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“E lasciatemi divertire!”.

Omaggio a Domenico Ferla, il poeta manicheo - Pangea 5/12/23, 5:45 PM

Rivista avventuriera di cultura & idee

Poesia 26 Settembre 2022

“E lasciatemi divertire!”.
Omaggio a Domenico Ferla,
il poeta manicheo

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di Luca Bistolfi

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I
l 31 dicembre 2021 è morto un poeta. È morto Domenico Ferla.

Se qualcuno mi domandasse perché io mi sia deciso a ricordarlo soltanto


adesso, gli replicherei chiedendogli a mia volta perché egli non mi abbia anticipato.

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Soprattutto lo chiederei agli amici e ai cosiddetti “congiunti”, il cui silenzio agghiaccia,


e temo agghiaccerà ancora a lungo.

A Ferla debbo parecchio, e chiunque gli sia stato vicino, aprendo gli orecchi e
ignorando un carattere non sempre morbido, ne ha tratto immenso beneficio.

Ferla era uno dei massimi conoscitori di letteratura italiana che mai in una vita
si potrebbero incontrare e aveva una predilezione per gli autori pretesi
“minori”, dei quali andava alla caccia, tra biblioteche e bancarelle, con il talento di
un rabdomante e una passione da vero invasato, nel senso migliore della parola.

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Domenico Ferla è morto il 31 dicembre 2021

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C’è un episodio meraviglioso da raccontare, che dice moltissimo di Ferla. È in un


giardino e sta leggendo un’opera di Giambattista Marino, composta in una forma rara,
non ricordo oltre purtroppo. Alza gli occhi e vede Giorgio Barberi Squarotti, un
baronazzo delle lettere italiane. Ferla infila il libro in borsa, raggiunge il professore,
strano, attacca bottone. È tutto entusiasta per quel Marino, appena scovato in
biblioteca. Il docente lo conosce, Ferla, tutti lo considerano un matto, un
esaltato, un piantagrane, e cerca di scantonare, ma Domenico è ostinato e lo
placca, chiedendogli un parere su quello strano titolo del poeta napoletano. A
quel punto Squarotti è felicissimo e sa come liberarsi di Ferla. Si fa una risatina
sussiegosa e gli dice: «Non risulta che Marino abbia mai scritto un’opera in quella
forma». Ferla si gela, lo guarda per qualche secondo, l’altro fa per andarsene. «Mi
scusi, professore… E questa cos’è?». Squarotti si gira, Ferla ha estratto il libro e lo tiene
in mano, davanti al naso del barone, che prende il testo, lo sfoglia, poi lo restituisce.
«Peraltro viene dalla biblioteca della sua facoltà, professore», aggiunge Ferla. Il
professore fa spallucce e mentre se ne va bofonchia: «Mah!… Che vuole… È senz’altro
un’opera minore. Stia bene!».

Ferla aveva imparato a leggere con discreto anticipo rispetto agli altri bambini grazie
all’attenzione di un nonno cieco e, sempre grazie a quest’ultimo non meno che a
un’evidente congenita tensione, si era ben presto immerso nella letteratura e in
particolare nella poesia.

La poesia era la casa di Ferla, anzi il suo regno e ciò poiché egli era poeta
ancor prima di iniziare a leggere o a sbozzare i primi versi. Egli vedeva da
poeta. Il suo eloquio, le sue immagini, la sua straordinaria intelligenza ricreavano il
mondo o vi si immergevano sondandone i meandri, oscuri a tutti gli altri, portandoli
alla superficie. Avresti potuto osservarlo dietro a un vetro spesso e i suoi occhi ti
avrebbero indotto a sospettare che quell’uomo stesse vedendo qualcosa che
proveniva da lontano. Domenico Ferla era un veggente.

Voglio ricordare uno dei molti momento dorati con lui.

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Aveva spodestato dalla sua stanza il custode dell’università, in via Po a Torino, e aperto
i Canti di Leopardi su Consalvo, una delle poesie meno frequentate.

Dovrei parlare di «lezione magistrale», ma sarebbe riduttivo: non ci siano parole per
esprimere il turbine di forza, passione, perspicacia che si scatenò in quei lunghi quarti
d’ora.

Ferla possedeva la rara capacità di saper leggere. Goethe, se la frase non è spuria, a
ottant’anni diceva di non essere ancora sicuro di aver imparato a farlo. Forse uno dei
rari momenti di modestia dell’olimpico. Ferla invece ce l’aveva, eccome. Era una magia
seguire un testo accanto lui. Notava sfumature, connetteva passaggi da un libro
all’altro, intercettava dettagli.

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Leopardi era uno dei grandi amori di Ferla. Ne conosceva, sovente a memoria,
intere pagine ed era furibondo con l’accademia, con la critica, con la scuola,
insomma con tutti, per il trattamento riservato al maggior poeta e filosofo
dell’Ottocento italiano. Ascoltare Leopardi letto e raccontato da Ferla significava
ascoltare un Leopardi vivo e pulsante. Ma era così per qualunque autore o argomento,
su cui egli indugiava ora con amore sfrenato e sincero, ora con odio e disprezzo.

Ferla aveva nella mente due libri, meditati sin da giovane: uno su «Leopardi, poeta
felice» in cui avrebbe voluto dimostrare l’esatto contrario di quanto anche la critica
meno vieta e scontata, pur con decenni di ritardo, si barcamenava a biascicare. Ne
aveva tutte le carte, Ferla. L’altro era un «Anti-Parnaso», che l’importante e
sveglio editore Luigi Spagnol gli avrebbe pubblicato a scatola chiusa. Esso si
incaricava di fare il controcanto al canone ufficiale della poesia italiana,

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adunando una messe di poeti rari, evitati, rimossi, a giudizio di Ferla sempre o
quasi sempre con dolo o per ignoranza. Un esempio: alle «tre corone» Carducci-
Pascoli-d’Annunzio, Ferla avrebbe voluto opporre o affiancare la triade Rapisardi-Graf-
Cesareo. Ho la certezza che un lettore curioso si renderà ben presto conto di quanto
abbia perduto quando vorrà aprire le Poesie religiose o il Giobbe di Mario Rapisardi, o
la Medusa e il saggio Per una fede di Arturo Graf.

Né l’«Anti-Parnaso», né «Leopardi, poeta felice» Ferla avrebbe però mai scritto, fatto
salvo qualche appunto. (Avviso: mi informano che la vedova di Ferla ha intenzione di
pubblicare i frammenti dell’«Anti-Parnaso», completandoli lei stessa: suggerisco di
scantonare).

Il motivo di questa assenza è da ricercarsi nella biografia di Ferla, che qui ovviamente
non posso raccontare per esteso. Mi limito a dire che Ferla era un sopravvissuto, a sé
stesso e a molti naufragi, che contribuirono ad aggravare un temperamento
esacerbato in maniera talora parossistica.

Fatti gli ovvi distinguo, Ferla può essere accostato in tal senso a un altro
marginale, sebbene in misura assai minore, delle nostre arti: il direttore
d’orchestra Franco Ferrara, i cui nervi non soccorrevano a un’intelligenza musicale
di sconcertante penetrazione e a un orecchio pressoché impareggiabile. Ogniqualvolta
(le eccezioni furono rare) Ferrara saliva sul podio, era colto da crisi epilettiche. C’è un
bel passo su di lui in Virtù dell’elefante di Paolo Isotta, molto utile. E tanto per dire
quale qualità musicale abitasse Franco Ferrara, basteranno, oltre alle poche incisioni e
al Bruckner per Luchino Visconti, il giudizio ammirato e l’amicizia di Sergiu
Celibidache, il direttore d’orchestra più esigente e più sprezzante della storia (e uno dei
due o tre più giganteschi).

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Benjamin Fondane

Heidegger & Dostoevskij

Per quanto simili paragoni siano rischiosi e forse arbitari, non mi trattengo davanti a un
secondo e per altri motivi accosterei Domenico Ferla a Dino Campana. Più
volte leggendo La notte della cometa, splendido libro di Sebastiano Vassalli sul
«matto di Marradi», ho rivisto Domenico Ferla: nei gesti inconsulti e bizzarri,
nella vita travagliata e nel destino infame, riservatogli persino dalle persone a lui più
vicine, e naturalmente nel genio.

A raddoppiare il vulnus di Ferla c’era in lui un rigetto del mondo, maturato in seguito
alle esperienze politiche degli anni Cinquanta e Sessanta, dalle quali si distaccò
disgustato, per poi fare la scoperta fatale della Gnosi e in particolare del Manicheismo,
a cui aderì con la fedeltà propria dell’eretico.

Fu principalmente quella visione dell’esistente a guidarlo nelle sue ricerche letterarie,


insieme alle filosofiche. Per Ferla era indubitabile: il mondo era una commistione di
tenebre e di luce, giusta la dottrina manichea, e ciascuno dei due principii aveva i suoi
partigiani e i suoi campioni. La creazione intera è un orrore, una escrescenza arcontica
entro di che dimorano imprigionate particelle di luce, ove più, ove meno: e Domenico
Ferla era alla loro ricerca e le vedeva manifestarsi in poeti, filosofi, romanzieri, studiosi,
film, et coetera.

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Invero Domenico era manicheo ben prima di incontrare la Gnosi. Avvenne attorno ai
suoi quattro o cinque anni, una precoce rivelazione. Fuori imperversano la guerra e gli
scontri tra tedeschi, fascisti e gli altri, e suo padre Vittorio è per uscire di casa, quando
la madre cerca di trattenerlo: «Resta qui, ti prego! È pericoloso!». Era la stessa donna
che poco prima o poco dopo avrebbe tentato di aprirgli il cranio con un’ascia, davanti
al figlio. Durante la malattia che inchiodò Ferla a una carrozzina negli ultimi diciassette
anni della sua esistenza terrena, un giorno nella sua casa grondante di libri mi disse:
«Fu allora che capii che il mondo e gli uomini sono governati da due principii».

Tanto per dire genio e carattere di Domenico, valga la scena a un esame di letteratura
italiana al primo anno. Interrogava Giovanni Getto, uno dei due o tre critici italiani più
celebri e stimati, allievo di Luigi Russo, linea crociana insomma. Ad ascoltare quel
ragazzino magro e stazzonato, dagli occhi allucinati e dalla facondia inarrestabile,
dotato di un bagaglio di conoscenze sconvolgenti soprattutto per l’età, Getto lo
proclamò davanti a tutti suo assistente. Ferla tacque, poi si alzò e disse
pressappoco, in crescendo: «Vi ringrazio, ma tenetevi la vostra nomina. Io
sono qui per fare esami e basta perché dicono che debbo farli. Ma io non mi
presterò mai a servire la mafia universitaria. Avete fatto sparire i più grandi poeti e
scrittori, per poco non finiva nel dimenticatoio anche Leopardi! E io dovrei servire
questo porcile? Andate al diavolo!». E prese la porta per non rimetter mai più piede
all’università.

A sigillare pubblicamente l’adesione alla Gnosi manichea, fu una lamina poetica uscita
nel 1979 per l’Erba Voglio di Elvio Fachinelli, la stessa dei Minima (im)moralia,
completamento della versione censurata dall’Einaudi degli aforismi di Adorno. Si
intitolava La casa di Arimane, dal nome della divinità malvagia nella religione
zoroastriana. Poche, brucianti poesie, seguite da una manciata di estratti da testi storici
e filosofici sul dualismo religioso.

Il libro valse a Ferla il plauso di molte riviste nazionali e di non pochi intellettuali
dell’epoca, che lo consacrarono, posto che ve ne fosse bisogno, quale nuova e

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straordinaria rivelazione poetica.

Negli anni della malattia Ferla mitigò un poco la sua veemenza contro il
mondo, pur sempre ostile e nemico. Egli era giunto a una sorta di
arrendevolezza, e l’odio aveva in parte lasciato spazio a una più luminosa Suprema
nostalgia, come suona la seconda e ultima raccolta di versi, uscita nel 2016 per
l’editore milanese Colibrì.

Tra le scoperte lungo gli anni c’è senza dubbio Piero Martinetti, filosofo grande e
neglettissimo, per il quale Ferla aveva un’ammirazione sconfinata, anche per esser
stato Martinetti il primo e forse unico filosofo a riconoscere nel dualismo gnostico la
fonte della vera sapienza, lo scioglimento dell’enigma del mondo. Ma sono innumeri gli
autori, anche stranieri, letti e riletti o scoperti da Ferla. Voglio ricordare ancora la sua
passione per la poesia dialettale, che peraltro egli adopera ampiamente proprio nella
Suprema nostalgia, reinventando il linguaggio.

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Non vorrei tuttavia dare l’impressione che Domenico Ferla fosse un torvo: egli era
anche capace di ridere e di motteggiare. Una risata perlopiù amara o sarcastica,
irriverente, schifata, degna di un Rabelais, uno Swi", un Céline, autori amatissimi.

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Ricordo un’uscita irriverente e spassosa contro Wojtyla, allora pontefice, per non so
qualche documento o discorso che aveva disturbato il manicheo Ferla, che di botto
scosse la testa con un sorriso appena accennato e riferendosi al sacchetto per
raccogliere le feci che avevano messo al papa, disse: «Ma poi!… Il vicario di Cristo ha il
culo di plastica!».

Non è affatto un caso che una delle forme letterarie e direi filosofiche
predilette da Domenico Ferla fosse la Commedia dell’Arte. Le maschere della
tradizione italiana, gli autori antichi e moderni (amava moltissimo Raffaele Viviani)
erano per lui una fonte di gioia e di ispirazione e trovava intollerabile che la critica e i
lettori trascurassero questa forma artistica superiore, di cui egli conosceva, ancora una
volta, ogni opera, ogni studio.

Quando gli feci visita una delle ultime volte insieme alla mia compagna Erika, era già
molto allo stremo ma ancora abbastanza lucido e sempre più sorrideva. Mentre
conversavamo eruppe ridendo di gusto: «E lasciatemi divertire!». È il verso di una
poesia di Palazzeschi. E con Erika si mise poi a parlare, per come ancora potesse, dello
scrittore fiorentino, suggerendole di leggere Le sorelle materassi. Sfruttando proprio
quel momento volli intitolare «E lasciatemi divertire!» il libro scritto in occasione degli
ottant’anni di Domenico (maggio 2019), che si incaricava di radunare, fin dove la
memoria mi soccorresse, l’eredità di Ferla e due decenni di colloqui e amicizia. Un
libro che però non ha mai visto la luce: dopo una iniziale entusiastica accoglienza,
Renato Varani, lo stesso editore della Suprema nostalgia, dovette recedere per
sopraggiunte difficoltà economiche, nonostante egli fosse e ancora sia predisposto al
meglio verso Domenico. Nessuno alzò un dito per contribuire alle spese e lo storico
Romolo Gobbi, sodale di Ferla sia dagli anni Sessanta, dopo essersi generosamente
fatto avanti pur senza essere richiesto in alcun modo, fece senza alcun motivo marcia
indietro, ritirandosi nel nulla che gli è proprio. Non sarebbe nemmeno andato al
funerale dell’amico.

In seguito, così come anche dopo la morte di Domenico, si sperò nell’aiuto, più

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naturale e doveroso, della vedova: ma per una forse eccessiva educazione pubblica,
preferisco non commentarne il comportamento.

Mi rammarico di questo fallimento non tanto perché un mio libro resterà nel
cassetto (non è d’altra parte l’unico), quanto soprattutto ovviamente per
Domenico Ferla, il quale, più ancora di molti autori amati o scoperti o riscoperti da
lui, è destinato all’oblio. E questa volta non per colpa di estranei. È stato l’ultimo
naufragio di Domenico Ferla e le tenebre sono scese sulla cometa.

Frammento de La Forca da La casa di Arimane:

è bello lasciarsi morire di fame


si muore lentamente
tranquillamente
come si spegne una candela a cui venendo
meno il nutrimento sovrabbondi
non soffri perché sei tu che lo vuoi
vuoi soffrire e finalmente non soffri
vuoi morire e finalmente non sei più morto
finalmente sei vivo
tutto frutto di fichi
del resto sarebbe così semplice
sulle colline dell’Alta Langa
il cibo è lì a portata di mano
cotto in stufe a legna
basterebbe allungare la mano
a raccogliere le frutta
da alberi inesistenti
ma tu non l’allunghi

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perché ne hai una nausea una nausea


esente da coloranti e additivi
che preferisci ecco lasciarti morire
sei lì da solo disteso
non ti muovi non fai più male a nessuno
finalmente
se non fosse per l’aria che respiri
ma anche quella finirai di respirarla
il digiuno ti rende libero e lucido
e vedi una insolita
Assenza di Luce dalle Tenebre
come è scritto nei libri dei poeti
se non fosse per l’aria che respiri
come è scritto nei libri dei filosofi
ah non meravigliarti
di questa mia tristezza
e di questa mia disperazione
che mi ride in faccia
perché so finalmente
morire di fame
e finalmente piango quando cado
piango di gioia pianto
nella maggiore allegrezza
e desidero il Bene
perché non lo spero più
come è scritto nei libri dei poeti
ah non lasciare passare questo momento
di abbandono
senza riserve alla disperazione
ma aggràppati a questa dolcezza che ti prende
e naufraga nel suo mare

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e dille che conviene


che io muoia con te
no una volta per tutte
io non mi muovo
non faccio più male a nessuno finalmente
se non fosse per l’aria che respiro
non fai rumore tu
ma forse lo fai, ridendo
perché negli strati superiori dell’atmosfera
l’ozono viene distrutto dall’azoto
e il globo terrestre in se stesso sprofondato
fiammeggerà poi sarà annientato
ma io mi dico
che devo essere assente meglio di così
assolutamente assente
se voglio che ci lascino partire
e ora finalmente mi sento troppo giovane
e troppo vicino a te
per non poter formare
nuove abitudini
non si può avere due cuori
e servire due padroni
when the stars begin to fall
when evahry star refuses to shine
I know dat King Jesus will-a be mine
sumus sicut dei
furono veri
i giuramenti vere le tue lacrime
io sono tu e tu sei io è il silenzio
se non fosse per lo smog che respiri

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Niente da La casa di Arimane

Un’apprensione fissa
mi stempera il cervello
è certo che chi vince
sarà sempre il peggiore
l’ultimo secolo
è il più tirannico
e il più calamitoso
non resta altra cagione
ormai di morir lieti
che il non aver più niente
da perdere più niente
da sperare più niente da temere.

La Lontananza, da Una suprema nostalgia

Ora i tuoi girovaghi fratelli


carovanieri magri,
sovra i loro cavalli più agri degli onagri
augustano appensati in colorati lani come su sovrani altissimi
sgabelli,

e ingiojati con splendidi giojelli


di denti candidissimi e scabri,
avvittano caldegli frittelle di calabri
entro un calido latte di mandorle in caldelli.
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Mentre l’amore cane triste scodinzolando


guaisce a te che a imprese ignote ed intentate accendi nell’era
degli occhi morati la straniera lumiera d’una
lumella lontana d’una zingaresca stella,
pare che il fumo azzurro del fumaiolo della carovana, in giri
inutilmente oltremondani, con una foga
vesperale estrana d’un organo a due mani degli
indiani, verso la libertà recluso si protenda:

un profumo egiziano gitano sollevando,


per un cielo speziato di cannella,
la lontananza nomade dove vagare in tenda.

Un articolo su
#Domenico Ferla #Leopardi #Letteratura italiana #Luca Bistolfi

#Poesia #Università

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I più letti

1 “Cammino da sola, ai bordi di tutto, arrabbiata”. Le poesie di Ursula Le Guin

2 “La gioia nell’annientare”. Friedrich Nietzsche contro i puri di cuore

3 “Ridammi il muro di Berlino, Stalin e San Paolo”. Viaggio nella poetica di


Leonard Cohen e Bruce Springsteen

4 “Amami. Se non lo fai tu, chi potrà amarmi?”. La poesia aliena di Marija
Petrovych

5 “Si affidò con tanta facilità ai sogni”. Lord Dunsany, lo scrittore amato da
Lovecraft e Borges

Gruppo MAGOG

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Le nostre prigioni

Che fine avrebbe fatto Pancho Gonzales

ARCHEOCONTATTO – TURISMIFICIO

Per approfondire

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Noi siamo “Il sole ci E se mi “Usura è la


gli trafiggerà dimentico forza
autorevoli, con le sue il suo demoniaca
e mille nome? del nostro
cambieremo frecce”. Tranquillo. tempo”:
la storia Una poesia Chiamale Geoffrey
della di Scipione tutte Hill
letteratura: Poesia Giorgio Anelli “tesoro”, e Newsletter
William tieniti
Carlos qualche
Williams poesia
scrive a pronta
Ezra Pound come
News messaggio,
fa sempre
il suo
effetto
Costume

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