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Ho
passato tre quarti della mia vita chiuso fuori, finché ho capito che l’unico modo è
romperlo. E se hai paura di farti male, prova a immaginarti di essere già vecchio e
quasi morto, pieno di rimpianti”.
Ha detto che forse l’unica cosa da fare era cercarsi un’isola come avevo fatto io,
proteggerla finché ci si riusciva. Gli ho risposto che la mia non era solo
un’isola; che forse producendo cereali privi di veleni si poteva influire in minima
parte sul mondo.
Diceva “Dobbiamo fare delle cose che ci piacciono e ci divertono, anche, e hanno un
effetto sul mondo di fuori. Non possiamo stare qui come dei rifugiati, dobbiamo
trovare un modo di vivere che faccia rabbia, non compassione.
Abbiamo stappato una bottiglia di vino per festeggiare, ma eravamo già ubriachi
prima ancora di berne un sorso.
Ha detto “Non c’era verso di dire niente. Il fatto è che sei un povero oggetto
nelle loro mani, ti usano come vogliono”.
Era come se una parte dei miei pensieri se ne fosse andata per sempre, insieme alla
capacità di essere in un posto e immaginarmi altrove, rafforzare la rete dei miei
legami e metterli in discussione, cercare sicurezza e ancora sperare in una
sorpresa.