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Dal Manoscritto al Capolavoro

Attività Penne, cesoiuzze e coltellin dolente: un sonetto di Guido Cavalcanti

Il sonetto Noi siàn le triste penne isbigotite

Che cosa vuol dire “isbigotite”? quale trasposizione semantica ha subíto questo termine nel
passaggio da una forma alta – quella della lirica d’amore del Duecento – al linguaggio moderno e ad un uso
comune? Questo gioco della storia di un termine potrebbe essere un’attività quotidiana dell’insegnante
d’italiano, una rubrica fissa nella gestione dei contenuti: comprendere la funzione lessicale in rapporto
all’etimologia e al modo con cui le parole vengono adoperate in contesti diversi e con sfumature di
significato che sono mutate nel tempo fino ai giorni nostri. Così lo sbigottimento del poeta indica lo
sconcerto, il turbamento, la drammatizzazione del conflitto interiore innescato dall’amore.
Ma nella poesia, e in un testo breve e concentrato come il sonetto, le parole-chiave stanno in
relazione ad altre: si noti allora come isbigotite va a costituire un campo semantico ben delimitato e
coerente con la poetica di Cavalcanti, venendo ripreso da dolente, dolorosamente, cose dubbiose,
destrutto, morte, sospiri, pietà.

Testo Parafrasi

Noi siàn le triste penne isbigotite, Noi siamo (siàn) le tristi penne sbigottite,
le forbicine e il coltellino addolorato,
le cesoiuzze e ‘l coltellin dolente, che abbiamo scritto con sofferenza
ch’avemo scritte dolorosamente le parole che avete ascoltato.
quelle parole che vo’ avete udite.
Or vi diciàn perché noi siàn partite Ora vi diciamo (diciàn) perché noi siamo andate via
e siamo venute qui da voi immediatamente (di presente):
e siàn venute a voi qui di presente: la mano del poeta che ci faceva muovere dice che prova
la man che ci movea dice che sente nel cuore delle sensazioni piene di dubbio (cose dubbiose);
cose dubbiose nel core apparite;

le quali hanno destrutto sì costui le quali lo hanno a tal punto distrutto


e lo hanno portato (hannol posto) così vicino alla morte
ed hannol posto sì presso a la morte, che di lui non è rimasto altro se non i sospiri.
ch’altro non v’è rimaso che sospiri.

Or vi preghiàn quanto possiàn più forte Ora vi preghiamo quanto più forte possiamo
che voi non rifiutate di accoglierci
che non sdegniate di tenerci noi, fintanto che vi prenda un po’ di compassione nei nostri confronti.
tanto ch’un poco di pietà vi miri.

Per comprendere il testo

 Il punto di vista della poesia è focalizzato sui “ferri del mestiere”: sono gli strumenti che parlano al posto
del poeta. Il poeta è affezionato a questi oggetti e nel descriverli utilizza diminutivi e vezzeggiativi:
cesoiuzze, coltellino. Che effetto produce questo espediente? Scrivi un breve commento.
 La forma di questa poesia è il sonetto. Individua le parole che sono in rima e ricostruisci il loro
andamento nello schema metrico.
 Nella prima quartina del sonetto il noi delle penne isbigotite si contrappone al voi di coloro che hanno
udito quelle parole: chi viene identificato con la seconda persona plurale? A chi si rivolge il poeta?
 Si può affermare che nella poesia si riscontra un processo di personificazione? In che modo il poeta si
trasferisce nei suoi strumenti?
Dal Manoscritto al Capolavoro

 Or vi diciàn …. Or vi preghiàn sono in posizione anaforica: sono ripetizioni che stanno ad inizio di verso e
sono evidentemente collegate. Con quale funzione? Sapresti fare degli esempi presi da linguaggio
comune e quotidiano in cui siamo in presenza di una anafora?
 Nella poesia si fa un grande uso di un fenomeno molto semplice: la caduta di uno o più fonemi alla fine
di una parola. Ad esempio quando si dice (o si scrive) van al posto di vanno o pensier al posto di
pensiero. Questo fenomeno, da non confondere con l’elisione, si chiama apòcope, ed ha anche un’altra
funzione: accorcia la parola di una sillaba, cosa che nella costruzione del verso poetico è fondamentale.
Infatti la parola pensiero è di tre sillabe (pen-siè-ro) e con l’accento sulla penultima sillaba (piana); ma
con l’apocope della vocale finale diventa di due sillabe (pen-sièr) e con l’accento sull’ultima sillaba
(tronca). Nella poesia di Cavalcanti osserva al v. 1 la parola siàn: è la forma dell’indicativo presente,
prima persona plurale, del verso essere e sta per “noi siamo”. Sapresti individuare altre forme simili nel
sonetto?

Proposte di lettura, di approfondimento e di ricerca

La lettura di questo sonetto potrebbe essere accompagnata da altri esempi di sonetti della tradizione
stilnovista o di Petrarca: questo permetterebbe di fare accostamenti sul tema e riflessioni sul linguaggio
poetico di questa grande stagione della nostra letteratura. Alcuni termini sono infatti costanti: la gentilezza,
l’immagine della donna-angelo.

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