoncini con le parole “bambola”, “è”, “sul”, “letto”; mettevo ciascun cartoncino
sull’oggetto corrispondente poi mettevo la bambola sul letto con le parole ‘è sul letto’
disposte accanto alla bambola, in modo da formare la frase e nello stesso tempo esprimere
per mezzo degli oggetti l’idea corrispondente. La signorina Sullivan, la maestra, mi racconta
che un giorno mi appuntai la parola “bambina” sul grembiulino e mi misi nell’armadio, dopo
aver disposto sul palchetto le parole “è, in, guardaroba”.
Non c’era gioco che mi divertisse tanto quanto questo che mi teneva occupata per ore
intere. Spesso nella stanza non rimaneva più neppure un oggetto senza cartellino.
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Dai pezzetti di carta passai ai libri. Ebbi il mio “Libro di lettura per principianti” sul
quale andai a caccia delle parole che conoscevo. Quando le trovavo mi divertivo come uno
che gioca a mosca cieca. Così cominciai a leggere.
Per parecchio tempo non presi lezione regolarmente. Pur studiando con molto ardore
avevo più l’impressione di giocare che di lavorare.
La signorina Sullivan aveva l’arte di spiegare le cose più astruse presentandole sotto
forma di una bella storia o di una poesia. Sapeva scegliere gli argomenti più piacevoli ed
interessanti proprio come se fosse una bimba anche lei. Così tutto quello che spaventa i
bambini, lo studio penoso della grammatica, le difficili operazioni e le definizioni ancora più
astruse, costituiscono oggi uno dei ricordi più lieti.
E’ difficile spiegare fino a qual punto la signorina Sullivan riuscisse ad armonizzarsi
con i miei gusti ed i miei desideri. Forse era il risultato della sua lunga consuetudine con i
ciechi, ma certo anche della sua grande attitudine alla descrizione. Sorvolava sui particolari e
non mi annoiava mai con domande per vedere se ricordavo le lezioni passate. Mi introduceva
nell’arido tecnicismo della scienza a poco a poco, vivificando talmente ogni argomento che
non ho potuto più dimenticare quello che mi insegnava.
Leggevamo e studiavamo all’aperto, preferendo alla casa i boschi dorati dal sole. Tutte
le mie prime lezioni hanno in sé il respiro del bosco, l’odore resinoso degli aghi dei pini
mescolato al profumo dell’uva selvatica. Seduta sotto un albero accanto alla mia maestra,
imparavo a poco a poco che tutte le cose hanno una lezione da impartirci e un suggerimento
da darci.
“L’amore delle cose me ne ha insegnato l’uso”. Tutto quello che ronza, mormora,
canta, germoglia, contribuì alla mia educazione: le rane gracidanti, le cavallette e le cicale
trattenute fra le mie mani fino a quando, rassicurate, trillavano la loro nota canora; i soffici
uccellini dei nidi; i fiori selvatici; le gemme degli ontani; le violette dei prati; gli alberi
carichi di frutta. Sentii esplodere le capsule del cotone e ne palpai la fibra morbida e i semi,
avvertii il cupo mormorio del vento attraverso le stoppie; il fruscio serico delle lunghe foglie;
il nitrito indignato del mio cavallino, quando lo toglievo dalla pastura e – ahimé – gli
mettevo i morso. Come ricordo bene il suo respiro dall’acuto odore di trifoglio!..
La meta preferita delle nostre passeggiate era la banchina dei Keller un vecchio
imbarcadero di legname sul Tennessee, che era stato adoperato dalle truppe della guerra
civile ed ora era tutto in rovina. Lì trascorrevo lunghe ore giocando ‘alla geografia’.
Costruivo dighe di ciottoli, fabbricavo isole e laghi, scavavo letti dei fiumi… Ascoltavo con
crescente meraviglia le descrizioni che la signorina Sullivan mi faceva della grande terra
rotonda con le sue montagne di fuoco, le città sepolte, i fiumi di ghiaccio e tante altre cose
strane. La maestra fabbricava plastici di argilla in modo da farmi toccare le catene delle
montagne e le valli e seguire col dito il corso tortuoso dei fiumi…
In principio le mie capacità erano assai scarse. Fu la maestra che le sviluppò e le dilatò.
Appena compariva lei tutte le cose che mi circondavano si animavano. Non si lasciava mai
sfuggire l’occasione di farmi notare il bello dovunque si trovasse, col pensiero, con l’azione e
con l’esempio cercava incessantemente di facilitarmi la vita e nello stesso tempo di renderla
utile agli altri.

[H. A. Keller, La storia della mia vita, Bari, Edizioni Paoline 1977; adattamento dalle pp.
10; 26-29; 51]

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