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Giovanni Boccaccio – Elegia di Madonna Fiammetta, cap.

A cosí fatta vita e a peggiore m’ha la fortuna lasciata consolazione cosí picciola, come udite; né intendiate
consolazione che me di dolore privi, sí come l’altre suole: essa solamente alcuna volta gli occhi toglie dal
lagrimare senza piú prestarmi de’ suoi beni. Seguitando adunque le mie fatiche, dico che, con ciò sia cosa
che io per addietro tra l’altre giovani della mia cittá di bellezze ornatissima, quasi niuna festa solea, che
alli divini templi si facesse, lasciare, né alcuna bella senza me ne reputavano li cittadini; le quali feste
vegnendo, a quelle mi solevano sollecitare le serve mie, e ancora esse, l’antico ordine osservando,
apparecchiati li nobili vestimenti, alcuna volta mi dicono: — O donna, adornati; venuta è la solennitá di
cotale tempio, la quale te sola aspetta per compimento. — Oimè! che egli mi torna a mente che io alcuna
volta a loro furiosa rivolta, non altramente che l’addentato cinghiaro alla turba de’ cani, a loro rispondeva
turbata, e con voce d’ogni dolcezza vòta, giá dissi: — Via, vilissima parte della nostra casa, fate lontani
da me questi ornamenti: brieve roba basta a coprire gli sconsolati membri, né piú alcuno tempio né festa
per voi a me si ricordi, se la mia grazia v’è cara.— Oh, quante volte giá, come io udii, furono quelli da
molti nobili visitati, li quali piú per vedermi, che per devozione alcuna venuti, non veggendomi, turbati si
tornavano indietro, nulla, dicendo, senza me valere quella festa! Ma come che io cosí le rifiuti, pure alcuna
volta, in compagnia delle mie nobili compagne, me le conviene costretta vedere, con le quali io
semplicemente e di feriali vestimenti vestita vi vado, e quivi non i solenni luoghi, come giá feci, cerco,
ma, rifiutando li giá voluti onori, umile, ne’ piú bassi luoghi tra le donne m’assetto; e quivi diverse cose,
ora dall’una ora dall’altra ascoltando con doglia nascosa quanto io piú posso, passo quello tempo che io
vi dimoro. Oimè! quante volte giá m’ho io udito dire assai d’appresso: — Oh, quale maraviglia è questa!
Questa donna, singulare ornamento della nostra cittá, cosí rimessa e umile è divenuta? Qual divino spirito
l’ha spirata? Ove le nobili robe? Ove gli altieri portamenti? Ove le mirabili bellezze si sono fuggite? —
Alle quali parole, se licito mi fosse stato, avrei volentieri risposto: «Tutte queste cose, con molte altre piú
care, se ne portò Panfilo dipartendosi». Quivi ancora dalle donne intorniata, e da diverse domande trafitta,
a tutte con infinto viso mi conviene satisfare. L’una con cotali voci mi stimola: — O Fiammetta, senza
fine di te me e l’altre donne fai maravigliare, ignorando quale, sia stata sí súbita la cagione che le preziose
robe hai lasciate e li cari ornamenti, e l’altre cose dicevoli alla tua giovane etade; tu, ancora fanciulla, in sí
fatto abito andare non dovresti. Non pensi tu che, lasciandolo ora, per innanzi ripigliar nol potrai? Usa
gli anni secondo la loro qualitá. Questo abito di tanta onestade da te preso non ti falla per innanzi. Vedi
qui qualunque di noi, piú di te attempate, ornate con maestra mano, e d’artificiali drappi e onorevoli
vestite, e cosí tu similemente dovresti essere ornata. — A costei e a piú altre aspettanti le mie parole rendo
io con umile voce cotale risposta: — Donne, o per piacere a Dio o agli uomini si viene a questi templi.
Se per piacere a Dio ci si viene, l’anima ornata di virtú basta, né forza fa, se il corpo di cilicio fosse vestito;
se per piacere agli uomini ci si viene, con ciò sia cosa che la maggior parte, da falso parere adombrati, per
le cose esteriori giudichino quelle dentro, confesso che gli ornamenti usati e da voi e da me per addietro,
si riechieggiono. Ma io di ciò non ho cura, anzi, dolente delle passate vanitá, volonterosa d’ammendare
nel cospetto d’iddio, mi rendo quanto posso dispetta agli occhi vostri. — E quinci le lagrime
dell’intrinseca veritá cacciate per forza fuori mi bagnano il mesto viso, e con tacita voce cosí con meco
medesima dico: «O Iddio, veditore de’ nostri cuori, le non vere parole dette da me non m’imputare in
peccato. Come tu vedi, non volontá d’ingannare, ma necessitá di ricoprire le mie angoscie a quelle mi
strigne, anzi piuttosto merito me ne rendi, considerando che ’l malvagio esemplo levando, alle tue creature
il do buono: egli m’è grandissima pena il mentire, e con faticoso animo la sostengo, ma piú non posso».
Oh quante volte, o donne, ho io per questa iniquitá pietose lagrime ricevute, dicendo le circustanti donne
me devotissima giovane di vanissima ritornata! Certo, io intesi piú volte di molte essere oppinione, me di
tanta amicizia essere congiunta con Dominedio, che niuna grazia a lui da me dimandata, negata sarebbe;
e piú volte ancora dalle sante persone per santa fui visitata, non conoscendo esse quel che nell’animo
nascondea il tristo viso, e quanto li miei disiderii fossero lontani alle mie parole. O ingannevole mondo,
quanto possono in te gl’infinti visi piú che li giusti animi, se l’opere sono occulte! Io, piú peccatrice che
altra, dolente per li miei disonesti amori, però che quelli velo sotto oneste parole, sono reputata santa; ma
conoscelo Iddio, che, se senza pericolo essere potesse, io con vera voce di me sgannerei ogni ingannata
persona, né celerei la cagione che trista mi tiene: ma non si puote.

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