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Direzioni immaginarie
Racconti, romanzi e storie per dipingere la vita.
Homo Scrivens
Direttore di collana: Aldo Putignano
Editing: Andrea Corona
Illustrazioni interne: Mario Damiano
Copertina: Homo Scrivens
www.homoscrivens.it
pagina Facebook: Homo Scrivens
Manzoni è morto
a Maria Bruna
Noi non siamo di questo secolo.
I Borboni sono vecchi:
e se volessero modellarsi
sulla forma delle novelle dinastie,
si renderebbero ridicoli.
Noi faremo come gli Asburgo.
Ci tradisca la sorte,
ma noi non ci tradiremo mai.
(FERDINANDO II DI BORBONE)
Alza gli occhi, verso il mare, che s’è fatto celeste tenero.
Come il cielo, come il Vesuvio grande e indifferente.
Un piccolo sospiro di rimpianto.
Non osa chiedere: vorrebbe, però.
Ritrovarli tutti nell’abbraccio di Dio sarebbe bello.
Così, invece, che rimane? Niente. Il resto di niente.
(ENZO STRIANO)
PROLOGO, 1889
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PROLOGO, 1909
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PARTE PRIMA
Nel 1839 mio padre aveva ventinove anni. S’era sposato l’anno
prima nella chiesa di San Carlo all’Arena, ch’era stata restaurata in
seguito all’epidemia di colera del 1837.
Era un bel giovane mio padre: moro, slanciato, elegante, un
figurino azzimato e fresco. Mamma lo descriveva sempre come
rammentasse un giardino ben curato, pieno di fiori.
Portava baffi sottili, un pizzetto aguzzo e affilato e una zazzera
di capelli corvini che tolse poco prima ch’io entrassi nell’età della
ragione. Mi pare di vederlo, con la marsina di lana vergine attillata
in vita, il gilet ricamato, i pantaloni a tubo aderenti, la cravatta
di satin nero e il cilindro lucido in testa. Lo vedo proprio adesso
davanti ai miei occhi, mentre provo a immaginare quale aspetto
dovesse avere in quel mese d’ottobre del ’39, quando non aveva
ancora trent’anni e aveva una moglie giovane e bella e viveva nella
casa dov’era nato e cresciuto, in via del Duomo, proprio di fronte
alla vecchia Villa dei Pezzenti, dove sarebbe sorto il Mercato dei
commestibili, che ora non esiste più.
Doveva avere begli occhi mio padre all’epoca, gli occhi pieni di
luce di quando sei molto giovane e che solo raramente rimangono
impressi nel resto degli sguardi che spenderai durante la vita. De-
gli occhi un po’ stanchi per essere stati troppo a lungo spalancati
sull’infondata meraviglia d’esistere, lucidi e brillanti come remore
di stelle nel giorno. Sì, dovevano essere occhi belli e luminosi quelli
che s’innamorarono di mia madre e che mi videro nascere. Gli oc-
chi di una volpe nel folto del bosco.
Mio padre aveva frequentato l’università e si era laureato in legge
l’anno in cui morì re Francesco, così che dovettero vestirsi a lutto alla
proclamazione, col rettore che a stento arrivò a trattenere le lacrime.
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Era avvocato e teneva studio a casa, nella stessa stanza in cui
oggi io tengo le mie lezioni. Li vedo i clienti, eccoli, che passano dal
vestibolo allo studio, facendo scrocchiare gli stivaletti di vernice
sulle marmette lucide del pavimento e ricordo quando da bambi-
no origliavo incuriosito a quella porta senza riuscire a udir nulla,
come se là dietro non ci fosse stato nessuno. Rammento quando
poi la porta si spalancava e i clienti tornavano a far scricchiolare le
suole sul pavimento, con un’espressione sempre diversa in volto, e
io li osservavo, nascosto come potevo, fissando quegli occhi che a
volte erano affranti e lucidi.
Era un uomo colto, mio padre. Possedeva una bella biblioteca,
che aveva messo insieme comprando volumi usati sui banchi dei
librai di Port’Alba e di Largo delle Pigne nelle sue lunghe e solitarie
passeggiate. Era un lettore onnivoro e accanito e ci ho trovato di
tutto su quegli scaffali, quando la biblioteca l’ho ereditata io: dal
Progetto di legge e rapporto su i giurati di Francesco Ricciardi, alle
Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo; dai ventinove volumi
dell’enciclopedia zoologica illustrata da Pierre Jean Francis Turpin,
alla Storia di Roma di Theodor Mommsen; da I promessi sposi del
Manzoni, nell’edizioni del ’27 e del ’40, ai trattati di botanica di
Giuseppe Antonio Pasquale.
Trascorreva ore nel suo studio a leggere, seduto alla scrivania o in
poltrona, in palandrana e pantofole bigie, coi fogli sparsi d’appunti
che gli svolazzavano attorno e mio nonno che gironzolava davanti
agli scaffali, eternamente indeciso su quale volume scegliere e guai
a scacciarlo. Gli facevo compagnia, gli ho fatto compagnia effet-
tivamente a lungo in quello studio, seduto a terra, con un volume
dell’enciclopedia di Turpin poggiato sulle gambe incrociate, quand’e-
ro bambino, o sulle poltrone di faggio foderate di tessuto bordò, con
libri maturi tra le mani, quando crebbi e mi feci giovanotto.
La sua cultura, però, si fermava allo studio: papà non amava né
le associazioni né i circoli culturali. Aveva frequentato per qualche
tempo il Caffè d’Italia, in piazza San Ferdinando, ma l’aveva ab-
bandonato dopo aver assistito a uno spiacevole episodio.
Una volta, mentre era seduto nel locale a sorbire un caffè, fe-
cero il loro ingresso Antonio Ranieri e il conte Leopardi, che s’e-
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ra stabilito già da qualche tempo a Napoli. Mio padre aveva letto
qualcosa del conte e lo stimava pur non essendo entusiasta delle
prospettive catastrofiche del dolente poeta.
«Era uno spettacolo doloroso e commovente vederlo» mi dis-
se una volta, «un uomo alto quanto un bambino, curvo per il
peso di due ingombranti gobbe, che ansimava tristemente come
se a ogni rantolo non avesse avuto più la forza di respirare. Era
un uomo dal sapere sconfinato, e sebbene io non condividessi
le sue opinioni, non potetti tollerare quello che gli si disse quel
giorno».
I due amici si sedettero ai tavolini e mio padre salutò inchinan-
dosi, notando però che gli altri avventori avevano iniziato a confa-
bulare in una maniera che, ahimè, faceva intuire la crudele ostilità
degli intenti.
«Il conte se ne accorse e cominciò a declamare ad alta voce un
brano d’una sua poesia, che recitava: “S’arma Napoli a difesa/
dei maccheroni suoi, ch’ai maccheroni/ anteposto il morir, troppo le
pesa”.
E allora, attendendo solo una provocazione, quelli iniziarono a
parlare a voce sostenuta, per farsi udire, e malignamente: “Ma chi
crede di essere questo Leopardi? Questo rachitico gobbo davanti e
di dietro, catarroso e colitico, che beve solo caffè e mangia gelati
e confetti? Crede d’essere un uccello che vola più alto degli altri”.
“Ma che più altro degli altri! Al massimo può essere l’uccello
padulo”.
“E che è quest’uccello padulo?”
“Quello che vola all’altezza del culo!” e risero a spezza fiato».
A quelle parole, mio padre fissò corrugando la fronte il conte e
il suo amico, ma non si dette tempo d’assistere alle loro espressioni:
raccolse il cilindro, il suo quotidiano, il bastone, pagò il caffè che
aveva bevuto e uscì dal locale, senza rimetterci mai più piede.
I circoli, i caffè, i salotti, le logge, poi, erano pieni di liberali e
riformisti e mio padre era un monarchico. Preferiva tenersi alla
larga dalla politica, che avrebbero leso alla sua professione e alla
sua famiglia. Meglio il salotto di casa e le pantofole imbottite, lon-
tano dai fragori e dall’indecenza.
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Sostanzialmente, mio padre era un uomo curioso. Credeva che
la vita fosse fatta a maggior gloria delle dolcezze della conoscen-
za. Amava i musei, la staticità dei vasti saloni dove dimoravano
antiche bestie impagliate o erme preadamitiche di qualche dio de-
funto, sempre sobrie, silenti, coi loro reperti catalogati con dovizia
da cartigli ingialliti. Adorava la cultura che non sbraita, che non
insiste, che non muta. Era un conservatore fiero e sincero, ma non
un reazionario. Sapeva osservare la realtà e non si faceva illusioni
di sorta. Amava distrarsi, tuttavia, e lo faceva assecondando la
sua curiosità congenita, vicina a quella dei geologi o degli ento-
mologi, che studiano fenomeni così estesi nel tempo o esseri così
minuti che tutto il resto sfuma, impoverisce. Cosa sono gli anni
umani davanti alle ere geologiche? Cos’è la società civile innanzi
agli ordinamenti monarchici di un formicaio? Nulla più d’un fiato
nel vento.
Sebbene non amasse il cambiamento, foriero di scempi, a suo
dire, non poteva esimersi d’apprezzare le novità che quegli anni
apparentemente prodigiosi largivano, vidimandole con l’appellati-
vo sommario e ottimista di “Progresso”.
Era quello il vocabolo che nel secolo Decimonono definiva tutta
la speranza in ciò che sarebbe potuto accadere, la parola marchiata
a fuoco negli animi dei liberali, pronunziata con arcana diffidenza
dai potenti, disprezzata dai codini più fanatici. Il Progresso… e
una specie d’orizzonte assolato s’apriva davanti agli occhi, come
un’alba prima scura e poi sempre più luminosa e vermiglia, il so-
gno disperato d’un avvenire migliore.
E mio padre, sebbene avesse molte qualità del codino, non po-
teva fare proprio a meno di seguire con vivo interesse ogni nuova
manifestazione di quell’epoca d’utopie avverate.
Infatti, quando venne a sapere della strada ferrata che il re ave-
va dato ordine di costruire, ogni fibra del suo corpo, ogni istante
dei suoi giorni fu votato interamente al desiderio d’essere testimo-
ne oculare di quella grandiosa invenzione.
L’accordo per la costruzione della ferrovia venne firmato nel
giugno del 1836, in pieno colera, e i lavori furono affidati all’in-
gegnere francese Armando Giuseppe Bayard de la Vingtrie, che
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avrebbe dovuto realizzare, nell’arco di tempo di quattro anni, una
tratta che da Napoli avrebbe raggiunto Nocera Inferiore.
La linea Napoli-Nocera sarebbe stata la prima ferrovia d’Italia. I
lavori iniziarono nell’agosto del 1838 e in tredici mesi fu costruito
il primo tratto, che collegava la stazione di Napoli al Carmine al
binario del Granatello di Portici.
Mio padre seguì attentamente la vicenda della costruzione della
ferrovia sui quotidiani. Ma non gli bastava. Voleva vedere quel
treno, a tutti i costi.
Iniziò, allora, a corteggiare un suo cliente, che aveva un fratello
che dirigeva i lavori di costruzione dei vagoni della locomotiva a
San Giovanni a Teduccio, affinché intercedesse per lui e gli per-
mettesse di assistere all’inaugurazione.
«Dotto’» disse l’uomo a mio padre, «si vulite, ij ve faccio sagli’
pure ’ngopp’ a ’o treno». A mio padre brillarono gli occhi. «Si tu me
faj ’sto piacere, te puo’ pure scurda’ ’e paga’ l’onorario mio!» rispose.
Così, il cliente si adoperò affinché anche mio padre, nel giorno
dell’inaugurazione, fosse su quella locomotiva. E ci riuscì.
Il 3 ottobre dell’anno 1839, mio padre si svegliò all’alba. Fece un
lungo bagno, si rasò accuratamente, si frizionò e si profumò con
l’acqua di Colonia. Indossò un completo chiaro, di cotone leggero,
marsina avorio, calzoni castoro, alla tirolese, gilet ricamato, cra-
vatta bordò, lobbia chiara e bastone. Ordinò a Gioacchino, il figlio
della nostra domestica e cocchiere, che fosse armato il calessino e
si avviò alla stazione del Carmine, da dove sarebbe partito il treno.
Prima che fosse costruita la stazione Centrale, nel 1866, la sta-
zione del Carmine era un gioiello meraviglioso.
Oggi è uno stabile quasi in disuso, affrancato ormai dall’utilità
e dal decoro, scrostato dell’intonaco, cadente degli stucchi, invaso
dalle parietarie.
All’epoca era un complesso grandioso, dipinto a colori chiari,
vivaci, costituito da due corpi a un sol piano, con tre grandi ingres-
si ad arco che immettevano alle sale d’aspetto. Un’ampia tettoia in
muratura univa i due corpi e sovrastava i binari, sostenuta da due
file di colonne di ghisa. Era magnifica quella stazione che guarda-
va al campanile del Carmine e dava le spalle al Vesuvio, accosta ai
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bastioni del castello dello Sperone, l’antica fortezza angioina che
chiudeva le mura di Napoli a sud e che ora non esiste più.
Il calessino di mio padre ebbe difficoltà a farsi largo tra la folla,
perché quel giorno una torma aveva gremito la stazione: nessuno
voleva perdersi lo spettacolo del Progresso.
La vettura s’incuneò lentamente, e alla fine mio padre riuscì a
scendere davanti all’ingresso. Qui respirò l’odore asettico delle vol-
te nuove e immacolate, che contrastava con il puzzo della strada e
con l’effluvio di salsedine che s’alzava dal vicino litorale.
Si fece largo tra i presenti e mostrò con orgoglio il foglio, con
tanto di bollo reale, che lo designava ospite d’onore. Mio padre
transitò fino alla banchina e s’arrestò, con un sorriso commosso
impresso sulle labbra: eccola lì, la Vesuvio, la locomotiva marca
Longridge Starbuck e Co., scintillante e sbalorditiva. Mio padre si
avvicinò lentamente. La locomotiva non era molto alta. Mio padre
osservò attentamente le fasciature di legno dipinte di rosso, tenute
insieme da quattro cerchiature di ottone lucente, le ciminiere alte,
anch’esse scintillanti, la cabina di manovra, dove un elegante con-
ducente attendeva l’ordine di partenza. Alla locomotiva seguiva il
tender a due assi, che trasportava il carbone, necessario alla car-
burazione, e l’acqua. Nove vagoni dipinti di verde, tranne quello
centrale, che avrebbe ospitato il re e che era bordò, costituivano la
fila del convoglio.
C’erano molte persone note sulla banchina ad attendere di pren-
dere posto e mettersi in viaggio. Mio padre riconobbe il marchese
D’Andrea, a quel tempo Ministro delle Finanze e degli Affari Ec-
clesiastici, Nicola Parisio, Ministro della Giustizia. C’erano il pitto-
re Giacinto Gigante, accompagnato dall’anziano padre Gaetano, il
filosofo Galluppi, allora titolare della cattedra di Logica e Metafisi-
ca all’Università di Napoli, e tanti altri.
I distinti ospiti erano tutti vocianti, irrequieti ed elegantissimi.
Le trine, le sete, i battista e i taffetà svolazzavano d’intorno come
sciami di farfalle variopinte. Le belle signore dagli abiti di seta ope-
rata, chiari, color pesca, ocra, rosa, tipici della stagione ancora esti-
va, coi cappelli merlettati, i calash rigidi, gli scialli di lana leggera,
si sporgevano sulla banchina, ad ammirare il mostro di ferro che
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la loro immaginazione più fervida non riusciva a concepire po-
tesse muoversi. Era uno spettacolo. Quando lo raccontava, mio
padre era dovizioso di particolari. Descriveva le volte della banchi-
na come arcate di un tempio pagano e la lunga spira della strada
ferrata come una serpe serena e opulenta, liscia e splendente, che
si dilungava verso le campagne, laggiù, dove il panorama rigoglio-
so compieva una curva sotto la sagoma fumante e tranquilla del
Vesuvio.
Gli ufficiali dell’esercito, i marinai, i soldati dalle uniformi bian-
che e blu e la banda degli ottoni, che avrebbe preso posto nel con-
voglio sito subito dopo il tender, si accalcavano riempiendo l’aria
del fumo turchino e odoroso dei sigari, non meno smaniosi di ve-
der muovere la prodigiosa macchina.
Poi, dopo un poco d’attesa, il macchinista fischiò il segnale di
partenza e tutti gli ospiti salirono sui convogli. La prima carrozza,
come detto, ospitava la banda musicale, seguivano i soldati d’ar-
tiglieria, i marinai, gli ufficiali, due carrozze d’invitati, poi ancora
ufficiali, marinai e, in fine, i soldati di fanteria.
Mio padre montò sulla prima carrozza degli invitati e si trovò
seduto accanto al finestrino, vicino al vecchio Gaetano Gigante.
L’anziano pittore non era troppo entusiasta della concitazione
generale. Sembrava affaticato, vestito d’un abito antiquato, di vel-
luto, scuro e largo e non emise un fiato per tutto il tragitto: si limitò
a gemere di tanto in tanto, forse in risposta a qualche fitta che gli
percuoteva l’esile corpo.
Poco dopo essere saliti, un nuovo fischio risuonò sulla banchina,
seguito da uno scossone che fece urlare qualche donna. Poi, un
fischio ancora più acuto, che proveniva dalla macchina in moto,
fu seguito da un movimento che intontì mio padre.
«Non te la posso descrivere quella sensazione. Sembrava un mal
di mare, ma molto più forte. Poi vidi la terra scorrere lentamente
e un rumore cadenzato, metallico, iniziò a prodursi nell’abitacolo,
un tutu-tutun, tutu-tutun, ed era il rumore delle ruote sul binario.
La banda suonava la marcia reale e dietro di noi, sulla banchina
che si allontanava, sentivamo le grida di festa di quelli che saluta-
vano il treno. Poi la velocità aumentò, il panorama iniziò a scorrere
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a passo accelerato e quella sensazione di nausea non voleva andar-
sene. Tutu-tutun, tutu-tutun, facevano ancora le ruote e una nube
nera di fumo fittissimo, screziata di luminosi corpuscoli infuocati,
fuggiva lungo le fiancate dell’abitacolo e spariva in alto.
Lungo il tragitto s’era affollata tanta gente: paesani, contadini,
signori, uomini e donne di tutte le età e condizioni, che salutavano
il treno sventolando fazzoletti, bandiere, cappelli.
Nell’abitacolo le donne, ma anche gli uomini, stentavano a man-
tenere il sangue freddo. “Non andremo troppo veloce?” diceva
qualcuno, sorridendo e intanto tenendosi ben abbrancato al cuoio
delle maniglie di sicurezza.
Era una sensazione stranissima, meravigliosa e al tempo terribi-
le. Io osservavo il panorama, il mare, una landa cobalto dove s’e-
rano assiepate imbarcazioni d’ogni sorta e dimensione, speranzose
di vedere almeno da lontano il treno. Ma tutto sfuggiva troppo
rapidamente, non riuscivo a concentrarmi su niente. Volti, mare,
alberi, case, ville: ogni cosa transitava in fretta e spariva dietro al
convoglio. S’andava avanti, senza requie. Non era possibile fer-
marsi. Non lo sarebbe stato più.
Procedemmo ancora per qualche tratto, superando altre ville
gremite d’ospiti elegantissimi, capannelli di lazzari, gruppi di ga-
lantuomini tronfi e gentildonne affannate, finché non raggiun-
gemmo la villa del Carrione, al Granatello di Portici. Il treno fi-
schiò lungamente e la sua corsa, poco a poco, si arrestò e tutto
tornò come prima, per pochi momenti, nel Regno delle Due Sicilie.
Al Carrione, re Ferdinando attendeva il treno, assieme a Bayard,
alla regina, al primo ministro e ai membri della corte.
Era stato allestito un palchetto lungo la banchina e il re, in alta
uniforme, presiedeva la platea dei molti che affollavano la stazione
del Granatello.
A quel tempo re Ferdinando non era il vecchio che è oggi.
All’epoca il re aveva ventinove anni, quanti ne avevo io. Avresti
dovuto vederlo per capire che cosa intendo. Indossava l’unifor-
me di gala, con la giacca cobalto, le spalline e i galloni dorati,
le brache candide e la feluca piumata. Stava sul palco, in piedi,
sanguigno in volto, leggermente pingue, con la barba sottile, che
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gli cingeva solo il mento, gli occhi castani e brillanti, fissi al suo
treno e un sorriso compiaciuto sulle labbra sottili. Era elegante,
sereno, felice. Quando il treno si fermò alla banchina, i soldati
sui convogli salutarono il re a gran voce e la banda intonò la
marcia reale più fieramente che prima. Noi ci sporgemmo dai
finestrini, per toglierci il cappello davanti alla Maestà. Il palco, la
stazione, la banchina, erano tutti cinti di serti di fiori e ghirlande
variopinte. Un lungo applauso ci aveva accolti, ma il re con un
gesto mise tutti a tacere e iniziò il suo discorso: “Questo cammino
ferrato gioverà senza dubbio al commercio e considerando come
tale nuova strada debba riuscire di utilità al mio popolo, assai più
godo nel mio pensiero che, terminati i lavori fino a Nocera e Ca-
stellammare, io possa vederli tosto proseguiti per Avellino fino al
lido del Mare Adriatico” e nuovi scroscianti applausi seguirono
alle parole del monarca».
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DUE
LA NASCITA, 1840
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TRE
LA DISPUTA DEL NOME, 1840
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QUATTRO
LA VILLA DEI PEZZENTI, 1846
Sono nato in via del Duomo, al civico 36, nel quartiere di San
Lorenzo, sott’a Porta ’e San Gennaro, come si dice in napoletano,
nella stessa casa e nella stessa stanza in cui è nato mio padre.
Vivo ancora in quella casa, che è un appartamento assai am-
pio, al primo piano. Quando le usavamo tutte, c’erano sei ca-
mere: la camera matrimoniale dei miei genitori; lo studio di mio
padre; la camera di mio nonno; la mia; quella da nubile di zia
Margherita, che lei occupava ancora quando veniva a farci visi-
ta col marito; la camera della servitù. Oltre a queste, c’erano la
sala da pranzo, il vestibolo, la cucina e il bagno. Dico «c’erano»
poiché oggi, che siamo rimasti soltanto io e Carla, molte stanze
sono chiuse e non c’entriamo più e si può dire che la casa si sia
ridotta alla metà.
Una volta dai balconi di casa nostra si vedeva la Villa dei Pez-
zenti, o meglio, quel che ne restava.
Nel 1846, re Ferdinando diede ordine di costruire il Mercato dei
commestibili, là dove sorgeva la Villa, che fu spazzata via.
Io lo ricordo ancora quel giardino, dove s’andava a passeggiare,
all’incrocio tra la via Foria e la via del Duomo, circondato da can-
cellate di ghisa arrugginite dalla vernice scrostata, piena di erbacce
cresciute alla rinfusa, che affogavano i viali, e di alberi venuti su
storti e rinsecchiti, abbandonata a sé stessa e ai suoi avventori più
frequenti: i pezzenti e gli straccioni.
Mio padre ci andava a passeggio quand’era bambino. Raccon-
tava che era una Villa come quella Reale, ma più piccola, coi vialet-
ti lastricati di tufo, le aiuole fiorite e una fontana coi delfini.
Poi fu trascurata, lasciata all’incuria e alla decadenza e il re, stu-
fo, decise di cancellarla per sempre e metterci il Mercato.
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Ero molto piccolo quando costruirono il Mercato dei commesti-
bili. Anche quello, si può dire, è scomparso.
Prima costruirono la strada della Pietatella, tra il 1845 e il 1856,
che poi fu ribattezzata via Domenico Cirillo e che collegava e col-
lega tutt’oggi via Foria con via San Giovanni a Carbonara; poi,
nel 1867, misero su un palazzo ad angolo tra via del Duomo e
via Orticello, che fu intitolata poi a Luigi Settembrini, attiguo al
palazzo Framarino, che si mangiò metà dell’area del Mercato. Alla
fine, nel 1898, fu eretto un palazzo con annesso giardino privato
e questo coprì l’altra metà del Mercato. Resta solo una strada, che
ancora collega via del Duomo con via Pietatella, ovvero Cirillo:
il vico delle Gramegne, dove tengono banco i fiorai. Solo questa
strada, una lingua di basoli di piperno tra gli alti muri di cinta,
resta a testimonianza della vecchia Villa dei Pezzenti e del Mercato
dei commestibili, dove io da bambino accompagnavo Adele a fare
la spesa.
Era bello il Mercato, lo ricordo bene. Lo finirono dopo la Rivo-
luzione, nel 1849, e ci venivano a tener banco da tutta la provincia.
Lo vedevo bene quando m’affacciavo al balcone, con la faccia
appoggiata alla ghisa della balausrta. Era uno spiazzo sterrato, am-
pio, quadrangolare, ch’era sconfortante da vuoto, ma che si riem-
piva di colori quando i mercanti venivano a mettere su i banchi.
Più lontano, laddove la vista arrivava, si scorgevano le alture di
Poggioreale e Capodichino, ch’ora sono nascoste dietro al grigiore
di nuovi edifici.
Come ho detto, ci andavo con Adele al Mercato. Non lo dimen-
ticherò mai, lei indossava sempre il medesimo abito di panno lilla,
col bustino rigido e la gonna a campana, imbracciava il paniere di
vimini con la destra, mi prendeva per mano e uscivamo.
Al Mercato passavamo i banchi lentamente, perché ad Adele
piaceva godersi la passeggiata. Ci fermavamo a guardare le car-
rette piene di verdura e frutta, che arrivavano dai casali di Nola, di
Avellino, di Caserta a vendere la roba ai napoletani mangia foglie.
Indugiavamo ai banchi del pesce, che si riempivano delle bestie
guizzanti del Golfo e davanti ai chianchieri, che vendevano carne
viva e morta. Quanta gente visitava quel Mercato! E quanta spor-
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cizia si accumulava a terra, nella polvere! Foglie di scarto, torsoli,
budella di pesce e di bestiame, piume di polli spennati.
I venditori alzavano le gole al cielo e come lupi alla notte urlava-
no il nome delle loro merci, che s’accavallavano nell’aria, assieme
alle mosche sempre assiepate, d’estate e d’inverno, che ronzavano
su tutte le cose, vive e morte e sulla gente che pascolava tra i banchi.
Oh, quanto mi piaceva quel Mercato… Avevo sempre un par
d’occhi stupiti per quelle tavole imbandite d’ogni ben di Dio, gesti-
te dai cafoni più rozzi che abbia mai visto, che strillavano all’aria
la gioia dei propri commerci nei suoni gutturali e storpi dei loro
dialetti di provincia.
Adele faceva prima la spesa per la casa, secondo le indicazioni
che mia madre le impartiva a voce ogni mattina, poiché non pote-
va scrivergliele, dato che la donna non sapeva leggere, poi mi com-
prava sempre una graffa, una frittella dolce, e io la azzannavo,
imbrattandomi puntualmente di zucchero. Alla fine tornavamo a
casa e la voce dei mercanti, l’odore acre delle cose marcescenti, i
nugoli di mosche indaffarate ci seguivano fino al palazzo e a volte
salivano con noi, umori tenaci incollati ai nostri vestiti.
Qualche volta me ne vado al mercato dei fiori, per vedere se
ancora mi ricordo di quei tempi, di quand’ero bambino e Adele mi
comprava la graffa dal venditore col paiolo di rame, pieno d’olio
bollente. Me ne resto a fissare i banchi pieni di fiori, dove giron-
zolano le api in primavera, che mi ricordano le nere mosche che
facevano nugoli e gazzarra, e penso, tra gli alti muri di conteni-
mento scrostati dell’intonaco, che non resta più niente davvero del
Mercato dei commestibili e che, presto o tardi, anche quell’ultima
lingua di strada sarà affogata da qualche edificio.
Mi fa male al cuore affacciarmi al balcone e vedere quei palaz-
zi che coprono la terra, là dove sono stato bambino, là dove mio
padre è stato bambino, nella via del Duomo, dove tanto tempo
fa correvano le mura della città, da Porta San Gennaro a Porta
Capuana. Mi fa male al cuore vedere come ogni cosa venga co-
perta, cancellata, estirpata, estinta come le erbacce della Villa dei
Pezzenti. Non restano lividure, segni, tracce di sorta che possano
rammentare almeno il colore delle cose che sono state.
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Sto al balcone, fermo davanti ai vetri delle imposte, che non si
stufano di restituirmi il riflesso d’un vecchio grasso e trasandato,
e guardo quelle mura, quei piperni, quelle ringhiere, quegli spi-
goli che hanno cancellato tutto, le mie passeggiate, le passeggiate
di mio padre, Adele che indugiava ai banchi, le mosche eccitate e
l’odore acre della putredine. Niente più vive, che possa dire mio,
laggiù. Domani, assai probabilmente, anche quel che vedo, il vico
delle Gramegne, il giardino, le palme e i pini che sporgono i loro
rami dalle sbarre, spariranno per sempre e niente, nessuna traccia,
resterà a loro testimonianza. Questo è quello che accade qui a Na-
poli ed è quello che accadrà sempre.
39
CINQUE
L’ILLUSTRE CONOSCENTE DI ROBERTO TURATI, 1842
Soltanto dopo la sua morte ho scoperto che mio padre scriveva poe-
sie. Me lo confessò mamma, la sola ad averle lette. Disse anche che papà
era estremamente geloso dei suoi versi e non avrebbe mai tollerato che
altri, all’infuori di sua moglie, fossero ammessi al loro segreto.
Li scriveva in un taccuino rilegato in marocchino nero, che ri-
cordo ancora, adesso che ci penso, poggiato sulla scrivania del suo
studio.
Quando chiedevo a mia madre se rammentasse qualcuna di
quelle poesie, scuoteva sempre il capo e diceva di no. Mentiva, ne
sono certo. «Roba d’altri tempi» sminuiva lei. Era una questione
privata tra lei e mio padre, suppongo.
Il taccuino non lo trovai più in giro e lei mi confidò che l’aveva
chiuso con papà nella cassa, perché continuasse a scrivere anche
dall’altra parte. Mia madre sperava che, un giorno, sarebbero tor-
nati a leggerle assieme.
Mio padre non avrebbe mai pubblicato niente di quello che scri-
veva, ne sono sicuro. Era troppo modesto per farlo. Di certo scri-
vere l’aiutava a star bene con sé stesso.
Più d’ogni altra cosa amava tenere la corrispondenza. Per lui
era un diletto sedersi alla scrivania del suo studio, sistemare i fo-
gli davanti a sé, ben impilati, il calamaio colmo di inchiostro nero
Pelikan, due penne di betulla col pennino in oro, accendersi un
Toscano e iniziare il suo lavoro di mittente.
Molte delle ore che poteva dedicare a sé stesso le trascorreva
col calamo in mano o leggendo, sempre assorto nei suoi pensieri,
circondato dalle cose per lui sacre dello studio.
Aveva rapporti epistolari con persone di tutta Italia, molte delle
quali credo non sia mai riuscito a incontrare di persona, conosciu-
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te tramite i propri clienti o quando richiedeva qualche libro desue-
to, introvabile o esaurito nel Regno delle Due Sicilie. Gli affran-
chi indicavano le provenienze più varie: Lombardo-Veneto, Stato
Pontificio, Regno di Sardegna, Ducato di Parma.
Erano per la maggior parte professionisti come lui, avvocati,
medici, letterati di varia erudizione, uomini appassionati, tran-
quilli e discreti come lui. Discutevano delle novità letterarie, delle
evoluzioni del Progresso, delle bellezze dei rispettivi paesi, degli usi
e dei costumi. Mai di politica.
Tra tutti questi gentiluomini, però, che restarono soltanto esem-
plari di perizia calligrafica, soltanto uno è degno davvero d’essere
ricordato, e per saper come mio padre avesse fatto a conoscerlo,
vale la pena che si racconti il principio.
Uno dei migliori clienti di mio padre era il principe France-
sco Sanseverino di Capua, uomo d’antica nobiltà, assai facoltoso,
molto stimato, erudito e in odore di liberalismo. Io lo rammen-
to bene, perché qualche volta venne a farci visita anche dopo la
morte di mio padre. Era un uomo di bell’aspetto, un po’ basso di
statura, azzimato ed elegante. Ricordo che portava sempre un
fermacravatte con un rubino amaranto che risplendeva tutto sul-
la sua sobria cravatta di seta. Viaggiava molto, e possedeva pro-
prietà sparse un po’ in tutta Italia e anche una casa in Francia, a
Nantes se non sbaglio.
Nel mese d’aprile del 1842, il principe dovette recarsi a
Milano per concludere un affare di certi terreni edificabili in
Brianza e chiese a mio padre di accompagnarlo in veste legale.
Papà non era mai stato così lontano e non se lo fece ripetere
due volte.
All’epoca, Milano era la capitale del Lombardo-Veneto ed era
una città «moralmente austriaca» come diceva mio padre: elegan-
te, sobria, serena.
Dopo aver sbrigato gli affari del principe, mio padre poté go-
dersi la città. Visitò il Duomo e la chiesa di Sant’Ambrogio, il Ca-
stello Sforzesco e i luoghi del “forno delle grucce”, perché s’era
portato una copia dei Promessi sposi (due volumi in sedicesimo,
che stampò Tramater a Napoli, nel ’27, ce li ho ancora) che tene-
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va aperta come un breviario o una guida turistica. Il principe lo
lasciava libero di girare da solo o lo accompagnava quando aveva
tempo.
Una sera, però, il principe ricevette un invito nel salotto di An-
drea e Clara Maffei, che all’epoca era celebre e lo sarebbe stato ancor
più dopo, in seguito alle Cinque Giornate, e portò con sé anche mio
padre, ch’era sicuro sarebbe rimasto entusiasta di vedere com’era il
centro della cultura milanese. Devo dire che papà ci andò un po’ con
riluttanza, per quella avversione che aveva nei confronti di circoli,
salotti e logge varie, dove si parlava troppo e si faceva politica, ma
dovette licenziare qualsiasi remora, per non offendere il principe.
«Non dimenticherò mai com’ero vestito quella sera: portavo la
marsina nera, avvitatissima, perché all’epoca potevo ancora per-
mettermelo. Una bella cravatta di seta, bianca, gli stivaletti lucidi e
la tuba. Un figurino».
Il salotto si teneva in casa Maffei, in via dei Tre Monasteri. Papà
e il principe ci arrivarono in carrozza e furono annunciati da un
lacchè in livrea scura.
Mio padre fu presentato prima al signor Andrea, «ch’era un
uomo elegante, snello, dal volto affilato. Portava una zazzera di
capelli che iniziavano a ingrigirsi, folta, che copriva le orecchie, un
pizzo di barba lunghetto, anch’esso incanutente, e aveva due occhi
belli, limpidi, chiarissimi». Poi Clara, “Clarina” come potevano per-
mettersi di chiamarla i più assidui e affezionati, gli diede la destra
da omaggiare. «Non era una donna bella, ma affascinante. Era ro-
sea, il volto ovale, gli occhi grandi e scuri e portava uno chignon
di capelli corvini e lucenti. Quella sera indossava un bel vestito di
taffetà blu e aveva un foulard di seta avorio al collo».
Gli ospiti furono accomodati nel cuore del salottino, una stanzetta
elegante, piena d’oggetti d’ogni sorta, ritratti e dipinti, lattimi di vetro
delicato, vasi cobalto, alzatine in porcellana di Meissen. «Era in quel
luogo che sarebbe cambiata ogni cosa, ma io non lo sapevo. Non lo
sapevo ancora. Io ero soltanto l’azzeccagarbugli di Don Francesco San-
severino di Capua, ammesso al pantheon per la prima e l’ultima volta».
C’erano diverse persone quella sera, ma mio padre non ne cono-
sceva nessuna, almeno a quel tempo. «Tutta gente in marsina nera
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o redingote, come si usava all’epoca, coi calzoni all’americana, la
camicia e la cravatta di battista, il gilet di piquet e la zazzera. Le
donne, invece, vestivano quegli abiti chiusi fino alla gola, con le
maniche lunghe e aderenti, e non ne vedevi il collo o le spalle, come
adesso». Anni dopo, sentendone pronunziare i nomi, diceva «Toh
guarda! Sai che c’era anche lui quella sera dai Maffei?»
Conobbe il pittore Francesco Hayez, «un uomo dallo sguardo
severo, magro, la barba folta e grigia. Aveva più di cinquant’anni
all’epoca, credo». C’era un poeta giovane tra gli invitati, un tren-
tino giunto da poco a Milano, Giovanni Prati, che aveva riscosso
un certo successo di pubblico (ma non di critica) con un poemet-
to intitolato Edmenegarda, stampato l’anno prima. «Era poco più
piccolo di me, ma sembrava più vecchio. Un po’ grasso, devo dire,
con un nasone a campana e certe occhiaie scure da sonnambulo.
Non era proprio un bell’uomo».
L’epicentro della conversazione quella sera d’aprile fu un’ope-
ra che era stata rappresentata il mese prima alla Scala e che ave-
va riscosso un clamoroso successo. Tutti l’osannavano come un
capolavoro assoluto, degna di Rossini o del compianto Bellini. «Il
maestro Donizetti, che ha assistito alla rappresentazione, è rima-
sto folgorato. Figuratevi! Lui, che è tanto severo!» aveva ammesso
qualcuno.
L’opera s’intitolava Nabucodonosor e il compositore era un tale
Giuseppe Verdi, un ventisettenne che veniva da un paese di cam-
pagna, nel Ducato di Parma.
«A saperlo… Avrei tentato di conoscerlo di persona, all’epoca
ch’era ancora sconosciuto, di stringergli la mano, almeno. A Clara
Maffei brillavano gli occhi quando ne parlava. Diceva che quel
Verdi aveva composto il canto degli Italiani. Andai a vederla l’o-
pera, qualche giorno dopo e, ahimè, quella Clarina aveva ragione.
Ricordo quando ascoltai per la prima volta il Va’pensiero, in quel
palco foderato di velluto e raso, sotto i grandi lampadari festonati
di candele, accanto al principe Sanseverino, gettando di tanto in
tanto l’occhio alle divise candide degli ufficiali austriaci che affol-
lavano la platea, in piedi, come s’usava all’epoca. Ascoltavo quella
musica e vedevo la gente fremere dai palchetti, tutta quella gente,
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quei milanesi eleganti e raffinati che si specchiavano nelle parole
degli esuli giudei. Ed era come il treno, quel coro, un’altra via del
Progresso, un altro orizzonte in fuga, un altro passaggio. Faceva
paura a sentirlo, a me, che venivo da lontano ed ero suddito di
un re triste. E Verdi era lì, un giovanotto magro, con la barba e i
capelli fulvi, che dirigeva la musica della fine ed era la musica più
bella che si fosse mai sentita».
Papà stette molta parte di quella sera ad ascoltare gli elogi al
Nabucco, le dissertazioni politiche in merito e altre e tante parole,
cosicché, alla fine, ne fu stufo, poiché di chiacchiere papà ne aveva
subito piene le tasche.
Finalmente, mentre i più si dilettavano nella conversazione, lui
con una scusa si defilò in un’altra stanza, che dava a una specie di
corridoio dove s’aprivano delle finestre e ne approfittò per pren-
dere una boccata d’aria fresca, che quella del salotto era viziata dal
fumo dei sigari e dall’odore delle candele di sego.
Uscì nella sera rischiarata dalle lanterne, che avrebbero ancora
per poco sostituito l’illuminazione a gas, e tirò una boccata d’aria
pura, prima d’accorgersi di non essere solo a quel balcone. In pe-
nombra, nell’angolo opposto al suo, c’era un uomo chinato sulla
balaustra che fissava la strada e pareva stesse iperventilando. Papà
lo osservò in imbarazzo, non sapendo cosa fare, poiché pareva che
quell’uomo stesse soffrendo, ma d’altro canto sembrava capace e
ostinato a tenere il dolore per sé.
«Era un uomo sulla cinquantina, forse più vecchio. Indossava
una redingote grigia, un abito anonimo di panno scuro. Era glabro
in volto e magro, il mento e il labbro inferiore un po’ sporgenti e
in quella luce incerta potei distinguere il colore rossiccio dei capelli
stinto nei toni della canutezza e occhi chiari, verdi mi pareva, as-
senti e freddi. Era un uomo aguzzo, alto, dal portamento signorile.
Sembrava tremasse. Si asciugò la fronte con un ampio fazzoletto
e solo allora si accorse della mia presenza, credo. Mi fissò e i suoi
occhi verdi si fecero grandi, come stupiti, e ricaddero a terra, sot-
traendosi ai miei. Restammo lì in silenzio per un po’, turbati l’uno
dall’altro. Poi mi feci coraggio e gli domandai se si sentisse bene.
Lui mormorò qualcosa che voleva dire “Sì, grazie” ma lo disse tra i
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denti, ch’io a stento riuscii a udirlo. “Vuole che chiami qualcuno?”
domandai ancora, ma lui rifiutò e non insistetti».
L’uomo sembrava in preda a una crisi. Restava lì immobile, a
fissare la strada vuota e scura, respirando affannosamente. Poi,
poco a poco, parve rimettersi.
«Mi scusi» disse il signore, e mio padre: «Si figuri». L’uomo su-
dava copiosamente e allora papà, vedendo che il suo fazzoletto era
fradicio, tentò di estrarre il proprio dalla tasca, dimenticando che
lì teneva stipato il tomo dei Promessi sposi. Il libro cadde, aperto al
frontespizio e l’uomo lo fissò un istante, asciugandosi la fronte col
fazzoletto che gli aveva intanto porto mio padre.
Un sorriso balenò sulle labbra dell’uomo, mentre mio padre rac-
cattava maldestramente il libricciuolo, vergognandosi come un
ladro d’aver svelato a un estraneo quella debolezza da scolaro, di
portarsi il libro idolatrato sempre appresso.
L’uomo raccattò il libro da terra e lo porse a mio padre. «Le pia-
ce?» domandò. Papà annuì arrossendo e confessò che l’adorava.
Tanto, ormai, l’arcano era svelato e non valeva la pena dissimulare
ancora. «Non ho ancora avuto modo, tuttavia, di leggere l’ultima
edizione, quella illustrata dal Gonin. Ce l’ho in bella mostra tra gli
scaffali, ma non ho tempo».
«Di che cosa si occupa? Signor…»
«Mi perdoni… Roberto Turati, avvocato, azzeccagarbugli, se
mi concede la citazione. Sono procuratore legale del Signor Princi-
pe Sanseverino di Capua».
«Beh, la giurisprudenza toglie molto tempo».
«Ha ragione. Me ne starei volentieri a leggere il mio Manzoni.
Sono franco con lei, ormai ha scoperto la mia debolezza!»
«Le piace davvero così tanto?»
«Oh sì, tanto. Ho letto I promessi sposi cinque volte e altrettante
le tragedie. Non credo ci sia miglior compagnia. È come starsene a
passeggio in quei luoghi che non si visiteranno mai, ma che la nostra
anima non può fare a meno di agognare. Mi scusi, sono melodram-
matico, sarà l’effetto dell’ambiente e la stanchezza, signor…?»
«Adesso sì che diventerà melodrammatico. Io sono Alessandro
Manzoni, avvocato Turati».
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«Giuro su ogni cosa che ho cara che in quell’istante, se il pa-
rapetto del balcone avesse ceduto, condannandomi a morte cer-
ta, l’avrei preferito. Sbiancai, letteralmente, e lui se ne accorse,
perché assunse un’espressione grave, allarmata. Dovetti sedermi.
Trovai una seggiola e mi ci accasciai sopra e iniziai a balbettare
cose strane e incomprensibili. Avevo voglia di frignare e per poco
non lo feci».
«Signor conte, mi scusi, ma è un’emozione troppo forte per me,
spero non ne abbia a male. Sono un pesce fuor d’acqua qui, tra
questi signori, che di certo non rischiano di svenire in circostanze
come questa. La prego di perdonarmi, è un onore poterla conosce-
re di persona» disse papà, tentando di rimettersi in piedi.
«Suvvia, si tranquillizzi avvocato. È segno di salute la sua reazione,
e di emotività, fa bene. Le confesso che anche io ho manifestazioni di
questo genere, problemi di nervi dicono i segaossa, per questo motivo
mi ha trovato così in sordina, che annaspavo al balcone. Mi fanno ef-
fetto gli spazi aperti e i capannelli umani. Clarina e Andrea lo sanno
e, quando accade, lasciano tranquillamente ch’io mi eclissi in solitario,
affinché la crisi passi. Stia sereno: la testimonianza della debolezza al-
trui mette in concordia gli uomini» disse Manzoni.
«Mi parlava con parole affabili, docili, ma restava sulle sue. Mi
sorrideva con la bocca, non con gli occhi. Mi guardava timida-
mente, ostinato a non lasciar trapelare alcun sintomo ulteriore dei
suoi mali. Era cordiale, ma estremamente contrariato, lo percepi-
vo, da quella situazione, mi sembrava di sentir battere il suo cuo-
re affannato, tentare eroicamente di sedare il suo istinto di fuga.
Aveva dato già troppo spettacolo di sé stesso per quella sera. Per
fartela intendere, mi sembrava un padre indisposto che stesse ri-
sollevando il morale a un figlio non suo».
«Mi scusi signori conte, ma io non sono per niente abituato a
frequentare salotti o luoghi mondani. A Napoli, da dove vengo, mi
tengo alla larga da qualsiasi loggia della cultura e preferisco dedi-
carmi in solitudine al dialogo coi miei… numi tutelari, oserei dire».
Manzoni andò a sedersi a una sedia al lato di quella davanti alla
quale stava in piedi mio padre, inducendo papà a fare lo stesso.
Sembrava più tranquillo adesso «Una volpe che fa finta di stare al
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gioco, però, pronta alla prima occasione a darsi alla fuga» raccon-
tava mio padre.
«Così lei è napoletano. Deve essere una gran bella città Napoli,
non è così? Mi ricordo le descrizioni che ne fece Goethe nel suo
Viaggio in Italia. Un bello spettacolo davvero».
«Ha molte magnificenze, sì. Molte cose ti lasciano inerme per
quanto sono belle e incredibili, ma a tutto questo si lega ciò che non
può mai essere scisso dalla vera bellezza: la morte eterna, spasmo-
dica e impenetrabile. Napoli è la città dei morti, per questo è la più
bella del mondo».
«Dovrò venirci un giorno o l’altro, anche se non s’addice al mio
temperamento».
«Neanche al mio se è per questo, perciò preferisco la solitudine
e le assicuro che colui che impara a isolarsi nella gazzarra di Napoli
e a filtrare solo i rumori di fondo, quelli che vengono dalle cose
eterne da qualche parte sepolte nel tufo delle sue fondamenta, è
l’uomo più felice della terra».
«Ne parla da lirico lei, avvocato. Deve amarla molto la sua
città».
«Amo della mia città quelle cose che non si vedono più, ma che
continuano a strillare da qualche parte, sotto le macerie. È un amo-
re di fantasmi, il mio, una perpetua ricerca di segni tangibili di ciò
che è stato e che posso rammentare solo io. Molte delle cose che
amo di Napoli non esistono più. Sono state annientate, ma io non
posso fare a meno di ricordarle, nella loro incorporeità, malgrado
spesso non le abbia mai viste coi miei occhi».
«Cos’è, per esempio, che ricorda e che non ha mai visto?»
«Beh, io ricordo il Tempio dei Dioscuri, sulla pubblica piazza del
foro, ricordo quando nei giorni d’estate quel marmo brillava nella
sua fulgida luce eburnea o quando torrenti fangosi scendevano la
scalinata che portava al suo sacro perimetro. Ricordo la vista del Gol-
fo che si godeva dalla sede ducale del palazzo del Pretorio, su, a San
Marcellino, quel mare che un tempo era viola come i capelli di Saffo.
Cose come queste ricordo, e sono queste cose che mi struggono di
più, quando vedo quella stessa città, barbara, feroce, aliena a ogni
memoria. Cose che ormai vivono nel silenzio che sta dietro alle stelle».
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Manzoni fissò mio padre attentamente e per la prima volta que-
gli occhi gli restituirono un accenno di compassione.
«Beh, allora so chi dovrà essere il mio cicerone quando visiterò
la capitale del Regno di re Ferdinando».
«Se questo sogno dovesse avverarsi, signor conte, faccia pure
incetta di me».
Stettero qualche altro momento a parlare nella penombra del
corridoio, finché qualcuno non venne a cercarli e li distrasse dalla
conversazione e Alessandro Manzoni fu restituito alla Storia del
salotto Maffei e mio padre all’oblio d’onde era venuto.
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SEI
LA LETTERA DEL MESE DI MARZO, 1846
61
SETTE
L’AMICO DI FRANCESCO MARIO PAGANO, 1799
72
«Ogni parola, ogni pensiero, ogni considerazione di Pagano e
di quegli uomini che l’avevano preceduto era al contempo uno
scoprirmi cadavere e un ritrovarmi redivivo. Ogni parola era
una stilettata, che mi colpiva nello spreco della vita che stavo
facendo, ma mi riaccendeva di speranza e di sogni che credevo
inesistenti.
La libertà, quel verbo che avevo sempre coltivato come un sus-
sidiario utile null’altro che al mio libertinaggio, diveniva marmo-
reo nella mia anima, venerabile. Intuivo che c’era dell’altro oltre al
mondo accessorio che io avevo sempre perseguito. Esisteva una
trascendenza, che non era l’aldilà dei preti o la magniloquenza dei
profitti, no: era lo spirito, scevro di costrizioni, libero di essere e
percepire, non condannato, non ristretto, vincolato soltanto al
perseguimento del sapere e della conoscenza. Era questo il mondo
nuovo che quei giacobini, quei diavoli temuti come Belzebù stava-
no promulgando: il mondo dei liberi e dei sapienti.
Feci di tutto, corruppi guardie, feci favori, pagai salato, ma alla
fine riuscii a tenere un colloquio con Mario Pagano, in prigione.
Era il 1797, Pagano sarebbe restato ancora un anno in galera e
ne aveva ancora due da vivere. Stava alla Vicaria, nelle segrete di
quel carcere famoso, entro le cui mura aveva egli stesso minaccia-
to di cacciarmi per due decenni.
Mi fecero entrare in una cella buia, nera di fumo alle pareti,
maleodorante di muffa e umidità. C’era un tavolaccio di legno al
centro, con due scranni ai lati. Le pareti erano nude, fatiscenti:
l’intonaco veniva via a brandelli a causa delle infiltrazioni.
Era rischioso farsi vedere là, insieme a un reo liberale, a confa-
bulare a quattrocchi, ma avevo diciannove anni ed ero sconside-
rato in quel tempo remoto e mi fidavo dei soldi che avevo fatto
cadere nelle tasche dei miei probabili delatori.
C’erano due porte in quella stanza, da una entrai io e dall’altra,
poco dopo, entrò Pagano, scortato da due guardie. Fu sorpreso di
vedermi.
Mi fissò un istante, poi si sedette: era pallido, smunto, spossato.
Mi sedetti di fronte a lui, tremante.
“Non mi sarei mai aspettato una visita simile” disse lui, serio.
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“Volevo parlarvi, signor giudice, volevo dirvi qualcosa prima di…”
“Prima di?”
“Prima che fosse tardi. Ho ripensato alle vostre parole. Ogni
giorno da quando sono comparso al vostro cospetto al tribunale.
Non le ho dimenticate. Volevo assicurarvi che non dovrà condan-
narmi a morte”.
“Anche volendo, figlio mio, nelle condizioni in cui mi trovo è
ben difficile ch’io possa assolvere ai miei doveri giudiziari” e sor-
rise.
“Non parlo della pena capitale, ma della pena che sta qui, nel
petto. Quando ammazzi qualcuno qua dentro, è morto per sem-
pre. Non voglio morire dentro di voi, signor giudice. Sarebbe quel-
la la condanna più grave”.
“Che cosa volete da me, Turati?”
“Niente, signor giudice. Voglio che guardiate coi vostri occhi
quali sono gli effetti della vera libertà su un essere umano”.
“State attento: a non tutti piace sentir parlare di libertà. E qua
dentro è fuori luogo, tra l’altro”.
“Io ho letto, in questi mesi. Ho studiato. Ho imparato che la liber-
tà non si conquista che col ferro, e non si mantiene che col coraggio,
l’ho imparato da voi. Il mio ferro sono state le parole degli illumi-
nati, il mio coraggio è stata la fede nel cambiamento. Mi sento una
persona più degna, adesso. E volevo ringraziarvi, solo questo”.
Pagano mi guardò a lungo. Durante quel colloquio non fece
che abbozzare sorrisi, mugugnare. Niente altro. Parlavamo a bassa
voce, ma gli aguzzini erano a breve distanza. Erano parole perico-
lose quelle che mi uscivano dalla bocca e il guaio era che io non me
ne rendevo conto.
“Grazie per la visita, mio giovane amico. Abbiate cura di voi»
concluse e se ne andò, senza commentare né avallare in alcun
modo le mie scelte di vita, lasciandomi con un sapore amaro in
bocca, là dove c’erano state parole ch’io avevo inteso di miele”».
Mio nonno non andò a trovarlo più in galera, sarebbe stato dif-
ficile. Nel luglio del 1798 Pagano fu liberato e riuscì a espatriare a
Roma, dove intanto era stata proclamata la Repubblica.
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L’epoca napoleonica, si sa, fu un’età di tumulti. Da quando ave-
va valicato le Alpi, nel ’96, alla testa dell’Armata d’Italia, Bonapar-
te s’era portato dietro non solo la guerra, ma qualcosa che nessun
condottiero, dai tempi di Alessandro il Grande o di Giulio Cesare,
era stato in grado di far sorgere dalle rovine delle sue battaglie: un
mondo nuovo.
Il passaggio del Corso significava l’avvento della rivoluzione,
dappertutto. Ogni terra, villaggio, città, luogo, landa, lido che l’ar-
mata di Napoleone toccasse, diventava immediatamente vittima
della rivoluzione. Le chiamavano Repubbliche sorelle quelle sorte
a emulazione di quella francese e sorsero in tutta Italia, da Alba
ad Ancona, da Bergamo a Bologna, da Brescia a Crema, dalla Re-
pubblica Cispadana a quella Cisalpina, da quella Ligure a quelle
Piemontese e Romana: tutte le città ebbero il loro saggio di libertà.
Anche Napoli.
Quando Mario Pagano riparò a Roma, nel mese di luglio, papa
Pio VI era già stato imprigionato dai Francesi e tradotto oltralpe,
dove sarebbe morto. La Repubblica era in pieno fermento, al suo
rigoglio. Pagano ricevette la cattedra di Diritto nel Collegio Ro-
mano.
Alla fine di novembre di quello stesso 1798, con Napoleone in
Egitto e i Francesi a Roma, re Ferdinando tentò di far guerra a quei
Galli che grattavano alla sua porta. Aiutato dall’esercito dell’am-
miraglio Nelson, Ferdinando organizzò un’armata di circa settan-
tamila uomini, la affidò al generale Karl von Mack, un bavarese,
e marciò su Roma, intenzionato a rimettere il papa al posto suo.
Ferdinando, poverino, non si rendeva conto d’essere un uomo
ridicolo. Non aveva niente del re e del condottiero e forse, nel pro-
fondo, lui lo sapeva. Il suo regno è durato tanti anni, sessantasei
per l’esattezza, proprio perché il re non si prendeva troppo sul se-
rio. Un uomo che preferiva andare a caccia agli Astroni o a pesca
con le lampare, che i lazzari consideravano un loro simile, non era
certo paragonabile ai temibili reali dell’epoca, come Caterina di
Russia o Federico il Grande. Era un re napoletano, che viveva ai
piedi d’un monte distruttore, un monarca che doveva fare il mo-
narca, a cui piaceva pure, a volte, ma che non ne sentiva l’imma-
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ne peso morale e, se lo sentiva, faceva di tutto per scrollarselo di
dosso.
Fatto sta che quando arrivò a Roma, i cittadini, guardandolo
atteggiarsi a conquistatore, gli risero dietro. E penso che in cuor
suo, ridesse anche lui.
I Francesi, comunque, c’era da aspettarselo, contrattaccarono. Il
generale Jean Etienne Championnet s’era fatto già le sue battaglie.
A vent’anni, nel 1782, aveva partecipato all’assedio di Gibilterra,
contro gli inglesi, aveva sedato le rivolte della Giura, ai tempi del
Terrore, e fatto guerra nel Palatinato, sotto Pichegru. Era un solda-
to come ce ne furono solo ai tempi di Napoleone: gloriosi e audaci.
Championnet attaccò le truppe dei borbonici a Civita Castella-
na, a cinquanta chilometri da Roma e gli inflisse una bella batosta.
Alla fine, le armate di Ferdinando andarono in rotta.
La disfatta dell’esercito fu seguita dal rientro immediato del re
a Napoli. Chi glielo faceva fare di restare? Coi Francesi alle costole
a nord, coi giacobini che già stavano coi laps a quadriglie’, come le
furie, che ci restava a fare lui a Napoli? A fare la fine dei cognati in
Francia? No, grazie.
Il re s’imbarcò di nascosto sulla Vanguard di Horatio Nelson,
assieme alla famiglia e a John Acton, ch’era Segretario di Stato
all’epoca, e salpò per Palermo. Si portò con sé l’Erario di Stato e
tutti i beni della Corona (e che doveva fare, lasciarli ai lazzari e ai
giacobini?), diede l’ordine di incendiare la flotta (così i giacobini
se la pigliano in quel posto) e lasciò l’onere di parlare coi Francesi
al povero generale Pignatelli, il Vicario, che, alla fine, si incontrò
con Championnet a Sparanise, vicino Caserta, e firmò l’armistizio.
Però non mi piace che si pensi che re Ferdinando fosse un ma-
scalzone incallito. Sebbene mio nonno lo dipingesse come il peg-
gior essere umano mai vissuto, io l’ho studiato un poco e posso
dire che non era così riprovevole.
Era uno che ci stava male a quel posto, sul trono. Uno che avreb-
be vissuto volentieri una vita diversa, magari quella di un ricco ga-
lantuomo, come ce n’erano tanti all’epoca, con le rendite, i cavalli,
la residenza e la villa, lontano dai guai e dalle preoccupazioni. Pure
lui, alla fine, fa pena. Condannato a fare il re, lui che non era capa-
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ce che di andare a caccia, sbalestrato in un’epoca che di re non ne
voleva più sapere, sposato con un’austriaca feroce, preoccupata
per la propria testa, che poteva fare la fine che aveva fatto quella
della sorella, Maria Antonietta. Era questo Ferdinando ed è per
questo che è restato tanti anni: una farsa. Lui sapeva di essere una
farsa, di essere una maschera con la quale occultare il vuoto di un
regno che già all’epoca vacillava e che poi è crollato del tutto, poco
più di sessant’anni dopo.
Lui sapeva che prendersela troppo non serve a nulla. Mi pare
di vederlo, di sentirlo: «Ma che vonno ’sti francise? Che vulite, ’a
libertà, l’eguaglianza? E le vulite da ’sti lazzari, da ’sti fetienti? Ma
che ve site mise ’n capa? Ccà nisciuno sape che se n’ha da fa’ da’ Ri-
voluzione. Vogliono fare guerra a Pulcinella, vogliono fare, ’sti gia-
cubini. Questi fetenti non la vogliono la libertà, perché questi sono
già liberi. Anzi, voi li dovete curare dalla libertà, questo è il male di
Napoli! ’A gente fa chell’ che vo’, e se ne fottono ’e filosofia, poesia
e de tutte li cazze ca ’nce vulite mettere ’n capa. Qua la gente deve
vedere come apparare la giornata, non vogliono pensare. Non li
avete mai sentiti? “Dio e il re ci pensano”, che vuol dire secondo
voi? Andate, andate, educateli, fate le scuole, le accademie, io non
ci ho provato secondo voi, mo song’ overamente scemo? Nun vonn’
sape’ niente! Questi vogliono essere lazzari e basta. Non vogliono
bene a nessuno, né al re, né alla città, né a niente. Vogliono bene
solo a loro stessi. Poi vedrete che vi aspetta. Vedrete, come vi vorrà
bene, il nobile popolo partenopeo!»
Comunque, alla fine, dopo l’armistizio, a Napoli scoppiò la guer-
ra civile. Mio nonno se li ricordava bene quei giorni di gennaio.
«Stefano, faceva paura. Veramente paura. A metà gennaio,
quando i Francesi iniziarono ad arrivare a Napoli, la gente era una
furia. Il re se n’era andato a Palermo, maledetto, i Francesi arriva-
vano in armi, e il popolo non ne voleva sapere.
Si sentiva sparare tutti i giorni. Anche il Vicario Pignatelli andò
via, perché se lo prendevano i Francesi o i lazzari avrebbe fatto una
brutta fine. Mi ricordo a Porta Capuana, quando barricarono l’in-
gresso, i bambini, Stefano, i bambini tagliavano le gole. Erano ar-
mati di tutto: forconi, zappe, schioppi, coltelli. Gente della strada,
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lazzari fetenti della peggior specie. Non li volevano i Francesi, di
nessuna maniera. Si scannavano come i maiali gli uni con gli altri.
Quando i Francesi presero Castel Sant’Elmo, alla fine di genna-
io, tremila persone furono ammazzate negli scontri. Non uscivo
quasi mai di casa, anche perché se non t’ammazzavano le solda-
taglie, t’ammazzavano i mariuoli, che approfittavano del caos per
fare affari.
Io non avevo contatto con gli altri giacobini all’epoca. Conosce-
vo Pagano, che stava ancora a Roma e sarebbe tornato all’inizio di
febbraio, ma gli altri non li avevo mai visti. M’ero limitato a legge-
re e a maturare un’idea, tutto qui. Mi facevano paura quel sangue
e quella confusione. Sarà poco onorevole, ma è così.
La Repubblica Partenopea fu proclamata il 23 gennaio 1799,
tre giorni dopo la presa di Sant’Elmo, quando ormai Championnet
faceva da padrone e il popolo s’era rassegnato.
Il presidente era Carlo Lauberg, un chimico e matematico, figlio
d’un vecchio ufficiale di Carlo III, a cui, poi, successe Ciaia, ch’era
pugliese ed era un poeta.
Erano venticinque i membri effettivi: c’era il dottor Cirillo, che abi-
tava qua vicino, a via dei Fossi, di fronte ai torrioni aragonesi. Pensa,
era stato persino medico di corte, voluto apposta da Maria Carolina:
era un botanico, un entomologo, uno scienziato rinomato in tutta
Europa, tanto che aveva conosciuto di persona Diderot e Benjamin
Franklin. Suo padre era stato corrispondente di Isacco Newton. Era
un gentiluomo, il dottor Cirillo, me lo ricordo bene, elegante, sempre
con la redingote color terra, silenzioso, educato. Che peccato!
Poi c’era Delfico, che era un’economista e veniva dagli Abruz-
zi; c’era Baffi, che veniva dall’Epiro, ma era d’origini albanesi ed
era un grecista stimatissimo. E poi c’era Pagano, che fu inserito
nell’organico prima ancora di tornare a Napoli.
Si vedevano i tricolori blu, giallo e rosso sventolare dappertut-
to. Pure i lazzari, che non ne avevano voluto sapere dei Francesi,
iniziarono a fare buon viso a quella gente che, dopo tutto, non era
poi così diabolica.
Iniziarono a pubblicare un quotidiano, perché all’epoca il gior-
nale era segno di Progresso: il Monitore Napoletano e lo dirigeva
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la buon’anima di Eleonora Fonseca, la portoghese, che Dio l’abbia
in gloria, povera donna. Pensa, era amica di Metastasio, era stata
poetessa di corte, aveva partecipato ai salotti di Gaetano Filangie-
ri… ma di che parliamo, Stefano? Erano uno meglio dell’altro! Era
gente di cultura, ma non come quelli che se ne stanno in pantofole,
nello studio, e leggono, e leggono e rimangono fermi. Per dirti,
solamente le cose che ho imparato da Mario Pagano ti potrebbero
far capire che intendo.
Quando venni a sapere del suo ritorno, a febbraio, mi precipitai
a casa sua. Abitava all’Arenella, in collina, che all’’epoca era uno
spettacolo di campagne verdissime, di prati, di boschi.
Quando mi vide alla sua porta, si mise a ridere. Mi lasciò entra-
re, però, e mi fece accomodare nel suo studio.
“Allora non demordi, vero?” disse, e mi diede del tu e mi fece
effetto.
“No, giudice, non demordo”.
“Che capa tosta, figlio mio. Ebbene che vuoi da me? Non ti è
bastata la conversazione in cella?”
“Conversazione, giudice? Ho parlato solo io!”
“Hai parlato solo tu e io non ti ho dato corda perché era pe-
ricoloso. Sei giovane, questo non è il momento di fare eroismi,
guaglio’, tu pensa a studiare, pensa a stare tranquillo e vedrai che
andrai bene”.
“Ma io voglio dare una mano!”
“Che mano vuoi dare? Vorresti mettere su la costituente? Tu
devi studiare, devi formarti. Tu sei un embrione adesso, un albe-
rello, un frutto acerbo”.
“Ma sono libero!”
“Eh, vabbè, libero… ma…”
“La libertà è la facoltà dell’uomo di valersi di tutte le forze mora-
li e fisiche come gli piace. L’avete detto voi”.
“Sì, il libero arbitrio è un diritto inalienabile dell’essere umano,
è questo che vuoi sentirti dire, è vero? Ma tu hai anche il dovere di
farne un uso degno. Che vorresti fare? Unirti alla Repubblica? Fare
il giacobino? Come dicono quei lazzari fetenti, e magari andare alla
malora, un giorno o l’altro. Tu vedi che sta succedendo? Noi da una
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parte, il popolo dall’altra. Non se ne fregano della libertà, non ne
vogliono sapere. Se Championnet se ne va, noi, tutti quanti, faccia-
mo la fine dei sorici. Tu sei giovane e il tuo momento non è questo.
Ora devi guardare e devi imparare. Di Emanuele De Deo ne è già
bastato uno. Non serve a niente mandare a morire la meglio gioven-
tù. Domani sarà il tuo momento. Tu ti riempi la bocca della parola
libertà, ma essa non deve essere mai alienata al dovere di perpetrar-
la nel giusto, supportandola con coscienza e cultura. I lazzari sono
liberi, indubbiamente, ma sono ignoranti, quindi saranno sempre
schiavi di qualcun altro e non se ne renderanno conto mai. Che sia
il re o la Repubblica, a loro non importa niente. Credono di essere
al di sopra. Credono di essere dei. Riempiendoti la bocca di liber-
tà, tu non fai diversamente dai lazzari. Prima devi essere cosciente
di quello che sei, capire veramente come funziona l’esistenza, e poi
puoi tentare di cambiare la realtà che ti circonda. Hai capito?”
Annuii, non sapevo cosa dire. In tutto quel tempo m’aveva
guardato coi suoi occhi profondi e severi e m’aveva straziato. Ci
ho messo più di quarant’anni per capire quello che diceva e alla
fine mi sono trovato vecchio e pieno di rimorsi. Vedi, quella gente
credeva in cose che potrebbero accadere veramente se solo l’uomo
avesse a cuore sé stesso. Libertà e uguaglianza erano utopie, ma
l’utopia più grande è credere che l’uomo possa cambiare. Non ac-
cadrà mai, non è mai accaduto. E di certo non accade a Napoli, ai
tempi della Repubblica Partenopea”».
82
OTTO
IL QUARANTOTTO, 1848
90
NOVE
UNA BRUTTA NOTIZIA, 1848
92
DIECI
PAPA PIO IX, 1849
96
UNDICI
ZIA MARGHERITA, 1854
101
DODICI
IL COLERA, 1854
Avevo visto Irene solo una o due volte in vita mia ed ero un
bambino a quel tempo.
Una volta fu sicuramente durante le festività natalizie del ’46
o del ’47. Quell’anno, zio Achille e zia Margherita portarono la
ragazza con loro.
Irene aveva esattamente sei anni più di me. Zio Annibale l’ave-
va avuta dalla sua prima moglie, che era morta di parto dandola
alla luce e, non potendosene occupare personalmente, l’aveva pri-
ma messa a balia e poi in collegio, dove aveva ricevuta un’ottima
educazione.
All’età di ventun anni, ormai maggiorenne, venne licenziata dal
collegio, finalmente pronta ad affrontare il mondo.
Non avendo parenti diretti a Roma, zia Margherita la invitò a
Napoli, a casa nostra, dove sarebbe stata in famiglia.
In quell’occasione mi fu comunicato che avrei dovuto cedere la
stanza a mia cugina, e che avrei dovuto condividere la camera con
il nonno. Né a lui, né a me questa risoluzione andava a genio. Al
nonno piaceva la sua intimità, io adoravo la privatezza di quelle
esilianti pratiche che avevo scoperto con zia Margherita e alle quali
indulgevo senza ritegno. Comunque, in un modo o nell’altro, andò
male a entrambi e non ci furono storie con mio padre: aveva deci-
so e così sarebbe stato.
A questo si aggiungeva la considerazione che avevo di lei. Le
poche volte che l’avevo veduta, Irene m’era sembrata una ragaz-
zina presuntuosa e arrogante: sempre vestita elegantemente, ac-
conciata, composta, misurata nei gesti e nelle maniere, boriosa e
altera nel parlare. A tutto questo, inoltre, s’associava un aspetto
fisico non troppo lusingante: capelli rossicci slavati, occhi verdo-
104
gnoli, volto ancora acerbo, con angoli e forme da smussare, corpo
grassottello. Non proprio una bellezza, tutto sommato.
Attendevo, quindi, l’avvento di Irene come una condanna al
confino, dove sarei stato privato della libertà di dar sfogo agli
ormoni, dell’intimità di struggermi nelle fantasie romantiche dei
miei libri e della sovranità sugli spazi e sulle cose.
Irene arrivò in gennaio, in una giornata orrenda. Tuonava da
far spavento, tanto che Liccarda scalpitava e nitriva disperata in
stalla e Gioacchino dovette andar di persona a tranquillizzarla.
Pioveva a dirotto. L’acqua che veniva giù era così fitta che pareva
nebbia e la strada non si vedeva più.
Era mattina, un sabato se non sbaglio, e non avevo lezioni col
nonno quel giorno.
Ero nello studio, seduto sulla poltroncina, con una bella palan-
drana di lana spessa, le pantofole e I tre moschettieri aperto sulle
gambe, intento a leggere. Ero in letargo, nel tepore più crogiolante,
e ascoltavo la pioggia che sferzava i vetri del balcone.
A un tratto entrò mio padre. Mi disse: «Stefano, vestiti, devi
andare a ricevere tua cugina quando arriva». Sbarrai gli occhi e
sbiancai: se m’avesse dato una coltellata sarei stato meno sgo-
mento.
Papà se ne accorse e aggiunse: «Non voglio sentire storie. Sbri-
gati a vestirti e va incontro a tua cugina». Annuii e mi alzai pesan-
temente dalla poltrona, con una specie di voglia di piangere.
Mi vestii in fretta e mi sedetti di nuovo nello studio, sperando
che all’arrivo di Irene l’intensità della pioggia fosse scemata.
Quando udimmo il campanello della porta però in strada ci
mancavano soltanto Noè, gli animali e l’arca.
Afferrai un ombrello, uscii di casa e sperai quasi di poterglielo
sbattere in faccia a quella smorfiosa che m’aveva rovinato la gior-
nata.
Discesi le scale, aprii il portone, mentre Liccarda si tranquilliz-
zava sotto le carezze di Gioacchino e uscii in strada, dove c’era
la vettura coi cavalli che tremavano intirizziti, e il cocchiere che
si stringeva le falde del cappotto. Aveva il cappello così floscio e
fradicio che non gli si vedevano gli occhi.
105
Pioveva a dirotto e non ero neanche uscito dal portone che, seb-
bene avessi l’ombrello, già avevo scarpe, calzoni, schiena e i lembi
del tabarro completamente zuppi. Per di più, stavo congelando.
Mi fermai un momento davanti allo sportello e stavo per aprirlo
quando una violenta folata di vento mi strappò di mano l’ombrello.
Proprio mentre fissavo smarrito l’ombrello e la pioggia mi battezzava
con ferocia, lo sportello della vettura si aprì da solo. Rimasi di sasso.
Quella che avevo davanti non poteva certo essere Irene. Non la di-
menticherò mai in quell’istante, finché avrò memoria. Non scorderò
mai il suo volto ovale e latteo, che mi sorrideva in maniera incantevo-
le con quelle labbra rosa e sottili. Non se ne andrà il ricordo di quella
chioma fulva, di quel rame splendente che cadeva sulla mantella ver-
de scuro e sul collo di visone che indossava. Non se ne andranno que-
gli occhi cerulei, così simili a quelli di zio Achille, che mi fissavano con
compassione e tenerezza mentre m’inzuppavo da capo a piedi sotto
quel diluvio di gennaio. Niente cancellerà mai tutto questo, niente
cancellerà mai la visione di Irene sotto la pioggia d’inverno.
Il vetturino a un tratto sbraitò qualcosa da cassetta che voleva
dire di far presto, e io mi riebbi dalla fattura che m’aveva inflitto
la vista di Irene. Corsi a raccogliere l’ombrello e ritornai da lei por-
gendole il riparo. «Grazie Stefano. Guarda, sei zuppo, corriamo
sopra, se no t’ammali!» disse Irene e c’infilammo nel portone dopo
aver pagato il vetturino.
In casa ci fu una festa di convenevoli. Io corsi ad asciugarmi,
poiché avevo un freddo orribile. Tuttavia, mentre la salvietta mi
frizionava la testa, il cuore mi batteva con violenza, i pensieri s’ac-
cavallarono e si diedero battaglia, il corpo divampò in una pira ar-
dente e la febbre mi salì alta. M’ammalai e quel pomeriggio stesso
mi misi a letto.
Mia madre lo attribuì a tutta quell’acqua che avevo preso. Io
sapevo, tuttavia, che non era così.
Stetti a letto due settimane a delirare con quaranta di febbre.
Venne il medico, che mi visitò e fece una faccia brutta che mia
madre interpretò male e ci pianse.
In quelle due settimane non vidi che mostri. Cose strane, figure
aliene, creature venute dalle fantasie dei miei libri e deformità d’o-
106
gni sorta. Però mi veniva in mente anche Irene. Credevo, in quel de-
lirio, che la sua visione fosse un sogno, che si dileguava e riappariva
in continuazione. Vedevo delle figure al mio capezzale, ma non
riuscivo a distinguerle. Rischiai seriamente di friggere quella volta.
Poi la febbre passò e venne la convalescenza. Mi svegliai una
mattina come da un incubo e mi guardai intorno senza compren-
dere cosa fosse accaduto né dove fossi. Ero nella camera del non-
no, e accanto a me, sul comodino, notai un vasetto con dei fiori,
delle fresie mi pare.
Guardai il mazzolino incuriosito, perché non era mia abitudine,
né quella del nonno, d’adornare la stanza di fiori. Notai ch’erano
avvizziti, cascanti, coi petali sparpagliati sul pizzo del centrino su
cui era poggiato il vaso.
A un tratto, una figura si parò davanti alla porta, e io trasalii:
era Irene. Recava un mazzetto di fresie fresche e stava venendo a
sostituire quello sfiorito.
«Buon giorno, Stefano. Stai meglio? Pare che la febbre ti sia pas-
sata» disse e si sedette accanto a me. Mi mise una mano sulla fron-
te, e io sussultai. «Sei più fresco, è un buon segno. Ti piacciono i
fiori? Li ho presi per te» disse ancora.
Era incantevole. Indossava un abito celeste di seta, col collo di
pizzo bianco e aveva i capelli raccolti in una treccia che le ricadeva
sul petto. I suoi occhi erano d’un verde intenso, il colore delle erbe
e dei prati.
Io non sapevo cosa fare, né cosa dire in quell’istante. Me ne sta-
vo imbarazzato e ancora per metà tra le coltri, con la camicia da
notte impregnata degli umori della febbre. Puzzavo, ero lercio, in-
tontito. La vergogna mi stava consumando.
«Non dici nulla?» mi chiese ancora lei, sorridendo.
«Grazie, ti ringrazio, mi piacciono… i fiori».
«Te li ho portati freschi ogni giorno. Spero t’abbiano aiutato a
non far brutti sogni».
«In effetti…»
«Devi scusarmi se mi sono impossessata della tua camera. Io
non volevo, ma zio Roberto ha insistito tanto. Spero tu possa per-
donarmi».
107
«Certo… certo, ti perdono… invero, non c’è da perdonare
niente».
Ero devastato. Era una creatura straordinaria, meravigliosa ed
era lì accanto a me e mi parlava.
Io non avevo mai conosciuto molte ragazze. Avevo parlato con
qualcuna a qualche ricevimento, quando ero stato invitato insieme
a Umberto (che era un mio amico, il mio primo amico, ma di lui
parlerò dopo), ma avevo poca dimestichezza. Il mio unico, vero
contatto con una donna era stata la mia esperienza con zia Mar-
gherita. Non sapevo niente sulle donne, a parte quello che avevo
letto nei libri.
Per me, le donne avevano l’aspetto e il carattere della Carlotta
del Werther o della Teresa dell’Ortis: belle, appassionate, delica-
te. Quella era la donna ideale che sognavo apparire tutte le notti
sull’uscio della porta, a destarmi e a portarmi con sé.
Quella ragazza seduta sul mio letto, col rame infuocato al posto
dei capelli e una foresta negli occhi, tornita nelle membra, con la
carnagione del colore del latte, era una visione prodigiosa e aliena
a tutte le mie fantasie.
Mi vergognavo del mio stato, in quel momento. Cosa avrei
potuto dire o fare per redimermi da quella sensazione di inade-
guatezza? Era la prima volta ch’ero pervaso da qualcosa che avrei
imparato a conoscere e a temere più d’ogni altra cosa: il disagio,
a causa del quale, d’ora in avanti, mi sarei sentito sempre a metà.
«Adesso ti lascio riposare, ci vediamo presto» disse Irene e uscì.
Io mi ributtai a letto e alzai gli occhi al soffitto. Lassù, sulla gre-
ca, nel biancore dell’intonaco sperai di trovare una risposta a quel
guazzabuglio che mi strepitava in cuore, ma le risposte, ed è questa
l’unica verità, non arrivano mai.
108
QUATTORDICI
AGESILAO MILANO, 1856
111
Era così. Sì, era… bellissimo.
Irene mi voleva bene, tanto bene. Mi voleva bene perché ero
come lei, accecato dalla bellezza, dalla poesia, dall’arte. Eravamo
cresciuti entrambi per essere curiosi e questo amore forsennato
per il sapere ci legava.
Parlavamo tanto e stavamo lunghe ore a leggere nello studio,
uno di fronte all’altra, come due vecchi sposi. Quanto ho sognato,
Dio mio, ora che ci penso, quanto ho sognato di vivere la mia inte-
ra esistenza seduto a quelle poltrone, insieme a Irene.
Trascorse un anno così, in cui fummo amici inseparabili. Ogni
volta che qualche cliente di papà indugiava con lo sguardo su Irene
o quando qualche amico faceva commenti o quando qualcuno in
strada si voltava a guardarla, un fuoco sacro s’accendeva in me.
Ero grande e grosso già all’epoca e li avrei ammazzati se avessero
osato portarmi via Irene. Era la mia amata, la mia amica, la mia
speranza. La mia vita. Nessuno me l’avrebbe portata via senza lot-
tare.
Un giorno facemmo una lunga passeggiata. Andammo a vede-
re il mare, che Irene amava tanto. Arrivammo al Chiatamone, a
visitare Castel dell’Ovo, e io le raccontai la leggenda di Virgilio e
dell’uovo di struzzo che aveva nascosto là sotto e che proteggeva
la città.
Ci fermammo al bordo della riviera, davanti al mare. A sinistra
avevamo il Castello, l’immensa cittadella ocra che sorgeva dalle
acque e che all’epoca era un carcere, con le sue bandiere che gar-
rivano al vento, in alto, le guardie minuscole che passeggiavano
serene sui torrioni e lo scintillio delle bocche dei cannoni che fa-
cevano capolino dalle feritoie. Dietro il Castello, il Vesuvio, che a
maggio del ’55 aveva eruttato di nuovo e che ora fumava placido e
sereno nel suo titanismo sopito. A destra, Posillipo, il promontorio
serpente con la testa di tufo, che scendeva in acqua dopo essersi
Con te non ho più bisogno di niente e di nessuno. Adesso io sono per te,
con te. La tua felicità, i tuoi scopi, i tuoi sogni sono le mie preoccupazioni
principali. Con te ho la forza di battermi, di conoscere, di vedere, di an-
dare sempre avanti».
112
ingobbito nella collina verde dove, da qualche parte, dormiva pure
Virgilio. E poi il mare, davanti a noi, che quel giorno di primavera
aveva il colore straniante d’un cielo riverso, d’un turchino cereo
che s’inabissava di tono là dove finiva la luce e cominciava il buio,
e la sua amante assopita, Capri, stagliata all’orizzonte, gigantessa
dormiente e placida.
Io vestivo la marsina nera quel giorno, col cilindro e la cravatta
verde scuro. Irene era in amaranto, in un vestito si seta marezzata
che le metteva a nudo le spalle e le braccia e che cadeva a balze a
terra, così come s’usava a quel tempo.
Stavamo fermi a guardare il mare da un po’ di tempo, in silen-
zio. Laggiù, dove finiva l’orizzonte, lontano, una leggera foschia
nascondeva Punta Campanella e la costa di Sorrento.
Irene osservava ieratica le acque. Ogni cosa attorno a me era
come l’avevo sempre sognata. Era tutto come l’avevo immaginato
nelle mie fantasie più recondite, ma mancava qualcosa. Mancavo
io. Io mi sentivo inadeguato, a disagio, in quel mondo di bellezza.
Era come se ne fossi escluso, costretto a guardare da un promon-
torio alto e scosceso la valle dell’Eden, preclusa dai picchi impervi
e acuminati. Ero uno straniero nelle lande della bellezza.
«A cosa pensi?» domandai.
«Pensavo a mio padre. Non mi capita mai di pensarci».
«A tuo padre?»
«Sì. Penso a dove sia adesso. Cerco di immaginarlo. Dove pensi
che vadano i morti?»
«Lontano».
«Lontano…»
«Vanno laggiù, Irene, vedi? Dove finisce l’orizzonte. Dove van-
no le balene».
«Le balene?»
«Sì, le balene, che nuotano verso Gibilterra. Una volta le ho vi-
ste, sai? Erano immense, eleganti. Una bellezza lancinante».
«Come facevi a sapere che andavano a Gibilterra?»
«Non lo sapevo… l’ho immaginato».
Lei tacque un attimo, scrutando l’orizzonte, poi disse: «Non ho
conosciuto bene mio padre. Forse l’hai conosciuto meglio tu di me.
113
L’ho visto poche volte in vita mia e non aveva mai troppe parole da
spendere per me. Era sempre impacciato, timido. Arrossiva subito.
Lui era mio padre, non papà. “C’è vostro padre, signorina” dice-
va la portinaia, e io andavo a salutarlo. Ce ne stavamo quel poco
tempo a parlare della condotta, dei voti, di qualche novità. Mai
di noi stessi, di noi due. Ora non lo potrò più fare, mai più. Credi
che laggiù, lontano, ci sia un posto dove ci rincontreremo tutti e
potremo starcene tranquilli a parlare?»
«Non lo so, Irene. Lo spero. A volte credo che le cose e le persone
che sono state restino da qualche parte e si possano ascoltare. Vivo-
no in certi suoni, in certi odori, in certe speranze che all’improvviso
ci invadono e ci riempiono lo sguardo di meraviglia. Allora non oc-
corre attendere d’arrivare così lontano, basta imparare ad ascoltare.
Sono solo i fantasmi a far perdurare il sogno di questa vita».
Avrei voluto dire tutte queste parole esatte in quel giorno di
primavera, davanti al mare, ma ci ho messo cinquant’anni per im-
parare a dirle e per dimenticarle. Avrei voluto dire queste cose a
Irene, ma avevo sedici anni ed ero terrorizzato.
La fissai senza proferir parola e iniziai a piangere. Tentavo di
chiudere gli occhi per non fare uscire le lacrime, così come avrei
serrato la bocca per non far uscire un grido. Ma fu tutto inutile.
Piansi e le mie guance si rigarono di umiliazione e fui sopraffat-
to dal degrado di me stesso. Più pensavo alla pena di Irene, più la
mia si acuiva e il pianto immiseriva il suo strazio. Ero ridicolo. Lì
davanti, davanti a tutta quella bellezza, io rimasi muto e in lacrime.
Irene se ne accorse e si distrasse dai suoi pensieri. «Non far così,
Stefano, non ti preoccupare, guarda, sto bene, non è nulla! Un at-
timo di malinconia. Sta’ sereno, piccolo mio».
Io mi accasciai a terra e iniziai a singhiozzare più forte. «Oh,
tesoro mio, tesoro mio» mugugnavo. Irene sorrise e mi accarezzò
la testa, dalla quale il cilindro era caduto. «Mio dolce Stefano. Dai,
torniamo a casa».
Irene si sposò nel mese di febbraio del 1857 con un medico di
Torre del Greco.
Lo conobbe a Toledo, una volta che passeggiava con zia Mar-
gherita, e io non ero lì a impedirlo.
114
Era un bell’uomo, biondo, azzimato, cordiale. Si chiamava Mi-
chele Borriello. Fu un ricevimento sfarzoso e si tenne a Torre, in
casa del dottore. L’unica cosa che ricordo di quel giorno, l’unica
che la mia mente sconvolta riuscì a conservare, fu che Irene aveva
in mano un bouquet di fresie.
È morta nel 1899. Sono stato al suo funerale e ho pianto sulla
sua bara. So che non ci rivedremo mai più, lo so bene, ma là, da-
vanti a quella cassa che la nascondeva, le ho chiesto, con tutto il
cuore, di aspettarmi, lontano.
115
QUINDICI
LA SPIGOLATRICE DI SAPRI, 1857
121
frantumava al cozzo con una nuova, struggente sestina e i piaceri
della carne di zia Margherita echi in risposta ai pensieri, quando,
traendo ispirazione da un romanzo, immaginavo prosaicamente
di perdermi nel panismo delle selve tenebrose.
Nuove compagne di vita si fecero avanti, nuove amiche a cui
rubai un bacio e una parola, a cui cento volte promisi il cuore e
cento volte me lo resero in frantumi.
Frequentavamo i Caffè, io e Umberto, dove ci sedevamo acca-
vallando le gambe, con l’aria ironica e sorniona dei coscienti, col
bicchiere d’assenzio diluito davanti, il bambù tra le mani e il sigaro
Toscano tra i denti.
Il nostro preferito era il Caffè Aciniello, quello di via Foria, ad
angolo di Porta San Gennaro, di fronte casa d’Umberto.
Esiste ancora l’Aciniello, e qualche volta ci torno e me ne sto
seduto a uno dei tavolini esterni, sul marciapiede rialzato, accanto
ai vasi di fiori e guardo la gente che passa in strada e ancora mi
volto, d’istinto, alla mia destra, dove si sedeva sempre Umberto,
per accennargli qualcosa di stravagante che ho visto, ma lui non
c’è e mi trovo a sorridere a una sedia vuota.
Sorbivamo il caffè o il nostro assenzio lentamente, seduti ai ta-
volini esterni o nella bella e confortevole saletta interna, davanti al
bancone di marmo bianchissimo.
Qualche volta, all’Aciniello, abbiamo visto Francesco Mastria-
ni che scriveva, seduto in disparte. Era un ometto basso, calvo,
pallido, col pizzetto puntuto e niveo ed era sempre seduto com-
postamente, con uno sguardo serio e la fronte corrugata, mentre
listava un capitolo di uno dei suoi interminabili e foschi romanzi.
Una volta, mentre lo scrittore usciva dal Caffè, con quell’aria sem-
pre affranta e cogitabonda, udimmo un cameriere mormorare:
«Meno male, il mio cadavere3se ne sta jenno».
E le taverne! Ah, le taverne… le buie taverne dove s’andava a
bere e mangiare a buon mercato piatti pieni di condimento, in-
naffiati da certi vini traditori che scendevano facili e risalivano
122
subito. Dalla Taverna de’ fiori dietro Santa Maria la Nova a quella
della Sangiovannara nella Pignasecca; dal Pollino di via Tasso, a
Caponapoli, dove si mangiava all’aperto, ce le siam fatte tutte le
taverne di Napoli.
Quante sbronze ci siamo presi a quel tempo assieme a Umber-
to e agli amici dell’Università! Gente che se ora l’incontro non la
riconosco. Quante volte siamo tornati a casa senza esser capaci
di reggerci in piedi, sbiascicando qualche canzone o i versi che im-
paravamo a memoria e declamavamo nella notte, alla luna che a
Napoli si vede solo a mare, perché sta sempre nascosta tra i palazzi.
Vivevamo così, si doveva vivere così. Tanto quelli come noi so-
pravvivevano sempre. Vomitavamo l’anima, buscavamo qualche
botta dai nostri padri, ci imbrattavamo vestiti e linguaggio, ma
tornavamo sempre a casa. Quelli come noi non ci rimettevano mai
davvero. Potevamo bere fino allo sprofondo, ma ci aspettava il
letto, il nostro letto, e ci avrebbe aspettato sempre.
Ora che ci ripenso, dopo così tanti anni, non ho sulle labbra il
sorriso delle belle memorie o il ghigno amaro del rimpianto. Non
ricordo neanche bene quegli anni. Più ci rifletto, più sento un vuo-
to in quei luoghi dove avevo lasciato molti ricordi. Nomi d’amici
fraterni e non, vicende, aneddoti, dolcezze, tutto è svanito, e non
perché mi son fatto vecchio, ma perché al fondo di quelle cose che
credevo sacre ho trovato me stesso inerme, ho ritrovato il disagio
che tentavo di sopire col vino e con gli amori effimeri. Non so ne-
anche bene come raccontare quei giorni, e qualcosa che non può
essere raccontato è come se non fosse mai avvenuto. Anzi, forse
è peggio di così. Qualcosa che non può essere raccontato non ha
valso la pena di essere vissuto. Tant’è vero che quella parte della
mia giovinezza s’interruppe bruscamente e nel modo più sconvol-
gente.
L’unica realtà, l’unica certezza, l’unica memoria valevole ch’io
riesco a evocare da quel tempo, è il ricordo di Umberto. È solo
grazie a lui ch’io ricordo d’aver avuto vent’anni. Solo lui esiste nel
buio di quei luoghi abbandonati della mia anima. Solo lui e il sacri-
fico che fece per non abbandonarmi. Solo lui, l’amico mio, l’amico
mio perduto.
123
DICIASSETTE
CARLO LO STREGATO, 1858
127
DICIOTTO
IN VIAGGIO, 1858
131
DICIANNOVE
BENEVENTO, 1858
138
animali, porci e pecore che allietavano la tavola della locanda. La
latrina era un tugurio a lato della rimessa degli attrezzi e del gra-
naio, che puzzava da far schifo, così che me ne andai un po’ per la
stradina e pisciai nel campo.
Tornando sui miei passi, vidi accanto a una porta, che doveva por-
tare in cucina, una signora seduta su uno scranno, vestita di scuro,
con un gran fazzoletto in testa. Era vegliarda, a giudicare dal volto e
dalle mani vizze. Se ne stava immobile, seduta sul suo scranno, e ave-
va in grembo un gattino grigio e tigrato, che dormiva rannicchiato,
con le zampe nascoste sotto al corpo. La vecchietta aveva due occhi
quieti, placidi e teneva le mani attorno al micio e guardava l’aia che
andava ai campi. Appena mi vide mi fece un cenno di saluto in dialet-
to, ch’io non compresi bene, ma al quale risposi cavandomi il cappello.
Rimasi qualche istante a fissare quelle due figure e una terribi-
le tenerezza m’avvinse. Sentii una stretta al cuore tanto forte da
averne quasi voglia di piangere. Eppure, fui intimorito, poiché la
tenerezza è il sentimento che ci rende umani, più di qualsiasi al-
tro, è l’anima stessa della compassione. Nella tenerezza l’uomo è
l’essere davvero supremo. Questo è il guaio, che la tenerezza sta
solo in cuor suo. Quel che fa tenerezza diventa pericoloso, perché
si sottrae alla natura. Esiste una ferocia che si combatte, oramai,
da tempi antidiluviani e che è, tuttavia, l’unica ragione d’esistenza
delle cose vive. Mentre un tempo, forse, si sapeva come glorificare
nel suo canto spinoso questa ferocia, come renderle giustizia nel
groviglio dell’esistenza, domani essa sarà lenita dalla tenerezza e la
si crederà vinta. Ma non si può vincere il Vero.
Spero di non vederlo mai quel tempo, in cui la tenerezza avrà
pervaso ogni azione umana e gli animi allibiranno davanti alle na-
turali recrudescenze della ferocia. Quello sarà il tempo del vero
abisso, in cui la socialità invasata dei nuovi credenti avrà contato
d’estirpare il male dalla terra. Il male è la terra, e lo sarà sempre,
fin quando l’uomo non avrà compreso la sua cosmica inanità, ma
questo, ahimè, non accadrà mai.
Me ne tornai dentro, turbato, e mi rimisi a tavola con i miei ami-
ci. Dopo aver pagato un conto modesto, ci rimettemmo in viaggio.
139
VENTI
GESUALDO, 1858
142
Dopo il bagno, mi rivestii con un abito meno lugubre, d’una bel-
la tinta beige. Scesi in salotto e mi sedetti in poltrona, davanti al ca-
minetto, ove era stato acceso un fuoco che, sebbene fosse maggio,
faceva il suo dovere, poiché in quelle zone montane la temperatura
era ancora rigida.
Poco dopo mi raggiunsero anche Umberto e Aldo e ci mettem-
mo a chiacchierare.
«Spero sia tutto di vostro gradimento, amici» disse Aldo.
«Tutto perfetto, Aldo, me ne avevi parlato bene, ma non pen-
savo potesse essere così incantevole questo paese. Ti ringrazio per
averci accolto e spero di poter ricambiare in qualche modo, un
giorno» rispose Umberto.
«Non preoccuparti, è un piacere. Spesso ci veniamo da soli, io
e Giorgia, a trascorrere i mesi estivi, quando i nostri genitori non
possono. C’è sempre un bel fresco quassù e una gran pace».
«È da molti anni che possedete la villa?» domandai io.
«Sì. L’acquistò mio nonno, quando venne soppressa la diocesi di
Frigento e alcuni beni furono messi all’asta. Mio nonno era inge-
gnere idrico e si trovava spesso in viaggio e una volta passò di qui
e si innamorò del posto».
Poi restammo in silenzio, a contemplare il fuoco, ciascuno a suo
modo immerso nei propri pensieri e sul volto d’ognuno balenava
la luce rossastra delle fiamme agitate.
Mi mancano momenti come quelli. Mi manca quando si stava
tra gentiluomini, a fumare sigari e a conversare con garbo. Erava-
mo giovani, eravamo spauriti, ma i nostri atteggiamenti e le nostre
parole volevano il contrario. Non ci guardavamo negli occhi, per
non rivelare l’un l’altro l’inganno. Mi manca la decenza di quei
tempi, in cui ci credevamo adulti ed eravamo ancora in grado di
rimanere a bocca chiusa.
Poco dopo ci raggiunse Giorgia. S’era cambiata anch’essa d’abi-
to. Era in avorio, adesso, e portava sulle spalle uno scialle bordò,
che la teneva al caldo.
«Eccola la gioventù moderna: poltrona e pantofole» disse sorri-
dendo e si mise a sedere con noi accanto al fuoco.
«La cena sarà pronta a breve, ho chiesto a Teresina (la moglie di
143
Carrabs) di preparare il coniglio, spero vi piaccia» disse Aldo, met-
tendo un altro ciocco nel fuoco. Poi tornò a sedersi in poltrona e
fece: «Vorrei leggervi qualcosa prima di metterci a tavola» e tolse
dalla tasca interna della sua giacca antracite un volume in dodicesi-
mo, rilegato in marocchino cobalto, con fregi d’oro al dorso. Regge-
va quel volumetto con reverenza, quasi stesse lì per frangersi.
«Questa è la prima edizione dei Fleurs du mal del signor Baude-
laire. È un libro estremamente raro. È apparso l’anno scorso, ma è
stato censurato dalle autorità francesi per oltraggio alla pubblica
decenza. Sono riuscito ad averne una copia per via clandestina. In
vita mia, non ho mai letto niente di simile».
Aldo si sporse al bordo della poltrona e piegò un poco il volume
in modo che la luce delle fiamme si proiettasse sulle pagine aperte
e iniziò a leggere:
144
Restammo in silenzio a guardare ancora il fuoco. Io avevo udi-
to il nome di Baudelaire all’Università, sussurrato con la reverenza
che si deve ai maestri o ai reprobi, ma non avevo mai letto niente
dei suoi lavori.
Il fuoco gracchiava nel camino lentamente, mentre noi tutti in
quella stanza rimuginavamo quel che non sapevamo dire, quel che
non si poteva intendere o esprimere: che sta sempre in dubbio e
resta tale.
«Che cosa vuol dire, Aldo?» domandò a un tratto Giorgia, ri-
destandosi dalla malia delle fiamme in cui era stata fino a quel
momento invischiata.
Aldo sogguardò ancora la pagina e scrollò il campo, sospirando:
«Il futuro?»
145
VENTUNO
DON CARLO DA VENOSA, 1858
149
VENTIDUE
LA FORESTA, 1858
153
VENTITRÉ
FRANCESCHIELLO E L’AQUILETTA BAVARA, 1859
157
VENTIQUATTRO
IL DRAGO, 1859
163
VENTICINQUE
LE NOTTI PASSATE IN VIA TOLEDO, 1860
168
VENTISEI
LIBIAMO, 1860
174
VENTISETTE
1909
177
PARTE SECONDA
LA LUNGA ESTATE
UNO
DOPO I FATTI DELLA GANCIA, 1860
189
DUE
QUARTO, 1860
191
Dopo esserci destati e aver fatto colazione, ci mettemmo in
viaggio per Quarto su un postale che andava a La Spezia.
Quarto era all’epoca un paesetto di pescatori affacciato sul Mar
Ligure, sorto a ridosso delle colline d’ardesia floride di pini marit-
timi, lentischi e ginestre. Sopra la cittadina si scorgevano una serie
di terrazze agricole coltivate a filari di vite e olivi.
Arrivammo col postale al porto e subito notammo un certo fer-
mento, un’agitazione d’uomini, un subbuglio di gente che andava
e veniva. Tutt’intorno a quell’armeggiare c’era una specie d’eufo-
ria, un’allegria nervosa piena di fiducia.
Io e Umberto ci sentimmo spaesati appena scesi da quel battello.
Avevamo con noi i fagotti coi panni dentro e qualche oggetto che
non ci facesse viaggiar pesanti e ce ne restavamo impalati in quel
trambusto senza sapere che fare.
Fermammo un giovanotto in camicia rossa e gli chiedemmo
dove fosse il quartier generale, per poterci arruolare. Lui c’indicò
quella che lì chiamavano il Casone bianco e che era, in realtà, la
Villa Spinola.
La Villa era una bella fabbrica bianca del secolo XVII e pure là
fuori era un agitarsi d’uomini che andavano e venivano, chi recan-
do carteggi, chi imbracciando fucili, chi discutendo ad alta voce di
questo o quel fatto.
Noi due, ch’eravamo frastornati dal baccano, quando fummo
dentro quella casa coi soffitti affrescati domandammo a un altro
giovane in camicia rossa e seduto a una scrivania di mogano a chi
dovessimo domandare per arruolarci.
Quello prima ci guardò a lungo, ci squadrò per bene accarez-
zandosi il pizzetto.
«Di dove venite?»
«Da Napoli».
«Ah… da Napoli… e vorreste arruolarvi con il Generale. Chi mi
assicura che, invece, non siete spie borboniche? Chi mi dice che non
siete qui per ammazzare il Generale?»
Io e Umberto ci guardammo, disorientati. Poi mi feci coraggio
e risposi: «Nessuno te l’assicura. Nessuno proprio. Posso solo darti
la mia parola, per quello che vale, perché è tutto quello che posseg-
192
go. La mia fede è una e una soltanto. Mio nonno stava con Mario
Pagano, nel ’99 e gli ho dato la mia parola che quello che lui non è
riuscito a fare, l’avrei fatto io».
«E sarebbe a dire?»
«Quello che vuoi anche tu. Lo sai almeno chi era Mario Pagano?»
dissi ancora e mi sporsi sulla scrivania, appoggiando le palme al piano.
Il soldato mi fissò per un istante, poi sorrise. «Beh, la vedremo
cosa siete, se spie o gentiluomini. Per ora firmate qui e cerchiamo
d’andare avanti» concluse quello e ci porse calamaio e penna per
segnare il registro d’arruolamento.
«Bene signori miei, congratulazioni, siete ufficialmente solda-
ti della Quinta compagnia dell’Esercito Meridionale del Generale
Garibaldi. Il vostro comandante è il colonnello Francesco Anfossi.
Comportatevi bene e viva l’Italia!» disse e ghignò ironicamente.
Mentre ce ne stavamo lì, ad ascoltare gli sproloqui del reclutato-
re e intanto pensavamo al da farsi, magari cercare un posto dove
dormire, dato che non se ne parlava ancora di mettersi in viaggio,
m’arrivò addosso un uomo bruno e grosso, un ufficiale, e il solda-
to al tavolo si alzò in piedi e si mise sugli attenti.
«Ascolta, devi portare questo dispaccio al Generale, io mi sto
cagando addosso e non ci posso andare». L’uomo sudava freddo e
si reggeva la pancia e faceva smorfie di dolore accecante.
Io annuii e presi il dispaccio dalle mani dell’uomo e quello scap-
po via, credo in direzione delle latrine.
Il soldato del registro mi guardò sorridendo e si rimise seduto. «Sai
che quello era Giovanni Battista Basso, il segretario del Generale?»
«Quel generale?»
«Sì, vai, su per quella scala, la prima porta alla tua destra. Sbri-
gati, che lo starà aspettando. Questa è la prova del nove: adesso
vedremo se sei una spia oppure un patriota».
Guardai Umberto un istante: lui alzò le spalle, io mi voltai e mi
misi a salire la scala. Davanti alla porta c’era un attendente che mi
squadrò un poco prima di lasciarmi passare.
Bussai delicatamente alla porta, ma non sortii effetto. Ero ner-
voso e sentivo un gorgoglio allo stomaco. Guardai l’attendente,
ch’era tornato impassibile.
193
Bussai ancora, con più energia e udii questa volta una voce che
mi diceva d’entrare.
C’era una scrivania in quella stanza, ampia, gigantesca e piena
di fogli, posta davanti a una grande finestra ad arco semicircolare.
Da una parte c’era un letto, un letto da campo, disfatto. Accanto
al letto, su una seggiola, c’era una caffettiera sporca e una tazza
ancor più lurida, e posato sullo schienale un poncho di lana spessa
e beige. C’erano dei quadri alle pareti, dei ritratti di gente antica,
mezzi mozzicati dagli anni, e una libreria con gli scaffali vuoti. La
stanza era appestata dall’odore stantio del sigaro Toscano.
Mi avvicinai con gli occhi bassi alla scrivania, senza guardare
chi ci fosse seduto e porsi il dispaccio bisbigliando: «Prego». Ero
atterrito, tremante.
«Nessuno t’ha insegnato a star sull’attenti davanti a un superio-
re, giovanotto?» disse la voce ch’avevo udito prima, ch’era voce di
gola, incatramata dal fumo. Alzai gli occhi su quel ripiano stermi-
nato di fogli e di penne, impiastrato di macchie nerastre d’inchio-
stro e caffè e la mia attenzione ricadde su un sigaro toscano lungo
e rinsecchito, che venne afferrato da una mano nodosa, dalle noc-
che spesse e coriacee, coperta di peluria rossa. Il sigaro fu spezzato
in due e una metà andò a finire in bocca a Giuseppe Garibaldi.
Il Generale diede fuoco alla metà del sigaro con un cerino e ini-
ziò a fumare tranquillamente.
Portava un paio di vecchie lenti a pince-nez, legate a uno spago
che gli cingeva il collo e tenute insieme da una strisciolina di cauc-
ciù fissata all’archetto, e mi osservava incuriosito coi suoi piccoli
occhi azzurro-verdi, incavati nelle orbite scure e vizze e intanto
si grattava la barba fitta e fulva. Stringeva il Toscano tra i denti e
aveva un occhio sinistro socchiuso, per non farci entrare il fumo.
La fronte era ampia laddove aveva perduto i capelli e sulle spal-
le gli ricadeva una zazzera ricciuta e ancora rossiccia, sebbene il
bianco facesse da campione. Me l’ero figurato più grande di quel
che fosse in realtà: era stretto di spalle e piccolo di membra, ma era
nodoso, in compenso, coriaceo come certi tronchi vecchi, robusti
e aggrinziti. Indossava una camiciona bianca, un po’ lisa al collo e
macchiata di inchiostro ai polsini.
194
A un tratto si tolse gli occhiali, che gli ricaddero sul petto, si
appoggiò allo schienale della sedia, si tolse il sigaro di bocca e disse:
«Ebbene, sto aspettando l’attenti, ragazzino». Io sussultai, perché
in tutto quel tempo ero rimasto a fissare l’uomo di cui avevo sen-
tito parlare la prima volta quand’era morta la buonanima di zio
Achille, che passava da eroe, e di cui non sapevo poi un gran che.
Mi misi sull’attenti, ma era un attenti improvvisato, perché in
vita mia non ne avevo mai fatti. «Andiamo bene, neanche l’attenti
sai fare. Che bei soldati che abbiamo rimediato. Tu es loco, mi ami-
go, per esserti immischiato in una faccenda come questa. Sai che
vuol dire loco, almeno?»
In tutto quel tempo non m’ero accorto che avevo il dispaccio
ancora in mano. «Generale, io non sono pazzo e sono qui per con-
segnarvi questo dispaccio, che m’ha dato il vostro segretario Bas-
so. Sto qui per fare del mio meglio, non ho mai fatto il soldato.
Spero di imparare a essere degno di far parte delle vostre fila. Per
ora questo è quello che sono e se non mi volete non so che dirvi»
dissi d’un fiato e mentre lo dicevo quasi mi scappava di farme-
la addosso e subito mi sarei rimangiato tutto, se l’aria fosse stata
edule, perché non so da dove avessi tirato fuori quel fegato, che mi
sarebbe potuto costar caro.
Garibaldi mi fissò ancora e si rimise il sigaro in bocca. Poi s’al-
zò dalla sedia e mi venne incontro. Era assai più basso di me, ma
faceva paura, davvero paura. I suoi occhi si piantarono nei miei e
si fecero gravi.
«Dammi quel dispaccio» disse. Io glielo porsi e non ebbi il tempo
d’allungare la mano che mi trovai al muro, con la testa incava-
ta negli scaffali della libreria vuota, che sussultarono all’urto. Mi
torse il braccio dietro la schiena e provai un dolore acuto, che mi
fece urlare. Sentivo il suo fiato amaro sul collo, l’odore di cuoio,
di corame, di vecchie cose ch’era quello della sua pelle. Aveva una
forza enorme, sebbene fosse piccolo in confronto a me: avrebbe
potuto pestarmi a dovere con facilità.
«Imparerai, questo è certo. Imparerai a comportarti da persona
educata, prima di tutto, grand’uomo, te lo insegnerò io. Azzardati
un’altra volta a essere insolente col tuo comandante e ti farò passa-
195
re per le armi, ti do la mia parola d’onore, moccioso impertinente!»
mi ringhiò all’orecchio e poi mi lasciò andare con uno spintone.
«Ora fila via!» grugnì ancora, e io uscii con la coda tra le gambe,
massaggiandomi il braccio ch’avevo temuto si fosse rotto.
L’attendente mi fissò e mi vide scarmigliato e rosso in volto.
«Che è successo?» chiese.
«È successo che me la sono cavata».
«S’è arrabbiato?»
«Abbastanza» conclusi e tornai abbasso da Umberto.
«Cosa hai? Ti sei fatto male, Stefano?»
«No, non mi sono fatto niente, sta’ tranquillo».
«Si direbbe, allora, che tutto sommato tu non sia una spia, non è
vero? Di’ un po’, il Generale è stato cortese?» disse quello del regi-
stro, con un ampio ghigno sulla faccia.
«Dacci un taglio anche tu, va bene? Dov’è che possiamo andare
a passare la notte?» domandai.
«Ci sono un paio di case che sono state assegnate alla truppa qui
intorno, domandate là» ci disse e ci lasciò al nostro destino.
201
TRE
SUL PIEMONTE, 1860
205
QUATTRO
TALAMONE, 1860
206
di volle provare un’azione contro lo Stato Pontificio. Ordinò al co-
lonnello Zambianchi e ad altri sessantaquattro volontari di tentare
d’organizzar un’insurrezione dei territori papali.
Zambianchi obbedì all’ordine, partì coi suoi volontari e ne ar-
ruolò altri duecento per strada. Tuttavia, la truppa del colonnello
si macchiò di alcuni saccheggi, che gli resero invisa la popolazione
locale. Venimmo a sapere che Zambianchi si scontrò nei pressi di
Orvieto con le truppe pontificie del colonnello Pimodan, coadiu-
vate dalla popolazione locale, e dovette ritirarsi all’arrivo degli
zuavi. Così l’avventura andò in malora.
Una nave piemontese, inviata da Cavour per tema che gli scon-
tri di Zambianchi con le truppe pontificie potessero mettere in al-
lerta la Francia, riuscì a fermare il povero colonnello romagnolo,
che finì il suo tentativo insurrezionale in carcere.
Ripartimmo da Porto Santo Stefano con un po’ d’amaro in boc-
ca per la faccenda, anche perché venimmo a sapere che c’era un
mandato di arresto per la Piemonte e la Lombardo, firmato sempre
da Cavour, qualora i legni fossero attraccati in qualsiasi porto del-
la Sardegna.
Cavour non aveva mai visto di buon occhio i moti insurrezio-
nali, le spedizioni e le rivolte. Era un diplomatico, e quelle cose da
mazziniani non le poteva soffrire. In più, temeva un intervento di
Napoleone III, ch’era alleato del Papa e a cui non andava a genio la
nascita di una nazione italiana. Bisognava andar cauti e non com-
promettere troppo apertamente il Regno di Sardegna. Come ho
detto, la nostra spedizione rimaneva legale soltanto se sottaciuta.
La sera del 10 maggio eravamo in alto mare e sul ponte s’assi-
steva alla solita cagnara.
Garibaldi s’era fatto vedere in plancia a fumare il sigaro e a im-
partire qualche ordine giornaliero. A volte andava in stiva a con-
fortare la sua cavalla, Marsala, che temeva un poco il buio.
Quella sera eravamo come al solito in coperta, accanto ai falò
accesi nei bracieri, poiché faceva ancora freddo in mezzo al mare e
ci scaldavamo al fuoco bevendo un goccio, quando il sottotenente
Bandi, ch’era l’ufficiale d’ordinanza del Generale, ricevette l’ordi-
ne d’adattare certi versi, che Garibaldi stesso aveva composti, a
207
una qualche melodia. «Ci vorrei qualcosa di battagliero, come la
Marsigliese, come quando s’attacca alla baionetta» aveva specifica-
to il Generale. Nelle sue intenzioni c’era di fornire la sua truppa di
un canto originale, che fosse distintivo dell’Esercito Meridionale. I
versi erano questi:
Diciamo pure che non erano poi questa grande bellezza, quei
versi. Garibaldi, quando ormai era vecchio e stava in esilio a Ca-
prera, provò pure a fare il romanziere, ma gli riuscì assai scarsa-
mente. Non era proprio il suo mestiere, ecco.
Il povero Bandi, che non voleva deludere il Generale, non sape-
va come risolvere la questione, perché era un bravo scrittore e un
ottimo soldato, ma ne sapeva poco di musica. È Giuseppe Bandi,
infatti, l’autore di quel bel libro che è I Mille, pubblicato sette o otto
anni fa, uno dei pochi memoriali veraci di quell’impresa. Tuttavia,
quella sera, sulla plancia della Piemonte, il Bandi, bruno, paffuto,
coi baffi folti e il pizzetto alla Vittorio Emanuele, andava avanti e
indietro con quel foglio in mano e il lapis dietro l’orecchio e non sa-
peva raccapezzarcisi a risolvere la questione. Al che fu intercettato
dal Cei, che disse: «Bandi, datemi un po’ quel foglio».
«Giovanni, che voi fare? Guarda che il Generale ci tiene».
«Non vi preoccupate, che s’accomoda tutto, date a me, io son
livornese, nessuno sa cantare come i livornesi». Giovanni Cei era
magro da sembrar tisico, pallido e aveva una specie di ghigno pe-
renne in volto, che metteva soggezione.
Bandi gli diede il foglio a malincuore, però pure un poco solle-
vato, perché proprio non sapeva che fare.
208
Il Cei lo guardò aggrottando la fronte, poi disse: «Bei versi son
questi» e rivolto a noi, ché il Bandi non sentisse: «Spero che il Gene-
rale combatta meglio di come scrive».
«Non vi preoccupate, Bandi, che ci si pensa noialtri ai versi del
Generale. Datemi un po’ di tempo» disse Cei.
«Mi raccomando allora. Lo sai, anche io son toscano. Non fare
il bischero, intesi?»
«Ma sì, ma sì» tagliò corto il Cei.
«Ragazzi, qua s’ha da fare la musica, forza idee» disse il livorne-
se, messosi subito all’opera.
«Giovanni, scusa, ma non avevi detto che ci avresti pensato tu?»
chiese Umberto, sorridendo.
«Sì, me li son fatti dare da quel grullo del Bandi perché ci dob-
biamo fare due risate. Diciamocela tutta la verità, ’sti versi fan
cagare, senza offesa di nessuno. Roth, tu che ne dici?»
«Fuck you, son of a…» e giù a rimettere ancora.
«Quello lì l’è bello che andato. Servono idee, Bonardi, forza! Tu-
rati, te? Il Galiota non parla? Candiani, tu che dici?»
Candiani era milanese ed era biondo, grande e grosso. Aveva il
viso butterato dalle cicatrici del vaiolo. Aggrottò un poco le ciglia,
poi spianò la fronte e disse: «Ce l’ho, la Bella Gigogin!»
«I milanesi son bravi, ebbè, ci hanno il Porta, ci hanno!» disse
Cei, trionfante.
Iniziammo così ad adattare i versi di Garibaldi alla melodia del-
la Bella Gigogin e in meno di un’ora tutta la nave cantava i versi
di Garibaldi, ma la melodia certo non somigliava alla Marsigliese.
«Cei! Ma sei impazzito! Che figura ci faccio io adesso, maledet-
to! T’avevo detto di non fare il bischero!» urlò Bandi, con un par
d’occhi infocati e paonazzo nel volto pienotto.
«Dai Bandi, allegro, che si va alla guerra, mica si va a un funera-
le! E poi vedrete che al Generale piacerà, state sereno!»
Al Generale non piacque, per niente.
«Io volevo darvi un canto di guerra che fosse tutto vostro e
voi ci ridete sopra. Andate alla malora todos, canalla maldita!»
si mise a sbraitare, uscendo dalla sua cabina, col fez di traver-
so. Quando s’arrabbiava sul serio, metteva in mezzo al discorso
209
sempre qualche parola in spagnolo, in ricordo dei bei tempi di
Rio Grande do Sul.
A quei rimbrotti, la truppa si rimangiò il canto e l’allegria, per-
ché, quando urlava, Garibaldi faceva davvero impressione e io ne
sapevo qualche cosa.
«È andata bene, Candiani, che ne dici?»
«Sarebbe andata meglio se ci avesse messi al muro» rispose il
gigantesco milanese e si mise a ridere a bocca larga.
Poi perdemmo di vista le luci della Lombardo. La nave ci segui-
va a una distanza non eccessiva, in modo che il contatto visivo
fosse sempre possibile. Eravamo in acque borboniche e potevano
esserci vascelli della Marina dappertutto, pronti ad attaccarci.
Stavamo immersi nel buio. Nessuna luce all’orizzonte, niente che
indicasse la presenza della terra o di qualcosa d’umano, solo l’infini-
to e splendente ventre stellato del cosmo sopra le nostre teste.
«Aguzzate la vista, dobbiamo trovarla, dobbiamo trovare la
Lombardo» ci ordinarono Anfossi e i comandanti delle altre com-
pagnie.
Ci mettemmo tutti ai parapetti, a scrutare nel buio. Calò il silen-
zio, rotto solo dal bofonchiare della macchina.
Poi un suono sinistro s’alzò dall’acqua, come un muggito, che
echeggiò per un tempo incalcolabile e poi tacque. Dopo poco lo
stesso muggito si alzò nelle tenebre e come il primo ricadde.
Il rumore veniva dal mare, da lontano. Io e Umberto ci guar-
dammo con gli occhi sbarrati e persino Roth riuscì a riaversi un
attimo per ascoltare meglio.
Era un lamento, una specie di ululato baritonale. Invece di cer-
care la nave, la truppa s’atterrì e iniziò a osservare il cielo e a cercar
la fonte di quel suono agghiacciante.
Imbracciammo i fucili, pronti a far fuoco. «Sarà una nave bor-
bonica?» chiese Umberto, spaventato.
«Non lo so. Non ho mai sentito una nave far di questi lamenti»
rispose per lui Bonardi, con un tono di voce lugubre.
Il muggito continuò lungamente, finché non fu rotto da un vo-
ciare altisonante. «Volete finirla una buona volta, manga de bur-
ros? Non avete mai sentito una balena che canta?»
210
Era Garibaldi. Stava a braccia sui fianchi, con uno sguardo tor-
vo e il fez sempre di traverso. Non gli era passata, davvero.
«Tornate al vostro mestiere: dobbiamo trovare l’altra nave il
prima possibile. Là fuori ci potrebbero essere i legni napoletani,
pronti a farci a pezzi» concluse il Generale, con uno sbuffo sonoro.
Le balene. Io mi sporsi dal parapetto, con la speranza infantile
di vederne una in quel grande buio cosmico in cui navigavamo.
“Forse” pensai, “questa volta tornano da Gibilterra” e sentii il pian-
to salirmi alla gola, assieme a un mucchio di dolenti ricordi, ma
riuscii a ricacciarli indietro appena in tempo.
Dopo varie ore, sul limitare dell’alba, avvistammo di nuovo le
luci di fonda della Lombardo.
Il Generale, alla fine, poté tirare un profondo e prolungato so-
spiro di sollievo.
211
CINQUE
MARSALA, 1860
218
SEI
SALEMI, 1860
219
volta che lo lessi, perché aveva proprio ragione: erano «Lunghi,
pesanti, rugginosi e tetri».
Con quel gravo sulla spalla da una parte, il fagotto dall’altra, gli
stivaletti che iniziavano a far male, fu bello per poco il paesaggio,
poi iniziò a stufare pure quello.
Anche Umberto soffriva quella marcia, ma sembrava più stoico
e teneva la testa bassa sotto al suo gran cilindro marrone, che s’era
portato dietro come portafortuna.
Roth si sbracciava, sbadigliava a fauci spalancate, si stiracchia-
va per dimostrare a tutti non solo a parole d’esser contento all’aria
aperta, e a terra, soprattutto.
Seguivamo il colonnello Anfossi, che procedeva a cavallo, da-
vanti a noi. Era un uomo taciturno e nervoso, con un paio d’occhi
che guizzavano da una parte all’altra come quelli d’una lucertola.
Si voltava a osservare la colonna con uno sguardo poco rassicu-
rante, poi tornava a guardare avanti, al Generale che procedeva
in testa a tutti.
Garibaldi stava in sella alla sua cavalla bianca, col poncho sulle
spalle malgrado il caldo, poiché soffriva di reumatismi e non do-
veva rischiar di prender colpi d’aria. Aveva sempre uno sguardo
attento, pertinace, che scrutava l’orizzonte e si voltava a guardare
la colonna ogni tanto, che nel mentre s’era messa a cantare per
alleviare la fatica della marcia.
Si cantava L’addio del volontario del Bosi, perché s’era in vena
malinconica quel giorno, forse a causa del fatto che non avevamo
ancora incrociate truppe nemiche alle quali dar battaglia.
Infatti non un drappello, non una compagnia, non un solo ma-
nipolo o soldato avevamo incocciato in tutto il tragitto.
Per circa quaranta chilometri, fino alla città di Salemi, non in-
contrammo nessuno: era come se l’esercito borbonico si fosse di-
menticato che noi eravamo in Sicilia.
Dopo quella lunga marcia, assicuratosi che i borbonici non era-
no alle nostre calcagna, Garibaldi fermò la colonna e ci concesse
una pausa.
Fu un sollievo potersi buttare a corpo morto su quello scisto
fulvo, tra le lupinelle e i tarassachi.
220
Mi adagiai a terra, sospirando di sollievo, perché la spalla mi
doleva, le gambe, i piedi, tutte le ossa scricchiolavano.
«Non sei abituato alle marce, eh, Little boy?» disse Roth, sorri-
dendo e io potetti solo offrirgli a mia volta un sorriso in risposta.
Garibaldi, dopo aver legata la cavallina Marsala, si trovò un
posto a sedere sotto a un ulivo, che faceva una bella ombra ma-
culata e lì si mise tranquillo a sonnecchiare, ordinando al Bandi
di preparargli il caffè per il suo risveglio. Se c’era una cosa di cui
il generale non poteva fare a meno, oltre al sigaro Toscano, era il
caffè: gliel’ho visto ordinare pure in battaglia, in una pausa tra una
carica e un’altra.
Ce ne stavamo a bivacco in campagna, col sole che ci abbacina-
va la vista e ci scappò pure un rancio, ch’avevamo la fame dei lupi.
«Dì un poco, Turati, com’è Napoli?» mi chiese il Cei, mentre
trangugiava dalla sua gavetta.
«È bella, Giovanni, è molto bella».
«In che senso?»
«Come in che senso?»
«Dico, perché è bella? Cos’ha di particolare? Cosa perderà re
Franceschiello, se ci arriviamo a prenderla?»
Esitai un instante, dubbioso, anche perché m’aveva dato fastidio
quel nomignolo, poi continuai: «Beh, è difficile a dirsi, così, su due
piedi. Forse perderebbe l’odore della stoppa e del muschio, quando
si fa il presepe a Natale e la bella sensazione di stringersi il cappotto
addosso nel freddo quando si vanno a comprare i pastori a San
Gregorio Armeno a dicembre. Perderebbe la frescura delle chiese
e il silenzio abissale che viene da quegli ori e quei marmi barocchi,
perderebbe la visione furtiva d’una striscia azzurra tra i palazzi,
magari solcata dalle vele d’un bastimento, che sembra quasi che la
nave transiti da un palazzo per scomparire nell’altro. Perderebbe i
rumori di piazza San Gaetano, della gente che vende, dei passanti,
di quelli che pregano a denti stretti con gli occhi rivolti alla facciata
della chiesa di San Paolo. Perderebbe l’odore degli alberi che si leva
col vento dall’Orto Botanico in primavera, che t’arriva addosso
come una placida frescura. Perderebbe le passeggiate a Port’Alba,
pei banchi dei libri, il sapore dei buoni impiastri nelle osterie, per-
221
derebbe i cieli tetri e uggiosi dei giorni della merla, che son più belli
ancora del sole a Napoli. Perderebbe le strade fatiscenti, i ruderi, i
resti dei vecchi mondi e tutti i fantasmi invisibili e meravigliosi che
ti fanno dimenticare la miseria, l’inciviltà degli uomini e il colera».
«Questo è quello che perderesti tu, Turati» intervenne Bonardi,
con un sorriso gentile in volto.
«Beh, forse sì. Forse è quello che perderei io. Ma se il re dovesse
perdere solo una parte di questo… povero lui. Non so che dire».
«Allora è bella davvero Napoli» concluse il Cei, questa volta
guardando Umberto, che mi stava accanto, per avere una confer-
ma. Umberto annuì e mi guardò fisso, e potei vedergli la nostalgia
che gli verminava in volto.
«La vedremo, questa Napoli» aggiunse ancora Cei, mettendosi
disteso con una mano sugli occhi, per pararsi dal sole. Quelle paro-
le mi fecero rabbrividire.
Dopo meno di mezz’ora, la truppa parve averne avuto abba-
stanza di riposo e iniziò a far di nuovo cagnara, attaccando ora a
cantare La bella Gigogin.
Garibaldi, che aveva preso sonno, si destò udendo quel baccano.
«Bandi, il caffè, per piacere» ordinò con tono infastidito e ne sorbì
una tazza senza zucchero.
«Benone, se questi giovanotti hanno tanta energia da non aver
necessità di riposare, che siano pronti in cinque minuti» ordinò il
Generale, riappropriandosi del sigaro, e sgranchendosi al quanto
pei dolori alle ossa, innervosito.
Ci rimettemmo in marcia con mio rammarico e arrivammo ad
avvistare la città di Salemi soltanto al tramonto, dopo qualche altra
ora di marcia.
«Per stanotte ci accamperemo qui» ordinò il Generale. «Entre-
remo in città domattina, da trionfatori, e non di notte da banditi.
Riposatevi, datevi una strigliata e pronti alla sveglia».
La città di Salemi era costituita da una congerie di case ocra
arroccate sul Monte delle Rose, tra il fiume Mazzaro e il fiume
Grande, cinta da verdissimi filari di vite e agrumeti.
Da dove c’eravamo accampati, su un poggetto prospiciente
l’abitato, si scorgeva la sagoma del castello, una grigia roccaforte
222
dagli alti torrioni del tempo dell’imperatore Federico. Le case era-
no ammassate le une sulle altre e parevano una serie di conchiglie
abbarbicate allo scoglio, come le ostriche del Verga.
Garibaldi ordinò che s’accendessero dei poderosi falò. Era un’u-
sanza che aveva appreso in Sudamerica: serviva ad avvertire la
popolazione che stavamo arrivando e che eravamo in tanti.
Poco a poco vedemmo le luci dell’abitato accendersi, mentre il
cielo si tingeva di porpora e cadeva un’altra notte.
I fuochi immensi e alti illuminavano a giorno la piana e con-
fondevano il riverbero delle stelle nella volta, che prima fu color
cobalto, poi si stinse nella pece argentea del buio.
Devo ammettere che starmene davanti al fuoco, in campagna,
accampato alla bell’e meglio, col fagotto per cuscino, e i compagni
intorno, non era poi malaccio.
In tutto quel tempo io avevo avuto in mente tante cose, troppe
cose mischiate. Imparai a modulare la paura, il desiderio di ven-
detta, l’ansia e il raccapriccio che sempre ho avuto di trovarmi
in mezzo agli altri. C’era una cosa che quelli avevano e che era
la miglior dote: erano spontanei. Così come all’inizio ci avevano
guardato in cagnesco, perché erano diffidenti, ora sarebbero stati
pronti a difenderci a oltranza. Eravamo dei loro e ci volevano con
loro, perché pensavano che avessimo più fegato di tutti, noi che
combattevamo contro il nostro stesso re. Eravamo un’ottantina,
provenienti dalle regioni del Regno delle Due Sicilie, e a me e a
Umberto, specialmente, che non ne sapevamo niente davvero di
guerra e di rivoluzione, ci presero parecchio a ben volere.
Il Bonardi c’insegnò a far pratica di carico coll’anticaglia di fu-
cile che imbracciavamo e a sistemare il fagotto in modo che non
ci desse troppo impiccio, il Cei c’insegnò le canzoni e i motti, Can-
diani recitò per noi il Porta e ce lo tradusse. Era questo il nostro
gruppo, a cui più avanti s’unì Nodari, e, anche se facevamo parte
di Compagnie diverse, ci ritrovammo sempre a leccarci le ferite
insieme dopo ogni azione.
Ci raccontarono le imprese del ’59, quando erano volontari tra
i Cacciatori delle Alpi. Bonardi rievocò la battaglia di Treponti,
nel bresciano, quando attaccarono l’armata del barone von Urban
223
sul naviglio per Castenedolo, facendo retrocedere gli Austriaci e
conquistando la città.
Eravamo accanto a quel fuoco rinfrancante, con le stelle che ci
brillavano sulla testa e le luci delle case di Salemi che si spegnevano
poco a poco mentre la notte incalzava, e ci sentivamo felici d’esse-
re lì e non in un altro posto.
Sì, mi sentivo benone anche io. Sebbene stessi tra quei ragazzi a
far una guerra che non m’importava e che, anzi, m’avrebbe potuto
nuocere parecchio, io ero sereno e appagato. Avevo il mio nemico
d’ammazzare, che lì, nella fascinazione di quei racconti, assumeva
i tratti eroici d’una mitica nemesi, un compagno nel destino a cui
dar battaglia, un nemico vero, la cui sconfitta non sarebbe stata
solo il termine d’una vendetta, ma l’estremo atto di compimento
del fato.
Le stelle, così intense nel loro fuoco millenario, mi riportavano
la conferma delle mie aspirazioni: ero lì a compiere il mio destino,
il nostro destino, quello mio e quello di Falcone.
Non bisogna mai scordare che non avevo compiuto ancora
vent’anni e che qualsiasi cosa m’infervorasse all’epoca, io le davo
credito e agio. Potermi beare in un sogno, che mi togliesse la paura
di non essere a casa e al sicuro e che mi desse ragione d’essere nel
giusto, era più che benvenuto.
Tra tutti quei compagni, il più singolare era John Roth, natu-
ralmente. Roth era davvero un tipo d’uomo che non si fabbrica
più a questo mondo. Era esuberante in certi momenti e taciturno
in altri. Sapeva ridere a un tratto e rabbuiarsi spaventosamente in
un altro.
Quella notte vicino a Salemi, osservando il fuoco alto del falò,
divenne malinconico e disse: «Sapete, nel deserto non si accendono
mai fuochi così imponenti nel campo. I fuochi laggiù sono sempre
piccoli, discreti, fatti di sterpi o di sterco essiccato di bisonte. E il
campo si fa sempre lontano dal fuoco, al buio».
«Perché?» domandai.
«Perché in tutta quella oscurità i nemici attendono solo un tuo
segno di vita per venire a farti la pelle».
«Sei stato molto tempo in America?»
224
«Abbastanza per portamela dentro» rispose e si vedeva che ave-
va nostalgia, perché aveva lo sguardo lontano e fisso nel fuoco.
Poi tolse dalla tasca il sacchetto col tabacco e si rollò una sigaretta
sottile e l’accese con uno sterpo infuocato.
«Laggiù è tanto buio quanto è grande questo cielo» disse anco-
ra, alzando lo sguardo. «Buio e infinito».
225
SETTE
LONE STAR STATE, 1858
234
Austin era una città giovane, sorta all’epoca delle guerre d’indi-
pendenza. Una città piena di polvere, come lo sono tutte le città in
quel posto dove vince sempre il vento, perché non c’è niente che
possa arginarlo.
Io ero arrivato da poco, dopo aver bighellonato da una cittadina
a un’altra, cercando di guadagnarmi qualche soldo onesto.
Feci lo sguattero in un saloon per qualche tempo a San Antonio
e il ragazzo di bottega per un barbiere di Georgetown. Mestieri che
m’avevano fatto guadagnare qualche dollaro, ma niente di più.
Non che io avessi grandi ambizioni, s’intende, ma ci vogliono pure
le soddisfazioni nella vita.
Così mi andai ad arruolare a un banco dei Texas Ranger, dove
c’era un bel manifesto colorato, con la faccia seria, seria, di Sam
Houston stampata sopra, che prometteva una buona paga, tre pa-
sti al giorno e la soddisfazione di difendere il paese.
La Texas Ranger Division fu costituita come forza di polizia nel
1835. Nacque principalmente con lo scopo di difendere le fron-
tiere e i coloni dagli attacchi degli indiani, ma seppero farsi onore
durante la Guerra d’Indipendenza contro il Messico e nella Guerra
messicano-statunitense.
Sam Houston, il cui faccione serioso mi fissava da quel cartello-
ne di reclutamento, era stato un eroe della Guerra d’Indipenden-
za e primo Presidente della Repubblica del Texas, dopo la vittoria
contro l’esercito del generale Sant’Anna, nel ’36. Era un simbolo,
un’ideale, quell’uomo, e tutti i texani che lo conoscevano e che
avevano voglia d’avventura, andavano a scarabocchiare il proprio
nome su quel foglio d’arruolamento.
Davanti al banchetto fui squadrato ben bene dal sergente ad-
detto, che indossava un ampio Boss of the Plains, il cappello tipico
dei cowboy, ovvero i mandriani, lo stesso cappello che porto io
adesso.
Era vestito non con una giubba grigia, senza cravatta, senza
alamari. Portava un paio di baffoni folti e fulvi, che gli cadevano
all’ingiù lungo i lati della bocca e aveva la faccia bruciata, incarta-
pecorita dal sole.
Mi fissò per un poco e io mi sentii a disagio come quando capi-
235
tai davanti a quel tizio in tuba, al mio arrivo sulla banchina al porto
di New York.
“Come ti chiami?”
“John Roth”.
“Da dove vieni?”
“Vengo da Georgetown”.
“Sei di Georgetown?”
“Nossignore”.
“E di dove sei allora?”
“Di New York”.
“Così sei uno yankee”.
“Niente affatto, signore”.
“E cosa diavolo sei, allora?”
“Sono italiano, signore”.
“Italiano? Che cosa significa che sei italiano?”
“Che sono nato in Italia, signore, dall’altra parte dell’Atlantico”.
“Guarda tu… e quanti anni avresti, Roth l’italiano?”
“Ho compiuto i diciannove, signore”.
“Bene, bene. E vorresti arruolarti nei Texas Ranger, dunque.
Cosa ti fa pensare di esserne all’altezza?”
Guardai un attimo il volto dai folti favoriti di Houston e poi
risposi: “Niente, signore. Penso soltanto di poter fare il mio dovere,
perché sono un lavoratore. Non sono una cima, non sono istruito.
So rispettare il prossimo e stare al mio posto. Questo è tutto”.
Il reclutatore sorrise. “Beh, quand’è così, vediamo un po’ che sai
fare, firma o fa’ un segno qualunque su questo registro”.
Feci il mio segno qualunque, perché non so né leggere né scrivere.
Così fui membro ufficiale della Texas Ranger Division di Au-
stin. Fummo accasermati per qualche tempo in città e lì appresi un
po’ di cose prima d’essere spedito al fronte delle praterie.
Feci un addestramento intensivo: imparai a tirar con le armi,
anche se sapevo già farlo, perché al paese andavo a caccia e a New
York m’avevano insegnato per strada una o due cose… Imparai a
cavalcare, cosa che avevo fatto una sola volta da ragazzino e m’al-
lenai a cavalcare e a sparare contemporaneamente, perché era ne-
cessario, soprattutto in quella guerra che si combatteva contro gli
236
indiani, che era guerra di cavalieri. Appresi, insomma, tutte quelle
cose che gli addestratori furono capaci di cacciarmi a mente, ne-
cessarie a un buon soldato di frontiera, cose che i Texas Ranger
avevano imparato in più di trent’anni d’esperienze.
Io non avevo paura d’andare a combattere. Non m’ha mai fatto
effetto la battaglia, e non lo dico per far lo spaccone. Sul campo ho
sempre fatto il mio dovere e te lo puoi far raccontare dagli altri.
Tuttavia, a quel tempo non avevo la minima idea di chi mi sarei
trovato davanti.
Io non sapevo neanche che cosa fosse un indiano. Ne avevo vi-
sto qualcuno, bazzicando da una città a un’altra, ma non ci avevo
dato gran peso. Sembrava gente alla buona, più bizzarra dei bian-
chi e dei negri, con le penne tra i capelli, le trecce e i mocassini.
Gente che camminava sempre in sordina, con la testa bassa e lo
sguardo vuoto. Niente di pericoloso, insomma.
Meno ne sapevo, poi, di Comanche. In caserma appresi qualche
generalità. Non erano una nazione coesa, come i Lakota, ad esem-
pio, erano divisi in piccole tribù, che spesso si facevano guerra
tra loro. Vivevano principalmente della caccia al bisonte, che per
molto tempo è stato abbondante in quei territori. Spesso attacca-
vano i coloni, come ho già detto, e saccheggiavano le fattorie dopo
aver ammazzato tutti gli abitanti. Sam Houston, al tempo della
sua presidenza, tentò di stipulare un trattato di pace col popolo
dei Comanche, ma l’accordo fallì quando il Texas entrò a far parte
degli Stati Uniti, perché il parlamento texano rifiutò di stabilire dei
confini ufficiali tra lo Stato e la Comancheria.
Il compito di noi Ranger all’epoca era quello di tener a bada le
tribù guerriere e proteggere i coloni dagli assalti.
Ci trasferirono ben presto in frontiera. Io passai sotto il coman-
do del colonnello Ford, come ho già detto.
Il colonnello John Salmon “Rip” Ford era originario del South
Carolina e aveva già superato i quarant’anni all’epoca.
Era un uomo magro e spigoloso. Non portava baffi, né barba e
aveva un’ambia e pallida fronte, che gli cadeva come un mattone
sugli occhi piccoli e scuri. Aveva un paio d’orecchie a sventola che
lo rendevano un poco ridicolo.
237
Era un soldato della vecchia guardia e aveva già combattuto
molte battaglie quando lo conobbi e prestai servizio ai suoi ordini.
Aveva combattuto nella Guerra messicano-statunitense, arruolato
come luogotenente tra i Texas Mounted Rifles del mitico capitano
John Coffee Hays. Durante la guerra gli fu affibbiato il soprannome
“Rip” perché quando redigeva la lista delle vittime della sua com-
pagnia, mormorava dopo ogni nome “Rest in Peace” riposi in pace.
Alla fine degli anni ’40 era stato esploratore dei territori selvag-
gi tra San Antonio ed El Paso. Tra il 1850 e il ’51, aveva combat-
tuto contro i Comanche sul Rio Grande ed era stato poi colonnello
sotto Jose Carbajal, nella Guerra dei Mercanti.
Insomma, era un militare di quelli duri, che stanno bene solo in
battaglia, come il nostro Generale.
Tra l’inverno del 1856 e quello del ’57, partecipai a molte incur-
sioni in territorio Comanche.
Di solito succedeva che l’incontravamo in territorio aperto, av-
vistandoli sulle colline o in prateria e l’inseguivamo o loro insegui-
vano noi.
Si sparava da cavallo, in corsa, senza fermarsi a riflettere e do-
vevi caricare in fretta. Ti arrivavano addosso urlando come furie,
brandendo il tomahawk, l’ascia da battaglia, con gli occhi iniettati
di sangue, le penne che gli garrivano sulla testa e le facce colorate
di nero. Erano scuri di pelle, atletici, spesso vestiti solo del perizo-
ma. Era uno spettacolo vederli cavalcare a briglia sciolta, sgolan-
dosi nei gridi di battaglia, con la voglia di scannarti impressa in
ogni centimetro della loro pelle. Uno spettacolo spaventoso.
La mia ragazza, qui nella fondina, mi ha salvato parecchie volte
il posteriore. Li caricavamo e sparavamo all’impazzata.
A volte capitava che trovassimo i villaggi e allora si faceva quel-
lo che loro avevano fatto ai coloni. Erano sempre gruppi piccoli,
distanziati, ma bellicosi e tenaci come una malattia del sangue.
Non s’arrendevano mai, non gettavano mai le armi, ma continua-
vano a venirti addosso, pure con le budella da fuori. C’era da am-
mirarli, non c’è che dire. Se avessimo una sola compagnia di guer-
rieri Comanche a nostra disposizione, al primo scontro i borbonici
scapperebbero con la coda tra le gambe fino a Napoli, te lo dico io.
238
Non ho mai visto dei guerrieri come quelli e forse mai più ne ve-
drò. I Ranger li chiamavano selvaggi e lo erano, ma non nel senso
che intendevano loro. Io credo che quelli fossero gli uomini liberi
da tutto questo – e si tirò la camicia, a indicare i vestiti – come
dovrebbero essere tutti gli uomini: selvaggi. Noi ci mettiamo in tiro
pure quando indossiamo le uniformi da soldati. Ci copriamo, per
nasconderci, per sembrare diversi. Io non ne so di filosofia, non ne
so di molte cose, in verità, ma una cosa l’ho capita bene: gli uomini
sono bestie feroci, sempre e senza eccezioni. Selvaggi, come quegli
indiani là.
Io lo so, lo so bene, perché l’ho visto. So di che cosa sono capaci
gli esseri umani. Lo so, perché so di che cosa sono capace io stesso.
Ti potrei raccontare molte imprese di quelle a cui partecipai, ma
non ne varrebbe la pena. Se iniziassi a raccontar tutto andremmo
alle lunghe. Tuttavia, voglio raccontarti dell’ultima spedizione a
cui partecipai come membro effettivo dei Texas Ranger, prima di
lasciare per sempre il corpo. Questa sì che ne vale la pena. Almeno
ti darà misura di quello che ho detto prima, che siamo dei selvaggi.
Già dal mese di gennaio del 1858, c’eravamo inoltrati oltre i
confini del Texas. Seguivamo il corso del Canadian, procedendo in
direzione delle Antelope Hills. Le Antelope sono una serie di basse
colline calcaree, che s’innalzano a rilievo laddove il corso fiume
Canadian piega in una stretta curva a gomito, a poche miglia dal
confine tra lo Stato del Texas e la nazione indiana dell’Oklahoma.
Il Governo aveva ordinato al colonnello Ford, capo supremo dei
Ranger e dei nostri alleati indiani Tonkawa, di sferrare un colpo
risolutivo ai Comanche nel cuore della Comancheria.
Per tutto l’inverno e buona parte della primavera c’eravamo
scontrati con gli indiani, Comanche, Kiowa, Apache.
L’Oklahoma era un territorio ben lontano dall’essere uno Stato:
per lungo tempo, almeno a partire dagli anni Venti di questo se-
colo, v’erano affluite le popolazioni indiane, insediandosi in quella
regione chiamata le Grandi Pianure.
Nel mese di maggio superammo il Canadian e iniziammo a risa-
lire il corso del fiume Little Robe.
È un piccolo immissario, il Little Robe. Procede poco tortuo-
239
samente attraversando le praterie, inoltrandosi per qualche tratto
boscoso e poi riapparendo laddove vecchie piene hanno lasciato
ampie rive sabbiose e ospitali, dove spesso gli indiani facevano
campo, essendo in pianura e in prossimità dell’acqua.
Laggiù, accampati lungo il corso del fiume, c’era la tribù che faceva
capo al vecchio Camicia di Ferro. “Iron Jacket”, come lo chiamavano
gli americani, era un capo già anziano all’epoca, forse ultrasettantenne.
Quando scendeva in battaglia, Camicia di Ferro indossava una
vecchia armatura del tempo dei Conquistadores, ed aveva la fama
d’essere invulnerabile a frecce e colpi d’armi da fuoco, grazie a
quella protezione.
Trovammo il villaggio di Camicia di Ferro all’alba del 12 maggio
e proprio dove avevamo pensato di trovarlo, sulla riva del fiume.
Era un vasto accampamento, esteso lungo tutto l’area del gran-
de ciglione sabbioso. C’erano molti tepee, le tipiche tende a cono
degli indiani, e calcolammo che dovessero viverci almeno quattro-
cento persone in quel campo.
I Tonkawa trepidavano di poter partire all’attacco e il colonnel-
lo Ford dovette ordinare più volte di far silenzio, perché la sorpre-
sa non fallisse. Erano un popolo bellicoso, i Tonkawa, gente feroce,
a cui piaceva far la guerra. Dicevano di essere discesi tutti da un
grande lupo preistorico. Selvaggi, insomma.
Eravamo schierati in posizione d’attacco e tenevamo i cavalli
per le redini, in quella mattina serena, chiara, profumata.
A un tratto vedemmo un uomo sul cavallo, un Comanche. Il
guerriero ci avvistò e subito corse verso il villaggio.
“Dannazione!” protestò Rip Ford e comandò l’attacco. Allora fu
il putiferio, veramente.
Ci abbattemmo sul villaggio sparando e infilzando alla cieca con
le sciabole chiunque ci capitasse a tiro. Dalle tende ancora calde
della notte uscivano le donne mezze svestite, urlando di terrore,
coi marmocchi al collo che strillavano più di loro e noi ad infilzare
a sparare a più non posso.
I guerrieri Comanche montarono sui cavalli e contrattaccarono,
ma senza effetto, perché i Tonkawa erano entrati in frenesia e sta-
vano col sangue agli occhi.
240
Io passavo per le tende brandendo la sciabola, perché ero troppo
teso per fermarmi un attimo a caricare la carabina che avevo in
dotazione o la mia Colt. Abbassavo la lama ad altezza uomo e quel
che mozzavo mi tornava addosso con fiotti caldi di sangue scuro.
Avevo sangue sulle braccia, sulle mani, schizzi rossi pure in vol-
to e sulla camicia.
I Ranger massacravano qualsiasi cosa si muovesse e non avesse
l’aria d’esser americana.
C’era fumo, confusione, scoppi e grida dappertutto. An-
cora una volta mi trovai all’inferno: doveva per forza essere
l’inferno quello. Poi, però, mentre massacravo senza pietà le
mie vittime, coi denti serrati e il fiato in gola, mi resi conto che
no, quello non era l’inferno. E questa cosa mi fece sbarrare gli
occhi.
Eravamo uomini, non diavoli. Eravamo uomini che ammaz-
zano altri uomini. L’inferno non c’entrava. L’inferno non c’entra
mai. Solo gli uomini sono capaci di far quelle cose, non i demoni.
Solo gli uomini. I selvaggi.
I tepee bruciavano, un fumo denso e nerissimo d’alzava dal
campo, in tutte le direzioni. C’erano cadaveri dappertutto, di don-
ne, uomini, bambini, decapitati, mutilati, freddati dai revolver e
delle carabine, trafitti dalle frecce e puntati in terra come farfalle
in un insettario.
Sparammo e ammazzammo per un tempo che non ricorderò
mai finché campo e che se dovessi calcolare ora, a occhio e cro-
ce direi sia stato un secolo. Poi udimmo la tromba che metteva
fine all’attacco e cominciò il dopo, perché, peggio della mattanza, a
questo mondo è la festa.
Avevamo vinto, malauguratamente avevamo vinto. Potevamo
festeggiare, adesso, far quel che ci pareva con gli sconfitti. E lo
facemmo, oh sì se lo facemmo. Guai ai vinti, in questo mondo. Guai
ai vinti.
I Ranger e i Tonkawa iniziarono a mutilare i morti. Mani e piedi
erano appesi come trofei, come macabri festoni ai colli dei cavalli e
alle selle. Il manto dei cavalli grondava sangue e ad ogni scossone
quelle dita inerti ballonzolavano orribilmente.
241
Le teste dei morti erano state infilzate sulle picche e portare in
giro come idoli sanguinolenti. Alcuni guerrieri Tonkawa s’erano
fatti collane coi falli dei nemici.
C’era sangue dappertutto. Furono uccise più di settanta persone
quel giorno. Camicia di Ferro, a onta della sua corazza invincibile,
fu freddato dai fucili per la caccia al bisonte dei Tonkawa. La sua
corazza venne fatta a prezzi e i frammenti conservati dai miei col-
leghi come souvenir.
Il vecchio capo venne macellato. I Tonkawa, che credevano
nella facoltà d’assorbire forza dalle carni dei nemici, divorarono
crude alcune parti della sua carcassa.
Io non partecipai alle mutilazioni, almeno di questo posso rite-
nermi innocente. Ero un soldato, non un macellaio.
Ero infuriato, mi doleva ogni fibra del corpo ed ero frastornato
per il puzzo di sangue e fumo e per lo spettacolo raccapricciante
dei selvaggi che banchettavano sulle carcasse dei vinti.
Andai in riva al fiume e buttai la testa nell’acqua, per rinfre-
scarmi le idee e darmi una ripulita. Dietro di me vedevo il fumo
bigio del campo che bruciava. Fu allora che notai dietro a un ce-
spuglio un movimento e sentii ridacchiare. M’avvicinai e c’erano
tre dei miei che trafficavano con una ragazzina. Una ragazzina
Comanche.
Doveva avere poco più di tredici anni. Aveva certi occhi terro-
rizzati che ho visti solo addosso alle bestie quando non hanno più
la forza d’urlare e ti supplicano con lo sguardo di non spedirli al
Creatore.
“Che state facendo?”
“A te che sembra, Roth?”
“Ma è una ragazzina…”
“E con questo? È una selvaggia, a chi vuoi che importi”.
Li fissai atterrito e fissai lei, che mi guardava coi suoi occhi av-
viliti e iniettati di sangue per quel lungo pianto che s’era fatta e che
ora si faceva in silenzio, che non era servito proprio a nulla. Mi
guardava e sperava: sperava che io la salvassi.
“Roth, o ti unisci a noi o levati dai piedi”.
Abbassai lo sguardo.
242
Quando venne il mio turno la ragazzina aveva già perso la ver-
ginità. La violentai e mentre la violentavo le tenevo le palle degli
occhi piantate in faccia: mi guardava, mi guardava con gli occhi
sbarrati e pieni di orrore.
Alla fine uno dei miei colleghi le sparò un colpo in testa e la fece
rotolare giù nella corrente limpida del Little Robe.
Come vedi, gli esseri umani sono tutti quanti dei selvaggi. Non
cerco giustificazioni a quello che ho fatto, perché io l’ho fatto e
basta e l’ho fatto perché ero scoraggiato e perché dovevo togliermi
dagli occhi l’immagine di quei corpi squartati.
Siamo tutti bestie, non ce n’è uno che si salva. Quando arriva
il momento, quando c’è da venire allo scoperto, il selvaggio esce.
Sempre. Lo puoi nascondere col tuo abito migliore, gli puoi lavar la
faccia col sapone e l’anima con la filosofia, ma il selvaggio rimane
là, pronto a saltar fuori. Magari verrà un giorno in cui l’avremo
nascosto così bene da credere che non esista più. Quello sarà il
giorno più pericoloso, perché, una volta fuori, non avrà più nes-
suna pietà.
Dopo il massacro del fiume Little Robe, io lasciai i Texas Ranger
e con le ultime paghe comperai il biglietto del viaggio per tornare
in Italia.
Se mi pento di quel che ho fatto? Eh, è una parola. Sinceramente
non so neanche cosa significhi pentirsi o avere rimorsi. È come se
tutto quello che dovrebbe penare dentro di me si fosse prosciuga-
to. Non so come si faccia a pentirsi… L’unica cosa certa che posso
dirti è che ogni notte io sogno quella ragazzina. Sta lì, a fissarmi coi
suoi occhi sbarrati e non parla. Mi aspetta, lo so bene. Sta nascosta
nei miei incubi e aspetta. Alla fine, quando arriverà il mio momen-
to, mi porterà con sé, laggiù, nel deserto, in quell’inferno scuro in
cui s’è fatta donna».
243
OTTO
LA DITTATURA, 1860
248
NOVE
CALATAFIMI, 1860
256
DIECI
ALCAMO, 1860
264
UNDICI
PARTINICO, 1860
267
DODICI
PALERMO, 1860
270
TREDICI
VENDETTA, 1860
275
QUATTORDICI
FAGIOLI ALLA MARUZZARA, 1860
279
QUINDICI
INTERMEZZO, 1889
281
SEDICI
MILAZZO, 1860
285
DICIASSETTE
INTERMEZZO, 1889
«Ah, sì…» mormorò e chiuse gli occhi. Per un attimo gli venne in
mente qualche brutta scena di Partinico e se la levò davanti con un
gesto stizzito della mano.
Restò alla luce del lume forse una mezz’ora, poi concluse che ne
aveva avuta abbastanza di veglia e sperò di riaddormentarsi senza
sognare più niente.
Spense il lume e ritornò l’oscurità.
Si rincantucciò sotto alle coperte e si godette quel limbo, quel mez-
zo luogo tra la veglia, ch’era stata un inaspettato piacere, e il sonno,
che avrebbe potuto riportarlo al passato.
«Al passato» tornò a mormorare, sempre facendo eco a quel ri-
verbero nel silenzio.
Cosa poteva fare per riaddormentarsi in fretta e non sognar
niente? «Non c’è maggior piacere del buio. Buio, sempre più buio,
fino a vederci chiaro» commentò, un po’ svagato.
Si girò su un fianco. Il sonno non voleva venire. Sentì il tepore
benigno delle coperte, il piacere delle lenzuola fresche e allora si ras-
segnò: non aveva senso sperare di non sognare.
«Si sogna sempre, purtroppo» mormorò. «Speriamo almeno di
non sognare il mammut».
286
DICIOTTO
REGGIO CALABRIA, 1860
289
DICIANNOVE
BERESINA, 1812
298
VENTUNO
A CASA, 1860
302
PARTE TERZA
IL REGNO D’ITALIA
UNO
IL RE GALANTUOMO, 1861
309
DUE
LISSA, 1866
313
TRE
IL PROFESSOR TURATI, 1867
319
QUATTRO
IL MERCATO ROTTO E LUIGI SETTEMBRINI, 1867
325
CINQUE
L’ABBECEDARIO, 1867
341
«Beh, siete… estraneo. È la prima parola che mi viene in mente.
Sì, è come se non apparteneste a… tutto questo».
«Mmm… interessante. A voi piace questa cosa?»
«Beh, sì. Un poco sì, mi piace».
«Invece a me piace assai il vostro sguardo».
«E com’è il mio sguardo?»
«Triste».
«Ah, non è mica una bella cosa!»
«Invece sì».
«Davvero? E per quale motivo?»
«Perché solo coloro che hanno uno sguardo triste contemplano
la vera vita».
«Lo dicevo che siete bizzarro, maestro Stefano!»
«Voi siete infinitamente bella, Antonietta. Siete come queste sta-
tue, irrorate dall’acqua, come questi alberi che ci accarezzano con
le loro ombre, come quel mare placido laggiù in fondo».
«Smettetela, ve ne prego».
«Vi infastidisce?»
«No… è che…»
«Io vi amo Antonietta; è bene che voi lo sappiate. Amo voi e
amo Monica come una figlia. Non posso più negare questa verità
a me stesso».
Antonietta tacque e non mi volse lo sguardo ma fissò la figlia
che giocava al bordo di marmo della fontana. Poi deglutì, emozio-
nata, e tornò a guardarmi: «Voi siete caro, Stefano, e sono felice di
quanto abbiate a cuore Monica, ma io…»
«Ma voi non mi amate. Questo lo so, lo so bene e forse l’amore
non verrà mai. Voi amate Nando e io posso comprenderlo. Lui era
l’uomo fatto per voi, io sono solo… bizzarro. Avete ragione, An-
tonietta, viviamo costantemente nell’ingiustizia, ma non c’è altro.
Io dovevo dirvelo. Lo dovevo a me stesso. Spero di non avervi
turbata troppo».
«Sapete, una volta pure Nando mi portò qui in Villa, a passeg-
gio, quando eravamo fidanzati. Come eravamo giovani! Io avevo
diciassette anni, ero una ragazzina. Facemmo una bella passeggia-
ta, poi ci venne sete e Nando, poverino, comperò per sbaglio due
342
bicchieri d’acqua ’e mummole, quella che sa d’uova marce, e quasi
rimettevamo l’anima. Che risate che ci facemmo! Dopo andammo
in spiaggia e ci sedemmo sulla sabbia calda, a guardare il mare.
Non c’è giorno ch’io non tremi al pensiero della solitudine che
Nando ha lasciato al suo posto accanto a me. Non c’è giorno ch’io
non senta il gelo che s’è sostituito al calore dei suoi abbracci. Mi
manca, è come se fossi storpia adesso. Purtroppo nessun uomo più
riuscirà a colmare questo abisso. Io sono l’unica che ancor lo ama
su questa terra, Monica è troppo giovane per dolersi veramente e
non sarebbe neanche giusto. Non posso dimenticarlo, perché altri-
menti diventerebbe inesistente, e non posso permettere che l’uomo
che ho amato svanisca dai ricordi del mondo. Voi forse potreste
capirmi. Non posso, non…»
«E se io v’assicurassi la tranquillità necessaria a questa memo-
ria? Se io vi garantissi la pace che vi serve per poter piangere tutte
le lacrime che avete in sospeso? Allora accettereste?»
«Cosa dovrei accettare? Voi?»
«Accettereste di sposarmi, Antonietta?»
«Sposarvi?»
«Io vi amo, amo Monica e non ce la faccio più a vedervi nelle
vostre condizioni. Mi si spezza il cuore. Io ho i mezzi e le possibilità
per assicurare a Monica un futuro roseo e mi son stufato di non
poterli usare. Io vi chiedo la mano, anche se so che verrò sempre
dopo, per secondo. Vi amerò e vi rispetterò con tutto me stesso.
Ve lo giuro. Fatelo per Monica».
«Stefano, Dio mio, quanti pensieri mi mettete in testa. Siete sem-
pre così irruento voi?»
«Sì, credo di sì, d’esser sempre stato irruento. Non posso farci
nulla».
«Mi amate così tanto, dunque?»
«Assolutamente».
«E amate…»
«Monica. Sì, senza requie. Voglio poterla chiamare figlia, anche
se non sarà mai mia veramente. Ogni volta che la guardo sento
speranza, tanta, tanta speranza. La amo, infinitamente».
«Dovrei pensarci…»
343
«Non è vero, e voi lo sapete. Non c’è da pensarci» e mentre di-
cevo questo le presi la mano e gliela baciai e lei divenne paonazza.
«Ditemi di sì e io vi venererò per tutta la vita».
Antonietta mi guardò lungamente, con gli occhi pieni di dubbi
atroci, atterriti dalla valanga di emozioni. Non resistette e si com-
mosse.
«Sei proprio strano tu, Stefano, bizzarro» affermò, sorridendo
tra le lacrime. «Sarà bello scoprire quanto tu sia strano».
Ci baciammo, e io sentii per la prima volta il sapore caldo e de-
licato delle sue labbra.
A un tratto udimmo una risata sgraziata e fragorosa. Era Mo-
nica, che si scompisciava, e ci additava dal bordo della piscina. I
suoi occhi erano lucidi d’ilarità, il suo corpicino fremeva, le sue
gambe di cavallina scalpitavano, battendo la terra polverosa. Dio,
quant’era bella la mia bambina.
344
SETTE
A NOZZE, 1869
353
NOVE
IL CAPITANO DEGLI UOMINI DELLA MORTE, 1871
Castel dell’Ovo m’è sempre sembrato una specie di corallo, una ma-
drepora vecchia, consumata e scolorita dal sole su qualche spiaggia
bollente dei Mari del Sud. Non una fabbrica d’uomini, ma di bestie.
Lì, sospeso su quel lembo di terra, arroccato sul tufo ocra che gli
diede la pietra e il colore, troneggiante sulla costa e sul mare, col
suo segreto leggendario di fragilità ovulare sepolto nelle fonda-
menta e i fantasmi prigionieri di tutti quelli che trascorsero le loro
ultime ore in carcere a gemere tra la patelle, Castel dell’Ovo m’ha
sempre dato l’idea d’essere un resto, il relitto d’un mondo sottoma-
rino preadamitico, il superstite venuto a galla dal buio abisso che
doveva essere un tempo Napoli.
Una mattina di maggio m’ero spinto a passeggiare insolitamen-
te fino a via Caracciolo, dove i lavori per la costruzione del lungo-
mare procedevano di buona lena.
Ero fermo a contemplare il castello, così placido sull’acqua im-
mobile e traslucida, nell’aria dolce di maggio, impresso sul cielo
azzurro e limpido. Dietro la sagoma della rocca, si stagliava quella
del Vesuvio, col suo pennacchio di fumo annerito dell’eruzione
dell’anno precedente, che aveva danneggiato Massa di Somma e
San Sebastiano.
Stavo fermo sul mare calmo, domandandomi a quale colonia di
polipi infiniti fosse appartenuta quella conchiglia immensa, vuota
e giallognola, e mi sovvenne Lucullo, che aveva la villa proprio lì,
su quell’isolotto che un tempo si chiamava Megaride, e che ne suoi
pranzi sontuosi mangiava murene fritte e lamprede in umido. Lì,
dove scesero i primi uomini a portare la leggenda di Partenope, e
a iniziare quel lungo e oscuro sogno che sarebbe stata poi Napoli
e la sua storia.
357
Vestivo pesante quel giorno, con la giacca nera e i calzoni di
fustagno e la bombetta calata in testa, e sentivo un gran caldo. Mi
spogliai della giacca e restai in maniche di camicia e panciotto.
Mi misi a camminare verso la Villa, dando le spalle al castello,
ascoltando le onde rompersi quiete sui frangiflutti.
Non so cosa m’avesse spinto così lungi da casa. Forse la solitudine
e la voglia di sgranchirmi dal torpore della sedentarietà e delle lezioni.
Oramai a casa c’era ben poco da salvaguardare a parte i miei
alunni. Sentivo spesso l’odore di Monica nell’aria, che s’era impre-
gnato in tutte le cose che aveva toccato, ed erano tante, troppe, e
così dovevo uscire, per non soffocare tra i ricordi. I peggiori fanta-
smi non sono quelli che ti tirano i piedi nel letto, di notte, ma quelli
che t’abitano l’anima ogni volta che lo struggimento l’invoca.
Antonietta non aveva resistito a quell’odore. Aveva lasciato me
e la mia casa pochi mesi dopo la morte di Monica. Non so che
fine abbia fatto, né se sia ancora viva oggigiorno. Ci scambiammo
qualche lettera per un breve periodo, poi il silenzio. Sinceramente,
non mi presi mai troppo la briga di preoccuparmene.
Camminavo spesso, in compenso, ed ero pure dimagrito un
poco a forza di moto. Passeggiate brevi, s’intende, fino a Mercatel-
lo o a Toledo, ma quasi giornaliere e sempre solitarie.
Avevo ridotto le lezioni di molto, non ne avevo bisogno e non
volevo che m’impegnassero troppo tempo, perciò potevo dedicar-
mi alle mie peregrinazioni.
A malincuore, tuttavia, devo dire che l’odore di Monica non
m’abbandonava neanche in quelle passeggiate. Avevo consumato
ogni lacrima utile al suo capezzale, sulla sua bara, al suo funerale,
di notte, tra le coltri. M’ero prosciugato di lacrime, avevo scavato
e portato in superficie fin la più intima sorgente di dolore che si
fosse potuta reperire in me. Mi avanzava solo il deserto arido e
sterminato che tocca a tutti i sopravvissuti, a coloro che restano
confinati in quest’inferno benedetto d’illusioni che è la vita. Mi re-
sta ancora, quel deserto, in fondo. È quello che vivo ogni giorno, è
quello che vivrò poco prima di tirare le cuoia.
Qualche volta Monica mi veniva in sogno, ma mai come quella
volta, in cui l’avevo amata per l’unica e ultima volta in vita mia.
358
Ebbene sì, io l’amavo. Volevo che fosse mia figlia, la mia amante,
la mia sposa. Volevo amarla di tutti gli amori che questa vita ci
propina. Il vero amore somiglia tanto, anzi, è la morte. Un lun-
go, naufragio, un’estasi perpetua, una libertà perenne. Niente età,
niente sesso, nessuna condizione sociale, nessuna regola morale.
Solo un titanico smarrirsi.
Avrei mai potuto amare Monica nel mondo dei vivi? No, natu-
ralmente. Sarei stato un mostro, un pederasta, un corruttore agli
occhi dei vivi. Ma nel buio, nel nulla, nel mondo dei morti, dove
gli uomini si fondono finalmente nell’unico e ineluttabile fato che
li accomuna, beh lì saremo amanti per sempre, dove non ci ricono-
sceremo più. Sarà l’amore perpetuo, in cui saremo confusi nell’in-
coscienza con tutti coloro che avremo amato e odiato nella nostra
breve condanna alla luce. È quello l’amore, lì è il necessario e il
vero: dove non c’è speranza.
Mi fermai un attimo a riprender fiato, là dove potei guardare
la glauca testa d’aspide della collina di Posillipo flettersi nell’acqua
argentea e per caso mi venne voglia di buttare un occhio al quo-
tidiano che avevo acquistato la mattina, ma al quale non avevo
ancora badato e che se n’era stato piegato nella tasca della giacca
fino a quel momento.
Era Il Secolo, un quotidiano milanese che a quei tempi anda-
va per la maggiore anche a Napoli. Non dimenticherò mai quella
data, «Milano, 1873, sabbato 24 maggio» con quelle due «b» che mi
stridettero in bocca, né dimenticherò quella piegatura che tagliava
in due il volto d’un ritratto d’Alessandro Manzoni, stampato al
centro di quella prima pagina fitta. “Manzoni è morto”, pensai.
Mi tremarono un po’ le gambe, mentre fissavo quel volto av-
vizzito, affranto, severo, il volto canuto d’un vecchio afflitto dagli
anni, ch’aveva odorato di fiori bagnati, aveva avuto la chioma ful-
va e gli occhi verdi d’uno stagno facile al torbido. Com’era diver-
so da come lo ricordavo e tenevo nel cuore, quando m’illustrò le
tavole del Turpin, e io, per ringraziarlo, gli pisciai sulle ginocchia.
Quel vecchio mi guardava indifferente, distaccato, freddo, un
uomo immenso, incrudelito dagli anni. Guardai il mare, indiffe-
rente e limpido come quegli occhi stampati, quando a un tratto fui
359
urtato bruscamente da qualcuno e il giornale mi cadde di mano.
Lo raccolsi subito e notai che il passante s’era aggregato a un ca-
pannello affollato che rimirava qualcosa oltre i frangiflutti.
Rimisi il giornale in tasca e mi aggregai anch’io alla folla vocian-
te. Mi feci un po’ di spazio tra quei passanti pettegoli e arrivai alla
ringhiera oltre la quale c’era l’acqua e allora lo vidi pure io. Riverso
su un fianco, lungo almeno dieci metri, bigio antracite, con la lin-
gua penzoloni dalle grandi fauci divelte, la testa mastodontica e il
gigantesco fallo cianotico esploso dalla pressione, stava, incastrato
tra i frangiflutti, un colossale capodoglio.
L’animale doveva essere stato trascinato nell’acqua bassa dalle
onde, poi era stato spinto tra gli scogli e infine aveva cessato di
vivere soffocato dal suo stesso peso e dalla disidratazione. Alcuni
carabinieri tenevano a bada un gruppo di curiosi che erano scesi
addirittura in spiaggia, per avvicinarsi al grande cetaceo, mentre i
biologi della neonata Stazione Zoologica effettuavano misurazioni
e prendevano appunti sulla balena.
Vedevi questi omiciattoli bigi informicarsi attorno a quella cre-
atura immobile e poderosa, col piccolo occhio opaco rivolto al cielo
turchese, come a maledire chissà quale dio degli abissi per la beffa
crudele di aver inventato la superficie e gli uomini.
Fissai attentamente quell’animale, che per tanto tempo aveva
accompagnato la mia fantasia, mentre la gente faceva maliziose
battutacce sulla mole della virilità della balena e alcuni scugnizzi
scalcagnati smaniavano per avvicinarsi. In alto, sopra le nostre te-
ste, volteggiavano i gabbiani nervosi, impazienti di fiondarsi sul
lauto e inaspettato banchetto.
Poco a poco la folla si allontanò, dopo aver commentato un bel
pezzo quel singolare spettacolo e proprio mentre iniziava ad annu-
volarsi. Poi cominciò una pioggerellina fitta e calda, sospinta da
un leggero Scirocco e molti curiosi scapparono via, lasciandomi
da solo.
Non saprei dire per quanto tempo rimasi a fissare quell’animale
morto sulla battigia, livido e incrostato di sabbia, dileggiato dalla
meschinità degli uomini, offeso dalla gravità. Non saprei dire per
quanto tempo mi nutrii l’anima di quella morte più grande di me.
360
Restai tanto da tornare a casa fradicio, col giornale che avevo
in tasca inzuppato e disfatto e le avvisaglie spiacevoli d’un brutto
raffreddore.
Così tanto restai, a ripetermi in mente, con gli occhi che m’erano
tornati a lacrimare grazie alla benevolenza della pioggia, che quel
capodoglio, ovunque stesse nuotando, non sarebbe mai più andato
lontano.
361
EPILOGO, 1845
Stefano aprì gli occhi in quella sua camera nera di tenebre. Su-
dava, tremava tutto. Aveva sognato ancora una volta il mammut.
Si guardò intorno, smarrito, poi si rincantucciò sotto le coperte.
Valeva la pena chiamare la mamma? Non lo sapeva, ma era troppo
362
affaticato per farlo. Voleva prima calmarsi, sentiva che doveva
prima tranquillizzarsi dal terrore.
Quante altre volte sarebbe venuto il mammut a svegliarlo nel
cuore della notte? Quante volte ancora quel terrore l’avrebbe vio-
lentato nel mezzo del sonno profondo? Non poteva saperlo.
Fu così che non fu più il mammut a svegliarlo durante la notte,
ma il terrore al pensiero che potesse ritornare.
363
EPILOGO, 1909
365
LA STANZA DELLO SCRITTORE
ARTE
Non mi sono mai cimentato in una definizione dell’arte, forse per-
ché, prima d’ora, non ne ho mai avuto necessità. Suppongo che l’arte
sia ciò che il mio istinto non vuole definire. Credo, tuttavia, che il suo
potere sia nella catarsi, in quella purificazione dell’anima che essa
realizza. È dunque una liberazione, spogliarsi d’ogni remora morale.
Tuttavia, l’arte resta un principio umano, una sovrastruttura neces-
saria attraverso cui sperimentiamo la realtà. Forse è proprio questo il
punto: l’arte ci purifica dal nostro perenne bisogno di catarsi.
SCRITTURA
La scrittura, credo, sia lo smarrimento. Intuire, definire e in fine
perdere ogni frammento del reale nell’ordito della trama. Fin da
quando ho avuto consapevolezza di questo mestiere, ho creduto si
trattasse d’un opera d’oblio. Scrivere è raccontare, e il racconto è
tracotanza, è ybris. Ogni storia sospende l’avvento della morte, o
meglio, ce ne offre l’illusione. Così, ciò che intuiamo memoria è in
realtà la sua confusione. Scrivere è una contraddizione, un ossimo-
ro. Costruisce a tracciare la via della distruzione.
ROMANZO
Il romanzo, o meglio, il romanzo storico nella fattispecie, è una
seduta spiritica, un rito vudù. È il racconto di un fatto mai acca-
duto davvero. Non così, almeno.
Suppongo che sia proprio di questo genere evidenziare la traco-
tanza insita nella letteratura, quella ybris di cui parlavo prima, che
sussiste a ogni racconto, sin dai tempi in cui i trogloditi disegnava-
no i mammut sulle pareti delle caverne.
Il passato è un irrimediabile sconfitta dell’anima. Ogni cosa vi
finisce, vi rimane relegata. Non esiste più nulla di quello che è stato
369
e la memoria è una pallida illusione di recupero. Della rosa e di
Roma restano i nudi nomi.
Ecco, allora, che il romanzo storico si fa istitutore di tale illusio-
ne: la accresce e la rinsalda, la glorifica, creando una realtà alterna-
tiva a quella, ormai, irrecuperabile. Insomma: il romanzo storico
tradisce la natura, inventando concorrenze che inducano a credere
quella sia stata, un tempo, la realtà.
Ridurre il sacrilegio è impossibile: il narratore deve operare
nell’eresia, scatenarla, anzi. Raccontare è quell’atto contro natura
che ci consente di sperimentare la Natura stessa.
Il presente è rumore, diceva Vassalli, il passato è nulla. Il futuro
è inesistente. Tra rumore, nulla e inesistenza si sviscera la nostra
vita e il romanzo storico racconta questa verità.
370
HIT PARADE
DI 10 ROMANZI STORICI CHE CONSIGLI
374
AUTOBIOGRAFIA NARRATIVA
376
LA PRIMA IMMAGINE
Prologo, 1889 7
Prologo, 1909 11