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SCRITTURE PARALLELE

LAILA WADIA
LA SCRITTURA E IL CONCETTO DI CITTADINANZA

di Gianluca Bocchinfuso

La letteratura translingue italofona nasce come letteratura autobiografica


con al centro tutte le problematiche legate alla migrazione. Siamo ormai a
trent’anni da quelle prime opere e la maturità letteraria e narrativa di molti
scrittori translingue e migranti è evidente. Anche nel trattare il tema della mi-
grazione, l’argomento principe con tutti i sottotemi di cui si compone. È
quello che accade con l’ultimo romanzo di Laila Wadia, Il giardino dei frangipa-
ni1, in cui, tra i tanti soggetti, c’è quello del migrante.
L’autrice lo focalizza attraverso la protagonista, Kumari, ma lo allarga an-
che ad altre questioni e orizzonti. Nella storia di un migrante c’è la vita con
tutti i suoi passaggi e le sue diverse stratificazioni. Elementi diversi che deli-
neano quelle condizioni di prossimità tra le culture, raffigurando la forza ge-
nerativa del soggetto. La natura del migrante è multiforme: compatta nella
sua memoria; fluida nell’interpretazione del presente; pronta nella costruzio-
ne del futuro. La Wadia porta al massimo della riflessione l’universo del mi-
grante e dimostra la fondamentale importanza del suo ruolo nelle società ac-
cogliente. Siamo molto lontani dal diario autobiografico che, l’autrice, sul-
l’onda dell’esigenza di imparare l’Italiano («imparare una nuova lingua è co-
me rinascere»), ha scritto, in quanto apprendente e aspirante italiana2. Ricco
di istantanee e di elementi di vita quotidiana che affondano nella durezza del-
l’esistenza di chi arriva. Domande su domande, esperienze, tentativi di bassa
comunicazione e di riflessione con gli altri.
Ancora una volta parlare di migrazione, anche da un punto di vista nar-
rativo, pone riflessioni enormi rispetto al modo in cui mondi «diversi» co-
municano e s’incontrano. Al di là delle dimensioni sociali ed economiche, ci
sono barriere culturali che a fatica vengono scardinate e contro cui sbatte
qualsiasi strumenti di integrazione. Per certi versi, siamo fermi ad una lettu-
ra del diverso esotica e stereotipata che poi, direttamente e indirettamente,
alimenta anche le posizioni di alcune forze politiche.
Intervistare Laila Wadia significa proprio partire da questi elementi. Dal

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senso del multiculturalismo oggi all’interno di società che ospitano diverse
lingue e si definiscono «aperte e accoglienti» nel senso più profondo del ter-
mine. Nonostante questo, il termine cittadinanza divide. Impone steccati e
porta a discutere in modo sbagliato del tema dell’identità e della radici di un
popolo, col presupposto di rappresentare le società monoliti, immobili nel
loro essere e nel loro agire.

Lei si definisce narratrice plurilingue e brez meja. In un contesto


multiculturale e plurilinguistico come quello che caratterizza le socie-
tà più avanzate, dove colloca, su un piano letterario, questa definizio-
ne.
«Credo che anche nelle società pluriculturali e pluridentitarie le persone
facciano fatica ad entrare gli uni nelle case degli altri, quindi vedo la lettera-
tura fungere da ospite: entrare nei salotti, condividere serate, offrire occasio-
ne di scambio di idee, fare sì che la storia di alcuni diventi la storia di tutti fa-
cendo fare alle società il salto dalla multiculturalità all’interculturalità.
Vengo da un contesto plurimo, l’India, e vivo in un contesto plurimo,
Trieste. Queste realtà composite mi insegnano con il loro esempio e mi im-
pongono con la loro saggezza di essere sconfinata. Ed è un grande privile-
gio».

È ancora possibile, oggi, «mondializzare la mente», come ripeteva


Armando Gnisci, e fare della letteratura interculturale e translingue
una base concreta di queste moderne società di emigranti e di immi-
grati?
«Io non smetterò mai di seguire i consigli di Armando Gnisci e mondia-
lizzare la mia mente: rendermi conto che il mio pensiero è uno dei tanti mo-
di di pensare, il mio modo di vivere è uno dei tanti modi di vivere. La diver-
sità rende forti, inocula contro le pericolosissime verità uniche».

Il giardino dei frangipani ha dentro i temi a lei più cari con alcuni pun-
ti di vista particolari di cui parleremo.
La protagonista pone la domanda delle domande: «Torneresti mai
a vivere nella tua città d’origine?». In un altro passaggio del libro,
quando arriva in Italia, afferma: «Emigrare è come rinascere: nuovo
passaporto, rinnovo del prestito sulla vita. Imparai a vestirmi in modo
diverso, mangiare in modo diverso, parlare in modo diverso».
Quanto è difficile tornare veramente a vivere nella propria terra di
origine. E, soprattutto, quando la propria terra d’origine si lascia per
altri orizzonti, rimane veramente solo “terra d’origine”? Quando si ri-
nasce, si rinasce veramente? E da cosa?

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«Ogni persona ha la propria storia, i propri motivi per lasciare la casa do-
v’è nato, ma credo che ci accomuni il fatto di aver avuto una frustrazione:
economica, politico, socio-familiare o dei diritti negati. Chi si sposta con in
mente un progetto di vita (e non una soluzione temporanea) credo davvero
che rinasca in tutto. Si trova infante nella cultura e nella lingua, deve investi-
re nell’imparare tutto da zero. A volte deve lasciare alle
spalle tante certezze e il suo ruolo nella società di partenza, per andare in-
contro ad un destino ignoto e forgiarsi uno spazio nuovo in una terra nuo-
va.
A livello personale, tornare a casa è una gioia ma anche uno spaesamen-
to. I paesi stanno crescendo e avanzando a ritmi mai visti. Tutto cambia in
poco tempo: l’urbanistica e quindi anche le persone, i linguaggi, le politiche,
le economie. Un migrante acquisisce uno sguardo a volo di uccello: vicino e
lontano, critico e benevolo. Doppio. Diventa doppio. A volte bigamo, aman-
do due paesi. A volte invece si sente doppiamente straniero e spaesato».

«Si può appartenere a uno o più luoghi» dice Kumari nel libro. Sot-
tolineando la possibilità di vivere quotidianamente in due o più luo-
ghi, in maniera fluida, ibrida, arricchendosi attraverso quello che si
aveva prima e quello che si ha adesso. Quanto è difficile oggi far com-
prendere questo elemento fondamentale della migranza?
«Goethe diceva che bisogna avere sia radici, sia ali. Potrei dire che l’India
è le mie radici, l’Italia le mie ali. Ma non è così. In verità non vivo solo tra
l’India e l’Italia: vivo soprattutto in uno terzo spazio, quello delle parole, che
sono liquide e fluiscono in mille direzioni.
Sono convinta che siamo sempre meno cittadini di un paese e sempre
più gruppi di idee e progetti condivisi. Non ha importanza che io sia india-
na o italiana o inglese, questo non mi definisce, non mi identifica. Mi identi-
fica il fatto di essere una donna, una narrastorie, un’insegnante, una tradut-
trice, con certe idee, certi interessi e certe passioni.
La mia casa è il gruppo di persone con cui condivido scelte, aspirazioni
e progetti per il futuro. Si migra - con la testa e con il cuore - in ogni mo-
mento della propria esistenza, dentro la propria città, ma anche dentro sé
stessi. Anche le montagne sono elastiche, altrimenti franerebbero».

Kumari ha una parabola come tanti migranti: infanzia ed adole-


scenza orfana nel paese di origine ed età adulta in un paese ospitante.
Una partenza legata ad un’occasione: il suo talento scoperto da un di-
rigente italiano di una casa di moda in visita a Bombay.
Nel romanzo la sua figura rimane sempre centrale ma è più forte
nella prima parte; mentre nella seconda, secondo me, si mescola con al-

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tri personaggi contribuendo ad una coralità narrativa diversa anche con
elementi di intreccio narrativo sia in termini di prolessi che di analessi.
È una scelta voluta all’inizio o cresciuta durante la stesura del romanzo
per pronunciare gradualmente la complessità delle diverse identità?
«Volevo che il romanzo fosse un mosaico di storie, di incontri casuali,
che poi non sono mai casuali. Tutte queste persone e tutte le storie raccon-
tate sono vere. Sono stata testimone di molti degli eventi, altri mi sono state
raccontate dai protagonisti. Come narrastorie le ho semplicemente tessuti in-
sieme. Dapprima ho dovuto conoscere Kumari, la voce narrante, ascoltare le
sue parole dentro la mia testa per farla conoscere ai lettori. Poi, attraverso i
suoi occhi ho voluto dare spazio agli altri protagonisti del romanzo. Parten-
do dalla storia di una donna, ho voluto parlare di una pagina della storia del-
l’Italia poco conosciuta».

Il cimitero cristiano di Sewri, a Mumbai, è centrale nella maggior


parte della narrazione. A cosa è legata questa scelta al di là delle valu-
tazioni e dei contesti narrativi esclusivamente del romanzo?
«Sono andata a visitare il cimitero di Sewri e mi ha molto colpito questo
luogo. Amo visitare i cimiteri di ogni luogo in cui mi reco per sentire le sto-
rie non solo dei viventi del posto, ma anche di chi non c’è più. Questo cimi-
tero in India, diviso per lotti, mi ha fatto molto riflettere sul colonialismo e
post-colonialismo a livello storico e politico, ma anche linguistico».

C’è un grande rimpianto in Kumari: l’impossibilità di incidere e


cambiare la condizione di tantissima gente povera in India. Il mondo
corre sempre verso una direzione e gli ultimi rimangono sempre ulti-
mi? Si ragione sempre su cosa divide, Occidente e Oriente.
«Sono cresciuta in un’India dove era d’obbligo studiare Kipling. Conosco a memoria
i versi di Kipling ma non so parlare e scrivere il gujerati, la lingua dello stato del Gujerat
dove i miei avi sono sbarcati dalla Persia nel 980 D.C.
È solo crescendo che mi sono accorta di essere in totale disaccordo con Kipling che so-
steneva che «L'est è est e l'ovest è ovest, e i due non dovrebbero mai incontrarsi»3.
Una donna di Calcutta può apparentemente avere dei problemi diversi di una donna
di Cremona, ma alla fine non è così. La lotta per i diritti femminili, il lavoro, i problemi
di famiglia, i femminicidi sono uguali a tutte le latitudini. E, ahimè, gli ultimi sono sem-
pre gli ultimi. Nel 2020 l’uomo più ricco di tutta l’Asia era (ed è tuttora) un indiano,
ma le immagini dei lavoratori giornalieri delle grandi città indiane che hanno perso tutto
in seguito alla pandemia e a piedi percorrono migliaia di chilometri per raggiungere i loro
villaggi è una fotografia spietata dell’altra realtà indiana. L’India ti sbatte in faccia la
realtà senza filtri, mentre l’occidente nasconde i suoi problemi dietro ad un velo di finto

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progresso. Fare qualcosa si può? Kumari, con il suo esempio, ci indica una delle vie mae-
stre: dare una istruzione e pari opportunità alle donne».
«L’uomo è ossessionato dal diverso». In piena carriera Kumari, ad
incontri pubblici, scatena reazioni contrastanti per quello che dice e
quello che rappresenta. La paura della diversità è solo una questione
culturale?
«Sono fermamente convinta che chi teme l’altro è solo poco sicuro del-
la propria identità. Chi ha una base solida non teme il diverso. Credo che
molto spesso parole come «intolleranza» o «razzismo» vengano usate erro-
neamente per descrivere invece una paura della povertà, quasi fosse conta-
giosa, quasi per paura di ricordare che ad emigrare una volta (e tuttora) sia-
no anche cittadini dei paesi avanzati».

Il giardino dei frangipani pone al centro della narrazione il senso di appar-


tenenza come elemento doppio, multiplo, plurale. Lo fa anche attraverso il
cimitero cristiano di Sewri in cui Italia e India s’incontrano in forme e paro-
le diverse ma con sentimenti comuni quelli per i tanti italiani prigionieri di
guerra, sepolti in questo spazio di India che ai più non dice nulla.
Lo specchio dell’identità dell’autrice (che, appunto, rivendica la pluralità
della sua scrittura, il suo essere senza confini) e della protagonista (che ama
più luoghi, il prima e il dopo, segnando un asse preciso tra l’India e l’Italia,
un filo rosso di significato difficile da capire se non si vive) concorrono a co-
struire la circolarità complessa delle storie di questo libro che assume una va-
lenza contemporanea di romanzo di formazione con un filone insito di edu-
cazione alla cittadinanza.
Perdersi e fermarsi tra le pagine di questa opera narrativa significa eser-
citare il diritto-dovere alla cittadinanza, interrogandosi nel modo più esteso
sul significato di questa parola e sull’esercizio sociale che si porta dietro. Cit-
tadinanza come rappresentanza dei diritti oltre lo Stato singolo: rappresen-
tanza tra gli stati. Il testo si collega alla riflessione profonda che ognuno di
noi può fare su uno dei temi più profondi del Trattato di Maastricht del 1992,
quando si stipulò che la cittadinanza europea è una condizione giuridica pro-
pria di ogni persona appartenente a uno Stato dell’Unione Europea. Una
condizione che non sostituisce la cittadinanza nazionale, ma ne rappresenta
un’integrazione, essendo finalizzata a instaurare la solidarietà tra i popoli che
fanno parte dell’Unione Europea e a favorire il processo di integrazione po-
litica tra gli Stati membri.
Nel 1992 i paesi europei fecero questo grande passo giuridico, politico,
sociale. Oggi, nel 2021, Oriente e Occidente, Sud e Nord del mondo - con-
gestionati dalla visione privata del concetto di cittadinanza ad uso e consu-

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mo sempre dei paesi più forti - relegano la pluralità dell’identità a fatto di fol-
klore o di bieco sottostruttura politica.
Laila Wadia – con Kumari e con tutti i personaggi che incontra e con cui
condivide momenti di vita – porta al massimo della riflessione narrativa il
senso dell’individuo e il suo essere oltre ogni etichetta definita e immobile.

NOTE
1 Laila Wadia, Il giardino dei frangipani, Oligo Editore, Mantova 2020
2 Laila Wadia, Come diventare italiani in 24 ore. Il diario di un’aspirante italiana, Lorenzo Bar-
bera Editore, Siena 2010. Provocatorio libro in risposta a chi pretende che un migrante assi-
mili i «valori» europei in poco più di ventiquattro ore.
3 La liberazione dell’Oriente, per Kipling, era basata sul compito proprio dell’Occidente:
civilizzare l’Oriente stesso, ovvero occidentalizzarlo, in un rapporto di superiorità e di con-
trollo, lasciando l’Esta in totale subalternità. All’inizio della sua Ballata dell’Est e dell’Ovest
(1889), scriveva: «Oh, l’Est è Est, e l’Ovest è Ovest, e mai i due si incontreranno, finché il
Cielo e la Terra si presenteranno infine al Grande Seggio del Giudizio di Dio».

Riferimenti biobibliografici

Laila Wadia è nata in India e ora vive a Trieste.


Insegna inglese presso la Scuola per Interpreti e il Dipartimento di Scienze dell'Università de-
gli Studi di Trieste.
È una scrittrice bilingue e ha pubblicato diversi romanzi e raccolte di racconti su questioni in-
terculturali e femminili, tra cui: Il Burattinaio e altre storie extra-italiane (Cosmo Iannone, 2004);
Pecore Nere (Laterza 2005, AAVV); Mondopentola (Cosmo Iannone, 2007, Aa.Vv.); Amiche per la
pelle (E/O, 2007); Come diventare italiani in 24 ore (Barbera, 2010); Se tutte le donne (Barbera, 2012);
Il testimone di Pirano (Infinito Edizioni, 2016); Kitchensutra – The Love of Language, the Language of
Love (2016); Algoritmi indiani (Vita Activa, 2018); Le molte vite di Magdalena Valdez (Joana Karda
collettiva, Besa, 2019); L'ultimo aereo (Joana Karda collettiva, KDP, 2020); Il giardino dei frangi-
pani (Oligo, 2020).
Fa parte del collettivo di scrittrici translingue Joana Karda. Diversi altri racconti che ha scrit-
to sono inclusi nelle raccolte. Oltre ad essere traduttrice e interprete freelance, lavora come
giornalista per diverse riviste e quotidiani italiani come «Internazionale», «La Repubblica»,
«Popoli», «Viaggiando», «D di Donna», »Metropoli»
Nel 2004 ha vinto la medaglia del Presidente italiano per il contributo letterario.
È anche una drammaturga e molti dei suoi libri e racconti sono stati trasformati in opere tea-
trali e rappresentati in diversi paesi. Scrive poesie, principalmente sulla migrazione, la lingua,
i problemi delle donne e il cibo.
Il suo romanzo Amiche per la pelle è diventato un film, Babylon Sisters, uscito nel 2016 e dispo-
nibile su Youtube.

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