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MICHELANGELO - POETICA

Al pari degli altri artisti del Rinascimento, e dei Fiorentini, in particolare, Michelangelo
riteneva che scopo dell’arte fosse l’imitazione della natura, solo indagando la quale si
poteva arrivare alla bellezza. Strumento principale di conoscenza per i pittori del tempo
era la prospettiva. Michelangelo credeva, inoltre, che dalla natura occorresse scegliere i
particolari migliori ma anche che con la fantasia l’artista fosse capace di dare vita a una
bellezza superiore a quella esistente in natura. C’è, dunque, per lui u modello di bellezza
che ogni artefice concepisce nella propria mente, cioè un modello ideale al quale
conformare ogni propria creazione.
Il perfetto corpo umano, in quanto specchio della bellezza divina, è ora per M. la cosa più
bella del creato.
Divenuto più profondamente religioso con la caduta dei tradizionali valori cristiani (a causa
della Riforma protestante e del Sacco di Roma) e sotto la spinta dei gruppi riformisti, che
volevano un cambiamento all’interno della Chiesa cattolica, M. cominciò a ritenere del
tutto secondaria la bellezza fisica rispetto a quella spirituale. Essa non era altro che un
mezzo per rendere evidente proprio la bellezza interiore e condurre alla contemplazione di
quella divina. È così che M. comincia a intendere l’attività dell’artista al servizio della
Chiesa. Avvicinandosi alla fine della propria esistenza M. si convince che la bellezza
esteriore distolga addirittura l’uomo dalla spiritualità. Anch’egli, dunque, ormai coinvolto
(come molti altri artisti) nel clima controriformisti, teme che la propria arte e la propria
fantasia possano averlo condotto addirittura verso la dannazione dell’anima, meritandogli il
castigo eterno.

Per M. il blocco di marmo informe contiene già, potenzialmente, quel che poi lo scultore
sarà capace di trarne. M. esprimerà poeticamente questa concezione in un sonetto degli
inizi degli anni Quaranta del Cinquecento:
“Non ha l’artista alcun concetto/c’un marmo solo
in sé non circoscriva/ col suo superchio, e solo a quello,
arriva/ la man che ubbidisce all’intelletto”.
Nelle statue dei due schiavi, invece, si fa concreto il tema dell’anima prigionia del corpo (la
pietra informe) e anelante alla libertà (la pietra scolpita: forma svincolata dalla materia che
la opprimeva). Ma essi sono anche un pretesto per formare dei corpi perfetti, ora tesi nello
sforzo, ora abbandonati nel languore dello sfinimento.

L’adesione alla filosofia neoplatonica portò Michelangelo a non rappresentare la realtà


così com’era: l’arte non doveva riprodurre la natura, che è mutevole e imperfetta, ma
puntare direttamente alla rappresentazione delle idee, che sono perfette e immutabili
(anche il colore michelangiolesco è un prodotto del pensiero).
Alla base di ogni opera per Michelangelo c’è il disegno, esso serve per rendere concreta
l’idea che l’artista ha nella mente. Michelangelo si viene abituando a considerare che ciò
che scolpisce esiste già nel marmo. Quando poi creerà liberamente, la sua idea dovrà
essere chiara nella sua mente come se già esistesse. Nel marmo l’artista dovrà ritrovare
quell’idea che vive nella sua immaginazione. L’esecuzione consisterà soltanto nel ricavare
quella visione dal marmo “spogliandolo di ogni soverchio” e farne scaturire l’immagine. Pur
partendo da un blocco di marmo, Michelangelo lavora su una sola faccia del
parallelepipedo andando a “liberare” l’idea che già persiste all’interno del blocco. Per lui il
blocco di marmo informe contiene già potenzialmente quello che l’artista poi riuscirà a
trarre. Compito dello scultore è quello di togliere la materia che non serve e liberare la
forma. La scultura secondo M. deve essere una disciplina a forza di levare. La mano
dell’artista è lo strumento che esegue meccanicamente la volontà dell’intelletto, il quale
non può avere nessuna idea che già non persista all’interno del marmo. È dunque l’idea
che vive eternamente, che l’artista ha il compito di liberare dalla materia, lottando con
essa, con il totale impegno di se stesso, con fatica fino a ritrovarla intatta.
Tutto ciò non è altro che la metafora della vita: si deve eliminare, togliere tutto ciò che è
legato all’istinto, che imprigiona l’animo, per arrivare allo spirito. È per questo che tutte le
figure di M. sono sempre in movimento, piene di vitalità ed energia, lottano per liberarsi
dalla materia e dalla carnalità.
Motivo costante dell’arte michelangiolesca è la lotta dell’uomo imprigionato, oppresso,
sconfitto per raggiungere una meta che sa irraggiungibile, ma verso la quale deve tendere.
Nella Battaglia dei centauri la profondità e lo spazio sono resi dai corpi delle figure che
sporgono in maniera digradante dal piano di fondo. Attraverso questa maggiore o minore
sporgenza delle figure, M. sembra quasi farle emergere dalla pietra dando, inoltre, l’idea
della fatica che queste fanno ad uscire dal blocco di marmo. Tutto ciò rimanda alla
concezione michelangiolesca secondo cui l’idea assume una forma che lo scultore
attraverso un procedimento progressivo libera dalla pietra, per cui quando alcune parti di
essa già emergono libere, altre sono ancora imprigionate. Di qui il diverso trattamento
della materia appena scalpellata nella cornice, sbozzata nei piani più interni e più lavorata
sulle superfici esterne.
Il non finito
Il non finito michelangiolesco (San Matteo, Prigioni, ultime Pietà) ha un significato preciso:
il blocco sbozzato lascia solo intravedere l’immagine che l’artista viene liberando dalla
materia, mentre l’idea compiuta è irraggiungibile perché eterna; l’uomo può soltanto lottare
per tendere verso quella meta, ma è cosciente dell’impossibilità per lui finito di giungere
all’infinito. Nel non finito si concretizza il pessimismo michelangiolesco, la constatazione
dell’urto fra l’imitazione dell’eterno e la caducità di tutte le cose, fra la purezza dell’idea e lo
squallore della realtà, fra la ragione che Dio ci ha concesso e la pochezza dei risultati. Il
“non finito” toglie alla statua la perfezione del modello, il significato di ciò che, essendo
compiuto è immutabile; essa in quanto incompiuta ha dunque infinite possibilità di
soluzione, ciascuno di noi, non più spettatore passivo, diviene attore. E con ciò si torna al
concetto iniziale: dentro ogni blocco di marmo esistono infinite forme.
San Matteo: l’apostolo tenta di uscire dalla materia con fatica, con sofferenza, tenta di
realizzare se stesso, di dar corpo alla propria vita di uomo, senza potervi giungere. Questa
statua ci aiuta anche a capire il processo creativo michelangiolesco e, di conseguenza,
l’unicità del punto di vista frontale. Michelangelo per scolpire il San Matteo lavora, infatti,
solo da un lato. L’artista, “cavando” la forma dal blocco di marmo, la libera togliendo il
“soverchio” parallelamente da un lato e dall’altro, ossia facendo arretrare sempre di più il
primo piano anteriore della materia e rendendo visibili via via le parti più sporgenti, che
sono anche le più compiute.
Nei Prigioni la drammaticità è accentuata per effetto del “non finito” che esaspera il
contrasto tra forma e informe, fra idea e materia, fra vita e morte. Il prigione ribelle del
Louvre si contorce nel vano tentativo di svincolarsi dalla stretta dei legami. I suoi muscoli
sono contratti allo spasimo, l’espressione denuncia uno stato di tensione insopportabile.
Non è solo da catene materiali che il giovane cerca di liberarsi ma da costrizioni spirituali,
poiché la bellezza delle sue membra è considerata prigione per la sua anima. I Prigioni
sono la più efficace testimonianza che Michelangelo concepì la scultura solo come arte
che si ottiene a forza di togliere (al ridursi della materia, cresce la forma). Nella concezione
di M., quindi scalpellare il marmo per eliminare l’eccedenza non era una semplice attività
manuale ma prima di tutto un’operazione di natura intellettuale. E non era necessario
terminare l’opera, se questa già riusciva ad esprimere ciò che aveva da esprimere. Con le
sue opere M. sfatò il pregiudizio che il finito artistico fosse una condizione necessaria
perché l’opera acquistasse valore, segnando così una svolta radicale nella storia della
scultura occidentale e anticipando di secoli il gusto del Novecento. Rispondendo a una
profonda esigenza della sua poetica egli tradusse il non finito in un nuovo linguaggio
dell’arte. Attraverso il non finito, M. trovò un modo coraggiosissimo, per esprimere
l’inesprimibile, per arrivare all’essenza dell’idea artistica.
Michelangelo scolpisce, “per forza di levare” affrontando frontalmente il blocco di marmo e
addentrandosi nella materia con uno scalpello appuntito che abbozza la figura. Con un
altro scalpello, la subbia, scava una serie di solchi paralleli che abbassano i piani. Dal
momento che egli interviene sul marmo sgrezzato da punti diversi, i solchi si intersecano,
dando l’impressione di qualcosa di molto simile a un vigoroso tratteggio. A esso si
accompagna un tratteggio più fitto, minuto e regolare. Quando l’opera non rimane nello
stato di incompiutezza (il “non finito”), Michelangelo la rifinisce, delineandone i dettagli. La
rifinitura finale consiste in un’accurata levigatura delle superfici, come nella pietà di S.
Pietro e nel David. Il “levare” corrisponde anche ad un preciso valore concettuale, secondo
il quale all’interno della materia il blocco di marmo, è già racchiusa la forma e il compito
dell’artista è di liberala facendola emergere. La figura emerge gradualmente, quasi
dovesse lottare contro un pesante involucro; talvolta essa acquista una forma finita,
spesso invece rimane allo stadio di non finito. Le figure non finite sono più monumentali di
quelle finite in quanto Michelangelo non ha “levato” del tutto la materia che le racchiude. Il
gigantismo che le caratterizza sprigiona di per sé un effetto plastico – drammatico che le
accomuna agli affreschi di Michelangelo dove il medesimo effetto è assicurato dalla forte
tensione lineare. In generale il “non finito”, pur essendo interpretabile alla luce della
dialettica tra materia e forma, si può leggere anche come dimostrazione della tremenda
inibizione di Michelangelo a concludere: l’artista è certo di non poter dare una forma
all’assoluto. Ma il suo operare è comunque lento a causa dell’estremo sforzo psicofisico
che specialmente lo scolpire gli imponeva. La sua ricerca quasi ossessiva per dare forme
visibili a ciò che egli concepiva idealmente potrebbe apparire in antitesi rispetto al concetto
del “non finito”; non sappiamo con sicurezza se lo stadio interrotto fosse quello al quale
per davvero l’artista aspirasse o il limite massimo cui riusciva a spingersi.

I Prigioni, come tutta la scultura non finita a essi successiva, esprimono un’esperienza
spirituale. La forma cavata a fatica dalla pietra corrisponde alla spiritualità dello scultore
che cerca di liberarsi dall’istintiva corporeità. Si tratta di un parallelismo che lo stesso
Michelangelo esplicita in un madrigale dedicato a Vittoria Colonna, scritto alla fine degli
anni Trenta del Cinquecento:
“ Sì come per levar, donna, si pone
in pietra alpestre e dura
una viva figura,
che là più cresce u’ più la pietra scema;
tal alcun’opre buone, per l’alma che pur trema
cela il superchio della propria carne
co’ l’incolta sua cruda e dura scorza.
tu pur dalle mie streme
parti può sol levarne,
ch’io me non è di me voler né forza”
(Come, forza di togliere la materia, si forma una figura viva, così il superfluo della carne
nasconde ciò che di bene è in noi. Tu solo puoi liberare quel poco di bene).

Ultime Pietà:
Nelle ultime Pietà (quelle che M. scolpisce ormai novantenne) l’artista abbandona ogni
aspirazione di bellezza formale subordinandola fortemente all’espressione dell’anelito
religioso. Nella Pietà Rondinini egli fuse insieme le figure della Vergine e quella del Cristo
in un abbraccio tenero e dolente, negando loro ogni consistenza fisica, generando
un’immagine totalmente spiritualizzata.
In queste Pietà si assiste a una progressiva diminuzione plastica della corporeità dei
protagonisti e a una concentrazione sul sacrificio di Cristo. Nella Pietà Rondinini Cristo e la
Vergine sono divenuti il simbolo di una tensione contraria a quella che aveva animato
l’intero cammino di Michelangelo: non più una ricerca affannosa della forma, bensì la sua
negazione. Ed è come se lo spirito che sostiene le due figure abbia ormai vinto tutto. Non
sorprende il fatto che, mentre lavora a questa scultura supremamente religiosa (dal 1552
sino alla morte) Michelangelo nelle Rime, che ormai sono divenute preghiere, quasi
rinneghi il suo operato in quanto gli appare come il frutto di una creatività troppo soggetta
a uno smisurato amore per la bellezza terrena.
Un sonetto del 1552/54 dice:
“né pinger né scolpir fie più che quieti/l’anima, volta a quell’amor divino/ c’aperse, a
prender noi, ’n croce le braccia” (né il dipingere, né lo scolpire potranno acquistare l’anima,
rivolta a quell’amor divino che aprì le braccia in croce ad abbracciarci). Un disegno
databile negli stessi anni, raffigurante la Crocifissione è la prova visibile di dove si fosse
spinto il suo fervore.
La sua fu una personalità dibattuta tra classicismo e sua crisi, tra bellezza corporea,
materia e spirito. Le inquietudini spirituali e il fervore religioso di Michelangelo, non
estraneo agli ambienti di punta della Riforma cattolica, si riflettono nel continuo crescendo
sacro-drammatico del suo fare arte e lo portano a soluzioni che sono sì classiche, ma
soltanto nella loro originaria concezione, dal momento che vanno sempre più
distanziandosi dai canoni di equilibrio formale propri della definizione di classicismo.
Le forme michelangiolesche acquistano una tensione spirituale tanto forte da risultare
fondamentalmente anticlassiche. Pur essendo a pieno titolo rinascimentale, l’opera di
Michelangelo non è estranea al Manierismo, ossia al grande e vario movimento che, dal
secondo decennio del Cinquecento, si pone in antitesi con gli stessi ideali classicisti del
Rinascimento.
Per quella stessa tensione e forza sovrumana l’arte di Michelangelo non appare mai come
una vera testimonianza di “crisi”; al contrario è sostenuta da un impeto ideale che la
innerva, sino al culmine sacro-drammatico della Pietà Rondinini, nella quale la ricerca
della forma cede alla disadorna espressione del suo contenuto religioso.

Pietà Vaticana (eseguita in età giovanile): la Pietà di M. non narra il dolore della madre,
non mostra lo strazio del corpo martoriato di Cristo, ma, l’una e l’altro, la vita e la morte,
raggiungono la perfezione divina. La perfezione del volto di Gesù e di quello della Madre
esprime la sublimazione del loro sacrificio, il superamento delle fattezze terrene e il
raggiungimento della bellezza ideale. La Pietà è l’opera più finita fra tutte quelle eseguite
dall’artista. La Vergine è rappresentata giovanissima rispetto all’età che essa avrebbe
dovuto avere alla morte del figlio. Secondo M. la verginità di Maria, la purezza della
concezione divina, l’incorruttibilità spirituale sono espresse mediante l’integrità della carne
di chi è giovane e puro. Il gruppo non vuole essere la rappresentazione di un fatto, ma
l’immagine di un concetto: aspira a una perfetta fusione fra bellezza formale e verità
teologica.

Cappella Sistina: la disposizione delle scene bibliche corrisponde a un preciso percorso di


elevazione spirituale conforme ai precetti neoplatonici, la cui osservanza era volta a
produrre l’ascesa dell’anima individuale verso la sfera divina. L’ordine interno all’opera è
dunque un ordine ideale, in cui il divino “appare prima abbozzato nella figura imperfetta
dell’uomo imprigionato nel corpo (Noè) per poi progressivamente assumere una forma
sempre più perfetta fino a divenire un essere cosmico. Al senso biblico della sua opera, M.
volle sovrapporre un nuovo significato, un’interpretazione platonica della Genesi. Nella
creazione di Adamo, M. giunge a una perfetta sintesi ideale. Dio e Adamo sono separati
da uno spazio quasi vuoto, attraversato solo dagli avambracci che costituiscono il
collegamento tra i due soggetti; quel vuoto ha una grande importanza nell’impianto
complessivo dell’affresco, in quanto isola le mani attirandovi lo sguardo dello spettatore
ma nel contempo evidenzia l’assoluta separazione tra infinito e finito. Sia nella Creazione
di Adamo che negli ignudi, che vediamo atteggiati nelle pose più diverse e trattati come
delle vere e proprie sculture viventi, ancora una volta Michelangelo esprime il suo concetto
di bellezza. Lo scopo dell’artista è quello di dar vita al suo ideale estetico: realizzare corpi
perfetti, proporzionati, atletici e maestosi nei quali si riflette la bellezza stessa della divinità.
Le figure di M. trasmettono un’impressione di potenza ed energia, simbolo del tentativo
dell’uomo di elevarsi spiritualmente verso Dio. Sono eroi anche se sconfitti perché
obbediscono all’impegno morale che è dentro di loro, quello di raggiungere la purezza
dell’idea. La rappresentazione della storia dell’umanità vuole essere uno stimolo alla
riflessione su di essa sul significato dell’uomo nell’ambito divino. Michelangelo vuole qui
sottolineare che il caos dell’universo ha acquisito un ordine e un senso grazie all’ordine
divino, comprensibile solo attraverso l’intermediazione della Chiesa cattolica.

Giudizio Universale: M. ha una visione sempre più cupa e pessimista della vita dell’uomo,
una vita dominata dal peccato e quindi una vita di sofferenza e di dolore. L’uomo tenta di
liberarsi dal peccato ma non vi riesce e questo lo domina anche dopo la morte.

David: David rappresenta l’uomo moderno del quale M. mette in evidenza le qualità
interiori. La grandiosità fisica rappresenta la grandezza morale del personaggio. David è il
simbolo della Repubblica fiorentina. David non è più il giovinetto che ha bisogno di Dio per
vincere il gigante Golia, ma è un uomo che trova in sé la forza. Esprime quindi la forza
morale e politica dei fiorentini che si sono ribellati alla tirannia dei Medici ed hanno
riacquistato la loro libertà. La statua venne collocata in piazza Signoria ai piedi di Palazzo
Vecchio in modo che fosse monito per i governanti: Firenze sapeva tener testa alle grandi
potenze così come David, con la sola fionda, era riuscito a battere Golia.

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