Sei sulla pagina 1di 382

I libri sono la forma delle idee

Direzioni immaginarie
Racconti, romanzi e storie per dipingere la vita.

Homo Scrivens
Direttore di collana: Aldo Putignano
Editing: Andrea Corona
Illustrazioni interne: Mario Damiano
Copertina: Homo Scrivens

Autore: Stefano Cortese


Titolo: Manzoni è morto

I edizione: maggio 2020


I ristampa gennaio 2020

©2020 Homo Scrivens s.r.l.


via Santa Maria della Libera, 42
80127 Napoli

www.homoscrivens.it
pagina Facebook: Homo Scrivens

Riproduzione vietata ai sensi di legge


(art. 171 della legge 22 aprile del 1941, n. 633)

Stampa: Digital Team sas


Via dei Platani, 4, 61032 Fano (PU)
Stefano Cortese

Manzoni è morto
a Maria Bruna
Noi non siamo di questo secolo.
I Borboni sono vecchi:
e se volessero modellarsi
sulla forma delle novelle dinastie,
si renderebbero ridicoli.
Noi faremo come gli Asburgo.
Ci tradisca la sorte,
ma noi non ci tradiremo mai.
(FERDINANDO II DI BORBONE)

Questo non è un paese per vecchi. I giovani


Abbracciati uno all’altro, gli uccelli sugli alberi
(Generazioni morenti) intenti a cantare,
Cascate di salmoni, mari affollati di sgombri,
Carne, pesce, o uccelli, per tutta l’estate
Lodano ciò che è generato, che nasce e che muore.
Rapiti in quella musica sensuale, tutti trascurano
I monumenti dell’intelletto che non invecchia.
(WILLIAM BUTLER YEATS)

La felicità è nella coscienza; tenetevelo a mente.


(IPPOLITO NIEVO)

La storia è una monotona ripetizione;


gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi.
Le condizioni esteriori mutano.
(FEDERICO DE ROBERTO)

Venere stava lì, avvolta nel suo turbante


di vapori autunnali […]. Don Fabrizio sospirò.
Quando si sarebbe decisa a dagli un appuntamento
meno effimero, lontano dai torsoli e dal sangue,
nella propria regione di perenne certezza?
(GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA)
Pria di svegliarmi a viver sì breve ora
Secoli non dormii? – perché tremendo
Mi fia quel sonno ancor, se inter l’uom mora?
(CESARE BETTELONI)

Spegniti breve candela,


la vita non è che un’ombra che cammina,
un povero attore che si pavoneggia
e si dimena la sua ora sul palco
e dopo non s’ode più niente. Una favola
narrata da un idiota, piena di rumore e furia,
che non significa nulla.
(WILLIAM SHAKESPEARE)

«Tutto ciò cui giurammo fedeltà non esiste più».


«Sono tutti morti oppure se ne sono andati,
hanno rinunciato a tutto quello che giurammo di difendere.
Esisteva un mondo per il quale valeva la pena di vivere e di morire.
Quel mondo è morto. Quello nuovo non fa più per me…»
(SÁNDOR MÁRAI)

«È la cosa migliore che ci sia toccata» disse Frédéric.


«Già, forse è proprio così. È la cosa migliore
che ci sia toccata!» disse Deslauriers.
(GUSTAVE FLAUBERT)

Alza gli occhi, verso il mare, che s’è fatto celeste tenero.
Come il cielo, come il Vesuvio grande e indifferente.
Un piccolo sospiro di rimpianto.
Non osa chiedere: vorrebbe, però.
Ritrovarli tutti nell’abbraccio di Dio sarebbe bello.
Così, invece, che rimane? Niente. Il resto di niente.
(ENZO STRIANO)
PROLOGO, 1889

Re Ferdinando fissava qualcosa di vago e remoto. I grandi


occhi grigi cerchiati dai calamai, il volto pingue, pallido, esan-
gue; le labbra ceree, tra i riccioli ispidi e torti della barba folta.
Fissava taciturno la lunga strada percorsa in quell’altro mondo.
Lontano.
Il suo ritratto dominava lo stipite della porta dello studio da
trent’anni: un dipinto scolorito, inquadrato in una cornice dorata
a foglie d’acanto.
Gli occhi del re Borbone scrutavano con severità, ma spesso era-
no assenti. I giovani alunni si domandavano chi fosse quel deco-
rato paffuto che li guardava gravemente dall’alto e concludevano
dovesse trattarsi d’un parente del professore.
Quando sedeva alla scrivania, Stefano spesso lo osservava,
come a domandargli consiglio, ma quel volto triste e distante re-
stava a tacere nella tranquilla penombra dello stipite.
Il giovanotto aveva adocchiato l’orologio per la terza volta
in un solo quarto d’ora e Stefano se n’era sempre accorto. La
seconda volta avevano addirittura letto insieme l’orario. I loro
sguardi s’erano incontrati ed entrambi, in imbarazzo, erano
subito tornati ai libri. La lezione era quasi giunta al termine,
comunque.
«Beh, credo che continuando sarebbe ardimentoso cavare qual-
che ragno dal buco. È inutile accanirsi. Sono le otto, puoi anda-
re. Ma mi raccomando, la prossima volta, se questa ignoranza e
questo atteggiamento indolente dovessero persistere, mi vedrò
costretto a prendere seri provvedimenti. Ora fila via» ammonì
Stefano, osservando con severità il discepolo.
Il giovanotto sgattaiolò fuori, dopo aver raccattato libri e qua-
derni e aver emesso un gemito che voleva significare un saluto.
7
Stefano udì la porta chiudersi e rimase solo. Si massaggiò le
tempie, sbadigliando affaticato. Guardò dal balcone serrato: im-
perava la sera cobaltina.
S’alzò dalla scrivania e appiccò fuoco ai ceri d’un candeliere che
giaceva sul tavolinetto tra le poltrone. Il lume segoso versò il suo
pallido incanto nella penombra dello studio.
Aveva lavorato sodo per tutto il pomeriggio ed era stanco mor-
to. Uscì dallo studio e attraversò il corridoio fino alla cucina, reg-
gendo il candelabro con la destra. La sua domestica era alle prese
con la cena. Stefano provava un certo languore. Fu rinfrancato dal
profumo di cucinato ch’esalava dalla stanza.
«Fra quanto sarà pronto?» domandò.
«Pochi minuti, non vi preoccupate».
La casa taceva, immersa nella quiete crepuscolare del martedì.
Mentre procedeva verso la sala da pranzo, la luce delle candele
si riflesse nello specchio del corridoio. Stefano s’arrestò. Pallido,
appesantito, pelo grigio e scarmigliato: assomigliava al re. Tacque,
contemplando i segni dei suoi quarantanove anni. Considerò poi il
corridoio e gli parve di scorgere la sagoma di suo nonno. Sospirò e
raggiunse la sala da pranzo.
Padrone e serva cenarono insieme, in silenzio, come ogni sera.
La domestica aveva servito il pollo con le patate di contorno. L’uo-
mo aveva mangiato lentamente, cosa che non era solito fare e ave-
va bevuto mezzo bicchiere di bianco. Dopo mangiato, aiutò per
svago la domestica a sparecchiare. Mentre posavano i piatti nel
lavabo, la donna sorrise e disse: «Vi ricordate quando io e la bam-
bina si sparecchiava…», ma tacque subito.
Prima di andare a coricarsi, Stefano valutò l’idea di gustare un
sigaro e leggere qualcosa nello studio, ma desistette. Salutò la don-
na e si ritirò.
Entrando, posò la brocca dell’acqua che aveva preparato sul co-
modino e si spogliò immediatamente della pesante palandrana che
indossava.
Restò in camicia e calzoni, quindi si spogliò anche di quelli, ri-
manendo in mutande e canottiera. Restò per un po’ a fissare la
prominenza del suo addome, sperando di poter considerar lecito
8
credere che vi fosse ancora qualcosa di vitale al di sotto e indossò il
suo pigiama di seta. In camera aleggiava la luce tiepida d’un lume
a gas, che spandeva un bagliore plumbeo sulle pareti nude.
Stefano si mise a letto e smorzò il chiaro. Restò nell’oscurità e
osservò il nulla della tenebra, sperando di poter percepire nel si-
lenzio il mormorio delle cose perdute. S’addormentò dopo poco,
vagheggiando i rumori che risuonavano in casa di notte, quand’e-
ra giovane.

9
PROLOGO, 1909

L’ultima domenica di febbraio del 1909, un signore dall’aria di-


stinta percorreva via del Duomo, provenendo dal Corso Umberto I,
a Napoli.
Indossava un cappotto di lana Tasmania, grigio, con la martin-
gala, la bombetta scura, gli stivaletti di vernice e s’appoggiava a un
bastone in faggio col pomo d’avorio. Era un uomo anziano, ma
ancora avvenente, giovanile: portava candidi baffi impomatati.
L’uomo camminava lentamente, passando in rassegna i numeri
civici degli edifici che superava.
Era primo pomeriggio e la via era desolata e silenziosa: né un
passante, né voci distanti, né trambusti di sorta turbavano la quie-
te sinistra che aveva invaso la strada, unita al pallore d’una luce
greve e smorta, calata dal bigio cielo invernale.
L’uomo transitò davanti alla Cattedrale e si fermò un attimo
a contemplare la facciata del tempio, per riposarsi: era molto che
camminava. Estrasse dalla tasca del soprabito una tabacchiera in
madreperla e ne odorò rumorosamente una presa.

L’anziano signore dimorava in un palazzo sito nel moderno cor-


so Umberto I, sorto in seguito all’epidemia di colera del 1884 e
all’epoca ancora in fase di edificazione.
Il palazzo, uno stabile di tufo e piperno, grigio antracite e rosso
pompeiano, si trovava, e si trova tutt’oggi, di fronte al Palazzo
dell’Università Federico II, inaugurato soltanto un anno prima, nel
1908. Si respirava ancora tanta polvere a quei tempi al Rettifilo, la
polvere che si alzava dai cantieri che continuavano a sventrare gli
antichi quartieri del Porto, del Pendino, del Mercato e della Vicaria
e che si depositava dappertutto negli appartamenti, sempre vorti-
cando in certe nuvole pallide e fitte.
11
Il signore era vedovo da poco meno di due anni e viveva da
solo, assistito da una coppia di domestici devoti. Aveva due figli,
ma vivevano molto lontano. La solitudine a cui era stato condan-
nato dalla vedovanza aveva iniziato a riempirsi di pensieri e i pen-
sieri erano diventati incubi, che lo tenevano desto la notte.
Se ne stava tra le coltri, nella stanza buia, con gli occhi rivolti al
soffitto scuro, a rigirarsi come un innamorato, oppure s’alzava,
entrava nello studio e si sedeva alla scrivania, dove accendeva il
lume e rimaneva a fissare la superficie lisa di pelle verde del ta-
volo, sperando d’addormentarsi. I domestici lo trovavano la mat-
tina riverso sulla scrivania o gettato su un canapè nel salone, che
dormiva malamente capovolto in qualche posizione che acuiva i
suoi dolori reumatici. Il signore non sapeva che la conseguenza più
grave d’esser vedovi è l’insonnia.
Così, non potendo dormire e ripensando alle cose accadute,
l’anziano signore iniziò ad andare indietro con la memoria, a ricor-
dare fatti e persone a cui non ripensava da tempo. Se ne stava nel
letto, rincantucciato, e il buio del suo soffitto s’affollava di spettri.
Li vedeva passare e scomparire, ritornare e dileguarsi ancora. I
fantasmi di tutta una vita gli tenevano compagnia nelle lunghe e
silenziose notti insonni.
Ritornando sempre più indietro, fin dove la memoria avesse ret-
to, ricordò qualcosa che credeva d’aver dimenticato, ma che ora sta-
va lì, vivida e chiara davanti ai suoi occhi. Qualcosa che gli doleva.
Le notti si fecero ancora più agitate. Ripensava costantemente a
quella cosa, che era un debito, una promessa non mantenuta, e si
domandava se fosse troppo tardi o meno per rimediare.
Il signore aveva sempre sperato, in tutta la sua vita, di poter
essere considerato un gentiluomo.
Aveva servito il Paese e il re, l’altro re, aveva vissuto una vita ir-
reprensibile, proba, asservita agli ideali della Famiglia, della Chiesa
e della Patria; s’era inchinato anche davanti al nuovo re e al nuovo
blasone e aveva sempre mantenuto tutte le promesse fatte. Tranne
una, che adesso se lo mangiava vivo.
Quel tormento durò molte settimane, arrivando, alla fine, a es-
sere il solo pensiero che occupasse le sue lunghe giornate. Era un
12
supplizio, ma sapeva anche di speranza: era il desiderio segreto
d’un’ultima volta. Allora, stremato, si decise: doveva mantenere
fede al giuramento fatto.

L’anziano signore riprese la marcia. Superò la Chiesa di San


Giuseppe dei Ruffi, all’Anticaglia, e dopo poco si fermò davanti
a un palazzo dalla facciata color giallo napoletano. Lesse il civico:
numero 36. Era arrivato.
Attese un attimo prima di presentarsi. Nessuno l’attendeva in quel
pomeriggio di febbraio. Ripensò alla promessa, che stava lì in aggua-
to, come una tigre tra gli arbusti, ed ebbe il coraggio di rimuginarci
ancora un po’ sopra. Poi pensò ch’era stanco, a causa del lungo tra-
gitto a piedi: l’idea di mettersi a sedere e riposarsi sciolse ogni riserva.
Mentre era intento a dar voce del suo arrivo, un’automobile
strepitante, un recente modello di FIAT Fiacre, dal tettuccio nero
e le fiancate ocra, transitò lungo la strada, rompendo il viscido
torpore della domenica. Il signore seguì il tragitto della vettura, la
vide rimpiccolirsi in lontananza e dileguarsi seguita da uno sbuffo
acre di fumo grigiastro. Stette lì qualche istante mentre il silenzio
tornava a chiudersi dopo quel breve squarcio.

Tempo prima di passare a miglior vita, Maria Spezia Aldighieri,


la soprano che interpretò Violetta nella trionfale messa in scena
della Traviata al Teatro San Benedetto in Venezia, conservava an-
cora una voce eccellente.
Agli inizi del secolo, un noto impresario milanese, membro della
Società Anonima Italiana di Fonotopia, distributore in Italia della
Voce del Padrone, propose all’Aldighieri di incidere su disco alcu-
ne arie tratte proprio dalla Traviata, affinché la sua voce restasse
indelebile nel tempo. La soprano, «un po’ per celia, un po’ per non
morir» come diceva Petrolini, accettò di buon grado la proposta e
la sua voce fu finalmente deificata su vinile.
Una copia di tale disco suonava nel grammofono sull’abatjour
posto accanto alla porta d’ingresso dello studio.
La musica sgusciava dal corno e ascendeva lentamente al sof-
fitto nella penombra della stanza. Le imposte erano chiuse, c’era
13
odore di sego nell’aria e dei resti inceneriti d’un vecchio fuoco
ch’aveva languito nel camino prima d’estinguersi. I dorsi dei libri
sugli scaffali emanavano uno strano pallore. Tutto era immobile,
evanescente. La domenica sa essere un giorno terribile.
Il professore stava immerso nella sua poltrona, accanto al ta-
volino, a occhi socchiusi, indossando una lunga giacca da camera
bigia.
Ascoltava mezzo assopito l’Addio del passato, atto terzo, scena
quarta. L’uomo era grosso, pesante. Era anziano, il volto grinzoso,
cereo, col doppio mento protuberante, gli occhi cerchiati dalle oc-
chiaie e i capelli bianchi scompigliati.
Mentre l’Aldighieri inneggiava: «Ah, della traviata sorridi al de-
sio…» la porta dello studio si aprì. Una luce più violenta penetrò
nella stanza con una folata di aria fresca, che diradò l’odore stantio
della cera. A un tratto la musica si interruppe: avevano alzato l’ago.
Il vecchio si destò dal suo torpore: qualcuno era entrato nello
studio, la sua ombra si rifletteva sulla libreria. Era Carla, la dome-
stica.
Si avvicinò alla poltrona del vecchio, che la guardò con aria son-
nolenta e seccata.
«Scusate professore» disse la donna, «ma v’è una visita per voi,
un signore. Non si è presentato, è di là che l’attende». Era una don-
na esile la signorina Carla e anche su di lei si intravedevano i solfo-
rici segni del tempo.
Il professore diede l’ordine di lasciar passare lo sconosciuto,
malgrado fosse visibilmente contrariato da quella visita imprevi-
sta. S’alzò dalla poltrona e cercò di darsi un contegno stirandosi
alla meglio addosso la sgualcita vestaglia. Poi andò al balcone e fu
sul punto d’aprire le imposte.
«Si può?» domandò l’anziano signore in Tasmania, fisso sull’u-
scio, con la bombetta in mano.
Il professore si fermò davanti all’imposta semiaperta, come se
qualcuno, da molto lontano, l’avesse chiamato.
Un piccione che stava appollaiato sulla ringhiera del balcone
volò via impaurito. Il visitatore, assistendo al silenzio del suo ospi-
te, ripeté la domanda.
14
Il professore chiuse gli occhi. Aveva vent’anni adesso. Era a un
ballo e l’orchestra suonava il Libiamo. Sudava. Aveva paura, ver-
gogna, le lacrime non uscivano. Stava in ginocchio, piegato in due
dal dolore e dalla confusione. Era disperato.
Riaprì gli occhi e quei fantasmi se ne andarono. Ora aveva di
nuovo settant’anni. Tirò un sospiro e riavutosi dal primo choc,
proferì: «S’accomodi».
L’anziano signore entrò senza dir nulla, con uno sguardo serio e
meditabondo e si portò davanti a una delle due poltrone, ma attese
che l’ospite gli avesse concesso il permesso di sedersi.
Quando si fu messo comodo, emise un lento ma prolungato
gemito di sollievo. Il professore si sedette alla poltrona opposta e
guardò attentamente il suo visitatore, credendo, o meglio, speran-
do di sbagliarsi. No, non si sbagliava: era proprio lui.
Il visitatore si guardò per un attimo le scarpe, a testa bassa e poi
parve sul punto di cominciare un discorso.
«Sentite» lo interruppe il professore prima ch’egli potesse arri-
vare ad aprir bocca, «non so voi, ma credo che prima di parla-
re di qualsiasi cosa mi ci voglia un caffè, un po’ per riprendermi
dal consueto torpore pomeridiano, un po’ per quei motivi che ben
comprenderete. Spero gradiate anche voi un caffè: credetemi, vi
farà bene». L’anziano signore non poté far altro che annuire.
Il professore chiamò Carla e le ordinò due caffè. Quando si tro-
varono davanti le tazzine fumanti, i due signori sorseggiarono la
bevanda, indagandosi a vicenda.
Finito il caffè, il professore porse una scatola porta sigari al suo
ospite, che ne estrasse un lungo Toscano scuro.
Il professore prese il proprio e lo spezzò in due. Appiccò fuoco
al sigaro del visitatore con un cerino e poi alla propria metà. En-
trambi tirarono una lunga boccata, rilasciando il fumo argenteo
che danzò dissipandosi verso il soffitto.
Le imposte erano rimaste socchiuse. Il professore, adagiatosi
nella sua poltrona, cercando di mascherare i suoi nervi, guardò il
visitatore e disse: «Bene, ora avrò il piacere di ascoltarvi».
Il visitatore osservò per un attimo il suo ospite fumare.

15
PARTE PRIMA

IL REGNO DELLE DUE SICILIE


UNO
LA FERROVIA NAPOLI-PORTICI, 1839

Nel 1839 mio padre aveva ventinove anni. S’era sposato l’anno
prima nella chiesa di San Carlo all’Arena, ch’era stata restaurata in
seguito all’epidemia di colera del 1837.
Era un bel giovane mio padre: moro, slanciato, elegante, un
figurino azzimato e fresco. Mamma lo descriveva sempre come
rammentasse un giardino ben curato, pieno di fiori.
Portava baffi sottili, un pizzetto aguzzo e affilato e una zazzera
di capelli corvini che tolse poco prima ch’io entrassi nell’età della
ragione. Mi pare di vederlo, con la marsina di lana vergine attillata
in vita, il gilet ricamato, i pantaloni a tubo aderenti, la cravatta
di satin nero e il cilindro lucido in testa. Lo vedo proprio adesso
davanti ai miei occhi, mentre provo a immaginare quale aspetto
dovesse avere in quel mese d’ottobre del ’39, quando non aveva
ancora trent’anni e aveva una moglie giovane e bella e viveva nella
casa dov’era nato e cresciuto, in via del Duomo, proprio di fronte
alla vecchia Villa dei Pezzenti, dove sarebbe sorto il Mercato dei
commestibili, che ora non esiste più.
Doveva avere begli occhi mio padre all’epoca, gli occhi pieni di
luce di quando sei molto giovane e che solo raramente rimangono
impressi nel resto degli sguardi che spenderai durante la vita. De-
gli occhi un po’ stanchi per essere stati troppo a lungo spalancati
sull’infondata meraviglia d’esistere, lucidi e brillanti come remore
di stelle nel giorno. Sì, dovevano essere occhi belli e luminosi quelli
che s’innamorarono di mia madre e che mi videro nascere. Gli oc-
chi di una volpe nel folto del bosco.
Mio padre aveva frequentato l’università e si era laureato in legge
l’anno in cui morì re Francesco, così che dovettero vestirsi a lutto alla
proclamazione, col rettore che a stento arrivò a trattenere le lacrime.
21
Era avvocato e teneva studio a casa, nella stessa stanza in cui
oggi io tengo le mie lezioni. Li vedo i clienti, eccoli, che passano dal
vestibolo allo studio, facendo scrocchiare gli stivaletti di vernice
sulle marmette lucide del pavimento e ricordo quando da bambi-
no origliavo incuriosito a quella porta senza riuscire a udir nulla,
come se là dietro non ci fosse stato nessuno. Rammento quando
poi la porta si spalancava e i clienti tornavano a far scricchiolare le
suole sul pavimento, con un’espressione sempre diversa in volto, e
io li osservavo, nascosto come potevo, fissando quegli occhi che a
volte erano affranti e lucidi.
Era un uomo colto, mio padre. Possedeva una bella biblioteca,
che aveva messo insieme comprando volumi usati sui banchi dei
librai di Port’Alba e di Largo delle Pigne nelle sue lunghe e solitarie
passeggiate. Era un lettore onnivoro e accanito e ci ho trovato di
tutto su quegli scaffali, quando la biblioteca l’ho ereditata io: dal
Progetto di legge e rapporto su i giurati di Francesco Ricciardi, alle
Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo; dai ventinove volumi
dell’enciclopedia zoologica illustrata da Pierre Jean Francis Turpin,
alla Storia di Roma di Theodor Mommsen; da I promessi sposi del
Manzoni, nell’edizioni del ’27 e del ’40, ai trattati di botanica di
Giuseppe Antonio Pasquale.
Trascorreva ore nel suo studio a leggere, seduto alla scrivania o in
poltrona, in palandrana e pantofole bigie, coi fogli sparsi d’appunti
che gli svolazzavano attorno e mio nonno che gironzolava davanti
agli scaffali, eternamente indeciso su quale volume scegliere e guai
a scacciarlo. Gli facevo compagnia, gli ho fatto compagnia effet-
tivamente a lungo in quello studio, seduto a terra, con un volume
dell’enciclopedia di Turpin poggiato sulle gambe incrociate, quand’e-
ro bambino, o sulle poltrone di faggio foderate di tessuto bordò, con
libri maturi tra le mani, quando crebbi e mi feci giovanotto.
La sua cultura, però, si fermava allo studio: papà non amava né
le associazioni né i circoli culturali. Aveva frequentato per qualche
tempo il Caffè d’Italia, in piazza San Ferdinando, ma l’aveva ab-
bandonato dopo aver assistito a uno spiacevole episodio.
Una volta, mentre era seduto nel locale a sorbire un caffè, fe-
cero il loro ingresso Antonio Ranieri e il conte Leopardi, che s’e-
22
ra stabilito già da qualche tempo a Napoli. Mio padre aveva letto
qualcosa del conte e lo stimava pur non essendo entusiasta delle
prospettive catastrofiche del dolente poeta.
«Era uno spettacolo doloroso e commovente vederlo» mi dis-
se una volta, «un uomo alto quanto un bambino, curvo per il
peso di due ingombranti gobbe, che ansimava tristemente come
se a ogni rantolo non avesse avuto più la forza di respirare. Era
un uomo dal sapere sconfinato, e sebbene io non condividessi
le sue opinioni, non potetti tollerare quello che gli si disse quel
giorno».
I due amici si sedettero ai tavolini e mio padre salutò inchinan-
dosi, notando però che gli altri avventori avevano iniziato a confa-
bulare in una maniera che, ahimè, faceva intuire la crudele ostilità
degli intenti.
«Il conte se ne accorse e cominciò a declamare ad alta voce un
brano d’una sua poesia, che recitava: “S’arma Napoli a difesa/
dei maccheroni suoi, ch’ai maccheroni/ anteposto il morir, troppo le
pesa”.
E allora, attendendo solo una provocazione, quelli iniziarono a
parlare a voce sostenuta, per farsi udire, e malignamente: “Ma chi
crede di essere questo Leopardi? Questo rachitico gobbo davanti e
di dietro, catarroso e colitico, che beve solo caffè e mangia gelati
e confetti? Crede d’essere un uccello che vola più alto degli altri”.
“Ma che più altro degli altri! Al massimo può essere l’uccello
padulo”.
“E che è quest’uccello padulo?”
“Quello che vola all’altezza del culo!” e risero a spezza fiato».
A quelle parole, mio padre fissò corrugando la fronte il conte e
il suo amico, ma non si dette tempo d’assistere alle loro espressioni:
raccolse il cilindro, il suo quotidiano, il bastone, pagò il caffè che
aveva bevuto e uscì dal locale, senza rimetterci mai più piede.
I circoli, i caffè, i salotti, le logge, poi, erano pieni di liberali e
riformisti e mio padre era un monarchico. Preferiva tenersi alla
larga dalla politica, che avrebbero leso alla sua professione e alla
sua famiglia. Meglio il salotto di casa e le pantofole imbottite, lon-
tano dai fragori e dall’indecenza.
23
Sostanzialmente, mio padre era un uomo curioso. Credeva che
la vita fosse fatta a maggior gloria delle dolcezze della conoscen-
za. Amava i musei, la staticità dei vasti saloni dove dimoravano
antiche bestie impagliate o erme preadamitiche di qualche dio de-
funto, sempre sobrie, silenti, coi loro reperti catalogati con dovizia
da cartigli ingialliti. Adorava la cultura che non sbraita, che non
insiste, che non muta. Era un conservatore fiero e sincero, ma non
un reazionario. Sapeva osservare la realtà e non si faceva illusioni
di sorta. Amava distrarsi, tuttavia, e lo faceva assecondando la
sua curiosità congenita, vicina a quella dei geologi o degli ento-
mologi, che studiano fenomeni così estesi nel tempo o esseri così
minuti che tutto il resto sfuma, impoverisce. Cosa sono gli anni
umani davanti alle ere geologiche? Cos’è la società civile innanzi
agli ordinamenti monarchici di un formicaio? Nulla più d’un fiato
nel vento.
Sebbene non amasse il cambiamento, foriero di scempi, a suo
dire, non poteva esimersi d’apprezzare le novità che quegli anni
apparentemente prodigiosi largivano, vidimandole con l’appellati-
vo sommario e ottimista di “Progresso”.
Era quello il vocabolo che nel secolo Decimonono definiva tutta
la speranza in ciò che sarebbe potuto accadere, la parola marchiata
a fuoco negli animi dei liberali, pronunziata con arcana diffidenza
dai potenti, disprezzata dai codini più fanatici. Il Progresso… e
una specie d’orizzonte assolato s’apriva davanti agli occhi, come
un’alba prima scura e poi sempre più luminosa e vermiglia, il so-
gno disperato d’un avvenire migliore.
E mio padre, sebbene avesse molte qualità del codino, non po-
teva fare proprio a meno di seguire con vivo interesse ogni nuova
manifestazione di quell’epoca d’utopie avverate.
Infatti, quando venne a sapere della strada ferrata che il re ave-
va dato ordine di costruire, ogni fibra del suo corpo, ogni istante
dei suoi giorni fu votato interamente al desiderio d’essere testimo-
ne oculare di quella grandiosa invenzione.
L’accordo per la costruzione della ferrovia venne firmato nel
giugno del 1836, in pieno colera, e i lavori furono affidati all’in-
gegnere francese Armando Giuseppe Bayard de la Vingtrie, che
24
avrebbe dovuto realizzare, nell’arco di tempo di quattro anni, una
tratta che da Napoli avrebbe raggiunto Nocera Inferiore.
La linea Napoli-Nocera sarebbe stata la prima ferrovia d’Italia. I
lavori iniziarono nell’agosto del 1838 e in tredici mesi fu costruito
il primo tratto, che collegava la stazione di Napoli al Carmine al
binario del Granatello di Portici.
Mio padre seguì attentamente la vicenda della costruzione della
ferrovia sui quotidiani. Ma non gli bastava. Voleva vedere quel
treno, a tutti i costi.
Iniziò, allora, a corteggiare un suo cliente, che aveva un fratello
che dirigeva i lavori di costruzione dei vagoni della locomotiva a
San Giovanni a Teduccio, affinché intercedesse per lui e gli per-
mettesse di assistere all’inaugurazione.
«Dotto’» disse l’uomo a mio padre, «si vulite, ij ve faccio sagli’
pure ’ngopp’ a ’o treno». A mio padre brillarono gli occhi. «Si tu me
faj ’sto piacere, te puo’ pure scurda’ ’e paga’ l’onorario mio!» rispose.
Così, il cliente si adoperò affinché anche mio padre, nel giorno
dell’inaugurazione, fosse su quella locomotiva. E ci riuscì.
Il 3 ottobre dell’anno 1839, mio padre si svegliò all’alba. Fece un
lungo bagno, si rasò accuratamente, si frizionò e si profumò con
l’acqua di Colonia. Indossò un completo chiaro, di cotone leggero,
marsina avorio, calzoni castoro, alla tirolese, gilet ricamato, cra-
vatta bordò, lobbia chiara e bastone. Ordinò a Gioacchino, il figlio
della nostra domestica e cocchiere, che fosse armato il calessino e
si avviò alla stazione del Carmine, da dove sarebbe partito il treno.
Prima che fosse costruita la stazione Centrale, nel 1866, la sta-
zione del Carmine era un gioiello meraviglioso.
Oggi è uno stabile quasi in disuso, affrancato ormai dall’utilità
e dal decoro, scrostato dell’intonaco, cadente degli stucchi, invaso
dalle parietarie.
All’epoca era un complesso grandioso, dipinto a colori chiari,
vivaci, costituito da due corpi a un sol piano, con tre grandi ingres-
si ad arco che immettevano alle sale d’aspetto. Un’ampia tettoia in
muratura univa i due corpi e sovrastava i binari, sostenuta da due
file di colonne di ghisa. Era magnifica quella stazione che guarda-
va al campanile del Carmine e dava le spalle al Vesuvio, accosta ai
25
bastioni del castello dello Sperone, l’antica fortezza angioina che
chiudeva le mura di Napoli a sud e che ora non esiste più.
Il calessino di mio padre ebbe difficoltà a farsi largo tra la folla,
perché quel giorno una torma aveva gremito la stazione: nessuno
voleva perdersi lo spettacolo del Progresso.
La vettura s’incuneò lentamente, e alla fine mio padre riuscì a
scendere davanti all’ingresso. Qui respirò l’odore asettico delle vol-
te nuove e immacolate, che contrastava con il puzzo della strada e
con l’effluvio di salsedine che s’alzava dal vicino litorale.
Si fece largo tra i presenti e mostrò con orgoglio il foglio, con
tanto di bollo reale, che lo designava ospite d’onore. Mio padre
transitò fino alla banchina e s’arrestò, con un sorriso commosso
impresso sulle labbra: eccola lì, la Vesuvio, la locomotiva marca
Longridge Starbuck e Co., scintillante e sbalorditiva. Mio padre si
avvicinò lentamente. La locomotiva non era molto alta. Mio padre
osservò attentamente le fasciature di legno dipinte di rosso, tenute
insieme da quattro cerchiature di ottone lucente, le ciminiere alte,
anch’esse scintillanti, la cabina di manovra, dove un elegante con-
ducente attendeva l’ordine di partenza. Alla locomotiva seguiva il
tender a due assi, che trasportava il carbone, necessario alla car-
burazione, e l’acqua. Nove vagoni dipinti di verde, tranne quello
centrale, che avrebbe ospitato il re e che era bordò, costituivano la
fila del convoglio.
C’erano molte persone note sulla banchina ad attendere di pren-
dere posto e mettersi in viaggio. Mio padre riconobbe il marchese
D’Andrea, a quel tempo Ministro delle Finanze e degli Affari Ec-
clesiastici, Nicola Parisio, Ministro della Giustizia. C’erano il pitto-
re Giacinto Gigante, accompagnato dall’anziano padre Gaetano, il
filosofo Galluppi, allora titolare della cattedra di Logica e Metafisi-
ca all’Università di Napoli, e tanti altri.
I distinti ospiti erano tutti vocianti, irrequieti ed elegantissimi.
Le trine, le sete, i battista e i taffetà svolazzavano d’intorno come
sciami di farfalle variopinte. Le belle signore dagli abiti di seta ope-
rata, chiari, color pesca, ocra, rosa, tipici della stagione ancora esti-
va, coi cappelli merlettati, i calash rigidi, gli scialli di lana leggera,
si sporgevano sulla banchina, ad ammirare il mostro di ferro che
26
la loro immaginazione più fervida non riusciva a concepire po-
tesse muoversi. Era uno spettacolo. Quando lo raccontava, mio
padre era dovizioso di particolari. Descriveva le volte della banchi-
na come arcate di un tempio pagano e la lunga spira della strada
ferrata come una serpe serena e opulenta, liscia e splendente, che
si dilungava verso le campagne, laggiù, dove il panorama rigoglio-
so compieva una curva sotto la sagoma fumante e tranquilla del
Vesuvio.
Gli ufficiali dell’esercito, i marinai, i soldati dalle uniformi bian-
che e blu e la banda degli ottoni, che avrebbe preso posto nel con-
voglio sito subito dopo il tender, si accalcavano riempiendo l’aria
del fumo turchino e odoroso dei sigari, non meno smaniosi di ve-
der muovere la prodigiosa macchina.
Poi, dopo un poco d’attesa, il macchinista fischiò il segnale di
partenza e tutti gli ospiti salirono sui convogli. La prima carrozza,
come detto, ospitava la banda musicale, seguivano i soldati d’ar-
tiglieria, i marinai, gli ufficiali, due carrozze d’invitati, poi ancora
ufficiali, marinai e, in fine, i soldati di fanteria.
Mio padre montò sulla prima carrozza degli invitati e si trovò
seduto accanto al finestrino, vicino al vecchio Gaetano Gigante.
L’anziano pittore non era troppo entusiasta della concitazione
generale. Sembrava affaticato, vestito d’un abito antiquato, di vel-
luto, scuro e largo e non emise un fiato per tutto il tragitto: si limitò
a gemere di tanto in tanto, forse in risposta a qualche fitta che gli
percuoteva l’esile corpo.
Poco dopo essere saliti, un nuovo fischio risuonò sulla banchina,
seguito da uno scossone che fece urlare qualche donna. Poi, un
fischio ancora più acuto, che proveniva dalla macchina in moto,
fu seguito da un movimento che intontì mio padre.
«Non te la posso descrivere quella sensazione. Sembrava un mal
di mare, ma molto più forte. Poi vidi la terra scorrere lentamente
e un rumore cadenzato, metallico, iniziò a prodursi nell’abitacolo,
un tutu-tutun, tutu-tutun, ed era il rumore delle ruote sul binario.
La banda suonava la marcia reale e dietro di noi, sulla banchina
che si allontanava, sentivamo le grida di festa di quelli che saluta-
vano il treno. Poi la velocità aumentò, il panorama iniziò a scorrere
27
a passo accelerato e quella sensazione di nausea non voleva andar-
sene. Tutu-tutun, tutu-tutun, facevano ancora le ruote e una nube
nera di fumo fittissimo, screziata di luminosi corpuscoli infuocati,
fuggiva lungo le fiancate dell’abitacolo e spariva in alto.
Lungo il tragitto s’era affollata tanta gente: paesani, contadini,
signori, uomini e donne di tutte le età e condizioni, che salutavano
il treno sventolando fazzoletti, bandiere, cappelli.
Nell’abitacolo le donne, ma anche gli uomini, stentavano a man-
tenere il sangue freddo. “Non andremo troppo veloce?” diceva
qualcuno, sorridendo e intanto tenendosi ben abbrancato al cuoio
delle maniglie di sicurezza.
Era una sensazione stranissima, meravigliosa e al tempo terribi-
le. Io osservavo il panorama, il mare, una landa cobalto dove s’e-
rano assiepate imbarcazioni d’ogni sorta e dimensione, speranzose
di vedere almeno da lontano il treno. Ma tutto sfuggiva troppo
rapidamente, non riuscivo a concentrarmi su niente. Volti, mare,
alberi, case, ville: ogni cosa transitava in fretta e spariva dietro al
convoglio. S’andava avanti, senza requie. Non era possibile fer-
marsi. Non lo sarebbe stato più.
Procedemmo ancora per qualche tratto, superando altre ville
gremite d’ospiti elegantissimi, capannelli di lazzari, gruppi di ga-
lantuomini tronfi e gentildonne affannate, finché non raggiun-
gemmo la villa del Carrione, al Granatello di Portici. Il treno fi-
schiò lungamente e la sua corsa, poco a poco, si arrestò e tutto
tornò come prima, per pochi momenti, nel Regno delle Due Sicilie.
Al Carrione, re Ferdinando attendeva il treno, assieme a Bayard,
alla regina, al primo ministro e ai membri della corte.
Era stato allestito un palchetto lungo la banchina e il re, in alta
uniforme, presiedeva la platea dei molti che affollavano la stazione
del Granatello.
A quel tempo re Ferdinando non era il vecchio che è oggi.
All’epoca il re aveva ventinove anni, quanti ne avevo io. Avresti
dovuto vederlo per capire che cosa intendo. Indossava l’unifor-
me di gala, con la giacca cobalto, le spalline e i galloni dorati,
le brache candide e la feluca piumata. Stava sul palco, in piedi,
sanguigno in volto, leggermente pingue, con la barba sottile, che
28
gli cingeva solo il mento, gli occhi castani e brillanti, fissi al suo
treno e un sorriso compiaciuto sulle labbra sottili. Era elegante,
sereno, felice. Quando il treno si fermò alla banchina, i soldati
sui convogli salutarono il re a gran voce e la banda intonò la
marcia reale più fieramente che prima. Noi ci sporgemmo dai
finestrini, per toglierci il cappello davanti alla Maestà. Il palco, la
stazione, la banchina, erano tutti cinti di serti di fiori e ghirlande
variopinte. Un lungo applauso ci aveva accolti, ma il re con un
gesto mise tutti a tacere e iniziò il suo discorso: “Questo cammino
ferrato gioverà senza dubbio al commercio e considerando come
tale nuova strada debba riuscire di utilità al mio popolo, assai più
godo nel mio pensiero che, terminati i lavori fino a Nocera e Ca-
stellammare, io possa vederli tosto proseguiti per Avellino fino al
lido del Mare Adriatico” e nuovi scroscianti applausi seguirono
alle parole del monarca».

Mio padre aveva visto per la prima volta il re ai funerali di


Ferdinando I, nel 1825. Avevano entrambi quindici anni all’e-
poca. Una lunga teoria vestita di nero seguiva il carro funebre
sul quale era adagiato il feretro del vecchio re Borbone, che at-
traversò la città affinché ognuno potesse rendergli omaggio per
l’ultima volta. Fu nel mese di gennaio, in un inverno assai rigi-
do, e la gente del corteo si teneva intabarrata stretta per il gran
freddo.
Mio padre vide il giovane principe seguire il corteo accanto
al genitore, nelle vesti nere del lutto, e per un istante, mentre la
teoria lasciava Largo di Palazzo e attraversava Piazza San Fer-
dinando, i loro occhi s’incontrarono. Mio padre fissò il futuro
re e Ferdinando fissò lui: avevano entrambi occhi tristi. Fu in
quell’istante che mio padre seppe che sarebbe morto monarchi-
co e codino, anche a costo d’andare in urto con mio nonno, che
era un giacobino e aveva brindato alla morte del re. Mio padre
aveva visto negli occhi di quel ragazzo, di quel suo coetaneo
vestito di nero, tutto il mondo in cui vivevano ed era un mondo
fragile. Fu più per compassione che per devozione che mio pa-
dre si fece realista.
29
La carrozza centrale del treno, quella dipinta di bordò, fu sgom-
berata e gli ospiti smistati sull’altra carrozza: così il re poté prende-
re posto sul vagone assieme alla corte e all’ingegner Bayard.
Dopo nuovi strilli di tromba, sventagliate di fazzoletti, coccarde
e bandiere, grida d’evviva ed esulti, il treno si rimise in marcia per
Napoli.
Mio padre tornò a fissare il panorama, ma questa volta era di-
stratto. Vide il mondo scorrere veloce ancora una volta oltre il fi-
nestrino, scorrere e sparire, dietro, alle spalle, svanire come non
fosse mai esistito. Nessuno presentiva quello che stava accadendo.
Forse soltanto il vecchio Gaetano Gigante, che s’era addormentato,
lui che con quel mondo davvero non c’entrava più niente. Solo mio
padre percepiva, guardando il Golfo defluire come acque d’un fiu-
me tortuoso, il peso di tutto ciò che stava arrivando, veloce, incal-
zante e sulla strada di ferro del Progresso. Stava arrivando e, alla
fine, tutto sarebbe cambiato.
Mio padre ritornò a casa quel giorno d’ottobre che il cielo s’era
già tinto di viola. Tutti attendevano il suo parere sulla novità del
treno, persino mio nonno, che detestava il re. Ma mio padre non
ne volle parlare, non volle raccontare ciò che aveva visto davvero,
ciò che il Progresso si portava dietro.
L’unica cosa che chiese a mia madre, quella notte d’ottobre, fu
di fare l’amore. E a me piace immaginare che durante i dolci affan-
ni di quella piccola morte, nel giorno in cui il Progresso arrivò nel
regno delle Due Sicilie, io fui concepito.

30
DUE
LA NASCITA, 1840

Ho aperto per la prima volta sul mondo i miei occhi screziati di


sangue nella città di Napoli, il giorno 8 settembre dell’anno 1840.
Era un giorno torrido, canicolare, uno dei più caldi che si siano
mai abbattuti su Napoli e sul Regno delle Due Sicilie.
Il cielo era pallido per la foschia lattea che s’era alzata a causa
dell’umidità. Non un alito di vento, né una brezza, turbarono il
clima feroce di quel giorno rovente.
Io nacqui verso le due pomeridiane, nell’ora più calda, dopo una
notte caustica di travaglio.
Mia madre s’era svegliata di soprassalto, in preda ai dolori, nel
bel mezzo della notte torrida, e aveva intuito che stava per accade-
re qualcosa. Mamma scosse mio padre, ma quello non riuscì a sve-
gliarsi. Allora, in preda alle contrazioni, scese dal letto barcollando e
spalancò le imposte del balcone: l’aria umida della notte penetrò col
suo fiato acre.
A tentoni, nel buio, in camicia da notte, reggendosi il pancio-
ne maturo, mia madre raggiunse la porta, la spalancò e chiamò a
gran voce, in corridoio, che qualcuno accorresse. Neanche dopo
tutto quel trambusto mio padre riuscì a svegliarsi.
Zia Margherita, la sorella maggiore di mio padre, che dor-
miva insieme al marito nella camera attigua a quella dei miei
genitori, udendo le grida della cognata, s’alzò subito e si preci-
pitò a soccorrerla. Fu lei a destare tutti gli altri, compreso mio
padre, che nel dormiveglia aveva annunziato: «Sto sognando i
leopardi».
Quando papà vide mia madre a terra sull’uscio della camera,
avvilita da dolori laceranti, quasi scoppiò in lacrime per non essere
riuscito a sentirla prima.
31
Mio nonno fu l’ultimo ad alzarsi: uscì dalla propria stanza ve-
stito di tutto punto, con la redingote scura e le calze di seta. Non si
sarebbe mai fatto vedere da nessuno in vestaglia e pigiama.
Adele, la nostra cameriera, mandò suo figlio Gioacchino a chia-
mare la levatrice, Assunta ’a Negra, che stava al vico Limoncello,
una traversa dell’Anticaglia.
Mia zia e Adele avevano intanto adagiato mia madre sul letto
e lei se ne stava stremata a digrignare i denti, con la mano di papà
stretta nella sua al petto. Sudavano entrambi ed erano madidi tan-
to che le candele e i lumi a olio facevano risplendere i loro volti
atterriti dal caldo, dalla tensione, dalla paura.
Mio zio Annibale, il marito di zia Margherita, era fermo sull’u-
scio, con le mani dietro la schiena, accanto a mio nonno, che sem-
brava imperturbabile. Zio Annibale era romano ed era capitano
della gendarmeria a Castel Sant’Angelo da vent’anni. Era un uomo
alto di statura, oltre la quarantina, coi favoriti folti e castani, gli
occhi verdi e miti, la fronte spaziosa dei taciturni. Era una persona
estremamente timida e riservata e se ne stava quasi sempre in di-
sparte quando non era chiamato a compiere il suo dovere. In gio-
ventù, zio Annibale aveva prestato servizio nei Dragoni pontifici
e aveva combattuto anche contro il celebre brigante Gasbarrone,
ma una brutta caduta da cavallo l’aveva reso zoppo e ora doveva
camminare sempre appoggiandosi al bastone.
Finalmente arrivò la levatrice e cacciò via tutti gli uomini dalla
stanza, che si misero di piantone fuori la porta, cercando di sape-
re qualcosa da Adele, che faceva la spola in cucina coi pentoloni
d’acqua bollente.
Io ero cocciuto come un vecchio mulo e non volevo venir fuori.
Povera mamma, neanche a un capretto da macello si fa quello che
le feci io per uscire da lì. Il sangue aveva inzuppato le lenzuola già
fradice di sudore e l’aria della stanza s’era viziata d’un miasma
misto d’umidità atmosferica, liquido amniotico e altri fluidi del
corpo.
All’alba, mentre dal balcone aperto una luce opalina penetrava
nella stanza e il cobalto della notte si tingeva di vermiglio, di me a
stento s’intravedeva la testa.
32
Mia madre era sfinita. Era una donna minuta, esile, magra e
quella cosa che aveva in grembo era davvero intollerabile. Per
nove ore massacrarono mia madre, boccheggiando nella canicola
come meduse arenate sulla battigia.
Alla fine arrivai, proprio quando tutti s’erano addormentati a
destra e a manca. Furono i miei vagiti a destarli.
Mia madre a stento riuscì a darmi un’occhiata, poi fu vinta dal-
lo sfinimento e s’addormentò.
Zia Margherita recise il cordone ombelicale in vece di mia ma-
dre e la levatrice mi ripulì dal sangue e mi pesò: tre chili e cinque-
cento grammi.
Mio padre mi prese in braccio per primo, dopo che la levatrice
m’aveva avvolto come s’usa tra le fasce.
Papà mi fissò coi suoi occhi di volpe e mi cullò lentamente, im-
pacciato, poiché non aveva mai tenuto un pargolo prima. Doveva
essere orgoglioso che fossi un maschio, credo io.
«Speriamo che non schiamazzi la notte» commentò mio nonno,
guardandomi con un sorriso mordace sulle labbra. Mia zia e zio
Annibale ebbero poi il loro turno per reggermi in braccio e, alla
fine, stanchi come minatori, si buttarono a dormire dove capitava.
Al suo risveglio, dopo diverse ore, mia madre li trovò tutti stra-
vaccati e pensò, risentita, che non s’erano neanche degnati di farle
compagnia.
Solo io ero sveglio, con un gran paio d’occhi che fissavano la
greca di stucco del soffitto della camera da letto. Allora mi rac-
colse e mi allattò. Così ci trovò mio padre quando finì di sognare
i suoi leopardi.

33
TRE
LA DISPUTA DEL NOME, 1840

Venni battezzato sei mesi dopo, nella Chiesa di San Giovanni


a Carbonara, al cospetto di re Ladislao Durazzo, ch’era lì sepolto
dagli anni remoti del suo regno.
Mio padre aveva deciso di chiamarmi Ferdinando, vuoi perché
era un monarchico, vuoi perché, forse, quel ragazzo che aveva
guardato negli occhi tanto tempo prima non se l’era mai levato
dall’anima. Mio nonno, naturalmente, andò su tutte le furie.
«Se ti azzardi a mettere a mio nipote il nome di quell’infame che
quasi mi faceva impiccare, ti giuro che non lo chiamerò mai una
sola volta in vita mia» disse e continuò sbraitando altri improperi
da giacobino.
Mio nonno voleva che mi chiamassi Mario, come Francesco
Mario Pagano, l’eroe della Rivoluzione Partenopea, che lui aveva
avuto l’onore di conoscere di persona quand’era giovane. Mio pa-
dre, tuttavia, non era d’accordo. «Non posso dargli il nome di un
giacobino» concluse.
Così la disputa andò avanti per mesi. Ogni tanto in casa si udiva
mio nonno sbraitare, maledicendo il nome di Ferdinando e tutta la
schiatta dei Borbone, «quei fetenti assassini, che hanno ammazza-
to la meglio gioventù di Napoli».
Nessuno dei due voleva cedere terreno. Era una questione
di principio, una delle tante che mio padre e mio nonno ave-
vano disputato nel corso della loro vita, militando su fronti
opposti.
Allora, durante i miei primi sei mesi di vita, fui un bambino
senza nome. Adele mi chiamava «’o criaturo», zio Annibale «er
pupo», gli altri indifferentemente «bimbo» o «bambino». «Che fa…
il bambino?», «Dov’è… il bimbo?», «Ha magnat’… ’o criaturo, si-
34
gno’?», «Bello de zio tuo, guardame a… pupo», e così via. Alla fine,
mia madre non resse più e si arrabbiò.
Convocò mio nonno e mio padre, li mise seduti da una parte e si
sfogò come doveva. «Sono sei mesi che a causa delle vostre lamen-
tele io non ho il piacere di chiamare mio figlio per nome. Adesso
basta: avete avuto la vostra occasione di scegliere il nome del bam-
bino. Mio figlio si chiamerà Stefano come voi, papà. Né come un re
né come un patriota, e non voglio sentire rimostranze, altrimenti
mi arrabbio davvero, siamo intesi, signori?» ammonì mia madre,
con certi occhi truci che non ammettevano repliche.
Mio padre e mio nonno si guardarono imbarazzati. Non po-
tettero fare altro che accennare di sì col capo, vergognosi, e così
fu fissato il giorno del battesimo e anche re Ladislao di Durazzo,
dall’alto del suo maestoso sepolcro marmoreo, seppe che il mio
nome era Stefano Turati.

35
QUATTRO
LA VILLA DEI PEZZENTI, 1846

Sono nato in via del Duomo, al civico 36, nel quartiere di San
Lorenzo, sott’a Porta ’e San Gennaro, come si dice in napoletano,
nella stessa casa e nella stessa stanza in cui è nato mio padre.
Vivo ancora in quella casa, che è un appartamento assai am-
pio, al primo piano. Quando le usavamo tutte, c’erano sei ca-
mere: la camera matrimoniale dei miei genitori; lo studio di mio
padre; la camera di mio nonno; la mia; quella da nubile di zia
Margherita, che lei occupava ancora quando veniva a farci visi-
ta col marito; la camera della servitù. Oltre a queste, c’erano la
sala da pranzo, il vestibolo, la cucina e il bagno. Dico «c’erano»
poiché oggi, che siamo rimasti soltanto io e Carla, molte stanze
sono chiuse e non c’entriamo più e si può dire che la casa si sia
ridotta alla metà.
Una volta dai balconi di casa nostra si vedeva la Villa dei Pez-
zenti, o meglio, quel che ne restava.
Nel 1846, re Ferdinando diede ordine di costruire il Mercato dei
commestibili, là dove sorgeva la Villa, che fu spazzata via.
Io lo ricordo ancora quel giardino, dove s’andava a passeggiare,
all’incrocio tra la via Foria e la via del Duomo, circondato da can-
cellate di ghisa arrugginite dalla vernice scrostata, piena di erbacce
cresciute alla rinfusa, che affogavano i viali, e di alberi venuti su
storti e rinsecchiti, abbandonata a sé stessa e ai suoi avventori più
frequenti: i pezzenti e gli straccioni.
Mio padre ci andava a passeggio quand’era bambino. Raccon-
tava che era una Villa come quella Reale, ma più piccola, coi vialet-
ti lastricati di tufo, le aiuole fiorite e una fontana coi delfini.
Poi fu trascurata, lasciata all’incuria e alla decadenza e il re, stu-
fo, decise di cancellarla per sempre e metterci il Mercato.
36
Ero molto piccolo quando costruirono il Mercato dei commesti-
bili. Anche quello, si può dire, è scomparso.
Prima costruirono la strada della Pietatella, tra il 1845 e il 1856,
che poi fu ribattezzata via Domenico Cirillo e che collegava e col-
lega tutt’oggi via Foria con via San Giovanni a Carbonara; poi,
nel 1867, misero su un palazzo ad angolo tra via del Duomo e
via Orticello, che fu intitolata poi a Luigi Settembrini, attiguo al
palazzo Framarino, che si mangiò metà dell’area del Mercato. Alla
fine, nel 1898, fu eretto un palazzo con annesso giardino privato
e questo coprì l’altra metà del Mercato. Resta solo una strada, che
ancora collega via del Duomo con via Pietatella, ovvero Cirillo:
il vico delle Gramegne, dove tengono banco i fiorai. Solo questa
strada, una lingua di basoli di piperno tra gli alti muri di cinta,
resta a testimonianza della vecchia Villa dei Pezzenti e del Mercato
dei commestibili, dove io da bambino accompagnavo Adele a fare
la spesa.
Era bello il Mercato, lo ricordo bene. Lo finirono dopo la Rivo-
luzione, nel 1849, e ci venivano a tener banco da tutta la provincia.
Lo vedevo bene quando m’affacciavo al balcone, con la faccia
appoggiata alla ghisa della balausrta. Era uno spiazzo sterrato, am-
pio, quadrangolare, ch’era sconfortante da vuoto, ma che si riem-
piva di colori quando i mercanti venivano a mettere su i banchi.
Più lontano, laddove la vista arrivava, si scorgevano le alture di
Poggioreale e Capodichino, ch’ora sono nascoste dietro al grigiore
di nuovi edifici.
Come ho detto, ci andavo con Adele al Mercato. Non lo dimen-
ticherò mai, lei indossava sempre il medesimo abito di panno lilla,
col bustino rigido e la gonna a campana, imbracciava il paniere di
vimini con la destra, mi prendeva per mano e uscivamo.
Al Mercato passavamo i banchi lentamente, perché ad Adele
piaceva godersi la passeggiata. Ci fermavamo a guardare le car-
rette piene di verdura e frutta, che arrivavano dai casali di Nola, di
Avellino, di Caserta a vendere la roba ai napoletani mangia foglie.
Indugiavamo ai banchi del pesce, che si riempivano delle bestie
guizzanti del Golfo e davanti ai chianchieri, che vendevano carne
viva e morta. Quanta gente visitava quel Mercato! E quanta spor-
37
cizia si accumulava a terra, nella polvere! Foglie di scarto, torsoli,
budella di pesce e di bestiame, piume di polli spennati.
I venditori alzavano le gole al cielo e come lupi alla notte urlava-
no il nome delle loro merci, che s’accavallavano nell’aria, assieme
alle mosche sempre assiepate, d’estate e d’inverno, che ronzavano
su tutte le cose, vive e morte e sulla gente che pascolava tra i banchi.
Oh, quanto mi piaceva quel Mercato… Avevo sempre un par
d’occhi stupiti per quelle tavole imbandite d’ogni ben di Dio, gesti-
te dai cafoni più rozzi che abbia mai visto, che strillavano all’aria
la gioia dei propri commerci nei suoni gutturali e storpi dei loro
dialetti di provincia.
Adele faceva prima la spesa per la casa, secondo le indicazioni
che mia madre le impartiva a voce ogni mattina, poiché non pote-
va scrivergliele, dato che la donna non sapeva leggere, poi mi com-
prava sempre una graffa, una frittella dolce, e io la azzannavo,
imbrattandomi puntualmente di zucchero. Alla fine tornavamo a
casa e la voce dei mercanti, l’odore acre delle cose marcescenti, i
nugoli di mosche indaffarate ci seguivano fino al palazzo e a volte
salivano con noi, umori tenaci incollati ai nostri vestiti.
Qualche volta me ne vado al mercato dei fiori, per vedere se
ancora mi ricordo di quei tempi, di quand’ero bambino e Adele mi
comprava la graffa dal venditore col paiolo di rame, pieno d’olio
bollente. Me ne resto a fissare i banchi pieni di fiori, dove giron-
zolano le api in primavera, che mi ricordano le nere mosche che
facevano nugoli e gazzarra, e penso, tra gli alti muri di conteni-
mento scrostati dell’intonaco, che non resta più niente davvero del
Mercato dei commestibili e che, presto o tardi, anche quell’ultima
lingua di strada sarà affogata da qualche edificio.
Mi fa male al cuore affacciarmi al balcone e vedere quei palaz-
zi che coprono la terra, là dove sono stato bambino, là dove mio
padre è stato bambino, nella via del Duomo, dove tanto tempo
fa correvano le mura della città, da Porta San Gennaro a Porta
Capuana. Mi fa male al cuore vedere come ogni cosa venga co-
perta, cancellata, estirpata, estinta come le erbacce della Villa dei
Pezzenti. Non restano lividure, segni, tracce di sorta che possano
rammentare almeno il colore delle cose che sono state.
38
Sto al balcone, fermo davanti ai vetri delle imposte, che non si
stufano di restituirmi il riflesso d’un vecchio grasso e trasandato,
e guardo quelle mura, quei piperni, quelle ringhiere, quegli spi-
goli che hanno cancellato tutto, le mie passeggiate, le passeggiate
di mio padre, Adele che indugiava ai banchi, le mosche eccitate e
l’odore acre della putredine. Niente più vive, che possa dire mio,
laggiù. Domani, assai probabilmente, anche quel che vedo, il vico
delle Gramegne, il giardino, le palme e i pini che sporgono i loro
rami dalle sbarre, spariranno per sempre e niente, nessuna traccia,
resterà a loro testimonianza. Questo è quello che accade qui a Na-
poli ed è quello che accadrà sempre.

39
CINQUE
L’ILLUSTRE CONOSCENTE DI ROBERTO TURATI, 1842

Soltanto dopo la sua morte ho scoperto che mio padre scriveva poe-
sie. Me lo confessò mamma, la sola ad averle lette. Disse anche che papà
era estremamente geloso dei suoi versi e non avrebbe mai tollerato che
altri, all’infuori di sua moglie, fossero ammessi al loro segreto.
Li scriveva in un taccuino rilegato in marocchino nero, che ri-
cordo ancora, adesso che ci penso, poggiato sulla scrivania del suo
studio.
Quando chiedevo a mia madre se rammentasse qualcuna di
quelle poesie, scuoteva sempre il capo e diceva di no. Mentiva, ne
sono certo. «Roba d’altri tempi» sminuiva lei. Era una questione
privata tra lei e mio padre, suppongo.
Il taccuino non lo trovai più in giro e lei mi confidò che l’aveva
chiuso con papà nella cassa, perché continuasse a scrivere anche
dall’altra parte. Mia madre sperava che, un giorno, sarebbero tor-
nati a leggerle assieme.
Mio padre non avrebbe mai pubblicato niente di quello che scri-
veva, ne sono sicuro. Era troppo modesto per farlo. Di certo scri-
vere l’aiutava a star bene con sé stesso.
Più d’ogni altra cosa amava tenere la corrispondenza. Per lui
era un diletto sedersi alla scrivania del suo studio, sistemare i fo-
gli davanti a sé, ben impilati, il calamaio colmo di inchiostro nero
Pelikan, due penne di betulla col pennino in oro, accendersi un
Toscano e iniziare il suo lavoro di mittente.
Molte delle ore che poteva dedicare a sé stesso le trascorreva
col calamo in mano o leggendo, sempre assorto nei suoi pensieri,
circondato dalle cose per lui sacre dello studio.
Aveva rapporti epistolari con persone di tutta Italia, molte delle
quali credo non sia mai riuscito a incontrare di persona, conosciu-
40
te tramite i propri clienti o quando richiedeva qualche libro desue-
to, introvabile o esaurito nel Regno delle Due Sicilie. Gli affran-
chi indicavano le provenienze più varie: Lombardo-Veneto, Stato
Pontificio, Regno di Sardegna, Ducato di Parma.
Erano per la maggior parte professionisti come lui, avvocati,
medici, letterati di varia erudizione, uomini appassionati, tran-
quilli e discreti come lui. Discutevano delle novità letterarie, delle
evoluzioni del Progresso, delle bellezze dei rispettivi paesi, degli usi
e dei costumi. Mai di politica.
Tra tutti questi gentiluomini, però, che restarono soltanto esem-
plari di perizia calligrafica, soltanto uno è degno davvero d’essere
ricordato, e per saper come mio padre avesse fatto a conoscerlo,
vale la pena che si racconti il principio.
Uno dei migliori clienti di mio padre era il principe France-
sco Sanseverino di Capua, uomo d’antica nobiltà, assai facoltoso,
molto stimato, erudito e in odore di liberalismo. Io lo rammen-
to bene, perché qualche volta venne a farci visita anche dopo la
morte di mio padre. Era un uomo di bell’aspetto, un po’ basso di
statura, azzimato ed elegante. Ricordo che portava sempre un
fermacravatte con un rubino amaranto che risplendeva tutto sul-
la sua sobria cravatta di seta. Viaggiava molto, e possedeva pro-
prietà sparse un po’ in tutta Italia e anche una casa in Francia, a
Nantes se non sbaglio.
Nel mese d’aprile del 1842, il principe dovette recarsi a
Milano per concludere un affare di certi terreni edificabili in
Brianza e chiese a mio padre di accompagnarlo in veste legale.
Papà non era mai stato così lontano e non se lo fece ripetere
due volte.
All’epoca, Milano era la capitale del Lombardo-Veneto ed era
una città «moralmente austriaca» come diceva mio padre: elegan-
te, sobria, serena.
Dopo aver sbrigato gli affari del principe, mio padre poté go-
dersi la città. Visitò il Duomo e la chiesa di Sant’Ambrogio, il Ca-
stello Sforzesco e i luoghi del “forno delle grucce”, perché s’era
portato una copia dei Promessi sposi (due volumi in sedicesimo,
che stampò Tramater a Napoli, nel ’27, ce li ho ancora) che tene-
41
va aperta come un breviario o una guida turistica. Il principe lo
lasciava libero di girare da solo o lo accompagnava quando aveva
tempo.
Una sera, però, il principe ricevette un invito nel salotto di An-
drea e Clara Maffei, che all’epoca era celebre e lo sarebbe stato ancor
più dopo, in seguito alle Cinque Giornate, e portò con sé anche mio
padre, ch’era sicuro sarebbe rimasto entusiasta di vedere com’era il
centro della cultura milanese. Devo dire che papà ci andò un po’ con
riluttanza, per quella avversione che aveva nei confronti di circoli,
salotti e logge varie, dove si parlava troppo e si faceva politica, ma
dovette licenziare qualsiasi remora, per non offendere il principe.
«Non dimenticherò mai com’ero vestito quella sera: portavo la
marsina nera, avvitatissima, perché all’epoca potevo ancora per-
mettermelo. Una bella cravatta di seta, bianca, gli stivaletti lucidi e
la tuba. Un figurino».
Il salotto si teneva in casa Maffei, in via dei Tre Monasteri. Papà
e il principe ci arrivarono in carrozza e furono annunciati da un
lacchè in livrea scura.
Mio padre fu presentato prima al signor Andrea, «ch’era un
uomo elegante, snello, dal volto affilato. Portava una zazzera di
capelli che iniziavano a ingrigirsi, folta, che copriva le orecchie, un
pizzo di barba lunghetto, anch’esso incanutente, e aveva due occhi
belli, limpidi, chiarissimi». Poi Clara, “Clarina” come potevano per-
mettersi di chiamarla i più assidui e affezionati, gli diede la destra
da omaggiare. «Non era una donna bella, ma affascinante. Era ro-
sea, il volto ovale, gli occhi grandi e scuri e portava uno chignon
di capelli corvini e lucenti. Quella sera indossava un bel vestito di
taffetà blu e aveva un foulard di seta avorio al collo».
Gli ospiti furono accomodati nel cuore del salottino, una stanzetta
elegante, piena d’oggetti d’ogni sorta, ritratti e dipinti, lattimi di vetro
delicato, vasi cobalto, alzatine in porcellana di Meissen. «Era in quel
luogo che sarebbe cambiata ogni cosa, ma io non lo sapevo. Non lo
sapevo ancora. Io ero soltanto l’azzeccagarbugli di Don Francesco San-
severino di Capua, ammesso al pantheon per la prima e l’ultima volta».
C’erano diverse persone quella sera, ma mio padre non ne cono-
sceva nessuna, almeno a quel tempo. «Tutta gente in marsina nera
42
o redingote, come si usava all’epoca, coi calzoni all’americana, la
camicia e la cravatta di battista, il gilet di piquet e la zazzera. Le
donne, invece, vestivano quegli abiti chiusi fino alla gola, con le
maniche lunghe e aderenti, e non ne vedevi il collo o le spalle, come
adesso». Anni dopo, sentendone pronunziare i nomi, diceva «Toh
guarda! Sai che c’era anche lui quella sera dai Maffei?»
Conobbe il pittore Francesco Hayez, «un uomo dallo sguardo
severo, magro, la barba folta e grigia. Aveva più di cinquant’anni
all’epoca, credo». C’era un poeta giovane tra gli invitati, un tren-
tino giunto da poco a Milano, Giovanni Prati, che aveva riscosso
un certo successo di pubblico (ma non di critica) con un poemet-
to intitolato Edmenegarda, stampato l’anno prima. «Era poco più
piccolo di me, ma sembrava più vecchio. Un po’ grasso, devo dire,
con un nasone a campana e certe occhiaie scure da sonnambulo.
Non era proprio un bell’uomo».
L’epicentro della conversazione quella sera d’aprile fu un’ope-
ra che era stata rappresentata il mese prima alla Scala e che ave-
va riscosso un clamoroso successo. Tutti l’osannavano come un
capolavoro assoluto, degna di Rossini o del compianto Bellini. «Il
maestro Donizetti, che ha assistito alla rappresentazione, è rima-
sto folgorato. Figuratevi! Lui, che è tanto severo!» aveva ammesso
qualcuno.
L’opera s’intitolava Nabucodonosor e il compositore era un tale
Giuseppe Verdi, un ventisettenne che veniva da un paese di cam-
pagna, nel Ducato di Parma.
«A saperlo… Avrei tentato di conoscerlo di persona, all’epoca
ch’era ancora sconosciuto, di stringergli la mano, almeno. A Clara
Maffei brillavano gli occhi quando ne parlava. Diceva che quel
Verdi aveva composto il canto degli Italiani. Andai a vederla l’o-
pera, qualche giorno dopo e, ahimè, quella Clarina aveva ragione.
Ricordo quando ascoltai per la prima volta il Va’pensiero, in quel
palco foderato di velluto e raso, sotto i grandi lampadari festonati
di candele, accanto al principe Sanseverino, gettando di tanto in
tanto l’occhio alle divise candide degli ufficiali austriaci che affol-
lavano la platea, in piedi, come s’usava all’epoca. Ascoltavo quella
musica e vedevo la gente fremere dai palchetti, tutta quella gente,
43
quei milanesi eleganti e raffinati che si specchiavano nelle parole
degli esuli giudei. Ed era come il treno, quel coro, un’altra via del
Progresso, un altro orizzonte in fuga, un altro passaggio. Faceva
paura a sentirlo, a me, che venivo da lontano ed ero suddito di
un re triste. E Verdi era lì, un giovanotto magro, con la barba e i
capelli fulvi, che dirigeva la musica della fine ed era la musica più
bella che si fosse mai sentita».
Papà stette molta parte di quella sera ad ascoltare gli elogi al
Nabucco, le dissertazioni politiche in merito e altre e tante parole,
cosicché, alla fine, ne fu stufo, poiché di chiacchiere papà ne aveva
subito piene le tasche.
Finalmente, mentre i più si dilettavano nella conversazione, lui
con una scusa si defilò in un’altra stanza, che dava a una specie di
corridoio dove s’aprivano delle finestre e ne approfittò per pren-
dere una boccata d’aria fresca, che quella del salotto era viziata dal
fumo dei sigari e dall’odore delle candele di sego.
Uscì nella sera rischiarata dalle lanterne, che avrebbero ancora
per poco sostituito l’illuminazione a gas, e tirò una boccata d’aria
pura, prima d’accorgersi di non essere solo a quel balcone. In pe-
nombra, nell’angolo opposto al suo, c’era un uomo chinato sulla
balaustra che fissava la strada e pareva stesse iperventilando. Papà
lo osservò in imbarazzo, non sapendo cosa fare, poiché pareva che
quell’uomo stesse soffrendo, ma d’altro canto sembrava capace e
ostinato a tenere il dolore per sé.
«Era un uomo sulla cinquantina, forse più vecchio. Indossava
una redingote grigia, un abito anonimo di panno scuro. Era glabro
in volto e magro, il mento e il labbro inferiore un po’ sporgenti e
in quella luce incerta potei distinguere il colore rossiccio dei capelli
stinto nei toni della canutezza e occhi chiari, verdi mi pareva, as-
senti e freddi. Era un uomo aguzzo, alto, dal portamento signorile.
Sembrava tremasse. Si asciugò la fronte con un ampio fazzoletto
e solo allora si accorse della mia presenza, credo. Mi fissò e i suoi
occhi verdi si fecero grandi, come stupiti, e ricaddero a terra, sot-
traendosi ai miei. Restammo lì in silenzio per un po’, turbati l’uno
dall’altro. Poi mi feci coraggio e gli domandai se si sentisse bene.
Lui mormorò qualcosa che voleva dire “Sì, grazie” ma lo disse tra i
44
denti, ch’io a stento riuscii a udirlo. “Vuole che chiami qualcuno?”
domandai ancora, ma lui rifiutò e non insistetti».
L’uomo sembrava in preda a una crisi. Restava lì immobile, a
fissare la strada vuota e scura, respirando affannosamente. Poi,
poco a poco, parve rimettersi.
«Mi scusi» disse il signore, e mio padre: «Si figuri». L’uomo su-
dava copiosamente e allora papà, vedendo che il suo fazzoletto era
fradicio, tentò di estrarre il proprio dalla tasca, dimenticando che
lì teneva stipato il tomo dei Promessi sposi. Il libro cadde, aperto al
frontespizio e l’uomo lo fissò un istante, asciugandosi la fronte col
fazzoletto che gli aveva intanto porto mio padre.
Un sorriso balenò sulle labbra dell’uomo, mentre mio padre rac-
cattava maldestramente il libricciuolo, vergognandosi come un
ladro d’aver svelato a un estraneo quella debolezza da scolaro, di
portarsi il libro idolatrato sempre appresso.
L’uomo raccattò il libro da terra e lo porse a mio padre. «Le pia-
ce?» domandò. Papà annuì arrossendo e confessò che l’adorava.
Tanto, ormai, l’arcano era svelato e non valeva la pena dissimulare
ancora. «Non ho ancora avuto modo, tuttavia, di leggere l’ultima
edizione, quella illustrata dal Gonin. Ce l’ho in bella mostra tra gli
scaffali, ma non ho tempo».
«Di che cosa si occupa? Signor…»
«Mi perdoni… Roberto Turati, avvocato, azzeccagarbugli, se
mi concede la citazione. Sono procuratore legale del Signor Princi-
pe Sanseverino di Capua».
«Beh, la giurisprudenza toglie molto tempo».
«Ha ragione. Me ne starei volentieri a leggere il mio Manzoni.
Sono franco con lei, ormai ha scoperto la mia debolezza!»
«Le piace davvero così tanto?»
«Oh sì, tanto. Ho letto I promessi sposi cinque volte e altrettante
le tragedie. Non credo ci sia miglior compagnia. È come starsene a
passeggio in quei luoghi che non si visiteranno mai, ma che la nostra
anima non può fare a meno di agognare. Mi scusi, sono melodram-
matico, sarà l’effetto dell’ambiente e la stanchezza, signor…?»
«Adesso sì che diventerà melodrammatico. Io sono Alessandro
Manzoni, avvocato Turati».
45
«Giuro su ogni cosa che ho cara che in quell’istante, se il pa-
rapetto del balcone avesse ceduto, condannandomi a morte cer-
ta, l’avrei preferito. Sbiancai, letteralmente, e lui se ne accorse,
perché assunse un’espressione grave, allarmata. Dovetti sedermi.
Trovai una seggiola e mi ci accasciai sopra e iniziai a balbettare
cose strane e incomprensibili. Avevo voglia di frignare e per poco
non lo feci».
«Signor conte, mi scusi, ma è un’emozione troppo forte per me,
spero non ne abbia a male. Sono un pesce fuor d’acqua qui, tra
questi signori, che di certo non rischiano di svenire in circostanze
come questa. La prego di perdonarmi, è un onore poterla conosce-
re di persona» disse papà, tentando di rimettersi in piedi.
«Suvvia, si tranquillizzi avvocato. È segno di salute la sua reazione,
e di emotività, fa bene. Le confesso che anche io ho manifestazioni di
questo genere, problemi di nervi dicono i segaossa, per questo motivo
mi ha trovato così in sordina, che annaspavo al balcone. Mi fanno ef-
fetto gli spazi aperti e i capannelli umani. Clarina e Andrea lo sanno
e, quando accade, lasciano tranquillamente ch’io mi eclissi in solitario,
affinché la crisi passi. Stia sereno: la testimonianza della debolezza al-
trui mette in concordia gli uomini» disse Manzoni.
«Mi parlava con parole affabili, docili, ma restava sulle sue. Mi
sorrideva con la bocca, non con gli occhi. Mi guardava timida-
mente, ostinato a non lasciar trapelare alcun sintomo ulteriore dei
suoi mali. Era cordiale, ma estremamente contrariato, lo percepi-
vo, da quella situazione, mi sembrava di sentir battere il suo cuo-
re affannato, tentare eroicamente di sedare il suo istinto di fuga.
Aveva dato già troppo spettacolo di sé stesso per quella sera. Per
fartela intendere, mi sembrava un padre indisposto che stesse ri-
sollevando il morale a un figlio non suo».
«Mi scusi signori conte, ma io non sono per niente abituato a
frequentare salotti o luoghi mondani. A Napoli, da dove vengo, mi
tengo alla larga da qualsiasi loggia della cultura e preferisco dedi-
carmi in solitudine al dialogo coi miei… numi tutelari, oserei dire».
Manzoni andò a sedersi a una sedia al lato di quella davanti alla
quale stava in piedi mio padre, inducendo papà a fare lo stesso.
Sembrava più tranquillo adesso «Una volpe che fa finta di stare al
46
gioco, però, pronta alla prima occasione a darsi alla fuga» raccon-
tava mio padre.
«Così lei è napoletano. Deve essere una gran bella città Napoli,
non è così? Mi ricordo le descrizioni che ne fece Goethe nel suo
Viaggio in Italia. Un bello spettacolo davvero».
«Ha molte magnificenze, sì. Molte cose ti lasciano inerme per
quanto sono belle e incredibili, ma a tutto questo si lega ciò che non
può mai essere scisso dalla vera bellezza: la morte eterna, spasmo-
dica e impenetrabile. Napoli è la città dei morti, per questo è la più
bella del mondo».
«Dovrò venirci un giorno o l’altro, anche se non s’addice al mio
temperamento».
«Neanche al mio se è per questo, perciò preferisco la solitudine
e le assicuro che colui che impara a isolarsi nella gazzarra di Napoli
e a filtrare solo i rumori di fondo, quelli che vengono dalle cose
eterne da qualche parte sepolte nel tufo delle sue fondamenta, è
l’uomo più felice della terra».
«Ne parla da lirico lei, avvocato. Deve amarla molto la sua
città».
«Amo della mia città quelle cose che non si vedono più, ma che
continuano a strillare da qualche parte, sotto le macerie. È un amo-
re di fantasmi, il mio, una perpetua ricerca di segni tangibili di ciò
che è stato e che posso rammentare solo io. Molte delle cose che
amo di Napoli non esistono più. Sono state annientate, ma io non
posso fare a meno di ricordarle, nella loro incorporeità, malgrado
spesso non le abbia mai viste coi miei occhi».
«Cos’è, per esempio, che ricorda e che non ha mai visto?»
«Beh, io ricordo il Tempio dei Dioscuri, sulla pubblica piazza del
foro, ricordo quando nei giorni d’estate quel marmo brillava nella
sua fulgida luce eburnea o quando torrenti fangosi scendevano la
scalinata che portava al suo sacro perimetro. Ricordo la vista del Gol-
fo che si godeva dalla sede ducale del palazzo del Pretorio, su, a San
Marcellino, quel mare che un tempo era viola come i capelli di Saffo.
Cose come queste ricordo, e sono queste cose che mi struggono di
più, quando vedo quella stessa città, barbara, feroce, aliena a ogni
memoria. Cose che ormai vivono nel silenzio che sta dietro alle stelle».
47
Manzoni fissò mio padre attentamente e per la prima volta que-
gli occhi gli restituirono un accenno di compassione.
«Beh, allora so chi dovrà essere il mio cicerone quando visiterò
la capitale del Regno di re Ferdinando».
«Se questo sogno dovesse avverarsi, signor conte, faccia pure
incetta di me».
Stettero qualche altro momento a parlare nella penombra del
corridoio, finché qualcuno non venne a cercarli e li distrasse dalla
conversazione e Alessandro Manzoni fu restituito alla Storia del
salotto Maffei e mio padre all’oblio d’onde era venuto.

48
SEI
LA LETTERA DEL MESE DI MARZO, 1846

Da bambino amavo assai gli animali. Era una passione assoluta,


che empiva senza requie le mie giornate e le mie fantasie di fanciul-
lo. Si può dire che il mio primo e genuino contatto con gli uomini
sia avvenuto attraverso le bestie.
Una delle prime immagini che ricordo nitidamente di me stesso
è quella in cui sono seduto a terra, sul tappeto dello studio di mio
padre, con uno dei volumi dell’enciclopedia zoologica di Turpin
aperto davanti.
Restavo lunghi momenti a fissare le immagini di quei libri, che mi
restituivano l’idea di un mondo straordinario e vivo, pieno di crea-
ture stupefacenti, entro i cui tratti così remoti io quasi mi smarrivo.
Mio nonno, che ha sempre assecondato le mie passioni erudite,
mi conduceva spesso al museo di zoologia, che all’epoca era appe-
na stato inaugurato nella sua nuova sede alla Casa del Salvatore,
in vicolo Mezzocannone, una strada così stretta e sporca prima del
Risanamento, che a stento ci si poteva passare, a causa dei tintori
che vi tenevano bottega.
In quelle sale, tra gli scaffali di legno e le vetrine, io mi dileguavo
ancor più che sui libri a casa. Ogni bestia impagliata, ogni schele-
tro, ogni guscio o conchiglia mi restituiva un senso d’alienazione
dal corpo, che mi faceva battere il cuore.
C’erano i leoni, le giraffe e le zebre dell’Africa nera, i denti dei
grandi narvali del nord, gli uccelli variopinti e i coccodrilli del ba-
cino del Gange. C’era lo scheletro dell’elefante che fu donato nel
1742 a re Carlo di Borbone e che in quei tempi remoti aveva susci-
tato tanto scalpore e lo scheletro della balena franca, che fu trovata
arenata da qualche parte nel Mediterraneo. Era un viaggio, ogni
volta, quel peregrinare tra le sale, le vetrine e i cartigli.
49
Più d’ogni altra bestia, tuttavia, io prediligevo le creature del
mare, che mi parevano le più misteriose e remote. Celate dalla su-
perficie di cobalto delle acque, nel loro mondo di buio e mistero,
venute alla luce esse rifiorivano, quasi, d’un’altra vita, svelando
solo per metà arcani nei loro occhi mercurici e attoniti.
Costringevo Adele a soffermarci sui banchi dei pescivendoli
quando andavamo al Mercato dei commestibili e a indurre i rudi
venditori a rivelarmi i nomi di quelle bestie.
Una volta, in estate, mio padre fittò una piccola imbarcazione con
equipaggio che ci condusse in gita all’isola di Procida. Mentre navi-
gavamo col vento in poppa e il riverbero d’oro del sole che tagliava la
superficie dell’acqua, avvistammo delle cose che uscivano dall’acqua
e s’inabissavano ancora, eiettando grandi spruzzi d’acqua bianchissi-
ma e schiumosa: erano capodogli. Un branco di grandi cetacei grigi,
allineati in fila, col capobranco in testa e i piccoli protetti al centro, na-
vigava lentamente, procedendo parallelamente all’imbarcazione e io
non potrei ripetere l’emozione straziante che mi colpì in quel momen-
to e ripensandoci ora, dopo più di sessant’anni, credo che emozione
più forte e vivida io non l’abbia mai provata in vita mia come nel
giorno in cui vidi le balene, che correvano verso Gibilterra per andar
a smarrirsi nelle profondità sconfinate dell’Atlantico.
Chi in un modo o chi nell’altro, a casa tutti, comunque, assecon-
davano la mia passione. Mio padre acquistava qualsiasi volumetto
contenesse illustrazioni di bestie (non sapevo leggere ancora e ave-
vo bisogno di qualcuno che mi aiutasse con le didascalie), mamma
mi ricamava bestiole sulle vesti e giocava con me alla lanterna ci-
nese, proiettando sulla parete le ombre del serraglio. Quando zia
Margherita e zio Achille venivano in visita da Roma, mi portavano
sempre un animaletto di legno verniciato, così che presto ebbi un
piccolo zoo personale.
Ma proprio zio Achille possedeva uno degli oggetti più agogna-
ti di tutta la mia infanzia. Il pomo del suo bastone da passeggio,
infatti, era di metallo e aveva la forma quasi perfetta di un riccio.
Quando vedevo quel bastone non volevo far altro che giocarci.
Sicuro di non essere veduto, me ne appropriavo e mi rintanavo da
qualche parte a trastullarmi con la mia refurtiva, finché qualcuno
50
poi non mi stanava, costringendomi a restituire il maltolto, senza il
quale il povero zio Achille non poteva reggersi in piedi.
Il giorno in cui arrivò la lettera del mese di marzo, dunque, ero
seduto come mio solito a terra, col Turpin sulle ginocchia, e mio
padre sbrigava la sua corrispondenza.
A un tratto papà si destò di scatto dalla sua sedia e corse in
corridoio esultante, chiamando a gran voce mia madre. Io rimasi
sbalordito da quella reazione, abbandonai il Turpin al tappeto e
corsi a vedere cos’era accaduto.
«Verrà! Annuncia che verrà, Elena. Guarda, leggi tu stessa» e
porse la lettera a mia madre, che pure aveva a mio avviso un’e-
spressione di immotivato giubilo.
È bene che racconti l’antefatto. Quella sera nel salotto Maffei,
mio padre e Alessandro Manzoni si scambiarono i biglietti da visi-
ta e non dico celie se mio padre accettò quello dello scrittore come
una reliquia.
Tornato a Napoli, dopo qualche mese dall’incontro, papà si fece
ardito – tanto che aveva da perdere? – e scrisse una breve missiva
al Manzoni inviandogli i suoi saluti. E Manzoni rispose, assicuran-
do a mio padre il primo autografo manzoniano d’una collezione
che, in quattro anni, s’era arricchita notevolmente.
Papà venne a sapere che lo scrittore avrebbe dovuto recarsi a
Roma in primavera e così, colta la palla al balzo, gli chiese la cosa
più ardita che, credo, egli avesse mai domandato a qualcuno in
vita sua: di venire a cena, ospite a casa sua a Napoli.
La cosa aveva del singolare. Mica c’erano treni a quel tempo,
che da Roma, in qualche oretta, ti portavano a Napoli. C’erano le
diligenze che partivano all’alba e arrivavano al tramonto, se ti an-
dava bene, trottando sull’Appia, che all’epoca non era certo quella
che fu inaugurata dai Romani. Era un signor viaggio quello da
Roma a Napoli e non tanto semplice.
Mio padre stette dei mesi in apprensione, prima di ricevere
risposta. Non l’ho mai più rivisto in quello stato di prostrazione.
Ogni volta che giungeva una lettera sussultava, col cuore in gola.
«Son stato troppo ardito forse? Sono stato avventato, sciocco!
Ma com’è possibile che Alessandro Manzoni, dico Alessandro
51
Manzoni, si metta in viaggio da Roma per venire a cena da un
azzeccagarbugli a Napoli!» e continuava così, deprecando la sua
dabbenaggine.
Alla fine, tuttavia, la risposta arrivò e fu positiva. Mentre mio
padre andava in solluchero, quasi piangendo di gioia, mamma
lesse in quella missiva che il conte Manzoni avrebbe volentieri
approfittato dell’ospitalità, poiché s’era risoluto a vedere Napoli.
Pregava, dunque, di prenotare a suo nome due camere d’albergo,
una per lui e una per il servitore che aveva a seguito e sperava che
mio padre non avesse dimenticato la sua promessa di fargli da
Cicerone.
Mio padre eruttò come il vulcano tutta la sua gioia sconfinata e si
mise all’opera perché quell’uomo, ch’era amico di Johann Wolfgang
Goethe (e per il quale Giuseppe Verdi avrebbe composto il Requiem)
fosse accolto al meglio delle nostre possibilità.
Come sia accaduta una cosa del genere, io ancora me lo doman-
do e non ci trovo una risposta. Cosa mai spinse lo scrittore vivente
più famoso a quel tempo, il conte Manzoni, per il quale credo an-
che re Ferdinando avrebbe fatto apparecchiare una tavola solenne,
ad accettare un invito a cena a casa di un anonimo avvocato? Mah!
Misteri della Provvidenza. Alla fine, pure don Abbondio, treme-
bondo e pavido curato di campagna, si trovò a tu per tu col cardi-
nale Federico Borromeo. Almeno, si racconta.
Comunque, quei giorni furono i più seccanti della mia vita di
bambino. La casa era in tumulto e non ci si trovava pace. Mio pa-
dre aveva ordinato che ogni cosa in casa fosse lavata, spolverata,
lucidata. Qualsiasi cosa, dai tappeti alle tende, dall’argenteria alle
porcellane, dai mobili ai lampadari. Adele e Gioacchino dovettero
fare per quattro. «Neanche dovesse arrivare il papa» mugugnava
tra i denti Adele.
Per la cena, che si sarebbe tenuta in una fresca sera di marzo,
mio padre aveva ordinato ad Adele di preparare il timballo di mac-
cheroni, la pietanza che in tutto il Regno delle Due Sicilie voleva
dire mensa solenne. In più, papà ordinò tutti i beni di Dio che Ade-
le fosse riuscita a preparare quella sera, e per aiutarla prese una
servetta a mezzo servizio in quei giorni, che destò le attenzioni di
52
Gioacchino, che era un diavolo e papà dovette redarguirlo in malo
modo.
Ricordo che addirittura mio padre fece andare a prendere il
ghiaccio e lo fece stipare nelle cantine del palazzo, perché vole-
va che alla fine del pranzo l’ospite potesse gustare un sorbetto di
frutta.
Io ero frastornato da quelle novità e da quel trambusto, che non
mi lasciavano in pace a godermi le figure della mia bella enciclope-
dia. Non capivo chi stessimo attendendo, né perché. Ero come una
banderuola tra Maestrale e Scirocco.
Mio nonno era altrettanto orgoglioso di questa cosa quanto mio
padre. Non stava nella pelle d’incontrare lo scrittore e di sapere
due o tre cose sui liberali milanesi. Mio padre s’adirò: «Niente poli-
tica a casa mia!» e giù a litigare.
Alla fine, il gran giorno arrivò. Manzoni era stato alloggiato
all’Albergo delle Crocelle al Chiatamone, uno dei più belli di Na-
poli, in cui aveva soggiornato anche Giacomo Casanova ai suoi
tempi.
La carrozza di Manzoni giunse nel tardo pomeriggio, mentre
tramontava. Mio padre sudava e teneva il fazzoletto a portata di
mano, tant’era nervoso. Io me ne stavo da una parte accanto a mia
madre, vicino alla porta. M’avevano messo un vestitino buono,
blu scuro, col colletto di pizzo e i calzoni corti. Non riuscivo pro-
prio a capacitarmi di tutta quella solennità.
Poi bussarono alla porta, e Alessandro Manzoni entrò in casa
nostra, seguito da un anonimo servo in tenuta bigia. Era un uomo
alto, almeno così lo ricordo io, vestito di nero quella sera, una bella
redingote, la camicia bianca, la cravatta grigio antracite. Aveva
occhi verdi d’una tonalità particolare: erano limpidi, ma facili a
intorbidirsi, come certi stagni supremi, ma dal fondo limoso. Ave-
va la chioma ingrigita, ma ancora puntellata qua e là da riccioli
vagamente fulvi, e le basette che gli rasentavano il mento, folte e
già canute. Era affilato in volto, aguzzo nel mento, aveva labbra
piccole e un colorito pallido. Aveva un porro sulla fronte, sopra
l’orbita sinistra. Odorava di cedro, di bergamotto, a me verrebbe
dire di fiori bagnati, un odore fresco, gentile.
53
«Signor conte, è un onore incommensurabile quello che mi ha
concesso stasera» proferì mio padre, disarmato ormai davanti alla
figura sorridente dello scrittore.
Eppure, ora che ci ripenso, quelle impressioni che aveva avuto
mio padre al salotto Maffei sussistono anche in me. Manzoni non
era un uomo che concedeva tutto sé stesso agli altri, anzi. Era un
uomo timido, delicato, diffidente e costantemente imbarazzato.
Aveva, tuttavia, dei momenti febbrili e se ne usciva con certe ef-
fusioni insolite, come accadde quella sera. Era una strana creatura
anch’egli, come quelle che ammiravo sui libri, ma che parlava e
scriveva come se Dio gli avesse tenuto la mano.
Mio padre presentò la sua famiglia a Don Lisander. Allora me
lo trovai faccia a faccia. «Saluta, Stefano, suvvia» mi esortò mio
padre, ma io ero intimorito, forse dallo scarico di tutta quella ten-
sione accumulatasi in quel tempo. Lo guardai di soppiatto e lui
mi sorrise, ma solo con la bocca, i suoi occhi erano ben lungi da
compartecipare all’azione. «Sei un bel bambino, Stefano» si limitò
a dire e mi fece una carezza e sentii la ruvidezza dei calli dei suoi
polpastrelli sul viso e ogni volta che ho riletto I promessi sposi ho
pensato a quei calli, e a quanto tempo quelle mani avevano retto la
penna per diventare così ruvide e dure.
Dato che la cena non era ancora ultimata, mio padre e il nonno
condussero Manzoni nello studio, mentre il servo veniva licenzia-
to in cucina.
Mio padre, naturalmente, mostrò al suo amico il suo orgoglio
più grande, e non ero io, ma la sua biblioteca.
«Ecco, qui trascorro le ore in cui il lavoro non mi obbliga a star
appresso ai casi degli altri» sorrise mio padre, mentre Manzoni
curiosava tra gli scaffali. Io continuavo a tenermi alla larga, ma a
studiarlo e guardarlo di sottecchi, per capire chi fosse e cosa voles-
se da noi quel signore appuntito.
«Interessante questa, vedo che è completa. È un’opera rara oggi-
giorno» commentò Manzoni: parlava della mia enciclopedia, quella
del Turpin. «Oh, quella è la passione di Stefano» esordì mio nonno,
chiamandomi in causa. «Se ne sta ore a sfogliare quei volumi, seduto
a terra in questo studio. Farà lo zoologo un giorno, suppongo».
54
Non appena capii che si parlava della mia enciclopedia, mi feci
avanti e uscii dalla penombra. «Davvero sei appassionato di ani-
mali, Stefano? Io lo sono di piante. Ho un giardino a casa mia,
vicino Milano, dove ho coltivato tante piante, provenienti da ogni
parte del mondo» disse, e io esordii: «Anche io ho tanti animali» e
corsi via, per tornare poi coi giocattoli di legno che mi aveva rega-
lato zia Margherita.
«Ma che belli che sono! E tu conosci i nomi di tutti questi ani-
mali?»
«Certo!»
«E questo cos’è? Così rugoso e verde?»
«Quello è un coccodrillo, è pericoloso».
«Sai, quand’era bambino, mio figlio Enrico aveva dei porcellini
d’India. Vuoi sapere che faceva? Li portava a pascolo, ma quelli
scappavano da una parte e dall’altra e non c’era modo di farli cam-
minare tutti insieme. Sapessi come s’arrabbiava!»
Io lo guardai con un par d’occhi scintillanti, poiché mai avrei
pensato di poter possedere un animale vivo, dato che mia madre
non voleva assolutamente.
Gli occhi del Manzoni poco a poco si distesero. Chiese a mio
padre di poter prendere un volume dell’enciclopedia di Turpin,
s’accomodò su una poltrona, e poi mi domandò: «Ti piacerebbe
mostrarmi qualcuno di questi animali, Stefano?»
Mi aveva in pugno e non si sarebbe liberato di me facilmente.
Stemmo fino all’annuncio dell’«a tavola» a sfogliare il tomo, e a
ogni pagina io pronunciavo con solennità il nome della bestia rap-
presentata, mentre mio padre e mio nonno facevano capannello,
messi in disparte da un moccioso.
Alessandro Manzoni aveva perso già quattro figli all’epoca e
altri tre ne avrebbe visti morire in seguito. La figlia Sofia era morta
ventottenne soltanto l’anno prima. Chissà se a causa di quel vuoto
lasciato nel suo cuore diffidente si decise a catalogar bestiole con
un bambino di sei anni.
Ci mettemmo a tavola non appena Gioacchino ci avvisò ch’era
pronto. Manzoni mangiò di gusto ed era curioso delle pietanze
napoletane e fece il bis quasi d’ogni cosa. Soprattutto dei dolci.
55
Mangiavamo tranquillamente, chiacchierando più che altro del-
le differenze tra la cucina napoletana e quella milanese, quando
il nonno esordì: «Signor conte, mi dica, come si comportano gli
Austriaci a Milano? Sanno farsi voler bene?»
Ci fu un attimo di silenzio e mio padre diventò verde e piantò
un paio d’occhi infuocati in faccia al nonno. «Era una domanda
non solo fuori luogo, ma imbecille, da ignorante, da ragazzino»
diceva sempre mio padre.
Manzoni sorrise. «Che vuole che le dica, signor Turati? Il povero
governatore Spaur ce la mette tutta, ma non credo che faccia piacere
a molti veder sventolare in cielo le bandiere con l’aquila bicipite. La
gente comincia a essere stanca di far da colonia, come immagino voi
qui vi siate seccati di veder sbandierate delle dabbenaggini a mo’ di
vessilli del potere costituito. Come si comportano gli Austriaci? Se voi
immaginiate siano come gli antichi spagnoli, beh, vi sbagliate. Sono fi-
niti quei tempi. Tuttavia, non sentire che l’aria che respiri, che il vento
che ti scompiglia i capelli, che la terra che hai sotto i piedi t’appartiene,
ma è di qualcun altro che sta lontano, e invia i suoi azzimati sgherri
vestiti di bianco a preservare quel possesso, beh, questo diviene intol-
lerabile, più della rapina, più dello stupro, se mi concedete il termine.
È una condanna crudele non potersi riconoscere, amico mio. Tutto
questo è destinato a cambiare, comunque. È durato troppo e forse
non ci sarà neanche bisogno di una spinta perché questo mondo cada
nel baratro dove s’è avviato già molto tempo fa. Almeno, credo io».
«Amen» sorrise a sua volta mio nonno e alzò il calice brindando,
mentre mio padre non la finiva di fissarlo truce. Poi si parlò d’altro
e la cosa finì lì.
Mentre eravamo ancora seduti e Adele era intenta a versare il
caffè, io mi alzai dal mio posto e mi avviai per andare al bagno,
ma malauguratamente Manzoni mi intercettò prima ch’io potessi
uscire e mi fece sedere sulle sue ginocchia.
«Questo è il futuro, caro Turati. Giovanotti appassionati, che
sapranno ben amministrare l’eredità del Progresso che gli sarà con-
ferita» disse Manzoni ballonzolandomi sulle gambe.
Io dovevo far pipì e Manzoni continuava a tenermi seduto sulle
ginocchia e parlare con mio padre. Era un tormento. Sentivo una
56
spina che voleva uscire da lì sotto, pungente e fastidiosa e il ca-
valluccio che mi faceva fare Manzoni acuiva quello strazio. Avrei
voluto rivelare che mi scappava, ma me ne vergognavo. Alla fine,
però, non ce la feci più. La sentii scendere calda e lenta lungo le
gambe nude, tra i calzoni corti, sulle ginocchia di Alessandro Man-
zoni. Fu un sollievo passeggero, seguito da un durevole e orribile
imbarazzo. Manzoni rise e questo acuì il mio sconforto. Mio padre
divenne doppiamente verde e voleva gettarsi dal balcone, credo io.
Manzoni non la smetteva di ridere e io colsi l’occasione per scap-
pare via e rifugiarmi da qualche parte, sperando che qualcuno,
poi, impietosito, m’avesse soccorso. «Ecco, vede signor Turati, il
piccolo ha già compreso come trattare le cariatidi di quest’era de-
caduta!»
Anche mio padre non riuscì a trattenere più le risa e l’intera
tavolata si stemperò in una fragorosa risata, che fece accorrere
Adele e la serva a mezzo servizio dalla cucina.
Dopo cena, Manzoni e mio padre si sedettero in studio, a bere
un brandy e a fumare. O meglio, mio padre fumava.
Don Lisander s’era ripulito alla meglio e aveva impedito al suo
servitore (che aveva cenato in cucina) di andare fino all’albergo a
prendere un cambio di calzoni.
Io ero stato cambiato da mia madre, che non m’aveva rimpro-
verato e questo mi diede misura del fatto che nessuno se l’era presa
a male per il mio fallo.
Raggiunsi la porta dello studio e mi misi da una parte, timoroso
ancora, ma pur desideroso di star con loro, e papà e Manzoni fece-
ro finta di non vedermi, continuando a discutere.
Il nonno s’era ritirato in camera sua: non era sua abitudine tirar
tardi e si stancava ormai molto facilmente.
«Sono stato davvero bene, signor Turati, la ringrazio».
«Si figuri, conte. Sto bevendo brandy col più grande scrittore vi-
vente, e in casa mia per giunta. Sono io che dovrei ringraziare lei».
«Le lusinghe non fanno bene, signor Turati».
«E chi la lusinga? Non ne ha bisogno, soprattutto delle mie. Lo
dico davvero, signor conte: non potrei desiderare di meglio. Io
sono cresciuto con le sue opere, mi son fatto uomo e, per quel che
57
m’è stato possibile, mi son fatto erudito, per merito di esse. Lasci
ch’io mi conceda d’osannare un idolo, ora che ho questo privilegio
e mi ci posso abbandonare, senza tema d’esser considerato ridico-
lo, almeno spero».
«Affatto, Roberto, affatto, ma, mi perdoni, ripensavo alla di-
scussione avuta a tavola, allo, come dire… spontaneo intervento
di suo padre. L’ho vista indispettirsi, forse non condivide qual-
che… idea di suo padre?»
«Mio padre è un uomo impulsivo, lo è sempre stato. L’avesse
conosciuto da giovane! A volte, devo ammetterlo, è stato un geni-
tore insopportabile. Sa com’è che sono diventato avvocato? Perché
mio padre voleva che io seguissi le orme di Francesco Mario Paga-
no, che ai tempi della Rivoluzione era, lui dice, un suo amico. Mio
padre ha fatto il giacobino tutta la vita ed è arrivato a sessantaset-
te anni senza un graffio, una condanna, pulito come al principio.
Non sopporta le mie idee e si diverte a stuzzicarmi. Lui crede che
libertà e uguaglianza siano le uniche ragioni di vita d’un uomo e
così finiamo per scontrarci, spesso devo dire».
«Lei non crede in libertà e uguaglianza, quindi?»
«Non saprei. Come le dissi quella volta a Milano, io credo in mol-
te cose che non esistono più. Credo in cose che non possono essere
definite con le parole. La libertà e l’uguaglianza sono parole di mor-
te. Liberi sono gli esseri privi di desiderio e uguali sono i corpi sotto
terra. Questo non riesco a tollerare: questi uomini, questi giacobini,
chiamiamoli così, si riempiono la bocca e il cuore di vuote utopie e
lasciano che poi queste prendano il sopravvento e si sostituiscano
agli stessi mali contro i quali furono scagliate. Io non giudico l’idea
in sé, ma l’illusione del suo compimento.
Sono monarchico, signor conte. Credo nel re, cosa che mio pa-
dre ha sempre disprezzato, però gli domando: “Per quale motivo
tu sei qui? E gli altri, Mario Pagano, Eleonora Fonseca, Domenico
Cirillo dormono per sempre?”. Non che vorrei la stessa sorte fosse
toccata anche a mio padre, questo sia chiaro, ma non posso fare
a meno di domandarmi lui cosa abbia fatto per questi ideali che
propina e che mi scaglia addosso per ferirmi.
Io sono realista perché la monarchia rappresenta ancora il mon-
58
do che sta sparendo. Sono monarchico perché so che domani non
ci saranno più re. Sono monarchico perché solo amando davvero
le cose si possono distruggere. Uno dei motivi fondamentali per
cui amo i suoi libri e che da essi ho appreso dell’eterno dissidio tra
etica e storia.
Lei, da un lato, parla di un mondo cieco e feroce, governato
dalle leggi della forza e della sopraffazione e dall’altro parla del-
la potenza morale, di quella energica abnegazione dell’anima a
non sottostare ai rigidi e spregiudicati codici della ferocia, per
non smarrirsi, per non annichilire. E in mezzo il guazzabuglio,
quel conflitto irrimediabile tra quel che c’è e quel che dovrebbe
esserci.
Ciò che temo è che questo conflitto, prima o poi, si risolva. Se
vinceranno i liberali, quelli che più d’ogni altri, oggigiorno, rap-
presentano il fanatismo dell’etica, pensa davvero che perseguiran-
no l’ideale del conflitto, che ha garantito la sopravvivenza a un
mondo feroce, ma innocente? Oppure decideranno di rimediare,
innalzando idoli, caldeggiando eroi, sventrando l’abisso scuro del
mondo antico e lastricandolo della loro indomita certezza d’essere
nel giusto? Non saranno, forse, essi stessi, i vecchi illuministi, a
stemperare le tenebre nella loro invincibile verità e a fare un mon-
do in cui non sarà più necessario essere liberi davvero, ma soltanto
crederlo?
I nostri monarchi pensano ancora di poter governare come ai
tempi dei re di Spagna, con la corona in testa, lo scettro in mano
e i sudditi ai piedi. Sono convinti che il mondo sia sempre quello
in cui germogliarono le radici del loro dispotismo. Fanno pena,
signor conte, perché sono incoscienti e per questo sono ancora più
pericolosi.
Non riescono a capire quello che sta arrivando, quel Progres-
so che muta le cose e le assimila in una serie di infinite ugua-
glianze. Sono incapaci di capire la natura inconsistente dei nuo-
vi monarchi che si preparano a spodestarli. Domani i giacobini
vinceranno e non ci saranno più re, né sudditi, né corone, troni
e scettri. Non ci saranno le parate militari, le adunanze, le nasci-
te dei delfini e i funerali solenni, i cortei e le feste, gli anniversari
59
regali e le pompe magne. Domani ci saranno governi invisibili,
leggi e codici che sanciranno libertà e uguaglianza e l’imperato-
re che sta avanzando, il Progresso, per mezzo di queste medesi-
me chimere imbastirà i gioghi della coazione e della violenza che
porteremo domani, nelle compagini più remote dell’avvenire.
Se i re di Spagna d’un tempo davano feste, farina e forca per
ingraziarsi il popolo, i sovrani del futuro daranno la libertà e
con essa finirà davvero ogni cosa e il mondo se ne andrà alla
malora senza che nessuno più s’avveda dell’odore marcescente
della sua cancrena. Ne sono sicuro: i re non muoiono oggi, i re
stanno arrivando».
Poi mio padre tacque, prese un sorso dal suo bicchiere e tirò una
boccata al suo sigaro, mentre Manzoni se ne stava assorto nella
poltrona e le loro ombre danzavano sulla libreria, proiettate dalla
luce tremola del lume.
«Io sono stanco di credere che le cose vive possano avere un
senso, signor conte. “Che sa il cuore? Appena un poco di quello che
è già accaduto”. L’ho imparato da lei. Le cose in cui credo davvero
sono spettri. Anche il mio re non è il grasso reazionario che sta
a Palazzo Reale, ma un ragazzino triste che vidi tanto tempo fa
in corteo funebre. Io spero che Dio mi dia la forza di sopportare,
solo questo, finché non arriverà il giorno in cui sarà finita. Non ho
voglia di vedere quello che verrà domani, perché l’ho già visto: una
landa senza coscienza».
Papà tacque di nuovo e lo sguardo di Manzoni si rischiarò del
tutto alla luce del lume e i suoi occhi erano come due foglie turbate
dal fuoco e fissavano l’avvocato grevemente.
«Lei, Turati ha… ma a che serve parlare? Lasciamo al silenzio la
consolazione di credere che almeno qualcuno l’ascolta, in questo
mondo pieno di voci che non tace mai».
«Vieni fuori da lì, tu» disse mio padre e io seppi che si rivolgeva
a me. Mi avvicinai con un muso lungo fino ai piedi e lo sguardo
basso.
«Dai la buona notte al signor conte e fila a letto» mi disse mio
padre, sforzandosi d’imitare un severo.
«Buona notte» mormorai e il conte mi accarezzò il viso e mi
60
restituì uno sguardo in cui ancora oggi io riesco a rivedere tutta la
dolcezza degli uomini d’un tempo.
Manzoni restò a Napoli poco più di un giorno e mio padre gli
fece davvero da cicerone, ma io non fui ammesso a quella passeg-
giata.
Prima di far ritorno a Milano, Manzoni regalò a mio padre un
manoscritto dell’ode Cinque maggio, che papà incorniciò e affisse
nel suo studio e che ancora oggi posseggo, con le fresie rinsecchite
che papà applicò in omaggio, alla cornice.
Dopo quella volta, non si rividero mai più.

61
SETTE
L’AMICO DI FRANCESCO MARIO PAGANO, 1799

Mio nonno era giacobino, ma a modo suo. Ricordo benissimo


certe volte in cui girava per casa indossando la parrucca incipria-
ta, che lo faceva sembrare ammattito. Io lo guardavo sorridendo,
perché mi sembrava buffo vederlo con quell’affare sulla testa e lui
mi guardava con una cert’aria di compassione e mi sorrideva a sua
volta. Diceva: «Avessi visto coi tuoi occhi, Stefanuccio, quel che si
fidavano di fare gli uomini quando indossavano le parrucche!»
Io non capivo e continuavo a ridergli in faccia, credendo che
quelle parole facessero parte d’una celia iniziata con quel buffo
arnese in testa.
Era un uomo irriverente, polemico, intollerante, vulcanico, ar-
rogante, caustico e malinconico mio nonno. Tutta la sua figura
ispirava questa comunione di moti che gli pullulavano dentro:
alto, ossuto, aguzzo come Voltaire, grigio di capelli, che portava
impomatati all’indietro, senza favoriti, senza barba, sempre vesti-
to di scuro o di nero, con certe redingote antiquate, con le code, i
calzoni attillati che finivano nelle calze e gli scarpini con la fibbia
dorata. E in quante lotte ho visto impegnarsi mio padre e il nonno
quando questi doveva uscire e voleva per forza indossare il cap-
potto carrick, mentre mio padre voleva che si mettesse qualcosa di
meno antidiluviano. «Non è carnevale, smettetela, adesso vorrete
pure mettervi la parrucca in strada!»,
«Vedrai se non lo faccio!» e così via.
Nonno non riusciva ad accettare in cuor suo che il secolo XVIII
fosse tramontato da oltre quarant’anni. «Come usava nel Settecen-
to» era una delle sue espressioni più ricorrenti.
Lui idolatrava il secolo in cui era nato. «Era il secolo degli uomi-
ni eleganti e dei tiranni. Era il secolo della bellezza e della virtù. Ma
62
soprattutto era il secolo in cui l’uomo ha scoperto la verità» mi ri-
peteva di continuo, propinandomi da leggere le opere di tutti i suoi
amati philosophes: dai francesi, Voltaire, Rousseau, Montesquieu,
Diderot, per arrivare ai napoletani, Vico, Genovesi, Filangieri, Pa-
gano, eccetera, eccetera.
Nonno era un simulacro del suo tempo. Era tanto Voltaire
quanto Rousseau, da un lato materiale, corrosivo, sagace, dall’al-
tro malinconico, pensoso, sognatore. Doveva portare da solo il far-
dello di un mondo irrimediabilmente scomparso, dico io, e allora si
ingegnava a incarnarne insieme tutte le sue manifestazioni.
Mio nonno è stato il mio precettore. Ho imparato a leggere, a
scrivere a far di conto grazie a lui. Ed ho imparato molto altro: il
latino, l’algebra, la storia dei popoli e la geografia, la letteratura e
il francese. Era un maestro inflessibile e severo e se c’era qualcosa
su cui lui e papà andavano d’accordo era proprio la mia istruzione:
ero destinato all’università e non sarebbero state ammesse obiezio-
ni di sorta.
Lo studio di mio padre era la mia aula. A volte, quando guardo
i miei alunni scoppiare in lacrime, o quando il loro volto si tinge di
terrore mentre li interrogo o anche quando restano attoniti, sbian-
cando d’ignoranza, non posso fare a meno di ricordare me stesso,
seduto al loro stesso posto, e la nostalgia allora mi gioca un brutto
scherzo e la severità si stempra, tutta all’improvviso: non riesco
a restare irreprensibile com’era mio nonno, che non si lasciò mai
intenerire dalle mie lacrime.
Iniziammo le nostre lezioni ch’ero molto giovane, avrò avuto
sei o sette anni. Ci mettevamo seduti la mattina, verso le otto, e
finivamo a ora di pranzo, per riprender poi subito dopo.
Era sorprendente come mio nonno padroneggiasse quel sape-
re così vasto senza la minima incertezza. Non lo dimenticherò
mai, seduto all’altro lato della grande scrivania, vestito di nero,
col volto impassibile, che non era quello abituale del nonno, ma
del precettore che s’impossessava di lui, del gesuita fanatico, che
non si tratteneva neanche dal battermi, qualora l’avesse reputato
necessario. Tuttavia, non gli davo motivo di lamentarsi troppo di
me. Certo non mi piaceva starmene incollato alla sedia ore e ore,
63
soprattutto da bambino, ma sapevo essere uno studente volente-
roso, diligente e curioso. Amavo le lettere, la storia, che mio nonno
conosceva a menadito, e adoravo ascoltare le sue lunghe filippiche
sui re di Roma, sulle guerre tra Cesare e Pompeo, sui contrasti tra
l’imperatore Federico e Gregorio IX, su Giovanni de’ Medici e sulla
Battaglia di Vienna. Il mio cruccio più grande erano la matematica
e le scienze, che io perseguivo alla meglio, ma senza risultati otti-
mali e questo indusse mio nonno a concludere che no, non avrei
mai fatto lo zoologo, ma forse il letterato sì.
Alla fine di ogni corso sostenevo un esame da privatista e mi
veniva rilasciato un diploma che attestava il superamento dell’an-
no scolastico.
Andò così fino all’università, alla quale mi iscrissi all’età di di-
ciotto anni, ma che finii in ritardo, per motivi che racconterò dopo.
La storia di mio nonno però, oltre a essere un coacervo di date,
era un lungo racconto dell’evoluzione del pensiero umano, dalla
barbarie dei tempi antichi che seguirono la sapienza della Grecia e
la gloria di Roma, fino al tempo dei Lumi, che avevano portato la
verità nel mondo, diradando le tenebre dell’ignoranza e castrando
i tiranni.
Tanti eroi si succedevano nelle parole di mio nonno: da Armo-
dio e Aristogitone che attentarono alla vita d’Ipparco, tiranno d’A-
tene, a Bruto e Cassio che assassinarono Cesare in senato; da Ro-
smunda che ordì congiura contro Alboino; a Carlo d’Inghilterra,
assassinato dal popolo sulla pubblica piazza, fino a re Luigi XVI,
che fece la stessa fine a Parigi.
Era una storia di tirannicidi la sua, dopotutto. E di idee. Se i
nomi degli assassini e dei despoti erano numerosi nei racconti di
mio nonno, quelli dei pensatori lo erano ancora di più. Allora udivi
di Voltaire imprigionato alla Bastiglia per aver scritto versi satirici
contro Filippo d’Orleans; di Rousseau che fioreggiava dopo aver
teorizzato la libertà nel Contratto sociale; di Diderot e D’Alembert
che ideavano l’Enciclopedie; dei fratelli Verri che pubblicavano il
Caffè a Milano, mentre il loro amico Beccaria condannava la pena
di morte col suo Dei delitti e delle pene. Tutti questi uomini io me
li figuravo come gli eroi dell’epica, come Achille e Odisseo, tanto
64
nonno li idolatrava. «Purtroppo sono nato troppo tardi. La mia
condanna è stata quella di assistere alla fine dell’epoca gloriosa
degli uomini illuminati» diceva spesso e diveniva malinconico e
si lasciava andare alla nostalgia. «Quando arrivò Napoleone tutto
andò alla malora, le idee, i sogni, i principi, ogni cosa. Napoleone
si portò dietro la guerra e l’ira dei tiranni che presero il suo posto
quando lo esiliarono a Sant’Elena. Ma io ho fiducia, domani saran-
no i nuovi filosofi a riaccendere i lumi. Fa’ di tutto per essere tra di
loro, Stefano: non vorrai trovarti come me, te l’assicuro, vecchio e
pieno di rimpianti».
Mio nonno nacque nell’anno in cui morirono sia Voltaire che
Rousseau, il 1778, ventinovesimo del regno di Ferdinando IV di
Napoli.
Abitava in via Port’Alba, la strada dei librai, che allora condu-
ceva a largo Mercatello, dove si teneva il mercato e ora conduce,
invece, a piazza Dante Alighieri.
Nonno rimase orfano di madre quando aveva sette anni. La mia
bisnonna, che si chiamava Margherita come mia zia, morì di parto
e la seppellirono nella tomba di famiglia al cimitero delle 366 fos-
se, che re Ferdinando aveva fatto costruire nel 1762 ai piedi del
monte Lautrecco, come si chiamava all’epoca, e che ora diciamo
Poggioreale. In quella stessa tomba, attorno alla quale il cimitero si
è allargato in tutti questi anni, ci dormono i miei bisnonni, i nonni,
i miei genitori, zia Margherita e ci dormirò io, quando verrà il mio
turno.
Il mio bisnonno, Roberto Turati senior, era un uomo ricco. Pos-
sedeva cinque navi da carico che attraversavano tutto il Mediter-
raneo, da Tangeri a Beirut, e aveva cordiali rapporti di commercio
pure coi Turchi, che all’epoca avevano ancora la fama di pirati
sanguinari. Commerciava in tutto: tessuti, spezie, minerali, sale.
Anche schiavi, qualche volta, ma per i paesi musulmani. Oltre alle
rendite di mare, il bisnonno aveva quelle di terra: ettari e ettari al
sole, tra i casali di Acerra e Marcianise.
Mio nonno visse una gioventù da aristocratico, malgrado non
lo fosse. Ebbe precettori per ogni materia, che gli impartirono par-
te di quell’erudizione che poi lui stesso trasmise a me, sebbene egli
65
fosse assai più riottoso di quanto non fossi io. Visse negli agi, nel
lusso e nell’opulenza.
Oggigiorno, che il Risanamento ha cancellato e continua a can-
cellare ogni traccia di molte memorie di Napoli, se mio nonno
fosse vivo se la prenderebbe a male e andrebbe dritto dal sindaco
signor Marchese del Carretto a urlargli in faccia il suo sdegno da
giacobino invasato.
Il quartiere di Porto, dove mio nonno ha vissuto molta della sua
adolescenza dissoluta, non esiste quasi più com’era al suo tempo. I
fondaci, che il poeta Di Giacomo ha definito scarrafunere, le betto-
le, le taverne, i bordelli e crocicchi da tagliagole non esistono più e
il mare si è ritirato e non si sente più l’odore di alghe, urina e vino
che aleggiava in quei luoghi quando il nonno era solo un ragazzo
ricco e vizioso.
Già, perché mio nonno, prima di fare il radicale, è stato la peg-
gior specie di scioperato che si conosca. Perciò era giacobino a
modo suo.
Dato che il bisnonno teneva alla fonda le navi al molo dell’Im-
macolatella e nel porto tutti lo conoscevano e gli portavano rispet-
to, il nonno ne approfittava.
Era un bevitore incallito, un oppiomane, un puttaniere di prima
categoria, non mi vergogno a dirlo. Neanche lui se ne vergognava.
«Chi si rifiuta di ammetter chi e cosa è stato non sarà mai pronto a
cambiare in meglio, ricordatelo» diceva.
Era un giovane elegante, aveva meno di vent’anni quando fre-
quentava il porto, ma già sembrava un signore navigato. Vestiva
sempre alla moda, con la redingote sgargiante, le calze di seta fi-
nissima, gli scarpini lucidi, il tricorno e, come un vezzo, portava
ancora la parrucca a volte, anche se all’epoca era già passata di
moda, sostituita dall’acconciatura alla tirannicida, quella di Bruto,
dati i tempi che correvano.
Lo si vedeva sempre in compagnia di perdigiorno nullafacenti
come lui, ricchi come lui o quasi. Frequentava i peggiori postacci
del Porto, in testa sempre a un folto gruppo di soci, che da quelle
parti non era mai prudente andarci da soli.
Lo conoscevano tutti. Lo conoscevano i locandieri, con i quali
66
non s’era mai lagnato dei prezzi; lo conoscevano le prostitute, che
se lo contendevano e gli facevano pagare mezza tariffa, perché
mio nonno era bello, prestante, castano d’occhi e capelli; lo cono-
scevano i tagliaborse, che non si avvicinavano mai a lui e ai suoi
perché erano di casa; i mercanti che arrivavano da ogni parte del
mondo e che parlavano ogni lingua: turco, libanese, greco, arabo,
catalano, croato e chi più ne ha, ne metta. Lo conoscevano e, a
modo loro, lo rispettavano.
Al mio bisnonno, naturalmente, non andava a genio niente del
modo di fare del figlio. In verità, a nonno Roberto non importava
nient’altro che il suo lavoro, che era arricchirsi, e ci badava poco a
quel figlio scapestrato: che stesse da mane a sera coi precettori sui
libri o in mezzo a una strada, a sbronzarsi fino all’alba con le putta-
ne, lui ripeteva sempre e solo: «Non combinerete niente di buono,
signor figlio, con la vostra condotta». Voleva imitare i nobili, ai
quali non sarebbe mai appartenuto.
Mio nonno sapeva badare a sé stesso, comunque. Almeno fino a
un certo punto. Capiva di non voler diventare come suo padre, un
mercante ignorante e grezzo, che gli aveva fornito dei precettori
solo perché i figli dei signori li avevano, così studiava, qualsiasi
cosa, divorava volumi su volumi e si curvava la schiena sui libri.
Ma quando calava la sera, come un lupo mannaro tornava alle sue
bettole e alle sue donnacce, come a lavarsi l’anima da tutta l’erudi-
zione subita durante il giorno.
Tuttavia, quei localacci e quelle stamberghe non erano frequen-
tate soltanto da borseggiatori e malviventi della peggior specie. Ci
andava anche il re.
«Sai come chiamavano la buonanima (e giù uno sputo) di Fer-
dinando IV? Il Lazzarone. Era un ignorante di prima categoria, un
facilone incallito, un libertino senza speranze. All’epoca aveva qua-
si quarant’anni e non oso immaginare di cosa fosse stato capace
quando ne aveva venti. Era un uomo frivolo e non aveva alcun
diritto di sedersi sul trono, lui più d’ogni altro suo collega. Andava a
pesca con la lampara di notte, a caccia tutto il santo giorno, sempre
in fuga, sempre lontano da palazzo, sempre a far altro. Non so da
dove gli sia venuta tutta quella scienza di metter su San Leucio e
67
il Real Museo Borbonico, o di metter al bando i Gesuiti, ma credo
non fosse farina del suo sacco. Ci sarà stato lo zampino di Tanucci
dietro. Il Ferdinando che conobbi e vidi coi miei stessi occhi fu solo
un dissoluto e un assassino. Sapessi quante volte ho visto il Naso-
ne ubriacarsi insieme a qualche puttana tornita, vestito d’abiti bor-
ghesi, da pescivendolo o da mercante, circondato sempre da una
masnada di truci sgherri, che credevano di passare inosservati, ma
che ce l’avevano stampato in fronte che erano sbirri. Io lo guardavo
e pensavo che quello, che titillava i capezzoli a una prostituta, beh
quello era il mio re, il sovrano a cui dovevo rispetto e obbedienza.
Allora la mia vita, così poco ortodossa e così scombinata dagli ec-
cessi, sembrava giustificata dalla condotta viziosa di colui il quale
avrebbe dovuto essere il campione della civiltà e dell’etica. Alzavo
il calice, quindi, e bevevo alla salute del mio re, al re che legalizza-
va la mia indecenza, che smentiva mio padre quando mi chiama-
va «sconsiderato» e che metteva a tacere persino la mia coscienza
quando essa tentava di rivalersi anche oltre la condotta ineccepibile
di studente, con la quale la mettevo a tacere. Era il peggior baratro
entro il quale potessi andare a cacciarmi: avallato dalla monarchia,
quindi dalla legge, e da una coscienza connivente, pronta a illimpi-
dirsi alle parole dei dotti precettori».
In che modo, dunque, il figlio perdigiorno d’un volgare possi-
dente incontrò Francesco Mario Pagano, «il più grande giurista
di tutti i tempi», come lo definì lo zar di Tutte le Russie Paolo I?
Semplice, perché ci finì davanti come imputato.
Nel 1796, mentre Napoleone Bonaparte iniziava la Campagna
d’Italia, mio nonno comparve davanti al giudice con l’accusa di
lesioni aggravate e tentato omicidio. «Doveva pur succedere pri-
ma o poi: chi va con lo zoppo, impara a zoppicare» ammetteva lui,
laconico.
Devo, tuttavia, spezzare una lancia in favore di mio nonno, che
quando raccontava questa storia aveva ancora l’amaro in bocca e
s’attribuiva tutta la colpa dell’accaduto. Mio nonno aveva difeso,
non attaccato.
Una sera, all’inizio dell’anno (aveva appena compiuto i diciotto
anni), nonno, coi suoi soci, si ritrovò nella solita locanda a bere a
68
dismisura. Entrò un altro gruppo di avventori, peggio di loro, e ne
scoppiò una rissa per motivi futili, aggravati dall’alcol.
Uno dei rivali sfoderò un coltello e voleva colpire un amico del non-
no. Lui se ne accorse, sfoderò lo spadino che teneva sempre al fianco e
gli inflisse un fendente allo stomaco. Al sangue, la rissa si fermò e tutti
si diedero alla fuga. Restarono nella locanda soltanto mio nonno e la
sua vittima, che respirava a fatica e si torceva per il dolore e iniziava a
diventar pallida per il sangue perduto. Nonno rimase accanto al ferito,
che era un ragazzo come lui e gli teneva la mano, per fargli coraggio e
quello, a sua volta, la stringeva. Arrivarono gli sbirri e li trovarono in
quello stato. Domandarono chi fosse il colpevole del ferimento e sba-
lordirono quando mio nonno ammise la colpa: in un luogo come quello
non avrebbero mai pensato di trovare un galantuomo.
Lo portarono via e mio nonno si fece qualche giorno alla Vicaria
in attesa del processo. Il bisnonno andò su tutte le furie, ma gli
pagò un costoso avvocato e fu presente il giorno del processo.
Per fortuna il ferito, che si rivelò essere un marchesino di Pie-
tracatella, la scampò e non rese l’anima a Dio. C’era pure lui al
processo, camminando mezzo piegato per la ferita che ancora gli
doleva, ma che andava rimarginandosi.
Il giudice a quell’udienza fu, appunto, Francesco Mario Pagano.

«Era uno degli ultimi processi che avrebbe presieduto in vita


sua. Era già in odore di giacobinismo all’epoca, soprattutto dopo
i fatti del ’94, quando aveva difeso Galiani e De Deo della Società
Patriottica, senza riuscire, tuttavia, a salvarli dal capestro. Di lì a
pochi mesi sarebbe stato accusato di cospirazione contro la mo-
narchia e imprigionato, fino al ’98. Quel giorno, tuttavia, era sol-
tanto un giudice, e il giudice dall’aria più severa che avessi potuto
immaginare.
Era un bell’uomo sulla quarantina, bruno di capelli e d’occhi.
Aveva uno sguardo abissale, profondo come un pozzo: due occhi
neri e lucidi, smarriti nel buio delle orbite. Aveva capelli lisci, senza
pomata, senza fronzoli di sorta e il colorito pallido degli eruditi.
Davanti a lui divenni minuscolo. Quegli occhi neri e intensi mi
fissavano e mi scavavano dentro, come badili in mano a uno ster-
69
ratore. Erano implacabili e vigili come stessero praticando un’au-
topsia.
“Dunque, mio giovane signor Turati, dagli atti leggo che lei è
accusato addirittura di tentato omicidio ai danni del qui presente
Gaetano marchese di Pietracatella. Ci può spiegare come andarono
i fatti, prima di sentire l’accusa?” esordì il giudice, perentorio.
Il mio azzeccagarbugli m’aveva consigliato di mentire, di dire
che non ero stato io, anzi, che in quella locanda, quella sera, io non
c’ero mai stato. Mentire, mentire a oltranza, come fanno tutti gli
avvocati. Tanto non esiste la verità.
Avrei voluto seguire il suo consiglio, perché avevo paura, una
paura terribile. I giorni che avevo trascorso alla Vicaria erano stati
tremendi. Avevo dormito tra i topi, gli scarafaggi e le pulci, nella
sporcizia più nera, accanto a uomini disgustosi e violenti. Temevo
di tornarci e di doverci restare un bel po’.
Poi guardai bene quegli occhi che mi fissavano e capii che qual-
siasi menzogna avessero proferito le mie labbra, essi se ne sarebbe-
ro accorti. Anzi, pareva stessero attendendo le mie bugie.
Allora raccontai la verità, mentre il mio avvocato mi fissava
sbalordito e adirato. Raccontai tutto quello che era accaduto, di
com’era nata la rissa, istigata dal vino, e di come avevo trafitto
il marchese di Pietracatella. Mi accusai d’aver attentato alla vita
d’una persona, d’un giovane come me e che per quanto potessi
esserne profondamente pentito, meritavo comunque una puni-
zione.
Fu allora che il marchese si alzò, emettendo un gemito. Vestiva
una redingote sgargiante, col tricorno e il carrick, ed era accom-
pagnato da un servo. “Posso dire una parola?” chiese cordialmente
don Gaetano e il giudice, sorridendo (ed era la prima volta e mi
diede un po’ di sollievo), perché quel giovanotto s’atteggiava ad
adulto, gli concesse la parola.
“Quella sera alla locanda, il signor Turati mi ha sì ferito, ma è
restato con me fino all’arrivo dei gendarmi. Non capisco perché
abbia taciuto questo particolare in sua difesa. Mentre tutti scam-
pavano all’arresto, compresi i miei amici, egli m’è restato vicino,
stringendomi la mano fino all’arrivo dei soccorsi. Si è comporta-
70
to da gentiluomo e voglio che questo venga messo agli atti. Sono
pronto a perdonarlo”.
Tutta l’aula iniziò a mormorare.
Mario Pagano gettò di nuovo il suo sguardo su di me: io avevo
il capo basso, non riuscivo a guardarlo. Ci fu silenzio, mentre il
giudice rifletteva sul da farsi.
“Siete soltanto ragazzi. Giovanotti con molti soldi in tasca e
poco sale in zucca. Questo è il problema. Potrete essere marchesi
o mercanti, non fa differenza. Siete tutti uguali: ragazzi annoiati e
spaventati dalla vita. Guardatevi, signor Turati, siete uno scriccio-
lo nelle mie mani. Qualche giorno alla Vicaria vi ha fatto perdere
la bella cera e il portamento.
Se vi ci ficcassi ancora là sotto, nelle segrete, cos’altro perde-
reste? La condanna per tentato omicidio è di vent’anni. Li volete
vent’anni per riflettere, signor Turati? Chiuso nelle segrete della
Vicaria? Che ne dite? Giovanotti che dovrebbero apparire assen-
nati, di buona famiglia, giovani pieni di speranze, ridotti in questo
stato dalla loro stupidità.
Voi credete che un mucchio di denari cacciati in tasca vi renda
liberi di dire e fare a vostro piacimento, ma la libertà non è solo un
diritto inalienabile, è un dovere, il dovere di farne un uso degno.
Sono tentato da condannarvi, signor Turati, se non altro per dare
un esempio evidente a quanti, come voi, stanno sprecando la pro-
pria esistenza. Sprecare la giovinezza in nome di… che cosa poi?
Sapreste dirmi chi o cosa v’induca a comportarvi in tale maniera
deplorevole? Ve lo dico io, la noia.
Voi siete annoiati, voi, Turati e i giovanotti come voi, annoiati e
vuoti come botti dopo essere state in balia dei beoni. La noia vi am-
mazza, vi distrugge. Levatevela di dosso il prima possibile, prima
che sia inevitabile e vi troviate in galera, tra i topi o peggio, prima
di trovarvi vecchi e decrepiti e pieni di rimpianto. Ma basta ponti-
ficare, adesso. Signori Turati, voi vi siete macchiato di un crimine
orribile, l’atto peggiore che si possa immaginare, attentare alla vita
di un altro uomo.
Meritereste la galera, ma per la deposizione rilasciata in vostro
favore dal qui presente marchese di Pietracatella, per aver dimo-
71
strato d’esservi pentito, a quanto pare, del vostro gesto riprovevo-
le e, in ultimo, per la vostra giovane età, io ho deciso di assolvervi
e ridarvi in libertà.
Tuttavia, vi lascio un ammonimento, se dovreste presentarvi
un’altra volta ancora al mio tribunale, per qualsiasi motivo, anche
il più futile, se ancora una volta dimostrerete di non tenere caro il
dono prezioso della vostra libertà, io farò di tutto per condannar-
vi alla pena capitale. Allora saranno i lazzari, a piazza Mercato,
davanti al capestro tra i due obelischi, a dirvi le ultime parole di
conforto della vostra vita, ci siamo intesi?”»

Mio nonno annuì e piangeva mentre lo faceva. Piangeva per la


paura che l’aveva attanagliato durante tutta quell’arringa e pian-
geva più d’ogni altra cosa per la vergogna. Se lo stava mangiando
vivo, la vergogna.
Così fu libero, libero di tornare alle taverne, libero di tornare alle
puttane e al vino. Ma non lo fece, anzi, cambiò del tutto.
Quando il giudice Pagano venne arrestato, ci fu un grande cla-
more, così mio nonno volle sapere di più, comprendere realmente
chi fosse questo Mario Pagano, ch’era famoso all’epoca, e chi fos-
sero questi vituperati giacobini, ch’erano dipinti come dei diavoli
assetati di sangue.
Iniziò a leggere libri proibiti. Non poteva acquistarli nelle li-
brerie di Port’Alba, prima di tutto perché non potevano venderli,
poi perché era rischioso: molti delatori erano in agguato, pronti a
denunciare i più avventati per un po’ di tornaconto. Allora mio
nonno si rivolse ai suoi amici mercanti. Ora il contrabbando che
foraggiava non era più fatto di droghe e narcotici, ma di libri. Libri
illegali.
Lesse Rousseau, Voltaire, Diderot, Montesquieu, Beccaria e
tanti altri che un giorno io avrei sentito nominare come eroi e pre-
cursori. E, naturalmente, lesse Pagano. Lesse Gli esuli tebani e il
Corradino, lesse le Considerazioni sul processo criminale e i Saggi
politici. Lesse, e ogni pagina era una breccia, ogni breccia uno spi-
raglio di luce.

72
«Ogni parola, ogni pensiero, ogni considerazione di Pagano e
di quegli uomini che l’avevano preceduto era al contempo uno
scoprirmi cadavere e un ritrovarmi redivivo. Ogni parola era
una stilettata, che mi colpiva nello spreco della vita che stavo
facendo, ma mi riaccendeva di speranza e di sogni che credevo
inesistenti.
La libertà, quel verbo che avevo sempre coltivato come un sus-
sidiario utile null’altro che al mio libertinaggio, diveniva marmo-
reo nella mia anima, venerabile. Intuivo che c’era dell’altro oltre al
mondo accessorio che io avevo sempre perseguito. Esisteva una
trascendenza, che non era l’aldilà dei preti o la magniloquenza dei
profitti, no: era lo spirito, scevro di costrizioni, libero di essere e
percepire, non condannato, non ristretto, vincolato soltanto al
perseguimento del sapere e della conoscenza. Era questo il mondo
nuovo che quei giacobini, quei diavoli temuti come Belzebù stava-
no promulgando: il mondo dei liberi e dei sapienti.
Feci di tutto, corruppi guardie, feci favori, pagai salato, ma alla
fine riuscii a tenere un colloquio con Mario Pagano, in prigione.
Era il 1797, Pagano sarebbe restato ancora un anno in galera e
ne aveva ancora due da vivere. Stava alla Vicaria, nelle segrete di
quel carcere famoso, entro le cui mura aveva egli stesso minaccia-
to di cacciarmi per due decenni.
Mi fecero entrare in una cella buia, nera di fumo alle pareti,
maleodorante di muffa e umidità. C’era un tavolaccio di legno al
centro, con due scranni ai lati. Le pareti erano nude, fatiscenti:
l’intonaco veniva via a brandelli a causa delle infiltrazioni.
Era rischioso farsi vedere là, insieme a un reo liberale, a confa-
bulare a quattrocchi, ma avevo diciannove anni ed ero sconside-
rato in quel tempo remoto e mi fidavo dei soldi che avevo fatto
cadere nelle tasche dei miei probabili delatori.
C’erano due porte in quella stanza, da una entrai io e dall’altra,
poco dopo, entrò Pagano, scortato da due guardie. Fu sorpreso di
vedermi.
Mi fissò un istante, poi si sedette: era pallido, smunto, spossato.
Mi sedetti di fronte a lui, tremante.
“Non mi sarei mai aspettato una visita simile” disse lui, serio.
73
“Volevo parlarvi, signor giudice, volevo dirvi qualcosa prima di…”
“Prima di?”
“Prima che fosse tardi. Ho ripensato alle vostre parole. Ogni
giorno da quando sono comparso al vostro cospetto al tribunale.
Non le ho dimenticate. Volevo assicurarvi che non dovrà condan-
narmi a morte”.
“Anche volendo, figlio mio, nelle condizioni in cui mi trovo è
ben difficile ch’io possa assolvere ai miei doveri giudiziari” e sor-
rise.
“Non parlo della pena capitale, ma della pena che sta qui, nel
petto. Quando ammazzi qualcuno qua dentro, è morto per sem-
pre. Non voglio morire dentro di voi, signor giudice. Sarebbe quel-
la la condanna più grave”.
“Che cosa volete da me, Turati?”
“Niente, signor giudice. Voglio che guardiate coi vostri occhi
quali sono gli effetti della vera libertà su un essere umano”.
“State attento: a non tutti piace sentir parlare di libertà. E qua
dentro è fuori luogo, tra l’altro”.
“Io ho letto, in questi mesi. Ho studiato. Ho imparato che la liber-
tà non si conquista che col ferro, e non si mantiene che col coraggio,
l’ho imparato da voi. Il mio ferro sono state le parole degli illumi-
nati, il mio coraggio è stata la fede nel cambiamento. Mi sento una
persona più degna, adesso. E volevo ringraziarvi, solo questo”.
Pagano mi guardò a lungo. Durante quel colloquio non fece
che abbozzare sorrisi, mugugnare. Niente altro. Parlavamo a bassa
voce, ma gli aguzzini erano a breve distanza. Erano parole perico-
lose quelle che mi uscivano dalla bocca e il guaio era che io non me
ne rendevo conto.
“Grazie per la visita, mio giovane amico. Abbiate cura di voi»
concluse e se ne andò, senza commentare né avallare in alcun
modo le mie scelte di vita, lasciandomi con un sapore amaro in
bocca, là dove c’erano state parole ch’io avevo inteso di miele”».

Mio nonno non andò a trovarlo più in galera, sarebbe stato dif-
ficile. Nel luglio del 1798 Pagano fu liberato e riuscì a espatriare a
Roma, dove intanto era stata proclamata la Repubblica.
74
L’epoca napoleonica, si sa, fu un’età di tumulti. Da quando ave-
va valicato le Alpi, nel ’96, alla testa dell’Armata d’Italia, Bonapar-
te s’era portato dietro non solo la guerra, ma qualcosa che nessun
condottiero, dai tempi di Alessandro il Grande o di Giulio Cesare,
era stato in grado di far sorgere dalle rovine delle sue battaglie: un
mondo nuovo.
Il passaggio del Corso significava l’avvento della rivoluzione,
dappertutto. Ogni terra, villaggio, città, luogo, landa, lido che l’ar-
mata di Napoleone toccasse, diventava immediatamente vittima
della rivoluzione. Le chiamavano Repubbliche sorelle quelle sorte
a emulazione di quella francese e sorsero in tutta Italia, da Alba
ad Ancona, da Bergamo a Bologna, da Brescia a Crema, dalla Re-
pubblica Cispadana a quella Cisalpina, da quella Ligure a quelle
Piemontese e Romana: tutte le città ebbero il loro saggio di libertà.
Anche Napoli.
Quando Mario Pagano riparò a Roma, nel mese di luglio, papa
Pio VI era già stato imprigionato dai Francesi e tradotto oltralpe,
dove sarebbe morto. La Repubblica era in pieno fermento, al suo
rigoglio. Pagano ricevette la cattedra di Diritto nel Collegio Ro-
mano.
Alla fine di novembre di quello stesso 1798, con Napoleone in
Egitto e i Francesi a Roma, re Ferdinando tentò di far guerra a quei
Galli che grattavano alla sua porta. Aiutato dall’esercito dell’am-
miraglio Nelson, Ferdinando organizzò un’armata di circa settan-
tamila uomini, la affidò al generale Karl von Mack, un bavarese,
e marciò su Roma, intenzionato a rimettere il papa al posto suo.
Ferdinando, poverino, non si rendeva conto d’essere un uomo
ridicolo. Non aveva niente del re e del condottiero e forse, nel pro-
fondo, lui lo sapeva. Il suo regno è durato tanti anni, sessantasei
per l’esattezza, proprio perché il re non si prendeva troppo sul se-
rio. Un uomo che preferiva andare a caccia agli Astroni o a pesca
con le lampare, che i lazzari consideravano un loro simile, non era
certo paragonabile ai temibili reali dell’epoca, come Caterina di
Russia o Federico il Grande. Era un re napoletano, che viveva ai
piedi d’un monte distruttore, un monarca che doveva fare il mo-
narca, a cui piaceva pure, a volte, ma che non ne sentiva l’imma-
75
ne peso morale e, se lo sentiva, faceva di tutto per scrollarselo di
dosso.
Fatto sta che quando arrivò a Roma, i cittadini, guardandolo
atteggiarsi a conquistatore, gli risero dietro. E penso che in cuor
suo, ridesse anche lui.
I Francesi, comunque, c’era da aspettarselo, contrattaccarono. Il
generale Jean Etienne Championnet s’era fatto già le sue battaglie.
A vent’anni, nel 1782, aveva partecipato all’assedio di Gibilterra,
contro gli inglesi, aveva sedato le rivolte della Giura, ai tempi del
Terrore, e fatto guerra nel Palatinato, sotto Pichegru. Era un solda-
to come ce ne furono solo ai tempi di Napoleone: gloriosi e audaci.
Championnet attaccò le truppe dei borbonici a Civita Castella-
na, a cinquanta chilometri da Roma e gli inflisse una bella batosta.
Alla fine, le armate di Ferdinando andarono in rotta.
La disfatta dell’esercito fu seguita dal rientro immediato del re
a Napoli. Chi glielo faceva fare di restare? Coi Francesi alle costole
a nord, coi giacobini che già stavano coi laps a quadriglie’, come le
furie, che ci restava a fare lui a Napoli? A fare la fine dei cognati in
Francia? No, grazie.
Il re s’imbarcò di nascosto sulla Vanguard di Horatio Nelson,
assieme alla famiglia e a John Acton, ch’era Segretario di Stato
all’epoca, e salpò per Palermo. Si portò con sé l’Erario di Stato e
tutti i beni della Corona (e che doveva fare, lasciarli ai lazzari e ai
giacobini?), diede l’ordine di incendiare la flotta (così i giacobini
se la pigliano in quel posto) e lasciò l’onere di parlare coi Francesi
al povero generale Pignatelli, il Vicario, che, alla fine, si incontrò
con Championnet a Sparanise, vicino Caserta, e firmò l’armistizio.
Però non mi piace che si pensi che re Ferdinando fosse un ma-
scalzone incallito. Sebbene mio nonno lo dipingesse come il peg-
gior essere umano mai vissuto, io l’ho studiato un poco e posso
dire che non era così riprovevole.
Era uno che ci stava male a quel posto, sul trono. Uno che avreb-
be vissuto volentieri una vita diversa, magari quella di un ricco ga-
lantuomo, come ce n’erano tanti all’epoca, con le rendite, i cavalli,
la residenza e la villa, lontano dai guai e dalle preoccupazioni. Pure
lui, alla fine, fa pena. Condannato a fare il re, lui che non era capa-
76
ce che di andare a caccia, sbalestrato in un’epoca che di re non ne
voleva più sapere, sposato con un’austriaca feroce, preoccupata
per la propria testa, che poteva fare la fine che aveva fatto quella
della sorella, Maria Antonietta. Era questo Ferdinando ed è per
questo che è restato tanti anni: una farsa. Lui sapeva di essere una
farsa, di essere una maschera con la quale occultare il vuoto di un
regno che già all’epoca vacillava e che poi è crollato del tutto, poco
più di sessant’anni dopo.
Lui sapeva che prendersela troppo non serve a nulla. Mi pare
di vederlo, di sentirlo: «Ma che vonno ’sti francise? Che vulite, ’a
libertà, l’eguaglianza? E le vulite da ’sti lazzari, da ’sti fetienti? Ma
che ve site mise ’n capa? Ccà nisciuno sape che se n’ha da fa’ da’ Ri-
voluzione. Vogliono fare guerra a Pulcinella, vogliono fare, ’sti gia-
cubini. Questi fetenti non la vogliono la libertà, perché questi sono
già liberi. Anzi, voi li dovete curare dalla libertà, questo è il male di
Napoli! ’A gente fa chell’ che vo’, e se ne fottono ’e filosofia, poesia
e de tutte li cazze ca ’nce vulite mettere ’n capa. Qua la gente deve
vedere come apparare la giornata, non vogliono pensare. Non li
avete mai sentiti? “Dio e il re ci pensano”, che vuol dire secondo
voi? Andate, andate, educateli, fate le scuole, le accademie, io non
ci ho provato secondo voi, mo song’ overamente scemo? Nun vonn’
sape’ niente! Questi vogliono essere lazzari e basta. Non vogliono
bene a nessuno, né al re, né alla città, né a niente. Vogliono bene
solo a loro stessi. Poi vedrete che vi aspetta. Vedrete, come vi vorrà
bene, il nobile popolo partenopeo!»
Comunque, alla fine, dopo l’armistizio, a Napoli scoppiò la guer-
ra civile. Mio nonno se li ricordava bene quei giorni di gennaio.
«Stefano, faceva paura. Veramente paura. A metà gennaio,
quando i Francesi iniziarono ad arrivare a Napoli, la gente era una
furia. Il re se n’era andato a Palermo, maledetto, i Francesi arriva-
vano in armi, e il popolo non ne voleva sapere.
Si sentiva sparare tutti i giorni. Anche il Vicario Pignatelli andò
via, perché se lo prendevano i Francesi o i lazzari avrebbe fatto una
brutta fine. Mi ricordo a Porta Capuana, quando barricarono l’in-
gresso, i bambini, Stefano, i bambini tagliavano le gole. Erano ar-
mati di tutto: forconi, zappe, schioppi, coltelli. Gente della strada,
77
lazzari fetenti della peggior specie. Non li volevano i Francesi, di
nessuna maniera. Si scannavano come i maiali gli uni con gli altri.
Quando i Francesi presero Castel Sant’Elmo, alla fine di genna-
io, tremila persone furono ammazzate negli scontri. Non uscivo
quasi mai di casa, anche perché se non t’ammazzavano le solda-
taglie, t’ammazzavano i mariuoli, che approfittavano del caos per
fare affari.
Io non avevo contatto con gli altri giacobini all’epoca. Conosce-
vo Pagano, che stava ancora a Roma e sarebbe tornato all’inizio di
febbraio, ma gli altri non li avevo mai visti. M’ero limitato a legge-
re e a maturare un’idea, tutto qui. Mi facevano paura quel sangue
e quella confusione. Sarà poco onorevole, ma è così.
La Repubblica Partenopea fu proclamata il 23 gennaio 1799,
tre giorni dopo la presa di Sant’Elmo, quando ormai Championnet
faceva da padrone e il popolo s’era rassegnato.
Il presidente era Carlo Lauberg, un chimico e matematico, figlio
d’un vecchio ufficiale di Carlo III, a cui, poi, successe Ciaia, ch’era
pugliese ed era un poeta.
Erano venticinque i membri effettivi: c’era il dottor Cirillo, che abi-
tava qua vicino, a via dei Fossi, di fronte ai torrioni aragonesi. Pensa,
era stato persino medico di corte, voluto apposta da Maria Carolina:
era un botanico, un entomologo, uno scienziato rinomato in tutta
Europa, tanto che aveva conosciuto di persona Diderot e Benjamin
Franklin. Suo padre era stato corrispondente di Isacco Newton. Era
un gentiluomo, il dottor Cirillo, me lo ricordo bene, elegante, sempre
con la redingote color terra, silenzioso, educato. Che peccato!
Poi c’era Delfico, che era un’economista e veniva dagli Abruz-
zi; c’era Baffi, che veniva dall’Epiro, ma era d’origini albanesi ed
era un grecista stimatissimo. E poi c’era Pagano, che fu inserito
nell’organico prima ancora di tornare a Napoli.
Si vedevano i tricolori blu, giallo e rosso sventolare dappertut-
to. Pure i lazzari, che non ne avevano voluto sapere dei Francesi,
iniziarono a fare buon viso a quella gente che, dopo tutto, non era
poi così diabolica.
Iniziarono a pubblicare un quotidiano, perché all’epoca il gior-
nale era segno di Progresso: il Monitore Napoletano e lo dirigeva
78
la buon’anima di Eleonora Fonseca, la portoghese, che Dio l’abbia
in gloria, povera donna. Pensa, era amica di Metastasio, era stata
poetessa di corte, aveva partecipato ai salotti di Gaetano Filangie-
ri… ma di che parliamo, Stefano? Erano uno meglio dell’altro! Era
gente di cultura, ma non come quelli che se ne stanno in pantofole,
nello studio, e leggono, e leggono e rimangono fermi. Per dirti,
solamente le cose che ho imparato da Mario Pagano ti potrebbero
far capire che intendo.
Quando venni a sapere del suo ritorno, a febbraio, mi precipitai
a casa sua. Abitava all’Arenella, in collina, che all’’epoca era uno
spettacolo di campagne verdissime, di prati, di boschi.
Quando mi vide alla sua porta, si mise a ridere. Mi lasciò entra-
re, però, e mi fece accomodare nel suo studio.
“Allora non demordi, vero?” disse, e mi diede del tu e mi fece
effetto.
“No, giudice, non demordo”.
“Che capa tosta, figlio mio. Ebbene che vuoi da me? Non ti è
bastata la conversazione in cella?”
“Conversazione, giudice? Ho parlato solo io!”
“Hai parlato solo tu e io non ti ho dato corda perché era pe-
ricoloso. Sei giovane, questo non è il momento di fare eroismi,
guaglio’, tu pensa a studiare, pensa a stare tranquillo e vedrai che
andrai bene”.
“Ma io voglio dare una mano!”
“Che mano vuoi dare? Vorresti mettere su la costituente? Tu
devi studiare, devi formarti. Tu sei un embrione adesso, un albe-
rello, un frutto acerbo”.
“Ma sono libero!”
“Eh, vabbè, libero… ma…”
“La libertà è la facoltà dell’uomo di valersi di tutte le forze mora-
li e fisiche come gli piace. L’avete detto voi”.
“Sì, il libero arbitrio è un diritto inalienabile dell’essere umano,
è questo che vuoi sentirti dire, è vero? Ma tu hai anche il dovere di
farne un uso degno. Che vorresti fare? Unirti alla Repubblica? Fare
il giacobino? Come dicono quei lazzari fetenti, e magari andare alla
malora, un giorno o l’altro. Tu vedi che sta succedendo? Noi da una
79
parte, il popolo dall’altra. Non se ne fregano della libertà, non ne
vogliono sapere. Se Championnet se ne va, noi, tutti quanti, faccia-
mo la fine dei sorici. Tu sei giovane e il tuo momento non è questo.
Ora devi guardare e devi imparare. Di Emanuele De Deo ne è già
bastato uno. Non serve a niente mandare a morire la meglio gioven-
tù. Domani sarà il tuo momento. Tu ti riempi la bocca della parola
libertà, ma essa non deve essere mai alienata al dovere di perpetrar-
la nel giusto, supportandola con coscienza e cultura. I lazzari sono
liberi, indubbiamente, ma sono ignoranti, quindi saranno sempre
schiavi di qualcun altro e non se ne renderanno conto mai. Che sia
il re o la Repubblica, a loro non importa niente. Credono di essere
al di sopra. Credono di essere dei. Riempiendoti la bocca di liber-
tà, tu non fai diversamente dai lazzari. Prima devi essere cosciente
di quello che sei, capire veramente come funziona l’esistenza, e poi
puoi tentare di cambiare la realtà che ti circonda. Hai capito?”
Annuii, non sapevo cosa dire. In tutto quel tempo m’aveva
guardato coi suoi occhi profondi e severi e m’aveva straziato. Ci
ho messo più di quarant’anni per capire quello che diceva e alla
fine mi sono trovato vecchio e pieno di rimorsi. Vedi, quella gente
credeva in cose che potrebbero accadere veramente se solo l’uomo
avesse a cuore sé stesso. Libertà e uguaglianza erano utopie, ma
l’utopia più grande è credere che l’uomo possa cambiare. Non ac-
cadrà mai, non è mai accaduto. E di certo non accade a Napoli, ai
tempi della Repubblica Partenopea”».

Nonno diventava sempre triste quando arrivava a questo punto


del racconto. Iniziava a parlare dei sanfedisti e del cardinale Ruffo
e di come, alla fine, tutto se ne andò alla malora per davvero.

«I sanfedisti erano infami. Tutti. Dal primo all’ultimo. Dio e il


re, Dio e il re, questo erano. Dio e il re. Nessun Dio degno di questo
nome e nessun re che avesse meritato la corona avrebbero avallato
quello che fecero i sanfedisti.
Assassini, briganti, macellai col pelo sullo stomaco. Pensa che
Michele Pezza, Fra Diavolo, il brigante che fu catturato dal gene-
rale Hugo, era un membro dell’armata della Santa Fede.
80
Quanta gente hanno ammazzato, violentato, depredato senza
alcuna distinzione. Contadini, popolani, giacobini, donne, uomini
tra la Calabria e la Basilicata, tra Napoli e la Terra di Lavoro, sono
passati sotto i loro artigli. Gente malefica, al seguito di quell’altro
infame di Fabrizio Ruffo.
Championnet lasciò Napoli il 7 maggio. Era accaduto che Napo-
leone era rimasto bloccato in Egitto, dopo la battaglia di Abukir e
che gli Austro-Russi, a nord, avevano inflitto un paio di percosse
sonore all’esercito francese, così, per dar man forte ai loro, il genera-
le Championnet dovette abbandonare la Repubblica al suo destino.
Arrivarono nel giorno di Sant’Antonio, i sanfedisti. Si combatté
al Ponte della Maddalena, e si perse, si combatté al Forte di Viglie-
na, e si perse pure là. I sanfedisti, poco a poco, si presero Napoli.
Alla fine, tornò pure il re.
“Che vi avevo detto? Non ve l’avevo detto? Avete voluto fare la
guerra a Pulcinella? Ben vi sta, site jute a ferni’ a capa sotto. Pulci-
nella non lo ammazzate né mo, né mai, perché è già morto. I morti
non s’ammazzano, i liberi non si liberano. Qua, una sola libertà si
deve sperare e si chiama Vesuvio. Io ve l’avevo detto, avete voluto
fare ’e capa vostra, e mo… andrete tutti a fare i pupi di carne alle
guarattelle di piazza Mercato”.
Io mi ero tenuto in disparte. Avevo paura. Tanta paura. Pensa-
vo a quello che m’aveva detto Pagano, poi pensavo che invece do-
vevo andare. Mi rigiravo le mani, mi scervellavo, ma non sapevo
che pesci pigliare.
Stefano, alla fine sai che ho fatto? Niente. Sono rimasto a casa,
tra i libri. Non ho preso le pistole o la spada. Non sono andato a
Sant’Elmo, dove Mario Pagano, Domenico Cirillo, Eleonora Fon-
seca e gli altri s’erano asserragliati per l’ultima difesa. Non ho fatto
niente, perché ero terrorizzato e perché m’avevano detto d’aspet-
tare. Avevo ventun anni all’epoca, ero un ragazzino spaventato e
sai qual è stata la mia condanna? Che ho avuto ventun anni per
tutta la vita. Mario Pagano aveva detto “Domani sarà il tuo mo-
mento”, ma non è mai arrivato. Non l’ho mai fatto arrivare. Non è
arrivato nel ’15, quando c’era da difendere Murat, non è arrivato
nel ’20, quando c’era da andare coi carbonari. Non è mai arrivato,
81
perché io sono un vigliacco. Mario Pagano aveva ragione, ci ho
messo più di quarant’anni, ma era questo il mio destino: capire chi
sono, veramente. Io sono un vigliacco».

Nonno mi sorrideva stranamente a questo punto e aggiungeva:


«Ne ammazzarono centoventiquattro a piazza Mercato. Impicca-
ti i borghesi, decapitati i nobili. Pensa, l’ammiraglio Caracciolo lo
buttarono nella rada, dopo averlo appeso all’albero maestro.
Andai a vederlo Mario Pagano, quando toccò a lui. Quanta
gente c’era quel giorno, immersa in una puzza di sudore da far
vomitare e in un caldo opprimente, pure se era ottobre.
Avevano messo il capestro tra i due obelischi, dove era morto
pure Masaniello, dove era stato cimato Corradino di Svevia, dove
morivano i napoletani, tra il campanile del Carmine, la chiesa di
Santa Croce e Purgatorio e quella di Sant’Eligio Maggiore. Dove
arrivava l’odore del mare, pieno di memorie di bivalvi e alghe,
dove s’udiva il canto d’esilio dei gabbiani, e la sirena lenta delle
navi alla fonda.
La gente fremeva di veder qualcuno morire. Ammazzarono
prima Pignacelli, ch’era abruzzese ed era pure lui un giurista, poi
toccò a Ciaia e alla fine uccisero Pagano.
Salì su quel palco in maniche di camicia, mentre la gente impre-
cava e rideva e gli ambulanti vendevano pizze fritte, spassatempi e
caldarroste, ch’era periodo.
Pagano guardò la gente, guardò la facciata di Santa Croce e il
boia gli mise il cappio al collo.
Poi mi riconobbe. Ne sono sicuro, Stefano. Sono sicuro di poche
cose, ormai, ma di questa non ho dubbi. Mi fissò, e io fissai lui. Pian-
gevo. Lui a un tratto sorrise e prima di impiccarlo, prima di vederlo
penzolare e scuotersi in spasmi, accompagnato dallo scrosciar d’ap-
plausi della folla, disse, ad alta voce: “Due generazioni di vittime e di
carnefici si succederanno, ma l’Italia, o signori, si farà”.
Io spero solo una cosa, che quel giorno d’ottobre, tra la folla,
guardandomi negli occhi, Francesco Mario Pagano non si sia reso
conto che non era vero».

82
OTTO
IL QUARANTOTTO, 1848

Io ricordo bene quando arrivò a Napoli il Quarantotto, quello


che accadde, gli spari che si sentivano per aria, le barricate, gli as-
sedi, la furia del re, le condanne, la mezza serenità che ne seguì.
Perché fu il Quarantotto, non quello che accadde dopo, a colpire a
morte il Regno delle Due Sicilie.
Di rivoluzioni nel Regno, prima di quella, ce ne furono tante.
Si sparò nel 1820, quando i carbonari guidarono la rivolta per la
costituzione e furono spezzati dagli Austriaci. Si sparò in Cilento,
nel ’28, tra il mare e gli ulivi, quando De Luca e i Capozzoli guida-
rono i moti contro Francesco, che mandò poi i suoi a infilzare teste
sulle picche, insegnando il mestiere ai Piemontesi. Si fece guerra a
Penne, in Abruzzo, nel ’37. Si sparò a Cosenza, nel marzo del ’44,
e a giugno arrivarono due fratelli veneziani a portare la rivolta,
Attilio ed Emilio Bandiera, disertori della Marina austriaca, capeg-
giando una ventina di persone e trovando la morte al sole di luglio
con le spalle al muro al Vallone di Rovito. Si battagliò ancora in
Calabria, poi, durante i moti del 1847. Insomma, s’era fatta guerra
dura e aspra in tutto il Regno almeno dal tempo di re Giuseppe
Napoleone.
Ma il 1848 fu un’altra cosa. Fu, prima di tutto, la prima gran-
de mancanza. Mancò la vittoria definitiva dei liberali, mancò la
lungimiranza dei sovrani, mancò la coscienza delle masse. Mancò
tutto questo e pure, alla fine, dopo il Quarantotto, niente restò al
suo posto, e non solo nel Regno delle Due Sicilie, ma in tutta Eu-
ropa. Fu l’ultimo, grande sollievo dei Borbone di Napoli la vittoria
sui moti del Quarantotto. Fu l’ultimo sollievo dei re d’un tempo.
Quello che c’è oggi, questo mondo di monarchi costituzionali, di
re affiancati al parlamento, di tiranni grandi e piccoli, di sovrani
illuminati e non, è un mondo già in rovina. Ci vorranno ancora,
83
cinque, dieci, forse vent’anni, ma alla fine il mondo dei re non esi-
sterà più. Ed è stato il Progresso a iniziare la lenta marcia verso la
democrazia e la decadenza.
Solo cinque anni fa, in Russia è scoppiata la rivoluzione. Per
vent’anni, in tutta Europa, gli anarchici si sono dati man forte per
organizzare il caos. Hanno ammazzato re Umberto come un cane e
non era neanche iniziato il secolo. Gli imperi, già, oggi si chiamano
tutti così, si stanno accaparrando il mondo. L’impero Inglese, quel-
lo Austro-Ungarico, l’impero Prussiano e la Francia, quello Russo
e il Giappone, che s’è dato pure lui al Progresso, quando prima non
si sapeva neanche che esistesse. Tutte queste monarchie si stanno
dando cordiale battaglia sui terreni dell’Africa, dell’Asia, dell’Eu-
ropa più povera, assetate di risorse e di potere. Si stanno condan-
nando a morte, lentamente, poiché la guerra che non le uccise nel
Quarantotto, quando sarebbero potute sopravvivere, tornerà più
violenta, feroce e motivata non più da sogni repubblicani e giaco-
bini, ma dalle grassazioni e dalle violenze del Progresso, e allora
sarà l’apocalisse e il mondo nuovo avrà trionfato per sempre.
Ma torniamo a noi, a quando avevo solo otto anni e non ne sa-
pevo niente né del mondo, né tanto meno della rivoluzione.
Il 12 gennaio 1848, Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa si misero
a capo d’una rivolta che in poco più di dieci giorni condusse alla
proclamazione d’un governo indipendente e alla decadenza della
monarchia borbonica in Sicilia.
La gente non parlava d’altro e sentivo mio padre discutere con
qualche amico e coi clienti, preoccupati che l’insurrezione arrivas-
se anche a Napoli. Io non ci capivo niente, e non me ne importava
naturalmente, ma li sentivo parlare ad alta voce, là, oltre la porta
dello studio, dove sempre più spesso mi rifugiavo a leggere, quan-
do potevo.
Sempre a gennaio, alla guida di Costabile Carducci, scoppiò la
rivoluzione anche nel Cilento, un’altra volta, dopo vent’anni.
«Verranno pure qua, che ne pensate, avvocato?»
«Che vi devo dire, amico mio, purtroppo son tempi questi…»
«Ma il re non fa niente? Si gratta la pancia a Palazzo? Questi
stanno a Salerno, a un tiro di schioppo. E chissà quanti serpeggia-
84
no qui in città. Lo sapete che il vostro vicino, Settembrini, è uno di
quelli?»
Parlavano di Luigi Settembrini, che effettivamente era nostro
vicino, poiché abitava a via Orticello.
Il 29 gennaio, re Ferdinando concesse la costituzione, poiché
ormai i liberali premevano sul governo e avevano il coltello dalla
parte del manico. Ferdinando fu il primo a concedere una costi-
tuzione tra i sovrani europei e vi giurò pubblicamente alla fine di
febbraio, davanti a una folla festante, a Largo di Palazzo.
«Avreste dovuto vederlo, avvocato! Il re, in mezzo a quella cal-
ca, a cavallo, mettersi la mano sul cuore e giurare su quel pezzo di
carta dei diavoli!»
«Non esageriamo! Suvvia, è un documento certo impegnativo,
ma non trascendiamo. Mica siamo ai tempi dei giacobini!»
«E che ne sappiamo, avvocato? Qua le cose si rivoltano da un
momento all’altro, come nel ’20. Non si capisce più niente. Che
bellezza ’stu Quarantotto!»
A febbraio, all’arrivo della costituzione, scoppiò il Vesuvio. S’u-
dirono prima dei boati sommessi in lontananza, esplosioni, defla-
grazioni che preannunciavano l’eruzione. Poi qualche scossa di
terremoto smosse la terra e fece tremare i lampadari per casa, e
infine il vulcano esplose e il boato divenne una specie di grido ci-
clopico, come l’urlo di Polifemo accecato da Ulisse. Una colonna di
vapore, alta svariati chilometri, si levò dal cratere tonando, e l’aria
si viziò di zolfo. La colonna si frammentò in una serie di cerchi
concentrici, prima neri, poi verdi, quindi bianchi, poi ancora neri,
ancora verdi e così via.
Quell’anno ci fu pure l’aurora boreale: un giorno il cielo divenne
rosso, come piovesse sangue, come se la luce stessa avesse preso
fuoco. Era meraviglioso e terribile allo stesso tempo, ma con quello
che si faceva a Palermo, la gente non aveva voglia di vederci del
bello in quelle specie di fiamme celesti: ci vedeva solo l’apocalisse.
La rivoluzione alla fine scoppiò anche in Francia, e da lì dilagò
in tutta Europa. Infatti, proprio nel giorno in cui re Ferdinando
giurava la costituzione a Largo di Palazzo, a Parigi Luigi Filippo
abbandonava la città e veniva proclamata la repubblica.
85
Era strano, da parte di Ferdinando, accettare quella carta. Fer-
dinando non era come suo nonno. Era un uomo arguto, onesto,
virtuoso, devoto fino al fanatismo, un padre di famiglia ignorante
e fiero di esserlo schivo, e amava le cose ordinate, fatte a dovere.
Certo, la costituzione del ’48 in Sicilia non era poi così castrante
per la monarchia. Poteva essere un buono strumento di governo,
se i promulgatori si fossero messi d’accordo. C’era pure una bella
proposta di riforma dell’educazione, per esempio, che il re affidò
a Francesco De Sanctis. Tuttavia, le forze in gioco erano troppe e
poco disposte a collaborare.
Dichiarata indipendente la Sicilia, il parlamento si trovò ad an-
dare avanti come una barca in avaria, a causa della maretta agitata
dalle divergenze tra i liberali moderati, i democratici e i mazziniani.
Il re capì che, alla fine, standosene buono, avrebbe avuto la meglio:
quei giacobini gli avrebbero servita da soli la loro testa sul piatto,
senza bisogno di calcare la mano. Infatti, da una parte, i democratici
premevano per istituire la guardia nazionale e ottenere il suffragio,
dall’altra, i repubblicani, vicini a Mazzini e in minoranza, volevano
prendere parte allo Stato Italiano. Aggiungi a questa bagarre lo scar-
so controllo delle aree rurali da parte del governo costituzionale, che
diventavano sempre più caotiche, riottose, e l’indecisione su cosa
fare o meno col governo di Napoli. Un Quarantotto, insomma.
Alla fine, i liberali tirarono troppo la corda. Nel mese di mag-
gio i repubblicani, all’apertura dei lavori del parlamento, volevano
già modificare la costituzione promulgata a gennaio e accordata
dal re. Era quello che Ferdinando aspettava. Furono le giornate di
maggio del 1848.
Una mattina ci svegliarono degli spari. Io mi alzai dal letto e mi
avvicinai alle imposte chiuse del mio balcone, poiché quei colpi,
regolari, sinistri, m’avevano spezzato un sogno che ricordo bello.
Stavo per aprire gli scudi, quando entrò mio padre e mi fermò con
veemenza. Lo vidi pallido in volto e con una pistola in mano, che
non sapevo neanche possedesse. Mi spaventai, allora, e molto.
Uscii dalla stanza e trovai tutti in corridoio. La casa era buia,
nonostante fosse mattina, e tutti erano ancora in pigiama, tranne
il nonno.
86
Pareva che nessuno avesse intenzione di parlare, erano tutti si-
lenziosi e guardavano mio padre che stava nello studio, in piedi,
davanti alle imposte del balcone e sbirciava di tanto in tanto quello
che accadeva in strada. I colpi si ripetevano sempre regolari. Alcu-
ni erano profondi e sommessi, ed erano cannoni, altri più rapidi e
incalzanti ed erano fucili e moschetti.
Adele mi prese per mano e mi diede per colazione del latte e dei
biscotti che aveva preparato la sera prima. Mi sedetti in cucina, al
tavolino dove avevo sempre fatto colazione da solo, ma avevo il
cuore in gola e il latte non voleva andare giù.
Entrò mia madre, per ordinare il caffè ad Adele, e io le doman-
dai cosa stesse accadendo. «Niente, tesoro, non ti preoccupare,
non è niente» e quelle parole mi facevano più paura, poiché nel
«niente» delle madri si nascondono i mostri più ripugnanti.
Me ne restai a sorbire il latte e solo sul fondo della tazza m’ac-
corsi che Adele era agitata e che Gioacchino non c’era.
Gioacchino, all’epoca, non era più un giovanotto di primo pelo.
Era sempre stato uno scalmanato, un diavolaccio che s’atteggiava
a smargiasso e a guappo. Ho udito molte volte papà rimproverarlo
malamente per questo o quel fatto, poiché andava a cacciarsi in
certi affari loschi che a papà non andavano a genio e se non fosse
stato per la madre, che era una bravissima donna e una persona
per bene, già da molto tempo mio padre l’avrebbe messo alla porta.
Non era cattivo, ma era ignorante e furbo, i due caratteri che
i napoletani credono indistinguibili. Quand’ero bambino gli vole-
vo bene, perché era gentile con me. Mi regalava sempre qualcosa
quando poteva e mi scarrozzava in calessino quando mio padre lo
permetteva.
Il nostro calesse era già vecchierello quand’io ero bambino. L’a-
veva acquistato mio nonno prima che mio padre nascesse e papà
non aveva mai avuto cuore di cambiarlo, perché ci aveva passato
l’infanzia e la giovinezza su quel calessino. Avevamo una cavallina
vivace all’epoca, Liccarda, ribattezzata così da mio padre che ave-
va preso il nome dal Cunto del cavalier Basile. La sentivamo nitrire
nervosamente, Liccarda, dalle stalle nell’androne del palazzo, spa-
ventata dagli spari.
87
Quella mattina, Gioacchino era uscito presto per non so quale
commissione e tardava a rientrare. Adele pensava che con quel
trambusto ne avesse approfittato per farne una delle sue, perché,
quando poteva, Gioacchino faceva pure qualche furtarello.
Adele stava seduta dall’altro capo del tavolo, con le braccia
giunte in grembo e lo sguardo perso nel vuoto. La osservai e vidi
i suoi occhi assenti che fissavano terrorizzati il pavimento. Se ne
accorse e mi guardò a sua volta, sforzandosi in un sorriso.
Intanto mio padre stava sempre vicino al balcone, con la sua
pistola in pugno, che alla fine scoprii essere pure scarica.
Il nonno era seduto alla scrivania dello studio, in silenzio, con
uno sguardo serio in volto.
Io mi feci coraggio ed entrai in studio, sperando che mio padre
non mi cacciasse. Mi avvicinai a lui, che parve non accorgersi di
me e sbirciai oltre l’imposta socchiusa, sperando di scorgere qual-
cosa. Niente. Non c’era niente e nessuno.
Rimanemmo in silenzio a lungo, e di tanto in tanto iniziò a pas-
sare qualcuno in strada, correndo. Gli spari non cessavano.
Ero spaventato, non tanto da quello che si udiva fuori, ma dal
comportamento di quelli di dentro. Mi inquietava quel silenzio,
quella lentezza, il fatto che tutti stessero ancora in pigiama e vesta-
glia, che non si disponessero a vivere la giornata.
Guardai ancora in strada e vidi un cavallo che transitava trot-
tando senza cavaliere né sella, e sul dorso aveva una grande mac-
chia rossa di sangue. Quel cavallo, dopo, me lo sono sognato per
anni. Pensai alla nostra Liccarda, che nitriva spaventata anch’essa,
ed era l’unica a dare un segno della sua paura e pensai che quel ca-
vallo poteva essere lei, smarrita, sola, col cavaliere probabilmente
morto.
Poi ritornò Gioacchino, quando la mattina era già alta. Era spor-
co di polvere, imbrattato da capo a piedi. Adele voleva mangiarse-
lo vivo, e lo prese a schiaffi, lei che di solito era così serafica. Mio
padre lo rimproverò con violenza, lo prese in disparte e gli ordinò
di riferire ciò che aveva visto.
«Stanno sparando al Museo, a Monteoliveto. Toledo è bloccata.
Hanno alzato le barricate, con le botti, i carri, i letti, i sacchi e le casse.
88
È pieno di soldati in giro e stanno presi dai turchi. Io stavo alla Cari-
tà, mi sono trovato davanti i soldati e sono corso verso Monteolive-
to, e pure là ho trovato i soldati. Allora ho fatto una corsa per piazza
del Gesù e sono andato dritto per Trinità Maggiore. C’erano i morti
per strada, avvocato. Fumo, polvere, non si respirava. Mi dispiace di
non essere tornato prima, ma chissà come sono tornato».
Che era successo? Il re, alla fine, s’era seccato. I deputati del
parlamento insistevano a voler cambiare la costituzione e allora
il re aveva trovato il pretesto per agire. Prima sarebbe toccato a
Napoli e poi a Palermo. Il monarca si sarebbe ripreso tutto quello
che era suo per diritto divino, col ferro e col fuoco. Dopo il 1848,
Ferdinando II sarebbe passato alla storia come il re Bomba.
Quella stessa mattina, il re fece arrestare Capitelli e Imbriani,
che tentavano un’ultima negoziazione. Allora i deputati, asserra-
gliati a Palazzo Cirella, in via Toledo, provarono l’estrema difesa.
Pasquale Catalano Gonzaga, che poi sarebbe diventato senatore
del Regno d’Italia e che aveva quasi cinquant’anni all’epoca, prese
il comando delle barricate, mentre gli assediati sparavano dal tetto
e dai balconi.
Ferdinando ci mandò i Cacciatori svizzeri contro i liberali. Per
anni i Borbone hanno sedato le rivolte coi reparti svizzeri. Erano i
migliori a far la guerra. Gelidi, spietati, pedanti, si accanirono su
quei patrioti come iene sulle gazzelle.
Alla fine, i borbonici espugnarono Palazzo Cirella. Distrussero
tutto, fecero a pezzi mobili, suppellettili, quadri e biblioteche. Ar-
restarono Gonzaga, con i figli e il fratello. Ne ammazzarono cin-
quecento, tra loro c’era Luigi La Vista, ch’era un bravo scrittore
e aveva solo ventidue anni: lo fucilarono davanti al padre. Morì
pure il filosofo Angelo Santilli, ch’era stato cliente di mio padre.
Ferdinando non aveva più voglia di far giochi coi liberali. Era
stanco di questa gente che gli sconvolgeva il regno e voleva impor-
gli idee in cui non aveva mai creduto e che aveva sempre reputate
dannose. Basta coi casini e i disordini. Ritornare, ritornare sempre.
È quello che facevano i re d’un tempo.
I liberali ci provarono altre due volte a fare una proposta costi-
tuzionale al re, ma alla fine tutto andò alla malora: un anno dopo,
89
il 14 maggio 1849, Ferdinando si riprese la Sicilia e la rivoluzione
finì.
Intanto, tuttavia, noi stavamo in casa, col cuore in gola, ad at-
tendere che gli spari finissero. Ci volle tutta la giornata e al tra-
monto si sentivano ancora deflagrazioni.
Passammo quel giorno in casa, con le imposte serrate, vestiti
del pigiama. Pranzammo e cenammo in silenzio, come ci fossimo
trovati a un funerale.
Quando la calma tornò, a notte fonda, ci mettemmo a letto rin-
francati dal silenzio che riempiva l’aria.
Liccarda, dopo lunghe ore di inquietudine, tacque, e il suo ni-
trito, che a volte ancora cerco nel silenzio delle mie notti, smise di
echeggiare nell’androne del palazzo.

90
NOVE
UNA BRUTTA NOTIZIA, 1848

Zio Achille fu ucciso durante gli scontri a Castel Sant’Angelo,


alla fine del mese di aprile, ma noi apprendemmo la notizia soltan-
to a luglio, due giorni dopo la Battaglia di Custoza.
Per tutti quei mesi, a causa della guerra che aveva devastato
l’Italia, da Venezia a Brescia, da Roma a Milano, da Napoli a Paler-
mo, le comunicazioni s’erano pressoché interrotte.
Un giorno, però, arrivò una lettera che doveva essere stata in
giacenza da tempo, con la quale zia Margherita comunicava che
lo zio era stato colpito a morte durante gli scontri con la Guardia
Civica, che aveva alla fine occupato Castel Sant’Angelo e le porte
della città.
L’avevano ucciso sul ponte Elio, mentre guidava i gendarmi alla
difesa del Castello. Un colpo all’addome, ci scrisse zia Margherita,
un colpo solo, che gli aveva perforato lo stomaco. Era morto lenta-
mente, poveretto, dopo aver sofferto le pene che non si farebbero
soffrire a un cane.
Io tentavo di assimilare il dolore per quella perdita, mi sforzavo,
ma non mi veniva naturale. Gli volevo bene a zio Achille, ma lo ve-
devo solo a Natale o in qualche altra festività. Non sapevo il lutto
cosa m’avrebbe fatto mancare di lui. Non ebbi lacrime da piangere,
non ebbi angustie troppo grandi da cui farmi logorare.
Mi iniziarono a mancare delle cose di lui dopo, negli anni a ve-
nire. Mi mancò il suo bastone dal pomo di riccio, mi mancò la sua
figura taciturna e timida che si aggirava per casa e che faceva da
controcanto all’esuberanza di zia Margherita. Mi mancarono i suoi
racconti di quando stava nei Dragoni e faceva la guerra contro il
brigante Gasbarrone, il terrore del Regno Pontificio, il ricordo del-
le caccie tra i monti e gli orridi a scovare i briganti e i fuorilegge.
91
Tutte queste cose mi mancarono e furono cose dolorose, perché
questo fa anche la morte: ti riempie di ricordi che nessuno potrà
più rinverdire.
Zio Achille lasciò al mondo la moglie e lasciò una figlia adole-
scente, mia cugina Irene, che io avevo visto solo una o due volte,
perché stava in collegio e usciva raramente. L’avrei rivista molti
anni dopo, quando a Napoli arrivò il colera, ma di lei dirò dopo.
Mio padre e mia madre avrebbero voluto mettersi in viaggio
per Roma e andare da zia Margherita, ma la situazione era ancora
troppo movimentata.
«Il papa sta tornando e quel Garibaldi e gli altri repubblicani
venderanno cara la vita» disse mio padre, risolvendosi che era
troppo rischioso mettersi in viaggio.
Fu quella volta, tuttavia, all’età di otto anni, che sentì per la pri-
ma volta il nome dell’uomo dal quale, in un modo o nell’altro, sa-
rebbe dipesa gran parte della mia vita: Giuseppe Garibaldi.

92
DIECI
PAPA PIO IX, 1849

L’ultimo re di Roma Pontificia, Giovanni Maria Mastai Ferretti,


il papa Pio IX, arrivò a Napoli l’8 settembre del 1849, il giorno del
mio nono compleanno e lo stesso in cui, molti anni dopo, sarebbe
finito per sempre il Regno delle Due Sicilie.
Alla fine di giugno, le truppe di Napoleone III, che sarebbe di-
ventato il nuovo imperatore dei Francesi, avevano riconquistato
Roma, mettendo in fuga Garibaldi e riportando il potere tempo-
rale del papa al suo posto. Tuttavia, Pio IX decise di prendersela
con comodo. Non aveva fretta di tornare a Roma, in un clima
ancora tutto infervorato dalla rivolta e preferiva restare a Portici,
a casa di Ferdinando, per riflettere sul da farsi e starsene un po’
tranquillo dopo gli scontri che gli avevano sconvolto il regno e la
vecchiaia.
E dire che quando fu eletto, nel 1846, a Ferdinando non andava
a genio questo papa “liberale” acclamato dai nuovi giacobini, né gli
era piaciuta la proposta che nel ’47 lo stesso papa aveva avanzato,
insieme al re di Sardegna e al Granduca di Toscana, di fondare una
lega doganale tra Stati.
Ora, nel clima del grande sollievo seguito alla rivoluzione, quan-
do i regnanti si stringevano di nuovo la mano, tutti amici, contenti
d’essere ancora sul trono dopo il terremoto, il papa e il re Borbone
potevano felicemente ostentare la ricongiunzione degli animi e il
ritorno trionfale agli scranni legittimai da Dio. Sarebbero stati un
trionfo e un sollievo effimeri, almeno per Ferdinando, perché il
papa non morirà mai, purtroppo.
Il papa aveva fatto una richiesta singolare a Ferdinando: voleva
fare un giro in treno. Pio IX era sempre stato curioso di questa
novità che il re Borbone aveva avuto il privilegio di possedere per
93
primo in Italia e chiese di poter arrivare a Napoli in treno. Niente
di meno complicato, dopotutto.
Il papa sarebbe arrivato alla stazione del Carmine, ma avrebbe be-
nedetto la folla da Palazzo, che già era festonato da drappi, bandiere,
gagliardetti e vessilli coi gigli dorati e con le chiavi di San Pietro, i
simboli rispettivi della monarchia borbonica e di quella pontificia.
Mio padre volle vedere il papa e ci andammo tutti a Largo di
Palazzo, in mezzo a una folla dell’altro mondo, pure il nonno, che
era sempre restio a queste manifestazioni di fedeltà alla corona.
La ressa iniziava già a largo della Carità e per tutta Toledo non
c’era uno spazio tra la gente e dovevi star attento ai ladri, che ti
ripulivano e alle carrozze, che scendevano dai Quartieri Spagnoli e
volevano immettersi nel traffico, rischiando di travolgerti.
Davanti a Palazzo Cirella, ciascuno alzava gli occhi ai segni an-
cora evidenti lasciati dagli scontri armati: i calcinacci, l’intonaco, i
piperni erano crivellati di buchi. Passando, le persone si segnavano
davanti a quell’edificio, che voleva dire il pericolo della rovina e
della dannazione appena scampato e andava a Palazzo, a vedere il
segno tangibile che Dio stava dalla parte dei re.
Piazza San Ferdinando era un carnaio, peggio di Toledo, ma
dando qualche spinta (eravamo tutti a piedi, Liccarda si sarebbe
spaventata là in mezzo) arrivammo fino al Largo.
C’era l’odore delle grandi occasioni in giro, che era un misto di
sudore, di zolfo, che sempre si percepiva a Napoli in quei tempi,
quando il Vesuvio fumava quotidianamente, di frittura, che s’al-
zava dai calderoni d’olio bollente dei pizzaioli ambulanti e di quelli
che vendevano le graffe, di merda di cavallo, di cuoio.
Io indossavo il bell’abito che m’aveva regalato la mamma per
il compleanno: un vestitino color carta da zucchero, col collo di
pizzo bianco, i calzoni corti e il berrettino di paglia.
Si vendeva di tutto a quelle radunate: pizze e dolci, frutti di mare
crudi col limone, vino, spassatiempo, olive e lupini, taralli sugna e
pepe, gallette di Castellammare, sfogliatelle, bandiere e giocattoli,
spille e medagliette.
Largo di Palazzo era inaccessibile. Un cordone di gente lungo
fino alla Basilica di San Paolo, e ancor di più, fino alla fine del Pa-
94
lazzo, dove c’era la statua Gigante una volta, circondava lo slargo
davanti all’ingresso della reggia, dove le truppe in alta uniforme
attendevano il re e il papa che si sarebbero affacciati alla folla.
Erano migliaia e migliaia di fanti, ufficiali, alfieri, tenenti, lan-
cieri, caporali e colonnelli vestiti con le eleganti uniformi blu e
bianche gallonate d’oro del Regno delle Due Sicilie: un oceano di
fucili e baionette, allineate perfettamente e immobili, con gli occhi
rivolti alla balaustra del regio balcone, circondato dal vociare emo-
zionato della costa dei sudditi.
Era uno spettacolo meraviglioso, davvero. Ecco, sono queste
cose che mi mancano, a volte, nel mondo d’oggi, queste maesto-
se celebrazioni, vuote e solenni, che ti riempivano l’anima d’una
commozione cieca e sciabordante. Oggi si fanno ancora le parate
e forse si faranno sempre, ma adesso i regnanti sanno che devono
fare i conti col destino e con il Progresso, che è il vero sovrano. Dio
non guida più la loro mano. All’epoca, invece, i monarchi crede-
vano ancora d’essere eterni e che Dio vegliasse, benevolo, sul loro
imperio.
Eravamo riusciti a piazzarci in un punto da cui era possibile
vedere abbastanza bene il balcone. Io stavo in piedi, davanti a mio
padre e a mia madre e accanto avevo il nonno e Adele. Gioacchino
non c’era: la folla era troppo gremita per non approfittarne. Papà
non poteva prendermi sulle spalle perché già all’epoca ero grosso
ed ero pesante e mi sarei portato sta condanna per sempre.
Attendemmo tanto tempo in piedi, al sole, tra la gente. Mangiai
una graffa, bevvi un bicchiere di sciroppo d’amarena con l’acqua,
agitai una bandierina con lo stemma regio, ma tutte queste cose
non lenirono la noia di dover stare ore in piedi.
Quando ormai eravamo prostrati dall’attesa, s’udirono le trom-
be e la folla scoppiò in un applauso fragoroso.
Il balcone si aprì e ne uscirono alcuni ufficiali, che ordinarono
l’attenti ai soldati in basso. Poi eccoli lì, re Ferdinando e il papa,
seguiti dalla regina Maria Teresa e dal principe Francesco.
La folla sembrava invasata. Si vedevano cappelli, bandiere, faz-
zoletti levarsi e colorare l’aria di migliaia di tinte, mentre s’agitava-
no a salutare le Maestà.
95
Era la prima volta che vedevo il re e dalla mia posizione non vidi
più che un uomo corpulento, con l’uniforme cobalto, affiancato
dal papa, che era un uomo tutto vestito di bianco.
Agitai anche io la mia bandierina, a imitazione degli altri, get-
tando un occhio a mio padre, che sorrideva serafico, e uno al non-
no, che sorrideva beffardo.
Poi, a un cenno del re, la folla tacque e vedemmo il papa fare
segni della croce ai quattro venti e la gente segnarsi, perché Pio IX
stava impartendo la benedizione. Alle grida, si sostituì il mormorio
delle orazioni.
Fu una bella giornata, una delle migliori della mia infanzia.
Dopo la funzione, quando il re ebbe fatto un ultimo saluto e se ne
fu rientrato, papà ci portò tutti a mangiare la pizza a Port’Alba,
in quell’antica pizzeria che mio nonno conosceva bene, perché ci
abitava sopra quand’era ragazzo e nella quale era cresciuto.
Esiste ancora quella pizzeria, sotto Port’Alba, sulla strada che
conduceva e che conduce al vecchio Largo Mercatello.

96
UNDICI
ZIA MARGHERITA, 1854

Zia Margherita tornò a vivere definitivamente a Napoli nella


primavera del 1850.
Non aveva più nessuno a Roma. Mia cugina Irene era confinata
in collegio, a Viterbo, e zio Achille non aveva molti parenti.
Vendette la casa, un bell’appartamento in un palazzo del Rione
Sant’Angelo da cui si vedeva il Teatro di Marcello, ottenne una
pensione come indennizzo per la morte del marito in servizio e
venne ad abitare la camera che era stata sua in gioventù. Qualche
anno dopo, poi, anche Irene sarebbe venuta ad abitare con noi, ma
non è ancora il momento di parlarne.
Zia Margherita era più grande di mio padre di sei anni. S’era
sposata che aveva già trent’anni, dopo la morte di mia nonna, ed
era andata a vivere a Roma col marito. Aveva conosciuto zio An-
nibale a Napoli, poiché lo zio fece parte d’una delegazione ponti-
ficia che non so quale affare di Stato venne a sbrigare alla corte
borbonica. Si innamorò di questo militare alto, taciturno e con
gli occhi verdi, che le raccolse l’ombrellino mentre passeggiava a
Chiaia, lungo la riviera.
Zia Margherita era una donna bellissima, giunonica, simile alle
antiche statue greche. Aveva lunghi capelli castani, che le arrivava-
no ai fianchi quand’erano sciolti, occhi bruni e luminosi. Era una
donna esuberante, gioiosa. Alzava sempre la voce senza accorger-
sene, rideva spesso e zampillava vita come un ruscello in una gora.
L’esatto opposto di zio Achille, che era taciturno, riservato, timido,
schivo.
Zia Margherita indossava sempre abiti chiari prima della vedo-
vanza, di seta o taffetà, poi portò il lutto fino alla fine dei suoi gior-
ni, ma sempre smorzando il nero con un tocco di colore, che fosse
97
una spilla, un fiore, un nastro o altro. Ci doveva essere sempre
un segno perturbante in quella condizione di vedova che voleva
ostentare.
Profumava sempre di mughetto. La sua stanza era impregnata
di quell’odore e a volte, ancora oggi, quando passo davanti alla
porta chiusa della sua camera, mi pare di sentire l’odore pungen-
te del suo mughetto e allora apro la porta, entro nell’oscurità, mi
seggo sul letto e resto in silenzio, a occhi chiusi, col naso nell’aria.
Lo sento a tratti quell’odore e lo cerco con ostinazione nel tanfo di
chiuso. Sto là imperterrito, perché a ogni sprazzo rivedo delle cose,
come una fiamma che s’accende, un guizzo nelle tenebre, ma men-
tre sto lì a sforzarmi, ecco che quell’odore passa, si confonde anco-
ra, sparisce. E tornano le tenebre. Forse le pareti si sono impregna-
te di quel mughetto e a volte trasudano l’umore stantio che hanno
dentro. Allora non posso fare altro che alzarmi da quel letto, uscire
dalla stanza, chiudere dietro di me la porta e sperare che, passando
là davanti un’altra volta, il profumo di zia Margherita torni a farsi
sentire e mi faccia ricordare tutte le cose che ho perduto.
Quell’odore l’ho sognato la notte, per tanti anni e ho sognato an-
che i pianti di zia Margherita, che piangeva sempre da sola, quan-
do sperava di non essere né udita né vista. Durante la giornata era
sempre allegra e svagata, ma quando si metteva a letto, nella luce
soffusa delle candele, ripensava a zio Achille, che era morto sul
ponte di Elio e non l’avrebbe mai più rivisto.
Tante notti, quand’ero ragazzino, sono stato ad ascoltare quei
singhiozzi che venivano dall’altra parte della parete, non riuscendo
ad addormentarmi per l’angustia.
Poi, una notte, nell’anno del colera, me lo ricordo bene, non ce
la feci più a sentirla piangere.
Quella notte, mentre tutti dormivano e fuori c’erano i giorni
della merla e ogni cosa gelava, tanto che l’epidemia s’era placata,
scesi dal letto e andai nell’altra stanza, dove stava zia Margherita.
Spinsi la porta leggermente, ed entrai, fermandomi sull’uscio.
Zia Margherita singhiozzava. Mormorai: «Zia» e lei smise di pian-
gere e chiamò il mio nome nell’oscurità.
«Sì, zia» dissi, «sono io, ti ho sentita piangere».
98
«Vieni qui, piccolo» fece lei, e io mi mossi a tentoni, fino a in-
dovinare la sagoma del letto. L’odore di mughetto era ovunque.
Mi sentivo strano, spaventato, respiravo a fatica e non sapevo
per qual ragione.
Zia Margherita scostò le coperte e mi invitò a coricarmi. Faceva
un freddo cane, e mi ci fiondai. Da sotto al letto proveniva l’odore
della cenere ch’erano diventati i tizzoni nel braciere.
Quando fui al caldo, tra le lenzuola che profumavano di mu-
ghetto e d’altre fragranze floreali che venivano dalle frizioni a olio
con le quali la zia si massaggiava il corpo, quella strana sensazione
si acuì.
Lei mi cercò e poi mi strinse a sé, lentamente. Sentii il profumo
della sua pelle, dei suoi capelli folti e la morbidezza del suo corpo a
contatto col mio e quel calore si unì a quello di una pira che inizia-
va ad accendersi dentro di me.
Mi baciava la fronte e mi accarezzava i capelli, con dolcezza,
cercando di non piangere. Io assecondai quei gesti e la cinsi in vita,
accostandomi ancor più.
Era un piacere che mai prima d’allora avevo provato, il piacere
di starmene al caldo a esplorare quel corpo profumato di fiori.
Ero perso, dilaniato e non mi accorsi che là sotto stava accaden-
do qualcosa e allora la strinsi ancora.
Poi la mia mano, come avesse avuto vita propria, si mosse ad
accarezzare quel corpo nel modo in cui non avrei mai osato lecito
immaginare.
Il cuore non aveva più regolarità, era solo il sangue a fluire, là
sotto. Le accarezzai la schiena, poi scesi e arrivai alle natiche e ne
saggiai l’incavo, poi salii ancora e toccai un seno, lo sfiorai quasi,
ed era grande, soffice, liscio.
Non riuscivo a capire da dove traessi quel coraggio, ma non ci
pensavo veramente in quell’istante: mi sembrava di accarezzare
qualcosa che non aveva vita, istinto, ragione, qualcosa che era lì
perché io nel segreto lo scoprissi.
Zia Margherita mi lasciò fare, continuando ad accarezzarmi i
capelli. Mi accarezzava e mi baciava la fronte e sentivo il suo respi-
ro sulla pelle, lento e delicato.
99
Io ero il suo bambino e lei mi lasciava andare su di sé perché io
mi smarrissi nell’unico modo consesso agli uomini.
Mentre mi consumavo di piacere, ero terrorizzato. Se quel silen-
zio, quella lentezza, quell’istante si fossero interrotti, cosa sarebbe
accaduto? Zia Margherita avrebbe urlato? Sarebbe accorso qualcu-
no, mi avrebbero sgridato? Ero fin troppo grande per capire che
quel gioco non era più roba da bambini.
A un tratto lei fece un lento movimento, e io mi bloccai, sgo-
mento, e il cuore mi balzò in gola.
M’accorsi, però, che s’era messa di fianco a me, affinché il mio
pube toccasse il suo, e io sapevo, in quell’istante, che lei m’avrebbe
sentito lì sotto. Per istinto primordiale il mio bacino si mosse in
vanti. La strinsi più forte a me.
Poi, inaspettatamente, sentii la sua mano lasciare i miei capelli
e scendere lungo la schiena. La sentii sulle natiche, spingermi a sé,
come ad aiutarmi. Ero al culmine, mi muovevo sempre più veloce-
mente, le mie mani erano serrate senza alcun ritegno al suo culo di
statua. Venni emettendo un gemito di liberazione, che si confuse
tra i capelli di zia Margherita, dove il mio volto, nell’orgasmo, s’era
affondato. Era la prima volta che provavo un piacere simile.
Poi rinvenni dalla piccola morte e mi sentii smarrito e terroriz-
zato. Credo tremassi. Non osai fiatare.
Lei mi accarezzò ancora, per tranquillizzarmi. E io, che ero un
ragazzino, col cuore in gola per l’emozione, le giurai nell’anima
l’unica cosa che s’ha in mente a quell’età: l’amore eterno.
Dopo un po’ mi addormentai e anche lei con me. All’alba, furti-
vo, ritornai in camera.
Stetti lunghi momenti a riflettere su quello ch’era accaduto nella
luce che nasceva, poi mi riaddormentai.
Ancora oggi ci ripenso, quando la nostalgia m’assale, a quella
notte di febbraio. E molte notti ancora ci pensai da quel momen-
to, masturbandomi nell’oscurità e nel tepore del giaciglio. Non
ne parlammo mai di quella cosa, io e mia zia, e sembrò come non
fosse mai accaduto. Sebbene a volte fui tentato di tornare, non
lo feci mai. Quel tipo d’amore si prova una volta sola nella vita,
credo.
100
Zia Margherita non m’abbandonerà mai, starà sempre qui, da
qualche parte in questo petto villoso e grasso che mi ritrovo, bella
come una statua e profumata come un agrumeto, a darmi quell’a-
more primordiale e sincero che in tutti questi anni non ho mai più
avuto.

101
DODICI
IL COLERA, 1854

Napoli puzzava. Puzzavano le strade e i vicoli dove la gente


campava come bestie. Puzzavano i basoli, incrostati di lerciume,
di polvere putrida, impiastrata e fetente. Puzzavano di piscio, di
merda, di grasso, di liscivia, di acqua impaludata, di roba acida e
marcia. I vicoli non prendevano sole, non s’asciugavano mai da
quel fradiciume che le ammorbava. Scoppiava sempre qualche epi-
demia, un morbo strano e putrido, e alla fine, poi, arrivò il colera.
Era l’inizio dell’anno 1854.
Il colera comincia con dolori lancinanti all’addome, seguiti sem-
pre dalla diarrea. Poi la vista si oscura, iniziano le vertigini, la voce
scompare e il corpo diventa un pezzo di carne che perde liquidi.
Poi la respirazione si fa difficoltosa e in breve arriva la morte a
toglierti dal guaio.
Come si faceva a evitare un disastro simile? Si bolliva tutto.
Papà aveva letto molto a riguardo e si era consultato con qualche
suo cliente e amico medico, per avere dei consigli. «Tenete tutto
pulito, Roberto, asettico. E bollite, bollite tutto, bevete acqua solo
se è stata preventivamente bollita» pontificavano i dottori.
Non potevo prendere da bere senza che mia madre, mio padre e
anche Adele mi domandassero: «È bollita quell’acqua?»
Papà diede ordine a Gioacchino di non lasciare che si accumu-
lasse letame nella stalla di Liccarda e che ci fosse sempre della pa-
glia fresca e pulita per terra, anche a costo di cambiarla due volte
al giorno. Adele smise di andare al Mercato e se ci andava si teneva
lontana dalla gente e quando comprava qualcosa lo toccava solo
coi guanti. Non era una donna istruita e forse quelle precauzioni
non le avrebbe adottate se mio padre non glielo avesse imposto.
Mangiavamo tutto stracotto, lavavamo spessissimo gli abiti, le
lenzuola, i pavimenti, ci tenevamo alla larga dai vicoli, dalle poz-
zanghere, dagli untumi vari che inguacchiavano le strade. Anche
102
i clienti di mio padre erano obbligati a una profilassi quando en-
travano in casa: dovevano lavarsi le mani con pietra di sapone e
acqua bollente e passarle nella calce, la calce che ammorbava l’aria,
gettata dappertutto dagli spargitori del governo.
Ogni giorno, il bollettino: «Ne sono morti tre al Pendino; ne
sono morti sette dietro alla Vicaria; ne hanno trovati due in strada
a Sedile di Porto» e così via.
Erano i poveri, tuttavia, a tirare le cuoia. La gente ricca sape-
va come difendersi: i nobili andavano in collina, a Capodimonte,
dove l’aria è salubre. Il re possedeva la Reggia lassù e ci si rifugia-
va assieme alla corte alla prima avvisaglia di contagio. La povera
gente era destinata ad arricchire le fosse comuni, che a Poggioreale
erano sempre aperte.
Poiché non era prudente starsene in strada, per il rischio di re-
spirare o magari toccare qualcosa che t’avrebbe poi svuotato come
un otre, trascorrevo la maggior parte del mio tempo libero in casa,
a leggere.
Agguantavo un libro, mi stendevo sul letto e me ne andavo
dove m’avrebbe condotto il racconto.
Fu in quel periodo, ma sarebbe meglio dire in quegli anni, che
lessi gli antichi, i medievali e i moderni. Da Omero a Virgilio; da
Dante a Tasso; dal Marino al Beccaria. Lessi i moderni, che mio
padre non disdegnava. Lessi Foscolo, m’innamorai di Leopardi, mi
conobbi bene con «l’amico di famiglia» Manzoni, lessi i roman-
zieri liberali, come Grossi e Guerrazzi. Oltre agli italiani, conobbi
i francesi (che leggevo in lingua) e altri stranieri (che leggevo in
traduzione): Hugo, Dumas, Chateaubriand, Balzac, Goethe, Sha-
kespeare.
Divenni un cultore delle belle lettere, e iniziai ad atteggiarmi a
romantico e a esteta, corrugando la fronte in un cipiglio fiero, con-
dendo i miei discorsi con massime erudite, sospirando così come i
miei polmoni s’adattavano alla malinconia dei versi.
Il colera, per nostra fortuna, non ci toccò quella volta e alla fine
dell’anno fu spazzato via dalle piogge.
Fu al termine dell’epidemia, in una mattina in cui diluviava, che
arrivò mia cugina Irene.
103
TREDICI
IRENE, 1855

Avevo visto Irene solo una o due volte in vita mia ed ero un
bambino a quel tempo.
Una volta fu sicuramente durante le festività natalizie del ’46
o del ’47. Quell’anno, zio Achille e zia Margherita portarono la
ragazza con loro.
Irene aveva esattamente sei anni più di me. Zio Annibale l’ave-
va avuta dalla sua prima moglie, che era morta di parto dandola
alla luce e, non potendosene occupare personalmente, l’aveva pri-
ma messa a balia e poi in collegio, dove aveva ricevuta un’ottima
educazione.
All’età di ventun anni, ormai maggiorenne, venne licenziata dal
collegio, finalmente pronta ad affrontare il mondo.
Non avendo parenti diretti a Roma, zia Margherita la invitò a
Napoli, a casa nostra, dove sarebbe stata in famiglia.
In quell’occasione mi fu comunicato che avrei dovuto cedere la
stanza a mia cugina, e che avrei dovuto condividere la camera con
il nonno. Né a lui, né a me questa risoluzione andava a genio. Al
nonno piaceva la sua intimità, io adoravo la privatezza di quelle
esilianti pratiche che avevo scoperto con zia Margherita e alle quali
indulgevo senza ritegno. Comunque, in un modo o nell’altro, andò
male a entrambi e non ci furono storie con mio padre: aveva deci-
so e così sarebbe stato.
A questo si aggiungeva la considerazione che avevo di lei. Le
poche volte che l’avevo veduta, Irene m’era sembrata una ragaz-
zina presuntuosa e arrogante: sempre vestita elegantemente, ac-
conciata, composta, misurata nei gesti e nelle maniere, boriosa e
altera nel parlare. A tutto questo, inoltre, s’associava un aspetto
fisico non troppo lusingante: capelli rossicci slavati, occhi verdo-
104
gnoli, volto ancora acerbo, con angoli e forme da smussare, corpo
grassottello. Non proprio una bellezza, tutto sommato.
Attendevo, quindi, l’avvento di Irene come una condanna al
confino, dove sarei stato privato della libertà di dar sfogo agli
ormoni, dell’intimità di struggermi nelle fantasie romantiche dei
miei libri e della sovranità sugli spazi e sulle cose.
Irene arrivò in gennaio, in una giornata orrenda. Tuonava da
far spavento, tanto che Liccarda scalpitava e nitriva disperata in
stalla e Gioacchino dovette andar di persona a tranquillizzarla.
Pioveva a dirotto. L’acqua che veniva giù era così fitta che pareva
nebbia e la strada non si vedeva più.
Era mattina, un sabato se non sbaglio, e non avevo lezioni col
nonno quel giorno.
Ero nello studio, seduto sulla poltroncina, con una bella palan-
drana di lana spessa, le pantofole e I tre moschettieri aperto sulle
gambe, intento a leggere. Ero in letargo, nel tepore più crogiolante,
e ascoltavo la pioggia che sferzava i vetri del balcone.
A un tratto entrò mio padre. Mi disse: «Stefano, vestiti, devi
andare a ricevere tua cugina quando arriva». Sbarrai gli occhi e
sbiancai: se m’avesse dato una coltellata sarei stato meno sgo-
mento.
Papà se ne accorse e aggiunse: «Non voglio sentire storie. Sbri-
gati a vestirti e va incontro a tua cugina». Annuii e mi alzai pesan-
temente dalla poltrona, con una specie di voglia di piangere.
Mi vestii in fretta e mi sedetti di nuovo nello studio, sperando
che all’arrivo di Irene l’intensità della pioggia fosse scemata.
Quando udimmo il campanello della porta però in strada ci
mancavano soltanto Noè, gli animali e l’arca.
Afferrai un ombrello, uscii di casa e sperai quasi di poterglielo
sbattere in faccia a quella smorfiosa che m’aveva rovinato la gior-
nata.
Discesi le scale, aprii il portone, mentre Liccarda si tranquilliz-
zava sotto le carezze di Gioacchino e uscii in strada, dove c’era
la vettura coi cavalli che tremavano intirizziti, e il cocchiere che
si stringeva le falde del cappotto. Aveva il cappello così floscio e
fradicio che non gli si vedevano gli occhi.
105
Pioveva a dirotto e non ero neanche uscito dal portone che, seb-
bene avessi l’ombrello, già avevo scarpe, calzoni, schiena e i lembi
del tabarro completamente zuppi. Per di più, stavo congelando.
Mi fermai un momento davanti allo sportello e stavo per aprirlo
quando una violenta folata di vento mi strappò di mano l’ombrello.
Proprio mentre fissavo smarrito l’ombrello e la pioggia mi battezzava
con ferocia, lo sportello della vettura si aprì da solo. Rimasi di sasso.
Quella che avevo davanti non poteva certo essere Irene. Non la di-
menticherò mai in quell’istante, finché avrò memoria. Non scorderò
mai il suo volto ovale e latteo, che mi sorrideva in maniera incantevo-
le con quelle labbra rosa e sottili. Non se ne andrà il ricordo di quella
chioma fulva, di quel rame splendente che cadeva sulla mantella ver-
de scuro e sul collo di visone che indossava. Non se ne andranno que-
gli occhi cerulei, così simili a quelli di zio Achille, che mi fissavano con
compassione e tenerezza mentre m’inzuppavo da capo a piedi sotto
quel diluvio di gennaio. Niente cancellerà mai tutto questo, niente
cancellerà mai la visione di Irene sotto la pioggia d’inverno.
Il vetturino a un tratto sbraitò qualcosa da cassetta che voleva
dire di far presto, e io mi riebbi dalla fattura che m’aveva inflitto
la vista di Irene. Corsi a raccogliere l’ombrello e ritornai da lei por-
gendole il riparo. «Grazie Stefano. Guarda, sei zuppo, corriamo
sopra, se no t’ammali!» disse Irene e c’infilammo nel portone dopo
aver pagato il vetturino.
In casa ci fu una festa di convenevoli. Io corsi ad asciugarmi,
poiché avevo un freddo orribile. Tuttavia, mentre la salvietta mi
frizionava la testa, il cuore mi batteva con violenza, i pensieri s’ac-
cavallarono e si diedero battaglia, il corpo divampò in una pira ar-
dente e la febbre mi salì alta. M’ammalai e quel pomeriggio stesso
mi misi a letto.
Mia madre lo attribuì a tutta quell’acqua che avevo preso. Io
sapevo, tuttavia, che non era così.
Stetti a letto due settimane a delirare con quaranta di febbre.
Venne il medico, che mi visitò e fece una faccia brutta che mia
madre interpretò male e ci pianse.
In quelle due settimane non vidi che mostri. Cose strane, figure
aliene, creature venute dalle fantasie dei miei libri e deformità d’o-
106
gni sorta. Però mi veniva in mente anche Irene. Credevo, in quel de-
lirio, che la sua visione fosse un sogno, che si dileguava e riappariva
in continuazione. Vedevo delle figure al mio capezzale, ma non
riuscivo a distinguerle. Rischiai seriamente di friggere quella volta.
Poi la febbre passò e venne la convalescenza. Mi svegliai una
mattina come da un incubo e mi guardai intorno senza compren-
dere cosa fosse accaduto né dove fossi. Ero nella camera del non-
no, e accanto a me, sul comodino, notai un vasetto con dei fiori,
delle fresie mi pare.
Guardai il mazzolino incuriosito, perché non era mia abitudine,
né quella del nonno, d’adornare la stanza di fiori. Notai ch’erano
avvizziti, cascanti, coi petali sparpagliati sul pizzo del centrino su
cui era poggiato il vaso.
A un tratto, una figura si parò davanti alla porta, e io trasalii:
era Irene. Recava un mazzetto di fresie fresche e stava venendo a
sostituire quello sfiorito.
«Buon giorno, Stefano. Stai meglio? Pare che la febbre ti sia pas-
sata» disse e si sedette accanto a me. Mi mise una mano sulla fron-
te, e io sussultai. «Sei più fresco, è un buon segno. Ti piacciono i
fiori? Li ho presi per te» disse ancora.
Era incantevole. Indossava un abito celeste di seta, col collo di
pizzo bianco e aveva i capelli raccolti in una treccia che le ricadeva
sul petto. I suoi occhi erano d’un verde intenso, il colore delle erbe
e dei prati.
Io non sapevo cosa fare, né cosa dire in quell’istante. Me ne sta-
vo imbarazzato e ancora per metà tra le coltri, con la camicia da
notte impregnata degli umori della febbre. Puzzavo, ero lercio, in-
tontito. La vergogna mi stava consumando.
«Non dici nulla?» mi chiese ancora lei, sorridendo.
«Grazie, ti ringrazio, mi piacciono… i fiori».
«Te li ho portati freschi ogni giorno. Spero t’abbiano aiutato a
non far brutti sogni».
«In effetti…»
«Devi scusarmi se mi sono impossessata della tua camera. Io
non volevo, ma zio Roberto ha insistito tanto. Spero tu possa per-
donarmi».
107
«Certo… certo, ti perdono… invero, non c’è da perdonare
niente».
Ero devastato. Era una creatura straordinaria, meravigliosa ed
era lì accanto a me e mi parlava.
Io non avevo mai conosciuto molte ragazze. Avevo parlato con
qualcuna a qualche ricevimento, quando ero stato invitato insieme
a Umberto (che era un mio amico, il mio primo amico, ma di lui
parlerò dopo), ma avevo poca dimestichezza. Il mio unico, vero
contatto con una donna era stata la mia esperienza con zia Mar-
gherita. Non sapevo niente sulle donne, a parte quello che avevo
letto nei libri.
Per me, le donne avevano l’aspetto e il carattere della Carlotta
del Werther o della Teresa dell’Ortis: belle, appassionate, delica-
te. Quella era la donna ideale che sognavo apparire tutte le notti
sull’uscio della porta, a destarmi e a portarmi con sé.
Quella ragazza seduta sul mio letto, col rame infuocato al posto
dei capelli e una foresta negli occhi, tornita nelle membra, con la
carnagione del colore del latte, era una visione prodigiosa e aliena
a tutte le mie fantasie.
Mi vergognavo del mio stato, in quel momento. Cosa avrei
potuto dire o fare per redimermi da quella sensazione di inade-
guatezza? Era la prima volta ch’ero pervaso da qualcosa che avrei
imparato a conoscere e a temere più d’ogni altra cosa: il disagio,
a causa del quale, d’ora in avanti, mi sarei sentito sempre a metà.
«Adesso ti lascio riposare, ci vediamo presto» disse Irene e uscì.
Io mi ributtai a letto e alzai gli occhi al soffitto. Lassù, sulla gre-
ca, nel biancore dell’intonaco sperai di trovare una risposta a quel
guazzabuglio che mi strepitava in cuore, ma le risposte, ed è questa
l’unica verità, non arrivano mai.

108
QUATTORDICI
AGESILAO MILANO, 1856

Agesilao Milano era nato a San Benedetto Ullano, in provin-


cia di Cosenza, nel 1830. Entrò nell’esercito per buscarsi il pane e
badare alla famiglia, ma nel ’48 già diede segni di insofferenza e
partecipò alle sollevazioni in Calabria, finendo per un periodo in
galera e poi amnistiato.
Nonostante i precedenti, dopo un periodo di crisi religiosa e
qualche altra indulgenza al liberalismo, riuscì a tornare nell’arma
e a farsi arruolare tra i Cacciatori dell’Esercito Borbonico, ma con
un unico scopo: assassinare Ferdinando II.
Nel giorno dell’Immacolata del 1856, ci fu un grande assem-
bramento di truppe al Campo di Marte, sulla collina di Capodi-
chino, dove il re avrebbe assistito alla messa e avrebbe passato
in rassegna le schiere. Venticinquemila soldati (gli stessi che, un
giorno, avrebbero perso il regno) erano inquadrati nell’area del
Campo e attendevano il re che, a cavallo, sarebbe passato in ri-
vista.
Mentre il re trottava verso i suoi soldati, Milano abbandonò le
fila. Non era riuscito a caricare in tempo il suo fucile e così si sca-
gliò contro Ferdinando, colpendolo violentemente al fianco con la
baionetta. Il re fu trafitto, ma la baionetta non andò in profondità,
perché la fonda delle pistole che Ferdinando portava attutì il colpo.
Stava per sferrare un altro fendente, quando il colonnello degli
ussari de La Tour lo assalì, lo scaraventò a terra e lo fece arrestare.
Agesilao Milano fu condannato alla pena capitale e impiccato in
piazza Mercato il 13 dicembre. Il suo corpo fu gettato nella fossa
comune.
Quello di Milano fu uno dei casi più clamorosi degli ultimi anni
del Regno. Se ne parlò e se ne riparlò per giorni e giorni. La gente
109
si schierava senza riserve contro il calabrese e benediva la Provvi-
denza, che aveva salvato il re.
Mio padre commentò con una sola, lapidaria parola: «Illuso».
Milano aveva detto, prima di essere impiccato, e questo lo ripor-
tava il Corriere di Napoli, «Viva Dio, la religione, la libertà e la
Patria» e leggendo quelle parole mio padre fece una smorfia e pen-
sava a Ferdinando, che s’era preso un grande spavento, a Ferdi-
nando che lo guardava dal ritratto appeso nel suo studio, con gli
occhi tristi e mesti di quando l’aveva visto ragazzo. Non fece altro
commento, non si pronunciò in merito e neanche il nonno, che
amava la polemica, disse qualcosa in favore di Milano, per farlo
arrabbiare. I regicidi vanno e vengono, e a tutti tocca la forca e il
loro ricordo non serve altro che a illudersi di spegnere il mondo
ammazzando un uomo.
Tuttavia, io, all’epoca, non m’interessavo né di tirannicidi, né
delle sorti del Regno delle Due Sicilie. Io mi struggevo d’amore per
mia cugina Irene.
Era inevitabile. Me ne innamorai appena il suo volto di perla ap-
parve sullo sportello spalancato di quella carrozza. L’amai mentre
l’acqua m’affogava, sotto quella pioggia di gennaio. L’amai per i
fiori che mi metteva sul comodino, perché era bellissima e perché
avevo quindici anni e credevo che la vita fosse un eterno strugger-
si di meraviglie.
Mi rimisi presto dalla febbre e tornai ai miei studi, ai miei libri
e, in tutto questo, dovetti convivere con la presenza costante di
Irene.
«Ti stai facendo svagato, e lo so io perché» affermò mio nonno,
col sorriso sornione, mentre tentava di impartirmi una cultura che
adesso entrava a forza, perché ero distratto.
Irene era lì, costantemente, a pochi passi dalla stanza in cui dor-
mivo, anzi, nella mia stanza. Era lì, onnipresente, odorosa di agru-
mi, bellissima e gentile. Divenimmo molto amici.
Era una ragazza dalla cultura prodigiosa. Aveva studiato mol-
to in collegio e le era stata impartita un’educazione completa. Era
sempre curiosa di conoscere le novità, che per molto tempo le era-
no state praticamente precluse in collegio.
110
Volle vedere il treno e ve la menai personalmente. Durante tutto
il viaggio si professe in risolini di gioia.
Volle vedere il Museo e i reperti di Pompei e di Ercolano, dei quali
aveva sentito tanto parlare in collegio. Volle vedere i castelli, i resti
della Napoli d’un tempo, ch’io le dovevo raccontare, col doppio sfor-
zo di rendermi credibile e di non cedere alla voglia di baciarla.
«Che belli che siete quando siete a braccetto, ragazzi miei!» esordì
una volta zia Margherita, mentre uscivamo di casa per una delle no-
stre passeggiate, e io mi feci rosso due volte, una per la circostanza e
un’altra perché lei sapeva che cosa avevo in mente. Lo sapeva bene.
Ricordo quando andavamo al Mercato dei commestibili e la te-
nevo per braccio tra i banchi pieni di gente vociante e il cuore mi
sussultava, fino in gola. La guardavo sott’occhio, mentre era voltata a
vedere le mercanzie e le scrutavo il collo, l’attaccatura dei capelli fulvi
al cranio, la peluria sottile invisibile del mento e del profilo delle guan-
ce e mi struggevo per non poter sentire quel sapore sotto ai denti.
La amavo senza ritegno, né moderazione. M’aveva invaso, tra-
mortito, devastato. Non riesco più a descrivere quel sentimento.
Non ci riuscirei se campassi altri settant’anni. Era il primo amore,
forse per questo era così violento e dirompente? Non lo so. Era
come sognare a occhi aperti, esiliato in qualche posto, come con-
templare costantemente il luogo remoto delle proprie felicità e ve-
dervi risplendere con tenacia il sole della speranza. Non lo saprei
più descrivere, se non così.
Ho trovato una lettera, pochi anni fa, scavando in un cassetto.
Un biglietto che scrissi in francese, che all’epoca consideravamo il
verbo dell’infinito, e dice più o meno in che modo io ero pervaso
da Irene. Lei non l’ha mai letto: “Tu m’as donne l’espoir, la vie, la
force, l’âme… Mon Dieu ma chère copine tu m’as rendu l’homme
plus heureux de cet monde ! Avec toi je n’as besoin plus de rien et de
personne. Maintenant je suis pour toi, avec toi. Ton bonheur, tes buts,
tes rêves sont mes principales préoccupations. Avec toi j’ai la force de
me battre, de voir, de connaitre, d’aller toujours avant1”.

1 «Tu m’hai donato la speranza, la vita, la forza, l’anima… mio Dio


mia cara compagna, tu mi hai reso l’uomo più felice di questo mondo!

111
Era così. Sì, era… bellissimo.
Irene mi voleva bene, tanto bene. Mi voleva bene perché ero
come lei, accecato dalla bellezza, dalla poesia, dall’arte. Eravamo
cresciuti entrambi per essere curiosi e questo amore forsennato
per il sapere ci legava.
Parlavamo tanto e stavamo lunghe ore a leggere nello studio,
uno di fronte all’altra, come due vecchi sposi. Quanto ho sognato,
Dio mio, ora che ci penso, quanto ho sognato di vivere la mia inte-
ra esistenza seduto a quelle poltrone, insieme a Irene.
Trascorse un anno così, in cui fummo amici inseparabili. Ogni
volta che qualche cliente di papà indugiava con lo sguardo su Irene
o quando qualche amico faceva commenti o quando qualcuno in
strada si voltava a guardarla, un fuoco sacro s’accendeva in me.
Ero grande e grosso già all’epoca e li avrei ammazzati se avessero
osato portarmi via Irene. Era la mia amata, la mia amica, la mia
speranza. La mia vita. Nessuno me l’avrebbe portata via senza lot-
tare.
Un giorno facemmo una lunga passeggiata. Andammo a vede-
re il mare, che Irene amava tanto. Arrivammo al Chiatamone, a
visitare Castel dell’Ovo, e io le raccontai la leggenda di Virgilio e
dell’uovo di struzzo che aveva nascosto là sotto e che proteggeva
la città.
Ci fermammo al bordo della riviera, davanti al mare. A sinistra
avevamo il Castello, l’immensa cittadella ocra che sorgeva dalle
acque e che all’epoca era un carcere, con le sue bandiere che gar-
rivano al vento, in alto, le guardie minuscole che passeggiavano
serene sui torrioni e lo scintillio delle bocche dei cannoni che fa-
cevano capolino dalle feritoie. Dietro il Castello, il Vesuvio, che a
maggio del ’55 aveva eruttato di nuovo e che ora fumava placido e
sereno nel suo titanismo sopito. A destra, Posillipo, il promontorio
serpente con la testa di tufo, che scendeva in acqua dopo essersi

Con te non ho più bisogno di niente e di nessuno. Adesso io sono per te,
con te. La tua felicità, i tuoi scopi, i tuoi sogni sono le mie preoccupazioni
principali. Con te ho la forza di battermi, di conoscere, di vedere, di an-
dare sempre avanti».

112
ingobbito nella collina verde dove, da qualche parte, dormiva pure
Virgilio. E poi il mare, davanti a noi, che quel giorno di primavera
aveva il colore straniante d’un cielo riverso, d’un turchino cereo
che s’inabissava di tono là dove finiva la luce e cominciava il buio,
e la sua amante assopita, Capri, stagliata all’orizzonte, gigantessa
dormiente e placida.
Io vestivo la marsina nera quel giorno, col cilindro e la cravatta
verde scuro. Irene era in amaranto, in un vestito si seta marezzata
che le metteva a nudo le spalle e le braccia e che cadeva a balze a
terra, così come s’usava a quel tempo.
Stavamo fermi a guardare il mare da un po’ di tempo, in silen-
zio. Laggiù, dove finiva l’orizzonte, lontano, una leggera foschia
nascondeva Punta Campanella e la costa di Sorrento.
Irene osservava ieratica le acque. Ogni cosa attorno a me era
come l’avevo sempre sognata. Era tutto come l’avevo immaginato
nelle mie fantasie più recondite, ma mancava qualcosa. Mancavo
io. Io mi sentivo inadeguato, a disagio, in quel mondo di bellezza.
Era come se ne fossi escluso, costretto a guardare da un promon-
torio alto e scosceso la valle dell’Eden, preclusa dai picchi impervi
e acuminati. Ero uno straniero nelle lande della bellezza.
«A cosa pensi?» domandai.
«Pensavo a mio padre. Non mi capita mai di pensarci».
«A tuo padre?»
«Sì. Penso a dove sia adesso. Cerco di immaginarlo. Dove pensi
che vadano i morti?»
«Lontano».
«Lontano…»
«Vanno laggiù, Irene, vedi? Dove finisce l’orizzonte. Dove van-
no le balene».
«Le balene?»
«Sì, le balene, che nuotano verso Gibilterra. Una volta le ho vi-
ste, sai? Erano immense, eleganti. Una bellezza lancinante».
«Come facevi a sapere che andavano a Gibilterra?»
«Non lo sapevo… l’ho immaginato».
Lei tacque un attimo, scrutando l’orizzonte, poi disse: «Non ho
conosciuto bene mio padre. Forse l’hai conosciuto meglio tu di me.
113
L’ho visto poche volte in vita mia e non aveva mai troppe parole da
spendere per me. Era sempre impacciato, timido. Arrossiva subito.
Lui era mio padre, non papà. “C’è vostro padre, signorina” dice-
va la portinaia, e io andavo a salutarlo. Ce ne stavamo quel poco
tempo a parlare della condotta, dei voti, di qualche novità. Mai
di noi stessi, di noi due. Ora non lo potrò più fare, mai più. Credi
che laggiù, lontano, ci sia un posto dove ci rincontreremo tutti e
potremo starcene tranquilli a parlare?»
«Non lo so, Irene. Lo spero. A volte credo che le cose e le persone
che sono state restino da qualche parte e si possano ascoltare. Vivo-
no in certi suoni, in certi odori, in certe speranze che all’improvviso
ci invadono e ci riempiono lo sguardo di meraviglia. Allora non oc-
corre attendere d’arrivare così lontano, basta imparare ad ascoltare.
Sono solo i fantasmi a far perdurare il sogno di questa vita».
Avrei voluto dire tutte queste parole esatte in quel giorno di
primavera, davanti al mare, ma ci ho messo cinquant’anni per im-
parare a dirle e per dimenticarle. Avrei voluto dire queste cose a
Irene, ma avevo sedici anni ed ero terrorizzato.
La fissai senza proferir parola e iniziai a piangere. Tentavo di
chiudere gli occhi per non fare uscire le lacrime, così come avrei
serrato la bocca per non far uscire un grido. Ma fu tutto inutile.
Piansi e le mie guance si rigarono di umiliazione e fui sopraffat-
to dal degrado di me stesso. Più pensavo alla pena di Irene, più la
mia si acuiva e il pianto immiseriva il suo strazio. Ero ridicolo. Lì
davanti, davanti a tutta quella bellezza, io rimasi muto e in lacrime.
Irene se ne accorse e si distrasse dai suoi pensieri. «Non far così,
Stefano, non ti preoccupare, guarda, sto bene, non è nulla! Un at-
timo di malinconia. Sta’ sereno, piccolo mio».
Io mi accasciai a terra e iniziai a singhiozzare più forte. «Oh,
tesoro mio, tesoro mio» mugugnavo. Irene sorrise e mi accarezzò
la testa, dalla quale il cilindro era caduto. «Mio dolce Stefano. Dai,
torniamo a casa».
Irene si sposò nel mese di febbraio del 1857 con un medico di
Torre del Greco.
Lo conobbe a Toledo, una volta che passeggiava con zia Mar-
gherita, e io non ero lì a impedirlo.
114
Era un bell’uomo, biondo, azzimato, cordiale. Si chiamava Mi-
chele Borriello. Fu un ricevimento sfarzoso e si tenne a Torre, in
casa del dottore. L’unica cosa che ricordo di quel giorno, l’unica
che la mia mente sconvolta riuscì a conservare, fu che Irene aveva
in mano un bouquet di fresie.
È morta nel 1899. Sono stato al suo funerale e ho pianto sulla
sua bara. So che non ci rivedremo mai più, lo so bene, ma là, da-
vanti a quella cassa che la nascondeva, le ho chiesto, con tutto il
cuore, di aspettarmi, lontano.

115
QUINDICI
LA SPIGOLATRICE DI SAPRI, 1857

Carlo Pisacane l’ammazzarono a Sanza, nel Distretto di Sala, il


2 luglio del 1857.
Fu una notizia che fece scalpore, anche perché quel 1857 fu un
anno di fuoco. Alla fine del ’56, dopo la morte di Agesilao Milano,
s’erano verificate un paio di sinistre disgrazie. Era scoppiata una
polveriera militare e aveva ucciso diciassette persone. Altre qua-
ranta erano morte a gennaio del ’57, dopo l’esplosione del pirosca-
fo Carlo III. Non era chiaro se si trattasse di coincidenze o se dietro
ci fosse una vera e propria cospirazione, fatto sta che il re iniziò a
rabbuiarsi, più di quanto non avesse fatto prima.
Dopo l’affare di Milano, Ferdinando era strano. Lo spavento
che s’era preso era stato troppo grosso e l’aveva affranto parec-
chio. Se ne stava a Caserta, nella Reggia, e non veniva che rara-
mente a Napoli. Era ingrassato, molto, si poteva dire obeso. Era
un vecchio re, ormai. E all’ombra del vecchio re si alzò Pisacane.
Carlo Pisacane aveva trentanove anni quando morì ed era già
stato alfiere dell’esercito borbonico, fuggiasco e galeotto per amo-
re, soldato della Legione Straniera in Algeria, aveva partecipato
alla Repubblica Romana ed era stato imprigionato dove lavorava
la buonanima di zio Achille, a Castel Sant’Angelo.
Il 25 giugno, Pisacane s’imbarcò sul piroscafo Cagliari, insieme
a Giovanni Nicotera, a Giovan Battista Falcone e ad altri venti-
quattro rivoluzionari. Il giorno dopo arrivarono a Ponza, dove
c’è il carcere, e liberarono più di trecento detenuti, che si uniro-
no all’impresa, prima di continuare il viaggio. Arrivarono la sera
stessa a Vibonati, a un chilometro e mezzo da Sapri, e si misero
in marcia verso Napoli. Raggiunsero Padula, ma là vennero in-
tercettati dalla gendarmeria e dai Cacciatori, che gli si misero alle
116
costole. Riuscirono a resistere uno o due giorni ancora a Sanza, ma
poi ebbero la meglio e i paesani li ammazzarono a colpi di roncola.
Sul Corriere di Napoli, Pisacane e i suoi erano dipinti come ban-
diti, criminali assetati di sangue venuti a far razzie nel Regno. Ma
era pure normale, se si considera come stava il re.
Se ci si mette anche che il 16 dicembre un terremoto rase al suolo
la Basilicata, provocando la morte di più di undicimila persone, si
può dire che il 1857 fu un anno terribile.
Per me fu anche peggiore di quel che si possa immaginare. Ci fu il
matrimonio di Irene, che mi spezzò il cuore e mi mise in corpo una
voglia di morire che ancora adesso, a pensarci, mi vengono i brividi.
Quante notti passai insonni quell’anno… Restavo al buio, or-
mai tornato padrone della mia camera, dacché Irene era andata a
vivere a Torre col marito, e mi rigiravo tra le lenzuola, col volto
fisso al soffitto, perduto nell’oscurità. Piangevo, e piangevo spes-
so, ma sempre in sordina, nascosto. Ero disperato.
La sognavo entrare in camera, spogliarsi e mettersi a letto con me.
Sognavo di far l’amore con lei ogni notte, e ogni mattina, quando il
suo fantasma mi abbandonava, mi lasciava con una malinconia su
cui restavo a rimuginare tutto il giorno, finché lei non tornava quan-
do mi rimettevo a letto e ricominciava lo strazio d’accapo.
Divenni più svogliato nello studio e più distratto nella lettura.
Mio nonno se ne accorse.
«Hai ragione» disse, «hai ragione. Fa male e farà male per sem-
pre e se qualcuno ti dice che poi il dolore finirà, è un bugiardo. Io
non ti illudo, farà sempre male, un po’ meno in certi momenti, ma
non smetterà mai. Hai ragione, figlio mio».
«Come devo fare, nonno?» chiesi, in lacrime.
«Non ci sono regole, Stefano. Un giorno ti innamorerai di nuo-
vo e tutta la tua dedizione andrà a un’altra donna e forse perderai
pure quella, e avrai un altro dolore a cui badare. È la vita. È ma-
ligna, la vita, e ti fa superare tutto. Non ti ammazza, mai, se non
alla fine. Vedrai se non ho ragione. So che ora ti caveresti i denti,
ti strapperesti gli occhi, il cuore. Ma queste cose non succedono ai
vivi, almeno non sempre. Succedono a quelli che non esistono, a
quelli che immaginiamo e che vorremmo essere. Loro s’ammaz-
117
zano, loro si disperano fino alla morte, loro affondano. Noi no,
purtroppo, noi restiamo sempre qui, a sperare che sia diverso, fin-
ché cambia tutto, ce ne andiamo, e ci dimentichiamo d’ogni cosa.
Questo è tutto. Sopravvivrai, figlio mio».
Il nonno era sempre più stanco e distante in quel periodo. Non
lo sentivo più sbraitare, né polemizzare con mio padre, né con-
testare il mondo. Divenne remissivo, silenzioso, introverso. Era
stanco, tanto stanco.
Una mattina si svegliò presto, molto presto. Si vestì, aprì la por-
ta della camera, ma si fermò sull’uscio, mentre fuori albeggiava.
In piedi, nel corridoio, avvolto nella luce turchina del giorno na-
scente, c’era Mario Pagano. Era vestito come usava nel Settecento,
con la redingote, gli scarpini con la fibbia dorata e il tricorno. Lo
fissava, con lo sguardo severo d’un tempo.
«Mi dispiace, ho fallito» disse mio nonno e abbassò la testa, at-
tendendo una risposta. «Abbiamo fallito tutti. Il mondo non si può
cambiare. È una vanità. Ora seguimi».
«Dove?»
«Da dove veniamo tutti».
«Ovvero?»
«Da nessun luogo».

Lo trovammo verso le otto, riverso a terra, davanti alla porta


spalancata della sua camera. Era già rigido, cereo. Il sangue aveva
già iniziato a coagularsi alla base della nuca.
Io ho sempre immaginato che fosse morto così, assieme agli
spettri. Quando lo vidi riverso là a terra, sul pavimento, quando
io, mio padre e Gioacchino ci calammo a raccoglierlo, non dissi
una parola, non emisi un fiato. Non piansi.
Lo seppellimmo nella cappella a Poggioreale, insieme a sua ma-
dre, a suo padre e a sua moglie.
Neanche al funerale piansi e neanche quando restai ancora una
volta al buio, nelle notti lunghe che vissi in seguito.
«Sopravvivrai» mi aveva detto e, ora, dopo tanti anni, quelle
parole mi suonano come una condanna.
Perché io, alla fine, sono sopravvissuto.
118
SEDICI
UMBERTO E GLI ANNI DELLA BOHÈME, 1858

Ho avuto un solo, grande amico in tutta la mia vita e questi è


stato Umberto Galiota.
Eravamo coetanei e ci conoscemmo da bambini per via dei no-
stri padri, ch’erano colleghi avvocati.
L’avvocato Federico Galiota, il padre di Umberto, era un vec-
chio principe del foro di Napoli ed era più anziano di mio padre
d’almeno cinque o sei anni. Non era napoletano, veniva da Saler-
no, ma aveva vissuto e lavorato a Napoli sin dalla giovinezza.
La madre di Umberto, Enrica Stanziano, «la signora Enrichetta»
come la chiamavamo in famiglia, era stata in gioventù una sopra-
no ed era stata diretta diverse volte da Vincenzo Bellini.
Umberto abitava non distante a me: a Largo delle Pigne, proprio
di fronte alla Porta di San Gennaro e al Caffè Aciniello.
Le nostre madri erano molto amiche e stavamo spesso insieme
quando il nonno non m’aveva sotto le grinfie del precettore o m’i-
solavo coi miei libri.
Quand’eravamo bambini giocavamo insieme, condividendo le
pazzielle e, a volte, mamma e la signora Enrichetta decidevano di
andare alla riviera e allora andavamo a giocare in Villa e fingeva-
mo di far la guerra o d’essere esploratori a caccia di belve feroci,
tra le palme folte che s’innalzavano sopra di noi, così che potevo
mettere in campo tutta la mia esperienza di zoologo dilettante.
Non ho mai conosciuto in vita mia una persona come Umberto,
mai. Non ho mai conosciuto un essere umano così di cuore, irre-
prensibile, sincero. Buono, questa è la parola: Umberto era buono.
Se il mondo umano avesse un senso, questa storia parlerebbe di
lui, non di me. Non arriviamo, però, a conclusioni affrettate, que-
sto non è il preambolo d’un’altra dipartita: Umberto non è morto,
119
anzi, è vivo e vegeto, anche se non lo vedo da anni. Non vive più
qui a Napoli, vive a Cremona, o meglio, vicino Cremona in un pa-
ese che si chiama Voltido, ma di questo parleremo dopo.
All’epoca, quando avevamo diciotto anni, Umberto poteva dirsi
la persona che, dopo i miei genitori, mi voleva più bene d’ogni
altra. Mia madre notò una certa morbosità nel suo attaccamento
a me quand’eravamo adolescenti, ma posso assicurare, e lo giuro
davanti a Dio, che non c’era nessun secondo fine nelle sue inten-
zioni.
Umberto mi voleva bene, davvero. Ero il suo migliore amico, il
suo compagno di giochi, il fratello mancato. Non era figlio unico,
aveva due sorelle, una più grande e una più piccola e s’era sempre
dovuto barcamenare tra le prepotenze di una e i capricci dell’altra.
Io ero la fuga da una coazione femminile troppo opprimente. Ero
il germano d’altro sangue.
A quel tempo, Umberto era un bel ragazzo: snello, pallido, ca-
pelli castani molto chiari e occhi d’un azzurro ombroso e scuro.
Indossava spesso abiti dai colori terrosi, marrone, ocra, caffè, e
portava sempre un cilindro bruno scuro, e ingombrante, che lui
adorava. In strada potevo avvistarlo da lontano grazie a quel cap-
pello.
Negli anni della nostra bohème eravamo una bella accoppiata di
giovanotti: entrambi aitanti e alti (anche se io lo ero di più, ed ero
più grosso di lui), azzimati ed eleganti, appassionati e malinconici.
Eravamo entrambi iscritti alla facoltà di Letteratura dell’Univer-
sità «Federico II», con rammarico dei nostri rispettivi padri che
avrebbero preferito per noi la carriera della legge. Mio padre ave-
va provato a convincermi a proseguire la sua attività, ma non era
stato molto convincente: mi invidiava, in fondo, per aver scelto le
Lettere.
Da bravi studenti di Letteratura ci comportavamo di conse-
guenza: eternamente annoiati, nostalgici, malinconici, sognatori e
furiosi avversatori di tutto ciò che non fosse Bello. Sempre con le
tasche piene di libri, scapigliati sotto al cilindro, le marsine scure,
divise dello spirto guerriero, il volto esangue e il cipiglio fiero tra i
ciuffi ribelli.
120
Ci crogiolavamo in questo maledettissimo di cui percepivamo
gli echi riverberare dalle lande più remote del mondo letterario.
Venivano dalla Lombardia le voci di certi giovani nostri coetanei
che avevano iniziato a far una poesia tutta diversa da quella letta
fino ad ora. Era una poesia libera, assoluta, vitale, come quella che
si faceva nella capitale del mondo dei poeti e dei letterati: l’amata
e lontana Parigi, dove vivevano gli artisti scapestrati del Murger.
Erano giovani sensibili e appassionati, «pronti al bene quanto al
male, inquieti, travagliati, turbolenti2».
C’erano nuovi scrittori d’oltralpe che noi conoscevamo solo di
fama, grazie ai mormorii di corridoio dell’Università, e che brama-
vamo leggere, ma i cui libri erano all’epoca rari e proibiti e questo
accresceva il fascino di quelle parole misteriose. Si mormorava il
nome di Gustave Flaubert, che a Parigi forgiava una prosa nuo-
va, ardita, vera, che avrebbe superato, si diceva, persino quella
del grande Hugo. C’era un poeta, Charles Baudelaire, che scriveva
versi così crudi e sublimi che la legge li aveva vietati, perché li con-
siderava sediziosi.
Anche a Napoli si viveva una piccola bohème. Giovani come
Vittorio Imbriani, ch’era mio coetaneo ed era figlio di Paolo Emi-
lio, che aveva fatto il Quarantotto, e nipote del poeta Alessandro
Poerio, morto all’assedio di Venezia, cominciavano a modellare un
ideale poetico più vicino alle necessità di questa gioventù pallida
e malinconica che anche nella capitale del Regno delle Due Sicilie
predicava il Bello e il Vero.
Era veramente un sogno come l’amore, il nostro, quell’amore
sconfinato e sicuro del proprio clangore rifulgente, che si arricchi-
va di nuovi e struggenti simulacri ogni giorno. Così, nella mia sca-
pigliatura trasmutarono in effigi gli amori che avevo avuto, così
fugaci e devastanti, e io li accrescevo d’intensità col pensiero e la
dedizione, come farebbe il cacciatore col fuoco di sterpi appiccato
davanti alla tana del cinghiale.
E Irene divenne una dea, una perduta divinità su cui lo sguar-
do dell’anima s’abbatteva quando l’orizzonte dei piaceri terreni si

2 Cletto Arrighi (Carlo Righetti, 1828-1906).

121
frantumava al cozzo con una nuova, struggente sestina e i piaceri
della carne di zia Margherita echi in risposta ai pensieri, quando,
traendo ispirazione da un romanzo, immaginavo prosaicamente
di perdermi nel panismo delle selve tenebrose.
Nuove compagne di vita si fecero avanti, nuove amiche a cui
rubai un bacio e una parola, a cui cento volte promisi il cuore e
cento volte me lo resero in frantumi.
Frequentavamo i Caffè, io e Umberto, dove ci sedevamo acca-
vallando le gambe, con l’aria ironica e sorniona dei coscienti, col
bicchiere d’assenzio diluito davanti, il bambù tra le mani e il sigaro
Toscano tra i denti.
Il nostro preferito era il Caffè Aciniello, quello di via Foria, ad
angolo di Porta San Gennaro, di fronte casa d’Umberto.
Esiste ancora l’Aciniello, e qualche volta ci torno e me ne sto
seduto a uno dei tavolini esterni, sul marciapiede rialzato, accanto
ai vasi di fiori e guardo la gente che passa in strada e ancora mi
volto, d’istinto, alla mia destra, dove si sedeva sempre Umberto,
per accennargli qualcosa di stravagante che ho visto, ma lui non
c’è e mi trovo a sorridere a una sedia vuota.
Sorbivamo il caffè o il nostro assenzio lentamente, seduti ai ta-
volini esterni o nella bella e confortevole saletta interna, davanti al
bancone di marmo bianchissimo.
Qualche volta, all’Aciniello, abbiamo visto Francesco Mastria-
ni che scriveva, seduto in disparte. Era un ometto basso, calvo,
pallido, col pizzetto puntuto e niveo ed era sempre seduto com-
postamente, con uno sguardo serio e la fronte corrugata, mentre
listava un capitolo di uno dei suoi interminabili e foschi romanzi.
Una volta, mentre lo scrittore usciva dal Caffè, con quell’aria sem-
pre affranta e cogitabonda, udimmo un cameriere mormorare:
«Meno male, il mio cadavere3se ne sta jenno».
E le taverne! Ah, le taverne… le buie taverne dove s’andava a
bere e mangiare a buon mercato piatti pieni di condimento, in-
naffiati da certi vini traditori che scendevano facili e risalivano

3 Il mio cadavere è un romanzo di Francesco Mastriani, scritto nel


1853.

122
subito. Dalla Taverna de’ fiori dietro Santa Maria la Nova a quella
della Sangiovannara nella Pignasecca; dal Pollino di via Tasso, a
Caponapoli, dove si mangiava all’aperto, ce le siam fatte tutte le
taverne di Napoli.
Quante sbronze ci siamo presi a quel tempo assieme a Umber-
to e agli amici dell’Università! Gente che se ora l’incontro non la
riconosco. Quante volte siamo tornati a casa senza esser capaci
di reggerci in piedi, sbiascicando qualche canzone o i versi che im-
paravamo a memoria e declamavamo nella notte, alla luna che a
Napoli si vede solo a mare, perché sta sempre nascosta tra i palazzi.
Vivevamo così, si doveva vivere così. Tanto quelli come noi so-
pravvivevano sempre. Vomitavamo l’anima, buscavamo qualche
botta dai nostri padri, ci imbrattavamo vestiti e linguaggio, ma
tornavamo sempre a casa. Quelli come noi non ci rimettevano mai
davvero. Potevamo bere fino allo sprofondo, ma ci aspettava il
letto, il nostro letto, e ci avrebbe aspettato sempre.
Ora che ci ripenso, dopo così tanti anni, non ho sulle labbra il
sorriso delle belle memorie o il ghigno amaro del rimpianto. Non
ricordo neanche bene quegli anni. Più ci rifletto, più sento un vuo-
to in quei luoghi dove avevo lasciato molti ricordi. Nomi d’amici
fraterni e non, vicende, aneddoti, dolcezze, tutto è svanito, e non
perché mi son fatto vecchio, ma perché al fondo di quelle cose che
credevo sacre ho trovato me stesso inerme, ho ritrovato il disagio
che tentavo di sopire col vino e con gli amori effimeri. Non so ne-
anche bene come raccontare quei giorni, e qualcosa che non può
essere raccontato è come se non fosse mai avvenuto. Anzi, forse
è peggio di così. Qualcosa che non può essere raccontato non ha
valso la pena di essere vissuto. Tant’è vero che quella parte della
mia giovinezza s’interruppe bruscamente e nel modo più sconvol-
gente.
L’unica realtà, l’unica certezza, l’unica memoria valevole ch’io
riesco a evocare da quel tempo, è il ricordo di Umberto. È solo
grazie a lui ch’io ricordo d’aver avuto vent’anni. Solo lui esiste nel
buio di quei luoghi abbandonati della mia anima. Solo lui e il sacri-
fico che fece per non abbandonarmi. Solo lui, l’amico mio, l’amico
mio perduto.
123
DICIASSETTE
CARLO LO STREGATO, 1858

E la politica? Come facevamo noi giovani scapigliati di buona


famiglia, di sana educazione monarchica, a far coincidere la no-
stra ritrovata aspirazione alla libertà con l’assolutismo del Regno
delle Due Sicilie? Bella questione.
La risposta? Non ce ne fregava niente, almeno a me e a Um-
berto, e se le scelte fatte in seguito dimostrano il contrario, conti-
nuo comunque a ribadire questo principio: a noi non interessava
nulla.
La nostra estetica, in un certo senso, ce lo impediva. Eravamo
sublimi pessimisti cosmici: la nostra passione per il Bello, la Poesia,
l’Arte trascendeva la realtà umana contingente e si sublimava in
direzione di vette più elevate. La Letteratura non aveva morale:
essa era libera espressione dell’io. «Poesia, solo poesia, niente altro
che poesia» era una frase che ci ripetevamo spesso.
Tutte chiacchiere. Chi aveva voglia di perder tempo a congiu-
rare, a fare la rivoluzione e a ordire cospirazioni? Chi aveva voglia
di distrarsi dalle taverne, dalle sale della Suprema, il casino più fa-
moso di Napoli, dai caffè letterari e non? Se quello che è accaduto
dopo, tutto quello che è accaduto dopo, è stato uno scherzo, com’è
possibile, ora, credere che all’epoca potesse essere diverso?
Ci ritrovavamo, sì, ci riunivamo in gruppo, ma eravamo sem-
pre io e Umberto, alla fine, e non nello scantinato polveroso d’un
vecchio palazzo, o nelle segrete di qualche cripta paleocristiana
a giurare come carbonari sui teschi, ma al cospetto di Carlo II,
sui piperni della Fontana di Monteoliveto, davanti alla Chiesa di
Sant’Anna dei Lombardi, ubriachi.
Molte sere abbiamo trascorso su quella fontana, io e il mio ami-
co, seduti a parlare, a spartirci un fiasco di vino guardando la not-
124
te versarsi su ogni cosa e i lampioni a gas tentar di fenderla con le
loro fiammelle bigie e tremanti.
La notte era bella a quel tempo, ancora stellata, perché la luce
elettrica non c’era ancora, e il gas faceva chiaro per terra, non in
cielo, e potevi ancora goderti la placidità dell’Orsa Maggiore, il
vago bagliore di Venere, il fulmineo passaggio d’una stella caden-
te. Ora, che tutti vedono in cielo e in terra, pure la notte è svanita
nel buio.
Ci sedevamo sul piperno freddo e scuro, e offrivamo sempre,
prima di bere, un sorso di vino al re Carlo, “Carlo lo Stregato”,
come lo chiamavano al suo tempo, la cui bronzea effige troneggia-
va il monolite della Fontana.
Bevevamo a lungo e parlavamo di poesia e di donne, fantastica-
vamo di fuggire a Parigi, o almeno a Milano, per conoscere Rova-
ni, «Perché tu, maledetto, Manzoni l’hai già conosciuto» ripeteva
sempre Umberto, fingendo d’arrabbiarsi.
Una volta, era il mese di maggio del 1858, ce ne stavamo a
bere in tranquillità, quando Umberto fece: «Ho ricevuto un invito
da un amico, Aldo De Martino, ricordi? Te ne ho parlato, m’ha
chiesto d’andare a trascorrere qualche giorno nella sua villa di Ge-
sualdo, a qualche chilometro da Avellino. Loro ci vanno sempre
in questo periodo. Ci sarà Aldo e ci sarà sua sorella, Giorgia. Mi
dà noia d’andarci da solo, perché non mi accompagni? C’è posto
a sufficienza».
Io ero già brillo a quelle parole e risi senza alcun motivo. Umber-
to dovette ripetersi.
«Quanto tempo dovremmo restare?»
«Poco più d’una settimana. Ti prego, dimmi di sì, non mi sen-
tirei a mio agio da solo. Potremmo fare scampagnate, o una bella
colazione all’aperto, come quelle che facciamo ai Ponti Rossi. Ci
sarà da stare allegri» continuò a supplicarmi Umberto.
Ero restio ad acconsentire, un poco perché m’ha sempre messo
in imbarazzo essere ospite d’altri, un po’ perché, avendo del vino
in corpo, mi risultava difficile concentrarmi sulla proposta. Non
ero mai uscito da Napoli fino ad allora e non sarei mai andato
oltre Roma in vita mia. Viaggiare m’incuteva un po’ di timore, a
125
dirla tutta. E dire che mi proponevo di andare a fare lo scapigliato
a Parigi addirittura! Non era un tragitto lungo fino ad Avellino,
appena un centinaio di chilometri, ma mi dava noia l’idea.
Il fatto è che mi sentivo sempre monco di qualcosa. Una volta era
la bellezza, l’altra era lo spirito, l’altra ancora il discernimento. Quel-
la doveva essere l’iniziativa. Ma l’ho già detto e forse lo ripeterò an-
cora: ho sempre combattuto una battaglia con l’essere inadeguato.
A quel tempo, cento chilometri erano un bel mucchio di pas-
si. Oggi, credo che quelle lande remote, almeno fino a un certo
punto, si possano raggiungere col treno. All’epoca, il treno non ci
arrivava e si doveva andare in carrozza e i viaggi in carrozza fa-
cevano paura, in tutti i sensi: dai briganti alla polvere delle strade
sterrate e disseste, dalle ruote della carrozza che si staccavano ai
cavalli imbizzarriti, dai posti di blocco alle distanze interminabili e
ai sobbalzi dell’abitacolo che ti massacravano le ossa. Non ti veniva
voglia di metterti in viaggio, soprattutto non veniva voglia a uno
come me, che amava parecchio le pantofole.
Tuttavia, la mia non era solo accidia. Io non me la sentivo d’an-
dare laggiù perché ci avevo sempre addosso il dolore di Irene.
Umberto era amico mio, il mio migliore amico, ma non era il mio
confidente. Io queste cose le ho sempre dette solo a me stesso e
questo m’ha giovato e m’ha fatto danno. M’ha giovato perché, alla
fine, ho imparato a parlar con me stesso veramente, come si deve
fare in questa vita che si campa da soli. M’ha fatto danno perché
è sempre una rovina vedere il mondo per quello che è e da un solo
lato: la coscienza si paga cara.
Io avevo sempre la bocca salata delle lacrime che continuavo
ingoiare e non volevo rischiare di doverle ingurgitare davanti ad
altri. Potevo bere, poetare, far l’amore e l’amico, potevo essere
scapigliato e artista, ma ogni volta che tornavo nel mio letto, tra
le quattro pareti della stanza, al buio, io ripensavo a Irene e non
potevo farne a meno. Potevo idealizzarla fino a farne una dea,
un angelo, un sogno, ma per quanto mi sforzassi, restava sempre
la donna di carne ch’io amavo e che viveva con un altro uomo,
lontano, e che non avrebbe mai alleviato la piaga che avevo aperta
nel cuore.
126
Per quanto si creda che il vivere di spirito sia sublime ed eccelso,
c’è sempre quel macello di desideri e passioni che manda tutto alla
malora e la donna che non hai amato, il sogno che non hai fatto e
l’alba del giorno della tua felicità che non è mai sorta saranno sem-
pre lì, nel rimpianto, a fare un colore più scuro nell’immensità di
tenebre che esiste e perdura alla fine dell’affanno d’ogni esistenza.
Perciò io ero restio, a causa di quell’angustia che mi dava tor-
mento e non volevo dir di sì, sebbene Umberto supplicasse.
Passammo qualche ora così, a fare un tira e molla, ma alla fine,
purtroppo per me, il vino ebbe la meglio e con esso il sonno e dissi:
«Va bene, Umberto, ti accompagno, ci andremo assieme».
Quella notte, io mi misi su una strada che avrei percorso fino in
fondo ma che, alla fine, avrebbe portato con sé la fine del mondo.

127
DICIOTTO
IN VIAGGIO, 1858

Quel che dopo cinquant’anni posso dire di Aldo De Martino è


che fosse un giovane serio.
Quando lo conobbi aveva vent’anni ed era laureando in Giu-
risprudenza. Era una persona assennata, cordiale, diplomatica e
questa sua non ultima dote si è rivelata quella più adatta a definir-
lo: visse lunghi anni in Venezuela, dov’è morto, svolgendo attività
diplomatica per il Regno d’Italia.
Era di statura media, biondo, d’occhi turchini e grandi. Una
persona del suo tempo, un degno rappresentate di quella schiatta
d’uomini nuovi che si preparavano a ereditare il mondo: ragione-
voli, ambiziosi, educati, fieri. Un altro, oltre a Umberto, di quelli
dei quali varrebbe la pena raccontare la storia, che con le loro vite
hanno incarnato il tempo meglio di quei pochi che, come me, ne
sono stati dei derelitti chirurghi.
Suo padre era un economista, moderatamente monarchico e
moderatamente liberale: né troppi «evviva» né troppi «abbasso»,
insomma.
I De Martino vivevano in un palazzo di via Toledo, poco distan-
te da piazza San Ferdinando e se l’erano vista sporca nel Quaran-
totto: Aldo ne parlava con cupa apprensione.
Aldo aveva una sorella, Giorgia, che in quel maggio del 1858
sarebbe stata il quarto componente e l’unica donna della brigata
che andò a Gesualdo.
Dopo la nostra notte brava a Monteoliveto, io e Umberto ci in-
contrammo all’Aciniello e lui mi mise a giorno dell’appuntamento
con i due fratelli: ci saremmo incontrati a piazza San Ferdinando,
all’alba di due giorni dopo, per metterci in viaggio sulla vettura dei
De Martino.
128
In quelle due giornate che mi separarono dal viaggio, riflettei
assai sulla mia decisione, che non era risoluta, ahimè. Troppe in-
cognite mi mortificavano e la mia scorza acerba, la mia sottaciuta
inanità d’essere, l’inadeguatezza congenita che solo cinquant’anni
dopo avrei imparato ad accettare, erano all’epoca fardelli pesantis-
simi. Ma c’era dell’altro. Ho detto del dolore che m’aveva procu-
rato la separazione da Irene, ma non ho detto dell’algia che ancora
mi procurava l’assenza di mio nonno.
Lo cercavo tra le lacrime, mio nonno, quando me ne stavo nel
buio della stanza a fissare il vuoto. Lo cercavo ascoltando i rumori
della casa, i colpi di tosse che a volte emetteva durante la notte e
che mi confortavano quando, da bambino, avevo paura del buio.
Ora non udivo più niente e col tempo tutti i rumori sarebbero ces-
sati, ammutoliti assieme ai fantasmi che sono diventati i miei cari.
Mi mancava il conforto della sua erudizione, il racconto delle storie
del suo mondo defunto, che si sono sommate a quelle del mio mondo
defunto, la sua angheria irascibile, il suo disinganno dissimulato.
Affrontare un viaggio, sebbene breve, voleva dire in quei giorni
rischiare di buttarmi in mezzo ai pescecani. Non avevo difese fuori
dalle mura mie, mi sentivo come una chiocciola privata del guscio.
Quelle due perdite m’avevano già gettato nella cenere delle cose
e delle esperienze irraccontabili, cosa m’avrebbero fatto se mi fossi
mischiato all’esterno?
Me lo chiedo ora, ma all’epoca ci rimuginavo sopra e basta. Non
potevo più rifiutarmi ormai.
Perciò, quella mattina di maggio io e Umberto ci trovammo alla
Porta di San Gennaro e andammo a piedi a piazza San Ferdinando.
Umberto, appena mi scorse, mi sorrise col fare suo bonario di
quando mi canzonava: portavo la redingote nera, colla cravatta
verde e avevo indossato il cappello alla quacchera, colle tese larghe
e portavo pure un paio di occhiali scuri e tondi: nell’idea che m’ero
fatto, quello era l’abbigliamento più adatto a dichiarare al mondo
il ruggito ch’avevo in corpo. In più recavo due fardelli: uno con
gl’indumenti per una settimana, l’altro con la scorta di letture ba-
stevoli per un mese. Il romantico non è solo feroce, ma anche so-
litario. Quei libri servivano ad allietare la compagnia di me stesso.
129
Arrivammo in poche battute alla piazza, chiacchierando della
bella giornata che s’era aperta e di qualche proposito per la per-
manenza.
A qualche metro dai portici del San Carlo, sostava la carrozza
dei Di Martino, un landò verde bosco a due cavalli, dalle fiancate
colorate d’oro.
Ad attendere erano in tre: Aldo, vicino allo sportello, accanto
a lui una giovane che doveva essere sua sorella e in cassetta un
cocchiere, con un cilindro bigio in testa e il tabarro di lana cotta
sulle spalle.
«Buongiorno a voi!» esordì Umberto, avvicinandosi ai due fra-
telli. Udii qualche convenevole e poi: «Questi è Stefano Turati, il
mio caro amico». Aldo mi strinse la mano con una bella stretta
calda, ma notai che la sorella mi squadrava strano.
Solo allora si può dire, la scorsi. Giorgia De Martino aveva all’e-
poca diciassette anni. Era una ragazza minuta come una pianta di
gelsomino in vaso. Quello che notai subito, oltre all’abitino di seta
color lavanda che indossava, era il collo liscio, pallido e serpentino
che veniva fuori dalla scollatura. Ogni parte del suo volto era pro-
porzionata e deliziosa: le gote, il mento minuto e aguzzo, gli zigomi
rosei e tondi, le orecchie piccole come conchiglie, il nasino francese
e fine, le orbite ovali e chiare, la fronte liscia e bianca. Era bassa
di statura e mi sembrò minuscola al mio paragone: eravamo due
antipodi. Il corpo che s’intuiva sotto al vestito era acerbo, asciut-
to, delicato come certe primizie d’agrumeto. Era bionda come suo
fratello, d’un colore più tenue, però, e aveva i capelli raccolti in
uno chignon agghindato da roselline bianche. I suoi occhi erano
chiari come bruma dell’alba: più che azzurri, erano grigi.
Quei due occhi mi stavano squadrando da un po’, mentre facevo
il diplomatico con Aldo. Poi s’appacificarono ed ella esordì: «Ditemi,
signor Turati, sarete mica venuto a menarci il gramo oggidì?»
Io allibii e con me Umberto e Aldo.
Restammo per un po’ in silenzio, imbarazzati. «Suvvia, che
scherzo. Come siete seriosi voi uomini! Non si può motteggiare un
po’ uno vestito da iettatore che subito v’imbarazzate e fate i musi
offesi».
130
«Nessuna offesa, signorina De Martino, figuratevi» dissi io, col
cuore in gola, perché m’aveva scoperto in fondo, ma tentando an-
cor di resistere e togliendomi gli occhiali, per guardarla meglio.
«Ora va meglio, posso guardarvi gli occhi e non quegli specchi
neri da beccamorto. Sembrava che stesse andando a un funerale»
sorrise poi, e all’ironia si sostituì qualcosa che non avevo visto pri-
ma: una specie di dolcezza, che le illuminò gli occhi e spiazzò metà
delle nebbie che aveva dentro. «Non abbiatene a male, Stefano, sta-
vo solo scherzando, mi piace burlarmi dei miei amici».
«Allora posso mettermi nel novero dei vostri amici?»
«Vedremo, se vi saprete comportare a dovere: sappiate ch’io
non sopporto due cose, i permalosi e i superbi».
«Stefano, dovete scusarla, mia sorella è fatta così: ama prender-
si gioco di tutto e di tutti, ma non è cattiva. Almeno non sempre»
intervenne Aldo.
Ci facemmo una risata, e io non potei che starmene un po’ rigi-
do, in verità, mentre ridevo, perché quella ragazza m’aveva spiaz-
zato.
Era bella oltre ogni dire. Bella di sembiante e bella d’animo.
Aveva una voce liscia come la coda d’un gatto neonato e sapeva
sorridere delicatamente, mettendo a nudo una fila di denti non
bianchissimi, ma leggermente offuscati nello smalto.
In quei pochi minuti ch’ero stato in piedi davanti al landò, ave-
vo già perso il cipiglio, il ruggito, il dolore perenne del romantico.
Avevo già gettato al vento la passione d’Irene e tutti quei pensieri
tetri che m’avevano accompagnato fino allora. Ero così… a pun-
tini, approssimato e incerto, una sospensione di giudizio e di pen-
siero. Se solo mancassero spesso le parole nella vita, come in quel
caso! Ahimè, non succede mai. Anche se il mondo ha bisogno di si-
lenzio, prima o poi l’ultima parola, che è quella creduta risolutiva,
arriva alle labbra e bisogna pronunziarla. Questo è il guaio vero
dell’esistenza: si ha sempre qualcosa da dire alla fine.
Il cocchiere, un buontempone puteolano che stava con la fami-
glia De Martino da sempre, caricò i bagagli miei e di Umberto e
così, alla fine, senza altri indugi, ci mettemmo in viaggio.

131
DICIANNOVE
BENEVENTO, 1858

Per andare in Irpinia a quel tempo, quando non ci arrivavano


ancora i treni, si doveva andare a prendere “la regina delle strade”,
l’antica via Appia.
Ancora all’epoca, l’Appia aveva quel fascino sacrale che hanno
le cose mitiche. Ogni sobbalzo, ogni folata di vento che ti riempiva
l’abitacolo di polvere, ogni tortuosità del tragitto la si accettava
come un pegno da pagare al privilegio di poter percorrere la strada
lungo la quale erano stati crocefissi Spartaco e i suoi seguaci.
Di quel viaggio ricordo la vastità delle campagne che un tem-
po erano l’orgoglio del Regno delle Due Sicilie. I napoletani sono
conosciuti come “i mangia foglie”, perché gran parte della dieta,
almeno una volta (e quante volte l’ho ripetuta e la ripeterò questa
parola), era costituita da verdure e ortaggi. Tutti i campi, gli orti,
le zolle e i declivi che s’incontravano lasciando Napoli e la sua
cerchia di palazzi erano un lussureggiare di erbaggi rigogliosi.
I cafoni, con le maniche della camicia risvoltate e i calzoni di fusta-
gno infangato, se ne stavano curvi a odorare la terra, con le mani tra
le verdure e i legumi, o abbarbicati sui tronchi degli alberi da frutto,
che sarebbero andati a finire sui banchi di tutti i mercati di Napoli.
C’era un bel sole sul mondo quel giorno, l’aria tersa, che lasciava
spaziare lo sguardo fino alla catena dell’Appennino, e un odore di
verzura fresco e intenso, unito al ronzare disperato delle mosche
che non sapevano più su quale marcescenza degli orti dovevano
andarsi a posare.
La carrozza viaggiò spedita fino a Nola, poco prima d’immet-
tersi sull’Appia e di procedere per Benevento e poi verso il Passo di
Mirabella. Io e Umberto eravamo seduti l’uno di fianco all’altro, in
senso di marcia, mentre di fronte stavano i due fratelli.
132
Di quando in quando buttavo l’occhio su Giorgia, così bella e
attraente, e la vedevo esiliarsi con gli occhi al verde del mondo di
ieri e allora ci tornavo anch’io, a quel verde, che poi mi sarebbe
restato nell’anima come il segno più vivido delle cose naufragate
in questo grande fiume in piena.
A un tratto udimmo un gran trambusto di cavalli, un trottare
violento alle nostre spalle e ci sporgemmo dai finestrini a vedere
cosa fosse. Un drappello di dragoni transitava spedito e affiancò la
nostra carrozza, così che il puteolano in cassetta dovette fermare
la vettura a margine della strada. Li guardammo sfilare sui loro ca-
valli furenti, con gli elmetti luccicanti al sole di maggio, le uniformi
blu e cremisi e le gualdrappe rosse.
Poi un ufficiale, un bel tipo aitante coi mustacchi sottili e i colori
bruni degli iberici, si fermò con l’attendente davanti alla carrozza
e scese da cavallo.
«Buongiorno signori» disse, «mi dispiace importunare il vostro
itinerario, ma ho l’obbligo di controllare i documenti».
Porgemmo a turno le carte all’ufficiale, che le scrutò severamen-
te e ci domandò quale fosse la meta del viaggio prima di ridarcele.
Poi continuò: «È invero un sollievo, signorina De Martino, sa-
pervi accompagnata da tre gentiluomini: questo mi solleva dall’ob-
bligo di separare due dragoni dal mio plotone e metterli di scorta
alla vostra carrozza».
«Vi ringrazio, signor…?»
«Vi prego di scusarmi. Sono il capitano Alderigi, ai vostri ordi-
ni, signorina».
«Vi ringrazio, capitano Alderigi. Questa scorta di valenti uomi-
ni sarà più che sufficiente alla mia difesa fino ai territori d’Ultra».
«Invero spero di non essere troppo ardito, e che vostro fra-
tello qui presente non ne abbia a male, se mi permetto d’af-
fermare che siete una delle creature più belle ch’io abbia mai
veduto».
«Troppo cortese, mio galante capitano» che baciò la mano di
Giorgia educatamente.
«Spero, signori, di non avervi importunato troppo con il mio
dovere e le mie chiacchiere. Buon proseguimento del viaggio a voi
133
tutti» concluse l’ufficiale. Poi rimontò in sella e partì al galoppo,
rincorrendo i suoi ch’erano andati avanti, seguito dall’attendente,
che per tutto quel tempo aveva tenute le briglie del cavallo del ca-
pitano e quelle del suo.
Durante quel colloquio, io me ne stetti rabbuiato in un angolo
della carrozza, senza proferir parola, in sordina rispetto agli altri
che si profondevano in qualche sorriso di circostanza. M’ero go-
duta la vista di Giorgia fino a quel momento. Di tanto in tanto i
nostri occhi s’erano incontrati e nel frangente in cui il mio si eclis-
sava dal suo sguardo, m’era parso di notare in esso una luce di
complicità, che m’era piaciuta assai. Avevo allora osservato con
più trasporto la campagna, il bel cielo di maggio, il sole, confor-
tato dall’idea che un paio di begli occhi come quelli m’avessero,
per un istante soltanto, concesso la loro considerazione. L’arrivo di
quell’ufficiale aveva invalidato tutto. Avevo guardato con atten-
zione Giorgia sorridere, come si diceva a quel tempo, maliziosetta
al bell’ufficiale e diventar rossa non tanto di virginal contegno (al-
tra celebre effusione verbale delle magnifiche sorti e progressive),
quanto della coscienza d’esser bella e attraente. In una parola: ero
geloso. Perciò, con un muso che arrivava fino al pianale del landò,
me ne stavo rabbuiato in un angolo, con un cipiglio che doveva
essere sprezzante e un subbuglio di bile nello stomaco, misto a una
voglia disperata d’uscire e fuggir via.
Ci rimettemmo in viaggio appena il capitano si fu allontanato e
così Aldo iniziò: «Sorella mia, mi complimento con te: hai conqui-
stato il cuore d’un capitano di Sua Maestà Re Ferdinando. E che
capitano, poi!»
«Certo, fratello caro, cosa ti aspettavi? Non rammenti forse che
tua sorella è la più avvenente fanciulla della nobile città di Napoli?
Più d’un cuore hanno scardinato questi occhi di ghiaccio! Tuttavia,
devo ammettere che sarebbe stato meglio che invece di quel bel
marcantonio di capitano ci avesse fermato una graziosa capitana,
prima di tutto perché avrebbe allietato la vista della maggioranza
dei presenti e, forse, perché non avrebbe gettato nello sconforto in
cui è ora il povero signor Turati».
Io trasalii.
134
«Cosa ci è, signori Turati? Pensavate non ci fossimo accorti della
vostra afflizione? Siete forse un mazziniano che teme d’esser disco-
perto? Umberto, non ci hai detto che trasportiamo un repubblicano?»
A questa affermazione, Umberto e Aldo scoppiarono a ridere,
mentre io da paonazzo passavo al verde e mi facevo l’intero arco-
baleno in volto. Mi provai di sorridere, ma fu uno sforzo immane.
«Non vi preoccupate, signor Turati, il vostro segreto è ben cu-
stodito con noi. Vi aiuteremo a fare l’Italia una, se proprio ci tene-
te. Basterà fare un bel paio d’occhi dolci al capitano Alderigi e le
cose si sistemeranno».
Umberto e Aldo risero ancora, più forte e Aldo aggiunse: «Si-
gnori Turati, mi dispiace per voi, ma mia sorella ci ha preso gusto!»
Guardai Umberto, che aveva le lacrime agli occhi per le risate e
mi conosceva troppo bene per non sapere ch’io stavo friggendo.
Dovevo dire qualcosa, qualsiasi cosa, se non volevo fare la figura
del bazzeriota.
«Non è il caso che vi sacrifichiate per me, signorina Giorgia»
«Ma figuratevi Stefano, mi sacrifico, mi sacrifico volentieri! Per
l’Italia una, per Mazzini e per la Giovine Italia».
«Beh, a questo punto avrei potuto farglieli io gli occhi dolci al
capitano, sapete, questi soldati a volte sono stravaganti…»
«Ma qui mi si nasconde tutto! Aldo, Umberto, ma non mi ave-
vate detto che il signor Turati, oltre che mazziniano, fosse pure
stravagante. Addirittura sarebbe capace di far gli occhi dolci a un
capitano dei dragoni di Sua Maestà! Che cosa non si farebbe per
la patria!»
M’aveva atterrato. Restai in silenzio e mi limitai a sorridere, an-
che perché un po’ iniziava a divertirmi davvero.
«Avete vinto voi, signorina De Martino, mi rimetto alla vostra
mercé» dissi.
«Sentite, signori miei, basta con questo voi. Diamoci del tu. Son
tempi moderni questi, approfittiamone finché resteranno tali» di-
chiarò Giorgia.
Il suo sguardo ritornò nel mio e si soffermò per un attimo, co-
stringendomi a non distrarre gli occhi. Era dolce, gentile, sincero:
mi domandava scusa.
135
Arrivammo nel contado di Benevento che già il sole s’alzava sulla via
di mezzogiorno. A quel tempo, Benevento era ancora dominio ponti-
ficio e quindi, prima di poterci avventurare nel territorio, dovemmo
nuovamente mostrare i documenti alla gendarmeria papale, che presie-
deva un casello sotto l’insegna delle chiavi incrociate di Pietro.
Intanto, si cominciava ad avvertire un certo languore. Io e Um-
berto avevamo bevuto una tazza di caffè per svegliarci prima di
raggiungere i De Martino, ma non avevamo mangiato nulla.
Arrivammo, allora, in una specie d’aia che s’apriva al lato della
via, davanti a un cascinale di pietra bugnata che aveva tutta l’aria
d’una taverna.
Era una costruzione a due piani, rustica a dir poco e forse vec-
chissima, con il tetto spiovente di tegole d’argilla rossa e un’alta
torre piccionaia a lato, dalla cui sommità s’intuiva il trambusto
dell’agitazione serena degli uccelli.
A dritta della casa stava la stalla, dove si fermavano i cavalli a
rifocillarsi e, proprio davanti all’ingresso, cresceva un noce pode-
roso, che è simbolo di quelle terre di streghe. Sulla facciata della
casa un glicine aveva messo radici profonde e s’era arrampicato
fin quasi al tetto.
L’insegna diceva “Dal cacciatore” e c’era disegnata la sagoma
scura, certo non michelangiolesca, d’un cinghiale irsuto e grasso.
Davanti alla taverna stavano una cagnara di meticci scodinzo-
lanti, un mucchio di monelli che giocavano rincorrendosi e qual-
che avventore che si godeva il sole fumando e chiacchierando.
Entrammo dopo aver parcheggiato la carrozza, seguendo Aldo
che sembrava pratico del posto.
All’interno era uno stanzone ampio, pieno di tavolacci lunghi.
C’era un odore di cucinato là dentro da far resuscitare i morti.
Quello che stuzzicò il mio interesse, a parte l’odore delle belle
cose che si promettevano, erano i trofei appesi alle pareti, che fa-
cevano veramente meritare a quel posto il nome che aveva. Ana-
tre, tordi, folaghe, fagiani e altri uccelli impagliati; teste di cervi
e caprioli, di lupi e di cinghiali, ramificazioni di corna di tutte le
dimensioni e forme, fissate su assi di legno smaltato, con tanto di
cartiglio che diceva il luogo e l’anno della cattura. Era un museo
136
della caccia quello, non una taverna. Mi si risvegliò l’antica pas-
sione per la zoologia. Erano esemplari magnificamente impagliati,
curati nei particolati degli occhi di vetro e delle cuciture. Stavano
con le bocche spalancate, a gridare qualcosa dal cimitero delle pa-
reti nude, qualcosa che non s’udiva. Su una mensola, modellato
nell’atto di saltare, c’era un cinghiale cucciolo. Il manto striato,
fulvo ocra, gli occhietti neri e minuscoli, la bocca spalancata e ro-
sea, in cui s’intravedeva l’accenno di zanne che non sarebbero mai
state tali, lo rendevano inquietante. Era tutto disperato quell’ani-
maletto, tutto in preda a un terrore che s’era fissato nella carne.
Dovetti distogliere lo sguardo da quella creaturina disperata.
Tuttavia, l’angustia se ne andò presto, soppiantata dalla fame.
Il proprietario, che chiamavano Giovannone, perché era grosso
come devono esserlo i tavernieri, conosceva bene Aldo e Giorgia. I
due erano avventori da tempi immemori: ogni volta che si recava-
no a Gesualdo si fermavano lì a desinare.
Giovannone era un omone sulla cinquantina, di quelli sempre
unti e sudati, ma che odorano di roba saporita, non di letame. Ave-
va certi favoriti alla Murat, folti e ricciuti, e una chioma candida
da leone.
Ci fece sedere a un tavolaccio in disparte da un mucchio d’altri
avventori, tutti mercanti, paesani e trainieri vestiti di fustagno o
velluto che s’erano fermati per mangiare un boccone e bere un
bicchiere o due.
Giovannone si informò di come stessero i genitori di Aldo e di
Giorgia, di come era proceduto il viaggio fino a quel momento e
di altre quisquilie.
Poi ci portò del pranzo e mangiammo da monarchi, perché
Giovannone aveva a cuore i due ragazzi e s’era prodigato a far
preparare a sua moglie, ch’era la cuoca, una buona abbondanza di
cecatielli a ragù d’agnello, succulenti da perderci i sensi.
Annaffiammo gli gnocchi con un paio di bottiglie di aglianico
sodo e non stramazzammo a terra dopo pranzo per l’ubriachezza
perché avevamo lo stomaco ripieno.
«Siete stato voi l’artefice di queste catture?» domandai a Gio-
vannone, indicando le pareti.
137
«Di molte, sì. Alcune, invece, le ha fatte mio figlio grande, che
sta alla Montagna4, altre mi son state regalate dai clienti più affe-
zionati. Voi siete cacciatore?»
«Non ne ho mai avuto il piacere».
«Vi dovrete rifare allora. C’è molta soddisfazione nella caccia.
Venite, voglio farvi vedere una cosa» disse, e mi portò davanti ad
un quadretto con la cornice di radica, contenente un paio di zanne
ocra che mi parvero di cinghiale, ma più grosse. Il cartiglio diceva:
“Camposauro, Autunno, A. D. 1754”.
«Queste sono zanne d’orso. L’ammazzò la buonanima di mio
nonno quand’era giovane, là sui monti. All’epoca ce n’erano in
queste contrade, ma ora non se ne trovano più e bisogna andar
sui monti degli Abruzzi per vederne. Mio nonno raccontava che
l’aveva abbattuto in un sentiero tra i boschi e non c’era stato verso
di trasportarlo a valle, così gli aveva cavati i canini, che stanno su
questa parete da allora».
Restai a guardare con stupore quei denti aguzzi e imponenti, d’una
bestia di quelle feroci da favola, che se ne stanno rintanate sui mon-
ti, nelle spelonche. Quella era veramente una terra selvaggia, ancora
invischiata di tenebra. Lo si sentiva nell’aria che l’uomo dipendeva,
in quelle provincie, dalla natura imperatrice e che il Progresso, quello
che in città faceva già sentire i suoi clamori, lì sarebbe stentato a di-
vampare, almeno per qualche tempo. Non erano i denti d’una fiera
quelli incorniciati, ma le fauci del mondo di ieri, così oscuro e incerto
come doveva essere la vita ai primordi. Erano la traccia dell’epoca
leggendaria degli orsi e dei lupi, quel mondo oggi sparito, cancellato
dalla luce che ogni dove batte, in cerca del Vero, e lo perde, sempre.
Finimmo di desinare quella buona merenda e ci mettemmo a
fumare un sigaro col caffè, per digerire, quando a me scappò di
fare acqua e uscii per andare alla latrina, che stava alle spalle della
locanda.
Là dietro, una stradicciola menava ai campi, coltivati a orto per
un canto e all’altro a vite. Alla mano monca stavano le stalle degli

4 Si tratta di San Giorgio la Montagna, dal 1929 San Giorgio del


Sannio.

138
animali, porci e pecore che allietavano la tavola della locanda. La
latrina era un tugurio a lato della rimessa degli attrezzi e del gra-
naio, che puzzava da far schifo, così che me ne andai un po’ per la
stradina e pisciai nel campo.
Tornando sui miei passi, vidi accanto a una porta, che doveva por-
tare in cucina, una signora seduta su uno scranno, vestita di scuro,
con un gran fazzoletto in testa. Era vegliarda, a giudicare dal volto e
dalle mani vizze. Se ne stava immobile, seduta sul suo scranno, e ave-
va in grembo un gattino grigio e tigrato, che dormiva rannicchiato,
con le zampe nascoste sotto al corpo. La vecchietta aveva due occhi
quieti, placidi e teneva le mani attorno al micio e guardava l’aia che
andava ai campi. Appena mi vide mi fece un cenno di saluto in dialet-
to, ch’io non compresi bene, ma al quale risposi cavandomi il cappello.
Rimasi qualche istante a fissare quelle due figure e una terribi-
le tenerezza m’avvinse. Sentii una stretta al cuore tanto forte da
averne quasi voglia di piangere. Eppure, fui intimorito, poiché la
tenerezza è il sentimento che ci rende umani, più di qualsiasi al-
tro, è l’anima stessa della compassione. Nella tenerezza l’uomo è
l’essere davvero supremo. Questo è il guaio, che la tenerezza sta
solo in cuor suo. Quel che fa tenerezza diventa pericoloso, perché
si sottrae alla natura. Esiste una ferocia che si combatte, oramai,
da tempi antidiluviani e che è, tuttavia, l’unica ragione d’esistenza
delle cose vive. Mentre un tempo, forse, si sapeva come glorificare
nel suo canto spinoso questa ferocia, come renderle giustizia nel
groviglio dell’esistenza, domani essa sarà lenita dalla tenerezza e la
si crederà vinta. Ma non si può vincere il Vero.
Spero di non vederlo mai quel tempo, in cui la tenerezza avrà
pervaso ogni azione umana e gli animi allibiranno davanti alle na-
turali recrudescenze della ferocia. Quello sarà il tempo del vero
abisso, in cui la socialità invasata dei nuovi credenti avrà contato
d’estirpare il male dalla terra. Il male è la terra, e lo sarà sempre,
fin quando l’uomo non avrà compreso la sua cosmica inanità, ma
questo, ahimè, non accadrà mai.
Me ne tornai dentro, turbato, e mi rimisi a tavola con i miei ami-
ci. Dopo aver pagato un conto modesto, ci rimettemmo in viaggio.

139
VENTI
GESUALDO, 1858

Quando ormai era pomeriggio inoltrato, superammo il Passo di


Mirabella e ci addentrammo nel contado del circondario di Frigen-
to, di cui faceva parte Gesualdo.
Dopo il 1860, Gesualdo, Frigento e le altre cittadine limitrofe
sarebbero entrate a far parte della neonata provincia di Avellino.
A quel tempo, invece, i comuni erano distribuiti in una serie di
circondari, dieci per l’esattezza, che facevano capo a un Distretto,
quello di Sant’Angelo dei Lombardi.
Frigento, fino a una quarantina di anni prima, era stata una
sede vescovile che aveva goduto d’un certo prestigio. Era un paese
elevato su una cima alta poco più di novecento metri, coperta di
castagneti.
Il puteolano, che si chiamava Michele, all’ordine di Aldo fermò
la carrozza sul ciglio della strada, in una zona rialzata al limitare
d’una valle. Scendemmo dalla carrozza e ci mettemmo a osservare
il paesaggio.
«Vedete, quello lassù e il paese di Frigento, antica sede vescovile
e capoluogo del circondario. Ecco laggiù Gesualdo».
Gesualdo era un borgo magnificamente arroccato su una dor-
sale calcarea tra le valli di due fiumi, il Fredane e l’Ufita. Notai
subito, sulla vetta dell’abitato, la fabbrica gentilizia del castello,
un’imponente rocca signorile che sovrastava il paese e la vallata
verde di boschi che divideva la dorsale dalle sagome ciclopiche dei
monti Terminio e Cervialto.
Alle nostre spalle, verso la valle dell’Ufita, nuove catene mon-
tuose, gruppi assopiti di case bianche e paeselli e un grande, ameno
orizzonte brumoso alla fine.
Uno spettacolo incantevole.
140
Ci rimettemmo in marcia e lasciammo la strada maestra per
inoltrarci su una mulattiera, un tratturo brullo che menava in con-
trada.
Accanto alla carrozza sfilavano le sagome delle querce, dei pru-
ni, dei noccioli selvatici e a campi coltivati s’alternavano porzioni
fitte di boschi di quercia e ancora campi e filari di viti e orti.
Mi gustavo quell’itinerario con un par d’occhi innamorati, cer-
cando di tendere il collo dal finestrino agli odori, alle luci, ai colori
strazianti di quell’insieme di splendori. Io non avevo mai visto, né
avevo mai patito tanto profondersi di bellezza in vita mia, salvo
quando vidi emergere dalle acque del Golfo i cetacei.
Arrivammo finalmente alla villa dei due fratelli. Era una fabbri-
ca antica, di quelle vicereali. Sorgeva nella contrada denominata di
San Silvestro, ma che volgarmente era detta Torre dei Monaci, per
via d’una vecchia torre medievale, sede conventuale un tempo, che
si ergeva in mezzo a una radura. La villa era cinta da una murata a
bugnato, che si chiudeva a cortile e vi si accedeva passando per un
cancello di ferro battuto, sormontato da un arco di pietra nel qua-
le era incastonato il resto d’uno stemma gentilizio indecifrabile. Il
cortile era ampio, coltivato a meli; la casa su due livelli, preceduta
da un imponente portale. Al di sopra, il tetto terminava con una
torre piccionaia, grande e massiccia, adibita ormai a stanze. Dietro
la casa, le stalle, il pollaio e il porcile, dove i guardiani allevavano
qualche bestia.
Il fattore della tenuta, il signor Carrabs, era un uomo abbastan-
za giovane, vestito di velluto marrone e barbuto, che si levò il cap-
pello in segno di rispetto davanti ai due fratelli.
C’era un bell’odore d’erba fresca intorno e l’aria era piacevol-
mente fredda. Entrammo in casa e notai che s’accedeva subito a
una bella sala da pranzo, che confinava con un salotto e con la
scala che conduceva ai piani superiori e alle stanze.
Mi fu mostrata la mia da un servo, che doveva essere il figlio di
quel Carrabs, e notai piacevolmente che affacciava sul retro della
casa, sulla valle e sui boschi.
Eravamo in condizioni pietose tutti e quattro. La polvere che si
respirava e che s’ammucchiava sui vestiti e sulla pelle durante quei
141
viaggi in carrozza era un castigo di Dio. La prima cosa da fare era
spogliarsi completamente, buttarsi in una tinozza d’acqua bollente
e darsi una bella ramazzata piena di sapone. Non c’era verso quasi
di respirare ed eri tanto lercio da sentirti un minatore. Per non par-
lare dei colpi ricevuti alla schiena, a causa dei sobbalzi e dei fossi.
Alla fine, non s’era fatto un viaggio, ma un calvario.
Imbruniva lentamente fuori, poiché s’era giunti a destinazione
a pomeriggio inoltrato e ci demmo appuntamento per quella sera
in salotto.
Prima di chiudermi in camera e abbandonarmi ai tepori della
tinozza che m’avevano preparato, incontrai Giorgia in corridoio e
notai che il suo grazioso chignon s’era appassito e disfatto a causa
dei turbamenti del tragitto.
«Non vi fa bene andare in giro senza coiffeur personale, Gior-
gia» dissi.
«Prima di tutto, avevamo stabilito di darci del tu. E poi, caro
Stefano, di moda non ne capisci proprio niente: la mia è un’accon-
ciatura pagaille5, molto in voga a Parigi» e sorrise.
«Ci vediamo dopo allora».
«A dopo, mon ami».
Mi tolsi tutti i vestiti e li gettai da una parte, sperando che qual-
cuno avrebbe potuto lavarli prima di rimetterli in valigia.
Rimasi nudo, col mio pancione che m’avrebbe accompagnato per
tutta la vita e soppesai con lo sguardo la borsa dei libri che avevo por-
tato con me, fardello non dissimile da quello che già avevo in corpo.
Mi immersi nella tinozza e l’acqua calda mi tramortì e dovetti
sospirare di piacere. Fu sublime. Stavo davanti alla finestra, disteso
nella tinozza e vedevo il cielo tingersi di cremisi là fuori, impalli-
dirsi e bruciare al contempo nel gran fuoco sereno del vespro. Ero
estasiato. Pensai a Giorgia, a quel sorriso delicato che mi aveva
rivolto e pensai pure a Irene, che era scarlatta come quelle fiamme
del cielo. E mi toccai lungamente e venni nell’acqua bollente, dopo
essermi tolto la polvere dal corpo e un po’ di frustrazione dall’a-
nima.

5 In francese sta per «scompiglio».

142
Dopo il bagno, mi rivestii con un abito meno lugubre, d’una bel-
la tinta beige. Scesi in salotto e mi sedetti in poltrona, davanti al ca-
minetto, ove era stato acceso un fuoco che, sebbene fosse maggio,
faceva il suo dovere, poiché in quelle zone montane la temperatura
era ancora rigida.
Poco dopo mi raggiunsero anche Umberto e Aldo e ci mettem-
mo a chiacchierare.
«Spero sia tutto di vostro gradimento, amici» disse Aldo.
«Tutto perfetto, Aldo, me ne avevi parlato bene, ma non pen-
savo potesse essere così incantevole questo paese. Ti ringrazio per
averci accolto e spero di poter ricambiare in qualche modo, un
giorno» rispose Umberto.
«Non preoccuparti, è un piacere. Spesso ci veniamo da soli, io
e Giorgia, a trascorrere i mesi estivi, quando i nostri genitori non
possono. C’è sempre un bel fresco quassù e una gran pace».
«È da molti anni che possedete la villa?» domandai io.
«Sì. L’acquistò mio nonno, quando venne soppressa la diocesi di
Frigento e alcuni beni furono messi all’asta. Mio nonno era inge-
gnere idrico e si trovava spesso in viaggio e una volta passò di qui
e si innamorò del posto».
Poi restammo in silenzio, a contemplare il fuoco, ciascuno a suo
modo immerso nei propri pensieri e sul volto d’ognuno balenava
la luce rossastra delle fiamme agitate.
Mi mancano momenti come quelli. Mi manca quando si stava
tra gentiluomini, a fumare sigari e a conversare con garbo. Erava-
mo giovani, eravamo spauriti, ma i nostri atteggiamenti e le nostre
parole volevano il contrario. Non ci guardavamo negli occhi, per
non rivelare l’un l’altro l’inganno. Mi manca la decenza di quei
tempi, in cui ci credevamo adulti ed eravamo ancora in grado di
rimanere a bocca chiusa.
Poco dopo ci raggiunse Giorgia. S’era cambiata anch’essa d’abi-
to. Era in avorio, adesso, e portava sulle spalle uno scialle bordò,
che la teneva al caldo.
«Eccola la gioventù moderna: poltrona e pantofole» disse sorri-
dendo e si mise a sedere con noi accanto al fuoco.
«La cena sarà pronta a breve, ho chiesto a Teresina (la moglie di
143
Carrabs) di preparare il coniglio, spero vi piaccia» disse Aldo, met-
tendo un altro ciocco nel fuoco. Poi tornò a sedersi in poltrona e
fece: «Vorrei leggervi qualcosa prima di metterci a tavola» e tolse
dalla tasca interna della sua giacca antracite un volume in dodicesi-
mo, rilegato in marocchino cobalto, con fregi d’oro al dorso. Regge-
va quel volumetto con reverenza, quasi stesse lì per frangersi.
«Questa è la prima edizione dei Fleurs du mal del signor Baude-
laire. È un libro estremamente raro. È apparso l’anno scorso, ma è
stato censurato dalle autorità francesi per oltraggio alla pubblica
decenza. Sono riuscito ad averne una copia per via clandestina. In
vita mia, non ho mai letto niente di simile».
Aldo si sporse al bordo della poltrona e piegò un poco il volume
in modo che la luce delle fiamme si proiettasse sulle pagine aperte
e iniziò a leggere:

«La Nature est un temple où de vivants piliers


Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L’homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers.
Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.
Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants,
Doux comme des hautbois, verts comme les prairies,
– Et d’autres, corrompus, riches et triomphants,
Ayant l’expansion des choses infinies,
Comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens,
Qui chantent les transports de l’esprit et des sens6».

6 La Natura è un tempio dove vivi pilastri/ Lasciano a volte uscire parole


confuse;/ l’uomo passa attraverso una foresta di simboli/ che l’osservano
con sguardi familiari./ Come delle lunghe eco che si confondono in lonta-
nanza/ In una tenebrosa e profonda unità,/ Vasta come la notte e come la
chiarezza,/ i profumi, i colori e i suoni si rispondono./ Sono profumi freschi
come carni di bambino,/ dolci come oboi, verdi come praterie,/ ed altri cor-

144
Restammo in silenzio a guardare ancora il fuoco. Io avevo udi-
to il nome di Baudelaire all’Università, sussurrato con la reverenza
che si deve ai maestri o ai reprobi, ma non avevo mai letto niente
dei suoi lavori.
Il fuoco gracchiava nel camino lentamente, mentre noi tutti in
quella stanza rimuginavamo quel che non sapevamo dire, quel che
non si poteva intendere o esprimere: che sta sempre in dubbio e
resta tale.
«Che cosa vuol dire, Aldo?» domandò a un tratto Giorgia, ri-
destandosi dalla malia delle fiamme in cui era stata fino a quel
momento invischiata.
Aldo sogguardò ancora la pagina e scrollò il campo, sospirando:
«Il futuro?»

rotti, ricchi e trionfanti,/ ch’hanno l’espansione delle cose infinite,/ come


l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso,/ che cantano i trasporti dello
spirito e dei sensi (Traduzione dell’Autore).

145
VENTUNO
DON CARLO DA VENOSA, 1858

La mattina seguente, dopo colazione, andammo a visitare il pa-


ese di Gesualdo.
Il castello era abitato dalla famiglia Caccese, che n’era entrata
in possesso da circa tre anni. C’erano dei lavori in corso, un can-
tiere aperto in quella che veniva chiamata piazza del Santissimo
Rosario, davanti alla cattedrale, dove stava pure la Neviera, una
costruzione coeva al castello, anticamente adibita alla conserva-
zione del ghiaccio.
La rocca era davvero un portento a guardarla da vicino, su quel
bel poggio là in alto, circondata dai platani verdissimi e coi bastioni
ocra-avorio che si sporgevano sull’orizzonte dei monti acquattati
come i draghi dormienti e giganteschi delle fiabe.
C’era poca gente in piazza, davanti alla chiesa, ed erano certi
anziani vestiti pesante, che si godevano il sole di maggio e l’odore
di fiori nell’aria tersa. Qualche donna col fazzoletto in capo e un
cesto di roba o una brocca in bilico sulla testa, seguita da uno o due
mocciosi scalcagnati, se ne andava alle fontane della Cisterna o del
Canale, a fare il bucato.
Aldo e Giorgia ci portarono a vedere il panorama nella piazza
del Cappellone, che stava sotto il castello, e dava sul Cervialto e sul
Terminio e lì c’era un’altra fontana, a vasche concentriche, vec-
chia di duecento anni, tutta rivestita d’uno strato compatto d’al-
ghe verdissime.
Dal belvedere, sovrastato dalla sagoma placida del castello, si
godeva una vista straordinaria: una vasta distesa di boschi, cer-
reti, foreste, valli, colline e poggetti, intervallati da qualche agglo-
merato di case bianche, che significavano un paesello e dai campi
ritagliati più chiari, messi a orto e frutteto, e poi la mastodontica
146
ombra delle montagne, dei draghi da favola, che chiudevano in
lontananza l’orizzonte.
Io non so se tutt’ora quelle selve e quei boschi stanno ancora
lì a verdeggiare o se l’hanno tagliati tutti per far legna. Non so se
quelle case sperdute si sono allargate fino a fare città e quei campi
si sono inoltrati tanto d’aver spaccato le montagne. Non posso sa-
perlo. Ma dico che quel tempo era ancora dei boschi, dei querceti,
dei castagni, era ancora verde il mondo e lussureggiante. Si poteva
ancora respirare un’aria che fosse pura davvero e che contenesse
le strida di mille stirpi d’uccelli e di bestie acquattate tra i tronchi
e i rami. Se c’era una cosa che oggi non esiste più, o almeno sta
sparendo davvero, non era la decenza dei costumi o la morale de-
gli uomini, che non c’è mai stata. Erano le foreste, dove ancora si
poteva sentire di non esser nulla su questa terra. Non so se tut-
to questo sia sparito o meno. Magari esiste ancora, magari non è
cambiato nulla, perché laggiù il mondo è più fermo e più sereno.
Ma non durerà, questo è certo. Queste cose non durano mai, per-
ché è estremamente facile mettere a tacere gli uccelli.
Guardai con occhi cupidi quella bellezza e tentai di figurarmi
cosa si nascondesse in lontananza, oltre i monti e oltre quella stri-
scia di terra indistinta che diventa sempre l’orizzonte a guardarla.
«Sapete, c’è una bella storia su questa rocca» proruppe Aldo,
distraendomi dalla mia contemplazione.
«È la storia di Don Carlo Gesualdo, principe di Venosa, un no-
biluomo e musicista del secolo XVI, che visse i suoi ultimi anni
in questo castello. Era sposato con una nobile napoletana, Maria
d’Avalos, ch’era la più bella dama della corte vicereale di Napoli.
Donna Maria aveva un amante, il Duca d’Andria, Fabrizio Carafa,
anch’egli un giovane avvenente e bellissimo e questo era risaputo
in tutta la città.
Così Don Carlo architettò un complotto, per sorprendere i due
amanti a letto e rivalersi del diritto d’onore. Abitavano in piazza
San Domenico Maggiore, nel palazzo dei principi di San Severo.
Una notte, dopo aver riferito alla moglie d’essere uscito per una
battuta di caccia, rientrò a palazzo insieme ai suoi bravi, fasciò con
degli stracci gli zoccoli dei cavalli, perché scalpitando non faces-
147
sero rumore, e sorprese i due adulteri a letto, facendone scempio.
In seguito al delitto, per evitare vendette, Don Carlo si ritirò qui a
Gesualdo, in quel castello che vedete sopra di noi.
I vecchi che raccontano questa storia dicono che, nelle notti più
scure, si oda ancora Don Carlo suonare la spinetta, al lume dei
candelabri fatti con le ossa dei due amanti».
«Fandonie» proruppe Giorgia, senza voltarsi dall’orizzonte.
«È quel che si racconta, lo sai» disse Aldo.
«Che assurdità! Sono favole da popolino quelle degli spettri e de-
gli orchi. Chissà quante ne avrà passate quel disgraziato e chissà ve-
ramente perché avrà ammazzato quegli altri due sventurati. Io non
ci ho mai creduto alla versione della gelosia. C’è dell’altro, sicuro».
«E sarebbe?»
«Chiedilo a Don Carlo, Aldo caro, cosa vuoi che ne sappia io. Lo
sa lui, quando suona la spinetta di notte».
«Amici miei, è inutile, Giorgia è capa tosta. Andiamo a bere
qualcosa? C’è una bella osteria qua vicino».
«Io resterei volentieri a guardare un altro poco il panorama, se
non vi spiace. Potremmo rivederci qui?» domandai.
«Tu e Umberto andate, faccio io compagnia a Stefano» concluse
Giorgia. I due si avviarono.
Restammo un poco in silenzio, a guardare ancora il panora-
ma, poi mi sentii in dovere di dir qualcosa: «Giorgia, voglio rin-
graziarti».
«Di cosa?»
«D’avermi detto di togliere gli occhiali neri».
«Ah… figurati. È un po’ di tempo che li indossavi?»
«Un po’ di tempo, sì».
«Perché li avevi?»
«Ti risponderei per non vedere, ma non è così».
«E allora perché?»
«Per non essere visto».
«Stefano, Stefano…»
«Che c’è?»
«Sei un bel tipo. Grande e grosso e pure spaventato come un
uccellino. La storia è “amore e disillusione” vero?»
148
«Vero… ma c’è anche mio nonno, che è morto l’anno scorso e
che… beh, che diceva le cose come stanno».
«E come stanno, le cose?»
«Che si sopravvive».
«Tuo nonno era un uomo saggio».
«Lo so. Io non lo sono, questo è il problema».
«Lo sarai, ne sono sicura».
«Come fai a dirlo?»
«Da come guardi… da come guardi le cose che stanno laggiù» e
indicò l’orizzonte e quella vasta porzione imbevuta di sole che non
riuscivamo a decifrare.
«Laggiù che cosa c’è, Giorgia?»
«Lontano, tutto qui. C’è il paese di Nusco su quelle montagne
e ci sono il futuro, la morte, l’eternità e va te la pesca che altro».
«E tu credi ch’io abbia gli occhi per vedere tutte quelle cose?»
«Li avrai, sì».
«E tu ce li hai?»
«Cosa vedi?»
«Io ci vedo tristezza in questi tuoi occhi».
«Può darsi. Ma anche se bruciassero, non si staccherebbero mai
dall’orizzonte. Come i tuoi, Stefano».
«Hai paura anche tu, Giorgia?»
«Oh sì… sono terrorizzata».
Restammo in silenzio e continuammo a osservare le montagne
tranquille che ci tagliavano la vista, il colore verde delle campagne
e l’ombra stridente di qualche uccello che planava basso.
Non so dire quanto rimanemmo lì, vicini, a guardare le cose che
credevamo sarebbero venute un giorno a toglierci i terrori dall’a-
nima. Non me lo ricordo. Eppure, se ci ripenso adesso, non ho un
singolo sussulto al cuore, né sento straziarmi i morsi del rimpianto,
né la nostalgia mi pervade. Non sento più niente di simile, e non so
perché le cose più belle, care e sacre della mia vita ormai valgono
quanto, e forse meno, dei giorni in cui non accadde nulla.

149
VENTIDUE
LA FORESTA, 1858

Quella notte stessa feci un lungo sogno. Mi trovavo in un bosco


di querce, come quelle che avevo visto in quei giorni, ed era così
fitto e profondo che non si vedeva luce, ma solo ombra fresca e
compatta, malgrado fosse giorno.
Non un rumore, non una presenza che non fosse quella delle fo-
glie e dei rami: né uccelli, né bestie, né insetti, né vento. Un silenzio
perpetuo e impassibile avvolgeva ogni cosa sopra e intorno a me.
Non sapevo come mi trovassi lì, né da dove ci fossi entrato, ma
sentivo che dovevo andare lì dove l’intrico dei rami era meno fitto
e impervio.
Mi mossi lentamente, ascoltando lo scrocchiare dei miei passi
sul fondo erboso del sottobosco.
Procedetti a tentoni, reggendomi ai rami, spostando le fronde
con i gomiti, in avanti, sempre più avanti.
Più procedevo, più su di me si chiudeva la foresta e la luce, che
prima filtrava attraverso i rami alti, ora era del tutto smorzata,
ma a essa s’era sostituita una nuova luce, proveniente dalle foglie
stesse.
Tutt’intorno era un brillare vivo di luce verde e intensa, che
emanava dal fogliame, che scendeva dalle fronde alte, che si per-
deva laggiù, dove stavo andando.
Camminavo e camminavo ancora nel sogno, forse per ore e ore,
ma non c’era fine a quella selva. Essa procedeva forse all’infinito
e sempre più in basso, perché m’accorgevo che il passo iniziava a
degradare.
Poi a un tratto udii un rumore, che veniva dal fogliame davanti
a me. Era rumore di passi, di incedere umano. Nel sogno mi fermai
ad attendere chiunque fosse uscito dal folto.
150
E proprio mentre la figura appariva alla vista, gli occhi mi si
aprirono e osservai l’oscurità del soffitto della mia stanza.
Mi destai del tutto e guardai fuori dalla finestra il bagliore
plumbeo della luna e la striscia di vegetazione che si vedeva in lon-
tananza, sommossa sotto la spinta d’un leggero alito di vento.
Avevo ancora davanti il bagliore sinistro che usciva da quelle
foglie, d’un verde bruciante tant’era intenso.
Mi misi in piedi e sentii il gelo del pavimento in cotto e rabbrivi-
dii dopo aver abbandonato il tepore delle coltri.
Il sogno m’aveva un po’ sconvolto e mi misi alla finestra a guar-
dare le ombre degli alberi, la campagna che dormiva serena sotto
a un quarto di luna e qualche rada lucciola di quelle che poi, in
giugno, avrebbero invaso i territori.
Stetti lì un bel pezzo prima di accorgermi d’una luce che non
aveva niente a che fare con le lucciole. Era la luce d’una lanterna,
che s’agitava poco lontano dalla casa e procedeva verso il bosco.
Incuriosito, tentai di aguzzare la vista e di capire chi stesse reg-
gendo il lume, ma non mi riuscì di vedere che una sagoma indi-
stinta.
Mi tolsi la blusa da notte, m’infilai i pantaloni, la camicia, la
giacca e uscii dalla stanza: volevo scoprire chi fosse ad andare in
giro a quell’ora tarda.
Credevo che la cosa avesse a che fare col mio sogno, credevo,
in quell’istante di stupore e meraviglia, che la figura che reggeva
il lume fosse la stessa ch’avevo smarrito, sparita al mio risveglio.
Discesi le scale, facendo attenzione a non far rumore, pervaso
da un altro dubbio, più recondito, sinistro: che fosse Giorgia quel
pellegrino nella notte? Giorgia… che se ne andava in giro di not-
te… a incontrare chissà chi.
Allora, afflitto dalla curiosità e dalla gelosia, guadagnai il salone
ed ero pronto a uscire, quando mi fermai sulla soglia e notai che
il camino era acceso e vi sfrigolava un piccolo fuoco: Giorgia era
seduta su una poltrona, in camicia da notte e scialle e osservava le
fiamme sfavillare.
Io rimasi impietrito sull’uscio, e la osservai per un tratto, perché
lei pareva non essersi accorta di me.
151
Era bellissima lì seduta a contemplare il fuoco, con la camicia da
notte candida, lo scialle bordò sulle spalle, i capelli biondi sciolti e
cadenti quasi fino ai fianchi. La luce del fuoco le disegnava certe
strane congerie d’ombra in volto e gli occhi le brillavano, docili e
affranti. La pelle, le labbra, la fronte parevano fatte di latte.
Poi s’accorse di me, si voltò con un sobbalzo, quindi mi sorrise.
«Mi hai spaventata, dov’è che te ne vai di notte?»
«Non ho sonno»,
«Vieni qui al camino con me, che fa freddo» disse ancora. Io la
raggiunsi, ancora frastornato da tutte quelle cose messe assieme e
mi sedetti alla poltrona accanto alla sua.
«Come mai tu sei sveglia?»
«L’insonnia colpisce anche le fragili donzelle, mica solo gli eroi ro-
mantici! Mi spiace solo che sei costretto a vedermi così, in disabbiglio».
«Non pensarci… sei ancora più bella».
«Ardito! Mi trovi davvero bella?»
«Sì… ti trovo straordinariamente bella».
Mi tese una mano, e io la afferrai: era calda, di quel tepore co-
cente della carne a contatto col fuoco. Giorgia mi guardò con certi
occhi tristi che mi sconvolsero. Erano tetri, distanti, funerei.
«Che cosa c’è?» m’accorsi di domandare, guardando quegli
occhi.
«C’è che sei caro. E che so che vorresti baciarmi».
Trasalii e un brivido m’attraversò la schiena. «Sì… vorrei ba-
ciarti». I suoi occhi non si mossero, né cambiarono espressione:
erano sempre maledettamente sepolcrali.
Poi Giorgia fece una cosa che mi sconvolse ancora di più: s’alzò
la camicia da notte e rimase nuda dal ventre in giù. Io allibii, sgra-
nai gli occhi, ma i suoi non smisero di fissarmi, ghiaccianti.
«Baciami» disse e divaricò le cosce. Le sue gambe erano magre:
si vedevano le ossa pelviche pronunciarsi attraverso la carne lat-
tea. «Baciami, ti ho detto».
Mi misi in ginocchio e la baciai, impazzito di piacere. Stetti a
lungo ad assaporarla, mentre sentivo il fuoco infervorare col suo
calore la mia schiena, e udivo i suoi gemiti di piacere fendere il
buio e perdersi nella notte.
152
Sentivo tra le mie cosce, intanto, il sangue montare. Mentre con-
tinuavo a baciarla, mi sbottonai le braghe. Senza che lei potesse
avvedersene, la presi lì, sulla poltrona. Era così leggera che non
mi fu difficile sollevarla. Lei sospirò ancora e venimmo insieme,
nascondendoci le labbra a vicenda con le mani.
Quando la notte tornò serena, e il silenzio si fu rimpadronito
delle nostre menti, ci accasciammo di nuovo sulle poltrone, sfiniti.
I suoi occhi, tuttavia, non erano mutati per niente.
Provai ad accarezzarla, ma lei si ritrasse. «Farà male» disse.
«Che cosa farà male, Giorgia?»
«Domani».
«Domani farà male? Che cosa significa?»
«Vedrai, Stefano, vedrai. Farà molto male. Domani».
Abbassai lo sguardo e guardai il fuoco, che pian piano si trasfor-
mava in braci. Poi mi venne di pensare alla luce che avevo visto
di fuori: non seppi mai, a chi appartenesse quella lanterna che si
muoveva nel buio.

153
VENTITRÉ
FRANCESCHIELLO E L’AQUILETTA BAVARA, 1859

Quando nel marzo del 1859 fu celebrato a Bari il matrimonio


religioso del principe Francesco con la principessa Maria Sofia di
Baviera, l’Aquiletta bavara, come la definì il signor d’Annunzio, a
Napoli sbocciarono gigli a ogni balcone, a ogni angolo di strada, su
ogni palazzo civile e privato.
Fu una grande festa senza sposi. Il matrimonio era avvenuto
prima per procura, poi il re e suo figlio s’erano messi in viaggio
per Bari, dove un piroscafo vi avrebbe condotto la futura regina,
che veniva da Trieste.
Ferdinando aveva all’epoca quarantanove anni, ma ne dimo-
strava almeno venti in più: era obeso, pesante, affaticato e stanco.
Soprattutto stanco.
L’ultima volta che lo ravvisai, lui che ormai se ne stava, come
ho già detto, più volentieri a Caserta che a Napoli, mi sembrò una
specie d’ombra, un ricordo di quel che vide mio padre sulla ban-
china della stazione del Granatello, a Portici, già vent’anni prima.
Era un uomo barbuto, enormemente grasso, il volto pallido e
gonfio: l’uniforme cobalto non gli stava più indosso aggraziata,
ma gli calzava malamente e lo segnava là dove l’adipe non poteva
contenersi. Aveva certi occhi affranti, tristi, distanti e un cipiglio
aggrottato e cupo, il volto vizzo e cereo, la barba e i capelli scarmi-
gliati e grigi. Respirava a fatica e pareva che tutte le cose di questo
mondo lo infastidissero, ormai. Era un vecchio re e non aveva ne-
anche cinquant’anni.
Vedevo la differenza palese con mio padre, che aveva la mede-
sima età del re: lui era ancora snello, slanciato, aveva i capelli briz-
zolati, ma non una ruga che gli tagliasse il volto in malo modo, non
una macchia o qualche efelide giallastra che gli affliggesse mani e
154
membra. Era un bel signore, che dimostrava qualche anno in meno
a quelli che aveva in realtà. Addirittura sembravo io più vecchio di
lui, grande e grosso com’ero.
L’allegria per la notizia delle regali nozze, tuttavia, non durò
molto, perché fu subito seguita da quella dell’aggravarsi d’un male
che, durante il viaggio, aveva afflitto re Ferdinando.
Si venne a sapere che il re non riuscì ad assistere neanche al ma-
trimonio, tanto gravi erano le sue condizioni.
Ferdinando non poteva essere spostato da Bari e così da Napoli
partì il dottor Nicola Longo, ch’era il migliore della provincia, ma
anche un carbonaro fatto e pasciuto.
Il dottor Longo trovò un ascesso purulento all’inguine del re,
che andava subito spurgato, ma i parenti non vollero che fosse
eseguita l’operazione, anche per la fama giacobina che aleggiava
attorno al medico.
«Maestà» disse il dottor Longo, «la sventura vostra in questa con-
tingenza è essere re, perché se foste stato un povero infelice gettato
in un letto d’ospedale, a quest’ora sareste guarito» e Ferdinando gli
rispose: «Don Nico’, facite chell’ ca vulite, ma faciteme campa’».
Alla fine, l’operazione fu rimandata e i parenti vollero portare
il re a Caserta, sebbene il medico l’avesse sconsigliato vivamente.
I medici di corte tentarono di operare il re, ma erano trascorsi
due mesi da quando Longo l’aveva prescritto: ormai, era troppo
tardi.
Il 22 maggio del 1859, nella Reggia di Caserta, re Ferdinando II
di Borbone cessò di vivere.
Fu l’ultimo, grande, solenne funerale del Regno delle Due Sicilie:
le esequie in vita dei vecchi monarchi di Napoli e di Sicilia.
Ci andammo insieme, io e mio padre, ad attendere la salma di
re Ferdinando che arrivava da Caserta, sulla via di Foria, diretta
alla Basilica di Santa Chiara dove sarebbe stata sepolta, assieme
a tutti gli uomini, le donne, i vecchi e i bambini che riuscirono a
stare in piedi per togliersi il cappello per l’ultima volta davanti al
vecchio re.
Era una fiumana di gente vestita di nero, che invadeva la stra-
da ad ambo i lati. Ci si muoveva a fatica e come sempre c’erano i
155
venditori ambulanti, i pizzaioli, i tarallari, e tutti quelli che atten-
devano le folle immani per guadagnare un soldo.
Mio padre era taciturno quel giorno. Era triste. Me lo ricordo
bene, perché fu una delle ultime volte che stemmo davvero vici-
ni, io e lui. Vestiva di nero, colla tuba che gli calava sugli occhi e
aveva lacrime spesse in punta di ciglia, che si vergognava di far
cadere. Mi sembrò più vecchio, più stanco, mi sembrò il re redi-
vivo e smagrito che attendesse di contemplare il suo cadavere in
processione.
Mio padre non aveva solo perduto il sovrano, ma aveva perdu-
to quell’amico segreto e sconosciuto a cui aveva giurato lealtà tan-
to tempo prima, in mezzo ad una folla come quella in cui eravamo
smarriti quel giorno. Era affranto, papà, perché stavano andando
a seppellire il mondo di ieri e solo lui se n’avvedeva.
Ci ho messo cinquant’anni per capire il significato dello sguardo di
mio padre. Ogni volta che sono seduto alla scrivania dello studio e alzo
gli occhi allo stipite della porta e questi cadono in quelli di Ferdinando,
ogni volta mi torna in mente il viso di mio padre quel giorno di maggio
e me ne sto in silenzio, a contemplare quegli occhi grigiastri e remoti,
che non rispondono mai ai miei pensieri. E allora mi domando, ogni
santa volta, dove stiano guardando quegli occhi e se anche mio padre
abbia lo sguardo fisso da quella stessa parte. Esiste, forse, un posto
dove vanno a finire tutte le cose perdute ed è concesso solo ai morti
guardarle ed essi sono così impegnati a osservare quella landa ster-
minata, che non hanno tempo di rispondere ai vivi e li lasciano così,
muti e indifesi, a sbarrare lo sguardo davanti allo sgomento del loro
silenzio. Oppure, non c’è nessun luogo e tutto quel che s’è perduto non
esiste più e s’è mischiato da qualche parte, come gli atomi d’Epicuro, e
sta nelle cose vive che tocchiamo e sta, forse, sulla nostra stessa pelle.
Chissà. So solo che quello che abbiamo e che possiamo conservare è
tale e quale alla voce: si perde alla pronuncia.
Come in tutte le grandi funzioni, anche il carro funebre che con-
teneva le spoglie di Ferdinando si fece attendere e così potemmo
goderci il sole di maggio, tiepido e crogiolante, aspirando l’odore
dei fiori che s’alzava col vento dall’Orto Botanico.
La carrozza affrontò la folla lentamente, la folla dei napoletani
156
che s’era fatta silenziosa e una lunga teoria s’accodò alla vettura e
scortò il re fino alla Basilica di Santa Chiara.
Io e mio padre seguivamo la carrozza a destra e la vedevamo
poco davanti a noi. Ai balconi erano stese bandiere e stendardi col
giglio, drappi col blasone delle Due Sicilie, teli listati a lutto con
l’effige del re. Mai avremmo immaginato che, poco più d’un anno
dopo, quegli stessi balconi si sarebbero ornati del tricolore italiano.
La carrozza attraversò Foria, passò il palazzo del Museo, scese
per la vecchia via dei Fossi, passò il Mercatello, calò per Sant’An-
gelo dei Lombardi, risalì per piazza del Gesù e andò alla Basilica,
dove un altro oceano di gente attendeva il feretro.
Quanti fiori caddero dai balconi e furono gettati dai passanti
al transito della carrozza! Alla fine di quella giornata, Napoli era
tappezzata di petali pestati e odorò per molti giorni di quell’efflu-
vio dolciastro che si sente nei cimiteri, là dove sono abbandonate le
corolle avariate dei morti.
C’erano molti soldati schierati, e il lungo corteo e la fiumana che
attendeva il feretro al Gesù erano tenute a bada dai militari, che
impedirono alla folla d’accalcarsi non appena la bara fu smontata
dal carro e condotta in chiesa.
Io e mio padre assistemmo alla messa funebre da fuori, assieme
alla folla, oltre il cordone di gendarmi: all’interno c’erano l’aristo-
crazia, che si preparava a cambiare insegna, la corte, che iniziava a
imparare l’italiano, la vedova, che ormai era un relitto, e il nuovo
re, Francesco, con la nuova regina, Maria Sofia, che non potevano
sapere, loro ch’erano così giovani e inesperti, che le pompe magne
e i fasti, le parate e le gale, le feste e i ricevimenti, i funerali solenni
e le teorie di popolo, le esecuzioni al Mercato, le parate militari al
Campo di Marte, le lente cene dei monzù coi timballi a Palazzo, le
villeggiature a Capodimonte e a Portici, i giochi esclusivi a Caserta,
i lunghi viaggi per Citra, Ultra e Sicilia, le ambascerie dei regnati e
le anticamere, le messe solenni in Cattedrale, le caccie agli Astroni
e a Carditello; loro non potevano sapere che tutto quello ch’era e
che era stato il Regno delle Due Sicilie, presto sarebbe scomparso
per sempre.

157
VENTIQUATTRO
IL DRAGO, 1859

Ogni qualvolta che c’incontravamo, io e Giorgia non potevamo


trattenerci dal fare l’amore.
A volte erano così fulminei i nostri incontri e così violenta la
passione che ci invadeva, che restavamo senza fiato tanto repen-
tinamente, da non aver più voce per salutarci quando ci separa-
vamo.
Non avevo parlato a Umberto della mia passione per Giorgia, né
avevo detto parola ai miei genitori. Giorgia m’aveva fatto giurare
di mantenere il segreto, almeno all’inizio.
Voleva che ci godessimo quell’intimità tutta nostra, tutta segre-
ta, e che nessuno la incrinasse. Ci amavamo da clandestini, a volte
a casa mia, quand’ero sicuro non ci fosse nessuno o anche in certi
posti che non è bene nominare.
Non andammo mai una volta a casa sua, anzi, Giorgia m’impo-
se di non farmi mai vedere nei paraggi: non voleva che qualcuno
potesse avvedersi.
Ogni volta era un vulcano, un subbuglio. Ci amavamo con fe-
rocia. Pareva quasi che lei volesse spogliarsi di qualcosa quand’era
con me, cavarsi dal corpo certe sue ansie, certi timori o apprensio-
ni che solo il sesso poteva sgravare.
Si abbarbicava a me con le sue carni ossute e bianche, e io ne fa-
cevo quel che mi pareva, tant’era leggera e minuta. Essa si lasciava
sconvolgere dalla mia furia, dal mio amore invasato e violento, che
non risparmiava parole, atti, affondi o percosse.
Non mi chiesi mai, veramente, quale potesse essere l’origine
delle sue frustrazioni, né mi domandai perché una creatura così
delicata in apparenza nascondesse, in realtà, un mondo di lussurie
spiritate.
158
Non me lo chiesi. E come potevo? Non avevo neanche vent’anni
e, a quell’età, cosa c’è di meglio dell’amore?
Non smetteva mai di fissarmi quando facevamo l’amore, con
quello sguardo triste, disperato, che le avevo visto a Gesualdo.
Tornava a essere serena dopo il coito, ma mentre la sollevavo e
ne facevo il mio ninnolo, essa m’osservava con un paio d’occhi
funerei.
«Che cos’hai, Giorgia? Cos’è che ti tormenta?» le domandavo.
«Tu m’ami, Stefano?»
«Certo che ti amo, ma hai sempre uno sguardo triste quando
facciamo l’amore. Perché? Cos’è che ti tortura?»
«Niente. Nulla. Voglio solo che mi ami, che mi ami tanto» taglia-
va corto lei e mi si rigettava addosso, con la stessa furia, la stessa
passione, la stessa tristezza.
Fu un periodo difficile per me, poiché ero invischiato in quella
passione turbolenta, segreta per giunta, e avevo i miei studi all’U-
niversità a cui badare, le amicizie, soprattutto quella con Umber-
to, che non sapeva nulla e continuava a dimostrarmi la sua ferrea
lealtà. Non si poteva rivelare a nessuno quel che facevamo io e
Giorgia. Erano tempi diversi, quelli lì. Neanche a Umberto avrei
mai potuto confidare la maniera e i modi del nostro amore, nono-
stante la sincerità che ci legava. E poi l’ho già detto: queste cose si
vivono da soli.

Intanto, nuove avvisaglie dell’avvento del mondo nuovo inizia-


vano a profilarsi all’orizzonte.
Alla fine del mese di giugno di quel 1859, gli eserciti di Napole-
one III e di Vittorio Emanuele II sconfissero Francesco Giuseppe
nella battaglia di Solferino e San Martino, nel contado di Mantova.
Una nuova ondata di entusiasmo filo-unitario scoppiò nel Re-
gno, seguita soprattutto all’armistizio di Villafranca, che decretò
l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna del re Galan-
tuomo, Vittorio Emanuele II.
Il Regno delle Due Sicilie era all’epoca uno Stato ormai politi-
camente isolato. La Gran Bretagna se l’era già inimicata nel 1840,
all’epoca della «questione degli zolfi». La racconto in breve.
159
Quando nacque il Regno delle Due Sicilie, vale a dire nel 1816,
all’epoca del Congresso di Vienna e della Restaurazione, la Gran
Bretagna aveva ottenuto la massima libertà di movimento com-
merciale sul suolo siciliano. Lo zolfo, che si trovava in abbondanza
in Sicilia, era il minerale fondamentale per la fabbricazione della
soda e per la produzione della polvere da sparo. Molte aziende in-
glesi lavoravano ormai da anni nel Regno all’estrazione dello zolfo
e avevano ottenuto con quel trattato delle condizioni estremamen-
te vantaggiose. Quando, tuttavia, intorno al 1840, il prezzo dello
zolfo salì di venti carlini, gli inglesi accusarono la corona borbonica
di venir meno all’accordo del ’16. Si lamentarono dell’aumento dei
prezzi, in primis, ma ebbero da ridire anche su presunti privilegi
concessi ai bastimenti mercantili napoletani, sgravati d’alcune tas-
se. Gli inglesi minacciarono di bloccare le nostre navi e in effetti in-
viarono una flotta che cinse d’assedio il porto, ma in sordina, non
volendo scatenare una vera e propria guerra. Alla fine, dovette
intervenire la Francia a far da mediatrice e a risolvere la questione.
Un nuovo trattato, stipulato nel 1845, garantì alla Gran Bretagna
la reciprocità nella libertà di commercio e navigazione, mentre ai
napoletani fu concessa l’esclusiva sul commercio di cabotaggio.
Il Regno non partecipò alla guerra di Crimea contro la Russia, al
fianco di Francia e Gran Bretagna, alla quale, invece, sotto spinta
di Cavour, prese parte furbamente il Regno di Sardegna, e quindi
non poté assicurarsi nessun appoggio politico da quella parte.
L’Austria, uscita sconfitta dalla guerra, aveva da badare ai fatti
suoi e, nonostante le parentele, di certo non poteva imbarcarsi in
nuove e azzardate imprese, avendo già le sue ferite da leccarsi.
Re Francesco, che la gente chiamava affettuosamente “France-
schiello”, era un brav’uomo, una persona seria, bigotto e ignorante
come tutti i Borbone certo, ma aveva all’epoca poco meno di venti-
quattro anni e di sicuro non possedeva il polso di suo padre.
Appena asceso al trono, si comportò magnanimamente: con-
cesse autonomie ai comuni, promulgò amnistie, promosse com-
missioni che indagassero sulle condizioni dei detenuti nelle carceri,
dimezzò l’imposta sul macinato, ridusse tasse doganali, fece aprire
borse di cambio, sostituì i membri dell’antica amministrazione del
160
padre con esponenti del liberalismo. Insomma, fece tutto quello
che credeva fosse dovere di un buon re, erede di un regno sull’orlo
dell’abisso, che s’era messo così in bilico non per villania, ma per
difetto di lungimiranza.
Lo stesso Ferdinando buonanima sapeva che i Borbone erano
vecchi, erano passati. Il paternalismo, l’ignoranza, le concessioni
democratiche fatte per contentino, la disparità inflessibile tra laz-
zari e signori, la cultura sottomessa alla censura, la disuguaglianza
mostruosa tra Napoli e il resto del paese, tutto questo e altro anco-
ra poteva andar bene per l’epoca primitiva dei Viceré o ancora per
quella colorita di Ferdinando I, ma non per il mondo nuovo.
Il Regno delle Due Sicilie non era uno stato al collasso, comun-
que: disponeva d’un esercito di oltre 93.000 unità, il più grande
d’Italia; una flotta gagliarda d’istanza nel Mediterraneo; aveva
risorse minerarie e naturali ricchissime, poteva vantare primati
industriali straordinari, come il primo piroscafo varato nel Me-
diterraneo ch’avesse mai raggiunto l’America o il primo treno in
transito in Italia, quello sul quale aveva viaggiato anche mio padre.
Però, il capitale straniero dominava l’industria privata e monopo-
lizzava le risorse minerarie; l’abbondanza di maccheroni e ortaggi
serviva a lenire i morsi d’una fame inestinguibile; le ferrovie e le
navi restavano inerti, relegate senza evoluzione alla vanagloria dei
loro primati; l’esercito era privo d’ogni spirito nazionale, preparato
alle parate più che alla guerra. Era un reame obsoleto, bello, inutile
e privo di lungimiranza.
Forse Francesco II sarebbe stato un buon re, chissà. Forse avreb-
be capito, col tempo, che il potere si detiene con la coscienza pri-
ma che con le armi. I Borbone volevano comandare ancora con la
mazza e il panello, come si dice a Napoli.
Re Ferdinando usava dire: «Il mio popolo non ha bisogno di
pensare: io m’incarico di aver cura del suo benessere e della sua
dignità» e sarebbe potuto andare bene una volta, ripeto, ma non al
tempo degli Imperi. Di certo non al tempo del Progresso.
I Borbone non sono mai riusciti a vedere quello che stava arri-
vando. Mettevano sulle rotaie un treno, ma non riuscivano a com-
prendere quanto poi potesse andare veloce. Credevano di poter
161
fare i re di scettro, corona e zibellino, «coi sudditi ai piedi» come
diceva la buonanima di mio padre, quando le monarchie inizia-
vano già a vestire abiti borghesi. L’età dei re presto sarà finita per
sempre, ma a quel tempo essi pensavano ancora di regnare come
nell’ere remote dei Ruggeri e dei Federici.
Hanno perso il Regno perché non hanno voluto cambiare:
il destino degli stolti e degli eroi. Il Regno è stato abbando-
nato al suo destino. L’ha abbandonato il re, che non voleva
riformarlo o voleva farlo a modo suo; l’hanno abbandonato i
ministri e i signori, tanto per loro non è cambiato niente; l’ha
abbandonato l’esercito, che non ne voleva sapere di guerre;
l’ha abbandonato il popolo, che per lui un re vale l’altro, tanto
sono tutti uguali.
In fondo facevano tenerezza, i Borbone, e perciò erano ancor
più pericolosi, perché erano convinti davvero di far del bene. Il
Regno delle Due Sicilie è stato spazzato via da questa tenerezza.
Esso era come il drago dei miti antichi: fiero, gigantesco, bellissimo
e feroce, ma solo, emarginato, insipiente, vecchio: un essere dirom-
pente, che vive d’istinti primordiali.
Poteva imporsi nel mondo preistorico delle leggende e delle su-
perstizioni, ma non in quello del Progresso. A che serve un drago
quando si può modellare l’idea del fuoco? A che serve la desolazio-
ne, quando si può inventare la solitudine?
I Borbone non hanno visto il cavaliere che brandiva la spada
all’ingresso della spelonca. Questo di oggi è il mondo del cavaliere
e non fa tenerezza. Verrà il giorno in cui sarà lui stesso a dar fuoco
alla Terra.
Ma chissà, forse neanche questo è vero, dopo tutto. Forse do-
mani non verrà proprio niente e fra cent’anni sarà tutto uguale
come è adesso. Più rumore, più caos, più sporcizia, più promiscui-
tà, più stoltezza, magari, ma nessun fuoco, nessuna devastazione.
Il mondo continuerà a sopravvivere e le cose non smetteranno mai
di ritornare nel buio da dove sono venute.

Questo era il mondo in cui vivevo la mia passione con Giorgia:


un mondo che stava nel meriggio del vespro.
162
Noi ci godevamo i nostri corpi, la nostra gioventù alieni da qual-
siasi pensiero, da qualsiasi tipo di costrizione morale. Vivevamo di
fuochi senza avvenire.
Una volta la presi in strada, nell’androne d’un palazzo. Le alzai
la gonna e l’ebbi così, in piedi. Non portava le mutande quand’era
con me e così potevamo ovviare agli inconvenienti dell’abbiglia-
mento.
Fummo amanti per quasi due anni, sempre in clandestinità,
sempre senza prometterci niente altro che rivederci e tornare a
fare l’amore.
Con Giorgia dimenticai Irene, mi tolsi dalla mente le angustie
degli amori ideali, i tremori dolcissimi dei sogni. Persi il tempo, le
forze, la sanità dell’anima. Niente di più che bruciare e bruciare
ancora.
Poi arrivò la lunga estate.

163
VENTICINQUE
LE NOTTI PASSATE IN VIA TOLEDO, 1860

Adele e Gioacchino lasciarono casa nostra nel gennaio del 1860.


Oramai Adele non ce la faceva più a badare alle faccende come
un tempo, né Gioacchino era tanto giovane da continuare a fare il
postiglione e il faccendiere.
Adele aveva una sorella a Sant’Antimo, che possedeva un pezzo
di terra e che era rimasta vedova senza figli, e così li convinse a
trasferirsi da lei: Adele potette godersi una specie di pensione e
Gioacchino, che s’era pur stancato di fare il giovanotto, poté di-
ventare proprietario di qualcosa.
Fino a che Adele è stata in vita, abbiamo sempre ricevuto
puntualmente, durante tutte le feste comandate, un cappone, un
coniglio, un cesto di verdure o di frutta. Poi più niente e chissà
che fine ha fatto Gioacchino e il pezzo di terra di cui divenne
padrone.
Fummo, quindi, costretti a trovarci una nuova domestica ed
è allora che arrivarono Giovanna e Carla, che allora era poco più
d’una bambina.
Giovanna aveva trent’anni e veniva dalla Lombardia, da un
paesino del bresciano chiamato Mura di Savallo ed era vedova,
perché il marito era rimasto sotto a un carro quando la bambina
era appena nata.
Aveva prestato servizio per diversi anni a Verona, da certi ric-
chi mercanti, ma era stata licenziata perché s’era ribellata quando
il signorino di casa aveva tentato di prendersi il suo.
Così s’era messa a peregrinare da una casa all’altra con quella
bambina al collo e alla fine s’era trovata a Napoli, perché l’anziana
zia d’una sua padrona aveva bisogno d’una domestica e quando
questa era morta, era venuta da noi.
164
Era una brava donna Giovanna, e si vedeva da lontano che ne
aveva passate di tutti i colori per quanto era pallida, dolorante e
infiacchita. Ma si dava da fare, perché proprio non voleva spostar-
si più. È morta in casa nostra, ed è rimasta la figlia con me, la mia
Carla, che è mia amica più che la mia domestica.
Ci vogliamo bene io e Carla, e molto. Lei continua a darmi del
voi, come imparò a fare quand’era ancora una bambina bruttina
e delicata, nonostante le mie rimostranze. È l’unica persona che
esiste ancora, di tutte quelle che sono passate in questa casa e sono
poi sparite. A volte ci sediamo nello studio, io leggo e lei lavora
a maglia e ci viene di ricordare il passato. Abbiamo fatto l’amo-
re, qualche volta. Ci siamo rincuorati a vicenda quando ormai
non avevamo più nessuno accanto. Eppure, lei ha continuato a
chiamarmi «professore» e a darmi del voi. «Almeno ricordiamoci
d’aver vissuto in un mondo decente» dice ogni tanto, con un po’
di saggezza. Per questo siamo rimasti amici, in fondo, perché alla
fine abbiamo soltanto giocato a tenerci caldi e non ci siamo mai
scambiati i segreti ch’avevamo dentro.
In quel mese di gennaio si tenne un’importante seduta d’esame,
che per fortuna superai, ma senza eccellenza.
Avevo una buona preparazione personale per mia fortuna, ma
le lezioni magistrali, le lunghe sedute d’esame, non mi andavano a
genio. In più, tutto quello che facevo, dicevo o pensavo era sem-
pre filtrato da quell’amore incontrollabile che ormai mi legava a
Giorgia.
Mi piaceva sempre quella furia delle nostre unioni, ma, dopo
quasi due anni, iniziavo a esserne stanco. Avrei voluto vivere il
mio amore alla luce del sole, non più in sordina, celato, sempre
sull’orlo d’una rivelazione che non capivo neanche quali conse-
guenze avrebbe portato. Iniziavo a domandarmi cosa ci fosse di
male nell’ammettere la nostra passione. Perché non potevo pas-
seggiare anch’io a via Toledo o in Villa coll’innamorata al braccio
e andare magari a prendere il gelato al Chiatamone? Volevo rasse-
renarmi, tutto qui.
Ero perso per Giorgia. Non avevo avuto tempo, all’inizio, d’in-
namorarmi veramente di lei. Eravamo stati amanti dal primo
165
istante e non c’eravamo potuti conoscere come persone. Poco a
poco, quando la furia scemava, ci parlavamo con parole dolci.
Giorgia avrebbe voluto studiare, Letteratura magari, come me.
Avrebbe voluto viaggiare in posti lontani, visitare città remote.
Avrebbe voluto fare, insomma, tutto ciò che si desidera a vent’an-
ni: perdersi e conoscere.
Suo padre era un uomo all’antica, sebbene passasse per certi
versi da liberale. Io non lo vidi che una volta e di sfuggita, così
come sua madre. Il destino di Giorgia era fare la “signora” e questo
significava molte cose. Significava essere ricca, moderatamente
potente, educata, arguta, colta magari, ma anche sottomessa, mar-
ginalizzata, relegata al salotto e all’intimità. Come un bel quadro,
superbo e inutile.
Credetti di poter attribuire senza dubbio l’origine dell’impetuo-
sità di Giorgia a tali frustrazioni. Era lo sfogo d’una condanna,
quella d’esser come sua madre, come questa era stata uguale alla
propria e via dicendo. Ne ero convinto.
«E se ci sposassimo? Lo sai, con me non dovresti avere di queste
preoccupazioni».
«Magari…»
«Perché allora non ci sposiamo?»
«Quando?»
«Anche subito».
«Mi sposeresti subito?»
«Senz’altro».
«E poi?»
«E poi cosa?»
«E poi cosa faremmo?»
«Potremmo viaggiare, vedere tutti i luoghi che hai sempre so-
gnato. Potremmo studiare assieme e magari scrivere un libro. Po-
tremmo vivere come ci parrebbe».
«Ne sei sicuro?»
«Certo! Cosa potrebbe impedircelo?»
«Ah, Stefano, Ste’…»
«Che altro c’è adesso?»
«C’è che sei caro. Troppo caro».
166
«E allora perché non mi vuoi per marito?»
«Perché non si può, e basta. Finché saremo amanti, potremo es-
sere l’uno per l’altra una cosa sola. Non ci deve entrare il mondo
tra noi due. Mai».
«Ma io ti amo e voglio vivere con te».
«Anche io ti amo ed è per questo che non voglio sposarti».
I discorsi finivano sempre così, ammezzati, oppure soffocati nei
baci e nei sospiri.
Presi a piantonare il suo palazzo, di sera. Mi mettevo in sordina,
da qualche parte e spiavo le luci che uscivano dalle finestre serrate.
Speravo di vederla, di sentirla, di avere idea della sua presenza.
Molte notti di quell’inverno del ’60 sono restato all’addiaccio in
via Toledo, a spiare le finestre della casa di Giorgia, sperando che
s’illuminassero per me. Non le dicevo niente delle mie lunghe soste:
volevo amarla due volte, nel corpo dei nostri incontri e nel segreto
delle mie attese, anelando e temendo al contempo il giorno in cui
sarebbero state svelate.
In una serata particolarmente fredda, in cui ero intabarrato
come un brigante, il portone del palazzo s’aprì, e io sussultai, spe-
rando fosse la mia amata. Non uscì Giorgia, ma un uomo. Era
un giovane straordinariamente bello. Aveva capelli corvini, taglia-
ti corti, che s’intravedevano dal cilindro lucente che indossava. I
lineamenti erano regolari e flessuosi, portava baffi sottili e aveva
il colorito bruno dei napoletani d’origine iberica. Aveva occhi scu-
rissimi ed era snello, slanciato e atletico. Indossava un cappotto
nero, assai attillato: un figurino. L’esatto antipode di quel ch’ero io.
Trasalii e non seppi spiegarmi il motivo. Il giovanotto rimase un
istante sul portone, estrasse una tabacchiera di madreperla dalla
tasca del soprabito e odorò una presa. Lo osservai per qualche tem-
po. Il disagio, che era stato sempre uno spiacevole compagno della
mia vita, ma che per un po’ di tempo s’era acquietato, si ripresentò
con tutto il suo antico fervore. Quel giovanotto che usciva dal pa-
lazzo della donna che amavo mi gettò nello sconforto.
Le associazioni furono fulminee e incontrastabili. Vidi lui e
Giorgia insieme e, naturalmente, le immagini collimavano per-
fettamente. Un’ansia feroce, un fervore di angoscia m’intorpidì
167
le membra più di quanto non avesse già provveduto a fare il gelo
della sera.
A un tratto il giovanotto si voltò dalla mia parte e restò per un
attimo a fissarmi: non m’ero accorto di tenergli gli occhi piantati
addosso.
Si levò il cappello, e io sussultai, ma riuscii a rispondere al sa-
luto. Poi si voltò, e se ne andò via, lasciandomi lì immobile con
l’amaro del sospetto e dell’agitazione sulle labbra.
Alla fine me ne andai anch’io per la mia strada e tornai a casa.
Quella notte non potetti dormire ed ebbi incubi spaventosi nei mo-
menti in cui riuscii ad assopirmi.
Il giorno dopo avevo la febbre alta.

168
VENTISEI
LIBIAMO, 1860

Un pomeriggio, all’inizio del mese di marzo, lo stesso mese in


cui ci fu il plebiscito che sancì l’annessione di Modena, Parma,
Emilia Romagna e Toscana al Regno di Sardegna, mi trovai con
Umberto all’Aciniello a bere il caffè.
Mi disse che Aldo De Martino mi salutava tanto (l’avevamo vi-
sto qualche settimana prima, eravamo andati a cena assieme dalla
Sangiovannara) e che m’invitata a un ricevimento che si sarebbe
tenuto in casa sua due settimane dopo. Mi disse, inoltre, che si
scusava di non aver porto l’invito personalmente.
«Che cosa si festeggia?» chiesi.
«Non ti saprei dire, non mi pare sia il compleanno di nessuno.
Sarà un ricevimento per stare allegri con gli amici».
«Ci andrai?»
«Ma certo, e tu verrai con me».
Quando vidi Giorgia, non dissi niente di quell’invito. Volevo
farle una sorpresa.
S’era tanto spaventata per la febbre che m’era salita e che ci ave-
va tenuti separati alcuni giorni. Mi scrisse uno o due biglietti, pieni
di parole dolci.
Non vedevo l’ora di presentarmi a casa sua, con un bell’abito
nuovo, elegante, profumato e vedere la faccia che avrebbe fatto.
Mi feci cucire una bellissima redingote antracite dalla famosa
sartoria Sardonelli, che mi costò un capitale e comprai anche una
nuova cravatta verde, di seta pura.
Volevo essere bello per la mia Giorgia. Volevo togliermi dagli
occhi l’immagine di quel giovanotto azzimato e rimpiazzarla con
la mia. Io che ero grosso, corpulento, sgraziato, io che ero ridicolo
accanto a Giorgia, tanto lei era delicata e minuta.
169
L’ultima volta che facemmo l’amore fu nel mio letto, uno dei
rari giorni in cui non c’era nessuno a casa.
Quella volta fummo dolci l’uno per l’altra, delicati. Ci amammo
con lentezza, senza ferocia, con serenità e tenerezza. Riuscimmo an-
che ad addormentarci per qualche momento e fu l’unica volta in cui
dormimmo l’uno abbracciato all’altra e fu una delizia. Giorgia pro-
fumava sempre di fiori di lavanda, ma quando sudava la sua pelle
si screziava d’un olezzo acidulo e dolciastro, che mi dava idea dell’o-
dore che sta nell’aria quando piove. Mi godetti quel profumo quanto
più mi fu possibile e il tepore del suo piccolo corpo accanto al mio.
Quella fu anche la prima e unica volta che le mentii. Quando
ci salutammo, rimandammo di vederci a due giorni dopo. Non
sapeva che l’indomani sarei stato ospite a casa sua.
Io e Umberto arrivammo in carrozza dai De Martino e notam-
mo che fuori al palazzo già c’era un afflusso d’invitati.
Era una casa antica quella di Giorgia e Aldo, coi soffitti alti e af-
frescati come s’usavano al tempo degli Spagnoli. Un bel vestibolo
accedeva a una sala ampia, fortemente illuminata, che affaccia-
va attraverso tre alte finestre su via Toledo. Il salone era gremito
d’invitati. Lungo una parete c’era il tavolo dovizioso dei rinfreschi
e di fronte era stato allestito un palchetto, dove, al nostro arrivo,
un’orchestra era in atto d’accordare gli strumenti.
Ricordo distintamente che faceva caldo in quel salone, a causa
delle innumerevoli candele che erano state accese sui candelabri e
sull’immenso lampadario che sovrastava le nostre teste.
Entrando avevo aguzzato gli occhi per scorgere Giorgia, ma
senza successo. Neanche Aldo si vedeva, e ad aprire la porta agli
invitati era stato un servitore in livrea.
Bevemmo un bicchiere di champagne, che ci venne servito su
un vassoio. Io ero fremente mentre sorseggiavo: non attendevo
altro che vedere l’espressione che Giorgia avrebbe fatto.
Intanto l’orchestra aveva preso a suonare e aveva iniziato con
alcuni brani di Cherubini.
Il caldo diventava insopportabile. I balconi erano chiusi, l’aria
cominciava a ristagnare e io a sudare: tutta la cura che avevo avu-
to di profumarmi e pettinarmi stava andando in fumo.
170
Poi arrivò Aldo. Ci salutò con entusiasmo e ci presentò a sua
madre e a suo padre.
Giorgia assomigliava al padre. Era un uomo assai magro, slan-
ciato, aguzzo, dagli occhi chiari e dai capelli candidi, un tempo
biondi.
La madre, la signora De Martino, aveva l’aria d’una matrona
romana: tronfia, imbellettata, colorita e attorniata da uno stuolo
di amiche simili a lei, nei loro ampi abiti di tulle e taffetà dai cupi
colori invernali.
Tutte quelle presentazioni non fecero altro che acuire l’irritazio-
ne di non aver visto ancora Giorgia.
Non ne potetti più e chiesi ad Aldo: «E la cara ragazza dov’è?
Ancora a farsi bella?»
«No, no, era qui poco tempo fa con Francesco, sarà nell’altra
stanza».
A quel nome i miei occhi sbarrarono. Umberto se ne accorse.
Io non so quanto possa essere profonda l’amicizia. Non sono
mai stato buon amico di nessuno, ma di certo Umberto fu, come
ho già detto e ho il dovere di ribadire, l’amico più intimo ch’io ebbi
mai in tutta la mia esistenza.
I suoi occhi si fissarono nei miei, che s’erano ingigantiti,
screziati di cremisi, gonfiati. Vidi il suo sguardo passare tutti
i segreti che avevo in corpo, arrivare dove se ne stava rintana-
ta la mia anima. Lo giuro, lo giuro come non ho mai giurato
in vita mia: Umberto capì tutto in quell’istante, guardandomi
negli occhi.
«Dimmi che non è vero» mormorò, e io lo guardai più intensa-
mente e tacqui. Il mio silenzio e il mio sguardo disfatto risposero
per me. «Dio mio» disse.
«Ah, eccoli qui i due piccioni» proruppe Aldo. «Amici miei, vo-
glio presentarvi il signor Francesco Falcone, tenente dei Lancieri di
Sua Maestà il Re».
Il tenente Falcone era il bel giovanotto che avevo visto uscire dal
palazzo di Giorgia quella notte gelata.
Giorgia mi fissò ed ebbi, per un istante, un sollievo, perché nel
suo sguardo si profilarono la tristezza, il dolore, il funereo esilio
171
che avevo imparato ad amare quando ci davamo l’uno all’altra.
Sbiancò, le labbra le divennero esangui.
Io ebbi a stento la forza di mormorare «piacere» e stringere con
debolezza la mano inguantata di quel bellimbusto. Poi dovetti scu-
sarmi e m’allontanai, perché un conato di vomito m’era salito in
gola.
Superai il vestibolo e mi rifugiai in una stanzetta buia, di cui
avevo trovato la porta aperta, una specie di salottino.
Caddi a terra, su un tappeto persiano che attutì il tonfo delle
mie ginocchia. Non riuscivo a respirare, non riuscivo a emettere
alcun suono. Ero disperato. Non riuscivo neanche a piangere, e
l’avrei tanto voluto, perché ero talmente agghiacciato, distrutto,
eviscerato di forze, d’aver solo l’energia di starmene piegato là a
terra, a boccheggiare suoni sconnessi, a gorgheggiare preghiere.
Il capo mi doleva terribilmente, il sudore scendeva a copia dalle
tempie e dalla fronte. Un male diffuso a tutto il corpo mi fece pre-
sagire un nuovo, violento attacco di febbre.
Ciò che ricordo nitidamente di quella sera è che l’orchestra at-
taccò a suonare il Libiamo della Traviata: non posso più ascoltare
quell’aria senza che il ricordo del sapore della disperazione mi per-
vada le membra fino a bruciarmi l’anima.
A un tratto la porta si spalancò ed entrò Umberto. «Andiamo-
cene, Stefano. Vieni con me. Ti aiuto io» disse e si abbassò sopra
di me, tentando di sollevarmi, quando sulla luce dell’ingresso si
profilò una nuova figura. Ci voltammo entrambi.
«Te l’avevo detto che avrebbe fatto male. E tanto. Te l’avevo
detto». Giorgia stava lì, sull’uscio, vestita di bianco. Piangeva. «Te
l’avevo detto che avrebbe fatto male…» era tutto ciò che riusciva
a dire.
Volevo piangere e mi sforzavo, ma le lacrime se ne stavano rin-
tanate laggiù, dove il dolore mi stava strozzando.
«Si può sapere che sta succedendo?» proruppe una nuova voce
nella stanza. Io mi voltai e accanto a Giorgia vidi l’elegante figura
del tenente Falcone.
«Ripeto, che cosa significa tutto ciò?» domandò irritato l’uffi-
ciale. Giorgia tacque, ma non smise di piangere.
172
«Diglielo, diglielo che mi ami» ebbi la forza di dire, ma le mie
parole non sortirono altro effetto che accrescere le lacrime di Gior-
gia, che ci lasciò lì e scappò via lasciandoci da soli, tutti e tre, a
mugugnare nel buio.
«Esigo una spiegazione, signore» disse ancora Falcone. Non
m’ero ancora alzato da quel tappeto. Guardai quell’uomo, quell’es-
sere umano che rappresentava tutto ciò che di male esisteva o era
esistito nella mia vita. Lo osservai attentamente, lo fissai a fuoco
nell’anima.
Egli era mio nonno che moriva, Irene che mi lasciava, Giorgia
che mi spezzava il cuore. Egli era il Progresso che stava cancel-
lando il mondo, era il mio disagio, la mia inadeguatezza, il mio
dubbio. Era i miei pianti, i miei dolori, le mie angosce e le frustra-
zioni. Era tutto ciò che avrei dovuto estirpare dalla realtà per poter
campare, finalmente, la equa dolcezza della mia vita.
Mi alzai a fatica da quel tappeto e lo guardai, attentamente. Lui
mi fissò un par d’occhi di fuoco in volto. Era teso, furente. Sudava.
I suoi lineamenti eleganti erano in fremito: sarebbe scattato alla pri-
ma avvisaglia. Umberto ci guardava, affannando per l’apprensione.
«Mi ascolti bene…»
«No, ascoltami tu, damerino. Lo giuro su ogni cosa cara tra le po-
che che mi sono rimaste. Lo giuro sulla mia stessa vita: io ti ucciderò.
Ti toglierò dal mondo, tenente Falcone, dovesse costarmi l’anima, la
carne, la dannazione. Tu morrai per mano mia: te lo giuro».
«Vogliamo dire domani all’alba, ai Ponti Rossi? Che ne dite? Ha
abbastanza fegato o sa solo dar aria alla bocca, lei, lurido indivi-
duo?»
«Ti piacerebbe, nevvero? Duelli non se ne faranno, no. Chia-
mami vigliacco, chiamami disonorato, non me fotte: io ti devo
ammazzare come si fa con le bestie: quando non possono avve-
dersene. Ti ucciderò quando meno te l’aspetti, quando sarai sicuro
d’essere salvo. Quando sarai felice. Ti porterò dai demoni con me:
non sfuggiremo ai diavoli, te lo giuro».
«Ebbene, signore, a quando vorrà lei. Prometto che saprò darle
soddisfazione, pusillanime omuncolo» m’apostrofò, e uscì dalla
saletta, lasciandoci soli.
173
«Togliamoci dai piedi, Stefano» disse Umberto e il suo non fu
un consiglio, ma un comando. Lo seguii senza fiatare. Lasciammo
la casa senza salutare nessuno, senza dire una parola. Neanche ad
Aldo.
Ricordo che quando fui in strada mi fermai un attimo e guardai
le ombre che s’affollavano ai balconi illuminati sopra di me, e udii
distintamente il riverbero della musica che s’ovattava adagio nella
notte. E pensai, io che volevo morire in quell’istante, che alla fine,
purtroppo, si sopravvive.
Dopo quella sera, non rividi mai più in vita mia Giorgia De
Martino.

174
VENTISETTE
1909

Il professore attese in silenzio che il suo ospite iniziasse a parlare,


ma quello taceva.
L’anziano signore si passò una mano grinzosa sui capelli impoma-
tati e poi sulla bocca.
Il silenzio era imbarazzante e un gentiluomo non può concedersi
l’onta dell’imbarazzo. Non è dignitoso.
Aspirò una boccata di sigaro, come a darsi coraggio, a rompere la
malia. Sentì il sapore amaro del fumo arrivargli alle narici, disgustarlo.
Per tutta la vita si era comportato da gentiluomo. I gentiluomini
non hanno dubbi, non hanno esitazioni. I gentiluomini sanno af-
frontare ogni circostanza. I gentiluomini d’un tempo, forse.
L’anziano signore iniziò a sudare. Una goccia lenta, discreta, gli
scendeva lungo la tempia. Il professore la notò e un sorriso lieve, ma
evidente, gli attraversò le labbra.
«Non aveva, forse, qualcosa di urgente di cui parlare?» chiese il
professore, serafico.
L’anziano lo guardò, si asciugò la fronte col fazzoletto e s’irrigidì
sulla poltrona: non voleva dargliela vinta.
Chiuse un attimo gli occhi. Ora aveva vent’anni, tenente dei Lan-
cieri di Sua Maestà Francesco II. Era al ballo, in casa De Martino,
quello in cui sarebbe stato annunciato il suo fidanzamento con Gior-
gia. Una sorpresa di fine serata.
L’orchestra suonava Verdi, la sala era piena di gente, di luci, di
suoni. Ecco che Aldo, il suo futuro cognato, gli presenta un paio di
giovanotti. Uno dei due, il più alto e più grosso, è pallido in volto, ha
gli occhi sgranati. Anche Giorgia è pallida, esangue, sbigottita.
Un fremito gli percorre la schiena. Deve tener saldo, però. Un
gentiluomo non si scompone.
175
Il giovanotto grosso gli stringe la mano, poi si allontana, mormo-
rando una scusa.
Giorgia ha gli occhi vitrei, lo sguardo allucinato. È triste. Sua mo-
glie avrebbe avuto per tutta la vita quello sguardo triste e disperato.
Giorgia si allontana, va dietro al giovanotto. Lui e Aldo rimango-
no impalati, si guardano un istante: non comprendono.
Allora lui va dietro a Giorgia e li trova tutti e tre: la ragazza, il
giovanotto e il suo amico in una saletta scura.
«Diglielo che mi ami» dice il giovanotto, che sta inginocchiato a
terra, disperato. “Mantieni la calma” si dice, “mantieni la calma,
comportati da gentiluomo”.
Giorgia fugge via, in lacrime. Lui chiede spiegazioni. Quel giova-
notto là a terra è avvilito, distrutto, disperato. Ma non piange. Per
niente. Gli fa effetto vederlo così curvato là terra. Gli fa tenerezza,
quasi. Ma deve sapere, un gentiluomo ha il dovere di conoscere la
verità. Deve esigere una spiegazione. Ne va dell’onore.
Il giovanotto si alza, gli pianta in volto un par d’occhi di fuoco.
Gli giura che l’ammazzerà, che l’ammazzerà come una bestia. Lui,
il tenente dei Lancieri, accetta, promette anche lui. Promette che si
sarebbero scannati alla prima occasione. Giura.
Giura per quella disperazione che vede inflitta negli occhi di quel
ragazzo, che ha la sua età, che è come lui. Giura perché è onorevole
battersi per amore. Giura perché è furente con Giorgia, che non ha mai
sentito sua una sola volta. Giura perché spera, veramente, di mantene-
re il giuramento: i nemici son quelli che ti tengono calda l’anima.
Giura, e apre gli occhi, ed è di nuovo un vecchio. È lì perché è ve-
nuto il momento di mantenere la promessa.
Quel giovanotto disperato ora ha settant’anni. Gli sorride e quel
sorriso è un trionfo. Non glielo può concedere.
«Evidentemente non avrebbe mai pensato di vedermi ancora in
vita sua, e fino a poco tempo fa lo pensavo anch’io. Lei conosce il
motivo per il quale sono qui. Lo conosce bene, ma, ahimè, me ne ver-
gogno. Le feci una promessa una volta, ormai quasi cinquant’anni
fa: ebbene, sono venuto, oggi, a mantenerla.
Io sono pronto a darle soddisfazione, ma non posso esimermi dal
sentirmi ridicolo al suono di queste parole. Mi dispiace.
176
Forse non sarei dovuto mai venire. È stato un errore. Che dovrem-
mo fare adesso? Armarci la mano? Misurarci in duello?
È uno scherzo. Tutto questo è un terribile e spietato scherzo. Non
c’è niente di peggiore nella vita che cadere nel ridicolo. Niente.
Ma io ho giurato, le ho dato la mia parola. Ebbene, come possono
due gentiluomini redimere le proprie controversie in un mondo che
li getta nel ridicolo?
Non ci sono lame abbastanza affilate, non esistono pistole suffi-
cientemente roboanti per mettere a tacere i ghigni di questa beffa.
Siamo vecchi, questo è tutto. Il mondo dei duelli è tramontato e
noi non abbiamo neanche più la forza di tenerci in piedi. Mi dispia-
ce. Sono arrivato troppo tardi».

Il professore ascoltò attentamente il suo ospite. Ci fu un istante


di silenzio, poi si alzò dalla poltrona, col sigaro serrato tra i denti.
Andò alla scrivania e l’anziano signore lo udì armeggiare coi cas-
setti. Il professore estrasse qualcosa di grosso e lucente, che rumo-
reggiò un attimo nel fondo di legno del cassetto. Era una Colt. Una
pistola carica.
L’ospite sbarrò gli occhi quando il professore armò il cane e gli
puntò l’arma contro.
«E adesso, se non le dispiace, tenente, avrei io qualcosa da dirle».

177
PARTE SECONDA

LA LUNGA ESTATE
UNO
DOPO I FATTI DELLA GANCIA, 1860

Nella primavera inoltrata del 1860, iniziarono a diffondersi a


Napoli delle strane voci.
Si parlava d’una spedizione che si stava preparando nel Regno
di Sardegna e che aveva scopo di conquistare il Regno delle Due
Sicilie, così da compiere l’unità nazionale italiana.
Già nel mese di aprile era venuta notizia da Palermo di certi
scontri tra l’esercito e alcuni manipoli d’uomini, ch’erano stati su-
bito repressi.
Il capo della rivolta era stato un idraulico di fede liberale e an-
tiborbonica, Francesco Riso, che aveva già partecipato alla rivolta
di Fieravecchia del 1850. Riso era stato ferito durante gli scontri
al convento della Gancia ed era morto poi in ospedale. Altri venti
rivoltosi furono uccisi durante l’assedio e tredici ancora erano stati
arrestati e quindi messi al muro.
Poche settimane dopo i fatti di Palermo, furono avvistati nelle
acque della rada un paio di legni che battevano bandiera sabauda,
intervenuti, a detta dell’equipaggio, a difendere i cittadini piemon-
tesi presenti in Sicilia dopo gli scontri armati.
A fine aprile, il Corriere di Napoli riportò la notizia d’un conve-
gno che s’era tenuto a Torino e a cui avevano partecipato alcuni
fuoriusciti politici, rifugiatisi in Piemonte. Il quotidiano riferiva
che, durante il convegno, il tumulto di Palermo era stata definito
non una mera rivolta, ma un’insurrezione nazionale.
Arrivarono, poi, le notizie di certi movimenti, di certe appari-
zioni d’uomini sospetti nel palermitano e nel messinese che, si dis-
se, erano liberali in cerca d’adepti alla causa italiana.
Stava accadendo qualcosa, qualcosa di grande e fu in quei gior-
ni che udii ancora, dopo molti anni, il nome di Giuseppe Garibaldi.
183
Era lui il capo della spedizione. Si vociferava che nel ’59 avesse
aperto una sottoscrizione per l’acquisto d’un milione di fucili, che
sarebbero poi serviti ad armare la mano ai rivoltosi del Regno delle
Due Sicilie.
La polizia, allora, consigliò al re di spedire truppe armate in Si-
cilia, che dopo i fatti d’aprile non s’era acquietata, e organizzò un
controllo capillare delle coste da parte della Marina, per impedire
qualsiasi tentativo di sbarco. Alla fine, sul territorio trinacrio, c’e-
rano d’acquartierati 25.000 soldati borbonici. E il tenente France-
sco Falcone era uno di essi.
Dopo la terribile notte a casa dei De Martino, mi prese una gran-
de febbre, come m’accadeva ormai sempre quando m’emozionavo
troppo e stetti a delirare a letto più giorni del solito, tanto che mia
madre si spaventò assai.
Bruciavo e piangevo, piangevo e bruciavo e mi vedevo sempre
davanti agli occhi null’altro che quel Falcone a cui volevo strappa-
re le penne.
Non ci dormivo più la notte, né il giorno riuscivo a starmene
all’erta senza pensare a quel tizio.
Se chiudevo gli occhi me lo vedevo davanti, se il sole m’acceca-
va, lo vedevo nei fosfeni. Me lo ritrovavo nei sogni, nei pensieri,
nelle letture e nelle lezioni all’università. Non m’abbandonava mai,
come un amore feroce.
O moriva lui o morivo io. Non ce n’erano d’alternative.
Ma da dove si partiva ad ammazzare qualcuno? Questo era il
problema. Come potevo fare a realizzare moralmente quello ch’era
diventato il necessario scopo della mia esistenza?
Quando s’è innamorati, la soddisfazione della carne basta e, tal-
volta, avanza a godersi la serenità del proprio amore. Ma quando
si odia, quando si odia veramente, come si fa a godere della sereni-
tà dell’odio? Come si fa a soddisfare quel desiderio che pure è della
carne, che pure è penetrazione, ma che ti lascia nella confusione
del buio e del sangue, non nell’estasi della piccola morte?
Io non sapevo cosa rispondere a queste domande, ma sapevo
che se non avessi ucciso Falcone con le mie mani sarei morto io
stesso.
184
Lui era la mia angoscia e il mio disagio, la frustrazione degli atti
inespressi e l’inadeguatezza che sempre m’aveva ridotto a zoppi-
care in tutta la mia esistenza. Egli era, rappresentava tutto questo
e doveva essere eliminato.
E poi m’aveva portato via Giorgia. Non avrei mai più baciato
quelle labbra, accarezzato le sue ossa sporgenti dalla pelle lattea e
setosa. Non averi mai più goduto di quello sguardo triste e furioso,
né avrei mai più sentito il suo profumo di lavanda. Non avrei mai
più sognato di portarla a passeggio, di sposarla e di morire, un
giorno, accanto a lei. Niente, niente più. Era tutto finito, dileguato.
Mi restavano solo i desideri terribili della vendetta e del rancore.
Dovevo, tuttavia, fare i conti non solo con la morale e con la
volontà, ma anche con la pratica: io non avevo né mai maneggiato
armi, né mai avuto idea di maneggiarne.
Iniziai a far pratica di carico con la pistola di mio padre, ch’era
un poco antiquata, ma fungeva allo scopo. In principio fu fru-
strante, anche perché avevo poche occasioni di allenamento, dato
che non volevo che mio padre mi vedesse maneggiare la pistola e
quindi non sempre ero capace d’armeggiare a dovere. Poi, poco
a poco, feci pratica abbastanza da esser rapido a caricar polvere,
borraggio e palla.
A volte mi recavo a tirare ai Ponti Rossi, alle campagne di Pog-
gioreale, a Bellaria, accompagnato da qualche amico meno avve-
duto e sparavo a bottiglie, barattoli e a uccelli di passaggio.
Ogni volta che premevo il grilletto e il rombo dell’esplosione
s’alzava in cielo, pensavo a Falcone che mi cadeva davanti, esani-
me. M’immaginavo pure di vederlo, là a terra, affogare nel sangue
e diventar bianco come un cencio.
Eppure, cosa continuavo a saperne io di morte? Bastava davve-
ro sparare nel petto a un uomo per poter affermare d’aver ucciso?
C’era qualcosa d’arcano, nella prospettiva d’annichilire il mio ne-
mico, che non riuscivo a decifrare. Un buio confuso, che osserva-
vo dentro di me con timore.
Non so se fosse l’angoscia della perdizione oppure il terrore del-
le conseguenze dell’atto. L’unica cosa certa è che in me c’erano due
volontà: una voleva uccidere il tenente, l’altra voleva risparmiarlo.
185
Quest’ultima mi faceva più paura, perché non voleva perdona-
re, ma voleva evitare semplicemente di macchiarsi le mani. An-
ch’essa desiderava la sofferenza, il dolore, la morte di Falcone, ma
non ne voleva essere responsabile. S’affidava alla sorte, a Dio, for-
se, che lo gettasse alla malora.
La volontà d’assassinarlo, magari di notte, al crocicchio d’una
via, sparandogli alle spalle, era meno vile di quell’altra che lo vole-
va vivo, ma che gli bestemmiava l’anima.
Non sapevo a quale volontà prestar fede e, intanto, mi consu-
mavo, perché era proprio una malattia quella che m’era presa e che
tornava a manifestarsi sotto forma di febbre alta.
O moriva lui o morivo io, questo era tutto. In due al mondo,
Falcone e io, non potevamo più starci.
Così, iniziai a progettare l’agguato. Avevo scoperto dove abita-
va, una traversa di via Toledo, sui Quartieri e meditavo d’ammaz-
zarlo sotto casa sua.
Gli avrei sparato nell’ombra, come gli assassini dei romanzi
d’appendice.
Ma mentre si andava concretizzando il mio proposito d’omici-
dio ed ero quasi sul punto di metterlo in atto, venni a sapere che il
reggimento dei Lancieri in cui prestava servizio Falcone era stato
trasferito in Sicilia, all’allerta d’un possibile attacco armato, e mi
caddero le braccia.
Mi sentii perduto. Mi maledissi per aver tentennato troppo, mi
tirai i pugni in testa. Se fosse scoppiata la guerra avrebbero potuto
ammazzarlo, laggiù, e lui era mio, soltanto mio. Io solo dovevo
ucciderlo Francesco Falcone.
Fu allora che mi venne l’idea più sconsiderata della mia intera
esistenza cosciente: perché non unirsi a Garibaldi e alle sue truppe
e marciare in Sicilia contro l’esercito borbonico? L’idea mi sem-
brò addirittura un colpo di genio: Falcone non sarebbe morto per
mano d’un assassino qualunque, ma per quella d’un “patriota ita-
liano” e, in più, agli occhi della legge, non sarei stato macchiato
d’omicidio: il mio sarebbe stato un atto di guerra.
Le notizie del contingente armato in preparazione arrivavano
sempre più frequenti e sicure. Si stavano organizzando a Quarto,
186
a pochi chilometri da Genova. Da molti giorni confluivano nella
cittadina ligure uomini d’ogni estrazione sociale e patria e si uni-
vano alle file di Garibaldi. Uno in più avrebbe fatto comodo a quei
banditi, pensai.
C’era, però, un’incombenza grave da assolvere, che certo non
faceva onore alla mia feroce e omicida risoluzione: metterne a cor-
rente i miei genitori.
In quei giorni di fuoco mio padre e mia madre avevano visto
alternarsi in me fasi di delirio febbrile a momenti d’inconsolabile
malinconia.
S’erano preoccupati assai delle mie condizioni di salute, delle
febbri continue e a volte fortissime che m’affliggevano, dei silenzi
perpetui.
Più volte mio padre mi chiese di metterlo a giorno del mio stato
d’animo, ma io avevo mentito sempre e avevo attribuito la mia
afflizione alla pressione degli esami universitari. Lui non insisteva,
ma era palese che non credeva a una sola parola di quello che gli
raccontavo.
Quando decisi di partire e di unirmi ai volontari di Garibaldi,
ne parlai prima con Umberto, l’unica persona che sapeva cosa mi
stesse accadendo in realtà. Ci incontrammo ai piedi di Carlo II,
come facevamo sempre.
«Hai la minima coscienza, Stefano, dell’elevato grado di aliena-
zione della tua idea? Capisci quanto tu sia pazzo? Oppure non te ne
rendi affatto conto? Stai perdendo il senno e inizi a farmi paura».
«Io non posso più vivere in queste condizioni, Umberto. Sto im-
pazzendo, hai ragione, e l’unica cura è eliminare quel tizio».
«Fesserie».
«Che significa fesserie? Tu non puoi immaginare quello che sto
passando. Lo sogno di notte, quel farabutto. Me lo vedo davan-
ti quando mi sveglio, quando cammino, quando leggo qualcosa.
Non me lo riesco a togliere dal corpo. È come una spina conficcata
nella carne. Se non lo ammazzo, ci muoio».
«Perché ti accanisci con lui? È stata lei a illuderti. Cosa pretende-
resti da Falcone? Lui è innocente quanto te. È stata lei a ingannarvi
entrambi».
187
«Giorgia non lo amava».
«Beh, non amava neanche te, altrimenti ti sarebbe rimasta ac-
canto. Sarebbe con te. Quella non ama che sé stessa…»
«Piantala, Umberto».
«La verità non la vuoi ascoltare, vero? Preferisci credere che sia
stato Falcone a toglierti tutto quel che credevi sacro, non è così?
Certo che è così, è più facile dare la colpa agli altri. È quel che
fanno tutti: danno la colpa agli altri di quello che accade, così non
sono costretti a guardare quello che hanno fatto con le proprie
mani. Cosa vuoi che ti dica? Certo, Stefano, è colpa sua, non di
Giorgia De Martino. Tu vuoi sentirti dire questo, vero? Tu non
vuoi ammazzare lui, tu vuoi ammazzare quelle belve che ti stanno
mangiando dentro…»
«Piantala! Ti ho detto di smetterla, non voglio sentire le tue fes-
serie!» gli urlai addosso, imprecando come un turco.
Restammo in silenzio e non m’ero accorto delle lacrime che mi
rigavano il viso.
«Che vorresti fare, Stefano? Vorresti veramente andare da Ga-
ribaldi? Ma che ne sai di guerra, di battaglie, di morte? Che ne sai
tu d’uccidere, Stefano? Niente, niente ne sai. Noi non facciamo la
guerra, noi siamo quelli che non ci rimettono, mai. Non è per noi il
sangue, noi stiamo bene qua, ai piedi di re Carlo a bere vino o all’A-
ciniello a guardare Mastriani che scrive. Siamo borghesi, noialtri.
Siamo quelli che restano a casa e, alla fine, vincono comunque,
perché non hanno nulla da perdere. Vorresti andare a sparare alla
gente? Eh? Sparare a tutti quelli che ti vengono davanti finché non
ti capita a tiro Falcone? Ci hai pensato a questo, almeno? A quanti
dovrai uccidere prima di arrivare a lui, tu che non sai neanche
come si spara?»
«Lo so, invece. Lo so fare bene. Ho imparato. So ammazzare,
se voglio. Io lo devo uccidere, Umberto, e sì, ne ammazzerò tanti
quanti saranno necessari allo scopo. O muore lui o muoio io. Non
ho scelta. Non si tratta di volontà, ma di sopravvivenza».
Mi osservò a lungo in silenzio e vide che sudavo, che sussultavo
per il cuore che mi batteva forte in petto, che avevo gli occhi sbar-
rati e iniettati di sangue. Vide che ero disperato.
188
«Bene, allora verrò con te» disse, e io lo guardai fisso, sbigottito.
«Non pensare neanche d’impedirmelo, perché non ci riusciresti.
Anche io non demordo mai. Verrò con te, ti starò accanto. Non
voglio mandarti laggiù a morire da solo, non me lo perdonerei
mai».
«Perché?»
«Perché sei mio fratello e se il tuo destino è morire ammazzato,
beh, sarà allora anche il mio».

189
DUE
QUARTO, 1860

Oltre la finestra c’era un mare greve, oleaginoso. Il mattino


non s’era del tutto levato e persisteva un accenno d’ombra di stel-
le sull’acqua. Il bagliore del sole era pallido come quello di braci
morenti. Presto un alito di vento avrebbe dato la vampa al giorno.
Eravamo a Genova, in una piccola pensione del porto, e dopo
poche ore saremmo stati a Quarto.
Eravamo arrivati in nave, trovando passaggio su un mercantile
il cui capitano, per una bella somma, non aveva fatto domande sui
motivi della destinazione.
Il giorno prima di partire ebbi una discussione con mio padre.
Dovevo parlargli di quello che avrei fatto, non me la sentivo di
scappare di casa, come una parte di me avrebbe in realtà voluto
fare per sottrarsi al confronto.
A lui, però, non avevo detto il vero scopo del mio viaggio. Non
sapeva niente di Giorgia, di Falcone. Niente. A lui dissi che volevo
partecipare all’Unità d’Italia.
Mio padre prima gridò, tanto da farsi venire il sangue agli oc-
chi, poi mi parlò con calma e con risolutezza: significava che prima
aveva solo temuto per la mia vita, poi pure per l’anima.
La sua calma, la sua imperturbabilità, scaturita da quella prima,
violenta sbraitata, m’angosciarono di più che se m’avesse preso a
bastonate.
«Io non posso fermarti, Stefano, e questo lo dico con terrore e
con orgoglio. Lo dico con terrore perché temo di non rivederti più,
temo che tu muoia, che tu mi sia strappato per sempre. Non potrei
tollerare più questa esistenza sapendo d’aver permesso, senza op-
pormi, che tu andassi in guerra.
Stai chiedendo troppo all’animo d’un padre. Qualsiasi cosa tu
190
faccia a te stesso, la fai anche a me e te lo giuro, non è un ricatto.
È un dato di fatto, una realtà: questo significa avere un figlio, che
tutto ciò che ami sta alle intemperie e a volte hai di che coprirgli la
testa e a volte no e così devi startene col cuore in gola a sussultare
finché non smette di piovere.
Te lo dico con orgoglio perché, in fine, tu ora sei un uomo, un
uomo giudizioso a mio avviso, e credo tu sappia di quel che parli.
Tuo nonno, forse, sarebbe fiero di te. Questa terra sta andando alla
malora e il povero Francesco non ce la fa a tenere le redini a questi
cavalli imbizzarriti. Se questo è ciò che tu reputi sia giusto, allora,
a malincuore, non posso che acconsentire. Il mondo che verrà ap-
parterrà a te e a quelli come te. Siete voi che dovete decidere come
farlo, se ne siete convinti. Io posso darti solo la mia benedizione e
prometterti di non star troppe notti allerta, senza dormire, a pen-
sare a quel che stai facendo.
Tuttavia, è bene che tu sappia una cosa, prima di decidere: se
tornerai vincitore da questa tua impresa, sappi che non troverai
più niente di quello che hai lasciato. Non lo dico per spaventarti e
farti desistere, ma perché è la verità.
Se tu e i tuoi vincerete, allora il tuo mondo non esisterà più.
Ogni cosa verrà cancellata, e, se io posso prometterti di restare
fedele alle cose che conosci, il resto non può farlo. Niente sarà più
come prima. Se è quello che vuoi, devi accettare questa necessaria
conseguenza. Il nostro è un mondo antiquato, ma, almeno, un po’
c’è dato conoscerlo. Spero anche quello che venga possa essere al-
trettanto indulgente. Lo spero per te, figlio mio».
Io non potei desistere dal piangere, perché le parole di mio pa-
dre erano sincere, i suoi occhi erano scuri e tristi e pur avevano la
forza di farsi attraversare da un barlume luminoso di fiducia.
Erano occhi sinceri i suoi, che corroboravano di speranza una
menzogna atroce. Perché io non andavo a far il mondo nuovo, io
andavo a uccidere un uomo.
La mattina seguente a quel colloquio partii all’alba e non lo salu-
tai. Non me la sentivo di vedere ancora la speranza nel suo sguar-
do augurare trionfo alle mie fandonie.

191
Dopo esserci destati e aver fatto colazione, ci mettemmo in
viaggio per Quarto su un postale che andava a La Spezia.
Quarto era all’epoca un paesetto di pescatori affacciato sul Mar
Ligure, sorto a ridosso delle colline d’ardesia floride di pini marit-
timi, lentischi e ginestre. Sopra la cittadina si scorgevano una serie
di terrazze agricole coltivate a filari di vite e olivi.
Arrivammo col postale al porto e subito notammo un certo fer-
mento, un’agitazione d’uomini, un subbuglio di gente che andava
e veniva. Tutt’intorno a quell’armeggiare c’era una specie d’eufo-
ria, un’allegria nervosa piena di fiducia.
Io e Umberto ci sentimmo spaesati appena scesi da quel battello.
Avevamo con noi i fagotti coi panni dentro e qualche oggetto che
non ci facesse viaggiar pesanti e ce ne restavamo impalati in quel
trambusto senza sapere che fare.
Fermammo un giovanotto in camicia rossa e gli chiedemmo
dove fosse il quartier generale, per poterci arruolare. Lui c’indicò
quella che lì chiamavano il Casone bianco e che era, in realtà, la
Villa Spinola.
La Villa era una bella fabbrica bianca del secolo XVII e pure là
fuori era un agitarsi d’uomini che andavano e venivano, chi recan-
do carteggi, chi imbracciando fucili, chi discutendo ad alta voce di
questo o quel fatto.
Noi due, ch’eravamo frastornati dal baccano, quando fummo
dentro quella casa coi soffitti affrescati domandammo a un altro
giovane in camicia rossa e seduto a una scrivania di mogano a chi
dovessimo domandare per arruolarci.
Quello prima ci guardò a lungo, ci squadrò per bene accarez-
zandosi il pizzetto.
«Di dove venite?»
«Da Napoli».
«Ah… da Napoli… e vorreste arruolarvi con il Generale. Chi mi
assicura che, invece, non siete spie borboniche? Chi mi dice che non
siete qui per ammazzare il Generale?»
Io e Umberto ci guardammo, disorientati. Poi mi feci coraggio
e risposi: «Nessuno te l’assicura. Nessuno proprio. Posso solo darti
la mia parola, per quello che vale, perché è tutto quello che posseg-
192
go. La mia fede è una e una soltanto. Mio nonno stava con Mario
Pagano, nel ’99 e gli ho dato la mia parola che quello che lui non è
riuscito a fare, l’avrei fatto io».
«E sarebbe a dire?»
«Quello che vuoi anche tu. Lo sai almeno chi era Mario Pagano?»
dissi ancora e mi sporsi sulla scrivania, appoggiando le palme al piano.
Il soldato mi fissò per un istante, poi sorrise. «Beh, la vedremo
cosa siete, se spie o gentiluomini. Per ora firmate qui e cerchiamo
d’andare avanti» concluse quello e ci porse calamaio e penna per
segnare il registro d’arruolamento.
«Bene signori miei, congratulazioni, siete ufficialmente solda-
ti della Quinta compagnia dell’Esercito Meridionale del Generale
Garibaldi. Il vostro comandante è il colonnello Francesco Anfossi.
Comportatevi bene e viva l’Italia!» disse e ghignò ironicamente.
Mentre ce ne stavamo lì, ad ascoltare gli sproloqui del reclutato-
re e intanto pensavamo al da farsi, magari cercare un posto dove
dormire, dato che non se ne parlava ancora di mettersi in viaggio,
m’arrivò addosso un uomo bruno e grosso, un ufficiale, e il solda-
to al tavolo si alzò in piedi e si mise sugli attenti.
«Ascolta, devi portare questo dispaccio al Generale, io mi sto
cagando addosso e non ci posso andare». L’uomo sudava freddo e
si reggeva la pancia e faceva smorfie di dolore accecante.
Io annuii e presi il dispaccio dalle mani dell’uomo e quello scap-
po via, credo in direzione delle latrine.
Il soldato del registro mi guardò sorridendo e si rimise seduto. «Sai
che quello era Giovanni Battista Basso, il segretario del Generale?»
«Quel generale?»
«Sì, vai, su per quella scala, la prima porta alla tua destra. Sbri-
gati, che lo starà aspettando. Questa è la prova del nove: adesso
vedremo se sei una spia oppure un patriota».
Guardai Umberto un istante: lui alzò le spalle, io mi voltai e mi
misi a salire la scala. Davanti alla porta c’era un attendente che mi
squadrò un poco prima di lasciarmi passare.
Bussai delicatamente alla porta, ma non sortii effetto. Ero ner-
voso e sentivo un gorgoglio allo stomaco. Guardai l’attendente,
ch’era tornato impassibile.
193
Bussai ancora, con più energia e udii questa volta una voce che
mi diceva d’entrare.
C’era una scrivania in quella stanza, ampia, gigantesca e piena
di fogli, posta davanti a una grande finestra ad arco semicircolare.
Da una parte c’era un letto, un letto da campo, disfatto. Accanto
al letto, su una seggiola, c’era una caffettiera sporca e una tazza
ancor più lurida, e posato sullo schienale un poncho di lana spessa
e beige. C’erano dei quadri alle pareti, dei ritratti di gente antica,
mezzi mozzicati dagli anni, e una libreria con gli scaffali vuoti. La
stanza era appestata dall’odore stantio del sigaro Toscano.
Mi avvicinai con gli occhi bassi alla scrivania, senza guardare
chi ci fosse seduto e porsi il dispaccio bisbigliando: «Prego». Ero
atterrito, tremante.
«Nessuno t’ha insegnato a star sull’attenti davanti a un superio-
re, giovanotto?» disse la voce ch’avevo udito prima, ch’era voce di
gola, incatramata dal fumo. Alzai gli occhi su quel ripiano stermi-
nato di fogli e di penne, impiastrato di macchie nerastre d’inchio-
stro e caffè e la mia attenzione ricadde su un sigaro toscano lungo
e rinsecchito, che venne afferrato da una mano nodosa, dalle noc-
che spesse e coriacee, coperta di peluria rossa. Il sigaro fu spezzato
in due e una metà andò a finire in bocca a Giuseppe Garibaldi.
Il Generale diede fuoco alla metà del sigaro con un cerino e ini-
ziò a fumare tranquillamente.
Portava un paio di vecchie lenti a pince-nez, legate a uno spago
che gli cingeva il collo e tenute insieme da una strisciolina di cauc-
ciù fissata all’archetto, e mi osservava incuriosito coi suoi piccoli
occhi azzurro-verdi, incavati nelle orbite scure e vizze e intanto
si grattava la barba fitta e fulva. Stringeva il Toscano tra i denti e
aveva un occhio sinistro socchiuso, per non farci entrare il fumo.
La fronte era ampia laddove aveva perduto i capelli e sulle spal-
le gli ricadeva una zazzera ricciuta e ancora rossiccia, sebbene il
bianco facesse da campione. Me l’ero figurato più grande di quel
che fosse in realtà: era stretto di spalle e piccolo di membra, ma era
nodoso, in compenso, coriaceo come certi tronchi vecchi, robusti
e aggrinziti. Indossava una camiciona bianca, un po’ lisa al collo e
macchiata di inchiostro ai polsini.
194
A un tratto si tolse gli occhiali, che gli ricaddero sul petto, si
appoggiò allo schienale della sedia, si tolse il sigaro di bocca e disse:
«Ebbene, sto aspettando l’attenti, ragazzino». Io sussultai, perché
in tutto quel tempo ero rimasto a fissare l’uomo di cui avevo sen-
tito parlare la prima volta quand’era morta la buonanima di zio
Achille, che passava da eroe, e di cui non sapevo poi un gran che.
Mi misi sull’attenti, ma era un attenti improvvisato, perché in
vita mia non ne avevo mai fatti. «Andiamo bene, neanche l’attenti
sai fare. Che bei soldati che abbiamo rimediato. Tu es loco, mi ami-
go, per esserti immischiato in una faccenda come questa. Sai che
vuol dire loco, almeno?»
In tutto quel tempo non m’ero accorto che avevo il dispaccio
ancora in mano. «Generale, io non sono pazzo e sono qui per con-
segnarvi questo dispaccio, che m’ha dato il vostro segretario Bas-
so. Sto qui per fare del mio meglio, non ho mai fatto il soldato.
Spero di imparare a essere degno di far parte delle vostre fila. Per
ora questo è quello che sono e se non mi volete non so che dirvi»
dissi d’un fiato e mentre lo dicevo quasi mi scappava di farme-
la addosso e subito mi sarei rimangiato tutto, se l’aria fosse stata
edule, perché non so da dove avessi tirato fuori quel fegato, che mi
sarebbe potuto costar caro.
Garibaldi mi fissò ancora e si rimise il sigaro in bocca. Poi s’al-
zò dalla sedia e mi venne incontro. Era assai più basso di me, ma
faceva paura, davvero paura. I suoi occhi si piantarono nei miei e
si fecero gravi.
«Dammi quel dispaccio» disse. Io glielo porsi e non ebbi il tempo
d’allungare la mano che mi trovai al muro, con la testa incava-
ta negli scaffali della libreria vuota, che sussultarono all’urto. Mi
torse il braccio dietro la schiena e provai un dolore acuto, che mi
fece urlare. Sentivo il suo fiato amaro sul collo, l’odore di cuoio,
di corame, di vecchie cose ch’era quello della sua pelle. Aveva una
forza enorme, sebbene fosse piccolo in confronto a me: avrebbe
potuto pestarmi a dovere con facilità.
«Imparerai, questo è certo. Imparerai a comportarti da persona
educata, prima di tutto, grand’uomo, te lo insegnerò io. Azzardati
un’altra volta a essere insolente col tuo comandante e ti farò passa-
195
re per le armi, ti do la mia parola d’onore, moccioso impertinente!»
mi ringhiò all’orecchio e poi mi lasciò andare con uno spintone.
«Ora fila via!» grugnì ancora, e io uscii con la coda tra le gambe,
massaggiandomi il braccio ch’avevo temuto si fosse rotto.
L’attendente mi fissò e mi vide scarmigliato e rosso in volto.
«Che è successo?» chiese.
«È successo che me la sono cavata».
«S’è arrabbiato?»
«Abbastanza» conclusi e tornai abbasso da Umberto.
«Cosa hai? Ti sei fatto male, Stefano?»
«No, non mi sono fatto niente, sta’ tranquillo».
«Si direbbe, allora, che tutto sommato tu non sia una spia, non è
vero? Di’ un po’, il Generale è stato cortese?» disse quello del regi-
stro, con un ampio ghigno sulla faccia.
«Dacci un taglio anche tu, va bene? Dov’è che possiamo andare
a passare la notte?» domandai.
«Ci sono un paio di case che sono state assegnate alla truppa qui
intorno, domandate là» ci disse e ci lasciò al nostro destino.

Uscimmo da Villa Spinola e andammo in cerca di queste fami-


gerate case, ch’erano una serie di bicocche sparse tra i vicoli del
porto, dove i volontari erano accampati, pronti a salire a bordo
per partire.
Dopo una serie di insuccessi, dato che quegli stambugi erano
tutti occupati, entrammo in una casa a piano terra, da dove usciva
certa musica allegra.
Dentro c’erano una quindicina di persone, accampate alla bella
e meglio nello stanzone grande di quel basso da pescatori.
C’era un fumo acre di sigaro in quella stanza, un odore di mi-
nestra rimestata e di vino amaro. C’era un camino nel fondo, dove
bruciava un piccolo fuoco per cucinar la cena e le pareti di quello
stanzone erano nude e sgarrupate nell’intonaco. Non c’erano mo-
bili, solo un tavolo al centro e qualche seggiola.
La gente ch’era accampata, che ci squadrò appena entrammo,
aveva barbe lunghe due spanne, come diceva Leopardi, ed era ab-
bigliata con la camicia rossa, mentre i più portavano le redingote
196
bigie dei patriotti. Uno aveva in mano una fisarmonica e smise di
suonare.
«Buona sera, avreste da dormire per la notte qua dentro? Siamo
in due» domandò Umberto, con un bel tono gentile.
Nessuno rispose alla domanda e tutti si limitarono a fissarci in-
terrogativi e noi non capivamo se fosse per l’accento napoletano,
per come eravamo vestiti o per qualche altro motivo, solo che da
quando eravamo arrivati a Quarto non ce n’era stato uno che ci
avesse sorriso invece di guardarci in cagnesco.
Al che io, che ne avevo piene le scatole di farmi trattare una
chiavica, che avevo ancora male al braccio e al morale per quel
colpaccio inflittomi dal Generale e che m’ero stufato di girare così
tanto tempo cercando un posto dove buttar la testa per dormire,
mi feci avanti e dissi: «Il mio amico vi ha fatto una domanda, ban-
da d’ubriaconi, c’è da dormire qua dentro o dobbiamo andarcene
fuori dai coglioni anche questa volta?»
In un angolo c’era un tipo, un grand’uomo con un cappello a
tese larghe, che s’alzò dal suo posto dove giocava a carte e mi si
piantò davanti.
Era giovane ed era castano di capelli e occhi. Aveva una cica-
trice sul ciglio destro, che gli conferiva una specie d’aria malinco-
nica. Portava braghe blu scure e la camicia rossa d’ordinanza con
le bretelle di cuoio, ma aveva in vita una cartucciera a cinturone
e la pistola a sei colpi. Estrasse rapidamente l’arma e me la puntò
in faccia, e io sussultai. Era una pistola Colt, un’arma americana
e non se ne vedevano spesso all’epoca, almeno in Italia. Tutti nel-
la stanza rimasero muti e si poteva tagliar col coltello la tensione
ch’era calata.
Il tizio armò il cane alla pistola e disse: «Non mi piace la gente
che usa il turpiloquio. Se sei incazzato, fai marcia indietro e va’ a
incazzarti a casa tua».
«Vuoi spararmi?»
«Dammene motivo e lo faccio».
«Sparami, avanti. Da quando sono arrivato in questo paese non
ho avuto altro che calci in culo e ci sono arrivato meno di tre ore
fa. Quindi inizio a ragionare: o sono un pezzo di merda che non
197
vale un cazzo di niente e si merita d’esser trattato come una pezza
da piedi o devo a malincuore concludere che i patrioti italiani sono
una massa d’arroganti, presuntuosi e sadici bastardi. Francamen-
te? Non lo so e a questo punto non me ne frega niente. Fa quel-
lo che devi fare, sparami se vuoi, grand’uomo» dissi, ma mentre
lo dicevo stavo bene attento a quel tipo spaventoso, che m’aveva
piantato un par d’occhi gelidi in faccia. Quello era uno che aveva
già ucciso e non una sola volta, questo era chiaro, lo sentivo.
«Signori, questi giovanotti sono dei nostri, hanno fegato. Dia-
mogli da bere e sgombrate un angolo, che passano la notte con
noi» disse il tizio e, riabbassato il cane, ricacciò la Colt nella fon-
dina.
La tensione cadde e la musica ricominciò subito dopo. I presenti
si rasserenarono e alcuni iniziarono a spostare della roba da un
cantuccio dove ci saremmo sistemati noi due.
Il tizio spaventoso mi sorrise e disse: «Parli bene, little boy, e sei
coraggioso. Il tuo amico qui è della tua stessa pasta?»
«Certo che lo sono» rispose Umberto, ma mi gettò un’occhiatac-
cia terrorizzata e rabbiosa.
«Io, figliolo, sono il caporale John Roth, della Quinta compa-
gnia. E voialtri?»
«Siamo anche noi della Quinta, signore. Io sono Stefano Turati
e questi è Umberto Galiota».
«Benone allora, c’intenderemo, buttate pure giù la vostra roba»
disse, poi si fece confidenziale e abbassò il tono, per non farsi udire
dagli altri: «Qui sono tutti un po’ nervosi, come potrete immagi-
nare. Da un momento all’altro ci metteremo in viaggio e i pericoli
sono tanti. Nessuno ci vede di buon’occhio a noialtri e bisogna an-
dar cauti. Non sono cattivi, sono diffidenti».
Io e Umberto annuimmo e ci confortò un poco sentir parlare
quel tipo a quel modo, che s’era fatto gioviale quando poco prima
era stato sul punto si spararmi in testa. L’avrei conosciuto bene
l’amico, in seguito. John Roth, il texano.
S’era intanto arrivati all’ora del desinare e pure noi avemmo un
piatto di quella minestra che bolliva sul fuoco e di cui avevamo
presentito l’odore.
198
Mangiammo con foga, perché la tensione a volte mette fame.
Ci riempimmo lo stomaco e dopo fumammo un sigaro assieme al
nostro nuovo amico, che ci fece d’anfitrione nella truppa.
«Quando pensi che ci metteremo in viaggio?» chiese Umberto
a Roth.
«Potrebbe essere stanotte. Il Generale sta decidendo quando si-
mulare il furto».
«Simulare il furto?»
«Sì, il furto dei vapori, il Piemonte e il Lombardo della compa-
gnia Rubattino».
Guardai Roth aggrottando la fronte e lui mi sorrise con indul-
genza. «Non sapete proprio niente, ragazzi miei!» disse.
Roth ci raccontò che, nel mese di aprile, Garibaldi s’era messo
d’accordo con Giovanni Battista Fuché, direttore amministrativo
della compagnia di navigazione Rubattino e fervente patriota, per
mettere in scena un furto di due navi, il Piemonte e la Lombardo,
appunto, con le quali trasportare le truppe dell’Esercito Meridio-
nale in Sicilia. Il giorno dopo il furto, Fuché avrebbe avvisato le au-
torità portuali della sparizione delle navi. Era una messa in scena
bella e buona, poiché il governo sardo, tra l’altro, era a conoscenza
dell’accordo.
«Così prendiamo le navi, ci stipiamo ben benino e andiamo a
dare una lezione a quei napoletani, senza offesa» concluse Roth,
con un ghigno.
Io e Umberto annuimmo e fingemmo d’esser contenti come lui,
ma avevamo entrambi paura, una paura tremenda.
Per non crollare, dopo tutte quelle ore in cui avrei voluto girare
volentieri i tacchi e tornare a casa, e tanti saluti alle vendette e agli
omicidi, dovetti tenermi saldo al proposito di non lasciarmi vince-
re dal disagio, che m’era compagno troppo fedele in quei momenti:
era una guerra con me stesso, che dovevo vincere a tutti i costi per
non finire là dove sarei caduto e non mi sarei più potuto rialza-
re. Solo con me stesso dovevo vedermela, Umberto aveva avuto
ragione ai piedi di re Carlo. Quella non era codardia, viltà, ma la
paura di perdere il controllo dell’anima, che è peggiore di qualsiasi,
sanguinosa battaglia di questo mondo. Ma che significa, in realtà,
199
vincere con sé stessi? Non significa niente. Non si vince mai davve-
ro quella campagna dell’anima, né si mettono a tacere quei terrori
profondi che infestano il buio d’ogni istante veramente consape-
vole della vita. Bisogna solo attendere che passi e che, alla fine,
torni il più tardi possibile a rinverdire la coscienza che tutto quello
a cui prestiamo fede non ha altro che radici spezzate.
L’aria stantia di quel luogo mi dava il capogiro, così mi alzai e
uscii, lasciando Umberto col nostro nuovo amico.
Fuori c’era sempre quel viavai eccitato che avevamo visto all’i-
nizio. L’aria fresca di maggio mi giovò un poco e passeggiai fino
alla riva del mare. Respirai lungamente l’odore di salsedine, di mi-
tili, di alghe che esalava dalla banchina e osservai il sole pomeridia-
no lambire la superficie di quel mare tranquillo e serico. Chiusi gli
occhi alzando lo sguardo al cielo e crogiolandomi nel tepore dei
raggi.
Il Mar Ligure era assai diverso dal mio mare, quel mare del
Golfo colorato di cobalto. Era un mare d’ardesia, verde e lucente,
diafano come certe conchiglie sbiancate o come i resti ossei d’un
mollusco di fondo. Un mare placido, stranamente quiescente, che
pur aveva una fama tremenda: il poeta Shelley c’era affogato a
trent’anni.
Forse fu la vista dello spettacolo di quelle acque solcate dal pal-
lore del sole che mi diede uno strano coraggio. Io avevo qualche
cosa in più a tutti quei giovani che s’erano affastellati in quell’an-
golo di Liguria: a me la parola «Italia» non diceva nulla. Non ero
giunto dal Regno delle Due Sicilie per redimere me stesso e il mio
popolo oppresso. Non m’ero imbarcato come un fuorilegge su quel
mercantile per mischiarmi ai patrioti nell’impresa che avrebbe uni-
to la nazione italiana. Niente di tutto questo. Io ero lì per uccidere
Francesco Falcone. Avevo uno scopo, una meta, un fine preciso.
Questo pensiero mi confortò. Mi sentivo al di sopra di quei giova-
notti arditi e fieri, che mi facevano, in verità, tanto sorridere. Anzi,
non avevo davvero pensato a quel ch’essi avevano intenzione di
fare. L’Italia per me era un toponimo e niente altro, almeno a quel
tempo di confusione e ferocia. Oggi, dopo così tanti anni, posso
pronunciarne il nome con un rispetto che però è un po’ gobbo. A
200
me non fregava niente dell’Italia unita. Non c’era tempo di pensar-
ci, col cuore in gola che avevo d’ammazzare Falcone. Per me era
questione di nascondermi tra quegli scalmanati, come una tigre
nella giungla, e uscire solo al momento dell’attacco. Questa certez-
za m’avvinse e invero mi consolai non poco. Io trascendevo, come
quel mare immobile: non ero nel tempo, ma stavo oltre. Dove si
consuma l’anima.
Oggigiorno, ripensando a quel mio atteggiamento, posso ben
dire che è stata fatta davvero quell’Unità. Si sono uniti egoismi ad
altri egoismi. Questa è l’Italia, in fondo, un bellissimo Paese d’in-
dividui.
Quando sento i detrattori dell’Unità, vecchi nostalgici borbo-
nici miei coetanei, ch’amano soprattutto lamentarsi, o anche gio-
vanotti impetuosi che affliggono il prossimo con le loro denunzie
di questioni meridionali irrisolte, mi vien da sorridere anche più
che di quei masnadieri tra i quali m’andai a cacciare a vent’anni.
L’Unità è stata fatta eccome, cari miei. È stata fatta nell’egoismo,
che è l’anima più vera dell’italiano, che è egli stesso una piccola
rocca inespugnabile. Sarò vero? Sarà falso? La verità è che siamo
un popolo di gente ch’ama fare a modo proprio e ama lamentarsi.
Questo è tutto.
M’accesi un sigaro e mi misi seduto a fissare il mare. L’odore di
salsedine e mitili mi stordì di piacere.
Me ne stetti lì a fumare un tempo lunghissimo, risollevato
com’ero dalla certezza di giocare una bella finzione.
Mentre mi rilassavo al sole, m’avvidi con un sorriso che quel
giorno era il 5 maggio, anniversario della morte di Napoleone Bo-
naparte. E, ricordando Manzoni, mi sentii un poco a casa mia.

201
TRE
SUL PIEMONTE, 1860

In piena notte, mentre dormivamo alla bell’e meglio, arrivò l’or-


dine di imbarcarsi.
Fummo destati da un vociare di «A bordo! A bordo!» che corse
per tutto il porto e entrò nella nostra stamberga per bocca dell’at-
tendente del colonnello Anfossi.
Ci preparammo in fretta e furia, ributtando le nostre cose nel
fagotto alla rinfusa e agguantando prontamente il fucile, ch’io e
Umberto c’eravamo procurati. Erano un paio di ferri vecchi quelle
armi, pure mezze arrugginite e avevamo anche poca polvere da
sparo. Non c’era altro, purtroppo. In compenso, avemmo tutti e
due la nostra brava camicia rossa che, a onor del vero, faceva la
sua figura gagliarda.
Uscimmo di casa seguendo Roth, al quale ci attaccammo come
i pulcini, perché non sapevamo né che fare né come muoverci. Lui
la prese a ridere, ma gli fece piacere essere trattato da mentore.
Roth era un veterano, perché s’era fatta la campagna del ’59 coi
Cacciatori delle Alpi e aveva combattuto a Varese a e Treponti, e
s’era battuto anche nelle Guerre Indiane, in America. Star con lui
voleva dire stare tranquilli.
Ci accalcammo tutti fra gli scogli della marina e la spiaggia della
Foce di Genova, una lunga lingua di sabbia argentea estesa al di
sotto dei bastioni di Quarto. Più di mille uomini erano abbarbi-
cati a quelle rocce appuntite o stavano coi calzoni fra i granelli,
attendendo l’arrivo delle lance che facevano la spola con le navi e
avrebbero smistato le truppe tra la Piemonte e la Lombardo.
La luna, diafana e immensa, era alta sull’acqua e gettava a mare
una luce bigia, pallida e tremante, sterminata, come un’infinità di
lucciole in un campo. Era così chiara la notte, che le torce accese
202
servivano da coreografia più che a vederci sul serio. Sull’estrema
punta della costa, lontano, il faro fendeva il cobalto della notte con
la sua tremula fiammella benigna.
Ce ne stavamo sulla riva, con l’odore del sale alle narici e il rom-
bo sommesso delle onde che s’infrangevano sugli scogli, guardan-
do le sagome scure dei due vapori, lontani nella rada, sui quali
baluginavano le meste luci di fonda e s’udivano nell’aria il vociar
concitato, i commiati alle madri e alle amanti, le preghiere bisbi-
gliate da tutti noi avventurieri pronti ad affrontare il mare.
Quando arrivò il nostro turno di salire sulla scialuppa, scivo-
lammo lungo gli scogli fino a mettere i piedi sul legno dell’imbar-
cazione, e io mi graffiai le palme sugli scogli appuntiti.
Arrembammo la nave su una scala di corda intrecciata e ricor-
do che in tutto il tragitto di spola osservai l’acqua scura della notte
lambire lo scafo della lancia e guardai la costa e la città fra le sue
mura, dove s’intravedevano i lumi di molte abitazioni in veglia,
nella poderosa luce lattea della luna.
Il Piemonte, dove c’imbarcammo io, Umberto e Roth, era un
piroscafo di fabbricazione britannica, varato meno di dieci anni
prima, che la Rubattino sfruttava per il servizio postale. Era prov-
visto d’una sola macchina a vapore e aveva al centro dello scafo la
fumarola, alta metà dei due alberi e colorata di bianco, che sbuffa-
va un fumo nerissimo e misto di corpuscoli incandescenti. L’odore
di quel fumo acre penetrava le narici.
Garibaldi era già a bordo e lo vidi a prua che fumava un sigaro
lentamente, avvolto nel suo poncho e col fez in testa. Teneva lo
sguardo fisso al mare aperto, coi suoi occhi piccoli e socchiusi per
evitare il fumo, e pareva non gl’importassero granché le operazio-
ni di abbordaggio.
Ci sistemammo alla meglio in coperta, ci mettemmo sotto l’albe-
ro di prora e circa un’oretta dopo risuonò il rombo delle macchine.
Il vascello si mosse e si mise con la prua all’orizzonte.
La notte trascorse serena e sulla nave si fece festa. S’intonò La
bella Gigogin, la canzone che Paolo Giorza aveva composta un
par d’anni prima e che era diventata all’epoca il canto di guerra di
quelli che avevano fatto le campagne del ’59.
203
Era una canzone allegra, però mi faceva venire una malinco-
nia tremenda cantata su quel legno in mezzo al Mediterraneo, nel
buio d’una notte di luna piena. Il canto s’alzava pieno di vigore
e di speranza e si perdeva lontano, nell’oscurità. Mi piaceva, ma
m’intristiva al contempo.
Volli impararlo anch’io. «John, me la insegni questa canzone?»
ma non mi rispose: Roth era piegato in due, sul parapetto di tribor-
do e vomitava pure l’anima. Mi avvicinai a lui e gli misi una mano
sulla spalla, non potendo trattenere una risata.
«Grand’uomo, che c’è? Soffri la maretta?»
«Piantala, idiota» bisbigliò con un filo di voce impiastrata e un
altro conato lo fece tacere subito.
«Vieni che te la insegno io» mi sentii chiamare, mi voltai e vidi
un giovanotto bruno, aitante, con un bel sorriso sincero sulle lab-
bra. Lo guardai dapprima torvo, perché non volevo immischiarmi
troppo con quelli là, poi il suo sorriso schietto m’avvinse.
«Mi chiamo Bonardi Carlo, d’Iseo. Sto con la Settima del colon-
nello Cairoli» disse e mi porse la mano. Io la strinsi e mi presentai.
«Napoletano? Ti fa onore star tra noi allora» concluse e m’invitò a
unirmi ai suoi che stavano lì radunati e così coinvolsi pure Umberto.
«È una canzone semplice. Il Giorza l’ha fatta apposta e l’abbiam
cantata tanto lassù da noi, che alla fine il passo l’ha fatto davvero
il Galantuomo!» disse Bonardi.
«Ascolta Turati, è semplice: a quindici anni faceva l’amore, a
sedici ha preso marito e a diciassette s’è spartita, chiaro?»
«Mi pare, proviamo».
«A quindici anni facevo all’amore».
E il coro fece: «Dàghela avanti un passo, delizia del mio cuore!»
«A sedici anni ho preso marito!»
«Dàghela avanti un passo, delizia del mio cuore».
«A diciassett’anni mi sono spartita!»
«Dàghela avanti un passo, delizia del mio cuore».
E tutti scoppiarono a ridere di pancia. «Bonardi, ma sei un be-
stia! Prima gli devi insegnare l’apertura, se no che cantano?» disse
un altro, ed era Giovanni Cei, un livornese, che da borghese faceva
il facchino.
204
«Ha ragione il Cei, adesso ascoltate:

Rataplan! Tambur io sento;


Che mi chiama alla bandiera
Oh che gioia! O che contento:
Io vado a guerreggiar.
Rataplan! Non ho paura
Delle bombe dei cannoni;
Io vado all’avventura:
Sarà poi quel che sarà».

«Di’, Bonardi, te lo ricordi? Tutta la Valtellina la cantava! Che


bei tempi quelli lì!»
S’andò avanti così, a cantare e a ricordare cose della guerra con-
tro l’Austria, cose che io e Umberto potevamo solo immaginare,
mentre Roth non la smetteva di far quelle sue chiacchiere a bocca
larga con l’acqua.
In mare aperto faceva freddo, e io mi rincantucciai accanto
all’albero, stringendomi nella giacca.
Ci tenevamo lontani dalla costa, per evitare brutte sorprese.
Quell’impresa non era ufficiale e, fin quando non fosse andata a
buon fine, sarebbe sempre rimasta illegale.
Poi la truppa, dopo tanto sbraitare, s’assopì e calò la pace in
plancia proprio mentre iniziava da albeggiare.
Io ero ancora sveglio e in quella quiete, in quel silenzio serafi-
co che avevo avvinto ogni cosa, mi potetti godere l’aurora. Il sole
imbiondì l’orizzonte di manciate generose di luce vermiglia. Poco
a poco il colore dell’acqua divenne pallido, ceruleo, da ch’era stato
d’un ciano profondo. Lumie rosee, rosse, paglierine, irrorarono il
cielo, e a un tratto un gabbiano solitario passò oltre l’alta e candida
fumarola della Piemonte e svanì lontano la sua visita.

205
QUATTRO
TALAMONE, 1860

La mattina del 7 maggio arrivammo in vista del porto di Tala-


mone, vicino Orbetello, in Toscana, e il Generale ordinò di attrac-
care.
Avevamo già percorso quasi centottanta miglia nautiche dall’i-
nizio del viaggio e Garibaldi voleva far rifornimento d’armi presso
la locale guarnigione dell’Esercito Sardo, dato che, da quel punto
di vista, eravamo messi davvero male.
Quando attraccammo, il colonnello Anfossi ci comandò di
sbarcare e di dare una mano nel carico degli armamenti.
Dalla regia santabarbara recuperammo parecchie munizioni, di
cui avevamo estremo bisogno, un centinaio di ottime carabine e an-
che tre vecchi cannoni, che io personalmente, ch’ero abbastanza for-
te, diedi una mano a montare sulle passerelle di legno, fino in stiva.
Un paio di giorni dopo essere ripartiti, ci fermammo più in bas-
so di Talamone, sempre lungo la costa toscana, a Porto Santo Ste-
fano, dove stivammo carbone e acqua potabile.
Durante quei tre giorni di navigazione, Roth non aveva smesso
di vomitare e neanche l’ingerimento di gallette secche, per asciuga-
re il subbuglio acido che aveva nello stomaco, era servito a qualche
cosa.
«Diavolo dannato, io vengo dai monti, vengo dal deserto, che
c’entro col fottutissimo mare, io? I hate this fucking, shitty, salty
puddle7!» continuava a imprecare, ma lo faceva senza forze e a
ogni imprecazione, come per punizione, seguiva un nuovo e più
intenso conato.
Mentre facevamo rifornimento di viveri e carburante, Garibal-

7 «Io odio questa fottuta, merdosa, palude salata!»

206
di volle provare un’azione contro lo Stato Pontificio. Ordinò al co-
lonnello Zambianchi e ad altri sessantaquattro volontari di tentare
d’organizzar un’insurrezione dei territori papali.
Zambianchi obbedì all’ordine, partì coi suoi volontari e ne ar-
ruolò altri duecento per strada. Tuttavia, la truppa del colonnello
si macchiò di alcuni saccheggi, che gli resero invisa la popolazione
locale. Venimmo a sapere che Zambianchi si scontrò nei pressi di
Orvieto con le truppe pontificie del colonnello Pimodan, coadiu-
vate dalla popolazione locale, e dovette ritirarsi all’arrivo degli
zuavi. Così l’avventura andò in malora.
Una nave piemontese, inviata da Cavour per tema che gli scon-
tri di Zambianchi con le truppe pontificie potessero mettere in al-
lerta la Francia, riuscì a fermare il povero colonnello romagnolo,
che finì il suo tentativo insurrezionale in carcere.
Ripartimmo da Porto Santo Stefano con un po’ d’amaro in boc-
ca per la faccenda, anche perché venimmo a sapere che c’era un
mandato di arresto per la Piemonte e la Lombardo, firmato sempre
da Cavour, qualora i legni fossero attraccati in qualsiasi porto del-
la Sardegna.
Cavour non aveva mai visto di buon occhio i moti insurrezio-
nali, le spedizioni e le rivolte. Era un diplomatico, e quelle cose da
mazziniani non le poteva soffrire. In più, temeva un intervento di
Napoleone III, ch’era alleato del Papa e a cui non andava a genio la
nascita di una nazione italiana. Bisognava andar cauti e non com-
promettere troppo apertamente il Regno di Sardegna. Come ho
detto, la nostra spedizione rimaneva legale soltanto se sottaciuta.
La sera del 10 maggio eravamo in alto mare e sul ponte s’assi-
steva alla solita cagnara.
Garibaldi s’era fatto vedere in plancia a fumare il sigaro e a im-
partire qualche ordine giornaliero. A volte andava in stiva a con-
fortare la sua cavalla, Marsala, che temeva un poco il buio.
Quella sera eravamo come al solito in coperta, accanto ai falò
accesi nei bracieri, poiché faceva ancora freddo in mezzo al mare e
ci scaldavamo al fuoco bevendo un goccio, quando il sottotenente
Bandi, ch’era l’ufficiale d’ordinanza del Generale, ricevette l’ordi-
ne d’adattare certi versi, che Garibaldi stesso aveva composti, a
207
una qualche melodia. «Ci vorrei qualcosa di battagliero, come la
Marsigliese, come quando s’attacca alla baionetta» aveva specifica-
to il Generale. Nelle sue intenzioni c’era di fornire la sua truppa di
un canto originale, che fosse distintivo dell’Esercito Meridionale. I
versi erano questi:

«Lo stranier che la mia terra calpesta,


il mio gregge macella – il mio onor
vuol strapparmi – ma un ferro mi resta,
un acciar per ferirlo nel cuor.
Non sei stanco di giogo, d’oltraggi,
di codarde lusinghe, d’inganni?
Questa terra – servili e tiranni
Sola porta – ma prodi non più».

Diciamo pure che non erano poi questa grande bellezza, quei
versi. Garibaldi, quando ormai era vecchio e stava in esilio a Ca-
prera, provò pure a fare il romanziere, ma gli riuscì assai scarsa-
mente. Non era proprio il suo mestiere, ecco.
Il povero Bandi, che non voleva deludere il Generale, non sape-
va come risolvere la questione, perché era un bravo scrittore e un
ottimo soldato, ma ne sapeva poco di musica. È Giuseppe Bandi,
infatti, l’autore di quel bel libro che è I Mille, pubblicato sette o otto
anni fa, uno dei pochi memoriali veraci di quell’impresa. Tuttavia,
quella sera, sulla plancia della Piemonte, il Bandi, bruno, paffuto,
coi baffi folti e il pizzetto alla Vittorio Emanuele, andava avanti e
indietro con quel foglio in mano e il lapis dietro l’orecchio e non sa-
peva raccapezzarcisi a risolvere la questione. Al che fu intercettato
dal Cei, che disse: «Bandi, datemi un po’ quel foglio».
«Giovanni, che voi fare? Guarda che il Generale ci tiene».
«Non vi preoccupate, che s’accomoda tutto, date a me, io son
livornese, nessuno sa cantare come i livornesi». Giovanni Cei era
magro da sembrar tisico, pallido e aveva una specie di ghigno pe-
renne in volto, che metteva soggezione.
Bandi gli diede il foglio a malincuore, però pure un poco solle-
vato, perché proprio non sapeva che fare.
208
Il Cei lo guardò aggrottando la fronte, poi disse: «Bei versi son
questi» e rivolto a noi, ché il Bandi non sentisse: «Spero che il Gene-
rale combatta meglio di come scrive».
«Non vi preoccupate, Bandi, che ci si pensa noialtri ai versi del
Generale. Datemi un po’ di tempo» disse Cei.
«Mi raccomando allora. Lo sai, anche io son toscano. Non fare
il bischero, intesi?»
«Ma sì, ma sì» tagliò corto il Cei.
«Ragazzi, qua s’ha da fare la musica, forza idee» disse il livorne-
se, messosi subito all’opera.
«Giovanni, scusa, ma non avevi detto che ci avresti pensato tu?»
chiese Umberto, sorridendo.
«Sì, me li son fatti dare da quel grullo del Bandi perché ci dob-
biamo fare due risate. Diciamocela tutta la verità, ’sti versi fan
cagare, senza offesa di nessuno. Roth, tu che ne dici?»
«Fuck you, son of a…» e giù a rimettere ancora.
«Quello lì l’è bello che andato. Servono idee, Bonardi, forza! Tu-
rati, te? Il Galiota non parla? Candiani, tu che dici?»
Candiani era milanese ed era biondo, grande e grosso. Aveva il
viso butterato dalle cicatrici del vaiolo. Aggrottò un poco le ciglia,
poi spianò la fronte e disse: «Ce l’ho, la Bella Gigogin!»
«I milanesi son bravi, ebbè, ci hanno il Porta, ci hanno!» disse
Cei, trionfante.
Iniziammo così ad adattare i versi di Garibaldi alla melodia del-
la Bella Gigogin e in meno di un’ora tutta la nave cantava i versi
di Garibaldi, ma la melodia certo non somigliava alla Marsigliese.
«Cei! Ma sei impazzito! Che figura ci faccio io adesso, maledet-
to! T’avevo detto di non fare il bischero!» urlò Bandi, con un par
d’occhi infocati e paonazzo nel volto pienotto.
«Dai Bandi, allegro, che si va alla guerra, mica si va a un funera-
le! E poi vedrete che al Generale piacerà, state sereno!»
Al Generale non piacque, per niente.
«Io volevo darvi un canto di guerra che fosse tutto vostro e
voi ci ridete sopra. Andate alla malora todos, canalla maldita!»
si mise a sbraitare, uscendo dalla sua cabina, col fez di traver-
so. Quando s’arrabbiava sul serio, metteva in mezzo al discorso
209
sempre qualche parola in spagnolo, in ricordo dei bei tempi di
Rio Grande do Sul.
A quei rimbrotti, la truppa si rimangiò il canto e l’allegria, per-
ché, quando urlava, Garibaldi faceva davvero impressione e io ne
sapevo qualche cosa.
«È andata bene, Candiani, che ne dici?»
«Sarebbe andata meglio se ci avesse messi al muro» rispose il
gigantesco milanese e si mise a ridere a bocca larga.
Poi perdemmo di vista le luci della Lombardo. La nave ci segui-
va a una distanza non eccessiva, in modo che il contatto visivo
fosse sempre possibile. Eravamo in acque borboniche e potevano
esserci vascelli della Marina dappertutto, pronti ad attaccarci.
Stavamo immersi nel buio. Nessuna luce all’orizzonte, niente che
indicasse la presenza della terra o di qualcosa d’umano, solo l’infini-
to e splendente ventre stellato del cosmo sopra le nostre teste.
«Aguzzate la vista, dobbiamo trovarla, dobbiamo trovare la
Lombardo» ci ordinarono Anfossi e i comandanti delle altre com-
pagnie.
Ci mettemmo tutti ai parapetti, a scrutare nel buio. Calò il silen-
zio, rotto solo dal bofonchiare della macchina.
Poi un suono sinistro s’alzò dall’acqua, come un muggito, che
echeggiò per un tempo incalcolabile e poi tacque. Dopo poco lo
stesso muggito si alzò nelle tenebre e come il primo ricadde.
Il rumore veniva dal mare, da lontano. Io e Umberto ci guar-
dammo con gli occhi sbarrati e persino Roth riuscì a riaversi un
attimo per ascoltare meglio.
Era un lamento, una specie di ululato baritonale. Invece di cer-
care la nave, la truppa s’atterrì e iniziò a osservare il cielo e a cercar
la fonte di quel suono agghiacciante.
Imbracciammo i fucili, pronti a far fuoco. «Sarà una nave bor-
bonica?» chiese Umberto, spaventato.
«Non lo so. Non ho mai sentito una nave far di questi lamenti»
rispose per lui Bonardi, con un tono di voce lugubre.
Il muggito continuò lungamente, finché non fu rotto da un vo-
ciare altisonante. «Volete finirla una buona volta, manga de bur-
ros? Non avete mai sentito una balena che canta?»
210
Era Garibaldi. Stava a braccia sui fianchi, con uno sguardo tor-
vo e il fez sempre di traverso. Non gli era passata, davvero.
«Tornate al vostro mestiere: dobbiamo trovare l’altra nave il
prima possibile. Là fuori ci potrebbero essere i legni napoletani,
pronti a farci a pezzi» concluse il Generale, con uno sbuffo sonoro.
Le balene. Io mi sporsi dal parapetto, con la speranza infantile
di vederne una in quel grande buio cosmico in cui navigavamo.
“Forse” pensai, “questa volta tornano da Gibilterra” e sentii il pian-
to salirmi alla gola, assieme a un mucchio di dolenti ricordi, ma
riuscii a ricacciarli indietro appena in tempo.
Dopo varie ore, sul limitare dell’alba, avvistammo di nuovo le
luci di fonda della Lombardo.
Il Generale, alla fine, poté tirare un profondo e prolungato so-
spiro di sollievo.

211
CINQUE
MARSALA, 1860

Il mattino dell’11 maggio 1860, giungemmo in prossimità di


punta Provvidenza, tra Favignana e Marettimo. Venimmo in se-
guito a sapere che già in quel momento, proprio al semaforo di
punta di Provvidenza, eravamo stati individuati, ma essendo la
Marina borbonica distante una ventina di miglia, nessuno c’impe-
dì d’avvicinarci alla costa.
Verso le 13:00, arrivammo in vista d’un porto e io domandai al
Cei, che avevo vicino, di che città si trattasse.
«Marsala» rispose lui.
Era una bella cittadina costiera, cinta da alte mura ocra e da an-
tichi torrioni di difesa del tempo dei Viceré. Da coperta si vedeva
la rada del porto, chiusa dal frangiflutti a gomito, e più lontano
s’ergevano le cupole azzurre di diverse chiese, alti campanili e i
tetti d’argilla di molti edifici candidi.
Stavamo tutti a osservare il porto, coi fucili in braccio. Roth, che
pure non era diventato meno pallido, si reggeva alquanto in piedi,
anche lui con la mano alla fondina.
Poi ci accorgemmo delle navi che ci seguivano. Erano tre legni: due
piroscafi a vapore e una fregata a vela. Erano lo Stromboli, il Capri e
il Partenope. Le osservai attentamente e sbarrai gli occhi e le indicai a
Umberto, che ebbe la stessa reazione: noi quelle navi le conoscevamo.
Le avevamo viste all’Arsenale, a Napoli, tanto tempo prima, a
una festa della Marina delle Due Sicilie. Ci aveva portati mio padre
a vedere le navi da guerra e i marinai, ad ascoltare la fanfara e le
salve sparate in onore del re. Me le ricordavo bene quelle navi, che
mi piacquero tanto e che mi fecero venir voglia di diventar mari-
naio. Parlammo tanto io e Umberto di quella festa, di come sarebbe
stato bello imbarcarci insieme e di visitare tutto il mondo.
212
Ora, quelle stesse navi, quegli stessi marinai che avevamo fe-
steggiato sventolando le bandierine col giglio, ci stavano dando la
caccia.
Avevo il cuore in gola in quel momento e una fitta al petto d’an-
sia e paura, che mi mordeva pure la schiena. M’accorsi d’aver le
mani sudate e me le tersi sulla camicia. Guardai Umberto un istan-
te, lui continuava a fissare le navi, con uno sguardo atterrito che
doveva somigliare molto al mio.
«Non ti preoccupare, Turati, stai vicino a noi e vedrai che non
ti succede niente» sentì dirmi ed era Bonardi, che m’aveva messo
la mano sulla spalla e mi sorrideva. Io annuii e tornai a guardare
le navi.
Era una sensazione terribile quella che sentivo: ero terrorizzato,
ma non da ciò ch’era ignoto, ma da ciò che meglio conoscevo e
addirittura avevo amato. Era come guardare un parente brandire
un’arma e venirti contro, per ferirti. Stavo con gli occhi fissi su
quelle navi e non riuscivo a immaginare ch’esse avrebbero potuto
far fuoco coi cannoni, non quelle navi, non contro di me, che avrei
voluto salirci a bordo per andare a vedere il mondo. Non avrebbe-
ro potuto uccidermi, io ero napoletano.
Garibaldi, accanto al timone, col sigaro tra i denti, osservava le
imbarcazioni nemiche che procedevano lente e inesorabili verso di
noi. «Non fate nulla, ma tenetevi pronti» ordinò, ieratico.
Accanto al Generale, c’era Salvatore Castiglia, un palermitano
pelo scuro, che scrutava con un cannocchiale il porto. Notò un
altro paio di imbarcazioni alla fonda, nella rada, e le indicò subito
a Garibaldi.
«Una è inglese, quella sulla destra, lo riconosco dalla forma, ma
l’altra non lo posso assicurare» disse Castiglia.
C’erano effettivamente due vascelli in rada, che non battevano
nessuna bandiera evidente.
La Piemonte rombava grevemente, mentre guadagnavamo ac-
qua verso il porto: dovevamo superare il faro prima che le navi
borboniche ci raggiungessero.
Poi vedemmo uscire dalla calanca un brigantino che batteva
bandiera inglese e che si avvicinava a noi speditamente.
213
Appena ebbe superato un buon tratto d’acqua e fu a portata di
voce, Castiglia gridò all’equipaggio del brigantino di che nazionali-
tà fossero le navi in porto. «Legno inglese» risposero quelli.
«Legno, non legni» commentò Garibaldi.
Intanto le navi da guerra ci stavano alle calcagna e noi gettava-
mo un occhio al porto e uno agli inseguitori che, stranamente, non
avevano ancora aperto il fuoco.
Garibaldi non riuscì a capire: «Eppure sono vicini, che aspet-
tano?»
Poi capimmo il perché.
Sugli alberi delle due navi alla fonda vedemmo issarsi lentamen-
te la White Ensign, la bandiera dello Squadrone Bianco della Royal
Navy.
Erano due navi da guerra quelle in porto, due navi da guerra
della Marina Inglese, l’Argus e l’Intrepid. «Ecco perché i napoletani
non sparano, hanno paura di Vittoria» disse Garibaldi, sorridendo.
A Marsala, a quel tempo, erano attivissime le ditte Woodhouse
e Ingham & Whitaker, che, assieme alle cantine di Don Vincenzo
Florio, producevano il famoso vino marsala. Ora, gli impiegati alla
produzione nelle cantine, ai magazzini che erano concentrati per
la più parte nella zona portuale, erano tutti cittadini inglesi. Alle
prime avvisaglie di un conflitto, il governo britannico aveva invia-
to le sue navi da guerra a difendere i cittadini inglesi di istanza nel
porto di Marsala. Almeno questo è quello che si disse. Qualcuno,
invece, asserisce che gli inglesi erano lì perché ci tenevano a che
Garibaldi compisse la sua impresa. Queste, però, sono voci.
Quello che è importante è che la Marina borbonica non ci can-
noneggiò perché aveva paura di colpire le navi britanniche, scate-
nando così un putiferio diplomatico che avrebbe recato assai più
danno che lo sbarco d’un manipolo d’uomini. Secondo loro.
Garibaldi era sgargiante. «Ragazzi miei, finché ci saranno gli
inglesi in porto, i napoletani non spareranno» disse, con un bel
ghigno tra la barba folta.
Intanto procedevamo spediti e arrivammo ben presto a supera-
re la punta del faro, seguiti dalla Lombardo a poche decine di metri
di distanza.
214
Le navi borboniche si fermarono poco più avanti l’imboccatura del
porto e vedevamo in plancia i marinai andare avanti e indietro nervosi.
«Ce l’abbiamo fatta!» disse il Cei, dando una bella pacca sulla
spalla a Candiani, che risuonò roboante nella sua schiena immensa.
La Lombardo, tuttavia, poco dopo l’ingresso del porto, andò ad
arenarsi su un banco di sabbia e non fu possibile spostarla. La vidi
bloccata a babordo, piegata nell’acqua su un fianco. Garibaldi die-
de ordine che si procedesse allo sbarco tramite le scialuppe.
La nave arrivò al molo, e uno ad uno scendemmo a terra, Roth
in testa a tutti, maledicendo il mare.
«Siamo in Sicilia! Viva Garibaldi, viva l’Italia!» risuonò in porto
il grido di felicità di tutti. Pure io mi misi a gridare, che non mi ci
raccapezzavo d’essere ancora vivo, che quelle navi non ci avesse-
ro affondato, né riuscivo a capire come fossimo arrivati in porto
e non ci fosse nessuno a darci battaglia. Per lungo tempo, in qui
giorni, avevo immaginato che non appena avessi messo piede in
Sicilia, avrei combattuto, magari proprio contro Falcone. Quando
fui a terra, tuttavia, mi guardai intorno e mi chiesi dove fossero i
soldati borbonici.
Non c’era nessuno, e pure io li avevo visti i soldati del re Borbo-
ne, li avevo visti tante volte a Largo di Palazzo e al Campo di Marte
di Capodichino. Sapevo quanti erano: una marea, un oceano.
Ma dov’erano adesso? Perché non stavano là, al porto di Mar-
sala, permettendomi di compiere la mia vendetta e andarmene alla
malora pure io?
C’erano solo un bel caldo, una luce sincera, un cielo terso e l’o-
dore dolciastro delle cantine ad attenderci a Marsala.
Espressi i miei dubbi a Umberto. «Non credi sia strano? Non c’è
un solo soldato».
«Che vuoi dire? Non è meglio?»
«Sì, beh, sì direi… ma è strano, perché non sono qui a fermarci?»
«Vorresti che ci fermassero, Stefano? Magari che Francesco Fal-
cone ci fermasse?»
«Non dico questo, dico che il nostro esercito vanta più di
90.000 unità e non ce n’è una sola su questa banchina, a spararci
addosso!»
215
«Stefano, quello non è più il nostro esercito» tagliò corto Umber-
to, con uno sguardo duro, che mi fece male.
Intanto avevamo ricevuto l’ordine di scaricare in fretta i vascel-
li, che di lì a poco avremmo dovuto abbandonare al nostro destino
e, naturalmente, fu più difficile scaricare il Lombardo, ch’era an-
cora in acqua.
Tuttavia, mentre eravamo in procinto di sbarcare, agli ammira-
gli di re Francesco venne finalmente l’idea di provare a fermarci.
Udii prima un boato, uno scoppio, come quello d’un fuoco d’ar-
tificio, poi un tonfo fragoroso, che alzò una colonna d’acqua nella
rada, tra il molo e la Lombardo incagliata.
«Iniziano…» disse Roth, che s’era ripreso del tutto dopo aver
rimesso piede a terra, con un ghigno feroce sulla faccia.
A quella prima cannonata ne seguirono altre, sempre incerte,
tuttavia, irregolari, per giunta: cadevano in acqua alzando grandi
spruzzi schiumosi e niente più. Non era un cannoneggiamento alla
disperata. Non potevano permetterselo. Se avessero colpito le navi
inglesi o gli edifici Woodhouse, ch’erano proprio vicino alla ban-
china, sarebbe stato grave.
Speravano di poterci colpire senza poter usufruire di tutta la
potenza di fuoco: infatti a sparare erano solo il Partenope e il Capri.
Fu del tutto inutile quel tardivo bombardamento. Se ci avessero in-
tercettato a largo ci avrebbero senz’altro potuti affondare. Se avessero
iniziato a sparare prima che entrassimo in porto, non avrebbero rischia-
to di colpire le navi inglesi. Pare che io mi rammarichi del fatto che quel
giorno non sia morto sotto le bombe delle navi di re Francesco. Non è
così. In cuor mio ero contento d’essere vivo e vegeto sulla terra ferma,
però non potevo fare a meno di farmi una o due domande.
Il fatto è che non ci vollero fermare. Questo è quanto. Le indeci-
sioni, le irresolutezze, le attese tergiversanti d’ordini e contrordini,
la mancanza di spirito, le paure diplomatiche, tutte queste cose,
mischiate a chissà quante altre magagne oscure, ordite dai galan-
tuomini e dai signori dell’esercito, fecero sì che 1089 uomini sbar-
cassero quel giorno di maggio a Marsala, quando c’era d’istanza in
Sicilia, in quel momento, un contingente armato d’almeno 25.000
uomini.
216
A corroborare la tesi della volontà di lasciarci passare, volon-
tà che, purtroppo fu dettata prima di tutto dalla leggerezza e poi
dalle congiure, c’era il fatto, che venimmo a sapere subito dopo lo
sbarco, che appena un giorno prima del nostro arrivo, ignorando
i servizi di informazione, i comandanti borbonici avevano fatto
rientrare a Palermo le truppe del generale Letizia e del maggiore
d’Ambrosio, per tema d’una insurrezione nella città. Così, sia Mar-
sala, sia i dintorni erano sprovvisti di difesa, lasciandoci l’agio di
passare indisturbati.
Ne sono addolorato? Sì, ne sono addolorato, perché io volevo
combattere e avere la mia vendetta a quel tempo, ch’ero giovane,
sebbene avessi addosso una fifa blu, e ora, che sono vecchio, mi
rendo conto che questa povera terra fu abbandonata al suo de-
stino, che non fu solo quello d’essere italiana, che è stato, tutto
sommato, almeno per me, un bene, ma perché è stata condannata
a credere d’aver perduto, quando, in realtà, ha rinunziato sempli-
cemente alla lotta.
Ci avrebbero potuti annientare, se solo avessero voluto. Ci
avrebbero potuto uccidere tutti.
Si presero pure la Lombardo e la Piemonte, che dovemmo la-
sciare indietro muovendoci da Marsala, tagliandoci qualsiasi via
di fuga dal mare, se le cose si fossero messe male. Ma non l’hanno
fatto. Non hanno voluto fare.
Anche il drago ha diritto all’ultima rivalsa, ma il Regno delle
Due Sicilie non la ebbe. Non gli fu accordato l’onore di morire con
dignità. Ora, quanti sono coloro che piangono quel mondo scom-
parso, bello e inutile? Tanti, troppi se ne sentono ancora, che ver-
minano sotto le vestigia trionfanti del Risorgimento. Rimpiango-
no con nostalgia quei tempi passati. È questo il danno più grande
che c’è stato fatto: c’è stato accordato agio all’autocommiserazio-
ne, di cui noi siamo ingordi. Anche domani, ne sono sicuro, sarà
sempre Garibaldi il colpevole che ha depredato il Regno delle Due
Sicilie. Nessuno avrà il coraggio di ammettere che, in realtà, esso fu
abbandonato al suo destino.
La popolazione di Marsala ci accolse con un poco di diffidenza.
Certo non faceva piacere vedersi piombare in città un manipolo
217
d’uomini armati, che avevano scatenato le ire della Marina Bor-
bonica.
Il bombardamento continuò fino al tramonto, ma non ne conse-
guirono morti, né feriti. Avrebbero fatto più impressione se aves-
sero sparato a salve.
Ci muovemmo rapidamente in colonna, sulla via di Palermo, e
in quel momento io pensai, guardando le navi che si confondeva-
no alle tenebre nella rada, che da lì a poco mi sarei trovato davanti
Francesco Falcone.

218
SEI
SALEMI, 1860

Il giorno dopo lo sbarco, il 12 maggio, a seguito d’una notte di


addiaccio, si unirono a noi un paio di centinaia di picciotti, i volon-
tari siciliani che già attendevano il nostro arrivo, comandati dai
fratelli Sant’Anna di Alcamo.
Ci dirigevamo a nord, in marcia serrata, una lunga fila di solda-
ti rossi tra i cespugli di ginestra che allora mettevano i fiori, gli uli-
vi ritorti dal vento, i fichidindia e i cardi pungenti. La terra aveva
quel colore fulvo ch’hanno tutte le lande battute dal solleone; nel
cielo turchino, in alto, nel terso accecante, volteggiavano le sago-
me di chissà che uccelli scuri.
Era bello marciare per quelle campagne pietrose e gialle, dove
non s’incontrava altro che qualche pastore lontano, che seguiva un
gregge belante e che ci guardava incuriosito, appoggiandosi al ba-
stone adunco. Poi solo stormire di fronde, qualche grido d’uccello,
lo strido d’una lepre spaventata e niente altro. Quella era davve-
ro la terra degli dei, mi venne da pensare, mentre respiravo l’aria
odorosa e guardavo all’orizzonte, nell’incavo della costa, la striscia
turchese del mare, sulla quale sfavillava una linea bionda di luce.
Faceva un gran caldo e noi ci facevamo aria come si poteva, coi
cappelli o coi fazzoletti. Il fucile pesava sulla spalla, soprattutto
sulla mia, che non era mai stata adusa a sopportar pesi di sorta.
Era un fucilone grande quanto una pertica, ma assai più pe-
sante, un reperto del Quarantotto, trasformato da pietra focaia a
percussione. Cesare Abba, che era un gran testa calda all’epoca e
che poi andò a fare il Maestro Perboni8 come me, li descrisse perfet-
tamente quei fucili nelle Noterelle e mi venne da sorridere la prima

8 Personaggio del romanzo Cuore (1886), di Edmondo De Amicis.

219
volta che lo lessi, perché aveva proprio ragione: erano «Lunghi,
pesanti, rugginosi e tetri».
Con quel gravo sulla spalla da una parte, il fagotto dall’altra, gli
stivaletti che iniziavano a far male, fu bello per poco il paesaggio,
poi iniziò a stufare pure quello.
Anche Umberto soffriva quella marcia, ma sembrava più stoico
e teneva la testa bassa sotto al suo gran cilindro marrone, che s’era
portato dietro come portafortuna.
Roth si sbracciava, sbadigliava a fauci spalancate, si stiracchia-
va per dimostrare a tutti non solo a parole d’esser contento all’aria
aperta, e a terra, soprattutto.
Seguivamo il colonnello Anfossi, che procedeva a cavallo, da-
vanti a noi. Era un uomo taciturno e nervoso, con un paio d’occhi
che guizzavano da una parte all’altra come quelli d’una lucertola.
Si voltava a osservare la colonna con uno sguardo poco rassicu-
rante, poi tornava a guardare avanti, al Generale che procedeva
in testa a tutti.
Garibaldi stava in sella alla sua cavalla bianca, col poncho sulle
spalle malgrado il caldo, poiché soffriva di reumatismi e non do-
veva rischiar di prender colpi d’aria. Aveva sempre uno sguardo
attento, pertinace, che scrutava l’orizzonte e si voltava a guardare
la colonna ogni tanto, che nel mentre s’era messa a cantare per
alleviare la fatica della marcia.
Si cantava L’addio del volontario del Bosi, perché s’era in vena
malinconica quel giorno, forse a causa del fatto che non avevamo
ancora incrociate truppe nemiche alle quali dar battaglia.
Infatti non un drappello, non una compagnia, non un solo ma-
nipolo o soldato avevamo incocciato in tutto il tragitto.
Per circa quaranta chilometri, fino alla città di Salemi, non in-
contrammo nessuno: era come se l’esercito borbonico si fosse di-
menticato che noi eravamo in Sicilia.
Dopo quella lunga marcia, assicuratosi che i borbonici non era-
no alle nostre calcagna, Garibaldi fermò la colonna e ci concesse
una pausa.
Fu un sollievo potersi buttare a corpo morto su quello scisto
fulvo, tra le lupinelle e i tarassachi.
220
Mi adagiai a terra, sospirando di sollievo, perché la spalla mi
doleva, le gambe, i piedi, tutte le ossa scricchiolavano.
«Non sei abituato alle marce, eh, Little boy?» disse Roth, sorri-
dendo e io potetti solo offrirgli a mia volta un sorriso in risposta.
Garibaldi, dopo aver legata la cavallina Marsala, si trovò un
posto a sedere sotto a un ulivo, che faceva una bella ombra ma-
culata e lì si mise tranquillo a sonnecchiare, ordinando al Bandi
di preparargli il caffè per il suo risveglio. Se c’era una cosa di cui
il generale non poteva fare a meno, oltre al sigaro Toscano, era il
caffè: gliel’ho visto ordinare pure in battaglia, in una pausa tra una
carica e un’altra.
Ce ne stavamo a bivacco in campagna, col sole che ci abbacina-
va la vista e ci scappò pure un rancio, ch’avevamo la fame dei lupi.
«Dì un poco, Turati, com’è Napoli?» mi chiese il Cei, mentre
trangugiava dalla sua gavetta.
«È bella, Giovanni, è molto bella».
«In che senso?»
«Come in che senso?»
«Dico, perché è bella? Cos’ha di particolare? Cosa perderà re
Franceschiello, se ci arriviamo a prenderla?»
Esitai un instante, dubbioso, anche perché m’aveva dato fastidio
quel nomignolo, poi continuai: «Beh, è difficile a dirsi, così, su due
piedi. Forse perderebbe l’odore della stoppa e del muschio, quando
si fa il presepe a Natale e la bella sensazione di stringersi il cappotto
addosso nel freddo quando si vanno a comprare i pastori a San
Gregorio Armeno a dicembre. Perderebbe la frescura delle chiese
e il silenzio abissale che viene da quegli ori e quei marmi barocchi,
perderebbe la visione furtiva d’una striscia azzurra tra i palazzi,
magari solcata dalle vele d’un bastimento, che sembra quasi che la
nave transiti da un palazzo per scomparire nell’altro. Perderebbe i
rumori di piazza San Gaetano, della gente che vende, dei passanti,
di quelli che pregano a denti stretti con gli occhi rivolti alla facciata
della chiesa di San Paolo. Perderebbe l’odore degli alberi che si leva
col vento dall’Orto Botanico in primavera, che t’arriva addosso
come una placida frescura. Perderebbe le passeggiate a Port’Alba,
pei banchi dei libri, il sapore dei buoni impiastri nelle osterie, per-
221
derebbe i cieli tetri e uggiosi dei giorni della merla, che son più belli
ancora del sole a Napoli. Perderebbe le strade fatiscenti, i ruderi, i
resti dei vecchi mondi e tutti i fantasmi invisibili e meravigliosi che
ti fanno dimenticare la miseria, l’inciviltà degli uomini e il colera».
«Questo è quello che perderesti tu, Turati» intervenne Bonardi,
con un sorriso gentile in volto.
«Beh, forse sì. Forse è quello che perderei io. Ma se il re dovesse
perdere solo una parte di questo… povero lui. Non so che dire».
«Allora è bella davvero Napoli» concluse il Cei, questa volta
guardando Umberto, che mi stava accanto, per avere una confer-
ma. Umberto annuì e mi guardò fisso, e potei vedergli la nostalgia
che gli verminava in volto.
«La vedremo, questa Napoli» aggiunse ancora Cei, mettendosi
disteso con una mano sugli occhi, per pararsi dal sole. Quelle paro-
le mi fecero rabbrividire.
Dopo meno di mezz’ora, la truppa parve averne avuto abba-
stanza di riposo e iniziò a far di nuovo cagnara, attaccando ora a
cantare La bella Gigogin.
Garibaldi, che aveva preso sonno, si destò udendo quel baccano.
«Bandi, il caffè, per piacere» ordinò con tono infastidito e ne sorbì
una tazza senza zucchero.
«Benone, se questi giovanotti hanno tanta energia da non aver
necessità di riposare, che siano pronti in cinque minuti» ordinò il
Generale, riappropriandosi del sigaro, e sgranchendosi al quanto
pei dolori alle ossa, innervosito.
Ci rimettemmo in marcia con mio rammarico e arrivammo ad
avvistare la città di Salemi soltanto al tramonto, dopo qualche altra
ora di marcia.
«Per stanotte ci accamperemo qui» ordinò il Generale. «Entre-
remo in città domattina, da trionfatori, e non di notte da banditi.
Riposatevi, datevi una strigliata e pronti alla sveglia».
La città di Salemi era costituita da una congerie di case ocra
arroccate sul Monte delle Rose, tra il fiume Mazzaro e il fiume
Grande, cinta da verdissimi filari di vite e agrumeti.
Da dove c’eravamo accampati, su un poggetto prospiciente
l’abitato, si scorgeva la sagoma del castello, una grigia roccaforte
222
dagli alti torrioni del tempo dell’imperatore Federico. Le case era-
no ammassate le une sulle altre e parevano una serie di conchiglie
abbarbicate allo scoglio, come le ostriche del Verga.
Garibaldi ordinò che s’accendessero dei poderosi falò. Era un’u-
sanza che aveva appreso in Sudamerica: serviva ad avvertire la
popolazione che stavamo arrivando e che eravamo in tanti.
Poco a poco vedemmo le luci dell’abitato accendersi, mentre il
cielo si tingeva di porpora e cadeva un’altra notte.
I fuochi immensi e alti illuminavano a giorno la piana e con-
fondevano il riverbero delle stelle nella volta, che prima fu color
cobalto, poi si stinse nella pece argentea del buio.
Devo ammettere che starmene davanti al fuoco, in campagna,
accampato alla bell’e meglio, col fagotto per cuscino, e i compagni
intorno, non era poi malaccio.
In tutto quel tempo io avevo avuto in mente tante cose, troppe
cose mischiate. Imparai a modulare la paura, il desiderio di ven-
detta, l’ansia e il raccapriccio che sempre ho avuto di trovarmi
in mezzo agli altri. C’era una cosa che quelli avevano e che era
la miglior dote: erano spontanei. Così come all’inizio ci avevano
guardato in cagnesco, perché erano diffidenti, ora sarebbero stati
pronti a difenderci a oltranza. Eravamo dei loro e ci volevano con
loro, perché pensavano che avessimo più fegato di tutti, noi che
combattevamo contro il nostro stesso re. Eravamo un’ottantina,
provenienti dalle regioni del Regno delle Due Sicilie, e a me e a
Umberto, specialmente, che non ne sapevamo niente davvero di
guerra e di rivoluzione, ci presero parecchio a ben volere.
Il Bonardi c’insegnò a far pratica di carico coll’anticaglia di fu-
cile che imbracciavamo e a sistemare il fagotto in modo che non
ci desse troppo impiccio, il Cei c’insegnò le canzoni e i motti, Can-
diani recitò per noi il Porta e ce lo tradusse. Era questo il nostro
gruppo, a cui più avanti s’unì Nodari, e, anche se facevamo parte
di Compagnie diverse, ci ritrovammo sempre a leccarci le ferite
insieme dopo ogni azione.
Ci raccontarono le imprese del ’59, quando erano volontari tra
i Cacciatori delle Alpi. Bonardi rievocò la battaglia di Treponti,
nel bresciano, quando attaccarono l’armata del barone von Urban
223
sul naviglio per Castenedolo, facendo retrocedere gli Austriaci e
conquistando la città.
Eravamo accanto a quel fuoco rinfrancante, con le stelle che ci
brillavano sulla testa e le luci delle case di Salemi che si spegnevano
poco a poco mentre la notte incalzava, e ci sentivamo felici d’esse-
re lì e non in un altro posto.
Sì, mi sentivo benone anche io. Sebbene stessi tra quei ragazzi a
far una guerra che non m’importava e che, anzi, m’avrebbe potuto
nuocere parecchio, io ero sereno e appagato. Avevo il mio nemico
d’ammazzare, che lì, nella fascinazione di quei racconti, assumeva
i tratti eroici d’una mitica nemesi, un compagno nel destino a cui
dar battaglia, un nemico vero, la cui sconfitta non sarebbe stata
solo il termine d’una vendetta, ma l’estremo atto di compimento
del fato.
Le stelle, così intense nel loro fuoco millenario, mi riportavano
la conferma delle mie aspirazioni: ero lì a compiere il mio destino,
il nostro destino, quello mio e quello di Falcone.
Non bisogna mai scordare che non avevo compiuto ancora
vent’anni e che qualsiasi cosa m’infervorasse all’epoca, io le davo
credito e agio. Potermi beare in un sogno, che mi togliesse la paura
di non essere a casa e al sicuro e che mi desse ragione d’essere nel
giusto, era più che benvenuto.
Tra tutti quei compagni, il più singolare era John Roth, natu-
ralmente. Roth era davvero un tipo d’uomo che non si fabbrica
più a questo mondo. Era esuberante in certi momenti e taciturno
in altri. Sapeva ridere a un tratto e rabbuiarsi spaventosamente in
un altro.
Quella notte vicino a Salemi, osservando il fuoco alto del falò,
divenne malinconico e disse: «Sapete, nel deserto non si accendono
mai fuochi così imponenti nel campo. I fuochi laggiù sono sempre
piccoli, discreti, fatti di sterpi o di sterco essiccato di bisonte. E il
campo si fa sempre lontano dal fuoco, al buio».
«Perché?» domandai.
«Perché in tutta quella oscurità i nemici attendono solo un tuo
segno di vita per venire a farti la pelle».
«Sei stato molto tempo in America?»
224
«Abbastanza per portamela dentro» rispose e si vedeva che ave-
va nostalgia, perché aveva lo sguardo lontano e fisso nel fuoco.
Poi tolse dalla tasca il sacchetto col tabacco e si rollò una sigaretta
sottile e l’accese con uno sterpo infuocato.
«Laggiù è tanto buio quanto è grande questo cielo» disse anco-
ra, alzando lo sguardo. «Buio e infinito».

225
SETTE
LONE STAR STATE, 1858

John Roth si chiamava, in realtà, Giovanni Rotta ed era ligure.


Era nato nel 1837 a Volastra, un piccolo borgo di levante, vicino
a Riomaggiore.
Suo padre era un bracciante, sua madre pure e anche i suoi
fratelli, che morirono giovani, facevano lo stesso mestiere. «Mio
padre campò la vita piegato in due sulle terrazze di levante, a sar-
chiare terra non sua» raccontò.
Erano poveri, poveri da far spavento. Non avevano di che man-
giare, di che vestire e vivevano in un tugurio tale «che star con la
testa al vento e al freddo era meglio».
«Si stava sempre con le facce in giù, coi dolori alle ossa, le ve-
sciche sulle mani. Mai un sorriso, mai un respiro, mai una gioia.
Eravamo affranti, affamati, disperati. Se qualcuno viene a dirmi
che l’inferno non esiste, gli sparo con la mia Colt dritto in faccia».
John resistette fino ai sedici anni, poi non ne poté davvero più.
«Io non volevo fare la fine del mio vecchio, né dei miei fratelli
ch’erano morti giovani. Se t’andava bene su quelle montagne aspre
d’ardesia, dure che non ci cavavi neanche i lentischi, facevi per
tutta la vita il pastore e quando nevicava, e lassù nevicava forte, te
ne dovevi star rinchiuso in baracca per mesi, con l’unico conforto
della potta della capra tua».
Così partì, prese il fardello con quel niente che possedeva cac-
ciato dentro, se lo mise in spalla e andò a Genova, alla città.
«Ma chi vuoi che se lo prenda un avanzo di montagna di sedici
anni? Magro in picca, indurito dai calli, ignorante e sporco? Nes-
suno mi dava un lavoro, non potevo neanche fare lo sguattero, il
garzone o il fattorino, perché facevo ripugnanza. Per questo m’im-
barcai, perché non avevo niente».
226
Roth s’imbarcò su un piroscafo della Compagnia Transatlantica
diretto in America nel marzo del 1853. Ma è meglio che la smetta
d’alternare il mio racconto al suo ed è più giusto ch’io riporti quello
che sentii dalla sua bocca.

«Fu un viaggio spaventoso. I piroscafi sono lenti e incerti anco-


ra come ai tempi di Cristoforo Colombo. Stavamo stipati in stiva,
noi che non avevamo un soldo bucato, tipo le bestie, ammassati
in certe cuccette sgangherate. Non c’era aria a sufficienza laggiù,
c’era puzza di merda, di piscio, di carbone, che esalava dalla sala
macchine. I topi razzolavano beatamente e senza paura sopra di
noi e ne ho beccati di morsi mentre dormivo, se dormire significa
chiudere gli occhi, destandomi di soprassalto coi buchi sanguinan-
ti ai piedi e alle orecchie.
E lo stomaco! My God, che dolori, che vomito! Ogni rollio della
nave mi strappava le budella, e se pensi a quel puzzo persistente
che appestava l’aria, ti lascio immaginare il risultato. Ci furono
momenti che rimisi tanto da sentire sapore di sangue in gola e ce
lo vedevo, mischiato al vomito, il sangue, così che quella poltiglia
ch’era stata il mio miserevole pasto, ora era un ammasso maleodo-
rante e rossastro.
Non vidi mai il mare che mi dava i tormenti in quel viaggio, per-
ché non ero capace di reggermi in piedi e d’uscire fuori e nessuno
si preoccupò di darmi una mano.
Ci mettemmo più d’un mese ad arrivare, tempo che spesi a
ridurmi uno scheletro e a farmi mangiare vivo dai topi e dai pi-
docchi.
Alla fine, la nave arrivò in porto, nella città di New York. Quan-
do uscii all’aria aperta, sul ponte di quel bastimento, mi reggevo a
stento in piedi, ma ebbi la forza di star dritto e di guardare atten-
tamente il posto dove la sorte m’aveva menato.
Era una città immensa, vasta fuori ogni immaginazione. Era
fatta d’edifici bianchi, di cupole, di campanili, di battelli che si
muovevano svelti lungo la costa, di fumarole lontane che man-
davano vapore, là dove sorgevano le fabbriche. In tanto spazio,
pensai, ci doveva essere per forza un cantuccio pure per me.
227
La nave approdò sull’isola di Manhattan, che è la più importan-
te della città e lì scendemmo a terra, grazie a Dio.
Non puoi immaginare la paura che avevo in corpo: non cono-
scevo la lingua, non conoscevo nessuno, non sapevo che fare.
Scesi la scaletta traballante di quella nave abbracciando il mio
fagottino e cercando di non piangere, perché avevo sedici anni ed
era disdicevole a quell’età abbandonarsi ai piagnistei.
A terra c’era la polizia, in divisa blu e manganello, che faceva
dei cordoni per indirizzare noi che arrivavamo in quella città piena
di fumo e di gente.
Ci spinsero verso un banchetto, dove c’era seduto un tipo ma-
grolino con la tuba in testa e la cravatta porpora, con gli occhiali
appuntati sul naso e uno sguardo repellente. “Name and nationa-
lity” disse quello, ma io non capii e lo guardai sbarrando gli occhi,
poi guardai il poliziotto che aveva alle spalle, per vedere se mi dava
una mano, ma lui aveva lo sguardo altrove. Intanto il tipo in tuba,
che già aveva una gran voglia di stare lì, si stava spazientendo.
“Name and nationality” ripeté, brusco. “Italia” dissi io, fu la prima
cosa che mi venne in mente. “Italy? Well, your name now”. Voleva
altro ancora, quel porco. Improvvisai col mio nome, che mi pareva
la cosa più logica. “Gianni Rotta di Casimiro”.
“What?”
“Giovanni Rotta di Casimiro!”
“What fuck are you saying, boy?”
“Giovanni Rotta, mio nome”.
“Name?”
“Sì, mio nome”.
“Oh, Lord, Giov… John… John Roth, this is your name now”
decise, e mi diede un foglietto scritto da lui, dopo ch’ebbe segnato
il mio nome e la mia nazionalità nel suo registro e prima di farmi
passare avanti.
Che fare? Questa era la questione. Non sapevo che pesci piglia-
re, che cosa dire, a chi rivolgermi.
C’era tantissima gente su quella banchina, perché in quegli anni,
ogni giorno, arrivarono migliaia di irlandesi a New York, quindi il
porto era sempre in fermento e c’era una gran confusione, tra gli
228
immigrati, la polizia, i commercianti, i marinai e quelli che veniva-
no solo per tirare i sassi ai nuovi arrivati.
Istintivamente mi misi a parlar italiano ad alta voce, sperando
che qualcuno mi capisse, anche se d’italiano ne sapevo poco, per-
ché da noi si parlava in dialetto.
Alla fine mi rispose davvero qualcuno in quel marasma. Era un
poliziotto.
“Chi sei, ragazzo?” mi chiese quell’uomo.
“Sono arrivato oggi col bastimento. Non so dove andare”. Lui
mi osservò per un poco e parve soppesarmi con lo sguardo. Non
dovevo avere un bell’aspetto, ero trasandato, magro in picca, puz-
zavo, e mi sforzavo di fargli ancor più compassione.
“Come ti chiami?”
“Giovanni Rotta, ma m’hanno dato questo” e gli porsi il bigliet-
to che m’aveva consegnato quello del banchetto.
“John Roth, questo è il tuo nome americano” disse il poliziotto.
Io annuii, avrei fatto buon viso a tutto, purché mi desse una mano.
“Seguimi” mi disse il poliziotto, e io gli andai dietro senza indu-
gio. C’inoltrammo per quel quartiere fatiscente, brutto, sudicio,
peggiore della bicocca che avevo lasciato al paese.
I palazzi erano di legno, alti tre o quattro piani, ammassati gli
uni agli altri e mal pittati. Tra un edificio e un altro c’erano vicoli
scuri, maleodoranti, inzaccherati. Per le strade fangose correvano
rigagnoli scuri e fetidi e la gente sembrava tutta uscita dalle galere
del Doge di Genova.
Io ero un montanaro, un disgraziato, ma ero pure figlio di lavo-
ratori e di gente onesta: sapevo riconoscere la brava gente. Quello
in cui ero capitato era un posto da pendagli da forca.
Dopo un lungo camminare, più di mezz’ora, ero stanco morto.
Il poliziotto mi disse d’aspettare ed entrò in una bottega che aveva
tutta l’aria d’essere quella d’un macellaio. C’erano carni esposte in
vetrina, quarti di bestie, polli sgozzati e c’era puzza di putrefatto.
Poco dopo il poliziotto uscì e mi spinse dentro, senza darmi
spiegazioni. Quando fummo nella bottega, mi trovai davanti il
norcino in persona, ch’era pure lui italiano, con mio grande sollie-
vo. Era un uomo grande e grosso, come ha da essere un macellaio,
229
con un par di baffi folti e un panciotto a quadroni sgargianti sotto
al grembiale sporco di sangue.
Mi guardò attentamente e poi mi sorrise e fu il primo sorriso
ch’ebbi dopo non so quanto tempo e mi spaventò, perché non ero
affatto abituato.
“Sta’ tranquillo, ragazzo, don’t worry, sei tra amici. Il capitano
Di Carlo qui presente m’ha detto che sei arrivato oggi, nevvero?”
“Sì, signore, oggi, sul piroscafo della Compagnia Transatlantica
di Genova”.
“Benone, io avevo proprio bisogno di un aiutante, di uno ragazzo
di bottega insomma, che tenga pulito qui in giro. Lo vuoi il lavoro?”
“Se lo voglio, signore? Son partito da Genova perché laggiù non
mi facevano neanche l’elemosina, eccome se lo voglio!”
“Ottimo allora. Ti darò una paga che non ti farà mancare nulla
e potrai dormire nel retrobottega”.
Io annuii sorridendo, ma il mio assenso non sembrò sufficiente.
“Ringrazia come si deve il signor Blasco, ragazzo. Il tuo è un
caso più unico che raro: nessun immigrato sbarca a New York e
trova lavoro, vitto e alloggio lo stesso giorno”.
Io mi spaventai, e ringraziai tanto da sgolarmi: avevo paura che
mi cacciassero via.
Il macellaio si mise a ridere e io lo guardai, rinfrancato da quella
grossa risata a denti larghi. Poi guardai il capitano, che mi squadrò
ancora e mi disse: “Comportati bene, lavora sodo e lascia perdere i
balordi, intesi? O altrimenti ce la vedremo assieme e, credimi, non
ti piacerebbe”.
Feci di sì con la testa e mi feci da parte per farlo passare.
“Bene, ragazzo, a lavoro. Ramazza via questi scarti fuori di qui”.
Sono restato col signor Basco un paio d’anni, fino al ’55, l’anno
in cui l’ammazzarono, poveretto.
Noi vivevamo in un brutto quartiere davvero. A quel tempo gli
immigrati irlandesi e cinesi arrivavano a frotte dal vecchio mondo.
Ogni giorno navi cariche d’uomini attraccavano in porto e sbarca-
vano una quantità enorme di disperati.
Da una parte c’era i Democratici e un’associazione chiamata
Tammany Hall, che vedeva negli immigrati tanti elettori e così
230
quei politicanti si facevano trovare a folle sulle banchine, distri-
buendo pane e volantini elettorali.
Dall’altra parte c’erano i Repubblicani del Know Nothing, che
odiavano tutti gli stranieri soprattutto quelli che provenivano da
paesi di fede cattolica, irlandesi, polacchi, italiani. Pure loro si fa-
cevano trovare sulle banchine, ma invece di regalar pagnotte agli
immigrati, gli tiravano dietro i sassi.
Il negozio del signor Blasco si trovava in quella bella strada di
Mulberry, che era una di quelle che formavano i famigerati Five
Points di Manhattan.
C’erano scontri, rapine, furti, risse ogni giorno e si doveva star
bene attenti a chi si incontrava in strada.
Io volevo farmi i fatti miei e lavorare tranquillamente col signor
Blasco, che m’aveva preso a ben volere e ch’era una brava persona,
Dio l’abbia in gloria, ma si sa, ero un ragazzo e avevo voglia di far
quelle cose che si fanno da giovani. Avevo voglia pure io di diver-
tirmi di tanto in tanto con i soci, di andare a far gazzarra magari
bevendo un bicchiere in più, di lasciarmi andare, insomma. Tutta-
via, ai Five Points lasciarsi andare poteva essere fatale.
Mi son trovato in brutte situazioni che non sto qui a spiegare.
Risse, battaglie sode, finite qualche volta col coltello. Il naso me lo
sono rotto pure io, diciamo così.
Insomma, tra i Repubblicani e i Democratici che si davano bat-
taglia a suon di panelli e sassi, con le bande, che laggiù si chiamano
gangs, che si facevano guerra per il controllo del quartiere, la pace
ai Five Points non esisteva.
E venne, alla fine, il giorno in cui assassinarono William Poole,
il Macellaio e le cose si misero davvero male in città.
William Poole era un nativo, un americano nato e pasciuto, d’o-
rigine inglese. Stava coi Repubblicani del Know Nothing ed era il
capo della gang dei Bowery Boys, ch’era una delle più feroci.
Lo chiamavano “il Macellaio” perché faceva questo mestiere e
anche per tutto quello che ti viene in mente pensando al mestiere
del macellaio.
Poole era un tipo arrogante e selvaggio ed era pure uno dei pu-
gili più famigerati che ci fossero in circolazione.
231
Nel luglio del ’54 sfidò ad Amos Dock, in un incontro di boxe a
mani nude, il suo principale avversario politico, John Morrissey, de-
mocratico, cattolico, membro del Tammany Hall e capo della gang
dei Conigli Morti, che era la principale avversaria dei Bowery.
Assistetti personalmente a quell’incontro. Se le diedero di santa
ragione. Poole era un uomo alto, magro, vigoroso, duro come una
quercia stagionata e portava un paio di baffi folti e neri; Morrissey
era un irlandese di pelo rosso, grosso e barbuto.
Si picchiarono a torso nudo, in mezzo alla folla che li incalzava
e li incitava a farsi a pezzi.
Alla fine Morrissey ebbe la peggio: Poole lo ridusse uno straccio,
lo fece a pezzi. Uno spettacolo scioccante: Morrissey era irricono-
scibile, aveva gli occhi talmente pesti e tumefatti da non riuscire a
tenerli aperti e uno gli penzolava fuori dall’orbita come un verme
pallido da una noce. Il Macellaio gli aveva bucato una guancia a
suon di cazzotti; le labbra erano un calvario, così come le braccia,
il petto, la schiena, pieni di ferite.
Insomma, quella fu una vittoria epica dei Bowery Boys, dei Re-
pubblicani e del Know Nothing.
Ma Morrissey si vendicò e si vendicò per bene. Nell’inverno del
’55, in un bar a Broadway, lo Stanwix Hall, l’irlandese piantò un
paio di palle in corpo a Poole. Il Macellaio morì all’inizio di marzo,
da vero americano, come mormorò in punto di morte.
Beh, quello che si scatenò te lo puoi immaginare. I Bowery Boys
misero a ferro e fuoco i Five Points. Era il loro modo di salutare
l’imperatore, facendo in terra l’inferno a cui era stato condannato.
In quel pandemonio, per mia malasorte, ci capitò in mezzo an-
che il povero signor Blasco.
Il mio padrone era un democratico e simpatizzava per la Tam-
many Hall, perché era immigrato, italiano e cattolico. Tuttavia,
a parte andare a fare il suo dovere di elettore quando gli veniva
richiesto, non s’interessava troppo di politica.
Questo, però, non gli salvò la vita. Lo accoltellarono in strada,
mentre usciva dal circolo dove si incontravano gli immigrati ita-
liani e lo lasciarono a dissanguarsi lì in strada, come i maiali che lui
vendeva a pezzi in bottega.
232
Rimasi solo, sul lastrico, con pochi spiccioli in tasca, perché la
vedova di Blasco, affranta dal dolore, dimise baracca e burattini e
chiuse la macelleria.
A New York avevo qualche amico, ma non ci volevo restare,
perché non m’andava di mischiarmi alle gang e di fare la fine del
mio povero padrone. Trovandomi di nuovo per strada e non sa-
pendo cosa fare, ma avendo al contempo imparato la lingua e fat-
to una o due esperienze importanti, decisi di far quello che faceva-
no tutti a quel tempo per guadagnar un po’ di fortuna nella “Terra
delle opportunità”: andare a Ovest.
Arrivare dall’altra parte era arduo e avventuroso. Io scelsi d’an-
dare agli antipodi di New York, in quello stato che è ancora giova-
ne e che si chiama Texas.
Arrivai nello “Stato della Stella Solitaria” nell’estate di quel 1855,
attraverso la Pista di Santa Fe, che era il percorso tracciato dai cac-
ciatori di bisonti e dai mercanti che dalla valle del fiume Mississip-
pi si spingevano fino al Texas.
Fu un viaggio duro, perché dovetti ancora vedermela con le
navi. La vedova Blasco fu gentile con me e mi regalò una buona
mancia, poiché non mi poteva più tenere a servizio e con quei soldi
acquistai un biglietto per la nave che andava a New Orleans.
Quello della Louisiana, lo stato dove parlavano francese, era il
porto più vicino a St. Louis, da dove partivano le carovane che
andavano a ovest.
Passai il viaggio in nave come al solito, a vomitare, ed arrivai a
destinazione che a stento mi reggevo in piedi.
Non l’ho vista bene New Orleans, perché dovetti ripartire subito
per Kansas City, ma ricordo ch’era una città tutta bianca e piena di
negri. Laggiù, nel sud, c’è ancora la schiavitù e i negri lavorano pei
padroni nelle piantagioni di cotone e di canna da zucchero.
A Kansas City, che raggiunsi in diligenza, mi misi su una caro-
vana che risaliva il fiume Arkansas, e andava fino a Santa Fe, pas-
sando per la Juanta, Trinidad, Wagon e superando i monti Sangre
de Cristo.
È inutile ch’io ti dica i nomi di tutti questi posti che visitai in
quel lungo viaggio, che mi costò due mesi, non li ricorderesti e poi
233
dovrei descriverteli tutti e staremmo qui fino a domani. Quello che
voglio raccontarti io è il Texas, la Stella Solitaria, dove per più di
due anni fui arruolato nell’esercito dei Texas Ranger, agli ordini
del colonnello John Salmon Ford.
Il Texas è uno stato d’animo, il Texas è un’ossessione9. Non c’è
niente come il Texas, che ti riempia la bocca, i polmoni, il cuore come
la visione del deserto, dello scisto ocra e duro e pieno di sterpi, di quel
cielo terso e sproporzionato alla vista umana o di quelle notti perenni
che s’abbattono piene di stelle sulla tua testa e non puoi che startene lì,
fermo, a tener le redini del tuo cavallo e a guardar quel fuocherello di
sterco che hai acceso in mezzo a tutto quell’infinito.
Vedi quelle stelle sopra di noi? Vedi questa campagna scura che
ci sta attorno? Beh, moltiplicale, ingrandiscile, togli loro ogni limite
ed avrai un’idea di quel che sto dicendo.
Io non so usare belle parole e vorrei tanto saperle usare. Non
posso descriverti quello che è, quel mondo laggiù. Io me lo vedo
davanti e resto muto, non so esprimermi. Forse è questo, però,
quel che ti può dare un’idea: senza parole, si resta senza parole
davanti a tutto quel buio e a quella luce che fanno l’amore.
Il Texas faceva parte degli Stati Uniti già da dieci anni, a quel
tempo. Le guerre contro i messicani, che sono confinanti, erano
già finite da un pezzo. All’epoca, quando arrivai c’era il problema
dei Comanche.
Con l’ingresso del Texas negli Stati Uniti e la fine delle guerre
contro i messicani, ci fu un grandissimo afflusso di coloni nello
stato, che andarono a occupare e abitare quelle regioni semideser-
tiche. Tuttavia, i coloni invasero inevitabilmente la Comancheria,
la nazione indiana che si estendeva tra il Kansas e il Texas sub-set-
tentrionale.
Molte carovane erano state intercettate dai Comanche, i coloni
ammazzati, i carri dati alle fiamme.
C’era bisogno di uomini in difesa dei coloni, di tutti quelli dispo-
nibili e così finii per trovarmi davanti a un banco d’arruolamento
nella città di Austin.

9 È frase di John Steinbeck.

234
Austin era una città giovane, sorta all’epoca delle guerre d’indi-
pendenza. Una città piena di polvere, come lo sono tutte le città in
quel posto dove vince sempre il vento, perché non c’è niente che
possa arginarlo.
Io ero arrivato da poco, dopo aver bighellonato da una cittadina
a un’altra, cercando di guadagnarmi qualche soldo onesto.
Feci lo sguattero in un saloon per qualche tempo a San Antonio
e il ragazzo di bottega per un barbiere di Georgetown. Mestieri che
m’avevano fatto guadagnare qualche dollaro, ma niente di più.
Non che io avessi grandi ambizioni, s’intende, ma ci vogliono pure
le soddisfazioni nella vita.
Così mi andai ad arruolare a un banco dei Texas Ranger, dove
c’era un bel manifesto colorato, con la faccia seria, seria, di Sam
Houston stampata sopra, che prometteva una buona paga, tre pa-
sti al giorno e la soddisfazione di difendere il paese.
La Texas Ranger Division fu costituita come forza di polizia nel
1835. Nacque principalmente con lo scopo di difendere le fron-
tiere e i coloni dagli attacchi degli indiani, ma seppero farsi onore
durante la Guerra d’Indipendenza contro il Messico e nella Guerra
messicano-statunitense.
Sam Houston, il cui faccione serioso mi fissava da quel cartello-
ne di reclutamento, era stato un eroe della Guerra d’Indipenden-
za e primo Presidente della Repubblica del Texas, dopo la vittoria
contro l’esercito del generale Sant’Anna, nel ’36. Era un simbolo,
un’ideale, quell’uomo, e tutti i texani che lo conoscevano e che
avevano voglia d’avventura, andavano a scarabocchiare il proprio
nome su quel foglio d’arruolamento.
Davanti al banchetto fui squadrato ben bene dal sergente ad-
detto, che indossava un ampio Boss of the Plains, il cappello tipico
dei cowboy, ovvero i mandriani, lo stesso cappello che porto io
adesso.
Era vestito non con una giubba grigia, senza cravatta, senza
alamari. Portava un paio di baffoni folti e fulvi, che gli cadevano
all’ingiù lungo i lati della bocca e aveva la faccia bruciata, incarta-
pecorita dal sole.
Mi fissò per un poco e io mi sentii a disagio come quando capi-
235
tai davanti a quel tizio in tuba, al mio arrivo sulla banchina al porto
di New York.
“Come ti chiami?”
“John Roth”.
“Da dove vieni?”
“Vengo da Georgetown”.
“Sei di Georgetown?”
“Nossignore”.
“E di dove sei allora?”
“Di New York”.
“Così sei uno yankee”.
“Niente affatto, signore”.
“E cosa diavolo sei, allora?”
“Sono italiano, signore”.
“Italiano? Che cosa significa che sei italiano?”
“Che sono nato in Italia, signore, dall’altra parte dell’Atlantico”.
“Guarda tu… e quanti anni avresti, Roth l’italiano?”
“Ho compiuto i diciannove, signore”.
“Bene, bene. E vorresti arruolarti nei Texas Ranger, dunque.
Cosa ti fa pensare di esserne all’altezza?”
Guardai un attimo il volto dai folti favoriti di Houston e poi
risposi: “Niente, signore. Penso soltanto di poter fare il mio dovere,
perché sono un lavoratore. Non sono una cima, non sono istruito.
So rispettare il prossimo e stare al mio posto. Questo è tutto”.
Il reclutatore sorrise. “Beh, quand’è così, vediamo un po’ che sai
fare, firma o fa’ un segno qualunque su questo registro”.
Feci il mio segno qualunque, perché non so né leggere né scrivere.
Così fui membro ufficiale della Texas Ranger Division di Au-
stin. Fummo accasermati per qualche tempo in città e lì appresi un
po’ di cose prima d’essere spedito al fronte delle praterie.
Feci un addestramento intensivo: imparai a tirar con le armi,
anche se sapevo già farlo, perché al paese andavo a caccia e a New
York m’avevano insegnato per strada una o due cose… Imparai a
cavalcare, cosa che avevo fatto una sola volta da ragazzino e m’al-
lenai a cavalcare e a sparare contemporaneamente, perché era ne-
cessario, soprattutto in quella guerra che si combatteva contro gli
236
indiani, che era guerra di cavalieri. Appresi, insomma, tutte quelle
cose che gli addestratori furono capaci di cacciarmi a mente, ne-
cessarie a un buon soldato di frontiera, cose che i Texas Ranger
avevano imparato in più di trent’anni d’esperienze.
Io non avevo paura d’andare a combattere. Non m’ha mai fatto
effetto la battaglia, e non lo dico per far lo spaccone. Sul campo ho
sempre fatto il mio dovere e te lo puoi far raccontare dagli altri.
Tuttavia, a quel tempo non avevo la minima idea di chi mi sarei
trovato davanti.
Io non sapevo neanche che cosa fosse un indiano. Ne avevo vi-
sto qualcuno, bazzicando da una città a un’altra, ma non ci avevo
dato gran peso. Sembrava gente alla buona, più bizzarra dei bian-
chi e dei negri, con le penne tra i capelli, le trecce e i mocassini.
Gente che camminava sempre in sordina, con la testa bassa e lo
sguardo vuoto. Niente di pericoloso, insomma.
Meno ne sapevo, poi, di Comanche. In caserma appresi qualche
generalità. Non erano una nazione coesa, come i Lakota, ad esem-
pio, erano divisi in piccole tribù, che spesso si facevano guerra
tra loro. Vivevano principalmente della caccia al bisonte, che per
molto tempo è stato abbondante in quei territori. Spesso attacca-
vano i coloni, come ho già detto, e saccheggiavano le fattorie dopo
aver ammazzato tutti gli abitanti. Sam Houston, al tempo della
sua presidenza, tentò di stipulare un trattato di pace col popolo
dei Comanche, ma l’accordo fallì quando il Texas entrò a far parte
degli Stati Uniti, perché il parlamento texano rifiutò di stabilire dei
confini ufficiali tra lo Stato e la Comancheria.
Il compito di noi Ranger all’epoca era quello di tener a bada le
tribù guerriere e proteggere i coloni dagli assalti.
Ci trasferirono ben presto in frontiera. Io passai sotto il coman-
do del colonnello Ford, come ho già detto.
Il colonnello John Salmon “Rip” Ford era originario del South
Carolina e aveva già superato i quarant’anni all’epoca.
Era un uomo magro e spigoloso. Non portava baffi, né barba e
aveva un’ambia e pallida fronte, che gli cadeva come un mattone
sugli occhi piccoli e scuri. Aveva un paio d’orecchie a sventola che
lo rendevano un poco ridicolo.
237
Era un soldato della vecchia guardia e aveva già combattuto
molte battaglie quando lo conobbi e prestai servizio ai suoi ordini.
Aveva combattuto nella Guerra messicano-statunitense, arruolato
come luogotenente tra i Texas Mounted Rifles del mitico capitano
John Coffee Hays. Durante la guerra gli fu affibbiato il soprannome
“Rip” perché quando redigeva la lista delle vittime della sua com-
pagnia, mormorava dopo ogni nome “Rest in Peace” riposi in pace.
Alla fine degli anni ’40 era stato esploratore dei territori selvag-
gi tra San Antonio ed El Paso. Tra il 1850 e il ’51, aveva combat-
tuto contro i Comanche sul Rio Grande ed era stato poi colonnello
sotto Jose Carbajal, nella Guerra dei Mercanti.
Insomma, era un militare di quelli duri, che stanno bene solo in
battaglia, come il nostro Generale.
Tra l’inverno del 1856 e quello del ’57, partecipai a molte incur-
sioni in territorio Comanche.
Di solito succedeva che l’incontravamo in territorio aperto, av-
vistandoli sulle colline o in prateria e l’inseguivamo o loro insegui-
vano noi.
Si sparava da cavallo, in corsa, senza fermarsi a riflettere e do-
vevi caricare in fretta. Ti arrivavano addosso urlando come furie,
brandendo il tomahawk, l’ascia da battaglia, con gli occhi iniettati
di sangue, le penne che gli garrivano sulla testa e le facce colorate
di nero. Erano scuri di pelle, atletici, spesso vestiti solo del perizo-
ma. Era uno spettacolo vederli cavalcare a briglia sciolta, sgolan-
dosi nei gridi di battaglia, con la voglia di scannarti impressa in
ogni centimetro della loro pelle. Uno spettacolo spaventoso.
La mia ragazza, qui nella fondina, mi ha salvato parecchie volte
il posteriore. Li caricavamo e sparavamo all’impazzata.
A volte capitava che trovassimo i villaggi e allora si faceva quel-
lo che loro avevano fatto ai coloni. Erano sempre gruppi piccoli,
distanziati, ma bellicosi e tenaci come una malattia del sangue.
Non s’arrendevano mai, non gettavano mai le armi, ma continua-
vano a venirti addosso, pure con le budella da fuori. C’era da am-
mirarli, non c’è che dire. Se avessimo una sola compagnia di guer-
rieri Comanche a nostra disposizione, al primo scontro i borbonici
scapperebbero con la coda tra le gambe fino a Napoli, te lo dico io.
238
Non ho mai visto dei guerrieri come quelli e forse mai più ne ve-
drò. I Ranger li chiamavano selvaggi e lo erano, ma non nel senso
che intendevano loro. Io credo che quelli fossero gli uomini liberi
da tutto questo – e si tirò la camicia, a indicare i vestiti – come
dovrebbero essere tutti gli uomini: selvaggi. Noi ci mettiamo in tiro
pure quando indossiamo le uniformi da soldati. Ci copriamo, per
nasconderci, per sembrare diversi. Io non ne so di filosofia, non ne
so di molte cose, in verità, ma una cosa l’ho capita bene: gli uomini
sono bestie feroci, sempre e senza eccezioni. Selvaggi, come quegli
indiani là.
Io lo so, lo so bene, perché l’ho visto. So di che cosa sono capaci
gli esseri umani. Lo so, perché so di che cosa sono capace io stesso.
Ti potrei raccontare molte imprese di quelle a cui partecipai, ma
non ne varrebbe la pena. Se iniziassi a raccontar tutto andremmo
alle lunghe. Tuttavia, voglio raccontarti dell’ultima spedizione a
cui partecipai come membro effettivo dei Texas Ranger, prima di
lasciare per sempre il corpo. Questa sì che ne vale la pena. Almeno
ti darà misura di quello che ho detto prima, che siamo dei selvaggi.
Già dal mese di gennaio del 1858, c’eravamo inoltrati oltre i
confini del Texas. Seguivamo il corso del Canadian, procedendo in
direzione delle Antelope Hills. Le Antelope sono una serie di basse
colline calcaree, che s’innalzano a rilievo laddove il corso fiume
Canadian piega in una stretta curva a gomito, a poche miglia dal
confine tra lo Stato del Texas e la nazione indiana dell’Oklahoma.
Il Governo aveva ordinato al colonnello Ford, capo supremo dei
Ranger e dei nostri alleati indiani Tonkawa, di sferrare un colpo
risolutivo ai Comanche nel cuore della Comancheria.
Per tutto l’inverno e buona parte della primavera c’eravamo
scontrati con gli indiani, Comanche, Kiowa, Apache.
L’Oklahoma era un territorio ben lontano dall’essere uno Stato:
per lungo tempo, almeno a partire dagli anni Venti di questo se-
colo, v’erano affluite le popolazioni indiane, insediandosi in quella
regione chiamata le Grandi Pianure.
Nel mese di maggio superammo il Canadian e iniziammo a risa-
lire il corso del fiume Little Robe.
È un piccolo immissario, il Little Robe. Procede poco tortuo-
239
samente attraversando le praterie, inoltrandosi per qualche tratto
boscoso e poi riapparendo laddove vecchie piene hanno lasciato
ampie rive sabbiose e ospitali, dove spesso gli indiani facevano
campo, essendo in pianura e in prossimità dell’acqua.
Laggiù, accampati lungo il corso del fiume, c’era la tribù che faceva
capo al vecchio Camicia di Ferro. “Iron Jacket”, come lo chiamavano
gli americani, era un capo già anziano all’epoca, forse ultrasettantenne.
Quando scendeva in battaglia, Camicia di Ferro indossava una
vecchia armatura del tempo dei Conquistadores, ed aveva la fama
d’essere invulnerabile a frecce e colpi d’armi da fuoco, grazie a
quella protezione.
Trovammo il villaggio di Camicia di Ferro all’alba del 12 maggio
e proprio dove avevamo pensato di trovarlo, sulla riva del fiume.
Era un vasto accampamento, esteso lungo tutto l’area del gran-
de ciglione sabbioso. C’erano molti tepee, le tipiche tende a cono
degli indiani, e calcolammo che dovessero viverci almeno quattro-
cento persone in quel campo.
I Tonkawa trepidavano di poter partire all’attacco e il colonnel-
lo Ford dovette ordinare più volte di far silenzio, perché la sorpre-
sa non fallisse. Erano un popolo bellicoso, i Tonkawa, gente feroce,
a cui piaceva far la guerra. Dicevano di essere discesi tutti da un
grande lupo preistorico. Selvaggi, insomma.
Eravamo schierati in posizione d’attacco e tenevamo i cavalli
per le redini, in quella mattina serena, chiara, profumata.
A un tratto vedemmo un uomo sul cavallo, un Comanche. Il
guerriero ci avvistò e subito corse verso il villaggio.
“Dannazione!” protestò Rip Ford e comandò l’attacco. Allora fu
il putiferio, veramente.
Ci abbattemmo sul villaggio sparando e infilzando alla cieca con
le sciabole chiunque ci capitasse a tiro. Dalle tende ancora calde
della notte uscivano le donne mezze svestite, urlando di terrore,
coi marmocchi al collo che strillavano più di loro e noi ad infilzare
a sparare a più non posso.
I guerrieri Comanche montarono sui cavalli e contrattaccarono,
ma senza effetto, perché i Tonkawa erano entrati in frenesia e sta-
vano col sangue agli occhi.
240
Io passavo per le tende brandendo la sciabola, perché ero troppo
teso per fermarmi un attimo a caricare la carabina che avevo in
dotazione o la mia Colt. Abbassavo la lama ad altezza uomo e quel
che mozzavo mi tornava addosso con fiotti caldi di sangue scuro.
Avevo sangue sulle braccia, sulle mani, schizzi rossi pure in vol-
to e sulla camicia.
I Ranger massacravano qualsiasi cosa si muovesse e non avesse
l’aria d’esser americana.
C’era fumo, confusione, scoppi e grida dappertutto. An-
cora una volta mi trovai all’inferno: doveva per forza essere
l’inferno quello. Poi, però, mentre massacravo senza pietà le
mie vittime, coi denti serrati e il fiato in gola, mi resi conto che
no, quello non era l’inferno. E questa cosa mi fece sbarrare gli
occhi.
Eravamo uomini, non diavoli. Eravamo uomini che ammaz-
zano altri uomini. L’inferno non c’entrava. L’inferno non c’entra
mai. Solo gli uomini sono capaci di far quelle cose, non i demoni.
Solo gli uomini. I selvaggi.
I tepee bruciavano, un fumo denso e nerissimo d’alzava dal
campo, in tutte le direzioni. C’erano cadaveri dappertutto, di don-
ne, uomini, bambini, decapitati, mutilati, freddati dai revolver e
delle carabine, trafitti dalle frecce e puntati in terra come farfalle
in un insettario.
Sparammo e ammazzammo per un tempo che non ricorderò
mai finché campo e che se dovessi calcolare ora, a occhio e cro-
ce direi sia stato un secolo. Poi udimmo la tromba che metteva
fine all’attacco e cominciò il dopo, perché, peggio della mattanza, a
questo mondo è la festa.
Avevamo vinto, malauguratamente avevamo vinto. Potevamo
festeggiare, adesso, far quel che ci pareva con gli sconfitti. E lo
facemmo, oh sì se lo facemmo. Guai ai vinti, in questo mondo. Guai
ai vinti.
I Ranger e i Tonkawa iniziarono a mutilare i morti. Mani e piedi
erano appesi come trofei, come macabri festoni ai colli dei cavalli e
alle selle. Il manto dei cavalli grondava sangue e ad ogni scossone
quelle dita inerti ballonzolavano orribilmente.
241
Le teste dei morti erano state infilzate sulle picche e portare in
giro come idoli sanguinolenti. Alcuni guerrieri Tonkawa s’erano
fatti collane coi falli dei nemici.
C’era sangue dappertutto. Furono uccise più di settanta persone
quel giorno. Camicia di Ferro, a onta della sua corazza invincibile,
fu freddato dai fucili per la caccia al bisonte dei Tonkawa. La sua
corazza venne fatta a prezzi e i frammenti conservati dai miei col-
leghi come souvenir.
Il vecchio capo venne macellato. I Tonkawa, che credevano
nella facoltà d’assorbire forza dalle carni dei nemici, divorarono
crude alcune parti della sua carcassa.
Io non partecipai alle mutilazioni, almeno di questo posso rite-
nermi innocente. Ero un soldato, non un macellaio.
Ero infuriato, mi doleva ogni fibra del corpo ed ero frastornato
per il puzzo di sangue e fumo e per lo spettacolo raccapricciante
dei selvaggi che banchettavano sulle carcasse dei vinti.
Andai in riva al fiume e buttai la testa nell’acqua, per rinfre-
scarmi le idee e darmi una ripulita. Dietro di me vedevo il fumo
bigio del campo che bruciava. Fu allora che notai dietro a un ce-
spuglio un movimento e sentii ridacchiare. M’avvicinai e c’erano
tre dei miei che trafficavano con una ragazzina. Una ragazzina
Comanche.
Doveva avere poco più di tredici anni. Aveva certi occhi terro-
rizzati che ho visti solo addosso alle bestie quando non hanno più
la forza d’urlare e ti supplicano con lo sguardo di non spedirli al
Creatore.
“Che state facendo?”
“A te che sembra, Roth?”
“Ma è una ragazzina…”
“E con questo? È una selvaggia, a chi vuoi che importi”.
Li fissai atterrito e fissai lei, che mi guardava coi suoi occhi av-
viliti e iniettati di sangue per quel lungo pianto che s’era fatta e che
ora si faceva in silenzio, che non era servito proprio a nulla. Mi
guardava e sperava: sperava che io la salvassi.
“Roth, o ti unisci a noi o levati dai piedi”.
Abbassai lo sguardo.
242
Quando venne il mio turno la ragazzina aveva già perso la ver-
ginità. La violentai e mentre la violentavo le tenevo le palle degli
occhi piantate in faccia: mi guardava, mi guardava con gli occhi
sbarrati e pieni di orrore.
Alla fine uno dei miei colleghi le sparò un colpo in testa e la fece
rotolare giù nella corrente limpida del Little Robe.
Come vedi, gli esseri umani sono tutti quanti dei selvaggi. Non
cerco giustificazioni a quello che ho fatto, perché io l’ho fatto e
basta e l’ho fatto perché ero scoraggiato e perché dovevo togliermi
dagli occhi l’immagine di quei corpi squartati.
Siamo tutti bestie, non ce n’è uno che si salva. Quando arriva
il momento, quando c’è da venire allo scoperto, il selvaggio esce.
Sempre. Lo puoi nascondere col tuo abito migliore, gli puoi lavar la
faccia col sapone e l’anima con la filosofia, ma il selvaggio rimane
là, pronto a saltar fuori. Magari verrà un giorno in cui l’avremo
nascosto così bene da credere che non esista più. Quello sarà il
giorno più pericoloso, perché, una volta fuori, non avrà più nes-
suna pietà.
Dopo il massacro del fiume Little Robe, io lasciai i Texas Ranger
e con le ultime paghe comperai il biglietto del viaggio per tornare
in Italia.
Se mi pento di quel che ho fatto? Eh, è una parola. Sinceramente
non so neanche cosa significhi pentirsi o avere rimorsi. È come se
tutto quello che dovrebbe penare dentro di me si fosse prosciuga-
to. Non so come si faccia a pentirsi… L’unica cosa certa che posso
dirti è che ogni notte io sogno quella ragazzina. Sta lì, a fissarmi coi
suoi occhi sbarrati e non parla. Mi aspetta, lo so bene. Sta nascosta
nei miei incubi e aspetta. Alla fine, quando arriverà il mio momen-
to, mi porterà con sé, laggiù, nel deserto, in quell’inferno scuro in
cui s’è fatta donna».

243
OTTO
LA DITTATURA, 1860

Alla fine, Roth mi guardò e mi sorrise, ma nei suoi occhi c’era


un abisso e in quell’abisso io mi smarrii, terrorizzato.
Nessuno fiatò più, tutti a guardare il fuoco e la notte. «Lo so che
fa paura, ma voglio essere sincero con voi tutti. Io sono un figlio
di puttana, ma un figlio di puttana che non si vanta di esserlo»
aggiunse Roth.
Dopo poco fummo tutti quanti stufi di star lì a chiacchierare e
allora ci girammo da una parte per dormire.
Mentre stavo con la testa sul fagotto, sperai con tutto me stesso,
rabbrividendo, che quella ragazzina indiana rimanesse quieta nei so-
gni di Roth e che non le saltasse in mente di venire a farmi una visita.
Trascorsi una notte senza sogni, per mia fortuna, com’era stata
anche la precedente: erano così stancanti le marce che, alla fine,
quando buttavi la testa sul fardello, t’addormentavi subito, senza
veder più niente.
Il mattino dopo, alla squilla, ci mettemmo subito in piedi e ci
demmo una ripulita come aveva ordinato Garibaldi la sera prima,
perché Salemi era la prima città che ci accoglieva dopo Marsala e si
doveva entrare in maniera decorosa.
Alle pendici del monte delle Rose, là dov’era situata Salemi,
scorreva un lungo corso d’acqua, che sfociava in mare una tren-
tina di chilometri più a valle. Dato ch’eravamo sudici dopo quella
marcia, ci precipitammo al bagno in quelle acque limpide, cinte da
spessi canneti bruni.
Mi spogliai dei vestiti e restai a contemplare con disgusto la mia
carne pallida, flaccida e bisunta e mi fiondai nell’acqua, che mi
passò sopra gelida e appuntita, così com’era uscita dalle fonti di
Rapicaldo, più a nord.
244
Mi godevo quel refrigerio, in mezzo ai miei compagni che vo-
ciavano tergendosi di dosso l’untume e mi misi a camminare in
mutande controcorrente, risalendo un po’ il corso.
L’acqua mi lambiva le gambe, la sentivo fremere, vorticare, ten-
tando di smuovere questo paio di rami di carne contro cui cozzava.
La testa mi si snebbiò in quel freddo benigno, respirai di piacere.
A un tratto, dietro un canneto, notai uno degli ufficiali, immer-
so a mezza gamba in acqua com’ero io, che si frizionava il corpo
e la faccia.
Era giovane, slanciato, bruno e portava un pizzetto sottile, due
strette ali di rondine e un punto di peli scuri al labbro inferiore.
Appena lo scorsi, mi misi subito sugli attenti. Lui alzò lo sguar-
do e con un cenno mi ordinò il riposo.
«Signore» domandai un po’ in imbarazzo, «lei non è forse Ippo-
lito Nievo?»
Lui mi guardò, sorrise e rispose: «Sì, soldato. Sono io».
«È un onore e un privilegio conoscerla di persona, signore, ho
letto i suoi lavori e li ho apprezzati tanto» dissi.
L’acqua continuava a scorrermi tra le gambe, sentivo il fondo
limoso avvolgermi i piedi nudi come nel cotone.
«Posseggo una copia delle sue Lucciole: credo sia una tra le po-
che cose lodevoli stampate in Italia oggigiorno» dissi ancora.
«Mi lusinghi, soldato» disse, e continuò a frizionarsi in quell’ac-
qua gelida. Era un uomo malinconico, taciturno: non sembrava
assai interessato a far conversazione.
Poi, però, chiese: «Dall’accento sembri campano, soldato. Non
è così?»
«Effettivamente sono nato e cresciuto a Napoli, signore».
«Ti fa onore essere dei nostri».
«Grazie, signore. Ora è lei che lusinga me. Faccio solo il mio
dovere» mentii, «non voglio scoprire nell’anima, un giorno, il rim-
pianto di non aver fatto il possibile per il mio Paese. Mio nonno ha
combattuto a Napoli durante la Rivoluzione del ’99. Voglio eredi-
tare il suo retaggio, non i suoi rimorsi».
Nievo sorrise e annuì. Alzò gli occhi ai salici che gettavano om-
bra sul fiume e che si sporgevano sull’acqua dall’argine, poi mi
245
guardò, con i suoi occhi sottili, scuri e tristi: «La felicità sta nella
coscienza, soldato, tuo nonno era un uomo saggio…»
Non ebbi tempo di rispondere alle sue parole, che udimmo la
tromba dell’adunata. Lo salutai in fretta, rimettendomi sull’attenti,
e tornai ai miei vestiti. Ora ch’eravamo puliti, potevamo finalmen-
te entrare a Salemi.
Non c’erano soldati borbonici nemmeno lì, anzi, la popolazione
fu anche più calorosa che a Marsala e ci accolse nella persona del
signor Coppola.
Era questi un bel tomo di siciliano, vestito di velluto come usa in
quelle zone, barbuto secondo l’antica moda ferdinandea.
Ci accolse all’ingresso della cittadina, a cavallo, con un gran
cappello a tese larghe in testa.
Coppola era un feudatario di quelle terre e si mise agli ordini del
Generale assieme a una folta milizia di picciotti che stavano alle sue
dipendenze.
La popolazione, vedendo i rapporti amichevoli che il Generale in-
tratteneva coi galantuomini, si tranquillizzò e ci accolse bonariamente.
Garibaldi e lo stato maggiore vennero accolti nel palazzo del
Marchese Gaetano Emanuele di Torralta e dai balconi di quello
stesso edificio, il Generale proclamò la dittatura in Sicilia, in nome
dell’Italia e di Vittorio Emanuele II.
Noi che assistemmo a quell’evento, c’eravamo già mischiati alla
popolazione, che vedendo il Marchese e il Coppola inneggiare al
Liberatore, tirò fuori dai polmoni un grido di speranzoso giubilo.
C’è da dire una cosa. Qui non voglio raccontare ciò che posso
solo supporre, perché non l’ho veduto coi miei stessi occhi. Tutta-
via, dopo cinquant’anni, posso dire che molte cose ancora non mi
son chiare di quei mesi.
Non m’è chiaro il fatto che in tutti quei giorni non avessimo
incontrato ancora l’esercito nemico, non m’è chiaro il fatto che i
vecchi Signori, i discendenti dei Viceré, come li chiama il De Ro-
berto in quel suo bel romanzo, accogliessero nei loro palazzi colui
che, in sostanza, veniva a invalidare il loro potere.
Non mi piacciono le storie delle congiure e delle cospirazioni e
non ci son mai voluto entrare, nemmeno per conoscenza.
246
Quel che posso dire è che pei Signori, come pure ha già detto il
bravo De Roberto, non è cambiato nulla. Ricchi e potenti erano, e
ricchi e potenti sono. Parlano toscano, anziché napoletano, svento-
lano il tricolore anziché il giglio, ma son cose di poca importanza.
Ma le ha già dette il De Roberto e forse altri le dirà meglio di me in
futuro e quindi sto zitto a questo proposito.
Tuttavia, devo dire che le congiure ci furono, e ce ne furono
tante. Io non le so e non le voglio sapere, perché sono miserie e le
miserie è meglio metterle da parte. Dimenticare, il bene e il male,
dimenticar tutto è questo che si dovrebbe fare, se solo s’avesse la
forza di capir che c’è solo il buio, alla fine.
Ci furono le cospirazioni, insomma e ci furono gli accordi, i le-
gami, i favori, le strette di mano che ci fecero sbarcare tranquilli
a Marsala, che ci diedero truppe fresche di picciotti e che ci fecero
fare una guerra finta che poi tutti, come i morti, hanno creduto
sia stata vera. Ma è stata un’illusione, solo i morti son stati veri. Lo
sapeva pure Garibaldi, ma di questo dirò avanti.
Chi lo fece? Crispi? La Farina? Cavour? La regina Vittoria? E
chi lo sa… Chi si fece amici i Signori, i picciotti, i mafiosi, i nuovi
credenti di Trinacria? Chi strinse le mani inanellate e quelle lorde di
sangue? Vattelapesca chi. Tutti quanti, alla fine, da me, che stavo
là in mezzo per una vendetta che non capivo neanche bene, al Ge-
nerale, che guidava un’armata alla conquista d’un regno abbando-
nato. Tutti quanti, volenti o nolenti, sono stati implicati in queste
carbonerie. L’Unità s’è fatta col sopruso dei furbi e l’incoscienza
dei deboli, questo è quanto. Parliamo d’altro, va’.
A Salemi conoscemmo Giovanni Pantaleo. Era un monaco, un
francescano, ma andava in giro con la sciabola al fianco e le pistole
ficcate nel cordone.
Si presentò a palazzo Torralta, armato fino ai denti come un
Saraceno, pretendendo di veder Garibaldi. Naturalmente fu subito
fermato, imbardato com’era.
Garibaldi, però, lo ricevette volentieri. Fra Pantaleo aveva i suoi
trent’anni ed era un uomo tarchiato, basso, con una criniera di
barba e capelli ricci e nerissimi. Indossava il saio dei francescani e
le pistole erano ben annodate al cordone assieme a un grosso cro-
247
cifisso di legno col Cristo d’avorio. Era un uomo colto e logorroico:
era laureato in teologia e filosofia e per un periodo aveva pure
insegnato filosofia morale.
Aveva già partecipato all’insurrezione della Gancia, ad aprile,
e ora voleva mettersi alle dipendenze di Garibaldi, per marciare e
liberare Palermo.
Il Generale, ch’era un tipo pittoresco pure lui, e tanto anche,
non ci pensò due volte ad arruolarlo e fu ben contento che il frate
facesse anche da cappellano alla truppa, sfatando così il mito che i
suoi soldati fossero una marmaglia di barbari senza Dio.
Di quel giorno della dittatura, in cui Garibaldi assunse il potere
in nome del re e iniziò a formare il governo, ricordo una grossa
sbornia che ci prendemmo assieme io, Roth, Umberto e il Cei in
un’osteria. Ci mettemmo a bere per pranzo e arrivammo a cena
che si cantava e non ci si reggeva più in piedi.
Trovammo alloggio da certi contadini che ci ospitarono nel de-
posito, dove conservavano le derrate. Ricordo bene, immagini che
escono fuori dai fumi del vino, che c’era un odore intenso d’arance
marce là dentro, come se il legno e le pareti fossero state impregna-
te dal lezzo di tutti gli agrumi ch’avevano ospitato.
Però, anche quella notte, questa volta grazie al vino, m’addor-
mentai senza sogni, senza sapere che, di lì a poco, la mia esistenza
sarebbe cambiata per sempre.

248
NOVE
CALATAFIMI, 1860

Dopo l’organizzazione dello Stato Maggiore a palazzo Torralta,


arrivò l’ordine dal comando di procedere a nord, verso Vita, un
paese che distava circa dieci chilometri da Salemi.
Venimmo a sapere che Garibaldi e lo Stato Maggiore avevano
valutato due opzioni di movimento: la prima prevedeva di proce-
dere verso est, dalla parte di Corleone, mettendo in atto un’azione
di guerriglia, che ci avrebbe permesso di non misurarci diretta-
mente col nemico superiore di numero (anche se molti lo voleva-
no) e di arrivare per vie traverse a Palermo senza troppi rischi.
La seconda opzione era quella di marciare verso nord, puntan-
do direttamente su Palermo, così da abbreviare il tragitto, ma an-
dandoci a scontrare con le truppe del generale Landi, dislocate a
Calatafimi, sulle balze del Pianto Romano.
Garibaldi scelse la seconda opzione, la più aggressiva, poiché
non era più il momento di tergiversare.
Ricevemmo l’ordine di movimento all’alba e subito sentii una
scarica d’adrenalina che mi straripò in corpo e mi fece quasi sus-
sultare. Afferrai il mio fucile e lo caricai preventivamente, ancora
stordito dalla sbornia e dall’odore d’agrumi marci che appestava
quella baracca.
Umberto sembrava impacciato con quel suo ferrovecchio in
mano, e io lo aiutai a caricarlo. Mi guardò con due occhi pieni di
terrore e di rimprovero. «Non dovremmo essere qui, tu lo sai» mi
bisbigliò, perché altri non sentisse. Io lo fissai sbarrando gli occhi
e poi li riabbassai a terra, concentrandomi sul suo fucile, per non
subire ancora una volta il peso di quel rimprovero.
«Ragazzi, penso proprio che ci siamo. Quando saremo sul cam-
po, statemi dietro, attaccati alle chiappe, mi raccomando. Non mi
249
tirate nel culo, però. Concentratevi, fate lunghi respiri, prendete
bene la mira, tenete la testa bassa e vedrete che andrà bene, if God
will help us» ci disse Roth, per farci coraggio. Non ho mai voluto
bene a qualcuno come ne volli a lui in quell’istante.
Lasciammo Salemi che albeggiava e verso le 10:00 raggiungem-
mo Vita, un paese bianco circondato dai boschi, ricevendo l’ordine
di fermarci, mentre Garibaldi guidava un’avanscoperta delle posi-
zioni borboniche.
Ci ordinarono di procedere solo due ore dopo, nel solleone di
mezzogiorno.
Il Pianto Romano è un colle, poco più d’una montagnola che
s’alza a sud-ovest del paese di Calatafimi.
Quando arrivammo a scorgerne la sommità, mi si fermò il fiato
in gola, a me e a Umberto. Lassù, proprio davanti a noi, su quella
collina brulla, circondata solo da qualche alberello e dai cespugli
della macchia, c’erano i soldati borbonici.
Li vedevamo schierati in file ordinate, disposte lungo la linea
perimetrale del colle, coi fucili spianati sul pianoro sottostante, sul-
le balze che dovevamo superare noialtri per ingaggiare battaglia.
Più in alto brillavano le bocche lucenti dei cannoni e vedevamo gli
artiglieri in piedi accanto a ciascun pezzo.
Lo ammetto, ero terrorizzato. Sentii dei crampi feroci all’inte-
stino, che mi fecero capire senza ombra di dubbio che dovevo star
attento a non farmela addosso. Sudavo: mi sudavano le mai, mi
sudava il collo, sentivo il puzzo cipollino del sudore che mi bagna-
va le ascelle e ogni crampo all’intestino era una scorreggia e ogni
scorreggia il terrore ancor più grave di non trattenerla.
Umberto mi stava accanto, anch’egli atterrito: teneva in tasca un
sacchettino da cui attingeva ogni tanto, tirando fuori dei semi di zuc-
ca che chissà dove aveva rimediato e che trangugiava nervosamente.
La nostra Compagnia ebbe l’ordine di schierarsi di rincalzo sulla
cima della Pietralunga, la collina prospiciente al Pianto Romano
che occupavamo noi dell’Esercito Meridionale.
Roth mi guardava di tanto in tanto e mi sorrideva per farmi
coraggio, ed era incredibile quale effetto benefico avesse sui miei
nervi il sorriso di quello stupratore.
250
Respirai lungamente, concentrandomi. Tentai di focalizzare
la mente su qualcosa, ma il risultato fu disastroso. Mi venne in
mente quella volta in cui avevo visto il Papa, a Largo di Palazzo,
quand’ero bambino. Ricordai quell’oceano di soldati in divisa blu
che occupavano la piazza e salutavano il re e il pontefice. Guardai
la cima del Pianto Romano e vidi quelle stesse, identiche uniformi
schierate in battaglia, pronte a farmi fuori.
Erano i miei soldati, quelli che una decina d’anni prima bramavo
d’incontrare e ai quali sventolavo con entusiasmo isterico la mia
bandierina col giglio. Erano i soldati del defunto re Ferdinando,
che avevo guardato negli occhi del suo ritratto almeno una volta,
sperando che m’aiutasse, durante ogni singola, lunga lezione ch’io
infante dovetti subire. Erano i soldati delle parate, delle adunanze,
i soldati di Napoli, che facevano parte delle cose che conoscevo,
assieme al Mercato dei commestibili di Foria e alle colonne della
chiesa di San Paolo.
Ed essi volevano uccidere me, e io avrei dovuto uccidere loro.
Non mi confortò l’idea che in mezzo a quelli potesse esserci Falco-
ne. Non si vedevano lancieri, anzi. L’idea di mettere in atto la mia
vendetta e farla finita non mi risollevò dall’orrore.
Mi sentivo come quand’ero sulla Piemonte, davanti alle navi
della marina borbonica: la stessa, terribile sensazione di stare an-
dando a uccidere mio padre.
Il colonnello Anfossi era a cavallo e sembrava nervoso. Attende-
va ordini, ma si vedeva bene che non si sentiva a suo agio su quella
collina, non meno di quanto me ne sentissi io. Lui, però, non aveva
Roth a dargli conforto.
Era una situazione irreale. Per non so quanto tempo, un tempo
che mi parve lungo quanto quello che avevano vissuto i patriarchi
biblici, non successe assolutamente nulla, soltanto un interminabi-
le periodo di osservazione.
Poi udimmo la tromba d’attacco dei Cacciatori Napoletani e li
vedemmo avanzare verso la prima linea delle nostre posizioni. I
nostri carabinieri cominciarono un fuoco di sbarramento, che ri-
suonò nella vallata sommesso e incalzante al contempo e si videro,
laggiù, i nostri e i loro scannarsi all’arma bianca.
251
Dopo l’attacco, i Cacciatori Napoletani erano avanzati senza
riuscire a penetrare il nostro sbarramento, ma tanto da aver occu-
pato delle buone posizioni.
Iniziò a girar la voce che Bixio voleva ritirarsi e allora si diffuse
una gran paura, che già ne avevo poca. Il colpo dei borbonici non
era stato decisivo, ma ci aveva fatto arretrare abbastanza da far te-
mere a Bixio una sconfitta. Se ci fossimo ritirati, non avendo dietro
che terra bruciata, la nostra sarebbe stata una disfatta definitiva.
Allora intervenne Garibaldi. Lo vedemmo attraversare le fila, a
galoppo sulla Marsala, con la sciabola in mano e il poncho al vento,
come si vede sui libri e con voce ferma c’incitava alla battaglia. Ci
parlò della terra desolata che avevamo alle spalle, che non era solo
morte e sconfitta, ma anche sdegno e ignominia. Noi non poteva-
mo permetterci di tornare indietro. O l’Italia o tutti accoppati.
E dopo che il Generale ebbe parlato, cominciò la battaglia soda.
Scendemmo come le Furie su Oreste da quel poggetto di Pietralun-
ga, con le baionette in resta e la forza dei rinoceronti.
Io seguii Roth, Umberto seguì me. Nell’aria frusciavano le pal-
lottole, che ti spostavano l’aria vicino alla testa, dove andavano a
sfiorarti.
Roth sparava con la sua Colt, prendendo la mira col solo braccio
teso. I cannoni sbottavano ed erano seguiti dai fischi delle palle che si
spaccavano a terra, e che si frammentavano andando a spezzar le ossa.
L’erta era ripida per arrivare là dove c’erano i nemici, e io avan-
zavo a fatica, con un fischio sinistro che mi vorticava in testa, un
mal di pancia bestiale, il terrore di vedermi morto da un momento
all’altro e il cuore che mi batteva come un ossesso in petto.
«Spara, Stefano, ammazzali!» m’incitava Roth, perché fino a
quel momento erano solo avanzato, mentre attorno a me vede-
vo le baionette incrociarsi, i calci dei fucili branditi come clave,
il fumo delle esplosioni atterrare un cristiano e il sangue e le urla
mischiarsi nell’aria.
Allora imbracciai il fucile e tirai su il cane e mirai laddove dove-
vo uccidere, ai soldati blu. Mirai e sentivo le vene in testa pulsare
come una febbre che s’avanza e t’imbottisce di dolore. Non avevo
più saliva in bocca, sudavo a copia e l’intestino mi stava divorando
252
di spasmi. Mirai e mi concentrai sospirando, non sapendo da dove
venisse tutto quel tempo che mi si concedeva per decidermi, men-
tre la morte mi sfiorava, e io rimanevo indenne.
Poi vidi un soldato blu farsi avanti verso di me e non potetti
più esitare. Sparai e sentii il rinculo del fucile sulla spalla e per un
attimo mi fece male.
Il soldato si piegò in avanti e sputò sangue prima di cadere a ter-
ra. Tremavo, perché avevo appena ucciso un uomo, un soldato del
mio re, ma non potetti stare a pensarci a lungo: dovevo ricaricare
e ammazzarne un altro ancora.
Ricaricai, e lo rifeci, e ricaricai ancora e lo rifeci ancora. Poco
dopo sentii il cerchio alla testa affievolirsi e il male all’intestino an-
dare in sottofondo.
Mi concentrai, liberai l’anima dai tormenti del pensiero, e uccisi
e uccisi ancora.
Stavo dietro a Roth, lo seguivo e tentavo pure di coprirgli le
spalle, ma non vedevo Umberto dietro di me. Non ebbi tempo per
curarmene, perché dovevamo salire e avevo il fiatone e mi faceva
male la milza.
Sulla collina c’erano alberi di quercia, noccioli, fichidindia spi-
nosi, qualche ulivo. Sotto agli stivali sentivo il crepitare delle lupi-
nelle, dei tarassachi e dell’erba sporca di sangue.
Avanzavamo alla disperata e fu una buona strategia, perché i
soldati borbonici si ritiravano: avevano paura. «Vai, dagli addosso,
come fossimo Comanche!» gridava Roth ed emetteva uno strano
grido di guerra agitandosi il palmo della mano aperto sulla bocca.
Eravamo gli indiani, i selvaggi e certo ai soldati di Francesco non
andava di tirar le cuoia a causa dei barbari.
A un tratto, mentre ricaricavo mi s’avventò un soldato addos-
so, brandendo una baionetta staccata dal fucile. Rotolammo a ter-
ra e sentii il suo ringhio e il suo fiato al collo. Era forte, disperato
e voleva ammazzarmi. Portava i baffi alla moda di Francesco, era
magro ed energico. Doveva avere pochi anni più di me.
Non riusciva a piegare la lama verso di me, sebbene mi stesse
sopra, poiché io gli tenevo la mano e gli impedivo di ruotare la
baionetta.
253
«In bocca a chi t’è muorto!» urlò il soldato, disperato dal non
potermi conficcare la sua arma in petto.
«’E muort’ tuoj, granda carogna!» risposi io e lui sbarrò gli occhi
e sentii la sua mano scemare di vigore.
«Tu si’ napulitano!» gridò sgomento, ma non gli diedi risposta.
Avevo trovato una grossa pietra: la sorpresa del fante mi diede
l’occasione d’afferrala.
Lo colpii alla tempia e lo vidi cadere a lato, mezzo stordito. Uno
zampillo di sangue guizzante usciva dalla ferita che gli avevo pro-
curato. Mi rialzai subito e gli fui addosso. Mi appropriai della sua
baionetta, che gli pendeva dalla mano inerte e gliela conficcai nel
collo, il punto da dove pensai fosse più facile entrare nel suo corpo.
Il sangue mi schizzò in faccia, caldo e puzzolente di ferro, e il
soldato emise un ultimo guizzo di protesta, mentre nei suoi occhi
sbarrati non scemava la sorpresa della beffa d’essere stato ucciso
da un napoletano.
Alla fine, conquistammo il Pianto Romano e i borbonici ripiega-
rono in rotta e si ritirarono da Calatafimi.
Le grida che si alzarono da quella marmaglia di furie selvagge
erano indescrivibili. Tutta la piana tra i picchi della Pietralunga
e del Pianto Romano echeggiò del grido di vittoria dell’Esercito
Meridionale.
La mia esultanza, tuttavia, fu meno poetica. Io mi ritirai dietro
certi cespugli e mi abbassai i pantaloni perché, alla fine dell’eccita-
zione della pugna, trovai la sciolta del terrore.
Mi liberai del fetido ammasso della mia paura, tremando di gio-
ia e sgomento. L’addome mi doleva terribilmente e mi pareva d’a-
vere dei serpenti puntuti che si contorcessero, là dentro. Ma non
m’importava: ero felice d’essere vivo, a godermi un’altra cagata
col culo all’aria, dietro ai cespugli di mortella.
Dopo quel momento di liberazione, andai in cerca di Umberto.
C’erano cadaveri dappertutto e si faceva la conta dei nostri morti,
che quel giorno furono una trentina, tanti quanto i loro.
La mia camicia era strappata, avevo graffi e tagli su viso, gambe
e mani, e sentivo sangue, polvere e sudore impiastrati assieme e
cosparsi dappertutto sul mio corpo.
254
Trovai Umberto seduto su un masso, immobile, con gli occhi
spalancati, senza cappello: aveva perduto il suo cilindro portafor-
tuna.
«Umbe’, staje bbuono?» gli domandai e mi venne di chiederglielo
in napoletano.
«Sì».
«Sicuro?»
«Sì t’aggio ditto».
Non stava bene, per niente. Aveva le mani sporche di sangue e
terra, i vestiti strappati, la testa impiastricciata come le mani. Un
taglio non profondo, ma lungo, gli attraversava il sopracciglio de-
stro e colava sangue. Mi tolsi un fazzoletto e glielo premetti contro
la ferita. Lui se lo lasciò fare, senza proteste.
«Abbiamo vinto, Stefano?»
«Sì, pare che abbiamo vinto».
«Si sono ritirati?»
«Se ne sono andati, dietro la collina».
«Vi serve aiuto?» sentimmo domandarci alle spalle. Mi voltai.
Era la moglie di Crispi, la signora Rose, che partecipava con noi
alla spedizione perché voleva stare col marito. Lei e Crispi avevano
attraversato le fila durante la battaglia come infermieri, li avevo
visti io stesso.
La signora Rose mi fissava con un’aria apprensiva, rivolta piut-
tosto a Umberto, al quale tenevo ancora il fazzoletto premuto sulla
testa. Aveva occhi piccoli e un volto tondo quella donna, contrito
e sporco.
«No, signora Montmasson, badate a qualcun altro, io e il mio
amico stiamo bene. Ha soltanto un graffio sulla fronte» risposi.
«Bene» disse lei, e passò oltre, tenendo a tracolla un tascapane
che le fungeva da borsa del primo soccorso.
Io e Umberto restammo per un po’ là fermi, a guardare la piana
colma di lamenti e grida di gioia, finché non ci raggiunse Roth, a
svegliarci da quella specie di sortilegio.
«Dobbiamo andare ragazzi, sbrigatevi».
«Sono tutti salvi, John?»
«È Bonardi, non lo trovano più».
255
«Come sarebbe a dire?»
«Non c’è più, è scomparso».
«Ma deve essere qui per forza» e guardai alla distesa di morti
che avevamo davanti.
«Non è detto».
«Come non è detto? Che significa?»
«Significa che i morti camminano in battaglia. E ora, bando alle
ciance, muovetevi. È un ordine».

256
DIECI
ALCAMO, 1860

Carlo Bonardi non lo trovarono più per davvero. Il Cei disse


d’averlo visto poco avanti la prima ondata contro i Cacciatori Na-
poletani. Nodari, un medico e pittore di Castiglione delle Stiviere
che conosceva il Bonardi, riferì d’averlo visto avanzare a est del
Pianto Romano, poi l’aveva perso.
Nella conta dei morti il suo nome non c’era e neanche quando
i cadaveri furono allineati per la sepoltura, i nostri e i loro, se ne
trovò traccia.
Così, s’è sicuri che il Bonardi sia morto alla Battaglia di Calatafi-
mi, il 15 di maggio del 1860, ma non si sa quale quercia, tarassaco
o mortella si sia preso il suo corpo.
A me fece impressione quel ch’aveva detto Roth, che i morti in
battaglia camminano. Sebbene ci fosse stato un caos d’inferno per
tutto lo scontro, alla fine i vivi s’erano rialzati per spostarsi da quel
pianoro, non certo i morti. I morti erano restati a terra, a farsi far
la corte dai mosconi.
Non c’era molto da dire, alla fine, solo che il Bonardi era andato
a dormire da qualche e parte e non aveva voluto far sapere dove.
Ci segnammo, bevemmo un bicchiere alla sua, gli cantammo La
bella Gigogin e passammo avanti.
Dopo la vittoria, che fu una bella vittoria, ma non una grande
vittoria, procedemmo sulla strada per Palermo e ci fermammo ad
Alcamo, che io conoscevo di nome dai miei studi, per essere stata
la patria del poeta federiciano Cielo, autore della Rosa fresca au-
lentissima.
Ad Alcamo trovammo la gente per strada, che ci acclamò
come liberatori, e trovammo i cadaveri dei soldati borbonici che,
ripiegando per di là alla volta di Palermo, avevano fatto la fine
257
dei sorici, fulminati dal fuoco degli abitanti, esploso attraverso le
finestre.
Per rappresaglia, gli uomini di Francesco avevano bruciato al-
cune case e messo al muro qualche paesano: si vedevano i resti dei
roghi che ancora fumavano e si sentiva nell’aria l’odore stantio di
bruciato. Qualcuno piangeva accanto a un muro crivellato e nera-
stro il cadavere malmesso d’un parente.
«Sono andati verso Partinico» ci avvisavano gli abitanti, speran-
do che ci mettessimo subito in marcia per raggiungerli.
Garibaldi, però, ordinò di fermarci lì, per riorganizzarci dopo il
primo scontro e fare degli aggiornamenti alla sua Dittatura come, ad
esempio, la nomina a Segretario di Stato concessa a Francesco Crispi.
Un’altra, importante novità fu l’estromissione dal Corpo del co-
lonnello Anfossi.
Non lo si era visto più in campo, dopo l’attacco, né lui, né il suo
cavallo. Lo trovarono in una casa, che si nascondeva dalla battaglia.
Fu accusato di vigliaccheria e poco ci mancò che non fosse mes-
so al muro.
Tentò a malapena di giustificarsi, inventando qualche fandonia
nella quale non credeva nemmeno lui stesso, e alla fine dovette
confessare suo malgrado di essersi spaventato a morte e di essersi
messo a riparo non appena la battaglia s’era fatta acerrima. Dopo
Palermo venne definitivamente rimpatriato.
La Quinta Compagnia non venne smembrata e per nostra for-
tuna io, Umberto e Roth potemmo restare uniti.
La sera del 17 maggio eravamo ancora ad Alcamo e il giorno
appresso ci saremmo mossi per Partinico.
In quel paio di giorni di quiete, io m’ero messo seduto più d’un
paio di volte a riflettere su quel ch’era accaduto.
Mi guardavo le mani e sapevo che avevano conosciuto il sangue
altrui e che quel sangue non se ne sarebbe andato più via. Mi guar-
davo allo specchio e sapevo che i miei occhi avevano guardato la
morte d’un altro e gliel’avevano data. Ma più d’ogni cosa, più dei
segni dell’orrore, che avevo impressi sul mio corpo come cicatrici
indelebili, mi fece impressione una convinzione, che fu più terribi-
le della vista di qualsiasi cadavere: la convinzione di fare il giusto.
258
Io ero in guerra e in guerra o uccidi o vieni ucciso, e questo è
un asserto proverbiale. Quel che mi sconvolgeva, però, era ch’io
mi sentivo al di là di questo proverbio. Ammazzare era il nostro
compito non solo di soldati, ma di uomini. Era la morte lo scopo
della nostra esistenza, almeno sul campo, nella mischia eterna tra
gli individui.
Certo, c’era posto alla pietà, al cordoglio, alla misericordia, ma
erano eccezioni, corollari alla grande verità dell’omicidio. Come
fiori a un funerale, che provano a colorare il nero, senza riuscirci.
Questa è una guerra in cui noi dimentichiamo spesso d’uccide-
re. Mi vennero alla mente le parole di Roth, quando parlava dei
selvaggi d’America. Loro sapevano in che mondo vivevano. Lo sa-
pevano bene. Siamo noi che lo dimentichiamo: la civiltà.
Più mi guardavo quelle mani sporche di sangue, più mi sembra-
va giusto che lo fossero, che fossero tinte di quel colore che diffe-
renzia la vera vita, quella dell’universo, dalla vita umana, quella
del compromesso.
È per via d’un accordo che noi non ci scanniamo ogni santo
giorno, come fanno le bestie, che chiamiamo selvagge, ma che in
realtà fanno soltanto il loro mestiere. È un compromesso che c’im-
pedisce d’esser veri, perché lo saremmo troppo.
Non c’è amore, misericordia, pietà, a questo mondo che regga
davanti all’ineluttabilità del fatto della violenza. È una questione
di tenerezza. Ciò che è selvaggio fa tenerezza, perché vive di ne-
cessità imprescindibili e, come ho già detto, ciò che fa tenerezza è
pericoloso.
Avevo realmente terrore d’essere nel giusto, perché mi s’apriva
la visione di cose che solo le bestie dovrebbero conoscere, non gli
uomini ciechi, le vere talpe di questa terra desolata. Vedere il giu-
sto che sta dietro all’uccidere ed essere addirittura felice di questa
visione. Mi dava i brividi e i brividi ce li ho ancora oggi.
Tuttavia, posso dire che a quel tempo mi sbagliavo? Ahimè, no.
Posso fingere, per amor della quiete, posso fingere uno sbaglio, ma
in cuor mio, laggiù, devo ammettere a me stesso che avevo ragione.
Noi siamo fatti per ucciderci, è questa la verità e finché ci ve-
dremo qualcosa di orribile nella morte, saremo sempre sgomenti
259
davanti alla sua preponderanza. Bisognerebbe imparare a non te-
mere più la morte, che è ciò che domando a Dio ogni giorno, ma
che ogni giorno Dio evita d’accordarmi. Non esiste altro, nella vita,
che quel terrore assassino. Tutto il resto sono panacee, argini di
sabbia al corso d’un fiume che strariperà sempre.
Con questi pensieri per la testa, che non mi abbandonavano e
non mi facevano dormire, quella notte del 17 m’alzai dal paglie-
riccio su cui ero sdraiato, in casa di certi paesani che ci avevano
ospitato, e uscii a prendere una boccata d’aria.
Era notte fonda e la sveglia suonava all’alba, per muoverci so-
lerti alla volta di Partinico.
Mi misi a bighellonare e arrivai in piazza, davanti alla Chiesa
dei Gesuiti, la cui facciata ocra, con le quattro statue bianche nelle
nicchie, era spettrale, così avvolta nell’oscurità. Sopra di me brilla-
vano le stelle e si percepiva nell’aria l’odore del mare poco distante.
Mi misi seduto sul sagrato. Non c’era nessuno intorno, né nel-
la vasta piazza davanti a me, né s’udivano rumori di sorta: tutti,
alla fine, patrioti e paesani, s’erano rintanati per godersi un po’ di
riposo, dopo il trambusto acerrimo degli ultimi giorni. Le luci fio-
che dei lampioni tremolavano sulla strada, ma erano abbastanza
intense da vederci chiaro.
A un tratto, però, in quel silenzio udii dei passi alla mia destra e
mi voltai, per veder chi era. Sobbalzai ed ebbi un tremito, m’alzai
subito dal mio posto, mettendomi sull’attenti: era Garibaldi.
Camminava svagato, imprudentemente da solo, col Toscano a
tenergli compagnia, e calciava una pietruzza che finì per arrivarmi
sulla punta degli stivali.
Appena mi vide, ebbe un sobbalzo anch’egli, poi si riebbe e con
un gesto della mano mi fece intendere il riposo.
«Chi sei, soldato?»
«Turati, signor Generale, Quinta Compagnia».
Lui mi squadrò, corrugando la fronte, poi gli apparve un mezzo
sorriso in volto. «Tu sei l’impertinente. Mi ricordo di te. Hai visto?
Alla fine hai imparato a comportarti bene, te l’avevo detto che te
l’avrei insegnato».
«Signorsì, signore».
260
«Che fai qua fuori a quest’ora?»
«Insonnia, signore».
«Eh, a chi lo dici, soldato».
«Anche il signor Generale non riesce a dormire, signore?»
«Purtroppo è così. I reumatismi mi tormentano. Vuoi fumare
un sigaro?»
«Sissignore, lo accetto volentieri, signore».
Il Generale mi porse un mezzo Toscano, evidentemente l’altra metà
di quello che stava fumando lui e me lo accese con uno zolfanello.
Assaporai il gusto amaro del sigaro e, devo ammetterlo, fu un
piacere rinfrancante in quella notte di guazzabuglio che stavo vi-
vendo.
«Quanti anni hai, soldato?»
«Ne compirò venti il prossimo settembre, signore».
«Vent’anni! Ah, figlio mio, che bella età! Li avessi ancor io, i
miei vent’anni, senza reumatismi, prostata e miopia. A vent’anni
ero imbarcato sulla Cortese, che salpò da Nizza per il Mar Nero.
Durante il viaggio fummo attaccati dai corsari greci, che ci tolsero
pure i vestiti di dosso!» e scoppiò in una grande risata. Non l’avevo
mai visto ridere: gli occhi gli si illuminarono, la barba fu scossa da
un tremito, mostrò i denti gialli nella bocca spalancata.
«Oh, sì… che risate… fui ferito per la prima volta contro quei
pirati… quanto tempo è passato».
Ritornò serio, ma non si tolse un sorriso nostalgico dalle labbra.
«Sai, io ne ho fatte tante in vita mia. Troppe, se ci penso e chissà
quante altre ne farò, se mi va bene. Non ce la faccio a star fermo
a un posto» poi dimise il sorriso, forse accorgendosi che si stava
esponendo troppo personalmente davanti a un soldato, all’ultimo
dei suoi subordinati.
Io annuii, ma dalle mie labbra non andò via il sorriso. Me la
ricordo bene quella notte d’Alcamo, sul sagrato della Chiesa dei
Gesuiti. Mi fece tenerezza quell’uomo di cinquant’anni, afflitto
dai reumatismi, coriaceo come il corame e odoroso di Toscano.
Osservai i suoi occhi, così piccoli in quelle orbite spesse, chiari e
luccicanti e ci vidi tanti e tanti anni passati sul campo, a vivere la
vera vita, quella dei selvaggi.
261
Ci vidi le battaglie di Santa Vitória do Palmar e di Forquetinha,
al tempo della Guerra dei Farrapos, combattute nel vigore dei
trent’anni al sole del Rio Grande do Sul e lo vidi al tempo di Mon-
tevideo, quando era a capo dell’Armada Nacional dell’Uruguay,
alla Battaglia di San Antonio contro gli argentini. Vidi il Quaran-
totto, vidi la Repubblica Romana e la pineta di Rimini, e la luce
oscura della morte di Anita. In quegli occhi ci vidi le Battaglia di
Varese, di Treponti, gli scontri in Valtellina a capo dei Cacciatori
delle Alpi. Ci vidi un’intera vita di guerre, di vittorie, di sconfitte,
in quegli occhi.
E in tutto questo guazzabuglio di battaglie, c’era spazio per la
nostalgia, il peso dei ricordi, delle umiliazioni, dei compromessi.
«Mi dispiace di non darti la guerra che forse speravi, ragazzo
mio» esordì e i suoi occhi si fecero tetri.
Non capii cosa volesse dire all’inizio, ma poi continuò: «Forse
non dovrei parlare, soprattutto davanti a te, che sei solo un ragaz-
zo e credi in tante belle cose. Tuttavia confido in questa notte, così
placida e dolce e sul fatto che tu possa perdonare le debolezze del
tuo comandante. Scappano, quei soldati scappano. Indietreggia-
no, indietreggiano sempre. Potrebbero annientarci se solo volesse-
ro e invece… non vogliono. Mi dispiace, soldato Turati, ma questa
guerra è una farsa» e si morse le labbra, perché rivelare quelle cose
a un subordinato era più doloroso che arrendersi al nemico, credo.
«Quelle d’un tempo, quelle sì ch’erano battaglie! Quando si
combatteva coi pugnali tra i denti, contro nemici veri, ma que-
sto… questo è uno scherzo. Noi stiamo andando a togliere la co-
rona a quel povero Francesco, che forse è l’unico che ancora crede
in qualcosa. Pure il Landi s’è venduto…» e distolse con un gesto
di stizza l’attenzione mia e sua da quel particolare mostruoso e in-
famante, ch’io spero con tutto il cuore, ancora oggi, non sia vero.
«Mi dispiace, soldato, non ho alcuno a cui parlare di cose come
queste, ma non posso star sempre a discorrere con la notte e coi
miei incubi. Il Regno delle Due Sicilie noi siamo venuti soltanto a
rivendicarlo, non a prenderlo. Solo Francesco crede ancora nella
sua maestà, ma i generali, i ministri, i soldati… scappano e volta-
no gabbana. La cosa peggiore è che saremo ricordati per sempre
262
per questo scherzo, questa beffa alla decenza su cui, purtroppo,
sorgerà il nostro Paese. Domani vedrai le statue, i musei, i monu-
menti che affolleranno le strade, lì dove ci avranno confinati tutti,
nel buio della Gloria. È il destino dei guerrieri, non è vero, forse?
Vivere solo nel passato, far belle le piazze, là, sulle colonne dove
non possono fare più niente».
Poi si passò una mano sugli occhi e sbadigliò fragorosamente,
mettendosi seduto sullo scalino del sagrato.
«Guarda quante stelle. E noi che ci lamentiamo di questo mon-
do, mettendolo a ferro e fuoco, quando lassù è solo fuoco e pur
tutto resta immobile, fedele e meraviglioso. Che brutto destino ci
attende, quello di non aver più nemici. Che cos’è la vita senza la
battaglia? Una desolazione… ma il mondo rimane sempre preda
delle miserabili nullità che lo sanno ingannare, purtroppo».
Mi guardò, coi suoi occhi tetri e malinconici, ma mi concesse
un altro sorriso, perché, ne sono sicuro, temette d’avermi demo-
ralizzato.
Non sapeva che io ero ai suoi ordini non per combattere la guer-
ra d’Italia, ma per vendetta. Non sapeva ch’io non bramavo la bat-
taglia, perché ci vivevo sempre.
Lui credeva d’avermi deluso, e me ne rammaricai, perché nel si-
lenzio del mio cuore non potetti dargli questa piccola soddisfazio-
ne: quella d’esser solo con la notte a contemplare il vero. C’ero an-
ch’io con lui, là fuori ed ero io a deluderlo, ma non poteva saperlo.
Non risposi al suo sorriso se non con un sorriso che mi sforzai di
far sembrare d’imbarazzo, perché celasse la tenerezza che quell’uo-
mo m’ispirava. La tenerezza del drago, la tenerezza del selvaggio,
la tenerezza del guerriero.
Garibaldi tirò un’altra boccata al suo sigaro, poi gettò il mozzi-
cone a terra. «Sarà meglio andar a riposarsi, domani ci muoviamo.
Perdona il tuo Generale, soldato. Dimentica le cose che t’ho detto:
sono le farneticazioni d’un vecchio. Buona notte».
«Buona notte, signore, riposi bene».
Sorrise: «Grazie, soldato».
Lo vidi sparire nel buio, da dove era venuto e rimasi solo ancora
una volta, sul sagrato, nella notte di maggio.
263
Chissà, forse quello che mi disse il Generale in quella piazza fu
tutt’altra cosa. Forse l’ho immaginato fin troppo lungimirante e gli
ho messo in bocca parole più mie che sue. Forse, ma poco importa,
perché alla fine ho avuto ragione: oggigiorno, ogni città, paese e
contrada d’Italia ha la sua bella statua di Giuseppe Garibaldi.

264
UNDICI
PARTINICO, 1860

Partinico distava circa venti chilometri da Alcamo, in direzione


nord, e una cinquantina di chilometri da Palermo. Noi ci arrivam-
mo il 18 maggio e ci trovammo l’inferno.
Dopo la fuga da Alcamo sotto il fuoco dei cittadini, i borbonici
avevano ripiegato verso Partinico.
Disorganizzati, per non dire in rotta, senza scorte alimentari,
senza più qualcuno che desse ordini chiari, i soldati di re France-
sco, i soldati blu della mia infanzia, sconfitti, stremati, affamati
come lupi, avevano fatto quello che fanno tutti gli eserciti in quei
casi: s’erano dati al saccheggio.
I soldati arrivavano in una casa, in una fattoria, in una stalla,
requisivano tutto in nome del re e se qualcuno alzava la cresta per
difendere il suo, gli sparavano addosso senza pensarci due volte.
Quando i borbonici arrivarono a Partinico, la sera del 16, la no-
tizia della sconfitta che avevano subito a Calatafimi e dei saccheggi
a cui s’erano dati in seguito alla rotta, s’era già diffusa tra la popo-
lazione, che sperava nel nostro arrivo e che non voleva in nessun
modo perdere quel poco che aveva.
Quando si fecero vedere in paese, i soldati di re Francesco rice-
vettero lo stesso benvenuto che gli era stato riservato ad Alcamo.
I partinicesi iniziarono a sparargli addosso asserragliati dietro le
finestre e i soldati reagirono. Bruciarono una sessantina di case,
ne svaligiarono un’altra ventina e ammazzarono tutti quelli che
opponevano resistenza.
All’inizio la controffensiva borbonica fu efficace, ma i soldati
erano troppo provati dalla sconfitta e dal brusco ripiegamento e
si diedero alla fuga, abbandonando al proprio destino parecchi dei
loro.
265
Quello che trovammo al nostro ingresso in paese fu commen-
tato con queste parole dal veterano John Roth: «My God, sembra
d’essere tornati sulle rive del Little Robe».
La popolazione ci acclamò più di quanto avessero fatto a Salemi
o ad Alcamo. S’era sparsa una voce strana che fossimo degli esseri
sovrannaturali, invincibili. La gente aveva le lacrime agli occhi per
la gioia di vederci, era euforica come cagnetti che scodinzolano,
che non vedono quello che hanno fatto, dietro ai loro culetti ec-
citati, ma che sta davanti agli occhi atterriti del padrone appena
arrivato.
C’erano roghi un po’ dappertutto, che in quasi due giorni non
avevano ancora smesso di fumare. Per strada, a ogni angolo, a
ogni cantone, davanti a ogni porta c’erano i segni evidenti d’un
massacro.
C’erano resti umani buttati in strada come stracci vecchi e divo-
rati dai cagnacci affamati.
C’era un viavai di bastardi e botoli che scodinzolavano davve-
ro tra una carcassa e un’altra, coi musetti sporchi di sangue e la
lingua ripassata tra i baffi a gustarsi il sapore della carne umana.
I resti di quei cadaveri avevano indosso i brandelli delle unifor-
mi dei soldati blu.
Si vedevano i segni d’un accanimento feroce su quei corpi. I
volti erano deturpati dai colpi delle roncole, dei forconi, dei col-
telli: voragini, buchi, più che facce, da cui uscivano gli ammassi
grigio-rosa del cervello e dei denti.
Tronchi umani, squartati dalla cintola in giù, da cui uscivano
i festoni delle budella e scheletri carbonizzati erano disseminati a
terra come a un banchetto, a pieno godimento dei cani.
Chiedemmo, allora, cos’era accaduto. Ci fu risposto che aveva-
no attaccato i soldati e quelli che avevano avuto la mala sorte di
soccombere, avevano trovato il fuoco dei roghi delle case che loro
stessi avevano dato alle fiamme.
Un nugolare di mosche eccitate, un odore di carne bruciata e di
putrefazione appestava l’aria in modo stomachevole.
C’erano dei ragazzini che danzavano in circolo attorno ai cada-
veri mutilati, ridendo e scherzando come fossero stati su una vera
266
giostra e divertendosi ancora un poco a punzecchiare coi bastoni
quei resti spaventosi.
«Roth, era così su quel fiume? Davvero?» chiesi, perché ero
atterrito e mi faceva male lo stomaco e volevo che qualcuno mi
parlasse, perché non ce la facevo più a reggere il silenzio dello sgo-
mento.
Lui annuì, con gli occhi spalancati, agghiacciato di vedere anco-
ra una volta quello spettacolo.
Umberto era frastornato da quella vista. Tremava come una
foglia. Il Cei e Candiani si mettevano le mani nei capelli. Nodari,
che s’era messo a fare acquarelli per documentare l’impresa, disse:
«Partinico non ci sarà, ahimè, in questi disegni».
«Perché non li avete seppelliti?» fu domandato.
«Perché non meritano sepoltura, devono mangiarseli i cani» ri-
spose una donna, con un gran ghigno di disprezzo.
«Questa roba farebbe inorridire le iene» sentenziò Garibaldi, e
ordinò che tutti i morti, ch’ammontavano a una quarantina, fos-
sero subito seppelliti.
Diedi una mano anch’io a quel compito. Dovevo controllare
qualcosa che mi riguardava: ero atterrito che in mezzo a quei ca-
daveri ci fosse anche quello di Falcone.
“Dio mio, fa che non ci sia” pregavo, perché lui era il mio scopo,
la mia ragione, la brace che stava sotto la cenere dell’avanzata, del
terrore e della battaglia.
Trasportai tanti cadaveri assieme al Candiani, perché eravamo
più grossi e più forti, d’averne le mani e la camicia impregnate.
Finimmo a sera di riempier una fossa comune. Tuttavia, tra
quei corpi sbrindellati e disfatti, Francesco Falcone non c’era.

267
DODICI
PALERMO, 1860

Io ho visto per la prima volta Alexandre Dumas a Palermo,


dopo la presa della città.
Era un uomo grasso, tondo come una grande bambino glabro,
tutto vestito di bianco. Aveva un paio d’occhi enormi, spalancati e
ridenti, d’un azzurro sincero e limpido e una capigliatura castana
di ricci ispidi.
Il suo panfilo attraccò a Palermo all’indomani del 30 maggio,
il giorno in cui conquistammo la città. Scese da quella nave con
un gran cappello bianco a tese larghe, ornato di piume multicolori
d’uccelli esotici e accompagnato da una ragazzina di sedici anni,
vestita alla marinaretta, ch’era la sua amante.
Era un uomo esuberante e logorroico e mangiava come un orco.
Ci portò delle armi e delle munizioni e si unì all’impresa come am-
basciatore: essendo assai conosciuto in Europa, non gli era difficile
fare da intermediario con i governi esteri. Ne avevamo bisogno,
soprattutto per giustificare il nostro avvento su Napoli.
Davanti al suo pancione globoso, ai suoi occhi chiari e rotondi,
al suo riso gioviale e accattivante, a me venne in mente quel giorno
di pioggia di quelli che mi sembravano tanti anni prima, in cui me
ne stavo nello studio di mio padre, al caldo, a leggere I tre moschet-
tieri ed era arrivata Irene a destarmi da un torpore che poi non era
mai più tornato.
Il giorno dell’arrivo di Dumas, io, Umberto, il Cei, Candiani,
Roth e Nodari stavamo seduti a un tavolo d’un caffè di piazza
Bologna.
Il Cei e Candiani ridevano di quel buontempone ciarliere. «L’ho
visto mangiarsi pure gli avanzi dei piatti degli altri» commentò il
Cei con un ghigno, strabuzzando i suoi occhi bovini, in quel suo
268
volto ossuto ed esangue. A molti, nella truppa, Alexandre Dumas
era sembrato ridicolo.
Io avevo la testa fasciata, perché avevo preso un brutto colpo in
battaglia e me ne stavo in disparte, dolorante, a fumare nervosa-
mente il sigaro, mentre gli altri cicalavano ad alta voce di quanto
fosse buffo e bizzarro l’autore dei Tre moschettieri, tranne Umber-
to, ch’era silenzioso come me.
Umberto mi parlava sempre meno. Faceva il suo dovere sul
campo, e lo faceva bene, ma si difendeva dalla tensione col silen-
zio. Non gli vedevo più quel bel sorriso fraterno che tante volte
m’era stato di grande conforto.
Ogni volta che provavo a parlargli, lui si scherniva ed evitava il
dialogo. I suoi occhi s’erano fatti tetri, tremava spesso e credo che
i suoi nervi fossero al punto di collassare.
Scriveva molto. Scriveva lettere ai suoi familiari e mi ricordò
mio padre, quando si chiudeva nel suo studio e stava ore ad atten-
dere alla sua corrispondenza. Pure io avevo scritto qualche volta a
casa e mio padre aveva pure risposto, ma quelle lettere mi faceva-
no l’effetto di bruciature improvvise. Meglio evitare di pensare a
casa, quando si è sulla bocca della morte.
Quel giorno mi doleva terribilmente il capo. Avevo bevuto un
caffè, perché il vino altrimenti m’avrebbe dato noia.
Pure il sapore del sigaro era un oltraggio al mio organismo
provato. La fascia che avevo in testa era troppo stretta. Ero
confuso, ottenebrato. L’emicrania sembrava l’andirivieni del-
la marea sulla battigia. Pulsava orribilmente e mi portava la
nausea.
Mentre mi stavo quasi per assopire sotto il sole tiepido di quella
mattina seguita alla vittoria, sentii Roth brindare a mio nome.
«My friends and companions, propongo un brindisi a Stefano
Turati, per il suo eroismo. Signori miei, l’ho visto io stesso in piedi
su quella barricata, con la mia Colt in mano, a sparare su quei fe-
tenti: era uno spettacolo. Salute!»
«Salute!» fecero eco gli altri.
Io sorrisi debolmente, perché non avevo la forza di fare di più e
perché, soprattutto, non ne avevo voglia.
269
Ero disgustato da quella gente, disgustato dalla città afflitta
dalla guerra, disgustato da me stesso. Mai, come in quei giorni
di maggio a Palermo, ho maledetto tanto la verità imprescindibile
che, alla fine, si sopravvive sempre.
Non era solo la ferita che avevo in testa a darmi il tormento. La
mia era la rabbia. La rabbia cieca.

270
TREDICI
VENDETTA, 1860

Noi arrivammo a Palermo il 27 maggio del 1860 e ci battemmo


coi borbonici al Ponte dell’Ammiraglio. Il ponte era un viadotto a
dodici arcate, risalente al tempo di re Ruggero, ed era la via che
conduceva a Porta Termini, nella parte meridionale della città.
Ci accalcammo come i dannati a quelle pietre vecchie, con le
baionette in resta, mentre dall’altra parte i soldati facevano scudo.
Non c’era spazio per prendere la mira, tant’era stretta quella viuzza sul
ponte, e si doveva dar di baionetta e di sciabola. Io me n’ero procurata
una e menavo fendenti alla disperata, mentre tenevo il fucile a tracolla.
I borbonici indietreggiarono, finché poi non abbandonarono il
campo, per andare ad asserragliarsi in città.
La colonna dei soldati regi si divise: una penetrò per Porta Ter-
mini, l’altra raggiunse Porta Sant’Antonio.
A Porta Termini fu ferito Bixio, che cadde da cavallo falciato da
un colpo di fucile.
Entrammo in città, sparando all’impazzata sui soldati che ripie-
gavano, ora che avevamo campo libero. C’era la fanteria davanti
a noi e vedevamo i cavalieri alle spalle che non sapevano se andare
avanti o tornare indietro.
I soldati di Francesco non avevano voglia di morire così. Si bat-
tevano, ma non si battevano veramente. Volevano tornare a casa,
a casa nostra.
Intanto, a Palermo, era scoppiata un’insurrezione. La gente spa-
rava sui borbonici e aveva alzato barricate per le strade per isolare
i soldati, che s’erano rinchiusi a Palazzo Reale e a Castello a Mare.
Le vie, le piazze, i canti erano pieni di gente che brandiva fucili,
schioppi, doppiette, spade, roncole e forconi: un esercito improv-
visato di cittadini che ci aiutava a liberare la città strada per strada.
271
Poi iniziarono i bombardamenti. Non riuscendo a frenare la no-
stra avanzata, il generale in capo delle forze armate delle Due Sici-
lie, il generale Lanza, ordinò alle batterie di Palazzo Reale, Castello
a Mare e alla Marina di bombardare la città.
Ci fece passare dei brutti quarti d’ora, il generale Lanza. Me lo
ricordavo, e pure bene, quando passava a cavallo, in capo alle ar-
mate durante le parate militari, quando garrivano in aria i vessilli
del Regno delle Due Sicilie, che salutavano l’esercito di Sua Maestà.
Ora il vecchio comandante se ne stava barricato, stanco e sfi-
duciato da quella guerra che s’era rivelata catastrofica, dacché era
stata descritta come una scaramuccia da ingaggiarsi contro un
manipolo di straccioni male armati e male in arnese.
Le bombe ci fioccavano in testa come la grandine più grande del
mondo e spaccavano tutto, palazzi, case, strade. Palermo divenne in
una giornata una città di macerie, dove i morti stavano seppelliti sot-
to metri di polvere e calcinacci. Il fragore delle bombe era seguito da
un fischio e poi da un’esplosione dirompente, che faceva tremare la
terra sotto ai piedi. Vedevamo la gente correre alla disperata, por-
tando le poche cose ch’erano riusciti a racimolare, mentre il canno-
neggiamento imperversava e distruggeva la città in cui era nato re
Ferdinando. S’udiva dappertutto il crepitare fragoroso degli incendi,
assieme ai tuoni degli edifici che crollavano su sé stessi, ridotti all’osso
dal fuoco e dalle bombe, e alle urla disperate di quei disgraziati che
avevano avuto la sventura di rimanerci sotto.
Ci muovevamo sui cumuli di macerie, impolverati, laceri, in-
sanguinati, con la testa bassa per evitare che le schegge ce la stac-
cassero dal corpo.
C’era polvere dappertutto, colonne alte e spesse, simili a quando
eruttava il Vesuvio e il vento portava la cenere a Napoli e la città
diventava bianca.
Si respirava a fatica in quel polverone e non si vedeva dove s’an-
dava. Ogni tanto individuavi la sagoma di qualche soldato e gli
sparavi addosso e quello spariva da qualche parte nella polvere.
Trovammo alcuni soldati impiccati, altri ancora ridotti come i
loro colleghi a Partinico. Era una confusione, insomma, come lo
sono state tutte le battaglie.
272
Avanzando verso il baluardo borbonico, Palazzo Reale, ci tro-
vammo alla Porta di Castro, che mi pare oggi non esista neanche
più e che si trovava all’estremità meridionale del Palazzo.
Là trovammo un ingombro di barricate fatte di botti, carri ro-
vesciati, sacchi pieni di gramaglie, sedie, tavoli e altre suppellettili.
Le barricate bloccavano la strada, e alti teloni di stoffa, grigi e on-
dulanti, erano stati stesi tra un edificio e un altro per impedire la
vista e le comunicazioni ai soldati borbonici.
Ci fermammo davanti a quelle barricate e oltre vedemmo un
plotone di soldati che armeggiava per asserragliarsi meglio e re-
sistere.
Non avevamo le spalle coperte, perché c’eravamo distaccati un
po’ dal resto della truppa e i borbonici avrebbero facilmente potuto
piombarci alle spalle e chiuderci a tenaglia, facendoci fuori come
cagnacci rognosi.
Sparavamo ai soldati nascosti dietro alle barricate e sembrava
uno scherzo, una guerra di bambini, che si mettono a sparare da
dietro agli alberi con i fucili di legno.
Dovevamo avanzare e fare in modo che i soldati indietreggias-
sero, perché era rischioso rimanere fermi ed essere tagliati fuori
oltre le linee nemiche.
Stavamo lì da un poco, a sparare senza riuscire a colpire niente,
se non le botti delle barricate e Roth, che guidava il nostro manipo-
lo, ci chiese: «Che facciamo?»
Io mi sporsi un poco, ma un colpo fece saltare un pezzo di legno
a pochi centimetri dalla mia faccia. «Chi v’è muorto!» imprecai.
«Dobbiamo avanzare» risposi.
«Questo lo so, ma come facciamo?»
«Dobbiamo passare pochi alla volta, con le spalle coperte dagli
altri».
«Quelli stanno bene asserragliati là dietro, ci ammazzerebbero
prima di superare la barricata».
«Che non lo so…» ammisi.
Poi Umberto mi scosse un braccio e io lo guardai irritato, perché
m’aveva messo paura. Aveva le ciglia corrugate e mi stava indi-
cando qualcosa oltre la barricata.
273
Mi sporsi un poco, quel tanto da riuscire a vedere e spalan-
cai gli occhi. Proprio oltre la barricata nemica, dietro la fila della
fanteria borbonica, su cavallo senza gualdrappa, c’era Francesco
Falcone.
Aveva l’uniforme lacera, i capelli arruffati, una benda bigia gli
fasciava trasversalmente la testa. Brandiva una sciabola e incitava
i soldati a passare la barricata e a venirci addosso.
Sentii la sensazione d’una spina che mi stesse colpendo al cuore.
La rabbia mi montò in gola. «Questa volta no, questa volta non
vinci tu» mormorai.
Era lui, pallido, afflitto, spossato, ma ancora energico. Era lui, il
suo volto appuntito, le sue membra snelle, l’eleganza anche nell’u-
niforme stracciata. Era lui, il motivo per cui avevo passato tanti e
tanti guai. Il motivo per cui avevo ucciso.
Falcone incitava gli uomini a superare la barricata, e quelli era-
no restii, ma non lo sarebbero stati a lungo.
Dovevamo contrattaccare prima noi. Non gli potevo permette-
re di avere la meglio anche quella volta.
«Dammi la Colt, John».
«Che cosa?»
«Dammi la tua pistola, non ho tempo di spiegarti».
Il cuore pulsava dentro al mio petto violentemente. Non avevo
paura in quel momento, né ansia. Ero furioso. Tutta la brace della
rabbia che quell’uomo m’aveva acceso in corpo era uscita dalla
cenere. Volevo togliermi una volta e per tutte dall’anima il peso
della sua esistenza e delle molte, ingombranti, dolorose esistenze
che quell’uomo rappresentava dentro di me.
«Dammi la pistola» ripetei e in maniera più energica e lui non
se lo lasciò ridire.
Presi in spalla a destra il mio fucile, a sinistra quello d’un morto,
dopo essermi assicurato ch’ambedue fossero carichi. Armai il cane
alla Colt. Tirai un sospiro e osservai Roth e Umberto che mi guar-
davano, incuriositi e trepidanti.
Sorrisi. «Pronti a seguirmi» dissi e non diedi tempo loro nean-
che di rispondere che m’issai sulla barricata, mettendo il piede sul
carro rovesciato.
274
Sparai con la Colt una serie di cinque colpi consecutivi e beccai
un soldato in testa. Poi presi il fucile di sinistra e sparai con quello,
colpendone un altro. Poi presi il mio fucile e puntai. Puntai il mio
uomo. Lui si voltò dalla mia parte e sbiancò: m’aveva riconosciuto.
Eravamo soli, nella polvere, come due amanti.
Poi qualcosa si smosse sotto ai miei piedi, e io caddi all’indietro.
Il colpo esplose. Sentii una gran percossa dietro alla nuca e una
fitta improvvisa e lancinante mi fece perdere i sensi.
L’ultima immagine che ho di quel giorno, è Roth che mi passa
sopra, brandendo la sciabola, mentre gli altri lo seguono e supera-
no la barricata.

275
QUATTORDICI
FAGIOLI ALLA MARUZZARA, 1860

Alla fine, mi sforzai di alzare la mia tazzina vuota di caffè, con


la rabbia cieca in corpo, e brindai pure io.
Poi il Candiani esordì: «Al Bonardi, ovunque sia» tendendo il
suo bicchiere ancora una volta e tutti rimasero in silenzio e lo imi-
tarono.
«Al Bonardi».
“Beato il Bonardi” pensai in quell’istante.
Avevo fallito e non c’era niente che si potesse fare. Avevo spre-
cata l’unica occasione che m’era stata concessa da quel Fato ini-
quo che regge le sorti di questo mondo e m’ero risvegliato in una
branda d’ospedale, con la testa fasciata, un brutto taglio dietro alla
testa e la confusione nell’anima, con l’unica, inesorabile, spietata
certezza che il mio colpo era andato a vuoto, e con gli occhi di
Umberto, immobili, accusatori, insopportabili che mi fissavano e
mi ribadivano quella crudele verità.
Solo a pensarci, mi saliva la nausea. Come sarei andato avanti?
Come avrei potuto marciare ancora, con la convinzione che l’uni-
co scopo che m’aveva spinto ad affrontare quella follia s’era mi-
seramente consumato? Non lo sapevo e mi faceva troppo male la
testa per pensarci davvero.
M’alzai da quel tavolino, con la rabbia che mi stava montando
tanto che avrei potuto fare qualche sproposito.
«Hey, Little boy, non hai bevuto e barcolli?» m’apostrofò Roth,
con un sorriso.
In effetti barcollavo, il dolore mi stava tormentando. «Vado a fare
due passi. Ne ho abbastanza di star seduto» risposi e me andai via.
Mi misi a camminare senza meta, col mio sigaro tra i denti come
unico compagno, passando per quelle strade martoriate dai canno-
276
neggiamenti, pei calcinacci spaccati, per le polveri oramai posate,
tra la gente che strappava alle macerie quel che le era appartenuto
e che ora non esisteva più.
La nausea mi stava devastando e mi dovetti fermare a un can-
tone a vomitare. Sentii in gola il sapore del caffè che avevo bevuto
mischiarsi a quello amaro del sigaro e al gusto acido dei succhi
gastrici.
Ero stremato dalla disperazione, come quella volta in casa De
Martino e iniziai a prendere a calci il muro al quale m’ero appog-
giato, imprecando a denti stretti, perché quel maledetto, alla fine,
quel bellimbusto d’un lanciere, aveva vinto ancora una volta. Era
stato di nuovo Falcone ad avere la meglio su di me, e con lui il
disagio, l’inadeguatezza, l’ansia. Non li avevo uccisi, i mali, e non
li avrei uccisi mai più.
Mi staccai da quel muro, in cui sarei voluto sprofondare e mi
rimisi sui miei passi, tra le macerie.
Arrivai per certe viuzze strette in un posto che non conoscevo e
che mi ricordava vagamente l’Anticaglia a Napoli e il vico Limon-
cello.
Sulla strada, in quella specie di budello derelitto e reso peggiore
dalle bombe, s’aprivano i vasci, proprio come a Napoli.
Sentendomi da qualche parte che mi ricordava un poco casa
mia, il mal di testa s’affievolì e mi sentii più tranquillo, in quell’aria
viziata dai miasmi che s’acquattano nelle strade chiuse.
La gente che stava fuori a quelle case non si curava del mio
passaggio, ma era impegnata a ramazzare di gran lena le macerie
che s’erano accumulate davanti agli usci e a mettere ordine alla sua
vita miserabile.
A un tratto mi sentii chiamare. Davanti a un basso c’era una
donna, una ragazza, forse sui venti, venticinque anni, ma che per
la magrezza e il pallore ne dimostrava di più.
Mi sussurrava d’avvicinarmi: era smunta, ossuta, giallognola in
volto. Aveva un paio d’occhi grandi e tetri, che le uscivano dalle
orbite, ch’erano nere pei calamai. Teneva un fazzoletto sul capo,
ma vi pendevano certi capelli scuri, quasi bigi, non per una pre-
coce canizie, ma per il perdurare della miseria e della fame. Indos-
277
sava un vestito grigio, e aveva le mani, che dovevano essere state
belle, incallite dalla ramazza e bruciate dalla lisciva.
Mi avvicinai a lei e le chiesi cosa volesse. Lei mi sorrise debol-
mente, mostrandomi una dentatura terribile e facendomi intende-
re con uno sguardo che cosa cercasse.
Annuii e la seguii dentro quel bugigattolo tetro. Il basso era
costituito da una sola, ampia stanza, alla quale s’accedeva at-
traverso quattro gradini dalla porta. Stava sotto al livello della
strada e ne risentiva per mancanza di luce e per umidità. Al
centro dello stanzone c’era un tavolo troppo grosso, tarlato, con
un paio di sedie di paglia intrecciata. A sinistra un focolare,
spento, annerito, con una pentola bruciata sospesa sulle ceneri
da un braccetto di ferro. Le pareti erano nude, bigie, pitturate a
calce viva. C’era una tendina sul fondo, discosta, oltre la quale
si vedeva un letto disfatto. C’era odore di fagioli alla maruz-
zara e fumo di carbone là dentro: non un odore spiacevole, ma
pertinace. Sul tavolo notai un pentolino, anch’esso annerito, e
dentro ci navigavano i legumi che avevano riempito l’aria col
loro effluvio.
La donna mi condusse al letto e ci si sedette sopra. Volle essere
pagata prima e io le diedi quello che avevo in tasca, che a lei do-
vette sembrare una fortuna. Mi sorrise, con quel ghigno raccapric-
ciante e pieno di riconoscenza, perché doveva esser abituata a dei
gran spilorci.
Mi sbottonò la patta, tutti i bottoni dei miei calzoni di fustagno
ed era felice mentre lo faceva.
Restai in mutande davanti a lei e intanto pensavo ai fagioli alla
maruzzara, e ricordai che Adele, a volte, se ne preparava un piatto
quando voleva mangiare qualcosa di saporito e spiccio.
La donna m’abbassò le mutande e prese il mio sesso con le mani
lisciviate. Sentii la pelle ruvida dei suoi calli, che mi procurò una
strana sensazione di piacere. Poi me lo prese in bocca, e io chiusi gli
occhi. Non sentii lo stridere dei denti: non ce li aveva.
Le appoggiai una mano sulla testa e la spinsi verso di me. Mi
voltai un attimo e osservai il pentolino sulla tavola, mentre s’udiva
lo schiocco della sua bocca insalivata.
278
Il fazzoletto che portava in testa le cadde e la mia mano si perse
in una matassa di capelli corvini, irti e unti. Mi sembrava di far
l’amore con una fattucchiera.
Mi voltai ancora verso il pentolino. Venni proprio in quell’istan-
te, con un gemito violento, mentre osservavo i fagioli che affonda-
vano in quel sugo stantio di pomodoro e origano.

279
QUINDICI
INTERMEZZO, 1889

Spalancò gli occhi e vide l’oscurità. Per una manciata di lunghi,


terribili secondi non si rese conto dove fosse e sentiva ancora sotto le
narici l’odore dei fagioli con l’origano.
Poi si destò del tutto e si alzò sui gomiti. C’era un silenzio pesante
nella stanza.
Restò qualche istante a contemplare la tenebra, mentre le imma-
gini d’una lunga teoria di sogni gli ripassavano davanti, in quella
stessa oscurità in cui erano sembrate reali. In cui erano state reali.
Scese dal letto, attento a non scontrarsi col comodino. Era difficile in quel-
la oscurità, ma doveva farsi luce. Ebbe paura del buio, per un momento.
Tastò alla cieca e toccò il bordo del comodino. Raggiunse il casset-
to e trovò subito, per sua fortuna, la scatola degli zolfanelli.
Riuscì ad accenderne uno e le tenebre si diradarono, mischiandosi
alla luce intima e piccola del fiammifero: un faro denso nel mare
nero della camera da letto.
Accese la lampada e vide la brocca d’acqua che aveva sul comodi-
no e sorrise a quella visione, perché aveva sete.
Bevve lentamente un lungo sorso d’acqua direttamente dalla
brocca, che lo tranquillizzò molto.
Si mise seduto al bordo del letto, coi piedi a terra, sul pavimento
freddo. Osservò il lume: la luce era immobile nel vetro.
Aveva fatto un lungo, lunghissimo sogno, a cui non si poteva dare
dell’incubo, perché era, in fondo, una bella storia.
Aveva rivissuto tutta una vita in… quanto tempo? Controllò l’o-
rologio. Diamine… non erano trascorse neanche due ore da quando
s’era addormentato.
Stranamente, quella storia rivissuta là dove gli uomini rimarreb-
bero volentieri, nell’inconscio, gli aveva lasciato una strana arsura
280
in gola, che tentò senza successo di sedare con un nuovo, lungo sorso
dalla caraffa.
Di solito svegliarsi dai bei sogni fa male, ma per lui, quella notte,
fu un sollievo ritrovarsi solo, vecchio e al buio dopo aver sognato la
giovinezza.
«La giovinezza» mormorò lentamente, come se la sua voce avesse
fatto da eco a una voce più lontana, riverberata dal silenzio della
camera.
“La giovinezza si sconta” pensò. Si sentiva sollevato: in quell’istan-
te gli piacque essere un vecchio e che tutti quei mostri della sua men-
te se ne fossero andati alla malora, i buoni e i cattivi.
“È forse questa la morte? Un luogo dove non ha più senso né ciò
per cui abbiamo vissuto, né ciò che ha fatto di tutto per ammazzarci?
Sì, forse è così… il nulla” pensò ancora. Se quella era la morte, vale-
va la pena vivere per vederla.
Qual è quel luogo dove l’amore infinito, la paura più grande, l’an-
goscia più cruda, il piacere estremo si perdono tutti, per sempre?
“Oh, sì… che bello. Come un sogno che svanisce… un incubo…
sì… questa vita è un incubo da cui prima o poi ci si sveglia sempre…
l’importante, la cosa fondamentale – tienilo a mente, ma non lo
farai – è imparare a non aver paura del risveglio”.
Si rimise sdraiato e sorrise. Poi corrucciò la fronte. Mancava qual-
cosa. Una curiosità, niente di più importante.
“La Colt… da dove viene quella Colt?”

281
SEDICI
MILAZZO, 1860

Eravamo di più, quasi il doppio, ma dall’altra parte c’era il co-


lonnello del Bosco.
Fabrizio Beneventano del Bosco, nato a Palermo nel 1813, allie-
vo della Reale Accademia della Nunziatella, sospeso dal servizio
negli anni della giovinezza per la sua tendenza a scontrarsi in duel-
lo. Un osso duro. Non come il Landi, che forse s’era venduto. Lui
aveva ricevuto la medaglia d’oro dalla buonanima di Ferdinando
in persona, dopo la rivoluzione del Quarantotto. Un vero borboni-
co. Forse l’ultimo.
In quella giornata di luglio non eravamo più mille scalcagnati,
ma un esercito che avanzava inesorabile versa la capitale.
A giugno erano arrivati 1.500 fucili da Malta (un regalo degli
inglesi). Non i ferri vecchi che avevamo a Quarto, ma armi vere,
nuove. Altri 1.000 fucili arrivarono con Aglietta.
L’11 giugno Giacomo Medici sbarcò a Castellamare del Golfo,
a una sessantina di chilometri da Marsala, al comando di 3.500
volontari e 8.000 fucili. Sacchi e Cosenz portarono altri 2.000 vo-
lontari a testa. Eravamo tanti e avevamo vinto. Solo che del Bosco
non lo sapeva ancora.
I borbonici disponevano della forza dei Cacciatori di fanteria,
dei Cacciatori a cavallo e d’una batteria d’artiglieria da montagna,
inviati da Messina a difendere la fortezza di Milazzo.
Era una cittadella poderosa ed estesa, fatta di bastioni massicci,
di mura sode, di torrioni gagliardi, di masti ciclopici. Una fortez-
za immensa, come i castelli dei re delle fiabe, che aveva l’unica
inconvenienza nell’essere stata espugnata sempre da ogni popolo
nemico negli ultimi 2.500 anni, dagli Ateniesi fino a Napoleone.
La città di Milazzo si trova su una penisola, preceduta da una
282
piana assai vasta. Lì, alle 6:30 di mattina, su quella piana di fichi-
dindia e ginestre bagnate di rugiada, davanti alle onde verdi-tur-
chese del Tirreno, stavamo già pronti coi fucili in resta a darci alla
battaglia soda.
Attaccammo i soldati blu con le grida dei selvaggi, ma del Bosco
la sapeva lunga e aveva addestrato bene i suoi uomini. All’inizio,
ce le diedero di santa ragione.
Ricordo che, come al solito, stavo alle costole di Roth, che s’era
preso quel giorno un cavallo e s’era messo a far la guerra come la
faceva nel Texas, cavalcando e sparando contemporaneamente.
Era uno spettacolo, davvero.
Roth filava dritto a briglia sciolta su quel baio robusto e storno,
volava sulla terra, fendendo l’aria calda di prima mattina e scari-
cando la sua cinque colpi con una sola mano, senza perdere tempo
ad alzare il cane con l’altra.
S’avventava sul nemico, sparando all’impazzata e poi tornava
indietro con una grande curva, travolgendo i borbonici, sempre
urlando quel suo grido di battaglia indiano.
Tuttavia, l’ardimento del texano non bastò a far gran che. I sol-
dati erano più motivati di quelli che ci trovammo di fronte a Ca-
latafimi o anche a Palermo. Erano soldati veri, non poveracci che
volevano tornare solo a casa. Agli attacchi rispondevano con gli
attacchi, non con la ritirata e ben presto ci mandarono parecchio
indietro.
Ne perdemmo molti durante quella prima avanzata. Li avevano
fulminati mentre correvano, ostentando il petto caldo da patriotti.
Un buco in quel petto era bastato per spegnere ogni ardore.
C’erano parecchi dei nostri a terra, tra le mortelle e i fichidindia,
che si tenevano le budella in mano.
Dovemmo ripiegare, almeno all’inizio fu necessario. Fortuna
che eravamo parecchi quella mattina.
A un tratto vedemmo Garibaldi a cavallo, con la sciabola in
mano, avanzare seguito da un bel gruppo dei nostri. Io mi voltai a
Umberto, che mi guardò corrugando la fronte e annuì, seguimmo
Garibaldi correndo, col sangue di tante ferite che ci riscaldava la
pelle nuda e sputando saliva amara. Poi vedemmo i Cacciatori a
283
cavallo di re Francesco. Era un drappello compatto, che galoppa-
va, spiedo in resta, contro Garibaldi e noi che lo seguivamo.
Ci travolsero e vidi un paio dei nostri sfracellarsi tra le zampe
dei cavalli e saltar via come molle da terra, andando a buttar le
cervella alla malora chissà dove.
La Marsala s’era spaventata e il Generale non riuscì a tenerla
buona. S’imbizzarrì e disarcionò Garibaldi, che cadde con un tonfo
sordo e terribile a terra, proprio mentre un paio di Cacciatori gli
s’avventava contro.
Stavo per slanciarmi in suo soccorso, ero a pochi metri da lui, ma
poi vidi il Missori, il moscovita ch’era a capo delle guide, slanciarsi in
avanti e sparare dritto su uno dei due Cacciatori e intromettersi tra
il Generale, che stava ancora a terra e il nemico. Sparai all’altro Cac-
ciatore e Missori si voltò, m’annuì e insieme alzammo il Generale da
terra, mentre Umberto recuperava la cavalla Marsala e la riconsegna-
va al Generale, che ci ricompensò con fragorose pacche sulle spalle.
Combattemmo per quasi sei ore, attacchi su attacchi, che alla
fine costrinsero il colonnello del Bosco, messo alle strette, a indie-
treggiare verso l’abitato, proprio mentre la pirocorvetta Tukory
iniziava a cannoneggiare il nemico dal mare.
La nave era un’unità della Marina borbonica, consegnata al go-
verno sardo dal traditore capitano Aguissola, e si chiamava Velo-
ce, ma fu subito ribattezzata come quel povero ungherese, Luigi
Tukory, ch’era stato a capo dell’avanguardia e che s’era fatto l’ul-
timo viaggio alla presa di Palermo.
Si sparava ancora forte a terra quando la nave iniziò a canno-
neggiare l’ala sinistra dei borbonici, che furono costretti a rifugiar-
si nella cittadella.
Mentre avanzavamo, vidi Roth sfrecciarmi accanto a cavallo.
John si fermò, si voltò verso di me, si toccò la tesa del cappello e
mi sorrise. Stava per rigirarsi e continuare l’avanzata, quando a
un tratto un colpo gli attraversò il torace con uno spruzzo vapo-
roso di sangue e lo vidi cadere all’indietro, sulla terra nuda, tra i
lentischi.
«John!» urlai e gli corsi incontro, seguito da Umberto. Stava a
terra e non si muoveva, ma respirava ancora. Gli scostai la camicia
284
e vidi il foro d’ingresso della palla, proprio all’altezza dei polmoni,
che perdeva sangue. Lo sollevai un po’ da terra, aiutato da Umber-
to. Aveva gli occhi sbarrati, respirava con un rantolo angosciante:
il sangue gli stava riempiendo i polmoni. A un tratto ebbe un sus-
sulto e si contorse, con uno scatto violento all’indietro, voltando
la testa e battendo i piedi nella polvere. «No!» riuscì a mormorare,
ma la bocca gli si riempì di sangue.
Si voltò di nuovo in avanti: gli occhi erano iniettati di sangue,
pieni d’un terrore sconvolto e disperato. Stava fissando qualcosa,
qualcosa che stava alle nostre spalle. Ci voltammo d’istinto, anche
noi spaventati, ma non c’era niente.
«Prendi» mormorò col fiato rotto e mi diede la Colt, che ancora
stringeva tra le mani che iniziavano a diventar fredde. «Prendi,
spara, spara a quella selvaggia figlia di puttana, non farla avvi-
cinare, no… non fare avvicinare quella… ammazzala, ammazza
that son of a bitch».
«John, non c’è nessuno là avanti».
«Kill her…please».
«John…»
Poi ebbe un sussulto, come se avesse voluto urlare, ma l’aria non
gli bastò. Spirò con gli occhi spalancati e pieni di terrore.
«Stefano, dobbiamo avanzare» m’intimò Umberto, serio.
«Ma… lo lasciamo qui?»
«Sì, dobbiamo andare».
«Ma…»
«Sbrigati» ordinò.
Io annuii, sconcertato, mentre abbandonavo a terra il mio
amico. Mi guardai le mani: stringevo ancora la Colt nella destra.
Guardai alle mie spalle, sperando che non fosse lì, che se ne fossero
andati tutti e due.
«Sbrigati!» urlò ancora Umberto, che intanto era avanti. Mi ri-
misi in piedi e m’assicurai la Colt alla cintura.
Il giorno dopo, il 21 luglio del 1860, del Basso s’arrese. Pure
Milazzo fu in mano nostra.

285
DICIASSETTE
INTERMEZZO, 1889

«Ah, sì…» mormorò e chiuse gli occhi. Per un attimo gli venne in
mente qualche brutta scena di Partinico e se la levò davanti con un
gesto stizzito della mano.
Restò alla luce del lume forse una mezz’ora, poi concluse che ne
aveva avuta abbastanza di veglia e sperò di riaddormentarsi senza
sognare più niente.
Spense il lume e ritornò l’oscurità.
Si rincantucciò sotto alle coperte e si godette quel limbo, quel mez-
zo luogo tra la veglia, ch’era stata un inaspettato piacere, e il sonno,
che avrebbe potuto riportarlo al passato.
«Al passato» tornò a mormorare, sempre facendo eco a quel ri-
verbero nel silenzio.
Cosa poteva fare per riaddormentarsi in fretta e non sognar
niente? «Non c’è maggior piacere del buio. Buio, sempre più buio,
fino a vederci chiaro» commentò, un po’ svagato.
Si girò su un fianco. Il sonno non voleva venire. Sentì il tepore
benigno delle coperte, il piacere delle lenzuola fresche e allora si ras-
segnò: non aveva senso sperare di non sognare.
«Si sogna sempre, purtroppo» mormorò. «Speriamo almeno di
non sognare il mammut».

286
DICIOTTO
REGGIO CALABRIA, 1860

«È come avere i lupi dentro. Ti mangiano, ti straziano, ti strap-


pano le budella dall’interno e non te li puoi levare, non li puoi ucci-
dere. Sto andando avanti coi lupi dentro. Li sento ringhiare mentre
mi mangiano vivo e non sanguino, non esce niente all’esterno. Sta
là dentro, quel branco, dove non posso vederlo: posso solo sentire
il dolore dei morsi» disse Umberto e mi guardò con gli occhi pieni
di lacrime che non potevano uscire.
«Non ce la faccio più, non ne posso più di tutta questa morte
insensata. Basta, basta con le battaglie, con gli assalti, coi cadaveri
che ti guardano di traverso, sbigottiti. Io sono venuto per starti vi-
cino, ma a che è servito? Stefano, a che cosa è servito starti vicino?
A farmi sbranare dai lupi».
Eravamo seduti su un mucchio di macerie, davanti alla piazza
del Duomo di Reggio Calabria ed era notte fonda.
Lui si teneva le ginocchia strette al corpo, con la camicia aperta
al petto e le maniche risvoltate fino ai gomiti. Era pallido, con due
occhi scavati di terrore e tremava debolmente, come una piccola
foglia.
Reggio l’avevamo presa il 21 di agosto, dopo essere sbarcati sul
continente a Melito.
Quella notte era calda e opprimente. Grondavamo sudore e non
si respirava per l’afa. C’era odore di bruciato nell’aria, di polvere,
di macerie. Quel mucchio di pietre su cui stavamo seduti come
eravamo stati seduti tante volte ai piedi di re Carlo, sulla fontana
di Monteoliveto, aveva qualcosa di vagamente amico e ce ne sta-
vamo quasi rintanati là sopra, noi due soli, come ai vecchi tempi.
Lui era sconvolto, disperato, e io non avevo parole per confor-
tarlo, non una singola sillaba che potesse essergli d’aiuto. Mi limi-
287
tavo ad ascoltarlo, con la testa bassa e lo sguardo cacciato tra gli
stivali, sui detriti.
L’unica cosa che riuscivo a pensare era che non m’era venuta
più la febbre, come quand’ero più piccolo e alle prime avvisaglie
d’una forte emozione iniziavo a bruciare come una pira funeraria.
La febbre non m’era venuta più, né in seguito mi sarebbe mai
più venuta. Era tutto ciò che avevo in mente davanti alle suppliche
d’aiuto del mio migliore amico.
«Come farò domani, quando questi lupi non avranno più niente
da mangiare e inizieranno a ululare per la fame? Cosa farò quando
li sentirò gemere e azzuffarsi tra di loro per saziarsi dell’ultimo
brandello di me stesso? Quando inizieranno a morire d’inedia, loro
che sono immortali? Dio mio, non me la toglierò mai la puzza del
branco dall’anima. Non è lo strazio che stanno facendo adesso a
me che mi atterrisce, ma quello che faranno a loro stessi: i demoni
che hai dentro all’anima finiscono sempre per lasciarti la solitudine
e lo sgomento ed è lì che si annida il buio…»
Io lo guardai per un istante: fissava la piazza davanti a noi, dove
in lontananza si scorgeva il fuoco d’un bivacco.
Dovevo dire qualcosa. Maledizione, era mio dovere dire qual-
cosa. Mi avvicinai a lui e gli passai un braccio attorno alle spalle.
Tremò ancora più forte.
«Umberto… io… che cosa potrei mai dirti? Mi dispiace? Non sei il
solo a essere dilaniato dai lupi. Torneremo, stiamo andando a casa, a
casa nostra e tutto sarà come prima, vedrai, staremo bene…»
«Lo sai che stai mentendo…»
«No, ci credo, ci credo davvero. Andremo a bere il caffè sotto
Porta San Gennaro e ci ubriacheremo a Monteoliveto dopo essere
stati alla Suprema sui Quartieri, vedrai, sarà come prima e ci sba-
razzeremo dei lupi. Non è successo niente davvero è… è solo…
uno scherzo… È tutto finto, e tu…»
«Noi i lupi ce li porteremo a Napoli, Stefano. E tu lo sai bene.
I lupi stanno andando a casa nostra, e ce li stiamo portando noi
stessi…»
«Voi li avete mai visti davvero i lupi?» sobbalzammo e ci voltam-
mo di scatto alla nostra destra.
288
C’era un uomo, là davanti, un uomo alto, slanciato con la giacca
di panno scura, il cappello alla calabrese e la pipa tra i denti. Ci
osservava con un mezzo sorriso sulle labbra, da cui scaturiva tutta
la compassione ironica d’un uomo anziano nei confronti dei due
pulcini.
«Buonasera, Parodi» l’apostrofai severamente, perché quel sor-
riso non mi piaceva affatto.
Tommaso Parodi era un genovese e all’epoca aveva l’età ch’io
ho adesso mentre racconto questa storia: sessantanove anni. Era
un uomo alto, lungo come una pertica, robusto. Aveva i capelli
tagliati corti e bianchi e non portava la barba.
Se aveva parlato dei lupi doveva averci sentito. Ripeté: «Voi li
avete mai visti i lupi?»
Non rispondemmo, ma ci limitammo a guardarlo duro, perché
s’era intromesso nel nostro discorso. Non so mica se ne avesse ca-
pito il senso, né tanto meno se avesse intuito di che genere di lupi
stessimo parlando. So solo che si mise a sedere pure lui su quei
detriti, fumando dalla pipa lunga lunga, senza togliersi dalla faccia
quello sguardo insopportabile da sornione.
«Ve la racconto io qualcosa sui lupi, ragazzi miei» e io continua-
vo a sperare che se ne andasse e quasi mi veniva voglia di sparargli
in testa con la pistola della buonanima di Roth, ch’ormai avevo
sempre addosso.
Parodi non s’accorse del mio disappunto e si mise a raccontare
tranquillamente la sua storia.

289
DICIANNOVE
BERESINA, 1812

«Quando avevo la vostra età, nel 1812, ho servito nella fante-


ria della Grande Armata sotto il comando del generale Pino, Iddio
l’abbia in Gloria.
Voi saprete sicuramente che quell’anno all’Imperatore venne
l’idea di andare a stanare i Russi a casa loro e così a primavera
partimmo per Mosca, col fucile in spalla e il fardello sulla schiena.
Io ero poco più d’un ragazzino, avevo appena compiuto ventun
anni e vi confesso che saper d’essere un’unica, minuscola unità di
quel grande fiume d’uniformi blu che era l’Armata di Napoleone mi
faceva venir le lacrime ogni volta che ci pensavo e vedevo la lunga
gobba del serpente che mi precedeva in marcia e la coda, là dietro,
che svaniva quasi all’orizzonte, e che avrebbe calpestato i miei stessi
passi solo molte ore dopo. Ma bando ai melodrammi, comunque.
Meno di una settimana dopo la battaglia di Borodino, s’era già in
autunno, superammo la Moscova, entrammo a Mosca e occupam-
mo il Cremlino. Non potevamo immaginare cosa avessero in mentre
i Russi. Era impensabile. Non erano lì a difendere la città, ma ci lascia-
rono entrare, senza opporre resistenza. A questo punto iniziarono gli
incendi. Scoppiarono prima a Kitaj-gorod, il quartiere dei mercanti,
e poco a poco iniziarono ad avanzare verso il Cremlino. Io ricordo
quelle notti illuminate come da un perpetuo e rubizzo sole di mez-
zogiorno, caldo e crepitante, che si levava dappertutto, alzandosi in
alto nel cielo, con colonne imperiose e tonanti, suonando come uno
sciame di cavallette isteriche. Il fuoco si mangiava tutto, bruciava
qualsiasi cosa sulla quale avessimo messo le mani. Era quella l’idea di
vittoria dei Russi: cada Sansone con tutti i Filistei.
Fu così che ci costrinsero ad andarcene, come si fa coi cinghiali:
ci stanarono con le fiamme e col fumo.
290
Lasciammo Mosca verso il 19 d’ottobre, con in mano soltanto
cenere e poca altra roba abbruciacchiata e con quel bottino dovi-
zioso ci andammo a cacciare dritti dritti in bocca all’inverno gla-
ciale che stava iniziando.
Vedete, il freddo, quello vero, non quello che s’estingue col
fuoco, con la lana e magari con un buon bicchiere di acquavite,
è come un demone senz’anima, come… una specie di… divinità
idiota e inesorabile che spazza, passa, consuma, disperde qualsiasi
cosa incontri sul suo cammino. Noi eravamo partiti in primavera,
con le nostre brave uniformi leggere, e con quelle ci buttammo a
capofitto nelle fauci spalancate del Generale Inverno.
Dovevamo marciare a tutti i costi: quelli che si fermavano a
margine della strada morivano assiderati e si riempivano di ghiac-
cioli, che gli cadevano dal mento, dalla barba, dalle orecchie, come
statue in una piazza martoriata dal gelo. Molti restavano indietro
perché gli arti gli si congelavano e andavano in necrosi. Vedevi
quelle mani, quelle gambe, quei piedi anneriti come tizzoni e io
pensavo che quello doveva per forza essere l’inferno, perché vi
posso giurare che non c’è niente, né fuoco, né fiamma, né lava che
bruci a questa terra come il ghiaccio e la neve.
Era sempre come camminare tra i coltelli, e a ogni movimento le
punte ti penetravano la carne, ti tagliuzzavano i muscoli, ti pungola-
vano i nervi. Aver tanto freddo da sentirne dolore è qualcosa che ti
strappa poco a poco l’anima. Io sono sopravvissuto a quell’inverno (e
guardate se non basti cambiare la “v” con la “f” per darmi ragione),
ma qualcosa, ve l’assicuro, s’è spezzato, perché il freddo è una maci-
na che fa farina dell’anima, la sminuzza, la comprime, la polverizza
tanto all’essenza, che alla fine ti denuda e ti lascia come uno scortica-
to, coi soli muscoli sanguinolenti a contrastar le intemperie.
Comunque, a novembre arrivammo a passare la Beresina, che è
un affluente del fiume Dnepr, e là i Russi ci diedero una bella ba-
tosta e ne ammazzarono tanti come cani su quelle sponde e quelli
di noi che passarono andarono a finire in bocca ai Cosacchi e… ai
lupi.
Una notte, doveva essere la fine di novembre, c’eravamo ac-
campati ai margini d’un bosco che puzzava malamente di Cosac-
291
chi, ma non avevamo scelta, perché eravamo stremati e camminar
di notte non era l’ideale.
Accendemmo dei falò al centro al campo improvvisato e un
altro l’accendemmo al margine del bosco, presieduto da due sen-
tinelle che tenessero d’occhio gli alberi e le sorprese che avrebbero
potuto nascondere.
La notte calò nera, senza una stella, senza una luce, a parte quel-
la dei falò che si levavano alti per quanto il freddo glielo consen-
tisse e noi c’eravamo radunati davanti ai fuochi, stretti gli uni agli
altri, con le facce spaccate dal vento, le mani incancrenite e i coltelli
del gelo che ci dilaniavano le carni, a pisciarci addosso per star più
caldi e per non farci congelare le parti basse.
Stavamo lì, come naufraghi su una zattera in mezzo al mare,
dopo essere sopravvissuti a giorni e giorni di marce e di tormen-
te sferzanti e il fuoco non ci scaldava, le coperte incartapecorite
non ci scaldavano, persino il piscio non ci dava calore. Battevamo
i denti tanto da spaccarceli, e ogni folata più forte del vento ci fa-
ceva sussultare per il terrore d’una nuova tormenta, proprio come
i naufraghi abbarbicati ai legni della zattera temono anche le più
piccole onde, credendole avvisaglie d’una tempesta.
Poi iniziarono gli ululati. Li udimmo prima sommessi, da qual-
che parte, nella direzione del bosco, poi sempre più vicini e incal-
zanti. Oh, figli miei, non vi auguro mai di sentire gli ululati dei lupi
in una notte nera e rigida come quella. Erano lame che si somma-
vano ad altre lame, il terrore che s’addizionava alla disperazione.
Ululavano di fame, di speranza, di felicità. Ci avevano scovati,
lì, nel loro regno d’oscurità e ghiaccio e volevano il loro bottino.
Non ho mai accarezzato più un cane in vita mia, così come ho ter-
rore dei giorni della merla: troppo pelo e troppo freddo.
Si avvicinavano ed erano peggio dei Cosacchi. Non avrebbero
mai raggiunto il fuoco, questo era certo, ma il buio, oh sì, il buio
l’avrebbero occupato e ci avrebbero circondati. Non avevamo la
forza di metterci in piedi, di contrastarli, di sparare addosso a
quelle bestie: eravamo annientati e scimuniti dal freddo.
A un tratto s’udì un grido alto e acuto, che squarciò l’oscurità a
ci tolse la poca saliva che avevamo in bocca. Era l’urlo di qualcuno
292
che non potevamo vedere, d’uno dei nostri. Lo sentimmo urlare,
gridare aiuto, piangere, dimenarsi, strillare come un porco sgozza-
to, poi ne sentimmo un altro e anch’egli emise gli stessi suoni.
Noi tutti, tutti quanti, compreso il generale Pino, restammo a
terra, in silenzio a contemplare le fiamme con gli occhi sbarra-
ti, quella salvezza micragnosa, che dovevamo rinvigorire a ogni
tratto con nuove legna. Restammo a terra anche quando le urla
cessarono e s’udirono ringhi, abbai, rumori nauseanti di lacerazio-
ne, di denti che stridevano sulle ossa e le spaccavano. V’assicuro
che quello fu il momento peggiore, quando li udimmo mangiare,
quand’erano ormai tranquilli, con le prede sotto alle zanne, e liti-
gavano su chi dovesse iniziare per primo il convito.
Quella notte non ho visto un singolo lupo, li ho solo sentiti. A volte,
quando per sfregio la mente mi fa sognare quella notte ignobile, pen-
so addirittura che di lupi non ce ne siano stati e che sia stato qualcosa
d’altro a far quei rumori e a lasciare quelle chiazze rosse e putride di
brandelli che trovammo all’alba. Qualcosa venuta da lontano, dal buio.
Ragazzi miei, voi in questi mesi avete imparato molte di quelle
cose che vi faranno chiamare uomini, quando tutto sarà finito.
Tu parlavi di lupi, figlio mio, ho sentito che cosa hai detto, e tu hai,
purtroppo, ragione. Però, deducendone dalla mia esperienza, posso
dirti una cosa: in questa vita si può essere come quelle pozze di san-
gue e brandelli che imbrattavano le rive della Beresina o si può essere
come quei soldati, radunati davanti al fuoco, che ascoltano l’ululato
dei lupi. La vera vita è questa purtroppo: o morte o un terrore troppo
pieno di speranza. Dipende da te cosa sceglierai: se farti dilaniare dai
lupi o imparare, alla fine, a portarli al tuo guinzaglio».
Parodi tacque e si rimise la pipa tra le zanne. Sul suo volto era
ricomparso il ghigno di compassione, e io e Umberto, malgrado il
caldo e le zanzare feroci, iniziavamo a sentir freddo.
Poi Parodi si alzò dalle macerie, si diede una spolverata appros-
simativa e ci salutò toccandosi la tesa del cappello. Lo guardammo
sparire nella piazza deserta, dirigersi verso il bivacco.
Io e Umberto restammo a guardare muti la piazza sgombra.
«Vedrai, fra poco torneremo a casa» dissi e, sarò sincero, non so se
ne avessi più speranza oppure paura.
293
VENTI
NAPOLI, 1860

Io non rammentavo quanto potesse essere alta la colonna di


fumo che si levava dal cratere del Vesuvio.
Quando la rividi, dopo quei mesi trascorsi lontano, troppo lon-
tano, stagliarsi ciclopica e grigia nel cielo turchese di settembre,
rimasi senza parole, sbigottito.
Era placida, serena, una lenta teoria verticale di ceneri, impertur-
bata dal vento, scura e silente. Ero lì a fissare quel fumo tranquillo
e mi domandai cosa ne sarebbe stato se quella colonna di fumo si
fosse estinta. Un giorno, forse, accadrà che il Vesuvio non fumi più,
e diventi solo una sagoma montana, forse più brulla e spoglia delle
altre, ma pur sempre niente altro che la gobba titanica di un altro
cinghiale addormentato. Accadrà che il Vesuvio si confonda tra le
rocce, che diventi null’altro che una montagna cinta di serti di vite,
com’era ai tempi remoti dei Greci d’Eubea. Non ci sarà più in cielo,
perentorio e inconfondibile, il segno dell’inanità delle nostre cose, la
traccia del fuoco su cui viviamo le nostre misere esistenze senzienti
e quello sarà il giorno peggiore, perché crederemo d’essere al sicuro.
Il futuro è il mondo della sicurezza, quello in cui il Vesuvio sarà
spento. Poi, un giorno, la montagna brucerà di nuovo e tutto quello
in cui abbiamo creduto se ne andrà alla malora dov’è il suo posto.
Ne avevo avute abbastanza di battaglie, di marce, di acquartie-
ramenti e di addiacci. Ero tornato a casa ed ero tornato per restar-
ci. Volevo rivenire al mio posto, nello studio di mio padre, tra i libri
miei e i miei fantasmi.
Io ero e son fatto per il buio, che stiano altri alla luce, quelli che
credono. Chi vive come me, ha da starsene in silenzio. Non è que-
stione d’indole o di scelta, ma è questione di specie: la mia non è
creata per il mondo, ma per la sua ombra.
294
Garibaldi entrò a Napoli il 7 settembre del 1860. Il giorno prima,
re Francesco aveva abbandonato la città e s’era rifugiato a Gaeta,
dove si preparava l’ultima resistenza del Regno delle Due Sicilie.
Negli ultimi mesi Franceschiello, che Iddio l’abbia in Gloria, s’era
dato da fare per migliorare la sua situazione politica, ma senza
successo.
Alla fine di giugno aveva concesso «gli ordini costituzionali
e rappresentativi nel Regno» e aveva adottato il tricolore come
bandiera delle Due Sicilie. S’era addirittura votato a San Gennaro,
deponendo in cerimonia scettro e corona ai piedi del santo, implo-
randone il miracolo. Ma il patrono non aveva ascoltato. Alla fine,
il re si risolse d’accettare i consigli di Liborio Romano.
Don Liborio era un salentino d’oltre sessant’anni, che aveva par-
tecipato ai moti del ’20 ed era stato pure tra i costituzionalisti del
Quarantotto.
Nel 1860 il re lo nominò prefetto di Polizia e nel luglio dello
stesso anno venne nominato Ministro degli Interni. Tuttavia, inve-
ce d’affrontare la questione dell’Esercito Meridionale e di tentare
di frenarne l’avanzata, Romano si mise in contatto con Cavour e
coi piemontesi, per facilitare il nostro ingresso a Napoli ed evitare
scontri inutili.
Fu lui a consigliare Francesco di lasciare Napoli, evitando così di
mettere la città in stato d’assedio ed evitando altri spargimenti di
sangue. Ovvero, fu lui a sbarazzarsi del re senza che questi potesse
difendersi a casa sua, che non mise mai più piede nella città dov’e-
ra nato, che non si segnò mai più davanti alla tomba di suo padre e
a quella, venerabile, di sua madre nella Basilica di Santa Chiara, che
non vide mai più tutte quelle cose belle e dannate che gli avevano
voltato le spalle.
Francesco II lasciò Napoli insieme alla moglie e alla corte senza
portarsi neanche uno spillo dell’erario. Tale quale il suo bisnonno
Ferdinando, che quando lasciò Napoli per la Sicilia sulle navi degli
Inglesi nel ’99, l’Erario di Stato se lo portò tutto con sé.
Liborio Romano organizzò presto la Guardia Cittadina per la
Napoli che attendeva il dittatore nizzardo e la affidò a un certo
signore che conoscevo di nome, o meglio, di fama: Salvatore De
295
Crescenzo, detto Tore ’e Crescienzo. Quando s’andava a cenare
tra amici alla Sangiovannara, l’osteria della Pignasecca gestita da
quella bella toma di Marianna De Crescenzo, che poi si mise a fare
la patriotta dopo la presa della città, il nome di don Salvatore era
pronunciato sempre sottovoce e con rispetto. Era chiamato “il re
della Pignasecca” ed era il peggior camorrista che ci fosse in circo-
lazione. S’era fatto già parecchie galere all’epoca e aveva aperto un
buon numero di pance per assicurarsi la supremazia tra i criminali.
Il patriotta Don Liborio lo volle personalmente a capo di quella
sua Guardia e il bravo Tore si portò appresso i suoi amici, i compa-
ri e comparielli, i soci e gli affiliati: nel giro di qualche settimana la
polizia, a Napoli, fu costituita quasi esclusivamente da camorristi,
assassini, ladri e lenoni graziati.
C’era da vederli al 21 d’ottobre di quel ’60, quando si tenne il
plebiscito per l’annessione al Regno di Sardegna di Napoli e Sicilia:
stavano fuori ai seggi, con le pistole e i manici dei coltelli che usci-
vano dai cinturoni, dando intendere che il processo democratico
aveva due scelte essenziali: o il voto «sì» alla felice annessione o
una bella e lunga coltellata nello stomaco. Comunque… che ci vuoi
fare, è andata così.
Garibaldi entrò a Napoli provenendo da Torre Annunziata. Ar-
rivò in treno, con lo Stato Maggiore e un drappello di guardia, alla
fermata del Carmine, la stessa stazione dipinta a colori vivaci in
cui entrò mio padre nel 1839 per salire sul primo treno italiano.
Lungo l’intero tragitto, il treno era andato a passo d’uomo, per
non travolgere la folla di festanti che s’accalcavano sulle rotaie.
All’arrivo in stazione, il Generale trovò don Liborio in persona ad
attenderlo, felice come una Pasqua.
Salirono su un calesse e un nuovo bagno di folla li investì, e da
ogni balcone, finestra, tetto, pertugio, andito, portone, angolo e
appartamento sventolava una bandiera tricolore.
Le bandiere garrivano con la violenza delle grandi occasioni
nelle mani della folla, la stessa violenza che io avevo dato alle mie
bandierine quando salutavo il re a Largo di Palazzo, la stessa, iden-
tica violenza che ognuno, a Napoli, aveva dato ai drappi col giglio
borbonico durante le cerimonie solenni.
296
Il Generale passò prima al Duomo, dove ascoltò il Te Deum e
poi arrivò a Palazzo Doria d’Angri, in quella che oggi si chiama
Piazza Sette Settembre. Io non ho visto con i miei occhi il momento
in cui Giuseppe Garibaldi si affacciò al grande balcone a lesene del
vanvitelliano Palazzo d’Angri, annunciando al popolo napoletano
l’annessione al Regno di Sardegna. Noi arrivammo il giorno dopo,
a marcia lenta, ed entrammo a Napoli quando ormai la città s’era
acquietata, per quanto fosse possibile. Chi lo vide con i propri oc-
chi e me lo raccontò, disse che l’arrivo di Pio IX, i funerali di Fer-
dinando e l’ascesa di Francesco messi insieme, non furono niente
a confronto.
In cima al Palazzo, tra le statue marmoree, avevano issato il tri-
colore con lo stemma sabaudo. Da ogni balcone che si affacciasse
sulla piazza, sui terrazzi in cima ai palazzi, c’era gente che urla-
va e che brandiva la sua brava bandiera tricolore. I balconi erano
gremiti, come tante formiche fameliche che si abbarbicassero al
grande coleottero per ucciderlo. Tutti volevano vedere Garibaldi,
volevano mostrare il loro entusiasmo, la loro fede, il loro italico
fervore al Generale, volevano convincere la sua barba fulva ch’essi
erano italiani e non borbonici, sventolando le bandiere anche a co-
sto di slogarsi i polsi.
C’era gente che s’inginocchiava, che baciava la terra dove il li-
beratore passava in groppa al suo cavallo, che aveva ripreso dopo
aver lasciato il calessino offertogli da Don Liborio. Qualcuno spa-
rava al cielo, per festeggiare col fragore roboante delle armi la fe-
licità di quel giorno.
Era un tripudio, una bolgia, un caos, un casino di voci, grida,
«evviva» fischi, risate, inni, canzoni, fedi, applausi. Non c’era spa-
zio per muoversi, per passare, per fermarsi: la folla era invasata.
«E pensate, Turati, che quegli stessi uomini, donne e bambini,
quegli stessi patriotti che sventolavano il tricolore con lo stemma
del re Galantuomo, quegli stessi cittadini napoletani, che s’erano
fatti da un giorno all’altro tutti italiani, ebbene (stento a creder-
ci!), quella stessa gente aveva seguito in muto e accorato cordo-
glio la luttuosa teoria del cadavere di re Ferdinando e non cento
anni prima, ma appena nel maggio d’un anno prima! Roba che, se
297
ci penso, mi vien da starci male!» mi riferì quel che mi descrisse
la scena.
Aveva ragione: quella folla aveva acclamato Carlo III nel 1734,
quando era entrato in città alla testa dell’esercito che aveva scon-
fitto gli Austriaci. Aveva celebrato re Ferdinando, quand’era appe-
na un bambino ed era salito al trono, nel 1759. Quella stessa gente
aveva respinto i Francesi e dopo pure i sanfedisti, aveva riabbrac-
ciato, sgolandosi, Ferdinando I per ben tre volte. Aveva osannato
Francesco I, Ferdinando II e Francesco II, partecipando con le la-
crime agli occhi a due di tre regi funerali. Quello era il popolo dei
Borbone, che avevano retto il trono di Napoli per quasi 130 anni e,
adesso, quello stesso popolo, acclamava invasato colui che aveva
portato la fine e l’oblio.
E allora, amici miei, non mi venite a contar le fandonie del so-
pruso e del ratto, perché se le vostre mani avessero brandito le spa-
de e non il tricolore, forse ci sarebbe stata una speranza o, almeno,
una morte più degna. Perché, ricordatelo sempre, il Regno delle
Due Sicilie voi non lo avete perduto. Lo avete abbandonato.

298
VENTUNO
A CASA, 1860

Avevo appena compiuto vent’anni quando bussai alla mia por-


ta, nel giorno 8 settembre del 1860.
Per strada, al Mercato dei commestibili, sulle vestigia della Vil-
la dei Pezzenti, tra i giardini del Largo delle Pigne, c’erano i resti
dell’orgia di benvenuto: carte, cartacce, bandiere strappate, merda
di cavalli nervosi, resti di falò, gente ubriaca e manipoli di lazzari
divertiti.
Bussai ancora alla mia porta e dovetti farlo per tre volte prima
di ricevere una risposta.
«Andate via» proruppe una spaventata voce femminile da die-
tro la porta.
«Sono Stefano, aprite».
«Andate via, via di qui!»
«Aprite, sono Stefano, che sta succedendo?»
«Via, ho detto, oppure sparo!»
«Carla, sei tu? Giovanna? Mamma? Zia Margherita? Sono Stefa-
no, perché non mi aprite?»
Poi udii il timido disserrarsi della porta e nello spiraglio socchiu-
so apparve il volto pallido e terrorizzato di Giovanna.
«Giovanna, sono io» dissi, sforzandomi di sorridere. Lei non di-
schiuse lo spiraglio, né lo serrò.
«Stefano?»
«Sì, sono io» e mi venne da piangere, oh, se mi venne da pian-
gere! Davanti al volto atterrito di Giovanna. Non mi sentii mai
più in pena e in colpa come in quell’istante. Umberto aveva avuto
ragione: avevamo portato i lupi a casa nostra.
Io avevo la barba lunga, ispida e pungente, la giacca tra-
sandata, la camicia rossa lacera e macchiata, il viso e le mani
299
annerite e la povera Giovanna stentò a riconoscermi in quelle
condizioni.
«Sono proprio io» dissi, tra i singhiozzi, davanti a quella por-
ta. L’espressione di terrore nei suoi occhi si mitigò, poi scomparve
poco a poco davanti alla lunga teoria delle mie lacrime.
«Stefano! Oddio, Stefano!» iniziò a dire, in lacrime anch’essa,
con le mani che le si rimestavano in grembo.
A un tratto, mentre osservavo Giovanna piangere su quella so-
glia senza avere il coraggio di varcarla, udii un trambusto nell’an-
drone e un nitrito stridulo mi fece sobbalzare e mi diede un altro
colpo al cuore. «Liccarda» proruppi e rifeci a scendere le scale, mi
precipitai dabbasso, verso la stalluccia della nostra cavallina.
Liccarda era magra, infiacchita, vecchia. Aveva gli occhi opachi e
spossati, a causa dei tanti mesi in cui evidentemente era stata trascurata.
«Liccarda» mormorai, tra i singhiozzi. Il suo pagliericcio era lu-
rido, la biada era poca, l’acqua del suo abbeveratoio sporca. Però
quella giumenta ebbe la forza di sollevare le labbra in quella specie
di sorriso che fanno i cavalli e di strofinarsi la testa rasposa contro
la mia mano incallita. Ebbe la forza di perdonarmi.
Io l’abbracciai, sentii il pulsare del cuore nel suo collo smagrito, la
serenità della sua pena rassegnata, quella che solo le bestie, le vere,
degne creature di questo mondo, possono provare. Essa mi perdo-
nava, perché non sapeva cosa fosse il perdono, m’amava benché l’a-
vessi dimenticata, malgrado la mia assenza avesse determinato che
il rifornimento del suo cibo, della sua acqua e del suo giaciglio fos-
se stato trascurato. Essa m’amava, solo perché poteva ricordarmi.
Oh, Dio mio! Che pena il solo pensare a quegli occhi scuri e placidi,
che sbiadivano poco a poco, a causa d’un’inedia a cui lei non sape-
va come porre rimedio se non con la speranza dell’istinto e qualche
nitrito sommesso. Era così bella la mia povera Liccarda, così buona
e innocente e sincera. Morì un anno dopo e niente potette salvarla
dalla fossa comune riservata anche alle bestie che si amano.
«Stefano…» mi sentii chiamare, mentre ero buttato al collo della
mia cavallina.
Mi voltai e davanti a me c’era il resto di quella ch’era stata mia madre,
tanto somigliante alla mia povera Liccarda: pallida, atterrita, scarna.
300
«Mamma…» dissi con voce tremante, piangendo più forte, sen-
za lasciare il collo della cavalla, che stava tranquilla tra le mie mani,
dalle quali sperava forse d’aver finalmente qualcosa da mangiare.
Mia madre scoppiò in lacrime e mi raccolse dall’abbraccio di
Liccarda e mi portò di sopra, quasi sorreggendomi.
La casa era buia, maleodorante di candele consumate e d’aria
viziata. Era la casa d’assediati, quella.
Entrammo là dentro, e io osservai le marmette del pavimento,
opache, scure e la porta dello studio di mio padre, serrata e silente.
Osservai le cose che vivevano in una mezza esistenza spiritata,
rinchiuse tra quelle quattro mura di salvezza, mentre fuori c’erano
il caos, i camorristi, la guerra e la fine.
«Stefano!» urlò zia Margherita e mi abbracciò col vigore che le
era rimasto, anch’essa disfatta da quei mesi di lenta e inesorabile
agonia. Tra le sue braccia, nell’odore floreale della sua stretta, mi
risentii bambino, per un attimo estremo d’esilio.
Anche Carla mi si buttò al collo, la mia Carla, che all’epoca era
niente altro che una bambinetta.
Poi, mentre ci raccoglievamo in sala da pranzo, mentre vedevo
tutte le cose che avevo abbandonate e che sì, erano cambiate, tra-
sfigurate da quella fine inesorabile che aveva rimestata ogni cosa,
dovetti fare quella domanda di cui intuivo, forse da molto tempo,
la risposta.
«Dov’è papà?»
Ci fu un attimo di silenzio, che fu rotto da un forte e giulivo
nitrito di Liccarda, che venne sommesso dal basso.
Mamma non rispose e si limitò a fissarmi con gli occhi pieni
di lacrime disperate, e io capii, ma tanto già lo sapevo, perché l’a-
vevo visto entrando, là davanti alla porta sbarrata dello studio,
sulle marmette lucide diventate opache del corridoio, nel silenzio e
nell’oscurità segosa di quella ch’era stata la mia casa e che ora era il
rifugio, la tana d’animali braccati, io capii che mio padre stava alle
366 fosse, sul monte Lautrecco, che si chiamava ora Poggioreale,
in quella tomba dove finì mio nonno, mia madre e dove spero di
finirci io, non appena questa vita avrà finito con me il suo sadico
mestiere.
301
«Ha sofferto?» domandai, mentre le lacrime mi si fermavano in
gola, stremate pure esse dalla fatica del ricordo.
«No… è morto nel suo studio».
«Perché non ne sono stato informato?»
«Perché lui non ha voluto».
Fissai per un istante mia madre, poi volsi lo sguardo a zia Mar-
gherita, che stava in un angolo e piangeva in silenzio. Le lasciai in
sala da pranzo e andai in studio, aprii la porta e fui invaso dalle te-
nebre. Tutto era immobile in quella stanza deserta. Le poltrone, la
scrivania, gli scaffali e le vecchie, inutili cose. Pure re Ferdinando
era immobile, là sopra, nell’angusto regno dello stipite. Mia madre
mi seguì, col volto rigato dalle lacrime e rimase sull’uscio, appog-
giata alla porta, mentre io cercavo mio padre, ovunque si fosse
nascosto in quel buio.
«Mamma…»
«Dimmi, Stefano».
«Che cosa c’era scritto nel taccuino di papà?»
«Quale taccuino?»
«Quello nero, di marocchino, che aveva sempre con sé».
«Poesie. Ci scriveva poesie là dentro. Roba d’altri tempi. Lascia
perdere. Vieni, ti preparo un bagno caldo».
«E dov’è adesso, quel taccuino?»
«Dove non potrai mai leggerlo. Lascia perdere, ti prego, figlio
mio. Lascialo andare via, devi riposarti, ora sei tornato a casa».
«Sai, mamma… papà me l’aveva detto. Me l’aveva detto».
«Che cosa ti aveva detto?»
«Che sarebbe finito tutto…»
«Devi solo riposarti adesso. Sei a casa tua. Sei ritornato. Solo
questo, adesso, è importante».

302
PARTE TERZA

IL REGNO D’ITALIA
UNO
IL RE GALANTUOMO, 1861

Io non ho fatto la battaglia del Volturno, né la battaglia del


Garigliano. Non ho combattuto a Gaeta, né sono stato presente
alla resa di re Francesco II. Io non ero a Teano, quando Vittorio
Emanuele intercettò Garibaldi, che aveva fatto la pensata di an-
dar verso Roma e non ho partecipato più a nessuna delle imprese
dell’Eroe dei Due Mondi.
Le guerre, per me, finirono l’8 settembre del 1860, quando ri-
misi piede a casa mia, dopo aver rincorso un fantasma che per
cinquant’anni, poi, avrei dimenticato.
Mi congedai dall’Esercito Meridionale quel settembre stesso, mo-
tivando che alla morte di mio padre ero l’unico in grado di provve-
dere alla mia famiglia. Tanto non avevano che farsene di me: ormai
l’armata di Garibaldi contava quasi 50.000 uomini. Uno in meno, e
per di più disilluso, non avrebbe certamente cambiato le cose.
Anche Umberto fu congedato. Riuscì a dimostrare di non essere
più in grado di combattere e quelli non ci pensarono due volte a
dare il ben servito a un altro inutile, pusillanime.
Finimmo di combattere a settembre, e a febbraio del 1861 Um-
berto aveva già lasciato Napoli.
Una notte molto rigida ci trovammo ancora una volta ai piedi
del vecchio Carlo lo Stregato, con un fiasco di vino tra le mani e le
sciarpe strette fino al collo, come fossimo stati in Siberia.
Avevamo cenato assieme all’osteria quella sera e Umberto ave-
va ricominciato a sorridere come un tempo e ci sembrò d’esser
tornati a prima della guerra, alla nostra scapigliatura.
«Sembra tu stia meglio» dissi, ed ero sincero, veramente sincero
mentre lo dicevo. Lui sorrise, bevve un sorso dal fiasco e me lo
passò.
307
«Meglio… che cosa significhi meglio, è questo che mi doman-
do» rispose e si fece serio, mentre il vento iniziò a sferzarci.
«Sai, Stefano, in tutti questi mesi mi sono chiesto se è stato vera-
mente giusto seguirti in quella tua avventura. Ora bando a tutto,
che vada alla malora! Ora restiamo io e te, seduti qui, ai piedi del
povero Carlo e tutto quello che è stato è passato. L’unica cosa che
posso dire è che sono contento d’essere tornato, sono contento che
tu sia vivo e basta. Non ci voglio pensare più. Basta. Non voglio
pensare più a niente» disse, fissandosi gli stivali scuri.
Io spezzai in due un Toscano e gliene porsi una metà. Il fumo
azzurrognolo salì lentamente e fu strappato via con violenza da
una nuova folata di vento.
«Ho voglia di viaggiare. Ho voglia di cambiare un poco aria»
ammise Umberto.
«E dove vorresti andare?»
«Non lo so, magari a nord».
«E quando vorresti partire?»
«Chi lo sa… M’è dispiaciuto per tuo padre…»
«Me l’hai già detto».
«Ma voglio ridirtelo. M’è dispiaciuto… dove saranno il Cei,
Candiani, Nodari secondo te?»
«Eh, vallo a sapere! Accampati da qualche parte, ubriachi fradi-
ci con questo freddo».
«Erano dispiaciuti…»
«Lo so».
«Li rivedremo?»
«Può darsi. Cei m’ha lasciato il suo indirizzo di Livorno. A Can-
diani non è andata giù come ce ne siamo andati e al Nodari non
interessava».
«Sai che m’ha regalato un suo disegno?»
«Davvero?»
«Sì, l’ha strappato dal suo album, te lo ricordi? Quell’album nero
su cui si metteva a dipingere».
«Che disegno è?»
«Uno scorcio di Marsala».
«Me lo mostrerai».
308
«Sì. Che ne dici se ci leviamo da qui? Fa freddo».
«Va bene».
Poi Umberto diede uno sguardo alla statua vecchia di due secoli
che avevamo in testa e le sorrise. «Buona notte Don Carlo» disse.
Ritornammo in silenzio a casa e ci lasciammo, come al solito,
come avevamo fatto tante volte, sotto l’arco della Porta di San
Gennaro e con le stesse parole che avevamo ripetuto per un’intera
vita: «Ci vediamo domani».
«A domani».
Ma io non rividi Umberto il giorno dopo, né il giorno dopo an-
cora. Umberto lasciò Napoli la mattina all’alba. Me lo riferì sua
madre, quando andai in cerca di lui non avendo più sue notizie.
Andò a nord, come aveva detto. Sua madre mi disse che non
aveva lasciato detto niente per me, né s’era raccomandato di scri-
vermi. Niente.
Seppi, molto tempo dopo, che era stato a Cremona e che aveva
sposato la figlia di un proprietario terriero della provincia e che
viveva in un paese che si chiama Voltido. Ormai sono trascorsi
cinquant’anni.
Spero stia bene, che qualsiasi cosa gli passasse per la mente, or-
mai sia veramente confinata in quella malora di cui aveva parlato.
Glielo auguro di cuore e capisco. Io ti vorrò sempre bene, amico
mio.
Il 17 marzo 1861, in una seduta del Parlamento di Torino, Vit-
torio Emanuele II, il Galantuomo, assunse «per sé e per i suoi suc-
cessori» il titolo di Re d’Italia.
Il Regno delle Due Sicilie era finito per sempre.

309
DUE
LISSA, 1866

Qualche volta, quand’ero a passeggio, mi dilungavo fino a Lar-


go di Palazzo. Me ne stavo in silenzio, a fissare la facciata, i piperni
grigi e l’intonaco rosso e quel tricolore mastodontico che garriva
appeso alla balconata centrale. All’epoca nelle nicchie della facciata
non c’erano ancora le statue dei sovrani di Napoli.
Cercavo di immaginare il silenzio che c’era in quelle stanze, al-
meno nella maggior parte.
Poi, dopo essere stato una buona mezz’ora a congetturare su
quel silenzio, mi rimettevo in cammino e andavo a vedere il mare
alla riviera.
Tuttavia, io non andavo fin lì per incontrare i fantasmi dei
vecchi re, ma per vedere i carabinieri che presidiavano l’ingresso
dell’edificio del Fontana. Fu quello il primo, tangibile segno della
presenza dei Savoia a Napoli.
Mi incuriosivano, i carabinieri. Non erano così diversi dai poli-
ziotti che avevano sempre affollato le strade di Napoli, ma aveva-
no qualcosa di alieno che li rendeva affascinanti.
Cominciarono ad arrivare a drappelli sempre più folti, assieme
ai bersaglieri che andavano a sud, a far guerra ai briganti che infe-
stavano la Lucania, le Puglie e la Calabria.
Li vedevo in strada, con la loro uniforme nera, la penna rubiz-
za alta sul cappello e non potevo fare a meno di osservarli, era
più forte di me. Non avevano l’aura fabulatoria dei soldati della
mia infanzia, né di quelli che avevo combattuto in Sicilia. Affatto.
Erano soldati moderni. Erano i soldati di quel cavaliere che aveva
sconfitto il drago.
Quel cavaliere era sceso dalle montagne impervie e gelate del
Piemonte e aveva percorso una lunga, lunghissima strada, da
310
quando era nato tra le armi di quel Biancamano, il conte montana-
ro, nell’anno Mille.
Ora era lì, sotto forma di carabinieri e ci sarebbe restato. Napoli
si riempì di quei soldati fedeli al re, più che al regno. Si riempì di
piume.
Dalle provincie, dai contadi, dalle campagne remote, dalle coste
e dalle valli lontane di tutto il meridione venivano tante storie ter-
ribili su quel che i soldati piumati facevano.
Si parlava di morti decapitati, le cui teste erano finite sulle pic-
che, all’ingresso dei paesi. Si parlava di famiglie decimate, di case
date alle fiamme, di donne stuprate.
Molte storie sembravano fiabe del Basile, tant’erano efferate e
crudeli. Nel ’63 fu promulgata una legge apposta, la Legge Pica,
che aveva lo scopo di debellare il brigantaggio nel meridione e que-
sto serviva a normalizzare l’idea d’una guerra giusta.
Però le storie non cambiavano, anzi. Più la legge si vociferava
giusta, più arrivavano truppe su truppe e scomparivano all’oriz-
zonte, a sud, a fare il loro mestiere. E lo facevano bene, i piemon-
tesi, quel lavoro, tanto che questa parola, poi, piemontese, ebbe un
brutto, bruttissimo significato.
Erano così solerti che spararono pure a Garibaldi, in Aspromon-
te, mentre tentava una nuova avanzata verso Roma. Lo ferirono a
una gamba e allora addio “Roma o morte”.
Molti ragazzi, poi, erano costretti a prestare il servizio di leva,
perché, con un’altra legge, il governo aveva ritenuto necessario
arruolare un numero maggiore di unità per contrastare il brigan-
taggio e anche per metter in atto quel colpo di mano che avrebbe
messo fine al dominio austriaco sul Veneto.
Mi ricordo quei ragazzotti dall’aria spaesata e incredula, che
venivano dalle provincie più remote, dalla Sila, dal Capo di Leu-
ca, dal Tavoliere, dal Melfitano, da Caltanissetta, con l’uniforme
nuova e lustra indosso e un paio d’occhi sbarrati di meraviglia, che
vagavano per le strade troppo grandi di Napoli come Pulcinella
spaventato dalle maruzze.
Li riconoscevi subito, a causa del loro modo di fare cascante,
per l’atteggiamento remissivo o anche per una spavalderia che ce-
311
lava il terrore di star lontani dal paesello. Quante terre, poderetti
e campi sono andati in malora per l’assenza di quelle braccia! E
quanti, tornati a casa dopo il servizio, se mai segnati nei nervi da
qualche impresa di guerra “straniera” com’erano tutte quelle com-
battute in nome della Nazione, sarebbero finiti poi sui piroscafi
infami che andavano in America, svuotando ancor di più quelle
campagne disperate.
Ricordo, quando ci fu la Battaglia di Lissa, nel luglio del 1866,
quella stessa battaglia che il Verga descrisse come una rissa da ta-
verna, le navi cariche di feriti, di morti e di mutilati che ormeg-
giavano al Beverello, discaricando il loro pieno di disperazione,
ributtando a terra quei giovanotti destinati a tornare a casa senza
più le braccia per armarsi di zappa, buoni ormai a nulla, con gli oc-
chi ancora pieni di terrore per aver visto in quanto, poco, terribile
tempo una corazzata possa riempirsi d’acqua e colare a picco, con
la stiva ancora piena d’uomini che piangevano afflitti. Tutto que-
sto era per il Veneto, che loro, forse, non sapevano neanche dove
fosse sulla cartina, ma lo facevano, perché lo volevano le leggi.
Io non sto qui a revisionare la storia, né mi interessa, perché se si
doveva fare, s’è fatto. Però devo dire che la malora dei Savoia non
è diversa dalla malora dei Borbone.
La malora, la malora, solo questo resta alla fine, la rovina fati-
dica di tutte le cose.
Si dovevano redimere le terre che erano italiane e stavano sotto
il giogo straniero e servivano soldati e soldi e noi ne avevamo tanti,
o almeno così sembrava. Io sono d’accordo, perché mi sento italia-
no e mi piace sentirlo, perché non mi piace sentirmi straniero, non
voglio. Essere solo qualcosa, a metà, solo napoletano mi fa male,
non lo accetto. Ho fatto anche io la guerra d’Unità, dopo tutto,
sebbene avessi idee diverse.
Quello che è vero è che, come credevo, il cavaliere non è meglio
del drago, anzi. Il cavaliere è peggio, ma questo l’ho già detto e non
vale la pena ripeterlo. Il cavaliere è più pericoloso, perché ragiona,
non è una furia devastante, che sputa fuoco, che ingombra. No.
Manda le avanguardie a fare il lavoro sporco ed è un lavoro che
non si vede, che sta in provincia.
312
Alla fine, quel che ho inteso è che non vale la pena sprecarsi a ca-
pire le dinamiche di questa umanità. Il drago o il cavaliere, non ha
importanza, sarà sempre uguale, perché è l’uomo il guaio che non
si risolve. Ci ammazzeremo sempre e in ogni circostanza, grazie
a Dio, con le divise blu dei borbonici o con le nere dei carabinieri,
con le piume in testa o con le camicie rosse, a mare come a Lissa o
a terra come in Aspromonte e forse, un giorno, persino per aria.
Questa è l’unica certezza: la guerra.
Tutti quei giovani che vennero dal sud a fare i militari, quelli
che s’imbarcarono sui piroscafi diretti in America, quelli che spe-
sero i patrimoni di famiglia per pagar le tasse, tutti, tutti quanti
non hanno fatto altro che essere vittime in quel carniere che non si
colmerà mai, né si svuoterà, ma che inesorabilmente, nei secoli dei
secoli a venire, continuerà a esser pieno a metà e a far dondolare la
zattera della coscienza tra il giusto e l’ingiusto.
Questo è. È la guerra a renderci genuinamente, inesorabilmente,
assolutamente esseri umani. Né Borbone, né Savoia avrebbero mai
potuto modificare questa verità impronunciabile.
È per questo motivo che io preferisco, ormai, l’ombra: almeno
da qui posso star a guardare la luce senza la speranza che non
venga dal fuoco.
Adesso basta, però. Meglio parlar d’altro ora che ci avviciniamo
alla fine. Devo raccontare un’ultima cosa prima di tacere e voglio
farlo col cuore sereno, per quanto mi sia possibile.
Devo raccontare di quando ho conosciuto Monica Gemito.

313
TRE
IL PROFESSOR TURATI, 1867

Per lunghi anni, dopo la morte di mio padre, io ho avuto gli


incubi, che mi tenevano sveglio per ore durante la notte.
Il guaio più grosso di questi sogni, era che li avevo già fatti qua-
si tutti. Avevo già sognato, almeno una volta, quelle mostruosità.
Erano sogni d’infanzia, soprattutto, così che di notte, mio malgra-
do, ero costretto a ritornar bambino. Mi svegliavo in preda al pa-
nico, sudato, confuso sperando davvero che le cose dei miei incubi
non fossero annidate da qualche parte nella mia stanza.
Il sogno più vivido era quello del mammut, che mi tormentava
spesso quand’ero bambino e che adesso si palesava sempre più di
frequente, forse proprio perché era quello che mi terrorizzava di più.
Ancora oggi ho qualche incubo, ma sono assai più rari rispetto
a prima. Oggi sogno la giovinezza e ammetto che mi fa assai più
paura di quel gigante lanoso che mi tormentava da bambino.
Non so se per il timore che mio padre non fosse nell’altra stanza,
pronto a tranquillizzarmi, oppure per il senso di colpa che covava
dentro di me, ch’io ebbi quegli incubi tanto frequenti. So solo che
non piansi più, dopo quella mattina di settembre, ma alle lacrime
si sostituirono i brutti sogni.
Ero l’unico uomo, ormai, in casa. Avevo ereditato lo studio, ave-
vo ereditato la biblioteca, le vecchie cose polverose, i manoscritti
manzoniani, il ritratto di Ferdinando. Ora mi sedevo io dall’altra
parte della scrivania e non c’era più la fila dei clienti che strisciava-
no le marmette coi loro stivaletti di vernice.
Mio padre, oltre tutto, m’aveva lasciato pure una cospicua ere-
dità, che le tasse esose del nuovo stato non riuscirono a intaccare.
Era un insieme di titoli, di buoni, d’oro stipato e altre ricchezze che
papà aveva prudentemente salvaguardato in tutti quegli anni.
314
Avrei potuto pure vivere di rendita, anche perché possedevo al-
cuni appartamenti in affitto, che mi fruttavano una lauta pigione
ogni mese, ma visto che una laurea ce l’avevo (avevo ripreso gli
studi dopo la guerra), mi misi a dare lezioni private a prezzi modici
ai ragazzini, tanto per ingannare il tempo.
Dopo l’Unità, la legge Casati in materia di scuola, che fu pro-
mulgata dal parlamento di Torino nel 1859, venne estesa anche ai
territori dell’ex Regno delle Due Sicilie e così il comune di Napoli
dovette creare gli istituti scolastici secondo la nuova normativa.
Fu in quegli anni, per esempio, che nacque il liceo classico Vittorio
Emanuele II, nell’antico complesso della Chiesa di San Sebastiano.
Tuttavia, i dati dell’alfabetizzazione in Italia erano allarmanti,
poiché la maggior parte della popolazione non sapeva né leggere
né scrivere. I bambini e i giovani che venivano da me a lezione era-
no quasi tutti figli di famiglie abbienti, che potevano permettersi,
oltre al sussidiario, di poter spendere la mia parcella, che io, per
Grazia di Dio, potevo permettermi di tenere bassa. Però migliaia e
migliaia di bambini e di padri, madri, nonni continuavano a non
saper fare l’O col bicchiere e in futuro i figli e i nipoti di quei bam-
bini non sarebbero stati diversi dai loro parenti. Ma lasciamo stare.
Tenevo lezione nel mio studio, sotto gli occhi placidi e tristi di re
Ferdinando, circondato dai miei libri e dalle tante cose strane che i
miei alunni guardavano sbalorditi.
Possedevo tante cianfrusaglie, che mio padre m’aveva lasciato
assieme ai libri: dagli animali impagliati, alle conchiglie variopinte;
dai fossili di milioni d’anni, agli astrolabi; dalle lettere del Manzoni
incorniciate, alle reliquie di santi; dai modellini in scala di vascelli,
alle anforette, i cocci e le monetine d’epoca romana.
I ragazzini facevano tanto d’occhi a quei cimeli e si distraevano
facilmente quando questo o quell’oggetto attirava la loro atten-
zione. Era lo studio d’un avvocato il mio, ordinato al fine di sba-
lordire il pubblico dei clienti sull’erudizione dell’azzeccagarbugli,
non certo il luogo più adatto per tenere a freno la fantasia d’un
bambino.
Più d’ogni cosa, a incuriosire quei ragazzini era il ritratto di Ferdi-
nando. Li spiavo, a volte, mentre erano voltati a contemplare l’effige
315
malinconica del vecchio re, con aria diffidente. Qualcuno, più ardito,
s’arrischiava di domandare pure al “signor maestro” chi fosse quel
decorato barbuto ritratto là sopra, e io dovevo raccontargli la storia
del vecchio re, che già a quel tempo, ormai, sembrava il cunto delle
vecchie, la fiaba pei pargoli e loro mi fissavano incantati, spalancando
la bocca nella meraviglia che solo le leggende riescono a suscitare.
Ho avuto molti bambini in questi anni alle cure dei miei inse-
gnamenti e mi son preso belle soddisfazioni, perché alcuni, poi,
sono ritornati da me a mostrarmi il diploma di laurea, per gratitu-
dine o per ripicca.
Una volta, però, si presentò fuori orario di lezioni una bambina,
che mi fu annunziata da Giovanna mentre me ne stavo a poltrire,
leggendo uno dei miei soporiferi libri.
Io ero diventato quello che mio padre, per sua fortuna, non fu
mai: un grasso, placido, solitario e disilluso intellettuale. M’erano
bastati sei anni per dimostrarne il doppio: ero ingrassato assai.
Qualche volta andavo a passeggio, ma starmene rintanato al cal-
duccio, “papalina, palandrana e babbucce” era un sollazzo assai
più rinfrancante, assieme ai piatti egregi che Giovanna preparava
e dei quali domandavo sempre doppia porzione.
Comunque, mentre me ne stavo nella beatitudine dello studiolo,
davanti a un fuocherello magro che bruciava nel camino, Giovan-
na venne a distrarmi dai miei pensieri e a dirmi che una bambina
«si stava lavando le mani con la calce nel tinello».
Era scoppiato di nuovo il colera, subito dopo la fine della guerra
contro l’Austria e, sebbene fossimo in inverno e il morbo si fosse
tranquillizzato, non era prudente lasciare qualcosa al caso e le vec-
chie profilassi erano rientrate in vigore.
Dissi a Giovanna di far passare la bambina, sebbene mi desse
noia esser distratto da quella quiete.
Poco dopo vidi entrare alla mia porta una creaturina magra e
pallida, con due occhi sottili come mandorle e luminosi, il volto
lungo e grazioso. Era imbarazzata di star lì, tutta sola. Doveva
avere dieci anni o forse qualcosa in più.
Mi sedetti alla scrivania, dove era bene accogliere gli alunni.
«Vieni, accomodati» le dissi e lei si fece avanti, andandosi a se-
316
dere proprio di fronte a me. Ci fu qualche istante di silenzio, che
la bambina spese a farsi capace della quantità di cose strane che
la circondavano, al che le domandai: «Come ti chiami, bambina?»
«Monica Gemito».
«Quanti anni hai?»
«Ne ho compiuti dieci».
«Che cosa potrei fare per te, Monica?»
Voleva che le insegnassi a leggere e a scrivere, poiché non anda-
va a scuola. «Non possiamo permettercelo, io e la mamma» disse,
continuando a guardare le strane cose che le stavano intorno coi
suoi sottili e guizzanti occhi castani.
Io ero abituato a parlare prima coi genitori dei miei alunni. Di soli-
to erano padri austeri o madri dal cipiglio severo, che mi lasciavano lì
i loro discoli con fare autoritario, esasperati d’essere giunti al Calvario
della lunga passione delle loro male condotte, affinché io finalmente
rimediassi al guaio incancrenito della loro svogliatezza. Questa volta
l’alunna s’era presentata da sola ed era una cosa ben rara.
Monica vestita con un abitino scuro un po’ leggero per la stagio-
ne e con uno scialletto sulle spalle che le cadeva a terra penzoloni.
Mi parve tremasse.
«Hai freddo?»
«Sì».
«Vieni, sediamoci in poltrona a parlare, così potrai riscaldarti
un poco al fuoco».
Aggiunsi un ciocchetto alle braci e vi soffiai su, per ottenere una
fiammella sfavillante.
«Come mai sei sola? Perché la tua mamma o il tuo papà non ti
hanno accompagnata?»
«Mamma lavora tutto il giorno all’osteria, non può venire. Papà
non ce l’ho».
«Mi dispiace» parlava un napoletano liscio, discreto, pulito e
sapeva pure spiccicare qualche parola in italiano un po’ fluente.
Avevo già molti alunni a quel tempo, che mi tenevano occupato
gran parte del giorno, ma quella bambina singolare non potevo
farmela sfuggire. Mi piacevano i suoi occhi, mi piaceva la sua voce
e m’inteneriva il suo viso furbo. Era una delizia.
317
«Vediamo un poco cosa ci dice la vecchia agenda» dissi, e con-
sultai il mio quaderno degli appuntamenti, per trovarvi un buco in
cui inserire Monica.
L’agenda era piena, ma non demorsi: volevo insegnare a quella
bambina. Molti dei miei piccoli alunni erano recalcitranti, recidivi,
viziati, antipatici. Quella bambina no, per niente. I suoi occhi di-
mostravano un’intelligenza sopita e un poco ingenua, e tutta la sua
figura di micia tremante mi diceva d’una esuberanza acquietata
con fatica, che io volevo scoprire a tutti i costi.
Alla fine, ebbi la meglio contro i miei appuntamenti. «Potrai in-
cominciare a venire martedì prossimo, alle ore 15:00 in punto».
Mentre fissavo l’orario, entrò Carla, recando un vassoio di biscotti
e latte da servire all’ospite. Era usanza, in casa mia, che prima d’o-
gni lezione si servisse latte e biscotti ai bambini: questo li metteva
in animo di far meglio il loro lavoro.
A quella vista, sogguardando Carla con un po’ di diffidenza,
Monica non riuscì a trattenere un sorriso.
S’avventò sui biscotti e ne mangiò un paio con la voluttà dei
bambini che non hanno accesso alle leccornie.
Io la guardai bere il latte e mangiare quei biscottini al burro con
una soddisfazione che pochi dei miei alunni riuscivano a infonder-
mi. Era energica, ma non avida, quella sua fame. Era l’esuberanza
che traboccava, oltre quella maschera di posatezza che trovavo le
stesse male.
Sorrisi e lei se ne accorse e, imbarazzata, tentò di ritornare di-
screta, ma il sapore dei biscotti era troppo compromettente. Conti-
nuò a trangugiare con voluttà quei biscottini, che se ne andavano
in quel suo corpicino magro e lungo. Sì, quell’alunna m’era sim-
patica.
«Dovrò parlare, però, anche con la tua mamma».
«Ma non può».
«Dovrà trovare un po’ di tempo per me, è importante per la tua
educazione». Non mi ascoltava, le leccornie diedero via alla loqua-
cità, gli oggetti dello studio la cementarono.
«Ci sono tante belle cose qua dentro, maestro. Tantissime. Le
voglio sapere tutte».
318
«Allora sarò ben felice di dirti il nome di tutte queste cose, se
vorrai».
«Ma tu sei sposato, maestro?»
«No, Monica, non lo sono».
«Dovresti! Tutti i vecchietti sono sposati. Perché tu non lo sei?
Hai paura?»
Non riuscii a trattenere una risata, che un po’ la spaventò.
«No, Monica, non ho paura. È solo che non ho trovato una fi-
danzata».
«No? Perché no?»
«Non lo so».
«Dovresti trovartela la fidanzata, perché se no diventi troppo
vecchio».
«Hai ragione. Dimmi un poco, dov’è che lavora la tua mam-
ma?»
«Alla via dei Tribunali, di fronte ai portici. Vuoi chiedere alla
mia mamma di essere la tua fidanzata? Non so se le piaci, tu sei un
po’ grasso, maestro».
Altra, grossa, risata. Non c’era malizia in quelle sue parole, non
c’era malignità. Erano semplicemente cose vere, che lei non riusci-
va a esimersi dal rivelare. Lo vedevo in quei suoi occhi lucenti: lei
era come Liccarda, innocente e buona.
«Non voglio chiedere alla tua mamma di essere la mia fidanza-
ta, voglio parlarle di cose da adulti e per il bene tuo. Vuoi qualche
altro biscotto?»
Non disse di sì, ma me lo fece intuire con gli occhi.
Chiamai Carla e feci portare altri biscotti e ne feci mettere qual-
cuno in una busta di carta, perché li portasse via con sé.
Domandai a Monica se possedesse un abbecedario, ma lei negò,
imbarazzata. «Non fa niente, provvederemo» la rassicurai.
«Bene, bambina mia, incominceremo martedì venturo. Mi rac-
comando, sii puntale».
Monica mi salutò con riverenza e uscì dal mio studio accompa-
gnata da Giovanna. Rimasi tutta la serata con un sorriso celestiale
stampato sulle labbra.

319
QUATTRO
IL MERCATO ROTTO E LUIGI SETTEMBRINI, 1867

Alla fine, il Mercato dei commestibili l’avevano affossato. Nel


1867 fu ultimato un grande edificio rosso pompeiano e antracite,
proprio là dov’era lo spiazzo del Mercato, che continuava a esiste-
re solo per metà.
Vidi salire quel palazzo dai miei balconi, issarsi giorno dopo
giorno sempre più in alto, togliendomi così la vista vaga e ama-
bile del lontano Capodichino, dove sorgeva un tempo il Campo di
Marte e dove Agesilao Milano aveva infilzato il re.
Il Mercato s’era spezzato e ne restava una parte menomata e
tronca. Ci andavamo ancora a far le spese al Mercato rotto, e io
ci andavo per ricordarmi d’un tempo ch’era stato cancellato dagli
anni e dalle circostanze, ma al posto dell’odore inebriante delle
graffe, sentivo quello terroso della polvere che s’alzava dal can-
tiere.
Per molti anni la polvere ha regnato su Napoli e ci regna ancora,
almeno fin quando i lavori del Risanamento non saranno finiti.
Quando iniziarono il Corso Umberto, verso il ’90 o giù di lì, si
vedevano queste grandi nuvole grigie di polvere volteggiare nell’a-
ria, trasportate dal vento, che si posavano su tutto e su tutti, così
che dovevi sempre stare a spazzolarti i vestiti e a spolverare i mo-
bili che s’imbiancavano.
La polvere veniva con noi a letto e si faceva trovare al nostro
risveglio già arzilla al desco della colazione. La trovavamo sui mac-
cheroni a pranzo e ce ne portavamo sempre altra appresso al ritor-
no da ogni passeggiata. Allora si faceva opale là dove s’era posata,
così che tutto appariva come trasfigurato in una fantasmagoria.
Ci aveva portato quello il nuovo regno, la polvere. Ne mangia-
vamo a quintali, ne sopportavamo gli effetti sui polmoni e sul-
320
la pelle, così che ci sentivamo sempre sporchi e pareva che anche
dopo la tinozza essa continuasse imperterrita a coprirci le carni.
Eravamo diventati fantasmi, tant’eravamo bianchi di polvere.
Tutto per eludere il colera, dovevamo trasformarci in spettri per
scongiurare il colera. Questo era stato il pensiero del re e del sinda-
co Nicola Amore.
Anche prima del 1884, quando ci fu l’epidemia del ’67, si ini-
ziarono a sventrare le strade, a coprire la terra col calcestruzzo, a
rompere e affogare. Insomma, ad alzare polvere.
Era così toccata anche al Mercato dei commestibili la sorte di
finire sotto la polvere e sotto la mole ciclopica d’un palazzo, fino a
ridursi a quel ch’è ora, un vicolo tra gli edifici dove vendono i fiori.
È il destino toccato a molte cose negli anni della polvere.
Una mattina, un martedì, lo ricordo perché alle 15:00 avrei avu-
to lezione con Monica quel giorno, mi trovai a far compere nella
salumeria di Don Fortunato Pane, che teneva bottega (e ora la tie-
ne suo figlio, Pasqualino) in via dell’Orticello.
È una bella ed elegante bottega quella che mise su Don Fortu-
nato: la volta decorata d’affreschi, le scaffalature in mogano, il
bancone splendente in marmi policromi di Verona, Marquina e
Carrara e ogni dovizia di salumi, caci e prosciutti essudanti. En-
trare in quel negozio è come star in un museo del buon vivere,
tanta è la meraviglia suscitata da quei tesori mangerecci. Una volta
mi complimentai col signor Pane della cura ch’egli destinava all’e-
sposizione dei suoi prodotti e con un sorriso serafico rispose: «Eh,
professore, anche un capello fa la sua ombra!»
C’era solo un altro avventore quel giorno oltre me. Egli discute-
va con Don Fortunato, ch’aveva all’epoca i suoi trent’anni: magro,
di bassa statura, con un bel paio di mustacchi sottili e impomatati
e sempre vestito elegante.
Riconobbi subito il cliente, perché abitava di fronte alla salume-
ria e l’avevo visto spesso: era Luigi Settembrini.
Il Settembrini, a quel tempo, aveva più di cinquant’anni: la bar-
ba a giro mento e i favoriti candidi, la figura un po’ rotonda e
appesantita e gli occhi piccoli e placidi del letterato di mestiere. In-
dossava un abito alla moda, con la redingote lunga, il cappotto di
321
lana leggera, perché s’era a fine inverno, e la tuba lucida in capo. Io
lo conoscevo di persona, perché c’eravamo presentati una volta e
perché il Settembrini aveva conosciuto mio padre e, naturalmente,
sapevo della sua fama.
Il salumaio e lo scrittore stavano discutendo di politica e lo fa-
cevano spesso, poiché ci trovavano gusto, essendo il cavalier Pane
un moderato nostalgico borbonico e il Settembrini uno dei principi
del liberalismo napoletano.
Datosi che ci si confessa meglio con quelli che t’empiono la pan-
cia, che con quelli che t’empiono l’anima, il Settembrini si stava
accendendo, ripensando ai fatti di novembre, quando Garibaldi
era stato sconfitto dai franco-pontifici a Mentana e, questa volta,
pareva che Don Fortunato, anziché tenergli testa per poi farsi bat-
tere alle somme, quando la parlantina del professore si faceva più
arguta e incalzante, gli desse ragione, se non altro per goder della
tirata vivace del Settembrini.
«Oh, bene, ecco il professor Turati, che di certo mi darà ragione,
lui che è la voce della gioventù e della causa a un tempo solo» pro-
ruppe Settembrini vedendomi, e i suoi occhi placidi s’accesero di
soddisfazione, senza accorgersi che non si stava battendo, perché
pure Pane gli dava ragione. «Qual è la questione, professor Settem-
brini?» domandai.
«Si discuteva di Mentana».
«Ancor vi scotta?»
«Ancor mi scotta? Oh bella, certo che sì che scotta! E a voi do-
vrebbe scottar più di tutti, che avete servito nell’Esercito Meridio-
nale» rispose lo scrittore, con un pizzico di rimprovero nella voce.
Io sorrisi, perché non avevo gran voglia di discutere, ma solo di
comperar quelle quattro cose di cui avevo bisogno e di tornarmene
tosto a casa, per approntarmi alla lezione con Monica, che mi risol-
levava e mi dava il sorriso.
«Avete ragione, professore, ragione da vendere. Questo è quello
che c’è toccato in sorte, benedetta Italia: polvere e delusioni.
Io rammento dopo Palermo, quando arrivò La Farina, ch’era
stato mandato da Cavour a tener d’occhio la situazione, che noi
non s’avesse intenzioni balzane, soprattutto dopo la presa di Na-
322
poli, ch’era reputata cosa assai certa a quel tempo, e ci venisse il
ghiribizzo di puntar su Roma, rischiando di calpestare i piedi a
Napoleone.
Già all’epoca cominciarono la campagna denigratoria, le anghe-
rie, le cattiverie contro il Generale e noi, suoi seguaci.
Ricordo le tirate di Crispi, che arrivò addirittura a dimettersi dal
Segretariato di Stato a causa delle insinuazioni di La Farina, tanto che
Garibaldi dovette espellere quel messinese cavouriano dalla Sicilia.
La verità è che non ci hanno mai potuti vedere, né a noi né al
Generale, facevamo paura, perché volevamo le cose fatte per bene:
Italia Unita e Roma Capitale.
Alla fine, come al solito, ai giusti tocca la malora. Prima gli
espurghi del Thaon di Ravel dei garibaldini dall’esercito “regola-
re”, poi Aspromonte, dove i bersaglieri hanno avuto pure il corag-
gio di ferire Garibaldi, quindi la convenzione di settembre e in fine
Mentana.
S’è combattuto col sangue agli occhi solo per esser poi trattati
peggio dei briganti di Lucania e Calabria, e tanti bravi giovani ci
hanno rimesso la pelle su quelle terre di Sicilia e sul mare, come
il povero Nievo, che è colato a picco assieme all’Ercole e a tutte le
carte dell’amministrazione e chissà quante ne avrebbero rivelate,
quelle carte!» dissi, con una certa enfasi e con un accento commos-
so, che mi piacque assai, perché quei due cristiani, per fortuna,
non sapevano in realtà come la pensassi in merito, né il motivo
vero per il quale avevo fatto la guerra.
Il Settembrini parve soddisfatto, con l’aria del professore che
si trovi davanti all’esame un giovine preparato, e il cavalier Pane
annuiva gravemente, non sapendo, forse, come darmi torto e così
io potei comperare in santa pace il prosciutto e un po’ di cacio. Alla
fine, anche Settembrini tornò dall’Olimpo e chiese a Don Fortuna-
to tre etti del solito prosciutto, «tagliato doppio» di cui era assai
ghiotto e così il pizzicagnolo poté tornare al suo mestiere, che è
forse il più bello di tutti quanti: dar soddisfazione alla carne.
Coi pacchi della spesa sotto al braccio, io e Settembrini uscimmo
assieme dalla bottega e ci fermammo un attimo sul marciapiede a
parlar ancora un tratto.
323
«Mi dovrete mostrare quelle lettere e quel Cinque maggio auto-
grafi, prima o poi, professore» mi disse, con un sorriso che stava
a metà tra il rimprovero (poiché glielo avevo promesso una volta,
senza mai mantenere la parola) e l’imbarazzo puerile dell’appas-
sionato.
«Avete ragione. Non mancherò, così potrò chiedervi di presen-
tami al professor De Sanctis, che da tanto tempo desidero cono-
scere di persona».
«Un giovane assennato, un intellettuale e un patriota come voi
non ha bisogno di presentazioni, caro Turati» rispose cordiale.
A un tratto, transitò per strada un carretto cigolante e scrostato,
trainato da un mulo rognoso, che scendeva dagli Incurabili. Due
uomini badavano al mezzo, uno tenendo per la cavezza l’animale,
l’altro venendo dietro con una grossa pala in groppa. Erano vestiti
d’abiti cenciosi e biancastri, tutti e due mogi e svigoriti, con l’aria
dei monatti e le cornee rosse e irritate. Portavano la calce, che se-
minavano per strada come granaglie, l’unico rimedio per il colera.
«Speriamo che stavolta passi presto» commentò amaramente
Settembrini, osservando lo spettacolo triste dei due spargitori di
calce.
«Posso farvi una domanda, professore? Quando stavate in
prigione a Santo Stefano, col Pironti e col Poerio, immaginavate
questo? Io ho voluto fare il patriotta, là davanti a Don Fortunato,
perché è un galantuomo e merita almeno di credere che i vecchi
re siano stati spodestati in nome d’una causa giusta. Io l’ho fatta,
la Spedizione dei Mille, sì, ma per che cosa? Per veder Garibaldi a
Caprera, in esilio, e tutto quello che è stato male, diventar peggio-
re? Voi pensavate a questo in quella galera, dopo il Quarantotto,
quando odiavate Ferdinando e la stirpe dei Borbone?»
Settembrini mi fissò e i suoi occhi placidi s’intristirono e mi sem-
brarono quelli del vecchio monarca nemico che mi fissava tacitur-
no dallo stipite della porta dello studio.
«Dovremmo bestemmiare la memoria di Ferdinando II, è sua la
colpa di questo» proferì, con una voce rotta dallo sdegno e dalla
nostalgia, che si stava impadronendo della sua fisionomia bonaria.
«E perché mai dovremmo bestemmiare il Borbone?» domandai.
324
«Se egli avesse impiccato noi altri, oggi non si starebbe a questo;
fu clemente, e noi facemmo peggio».
«Il re è andato a far parlar bene di sé, là tra i più. Non è più affar
suo questo. Non credo gli facciano gran che le bestemmie».
«Avete ragione, Turati. Avete ragione da vendere. A parlare
sono la stanchezza, i tanti anni e le troppe delusioni. Certe volte mi
vien pure l’idea balzana che, forse, era meglio quando c’era quel
vecchio barbuto e improsciuttito re Bomba sul trono e mi devo
pizzicar la pancia per non bestemmiare davvero a quei pensieri
e far come quei vecchi bacucchi che lodano il passato solo perché
erano giovani e avevano la forza di combattere e a cui piace quel
che è stato perché non è più.
Comunque, per rispondere alla vostra domanda, no, non pen-
savamo a questo a Santo Stefano. No di certo. Forse non me lo
ricordo neanche com’era quel mondo che immaginavamo, ma di
certo non pensavamo a questo mondo pieno di calce e di polvere».
Io annuii.
«Buon appetito, professor Settembrini».
«Pure a voi, professor Turati. Ricordatevi le carte di Manzoni».
«Non mancherò».
Quelle carte, tuttavia, Luigi Settembrini, non le vide mai.

325
CINQUE
L’ABBECEDARIO, 1867

Monica mi dava delle belle soddisfazioni. In qualche mese aveva


fatto molti progressi, che altri dei miei alunni avevano raggiunto
dopo più d’un anno. Adesso era in grado di leggere da sola intere
righe e scrivere correttamente, e con una grafia decente, ciò che le
dettavo. Non che fosse più intelligente o arguta degli altri: era solo
più motivata.
Quando si sedeva dall’altra parte della scrivania, non lo faceva
mai con riluttanza o con l’aria affranta di tutti quei discoli che mi
toccava sorbire. Era sempre vispa, esuberante, felice, direi, di tro-
varsi lì, con il suo bravo calamo tra le mani, il quaderno e circon-
data da tutte quelle cose di cui, poco a poco, aveva anche imparato
i nomi.
Monica era la sola alla quale aprivo un po’ del mio mondo di
conoscenze private. Gli altri ragazzini erano disinteressati e guar-
davano l’orologio che tenevo appeso in studio, sperando così di
far passare il tempo più in fretta. Lei, invece, aveva sempre un’aria
un po’ rattristata ogni volta che doveva lasciare casa mia dopo la
lezione. Così le aprii le porte di quel sapere che m’aveva inculcato
mio nonno, in quello stesso studio e le diedi in pasto quelli che, tra
i miei libri, ritenevo potessero essere adatti a lei.
Quando le mostrai il Turpin e i volumi ormai ingialliti della sua
celebre enciclopedia zoologica, sbarrò certi occhi meravigliati, che
mi fecero sorridere d’orgoglio.
Divorava quelle pagine con l’accanimento che avevo avuto io
da bambino. Ogni animale che faceva capolino da retto e verso le
strappava un’esclamazione di sincero e divertito stupore. Le di-
dascalie a piè di pagina furono la sua palestra d’allenamento più
attiva alla lettura. Quando eravamo intenti magari a un dettato, la
326
vedevo smaniare e adocchiare gli scaffali dietro di me, e io capivo
che voleva rigettarsi a capofitto nella selva del Turpin e starsene
così alla deriva tra le bestie, in onta a tutto quello che la circondava.
Così, ogni qualvolta suonava l’ora della fine della lezione, che
con lei sembrava suonar sempre prima che con gli altri, emet-
tevamo entrambi un sospiro di rammarico, poiché né io volevo
staccarmi dalla mia alunna prediletta, né lei voleva separarsi da
quell’universo di bestiole che aveva scoperto. Vedevo il suo volto
lungo e gli occhi luminosi imbronciarsi e la vedevo alzarsi con ri-
luttanza dalla sedia. Le sorridevo con un rammarico mal celato e
le davo appuntamento all’indomani, dal momento che avevo dato
il benservito a un paio di brocchi mal paganti e potevo così impar-
tirle le lezioni non più un paio di giorni la settimana, ma quotidia-
namente.
Tuttavia, in quei mesi, l’unica stortura fu di non esser ancora
riuscito a parlare con sua madre.
Seppi soltanto da Monica che si chiamava Antonietta e che ave-
va ventotto anni. Lavorava da tempo in quella locanda ai Tribuna-
li ch’io conoscevo bene, poiché ci andavo spesso dopo esser stato
a trovar le puttane al casino di vico Maiorani, ma non l’avevo mai
vista, forse perché lavorava in cucina e non usciva mai a servire i
clienti e poi, quando andavo a mangiare un boccone dopo le mie
fatiche amatorie, non avevo in testa altro che sbrigarmi e andarmi
presto a ficcar sotto le coperte.
I pagamenti, tuttavia, delle lezioni di Monica, non arrivavano
mai in ritardo. Non ci fu una lezione che non mi fu retribuita, an-
che se feci in modo di farmi dare il minimo, poiché alla mia richie-
sta di lasciar perdere i soldi, ricevetti da Monica uno sguardo an-
gustiato che doveva essere l’effetto del ricordo della severità di sua
madre. Perciò m’accordai per un compenso minimo e questo non
solo tramite la bambina, ma anche tramite certe lettere che scrissi
e di cui non ricevetti mai la risposta se non per bocca di Monica.
La curiosità, ormai, di veder la vedova Gemito era troppa per
poter ancor desistere. L’occasione venne quando regalai a Monica
un abbecedario. Ne avevo parecchi nella mia biblioteca, erano, na-
turalmente, lo strumento indispensabile per far entrare qualcosa
327
in testa a quegli zucconi dei miei alunni, perciò non mi dispiaceva
di separarmi da una copia e, anzi, ci tenevo assai a che Monica
avesse qualcosa di mio. I suoi occhi alla parola «dono», che aveva
dovuto udire assai di rado in vita sua, s’illuminarono e una gioia
che mi fece fremere le si stampò in volto, mentre si coccolava quel
libricciuolo sgualcito in grembo.
Il giorno appresso, tuttavia, entrò in studio mogia mogia, con
gli occhi bassi e l’imbarazzo dei bambini colti in fallo sulle mara-
chelle. Recava con sé l’abbecedario e me lo porse, dicendo di non
poterlo tenere. Io corrugai la fronte e compresi che dietro quel ri-
fiuto doveva esserci lo zampino della fantomatica signora Gemi-
to e così chiesi spiegazioni. La risposta, con mio stupore, fu una
lettera, che Monica mi porse a testa bassa, senza commentare. La
aprii con malcelata impazienza e subito riconobbi la grafia. L’ave-
vo veduta tante altre volte e su lettere recate da molti altri studen-
ti, per conto dei genitori. Era la grafia d’uno scrivano dei portici
dei Tribunali, che sotto minimo compenso redigeva le lettere per
conto di coloro che, pur avendo pensieri in testa, erano analfabeti
e non sapevano come metterli su carta. La lettera aveva il tono
delle comunicazioni ufficiali e lo scrivano, ch’era un vecchione dei
tempi di Francesco I, doveva averci messo tutto il suo estro per
risultar perentorio quanto dovevano essere state le parole dettate
dalla signora Gemito.
Nella lettera mi si ringraziava per il dono dell’abbecedario, ma
mi si avvisava che non poteva essere accettato, se non dietro com-
penso del prezzo del volume. Si accennava, inoltre, a una sconve-
nienza che sarebbe risultata dall’accettazione del presente e che,
sebbene umili, né lei, né la bambina potevano permettersi di passar
per approfittatrici. Il senso era più o meno questo.
La lettera mi fece sorridere, ma non potei celare a me stesso una
certa inquietudine, risultata forse dalla tema che la severa signora
Gemito potesse fraintendere in qualche modo le mie intenzioni,
privandomi così dell’amabile compagnia di Monica. Mi sentii in
colpa, anche s’ero innocente.
Tranquillizzai la bambina, ch’era stata in trepidante silenzio
mentre leggevo la lettera, dicendole che non era accaduto nulla
328
d’allarmante, e mi ripromisi d’andare direttamente alla fonte per
risolvere la questione.
Una sera, così, andai a cena in quella famosa taverna, con l’in-
tenzione di parlare direttamente alla signora Gemito.
La taverna in questione mi par che non esista più o che abbia
cambiato gestione ormai da tempo. All’epoca era più che altro la
bottega d’un vinaio che faceva anche da mangiare. C’era un lungo,
solido bancone di marmo, alla destra dell’ingresso, alle cui spalle
sorgevano le botti mastodontiche del vino da smerciare. I tavoli
erano quelli lunghi lunghi dove si mangiava assieme con gli scono-
sciuti avventori e dove a volte si stava anche in trenta seduti: erano
tavoloni di legno massiccio, abete mi pare, vecchi come il cippo a
Forcella, incrostati di sughi anzianissimi e aloni bluastri d’agliani-
co e Gragnano. Il pavimento era a basoli sbalzati, grigi e difformi
sotto ai piedi, lisci lisci e consumati dai tanti passi che li avevano
afflitti.
Alle pareti, bianche di calce viva, un tempo c’era stato il ritratto
di Ferdinando accanto al crocifisso: Gesù era rimasto, ma Ferdi-
nando era stato sostituito con Vittorio Emanuele.
C’era sempre odore di vinacce e mosto là dentro, che l’odore dei
sughi e degli intingoli pur succulenti non riusciva a mascherare.
C’erano pochissimi avventori quella sera, un vecchio che tra-
cannava il suo quartino (forse se n’era già scolati parecchi) e un
altro tizio barbuto che mangiava un piatto di minestra.
Mi sedetti a tavola e mi fu subito servito il quarto come di con-
sueto, aglianico rosso sannita. Il taverniere, che mi conosceva, mi
suggerì una lardiata fatta come si deve, e io non potetti desistere
dalla proposta.
Mentre attendevo il mangime, sorseggiando il vino rubizzo,
buttavo uno sguardo a quella porta in fondo alla sala, dove stava
la cucina e da dove speravo di scorgere la sagoma della madre di
Monica.
Intanto ch’ero teso tutto alla mia azione di spionaggio, entraro-
no un paio di musicanti di strada, con l’organetto a tracolla, fecero
un inchino, guardarono il padrone che gli diede l’assenso, e inizia-
rono la posteggia.
329
Cantarono qualche vecchia, malinconica canzone napoletana,
ch’andava bene per quella serata silenziosa. Poi attaccarono col
repertorio nuovo e intonarono quella canzone da patriotti ch’era
Camicia rossa, divenuta famosa quell’anno o l’anno prima e che,
devo dire, mi piaceva:

Quando all’appello di Garibaldi


Tutti i suoi figli, i suoi figli baldi,
daranno uniti fuoco alla mina,
camicia rossa garibaldina!

Ammetto che mentre udivo quel cantore di strada, mal vestito e


unto, con la giacca di velluto verdone, vezzosa al punto d’esser ri-
dicola, cantar quella canzone, beh, mi venne il magone e mi saliro-
no le lacrime agli occhi, perché mi ricordai di quei sacrifici fatti per
niente, degli amici perduti, perché lasciati a terra, tra i fichi d’India
o perché se n’erano andati per sempre, lontano. Sì, mi commossi,
perché, alla fine, sebben con l’animo della vendetta ch’era sfumata,
l’avevo indossata pure io la camicia rossa e l’avevo poi abbando-
nata. Non sarei morto a Roma, combattendo per la liberazione dal
papa re, né sarei caduto in altre battaglie. Ormai era finita, perché
avevo abbandonato.
Diedi una bella mancia al cantante, cacciandogliela nel cappel-
laccio che lui mi porgeva e mi tersi le lacrime che avevo negli occhi,
lacrime che non mi meritavo e che mi facevano assai più male di
quelle ch’avrebbe potuto far colarmi la nostalgia.
Il taverniere arrivò poco dopo col piatto di ziti alla lardiata e
io mi rinfrancai col profumo del sugo. Poi gli domandai d’Anto-
nietta. Lui mi guardò corrugando la fronte e io temetti che potesse
pensar male.
«Sono il maestro di sua figlia e non riesco mai a parlarle della
bambina, perciò son venuto qui direttamente» rassicurai.
Il taverniere annuì e ritornò in cucina. Ebbi tempo di finire il
mio piatto, far la scarpetta col pane cafone e berci su un altro bic-
chierozzo di vino prima che la porta della cucina s’aprisse e si fa-
cesse avanti Antonietta Gemito.
330
Mi rammaricai del piatto grosso di maccheroni che avevo trangu-
giato, del vino, del vestito nero da menagramo che indossavo. Mi ram-
maricai del peso mio, del mio volto pingue, della mia trascuratezza.
Antonietta Gemito era bella, e assai anche, ma, più che bella, era
fiera. Era una donna di mezza altezza, con un bel corpo asciutto,
le spalle dritte e solide, androgine. Aveva un bel volto ovale, gli
zigomi alti, la carnagione leggermente ambrata e un par d’occhi
castani dal taglio che la figlia aveva ereditato, sottile e appena a
mandorla. I capelli erano biondi, raccolti un tuppo modesto, ma
d’un biondo opaco, sinistro: non grano, avena.
Indossava una gonna di panno, la camicetta bianca con le mani-
che risvoltate al gomito e un grembiale pure bianco, ma bisunto d’af-
fari di cucina. Si avvicinò al tavolo con un far quasi minaccioso, ma
con un sorriso cordiale, un po’ forzato, però, stampato sulle labbra.
«Buona sera, maestro» mi porse la mano come si faceva tra uo-
mini, e io le strinsi nella mia e la sentii ruvida, incallita dalle sciori-
nate e dalla lisciva.
«Spero di non disturbarvi, donna Antonietta. Mi son permes-
so d’incomodare il signor Gargiulo (era il taverniere) e non vorrei
avervi recato imbarazzo».
«Affatto, maestro. Anzi, dovete scusarmi se ci siamo dovuti ve-
dere in questa circostanza così improvvisata, ma io lavoro fino a
tardi. Mi spiace ancora, ma devo tornare dentro e badare al me-
stiere, non posso trattenermi troppo».
«Posso aspettare. A che ora finirete?»
«Eh, almeno un paio d’ore».
«Aspetterò senz’altro allora, fate con comodo».
Antonietta annuì, con una certa velatura di sospetto negli occhi.
Io mi sentii francamente imbarazzato davanti a quella donna bella
ed energica. Mi guardai la pancia, il segno evidente di tutto ciò a
cui m’ero abbandonato e mi sentii mordere nell’amor proprio e
quasi ebbi voglia d’alzarmi da quel tavolaccio e uscire da lì e non
pensarci più.
Invece aspettai, e aspettai fino all’una e mezza, perché a quell’o-
ra Antonietta uscì, finalmente con le maniche riabbassate ai polsi e
lo scialle bigio sulle spalle.
331
«Non vorrei sembrarvi sconveniente domandandovi d’accom-
pagnavi a casa, ma non so se possiamo sederci qui a parlare o se il
signor Gargiulo abbia da chiudere».
«Niente affatto, sono una vedova, non una giovinetta. Usciamo
pure» disse lei e salutati i padroni, lasciammo la taverna.
S’era alla fine di giugno e l’aria iniziava a farsi calda. Non c’era
nessuno per strada e i lampioni spandevano una luce molle sui
basoli lavici, che brillavano come ossidiane pallide.
«Io abito al vico Limoncello, lo sapete, vero, maestro?»
«Sì, lo so. Lo so da Monica».
«Bene. Dunque, come si comporta mia figlia? Vi fa disperare o
è una bambina assennata?»
Aveva una voce leggermente roca e si sforzava di non parlare
in dialetto, forse, chissà, mossa dallo spirito di non voler sfigurare
ai miei occhi. La sua voce mi piaceva assai.
«Monica è la migliore tra i miei alunni, signora. Nessuno è dili-
gente, appassionato e motivato come lei. È una bambina vivace ed
esuberante, su quella sedia fatica a starci seduta, ma questo non è
un difetto, è un pregio. Ha fatto molti progressi in questi mesi e
ne farà altri in seguito, ne sono sicuro. Ammetto d’esserle molto
affezionato» e diventai rosso udendo queste mie parole.
Antonietta sorrise bonariamente. «Mi fa piacere di sentire que-
ste cose, maestro. Voglio che Monica sia sempre così come me l’ha
descritta, né più, né meno. Voglio che impari tutto quello che avete
da insegnarle. Deve saper quello che io non ho mai saputo e che
suo padre sarebbe stato felice che sapesse».
«Monica mi ha detto… ma come…?»
«La tisi, quest’anno fanno quattro anni. Se l’è portato via in sei
mesi. È stata fulminante».
«Donna Antonietta, io son venuto per un altro motivo a par-
larle…»
«La lettera che vi ho fatto scrivere, lo so».
«Sì, io vorrei…»
«No, maestro, non insistete. È impossibile. Non posso accettare
un dono come quello, ne va del mio amor proprio. I libri costano e
di certo non posso permettermi di comprane molti a Monica, ma
332
se deve avere un abbecedario, è sua madre che deve darglielo. È
per principio. Non possiamo permetterci, io e mia figlia, la com-
passione di nessuno. Sarebbe male».
«Io non voglio mancarvi né di rispetto, né d’autorità. Se il mio gesto
dovesse averla offesa, me ne rammarico assai. V’assicuro che l’ho fatto
con tutto il cuore e, dovete saperlo, non per compassione. La compas-
sione è un sentimento giustamente riservato ai disperati, signora, non
certo a coloro che hanno la forza di ergersi in questa vita. Non potrei
avere compassione di vostra figlia, né di voi. Non ve la meritate, per-
ché non c’è disperazione in voi e, se c’è stata, il lavoro e la passione
l’hanno diradata presto. Io ho fatto quel dono a Monica perché se l’è
meritato, perché si vive anche di soddisfazioni in questa vita e la bam-
bina me ne ha date tante. È stata una ricompensa, la mia, non un atto
di pietà, per avermi dato riprova d’essere una persona utile al prossi-
mo. La compassione non c’entra, sia ben chiaro».
Antonietta era stata rigida fino a quel momento, con gli occhi
balenanti del fuoco sacro d’un orgoglio imperioso e difeso con gli
artigli. Alle mie parole, tuttavia, quegli occhi si tranquillizzarono, la
fiamma si acquietò sotto le braci e il sorriso di circostanza, che aveva
avuto in volto sino a quell’istante, si tramutò in un sorriso verace.
Continuai: «Io sarei stato disposto, e ve l’ho già accennato, di impar-
tir le mie lezioni a Monica gratuitamente e non per evitare di gravare
sul vostro bilancio familiare, ma perché ottengo anche più di quello che
qualsiasi somma di denaro potrebbe darmi: la soddisfazione di vedere
andare a frutto i miei insegnamenti. Sapesse quanti citrulli scimuniti
passano davanti alla mia scrivania, attendendo solo l’ora di levarsi di
torno per andare a celiare e che dimenticano tutto ciò che gli ho inse-
gnato non appena sono in strada con gli scugnizzi loro pari. Monica
duole ad andarsene, ogni giorno, e questo significa che sto facendo
bene il mio lavoro. Dovete capire questo, Antonietta: Monica, per me,
significa quella gratificazione ch’ogni maestro dovrebbe poter avere
dai propri alunni e non una miserabile a cui, spinto da pietà, sto dando
una mano. Le voglio bene, signora, e mi sento in un certo senso respon-
sabile di lei, come educatore, s’intende».
Antonietta non smise di sorridermi e intanto eravamo arrivati
alla porta del basso che la donna occupava con la sua bambina e
333
che mi rammentò infelicemente quel basso che avevo visitato a
Palermo, tanto tempo prima.
«Io sono arrivata, maestro. Vi ringrazio per le belle parole e spe-
ro voi siate sincero».
«Lo giuro, donna Antonietta, lo giuro su Dio».
«Quand’è così, sono ben felice che Monica sia e resti vostra
alunna».
«Per me è un onore, signora».
«Suo padre sarebbe felice di sapere che l’ho affidata alle vostre
cure, maestro. Io son ignorante e anche lui lo era, ma c’eravamo
ripromessi che Monica avrebbe studiato e che avrebbe imparato
ciò che a noi venne precluso. Purtroppo, non è mai riuscito a udirla
leggere, come invece a me è concesso ogni giorno».
«Vostro marito era…»
«Oh, mio marito era falegname. Aveva una bella bottega al Car-
mine, che ho dovuto vendere per una miseria quando se n’è andato».
Aveva uno sguardo triste, che non doveva essere solo suscitato
dalle angustianti rimembranze, ma mi pareva le fosse congenito.
I suoi occhi ignei si addolcirono e quella pervasiva tristezza li tra-
mutò in due soli bruni e delicati: erano d’una bellezza e d’una bon-
tà fragile e pura, che mi sconvolse. Era con quegli occhi che aveva
dovuto amare suo marito e che amava Monica, e che cosa non
avrei dato in quell’istante, per esser guardato anch’io a quel modo.
«Bene, s’è fatto tardi, signora, non voglio trattenerla ancora a
lungo. Salutate Monica da parte mia».
«Lo farò, anche se probabilmente sarà domattina, poiché dorme
a quest’ora. Vi ringrazio, maestro. Siete una brava persona».
Io annuii e mi tolsi il cappello e la vidi scomparire oltre quell’u-
scio liso del basso.
Una grande malinconia mi pervase, il segno d’una solitudine
terribile, che m’avvinse, ripensando a quegli occhi che m’esclude-
vano. Monica era la mia piccola, unica certezza nel grande e con-
sumato buio della mia vita e sentirmene distante, anche solo se a
causa della mia cocciuta emotività, mi aveva prostrato. Così me
ne andai a vico Maiorani, a pagarmi l’amore come m’ero pagati i
maccheroni.
334
SEI
NANDO GEMITO, 1868

Ferdinando Gemito, detto Nando, era stato un marito amore-


vole e appassionato, un padre affettuoso d’un figlia che non aveva
potuto veder crescere, un lavoratore instancabile e un uomo serio,
forte e intelligente. Era pure bello, almeno da quel che mostrava
l’unica fotografia che Antonietta possedeva: alto, slanciato, ga-
gliardo, di pelo scuro e tratti vigorosi.
Io ero grasso, olivastro, fiacco, ricco e lavoratore per noia, forte
per costituzione e non per vigore e intelligente tanto da trascende-
re le cose e divenir quindi minchione.
Due antipodi, come con Falcone e come col povero Umberto.
Non ero alla sua altezza, né fisicamente, né moralmente. Lui era
sano, o meglio, lo era stato, e io ero malato. Questo è tutto.
Come avrei potuto competere con un uomo del genere? O peg-
gio, con la memoria di un uomo del genere? Mi ci tormentavo la
notte con questi pensieri, nel letto pieno di spine caro agli spasi-
manti e ai debitori.
Ero stato anni in accidia, a vivere la vita che credevo sarebbe stata
mia fino alla fine, e ora, dopo il trascorso d’immobilità, mi vedevo
spronato a cambiare, a modificare tutto ciò che m’ero guadagnato.
Fissavo con molta più apprensione il riflesso di me stesso allo
specchio, che prima soltanto l’istinto di conservazione mi induce-
va a disprezzare. Ora ero sofferente del peggior male che esista in
questa vita umana: il disagio arrecato dallo sguardo del prossimo.
E se qualcuno volesse contraddire questa opinione, dica se almeno
una volta, sebbene la volontà ferrea dimostrata, dica se non si sia
mai vergognato del proprio sé trovandosi in strada, tra i consimili.
Purtroppo questo male, come tutti quelli che riguardano i me-
andri e non le apparenze della carne, è come il vischio sui tronchi:
335
ci si rimane invescati alla stregua dei tordi. Non contano il bene e il
piacere che si riscontrano contemplando la propria figura, effime-
ri come i sogni, e che scompaiono alla prima avvisaglia del giudizio
e del commento. L’uomo è un essere giudicatore, che ha bisogno di
soppesare per differenziarsi dalle bestie.
È una guerra senza quartiere, come tutte le più bieche campa-
gne che si combattono dentro, tra i silenzi. Non conta l’equilibrio
che s’è raggiunti, l’istinto (e non la volontà), trascinato dalle dice-
rie, rovescerà ben presto lo stato di quiete.
Personalmente ho avuto la fortuna d’esserne solo relativamen-
te dipendente. Sì, anch’io son caduto nella necessità di modificar-
mi, indotto dai paragoni, pure io ho dovuto sopportare il peso del
presunto titanismo altrui (e tutta questa storia potrebbe ridursi a
questo), ma un istinto contrario a quello dell’omologazione m’ha
sempre indotto a far diversamente e senza requie, fino a ferirmi.
La volontà s’è fatta inconscia dentro di me, fino a diventar do-
vere. Non ch’io voglia dirmi alieno dalle lusinghe e dai giudizi del
mondo, che sono la strada più rapida al contenimento e alla de-
finizione di sé stessi, ma so come sottrarmene, o meglio, mi vien
naturale.
È la coscienza che ci distingue dalla marmaglia dei felici, di colo-
ro ch’apprezzano il vivere nonostante tutto. Io ho imparato, e l’ho
imparato al costo d’insonnie e desolanti voli dell’anima, a dimen-
ticare l’ascolto delle opinioni altrui. Con questo non voglio tinger-
mi a titano distaccato e orgoglioso, per amor di Dio, non sarei io
questo, ma sta di fatto che dimentico spesso quel che il prossimo
afferma, tentando di modificar in me ciò che non comprende e
teme. Esula dalla mia volontà il disprezzo per la via semplice degli
uomini: non son io a voler sentire determinate cose e a vederne
altrettante altre, io sento e vedo. Punto e basta. E mi sta bene così.
A volte medito su questo punto del mio essere, che è uno di
quelli più acerrimi d’acquietarsi e organizzarsi nell’economia della
mia esistenza, a causa dei legittimi dubbi che lo contraddistinguo-
no e che, per fortuna, sempre lo contraddistingueranno. Non sa-
prei dire che cosa ha maturato questo sentire dentro di me, cosa lo
nutrisca e non saprei spiegare, almeno a orecchie profane, il piace-
336
re infinito che mi dà questa convinzione, questa solitudine abissale
in cui credo Dio m’abbia confinato. Questo confino non duole in
sé, ma in relazione all’altro: non è la pelle a bruciare, ma il fuoco
che l’ustiona. E gli uomini sono un fuoco costante che deperisce e
immisera la miglior parte di questa vita.
La semplicità di quest’essere bipede mi fa sorridere, a volte, mi
diverte rendermi conto di quel che siamo alla luce delle mie dub-
biose certezze. Dentro agli uomini, che si credono oggi e si crede-
ranno di più domani e, temo, in miliardi di forme diverse, il centro
della vita, dentro agli uomini non c’è gran che, appena l’abisso.
Non val la pena, penso io, di scandagliar quelle anime che a fasci
se ne andranno al nulla. Per quanto possiamo differir gli uni dagli
altri, non siamo che pezzi incarnati di buio. Non vale l’onere di
conoscerne uno in più di quelli che la sorte ci mette innanzi. Noi
siamo sbagli, errori e non di Dio, ma di noi stessi. Iddio ci ha dato
le tenebre da sondare, ma noi, almeno la più parte, preferisce la
luce, per vederci chiaro: veder chiara la menzogna ch’onnipresente
ingombra il nostro vero. La via più semplice, insomma.
Forse il mio è pensar troppo, forse la requie che dovrei darmi mi
farebbe più bene dello star sempre a congetturare sullo sfuggente
vero. Non saprei, ma son certo che non posso farne a meno.
Mi accorgo solo ora d’aver sconfinato, per cui è bene ch’io mi
rimetta a raccontare la storia e lasci da parte la filosofia.
Io volevo essere attraente agli occhi di Antonietta. Era questo il
vero cruccio. Volevo ch’ella mi guardasse benevolmente e, spera-
vo, ch’essa avesse per me quello sguardo che le avevo visto appari-
re in volto quella notte tormentosa.
Presi a curarmi di più, a radermi con frequenza, a vestirmi pro-
bamente, a usar più colonia del solito. Presi, insomma, a far l’uma-
no nel mondo e non l’orso nella mia spelonca.
Mi recai spesso a cena in taverna e attendevo che Antonietta
terminasse il lavoro. A lei non sembrava disdicevole ch’io la riac-
compagnassi a casa, soprattutto a quell’ora tarda, poiché temeva
spiacevoli incontri per strada.
Parlavamo di Monica, tutto il tempo di Monica. Era anche la
scusa che accampavo per recarmi a trovarla: non potendola avere
337
a ricevimento a casa mia, mi mettevo io in moto. Come fece Ma-
ometto.
Antonietta era sempre cordiale, ma distaccata. Non mi permet-
teva d’offrirle il braccio, né altre galanterie, e ogni volta la vicinan-
za a una così bella ragazza m’accendeva di quei fuochi che solo
una capatina a vico Maiorani poi riusciva a spegnere.
Era bella, oh sì che era bella. Bella e triste, e affaticata. Odorava
sempre di sudore, di salse, di fumi, era sempre spossata quando la-
sciava quella cucina ed era così bello sentir quell’odore e guardarla
così disarmata di vezzi, ancor più bella e reale.
Quando il giorno dopo Monica si sedeva alla mia scrivania, il
piacere si duplicava: rivedevo Antonietta in lei, per certi segni e
certe intuizioni, e così profondevo tutte le mie energie all’educa-
zione di quella bambina, tutta la forza d’animo di cui disponevo
per accrescere la sua grazia.
Devo confessare qualcosa. Io non cercavo un’amante, io cer-
cavo una figlia. Non ero innamorato tanto di Antonietta, ma di
Monica. Sì, io ero perdutamente innamorato di Monica, che con
la mia educazione rendevo sorprendentemente simile a me. Avrei
voluto stringerla al petto e coprila di baci, comperarle bei vestiti
e balocchi, assicurarle l’avvenire che le mie possibilità avrebbero
potuto darle senz’altro. Avevo bisogno di lei, che mi distraeva
dall’amato vero e dalle menzogne, dai dolori della solitudine che
pativo per esser aduso agli uomini, dal terrore costante del pas-
sato. Lei, fresca, bella, dolce e vera, la mia bambina, la mia amata
bambina. Tuttavia, era chiaro, dovevo conquistare Antonietta per
avere Monica.
Una bella domenica mattina riuscii a convincere Antonietta a
venir con me al Chiatamone assieme alla bambina.
La sera prima, nella nostra breve passeggiata di rientro a casa,
vedendola più affranta del solito, le domandai la causa. Mi con-
fidò, non senza riluttanza, di non aver mai tempo a sufficienza
da dedicare alla sua bambina: era più il tempo che la contemplava
dormire nel suo lettino, che quello speso a parlarle. Incalzato da
questa confessione, mi risolsi di dire: «Antonietta, io temo di dirvi
quello che ho in mente in questo istante e non fraintendetemi, non
338
è nulla di compromettente. Tuttavia m’avete più volte ribadito
come la pensate in merito. Ma ve lo dico lo stesso: vorrei invitarvi
domattina, voi e Monica, a prendere un gelato al Chiatamone. Per
me sarebbe meraviglioso. Ci verreste?»
Antonietta sospirò e abbassò gli occhi. Stette in silenzio un lun-
go momento, prima di parlare, momento che mi fece trattenere il
fiato. Poi mi guardò, coi suoi occhi malinconici e mi sorrise: «Ma-
estro, sono combattuta alquanto, un poco mi conoscete. Ma è più
forte il desiderio di star con mia figlia, che inorgoglirmi come do-
vrei. Se proprio vi fa piacere, accetto il vostro invito».
Le sarei saltato addosso per abbracciarla dalla contentezza, ma
per mia fortuna mi trattenni. «Passerò io stesso domattina, non
dovrete pensare a nulla» promisi.
Così, il giorno dopo affittai una carrozzella, perché il nostro ca-
lessino, con la dipartita di Liccarda, era diventato obsoleto e passai
a prendere mamma e figlia a piazza San Gaetano e di lì partimmo
al mare.
Erano vestite teneramente, con abiti da domenica di poche pre-
tese, ma Antonietta aveva avuto la cura di intrecciare qualche fio-
rellino tra i capelli di Monica e a farle delle belle trecce e la bambina
era uno spettacolo, in quel suo vestitino bianco.
Antonietta s’era messa un po’ di cipria e quel tanto di maquilla-
ge l’abbelliva come il tramonto fa col cielo.
Per nostra fortuna era una bella giornata, come quella che ave-
vo vissuto tanto tempo prima con Irene: il mare calmo, una legge-
ra foschia nel cielo terso e il riverbero aureo del sole sulla punta di
Posillipo. Lontano si vedeva Capri, confusa tra la bruma leggera e
sopra di noi il monte Echia, un’ombra benevola sull’acqua cristal-
lina. Il Vesuvio fumava, tranquillo e sereno, col suo pennacchio
scuro ben saldo in cielo.
Monica era sovreccitata da quella giornata così insolita per lei.
Fuggiva come una cavallina felice da una parte e dall’altra, una
volta per guardare il mare lambire i frangiflutti, una volta per re-
stare incantata davanti alla sagoma metafisica di Castel dell’Ovo,
di cui volle ancora che le raccontassi la leggenda virgiliana che le
avevo spiegato in una lezione.
339
Offrii loro il gelato e le sfogliatelle, leccornie che non s’erano
mai potute permettere e Monica le mangiò con una tale e felice
voluttà, che mi fece tremare il cuore dalla gioia.
Antonietta bruciò di quello sguardo d’amore tutto il tempo,
sguardo naturalmente riservato alla figlia. Per me non c’era che
gratitudine in quegli occhi: una gratitudine assoluta.
Camminammo fino alla Villa, e vidi il cantiere della colmata che
un giorno, pochi anni dopo, avrebbe condotto alla costruzione di
via Caracciolo.
Passeggiammo un po’ in Villa, mentre Monica girellava tra i
grandi platani e le palme che risalivano ai tempi di Ferdinando I.
A quel tempo era in costruzione la Stazione Zoologia, un edifi-
cio bianco che veniva su lentamente e che sarebbe stato inaugurato
solo qualche anno dopo, ma c’erano già le statue dedicate a qualche
illustre napoletano, scavato dalle ceneri del medioevo borbonico e
assurto alle glorie risorgimentali, come il vecchio generale Colletta
o il Vico, messe sul loro bravo piedistallo di marmo candido.
Monica restava incantata davanti alle fontane, certo l’attrazio-
ne più eccelsa di quella che il vecchio bove Dumas aveva definito
«senza dubbio la più bella e soprattutto la più aristocratica passeg-
giata del mondo».
Passando dalla fontana del Ratto d’Europa, a quella delle Sa-
bine, faticai molto a spiegare a Monica, che lo pretendeva, spinta
dalla sua curiosità furiosa, il significato di quelle sculture, e dovetti
blaterare a lungo per non cadere nella sconveniente rivelazione dei
motivi di quei leggendari rapimenti.
Alla fine, affaticati dalla passeggiata, ci sedemmo presso la fon-
tana della Tazza di Porfido, che i salernitani per lunghi anni bra-
marono riavere, poiché era stata sottratta al loro duomo. Monica,
tuttavia, per niente affaticata, continuava i suoi giochi presso l’ac-
qua, lasciando noi di disparte, sulla panchina.
«Grazie, maestro».
«Vi andrebbe a genio di chiamarmi Stefano, Antonietta?»
«Va bene. Grazie, Stefano. Siete una brava persona».
«Sono io che devo ringraziare voi, signora. Gioie come queste
sono rare nella mia vita».
340
«Siete tanto infelice?»
«No, non direi infelice. Sarebbe ridicolo. Non ho da lamentarmi
di nulla, in fondo. La parola più adatta sarebbe amareggiato. Sono
giovane10, vivo con mammà e con la zia, in una casa raffreddata
e piena di rimpianti. Non proprio un bel quadro! Quando Monica
viene a lezione, è come se tutto si scaldasse là dentro, anche mia
madre e mia zia, povere donne, si rianimano. Ci manca qualcosa,
un poco di luce, dico io».
«Non avete mai pensato di sposarvi, Stefano?»
«Oh, sì che ci ho pensato. Due volte. In entrambi i casi, ahimè,
è andata male. Una volta perché ero troppo giovane, l’altra perché
fui tradito. E voi, avete mai pensato di risposarvi?»
«Non ho mai incontrato nessuno che mi desse l’idea d’esser affi-
dabile e caro com’era il mio Nando».
«L’amavate molto?»
«Oh sì… perdutamente. È trascorso del tempo, ma ancora mi
sveglio di notte per gli incubi. Non mi sono mai potuta permette-
re di rilassarmi un poco al dolore. Anche piangere, sbraitare, ma-
ledire la sorte fa bene, malgrado sia inutile. Una ha il diritto di
sfogarsi, a volte. A me questo diritto non è stato concesso. Ho da
lavorare, turni massacranti, ho da badare alla bambina, non posso
mettermi in un angolo a piangere come mi piacerebbe fare, alme-
no una volta sola, per sfogarmi e riappacificarmi un poco».
«Potreste farlo adesso».
«Adesso? Come sarebbe a dire, volete scherzare?»
«Non ve la prendete a male, dicevo solo che potreste sfogarvi
ora, se questo avesse un effetto veramente balsamico su di voi».
«Che dovrei fare? Mettermi a frignare qui, davanti a tutti?»
«Chi ve lo impedisce?»
«Stefano, voi siete un po’ bizzarro. Non vi offendete, ma ho
sempre pensato che in voi ci fosse qualcosa di insolito».
«Vi dà fastidio?»
«No, al contrario, mi affascina. Siete diverso da molta gente».
«E come sarei? Sentiamo».

10 In napoletano ha anche l’accezione di celibe.

341
«Beh, siete… estraneo. È la prima parola che mi viene in mente.
Sì, è come se non apparteneste a… tutto questo».
«Mmm… interessante. A voi piace questa cosa?»
«Beh, sì. Un poco sì, mi piace».
«Invece a me piace assai il vostro sguardo».
«E com’è il mio sguardo?»
«Triste».
«Ah, non è mica una bella cosa!»
«Invece sì».
«Davvero? E per quale motivo?»
«Perché solo coloro che hanno uno sguardo triste contemplano
la vera vita».
«Lo dicevo che siete bizzarro, maestro Stefano!»
«Voi siete infinitamente bella, Antonietta. Siete come queste sta-
tue, irrorate dall’acqua, come questi alberi che ci accarezzano con
le loro ombre, come quel mare placido laggiù in fondo».
«Smettetela, ve ne prego».
«Vi infastidisce?»
«No… è che…»
«Io vi amo Antonietta; è bene che voi lo sappiate. Amo voi e
amo Monica come una figlia. Non posso più negare questa verità
a me stesso».
Antonietta tacque e non mi volse lo sguardo ma fissò la figlia
che giocava al bordo di marmo della fontana. Poi deglutì, emozio-
nata, e tornò a guardarmi: «Voi siete caro, Stefano, e sono felice di
quanto abbiate a cuore Monica, ma io…»
«Ma voi non mi amate. Questo lo so, lo so bene e forse l’amore
non verrà mai. Voi amate Nando e io posso comprenderlo. Lui era
l’uomo fatto per voi, io sono solo… bizzarro. Avete ragione, An-
tonietta, viviamo costantemente nell’ingiustizia, ma non c’è altro.
Io dovevo dirvelo. Lo dovevo a me stesso. Spero di non avervi
turbata troppo».
«Sapete, una volta pure Nando mi portò qui in Villa, a passeg-
gio, quando eravamo fidanzati. Come eravamo giovani! Io avevo
diciassette anni, ero una ragazzina. Facemmo una bella passeggia-
ta, poi ci venne sete e Nando, poverino, comperò per sbaglio due
342
bicchieri d’acqua ’e mummole, quella che sa d’uova marce, e quasi
rimettevamo l’anima. Che risate che ci facemmo! Dopo andammo
in spiaggia e ci sedemmo sulla sabbia calda, a guardare il mare.
Non c’è giorno ch’io non tremi al pensiero della solitudine che
Nando ha lasciato al suo posto accanto a me. Non c’è giorno ch’io
non senta il gelo che s’è sostituito al calore dei suoi abbracci. Mi
manca, è come se fossi storpia adesso. Purtroppo nessun uomo più
riuscirà a colmare questo abisso. Io sono l’unica che ancor lo ama
su questa terra, Monica è troppo giovane per dolersi veramente e
non sarebbe neanche giusto. Non posso dimenticarlo, perché altri-
menti diventerebbe inesistente, e non posso permettere che l’uomo
che ho amato svanisca dai ricordi del mondo. Voi forse potreste
capirmi. Non posso, non…»
«E se io v’assicurassi la tranquillità necessaria a questa memo-
ria? Se io vi garantissi la pace che vi serve per poter piangere tutte
le lacrime che avete in sospeso? Allora accettereste?»
«Cosa dovrei accettare? Voi?»
«Accettereste di sposarmi, Antonietta?»
«Sposarvi?»
«Io vi amo, amo Monica e non ce la faccio più a vedervi nelle
vostre condizioni. Mi si spezza il cuore. Io ho i mezzi e le possibilità
per assicurare a Monica un futuro roseo e mi son stufato di non
poterli usare. Io vi chiedo la mano, anche se so che verrò sempre
dopo, per secondo. Vi amerò e vi rispetterò con tutto me stesso.
Ve lo giuro. Fatelo per Monica».
«Stefano, Dio mio, quanti pensieri mi mettete in testa. Siete sem-
pre così irruento voi?»
«Sì, credo di sì, d’esser sempre stato irruento. Non posso farci
nulla».
«Mi amate così tanto, dunque?»
«Assolutamente».
«E amate…»
«Monica. Sì, senza requie. Voglio poterla chiamare figlia, anche
se non sarà mai mia veramente. Ogni volta che la guardo sento
speranza, tanta, tanta speranza. La amo, infinitamente».
«Dovrei pensarci…»
343
«Non è vero, e voi lo sapete. Non c’è da pensarci» e mentre di-
cevo questo le presi la mano e gliela baciai e lei divenne paonazza.
«Ditemi di sì e io vi venererò per tutta la vita».
Antonietta mi guardò lungamente, con gli occhi pieni di dubbi
atroci, atterriti dalla valanga di emozioni. Non resistette e si com-
mosse.
«Sei proprio strano tu, Stefano, bizzarro» affermò, sorridendo
tra le lacrime. «Sarà bello scoprire quanto tu sia strano».
Ci baciammo, e io sentii per la prima volta il sapore caldo e de-
licato delle sue labbra.
A un tratto udimmo una risata sgraziata e fragorosa. Era Mo-
nica, che si scompisciava, e ci additava dal bordo della piscina. I
suoi occhi erano lucidi d’ilarità, il suo corpicino fremeva, le sue
gambe di cavallina scalpitavano, battendo la terra polverosa. Dio,
quant’era bella la mia bambina.

344
SETTE
A NOZZE, 1869

Mia madre e zia Margherita erano diventate inseparabili in vec-


chiaia. Uscivano di rado e andavano a passeggiare a Largo delle Pi-
gne, a braccetto, e a Natale andavano a veder le vetrine di Toledo
accompagnate da Carla.
Spesso mi chiedevano in prestito un romanzo, uno di quei bei
romanzoni d’un tempo, come li scrivevano il Dumas, lo Hugo, il
Guerrazzi o il Cantù, e si rintanavano in camera di zia Margherita,
accanto al caminetto tiepido, e mia madre leggeva ad alta voce
quelle storie, mentre la zia faceva la calza.
A volte mi affacciavo alla porta e le vedevo là sedute nelle loro an-
tiche mussole, con le cuffie in testa e gli scialli sulle spalle e, quando mi
scorgeva, mamma smetteva di leggere, si toglieva gli occhiali, posava
il libro sulle ginocchia e mi invitava a entrare e far loro compagnia.
Com’era bello passare un po’ di tempo nel tepore di quella stan-
za impregnata della fragranza del mughetto, quella stanza nella
quale ricordavo qualcosa che poteva anche essere un sogno, or-
mai. Mi sedevo sul letto e stavo lì a chiacchierare della giornata, dei
miei alunni, dei libri che leggevano. Qualche volta mi univo a loro
nelle letture, ma facevo io da anfitrione e leggevo poesie, soprat-
tutto l’Aleardi e il Prati, che le mie vecchiette adoravano.
Fu in uno di quei sereni pomeriggi che entrai in quella stanza
interrompendo la lettura, a informare che mi sarei sposato.
«Voglio confessarvi che mi son innamorato e presto mi sposerò».
«Davvero? E chi sarà tua moglie?»
«La madre di Monica, Antonietta Gemito».
«Stefano! Ma dici sul serio?»
«Sì, mamma».
«Avremo la bambina qui con noi!»
345
«Sì, siete contente?»
«Finalmente! Ci avevo perso le speranze ormai! Ora avremo
qualcuno da viziare in questa casa che non sia grande grosso come
te!» ammise zia Margherita, esuberante di gioia.
Io e Antonietta ci sposammo al cospetto di re Ladislao, nella
chiesa di San Giovanni a Carbonara.
Feci confezionare un abito nuziale meraviglioso per Antonietta,
con un lungo strascico, ed esaudii ogni vezzo di Monica riguardo
all’abbigliamento per quel giorno.
La bambina era una Pasqua di felicità. Era irrefrenabile, conci-
tata, euforica per tutte le novità che le erano capitate. Fuggiva da
una parte all’altra, faceva tanto d’occhi davanti ai rinfreschi, che
preparammo in casa, si stupì dell’eleganza dei suoi vestiti. Era feli-
ce, d’una felicità spossante e doviziosa. E mi voleva bene, oh se mi
voleva bene… Mi abbracciava, mi baciava, mi stringeva a sé, e io
ricambiavo le sue carezze con promesse e giuramenti e la stringevo
al mio petto, forte da toglierle il respiro e in cuor mio ripetevo mille
volte il suo nome, il nome della mia bambina.
Fu una bella cerimonia, sbrigativa invero e pure il ricevimento
fu rapido: non avevamo molti invitati e quelli che c’erano non si
trattennero a lungo. Fu una festa veloce, che non rammento ne-
anche bene, a essere sinceri. Il rinfresco col dessert e ’a vermut,
un pranzo casereccio abbondante innaffiato di vinello e un paio
d’alticci brindisi, tutto qui.
Quello che rammento ancora oggi con estrema gioia è la mia
piccolina che si gode la festa, come fosse stata essa stessa la prota-
gonista, col suo vestitino nuovo, le scarpe eleganti e le attenzioni di
quanti tra gli invitati avevano per lei parole di lode. Com’era dolce,
tenera, esuberante, Dio mio, com’era bella la mia bambina…
La prima notte di nozze, io e Antonietta ci coricammo presto,
quasi subito dopo la fine del pranzo, che si protrasse con qualche
intimo fino a sera. Monica fu messa a dormire da sua madre in
quella che era stata la camera di mio nonno e che io avevo fatto
in modo d’arredare come la stanza d’una ragazzina. Sfinita dal-
le tante novità, la bambina s’era addormentata subito, dopo aver
elargito a quanti ne domandavano un bel paio di baci sonori.
346
Ci ritirammo anche io e Antonietta e così restammo soli, nel-
la mia stanza illuminata a mezzo per un lume balenante, così che
c’era quella luce diafana che si fletteva sulle cose e sui nostri corpi
affaticati, rinfrancandoci un poco d’intimità.
Prima di quella notte io e Antonietta non eravamo mai stati
a letto insieme. Oltre a qualche bacio, i nostri corpi non s’erano
toccati. Ammetto ch’ero intimorito in quell’istante dai suoi occhi
meravigliosi e tristi, che m’osservavano con una dolcezza grata e
mi si offrivano a tutte le congetture dell’amore. Però, ed è bene
che sia franco, Antonietta era rimasta fedele al suo sentire: ella non
m’amava. Il suo sguardo non era per me lo stesso che guardava
Monica o rammentava il suo Nando. Affatto. Il suo sguardo era
quello pieno di compassione d’una madre che ha troppi figli e non
riesce ad amarli tutti con la stessa intensità, per cui elargisce indul-
genza con gli occhi, sapendo di non potersi prodigare di più e che
l’amore, il vero amore, è destinato ai prediletti, mentre per gli altri,
i cadetti, c’è il rammarico che non siano stati loro i primi.
Mi osservava sorridendomi e tentando senza parole d’assicu-
rarmi che, malgrado tutto, l’avrei avuta, l’avrei posseduta: m’ac-
contentava e mi avrebbe dato in premio ciò che il prete aveva taci-
tamente promesso unendoci in matrimonio.
Io ero intimorito dallo spogliarmi davanti a lei: ero vergognoso
della mia pinguedine, e, soprattutto, di star nudo davanti a una
donna che non era completamente mia e che, anzi, non m’amava
tanto d’accettarmi così, per quel che ero.
Antonietta aveva indossato già la camicia da notte di seta che
le avevo regalato, ed era seduta sul letto, con le gambe raccolte al
petto e il mento poggiato sulle ginocchia.
«Non ti spogli?»
«Mi vergogno».
«Che cosa?»
«Mi vergogno, ho detto».
«Ti vergogni di spogliarti davanti a tua moglie?»
«E se poi non ti piaccio?»
«Tu mi piaci, Stefano».
«Non ci credo, ti devo piacere, ma…»
347
«Ti voglio, Stefano, davvero. Voglio stare con te. Non devi te-
mere nulla, vieni vicino a me».
Mi avvicinai a lei, stendendomi sul letto, e mi baciò, accarezzando-
mi la testa. Ammetto che mi sentii rapito da quella dolcezza, dalla sua
carezza sincera, dalla suadenza altrettanto verace delle sue parole.
Ci baciammo a lungo, distesi l’uno accanto all’altro, facendoci
tepore a vicenda in quella serata fresca. Poi Antonietta si distaccò
da me e si sfilò di dosso la camicia, restando nuda. Sussultai alla
vista del suo corpo. Era bello, brunito, coi suoi seni piccoli e sodi,
i fianchi larghi, le gambe tornite. Era un corpo solido come quello
d’una statua, vagamente androgino: il corpo nerboruto d’una la-
voratrice. Era soda, d’una bellezza turgida e prepotente, mentre io
ero flaccido e pesante. Le accarezzai la pancia, non per voluttà, ma
per conoscere la consistenza di quelle carni, che ai miei polpastrelli
tremanti diedero ragione delle congetture della mia mente circa
quel corpo duro e fiorente.
Antonietta rise di quella carezza, che le fece il solletico, e mi
accarezzò in volto, tirandomi a sé per darmi un bacio: le sue dita
ruvide, lisciviate, erano dolci e discrete.
«Sei un bambino curioso tu, non è vero?» disse a un tratto e mi
tirò a sé, con quella forza da fattrice che aveva in corpo e alla quale
io m’abbandonai ormai in preda all’eccitazione.
«Tu sei il mio bambino, ho due bambini adesso e questo bimbo
deve bere il suo latte» mi sussurrò e mi diede il suo capezzolo tur-
gido da suggere.
«Bevi, bevi il tuo latte» continuava a sussurrare, mentre io suc-
chiavo, lì rannicchiato, come fossi stato davvero un bambino e lei
gemeva di piacere, mugugnava, spingendo la mia testa contro il
suo petto.
Ero sovreccitato e dimisi qualsiasi reticenza, spogliandomi velo-
cemente come potevo e restando anch’io nudo, dopo aver bevuto
quel latte immaginario di cui tornai subito ad aver sete.
Mentre continuavo il mio lauto pasto, Antonietta salì su di me
a cavalcioni e facemmo un amore ruvido e bello. Ci prendemmo
molte volte ancora quella notte, finché non ci addormentammo
sfiniti e ubriachi d’amore.
348
OTTO
LA VENDETTA DI MONTI E TOGNETTI, 1870

Quando ci fu la Battaglia di Sedan, all’inizio di settembre del


1870, e Napoleone III venne fatto prigioniero dalle truppe prus-
siane, si comprese che per il Papa non c’era più nulla da sperare.
Per più di vent’anni i Francesi avevano garantito a Pio IX di
sedere indisturbato sul suo trono millenario, ma ora era finita, per-
ché l’impero di Napoleone “il Piccolo” era caduto. Era la vendetta
di Monti e Tognetti.
Gaetano Monti e Giuseppe Tognetti erano due muratori, l’uno
marchigiano, l’altro romano. Nell’ottobre del 1867, organizzarono
un attentato alla caserma degli zuavi pontifici di Serristori, nel ri-
one Borgo, a Roma, uccidendo 25 militari e sperando di dar moto
a una sollevazione popolare che in avesse consentito al generale
Garibaldi d’attaccare e liberare Roma dal dominio pontificio.
Andò male, purtroppo. Garibaldi fu mazzolato a Mentana dai
Francesi e Monti e Tognetti son diventati famosi per essere stati gli
ultimi italiani condannati all’impiccagione e giustiziati per ordine
d’un pontefice.
Ma si vendicarono, oh sì, dall’altro mondo si vendicarono e
come. Con Napoleone III impegnato nella disastrosa guerra contro
il kaiser Guglielmo, Roma e lo Stato Pontificio restarono sguarniti
e questo diede adito al governo di Torino di tentare un’azione mi-
litare per occupare una volta e per tutte i territori papali, in barba
alla convenzione di settembre del ’64, con la quale l’Italia s’impe-
gnava a non aggredire i territori pontifici.
Alla fine, il 20 settembre 1870, i bersaglieri italiani entrarono in
Roma, mettendo fine per sempre allo Stato della Chiesa.
E che feste, mamma mia. Me lo ricordo bene quando arrivò la
notizia della liberazione di Roma. Da ogni balcone, finestra, tetto,
349
pertugio, come nel ’60, sventolava un tricolore. Cortei, capannelli,
gruppi più o meno folti si radunavano in strada, con le coccarde
tricolori al petto e sulle tube, inneggiando a Garibaldi e a Vittorio
Emanuele. I canti, i fuochi artificiali esplosero in aria fino a sera
tarda e, come al solito, alla fine, restarono a terra solo i cenci, le
cartacce colorate, i proclami stampati e le immondizie pei brumisti
assonnati all’alba.
Una domenica, poco dopo i fatti di Roma, c’erano ancora i tri-
colori garrenti e i festoni appesi tra gli alberi e sui balconi, ero con
Monica ai giardini di Largo delle Pigne, alla fontana delle papere, a
guardare gli uccelli in ammollo assieme alla mia bambina.
Largo delle Pigne era stato per lunghi anni una piazza informe,
adibita un po’ a tutti i traffici e a tutte le esigenze. Era uno slargo
antico, ch’era stato un tempo collettore delle lave d’acqua che scen-
devano dalle colline fuori le mura. Vi si apre Porta San Gennaro,
attraverso la quale entrò Belisario dopo l’assedio di Napoli, ai tem-
pi della guerra contro i Goti.
Non una vera passeggiata, quindi. Baracche, casupole, bancarel-
le di librai e di marmisti e qualche alberello sparuto si estendevano
senza interruzione dalla Porta di Costantinopoli, che rammento,
perché l’abbatterono quando io aveva forse dieci o dodici anni e
che sorgeva dirimpetto quasi al Museo (dove, tra l’altro, nel ’70,
erano da poco iniziati i lavori di costruzione della Galleria Principe
Umberto, che sarebbero durati altri tredici anni), sino alla Chiesa di
San Carlo all’Arena, che sorgeva e sorge di fronte alla via Pietatella.
In quell’anno 1870, Largo delle Pigne divenne il giardino pubbli-
co che è tutt’oggi e che spero si conservi in avvenire. Ripiantarono
i pini che gli avevano dato nome e che erano stati piantati ai tempi
degli Austriaci e poi sradicati, fu costruita la fontana col Tritone
che sprizzava acqua soffiando nella sua conchiglia e che diven-
ne la dimora delle papere che Monica adorava andare a guardare
e a buttargli molliche; piantarono la palma che oggi è diventata
grande e imponente, e che troneggia al centro del Largo con la sua
ombra rigogliosa, circondata dai lampioni di ghisa.
Quella bella mattina di fine settembre, col cielo turchese che an-
nunziava l’autunno e ottobre, che a Napoli è il mese più bello, ce ne
350
stavamo seduti su una panchina, all’ombra dei pini odorosi, non
lontano dal Tritone famoso, godendoci il tepore beato della gior-
nata e l’attesa prima del pranzo domenicale.
Rammento ancora gli abiti che indossavo quel giorno: un bel
doppio petto lungo, marrone, coi calzoni a quadri, il panciotto e il
cilindro intonato. Monica indossava un abitino in velluto e taffetà,
bordò, e il cappellino di velluto di seta abbinato.
Era cresciuta da quando l’avevo conosciuta mia alunna. Diven-
tava una bella ragazzina alta, snella, col petto che già infloridava.
Le sue gambe lunghe tornivano, i suoi lineamenti affusolati s’as-
sestavano nel suo volto olivastro, che fino a quel tempo era stato
ancora in forse. Però, l’animo non mutava. I vezzi, le malizie, gli
atteggiamenti da donnicciola le erano estranei, i suoi occhi affilati
s’ispessivano d’intensità, ma non dimettevano la loro verace dol-
cezza. Era sempre esuberante, amabilmente scostumata, ciarliera
e curiosa e tanto simpatica. Era come l’adoravo e come l’amavo.
Io la viziavo assai, lo ammetto. Ogni suo desiderio era esaudito,
ogni sua pur minima passioncella era accondiscesa. Ma erano pur
sempre desideri e passioni d’una bambina, d’una bambina assen-
nata tra l’altro. Era ancora mia alunna e speravo presto d’iscriverla
a scuola e darle quell’educazione che, un giorno, l’avrebbe condot-
ta all’università, dove era categorico per me che accedesse.
Ero innamorato, innamorato perso. Non avrei mai più amato
nessuno, né l’amai, come ho amato Monica. Ero tornato a imma-
ginare, non a sperare, perché la speranza è vana in questa vita,
ma l’immaginazione è la culla dei vivi. L’immaginavo vivere una
lunga e delicata vita, piena di bellezze e di lungimiranza: le avrei
insegnato le vie della coscienza, senza che fosse costretta a languire
nelle tenebre, come avevo fatto io. Sì, la mia bambina sarebbe stata
questa: una donna bella e cosciente.
Quel giorno ce ne stavamo là seduti, uno accanto all’altra e ci
godevamo il leopardo del sole che attraversava a macchie le fronde
dei pini e ci lisciava il volto.
Antonietta era diventata la padrona, con buon grado di mia
madre, devo dire. Era anche diventata mia alunna. Le avevo inse-
gnato a leggere e a scrivere.
351
Monica era diventata la pupa di casa, viziata e vezzeggiata da
tutti, ed era pure una buona compagna di giochi di Carla, che le
voleva bene come a una sorellina. Ricordo che a volte, per divertir-
si, univano utile al dilettevole e lavavano i piatti assieme, facendosi
il dispetto di schizzarsi l’acqua insaponata e schiumosa a vicenda.
Seduto su quella panchina, avevo accanto a me la guantiera dei
dolci del dopo pasto, che avevamo comprati all’Aciniello, e pensa-
vo al pranzo che il mio gineceo stava preparando a casa.
Mentre pensavo alle leccornie che m’attendevano e m’ero così
fatto venire l’acquolina in bocca, passò un venditore ambulante
di graffe coi suoi cesti ricolmi di ciambelle dolci, e io non potetti
resistere.
«Papà, lo sai che poi mamma s’arrabbia se mangi prima di pran-
zo» disse Monica, quando le porsi i soldi per andare a comperare
un paio di graffe.
«E perché mamma dovrebbe saperlo? Io il segreto so mantener-
lo e tu?» risposi, tendendole i soldini.
Lei mi guardò incerta, poi guardò il venditore e venne anche
a lei voglia. Arraffò la grana con un sorriso e tornò con due belle
graffone ancora calde e zuccherose.
«Ti piace?»
«È meravigliosa».
«Sai, da bambino le mangiavo sempre. Me le comprava la no-
stra vecchia domestica al Mercato che ora non c’è più e che stava
di fronte casa».
«Perciò adesso sei ciccione!»
«Spiritosa, e tu sei un topastro».
«Ma sono il tuo topastro!» e mi si accoccolò vicino, imitando le
movenze e il verso del topo. Sorrisi e l’abbracciai forte.
«Mi vuoi bene?» chiese, coi i suoi occhi dolcissimi.
«Certo, da stare male».
«Non te ne andrai mai?»
«Mai».
«Ti voglio bene, papà».
Il cielo era turchese, le balie vestite di bianco spingevano le
carrozzine dei loro pupilli, i giovanotti in uniforme azzurra pas-
352
seggiavano con le ragazze al braccio, i bambini si divertivano a
sfamare le papere e alcuni vecchietti si crogiolavano attendendo il
pranzo e ricordando i tempi di Ferdinando.
Avevo trent’anni ed ero felice e credevo d’essere arrivato alla
fine. Non lo sapevo, non potevo saperlo, e non l’avrei mai più di-
menticato: io m’ero soltanto distratto dal buio.

353
NOVE
IL CAPITANO DEGLI UOMINI DELLA MORTE, 1871

Monica s’ammalò di polmonite a gennaio e morì agli inizi del


mese di febbraio del 1871.
Cominciò con una febbre altissima, che la bruciò come un fuo-
co, poi seguirono i dolori lancinanti ai fianchi e la tosse dura e atra.
Io non riesco a parlarne. Mi trema l’anima solo al pensiero e vorrei
troncare adesso questo racconto, col bianco della pagina, assai più
eloquente di qualsiasi parola, ma non posso. Lo farò, mio malgrado.
Stava a letto, arsa dalla febbre, con gli occhi sempre chiusi, il
musino socchiuso per far passare l’aria che le arrivava a stento ai
polmoni. Sento ancora i suoi rantoli rimbombarmi in testa, il senso
spregevole e l’amara delusione del bruciore della sua fronte, quan-
do, mettendole una mano in testa, speravo di sentirla più fresca.
Sento l’odore nauseante di tutte le medicine, gli unguenti, le paste
e le soluzioni vane che provammo per salvarla.
Me la ricordo, magra come uno scheletro, scavata dall’arsura,
con le ossa delle scapole che promanavano dalla carne sottile e fiac-
ca e il colore del suo volto e i suoi occhi dolci sbiancarsi, impallidi-
re, stingersi. Si stava trasformando in uno scheletro poco a poco,
e io non potevo salvarla da questo destino, non potevo sottrarla
da questo fato. Avrebbe sempre avuto dodici anni. Non avrebbe
mai conosciuto quelle cose che gli uomini credono indispensabili,
né avrebbe mai temuto lo spettro della vecchiaia. Sarebbe sempre
rimasta una bambina acerba, come un limone staccato dal ramo
prima di diventar giallo.
Chiamai al suo capezzale i medici migliori che riuscii a trovare.
Alcuni le prescrissero medicinali placebo, altri la sottoposero alla
coppettazione, col bicchiere che si riempiva per la pressione della
sua carne tenera e la faceva urlare.
354
Convocai anche il dottor Cardarelli. Il futuro senatore del Regno,
che all’epoca aveva una quarantina d’anni, magro ed emaciato, coi
suoi baffi folti e neri, aveva conosciuto mio padre e l’aveva stimato
assai e s’era senz’altro prodigato per assistere una bambina.
Fu una visita rapida, perché disperata. Il dottor Cardarelli sol-
levò delicatamente Monica e la spogliò della camicia da notte, per
auscultarle le spalle. Spossata, straziata dalla febbre, la bambina
ebbe, tuttavia, la forza istintiva di coprirsi il piccolo seno acerbo
con le palme, ma il dolore la vinse subito e le mani le ricaddero tra
le lenzuola e lei restò nuda, bianca e pallida, senza più forze, con
quell’unica rimostranza fredda nelle mani alla cautela d’un pudore
che appena, a quell’età acerba, aveva iniziato a intuire.
Dopo la visita, Cardarelli mi prese in disparte e parlò sincera-
mente e fu l’unico a farlo: era spacciata.
Non lo dissi ad Antonietta. Lei era fuori di sé, pallida e scheletri-
ca come sua figlia. Le dormiva accanto, le stava avvizzita di lato
da sveglia, non la lasciava un attimo e non piangeva. Non riusci-
va a farlo e devo dire che non lo fece mai. Mi aveva sposato per
guadagnarsi la libertà di sentirsi in diritto di piangere le sue lacri-
me più incarnite, ma non l’aveva fatto, mai. Non la vidi piangere,
neanche al funerale di sua figlia, che se ne andò alle 366 fosse, sul
monte Lautrecco, ora Poggioreale, accanto a mio padre e a mio
nonno, dopo essere stata benedetta dal prete al cospetto di re La-
dislao, ma se ne restò muta, con gli occhi sbarrati, pallida come la
calce e smunta, anch’essa uno scheletro esangue in divenire.
Una sera, mentre Antonietta dormiva accanto alla bambina, io
mi avvicinai a Monica e lei, per un attimo, aprì gli occhi e mi sor-
rise. Era il primo sorriso che le vedevo in volto da quando s’era
ammalata. «Monica» bisbigliai, per non svegliare Antonietta. Lei
mi sorrise ancora e mi tese una mano rigida e bollente. Io la strinsi
e poi le baciai la fronte, che mi restituì braci alle labbra, non pelle,
tant’era alta la febbre.
«Stefano» mormorò, e io trasalii, perché m’ero abituato a sen-
tirmi chiamare «papà» ormai. Mi feci più accosto e cercai di ascol-
tare cosa avesse da dirmi, tra i rantoli orrendi che le salivano da
polmoni bucati.
355
«Io ti amo» mormorò, e io sbarrai gli occhi. Poi la baciai. Le
baciai la bocca, lentamente ed essa rispose al mio bacio. Aveva il
sapore acidulo e ferale della malattia ed era ardente come la fronte.
La baciai a lungo, piangendo, e intanto le dichiaravo tutto l’amore
che avessi ancora in corpo, affinché mi svuotassi una volta e per
tutte di questo peso che è il mio essere umano.
A un tratto mi sentii osservato, lasciai le labbra di Monica e mi
voltai di scatto, dalla parte della porta. Il cuore m’andò in gola.
Sullo stipite, fermo e taciturno, c’era mio padre.
Egli entrò nella stanza e si avvicinò al capezzale. Mi mise una
mano sulla spalla, e io mi appoggiai al suo petto, in lacrime.
«Devi lasciarla andare» disse.
«Ma io la amo, è la mia bambina, la sposa della mia anima. Non
posso…»
«Devi lasciarla andare».
«La rivedrò?»
«No».
«E perché allora ho rivisto te?»
«Perché stai sognando e nei sogni ogni cosa è possibile. Ma non
la rivedrai. Non rivedrai nessuno e non te ne importerà più niente,
perché anche tu sarai confuso».
«Dove?»
«Nel buio».
«E tutto questo amore, allora, a che serve?»
«È un’illusione, per nascondere il buio, e per rivelarlo».
Poi guardai la porta e vidi ch’erano comparse altre due figure:
una era il nonno, l’altra era John Roth.
A quel punto, Monica si alzò dal letto, come fosse guarita, men-
tre Antonietta continuava a dormire.
Si fermò un attimo davanti a me, mi baciò ancora e mi acca-
rezzò in volto. Poi prese per mano mio padre e s’avviò alla porta.
Uscirono dalla stanza insieme, nel corridoio pieno di tenebre.
Ancora per un istante rimase Roth sull’uscio, a fissarmi. Mi sor-
rise. Si toccò la tesa del cappello, in segno di saluto, poi richiuse la
porta dietro di sé.
Quando mi svegliai, Monica non c’era più.
356
DIECI
IL CAPODOGLIO, 1873

Castel dell’Ovo m’è sempre sembrato una specie di corallo, una ma-
drepora vecchia, consumata e scolorita dal sole su qualche spiaggia
bollente dei Mari del Sud. Non una fabbrica d’uomini, ma di bestie.
Lì, sospeso su quel lembo di terra, arroccato sul tufo ocra che gli
diede la pietra e il colore, troneggiante sulla costa e sul mare, col
suo segreto leggendario di fragilità ovulare sepolto nelle fonda-
menta e i fantasmi prigionieri di tutti quelli che trascorsero le loro
ultime ore in carcere a gemere tra la patelle, Castel dell’Ovo m’ha
sempre dato l’idea d’essere un resto, il relitto d’un mondo sottoma-
rino preadamitico, il superstite venuto a galla dal buio abisso che
doveva essere un tempo Napoli.
Una mattina di maggio m’ero spinto a passeggiare insolitamen-
te fino a via Caracciolo, dove i lavori per la costruzione del lungo-
mare procedevano di buona lena.
Ero fermo a contemplare il castello, così placido sull’acqua im-
mobile e traslucida, nell’aria dolce di maggio, impresso sul cielo
azzurro e limpido. Dietro la sagoma della rocca, si stagliava quella
del Vesuvio, col suo pennacchio di fumo annerito dell’eruzione
dell’anno precedente, che aveva danneggiato Massa di Somma e
San Sebastiano.
Stavo fermo sul mare calmo, domandandomi a quale colonia di
polipi infiniti fosse appartenuta quella conchiglia immensa, vuota
e giallognola, e mi sovvenne Lucullo, che aveva la villa proprio lì,
su quell’isolotto che un tempo si chiamava Megaride, e che ne suoi
pranzi sontuosi mangiava murene fritte e lamprede in umido. Lì,
dove scesero i primi uomini a portare la leggenda di Partenope, e
a iniziare quel lungo e oscuro sogno che sarebbe stata poi Napoli
e la sua storia.
357
Vestivo pesante quel giorno, con la giacca nera e i calzoni di
fustagno e la bombetta calata in testa, e sentivo un gran caldo. Mi
spogliai della giacca e restai in maniche di camicia e panciotto.
Mi misi a camminare verso la Villa, dando le spalle al castello,
ascoltando le onde rompersi quiete sui frangiflutti.
Non so cosa m’avesse spinto così lungi da casa. Forse la solitudine
e la voglia di sgranchirmi dal torpore della sedentarietà e delle lezioni.
Oramai a casa c’era ben poco da salvaguardare a parte i miei
alunni. Sentivo spesso l’odore di Monica nell’aria, che s’era impre-
gnato in tutte le cose che aveva toccato, ed erano tante, troppe, e
così dovevo uscire, per non soffocare tra i ricordi. I peggiori fanta-
smi non sono quelli che ti tirano i piedi nel letto, di notte, ma quelli
che t’abitano l’anima ogni volta che lo struggimento l’invoca.
Antonietta non aveva resistito a quell’odore. Aveva lasciato me
e la mia casa pochi mesi dopo la morte di Monica. Non so che
fine abbia fatto, né se sia ancora viva oggigiorno. Ci scambiammo
qualche lettera per un breve periodo, poi il silenzio. Sinceramente,
non mi presi mai troppo la briga di preoccuparmene.
Camminavo spesso, in compenso, ed ero pure dimagrito un
poco a forza di moto. Passeggiate brevi, s’intende, fino a Mercatel-
lo o a Toledo, ma quasi giornaliere e sempre solitarie.
Avevo ridotto le lezioni di molto, non ne avevo bisogno e non
volevo che m’impegnassero troppo tempo, perciò potevo dedicar-
mi alle mie peregrinazioni.
A malincuore, tuttavia, devo dire che l’odore di Monica non
m’abbandonava neanche in quelle passeggiate. Avevo consumato
ogni lacrima utile al suo capezzale, sulla sua bara, al suo funerale,
di notte, tra le coltri. M’ero prosciugato di lacrime, avevo scavato
e portato in superficie fin la più intima sorgente di dolore che si
fosse potuta reperire in me. Mi avanzava solo il deserto arido e
sterminato che tocca a tutti i sopravvissuti, a coloro che restano
confinati in quest’inferno benedetto d’illusioni che è la vita. Mi re-
sta ancora, quel deserto, in fondo. È quello che vivo ogni giorno, è
quello che vivrò poco prima di tirare le cuoia.
Qualche volta Monica mi veniva in sogno, ma mai come quella
volta, in cui l’avevo amata per l’unica e ultima volta in vita mia.
358
Ebbene sì, io l’amavo. Volevo che fosse mia figlia, la mia amante,
la mia sposa. Volevo amarla di tutti gli amori che questa vita ci
propina. Il vero amore somiglia tanto, anzi, è la morte. Un lun-
go, naufragio, un’estasi perpetua, una libertà perenne. Niente età,
niente sesso, nessuna condizione sociale, nessuna regola morale.
Solo un titanico smarrirsi.
Avrei mai potuto amare Monica nel mondo dei vivi? No, natu-
ralmente. Sarei stato un mostro, un pederasta, un corruttore agli
occhi dei vivi. Ma nel buio, nel nulla, nel mondo dei morti, dove
gli uomini si fondono finalmente nell’unico e ineluttabile fato che
li accomuna, beh lì saremo amanti per sempre, dove non ci ricono-
sceremo più. Sarà l’amore perpetuo, in cui saremo confusi nell’in-
coscienza con tutti coloro che avremo amato e odiato nella nostra
breve condanna alla luce. È quello l’amore, lì è il necessario e il
vero: dove non c’è speranza.
Mi fermai un attimo a riprender fiato, là dove potei guardare
la glauca testa d’aspide della collina di Posillipo flettersi nell’acqua
argentea e per caso mi venne voglia di buttare un occhio al quo-
tidiano che avevo acquistato la mattina, ma al quale non avevo
ancora badato e che se n’era stato piegato nella tasca della giacca
fino a quel momento.
Era Il Secolo, un quotidiano milanese che a quei tempi anda-
va per la maggiore anche a Napoli. Non dimenticherò mai quella
data, «Milano, 1873, sabbato 24 maggio» con quelle due «b» che mi
stridettero in bocca, né dimenticherò quella piegatura che tagliava
in due il volto d’un ritratto d’Alessandro Manzoni, stampato al
centro di quella prima pagina fitta. “Manzoni è morto”, pensai.
Mi tremarono un po’ le gambe, mentre fissavo quel volto av-
vizzito, affranto, severo, il volto canuto d’un vecchio afflitto dagli
anni, ch’aveva odorato di fiori bagnati, aveva avuto la chioma ful-
va e gli occhi verdi d’uno stagno facile al torbido. Com’era diver-
so da come lo ricordavo e tenevo nel cuore, quando m’illustrò le
tavole del Turpin, e io, per ringraziarlo, gli pisciai sulle ginocchia.
Quel vecchio mi guardava indifferente, distaccato, freddo, un
uomo immenso, incrudelito dagli anni. Guardai il mare, indiffe-
rente e limpido come quegli occhi stampati, quando a un tratto fui
359
urtato bruscamente da qualcuno e il giornale mi cadde di mano.
Lo raccolsi subito e notai che il passante s’era aggregato a un ca-
pannello affollato che rimirava qualcosa oltre i frangiflutti.
Rimisi il giornale in tasca e mi aggregai anch’io alla folla vocian-
te. Mi feci un po’ di spazio tra quei passanti pettegoli e arrivai alla
ringhiera oltre la quale c’era l’acqua e allora lo vidi pure io. Riverso
su un fianco, lungo almeno dieci metri, bigio antracite, con la lin-
gua penzoloni dalle grandi fauci divelte, la testa mastodontica e il
gigantesco fallo cianotico esploso dalla pressione, stava, incastrato
tra i frangiflutti, un colossale capodoglio.
L’animale doveva essere stato trascinato nell’acqua bassa dalle
onde, poi era stato spinto tra gli scogli e infine aveva cessato di
vivere soffocato dal suo stesso peso e dalla disidratazione. Alcuni
carabinieri tenevano a bada un gruppo di curiosi che erano scesi
addirittura in spiaggia, per avvicinarsi al grande cetaceo, mentre i
biologi della neonata Stazione Zoologica effettuavano misurazioni
e prendevano appunti sulla balena.
Vedevi questi omiciattoli bigi informicarsi attorno a quella cre-
atura immobile e poderosa, col piccolo occhio opaco rivolto al cielo
turchese, come a maledire chissà quale dio degli abissi per la beffa
crudele di aver inventato la superficie e gli uomini.
Fissai attentamente quell’animale, che per tanto tempo aveva
accompagnato la mia fantasia, mentre la gente faceva maliziose
battutacce sulla mole della virilità della balena e alcuni scugnizzi
scalcagnati smaniavano per avvicinarsi. In alto, sopra le nostre te-
ste, volteggiavano i gabbiani nervosi, impazienti di fiondarsi sul
lauto e inaspettato banchetto.
Poco a poco la folla si allontanò, dopo aver commentato un bel
pezzo quel singolare spettacolo e proprio mentre iniziava ad annu-
volarsi. Poi cominciò una pioggerellina fitta e calda, sospinta da
un leggero Scirocco e molti curiosi scapparono via, lasciandomi
da solo.
Non saprei dire per quanto tempo rimasi a fissare quell’animale
morto sulla battigia, livido e incrostato di sabbia, dileggiato dalla
meschinità degli uomini, offeso dalla gravità. Non saprei dire per
quanto tempo mi nutrii l’anima di quella morte più grande di me.
360
Restai tanto da tornare a casa fradicio, col giornale che avevo
in tasca inzuppato e disfatto e le avvisaglie spiacevoli d’un brutto
raffreddore.
Così tanto restai, a ripetermi in mente, con gli occhi che m’erano
tornati a lacrimare grazie alla benevolenza della pioggia, che quel
capodoglio, ovunque stesse nuotando, non sarebbe mai più andato
lontano.

361
EPILOGO, 1845

La stanza era assai piccola e male illuminata. Assomigliava va-


gamente allo studio.
C’era altra gente in quella stanza. C’erano i suoi genitori, suo
nonno e alcuni che non riconosceva.
Era buio e stretto là dentro. Sentiva il cuore pulsare, un tamburo
frenetico, come un mantice forsennato incastrato nel torace. Era
terrorizzato.
L’aveva sentito, l’aveva sentito in lontananza, quel verso assor-
dante e feroce. Un barrito mostruoso.
La stanza iniziava a tremare, ogni cosa iniziava a tremare. Il barrito
si levava di nuovo, più vicino questa volta, e più fragoroso di prima.
Si stava avvicinando, sentiva i suoi passi squassare l’aria e la
terra. Ogni passo era un tuono, un’esplosione.
Qualsiasi cosa passasse sotto di esso veniva distrutta. Lui sape-
va che gli sarebbe toccata la stessa sorte. Eccolo, eccolo là, immen-
so, lanoso, feroce, con le zanne lunghe e affilate, protese innanzi
alla sua furia primordiale. Il mammut stava arrivando.
Il terrore era assoluto, l’unica cosa da fare era nascondersi.
Chiudere gli occhi e nascondersi.
Sotto a un cappotto, il posto dove la disperazione può far na-
scondere solo un bambino.
Là sotto lo sentiva ancora, più forte. In quel nuovo buio lo sen-
tiva vicino. Barriva, ringhiava e presto l’avrebbe travolto. Presto,
molto presto. Poi si svegliò.

Stefano aprì gli occhi in quella sua camera nera di tenebre. Su-
dava, tremava tutto. Aveva sognato ancora una volta il mammut.
Si guardò intorno, smarrito, poi si rincantucciò sotto le coperte.
Valeva la pena chiamare la mamma? Non lo sapeva, ma era troppo
362
affaticato per farlo. Voleva prima calmarsi, sentiva che doveva
prima tranquillizzarsi dal terrore.
Quante altre volte sarebbe venuto il mammut a svegliarlo nel
cuore della notte? Quante volte ancora quel terrore l’avrebbe vio-
lentato nel mezzo del sonno profondo? Non poteva saperlo.
Fu così che non fu più il mammut a svegliarlo durante la notte,
ma il terrore al pensiero che potesse ritornare.

363
EPILOGO, 1909

L’ospite era immobile. Respirava lentamente a labbra strette e


aveva corrugato la fronte, tenendo gli occhi fissi sulla canna lu-
cente di quella pistola.
Il cuore gli sussultava in petto, aveva paura, ma si sentiva vivo.
Oh sì, che diamine, quella sì che sarebbe stata una morte degna.
Non avrebbe potuto sperare altro. Non restava che attendere un
poco di dolore, poi più niente.
Il professore si avvicinò lentamente alla sua poltrona e si rise-
dette, tenendo sotto tiro l’ospite.
«Bene, tenente, siamo alla resa dei conti. Alla fine lei è proprio
dove ho promesso che sarebbe stato, prima o poi: dall’altra parte
della mia arma. A quanto pare, il nostro destino era davvero quel-
lo di andarcene all’inferno assieme».
Ci fu silenzio. La Colt tremava tra le mani del professore. Non lo
sapevano, ma erano tornati entrambi su quella barricata in quell’i-
stante. Tutti e due a Palermo, in quel mondo di prima ch’era morto
per sempre. Riebbero vent’anni e, come due amanti dopo l’amples-
so, sarebbero voluti restare in quello stallo per il resto della loro
vita.
«Però ha ragione, tenente: è arrivato troppo tardi. Ora non è più
possibile salvarsi dal ridicolo».
Il professore premette il grilletto e il cane s’abbatté a vuoto sul
tamburo scarico. L’ospite sussultò a quello scatto metallico, poi ri-
cadde affranto sullo schienale della poltrona.
Il professore abbandonò la Colt sul tavolino e si riappropriò del
sigaro, riaccendendolo. Il fumo azzurrognolo svolazzò ancora per
la stanza.
«Per molti anni mi sono dimenticato di lei. Ho dimenticato il
suo nome, il suo volto, la mia promessa. Ho dimenticato perfino
364
Giorgia e ho dimenticato Palermo. L’evento fondamentale della
mia esistenza non ha avuto importanza e quindi non merito la
vendetta, né merito d’essere salvato dal ridicolo. Ebbene sì, con-
fesso, ho dimenticato, ho dimenticato ogni cosa. Come vede, esiste
qualcosa di peggiore del ridicolo. Sarebbe stato meglio che lei non
fosse mai tornato. Almeno, per uno dei due, avrebbe avuto ancora
senso quel che è stato».
L’ospite alzò lo sguardo e fissò il professore, poi guardò la porta
e la sua attenzione fu catturata dal dipinto di Ferdinando. Osservò
gli occhi vuoti e assenti del re e poi tornò a guardare il professore,
che adesso sorrideva.
«Sa, tenente, mio nonno mi ripeteva spesso, in questa stessa
stanza dove ci troviamo, che “Si sopravvive sempre”, ed è vero,
ahimè, è vero. Io ho dimenticato le cose migliori e pure sono qui,
ancora vivo. Ma poi, mi domando, ha così tanto valore ricordare?
Questa vita non è che un lungo ritorno al buio da dove siamo usci-
ti, un ritorno a essere sconosciuti in questo marasma d’assillanti
intimità. Niente ci può salvare da questo fato, nessuna illusione,
nessuna speranza, nessuna realtà. Tutto quello che abbiamo per-
duto, presto non avrà più senso e allora non l’avremo mai perduto
e la nostra vita, le nostre promesse, i nostri amori, le nostre me-
morie, non saranno più che una scintilla d’un falò che si spegne
lentamente nella notte».
Il professore fissò il re dipinto, poi sorrise ancora e disse: «O for-
se non è vero niente. Chi sa, in fondo, cosa è vero? Forse mi sono
sbagliato su tutto. Può essere. L’unica cosa che so è che alla fine
resta ben poco, lo stretto necessario per stare in silenzio».
«Sa, Turati, tanto tempo fa io pensavo, anzi, speravo, con tutto
il cuore, che io e lei saremmo caduti insieme, con le armi in pugno,
sul campo di battaglia».
Il professore sospirò, tenendo gli occhi fissi in quelli del vecchio re.
«Lo speravo anch’io».

365
LA STANZA DELLO SCRITTORE
ARTE
Non mi sono mai cimentato in una definizione dell’arte, forse per-
ché, prima d’ora, non ne ho mai avuto necessità. Suppongo che l’arte
sia ciò che il mio istinto non vuole definire. Credo, tuttavia, che il suo
potere sia nella catarsi, in quella purificazione dell’anima che essa
realizza. È dunque una liberazione, spogliarsi d’ogni remora morale.
Tuttavia, l’arte resta un principio umano, una sovrastruttura neces-
saria attraverso cui sperimentiamo la realtà. Forse è proprio questo il
punto: l’arte ci purifica dal nostro perenne bisogno di catarsi.

SCRITTURA
La scrittura, credo, sia lo smarrimento. Intuire, definire e in fine
perdere ogni frammento del reale nell’ordito della trama. Fin da
quando ho avuto consapevolezza di questo mestiere, ho creduto si
trattasse d’un opera d’oblio. Scrivere è raccontare, e il racconto è
tracotanza, è ybris. Ogni storia sospende l’avvento della morte, o
meglio, ce ne offre l’illusione. Così, ciò che intuiamo memoria è in
realtà la sua confusione. Scrivere è una contraddizione, un ossimo-
ro. Costruisce a tracciare la via della distruzione.

ROMANZO
Il romanzo, o meglio, il romanzo storico nella fattispecie, è una
seduta spiritica, un rito vudù. È il racconto di un fatto mai acca-
duto davvero. Non così, almeno.
Suppongo che sia proprio di questo genere evidenziare la traco-
tanza insita nella letteratura, quella ybris di cui parlavo prima, che
sussiste a ogni racconto, sin dai tempi in cui i trogloditi disegnava-
no i mammut sulle pareti delle caverne.
Il passato è un irrimediabile sconfitta dell’anima. Ogni cosa vi
finisce, vi rimane relegata. Non esiste più nulla di quello che è stato
369
e la memoria è una pallida illusione di recupero. Della rosa e di
Roma restano i nudi nomi.
Ecco, allora, che il romanzo storico si fa istitutore di tale illusio-
ne: la accresce e la rinsalda, la glorifica, creando una realtà alterna-
tiva a quella, ormai, irrecuperabile. Insomma: il romanzo storico
tradisce la natura, inventando concorrenze che inducano a credere
quella sia stata, un tempo, la realtà.
Ridurre il sacrilegio è impossibile: il narratore deve operare
nell’eresia, scatenarla, anzi. Raccontare è quell’atto contro natura
che ci consente di sperimentare la Natura stessa.
Il presente è rumore, diceva Vassalli, il passato è nulla. Il futuro
è inesistente. Tra rumore, nulla e inesistenza si sviscera la nostra
vita e il romanzo storico racconta questa verità.

370
HIT PARADE
DI 10 ROMANZI STORICI CHE CONSIGLI

1. I promessi sposi, Alessandro Manzoni, 1827-1840


È l’aleph della nostra tradizione. Il «romanzo senza idillio», se-
condo Ezio Raimondi, l’opera che per la prima volta racconta l’an-
titesi irrimediabile tra Storia e Provvidenza, ovvero lo scarto che
sta fra il violento e spicciolo senso comune, facilmente perseguibi-
le, e la scelta sempre sofferta della coscienza. È la storia della ne-
cessità di accettare una giustizia (leggi realtà) alternativa a quella
imposta dalla società, consapevoli, tuttavia, che il rischio di cedere
alla semplificazione è sempre in agguato.

2. Le confessioni di un italiano, Ippolito Nievo, 1867


«La felicità è nella coscienza; tenetevelo a mente» afferma Carlo
Altoviti nelle sue Confessioni. Il romanzo di Nievo, una lunga saga
che racconta la storia d’Italia dal 1775 al 1848 è, dopo I promessi
sposi, l’opera che in maniera più convinta afferma la necessità di
restare saldi a quei principi d’intuizione che ci faranno discernere
il vero dalle facili illusioni. Una palestra d’allenamento all’ordito,
dove si mischiano personaggi fittizi e storici, imbastita febbrilmen-
te, quasi, come se lo scrittore, che morirà in mare a trent’anni, pre-
sagisse di non aver tempo. Una difficile storia d’amore, che inse-
gna che scegliere e sapersi far scegliere è l’unica strada alla felicità.

3. I Viceré, Federico De Roberto, 1894


Un romanzo crudele e bellissimo, in cui non compare neanche
un personaggio positivo: la storia della nobile famiglia Uzeda,
discendente dei Viceré spagnoli, negli anni cruciali dell’Unità. In
questo calderone di figure grottesche e feroci anche l’apparente
bontà rivela le sue ombre più recondite. L’opera di De Roberto è
371
una storia di pessimismo cosmico, in cui l’evoluzione è solo un atto
di rinnovata anchilosi. L’uomo rimane immobile, capace solo di
restar fedele a non altro che al suo ferreo istinto di sopravvivenza.
Un romanzo privo di scrupoli e illusioni, che conclude lucidamen-
te la lunga epopea ottocentesca.

4. Il Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1958


Direi la storia degli effetti dell’umano su un’anima destinata al
nulla, parafrasando Stendhal. Uno dei romanzi più fraintesi della
storia letteraria, soprattutto nei suoi risvolti politici. Non è un ro-
manzo storico nel senso più stretto del termine, è un romanzo sulla
fine di un mondo e di come tale fine non perturbi minimamente
l’ordito della realtà. Il principe Fabrizio è proiettato, come il suo
autore, al di là della storia e dei fatti umani. La sua meta è Venere,
e tutto ciò ch’essa significa: l’esilio, la confusione, l’oblio. Una sto-
ria sul desiderio di tornare increati, lontani, finalmente “dal san-
gue e dai torsoli”.

5. Novecento, Bernardo Bertolucci, 1976


Voglio inserire un film in questa mia lista, il mio film preferito.
L’ho visto la prima volta a tredici anni, ed è stata una delle opere
più importanti della mia vita. È la storia di due amici, il “figlio del
padrone e il bastardo contadino”, dalla morte di Verdi alla Libe-
razione, in quella Bassa emiliana che è Heimat, rifugio ed esilio,
non-luogo in cui tutto ritorna, come un mare di grano, fiume e
nebbia; in cui Bernardo ha parafrasato Attilio, dove il Cigno di
Busseto ha evocato dal “latte e dalla merda” la sua Opera conta-
dina. Romanzo storico, politico e di formazione, Novecento mi ha
insegnato a cercare la terra sotto le unghie che da ragazzo avevo
dimenticato.

6. L’ordalia, Italo Alighiero Chiusano, 1979


L’ordalia sa restituire gli ocra del X secolo in cui è ambientato, le
sfumature eteree, quel romanico oggi irrecuperabile, che possiamo
solo intuire attraverso la preponderanza dei secoli gotici e baroc-
chi. La storia dello scrivano Runo, che scoprirà un segreto orren-
372
do: la Donazione di Costantino, sancente il potere temporale dei
Papi, di cui pure Dante dubitava, è un falso. Ecco allora l’ordalia,
la sfida che Runo deve sostenere con sé stesso: tacere o rivelare la
verità. Un’altra storia di coscienza, nella cornice d’un Italia primi-
tiva, feroce e vergine.

7. Il nome della rosa, Umberto Eco, 1980


Il nome della rosa è un grande scherzo, un immenso gioco let-
terario. La sua potenza sta nella profonda ironia e in quel carat-
tere enciclopedico che lo connota. Non è ciò che racconta a farne
un magnifico romanzo storico, ma la sua concezione strutturale:
racconta il Medioevo facendosi Medioevo, delineandone le con-
traddizioni, le peculiarità, le bellezze, le intuizioni morali. È una
piccola Commedia che in sette giorni racconta secoli. Un romanzo
sul Tutto, com’erano le opere medievali, che dovevano conservare
il più possibile prima che il cambiamento arrivasse, trasformando
ancora una volta il mondo.

8. Il resto di niente, Enzo Striano, 1986


Manzoni è morto è più figlio di questo libro che d’altri, salvo
Il Gattopardo. Anzi, mi permetto di asserire che sia una sorta di
seguito. Le vicende della Repubblica Partenopea, l’inquadramento
morale dei napoletani che questo evento ha rivelato, sono soltanto
il prologo a quello che sarebbe accaduto all’inizio di settembre del
1860. Nel suo romanzo, Striano racconta il fallimento della nostra
presunzione, della nostra atavica arroganza, che acceca i sapienti
e storpia i ciechi, dimostrando che il martirio non è testimonianza
di giustizia, ma attestato di nullità: ciò che rimane del sangue, in
mezzo al Mercato, è, appunto, come diciamo a Napoli, ’o riesto ’e
niente.

9. Un infinito numero, Sebastiano Vassalli, 1999


Cito questo per citare gli altri. Di Vassalli credo d’aver letto tutti
i romanzi storici, e parlo di Un infinito numero perché è il primo
che ho avuto tra le mani, ed è quello a me più vicino, essendo il ri-
ferimento principale del mio Virgilio o la terra del tramonto. Senza
373
Vassalli, forse, non sarei stato scrittore. Vassalli si è esiliato tra le
sue campagne novaresi cercando nelle nebbie le storie, la polvere
d’oro in mezzo al rumore. Di Vassalli c’è da dire solo che avrei
voluto guardarlo negli occhi.

10. Canale Mussolini, Antonio Pennacchi, 2010


L’epopea dei Peruzzi, questa bella saga familiare, ambientata
tra l’Emilia e Latina nella prima metà del ’900, ha la cadenza d’un
racconto fatto col sigaro trai denti, fuori a una casa assolata nel
mezzo di maggio, in campagna. È una storia in cui si odono i gridi
degli uccelli, lo stridore dei tacchi sul selciato, persino le sospen-
sioni della tosse, quando il fumo del toscano va di traverso. Cin-
quant’anni di storia italiana masticati con ironia e senza retorica.
Una storia di vecchi. Mi dà l’idea d’un film di Pietro Germi, “col
risvolto ai pantaloni”. Roba che ti fa respirare per davvero.

Altri: Jennings, Guild e McCarthy


Alla fine, restano gli autori che m’hanno ispirato, pur non po-
tendoli definire feticci. Gary Jennings e il suo Azteco, poderoso ro-
manzo sulla gloria e la decadenza dell’impero azteco dalle origini
all’avvento di Cortés; L’Assiro e il suo seguito, Ninive, di Nicho-
las Guild, che, come il romanzo di Jennings, fanno parte di quella
sana narrativa storica americana che educa al ritmo e alla cadenza
serrata delle scene, quasi il montaggio cinematografico fosse tra-
sposto su carta. Di Cormac McCarthy cito Meridiano di sangue,
straordinario romanzo western, che mi ha insegnato il valore del
silenzio e della polvere. Altri romanzi non ne ricordo, per ora, e
altri ancora, invece, dovrò leggerli.

374
AUTOBIOGRAFIA NARRATIVA

Comincia tutto in una vasca da bagno. Ci sono io a tre anni,


immerso fino al busto nell’acqua calda. Attorno a me il vapore
sale lento e tortuoso, le mattonelle bianche alle pareti diventano
madide. Sento l’urto sommesso dei miei piedi sul fondo della va-
sca. Non sono solo: ci sono i miei giocattoli. Squali, piovre, balene.
Calamari giganti. La storia comincia nell’acqua, come Lo squalo di
Spielberg, come Moby Dick. Sono storie di mare le prime storie che
ho raccontato e si sono perdute, tutte. Ho imparato a narrare fa-
cendo il bagno, nutrendo i miei squali di gomma di carne umana.
Ricordo ancora il mondo che svanisce, il pallore delle mattonelle
che diventa cobalto, gli orizzonti che si perdono. La vasca diventa-
va l’Oceano e io giocavo raccontando finché non mi venivano “le
dita a vecchierello”.
La prima volta, però, che ho avuto il sentore del potere delle sto-
rie era quando avevo sì e no quindici anni e mi innamorai. Era una
ragazza troppo bella perché le parole potessero valere a qualcosa.
Dovevano essere perfette, essenziali, dovevano dirle ciò che pro-
vavo. Così scrissi una storia, una storia d’amore tragica e tristis-
sima, e gliela regalai. Non servì a nulla: non ci siamo mai baciati.
Però, la conquistai. Lei capì che ero pericoloso, che facevo sul serio.
Avevo scelto le parole così accuratamente che lei comprese che
l’avrei amata per sempre se mi avesse voluto.
A diciassette anni inventai Stefano Turati e lessi la sua storia
in classe. In verità eravamo in quattro, compresa la professoressa
Cocci, che ha amato le mie storie fino al giorno della sua morte.
Ascoltarono la storia fino in fondo e credo fu in quel momento che
la professoressa capì che non avrei mai tradotto bene il greco, e ne
fu felice. Avrei fatto altro, ci avrei provato, ma di certo il greco
non sarebbe mai stato per me.
375
Le poesie le ho scritte all’università, quando bevevo troppo e mi
vestivo da poeta maledetto. Pesavo più di cento chili e portavo il
Borsalino nero. Scrissi così tante poesie, bevvi così tanto assenzio,
corteggiai tante ragazze senza successo, che alla fine pubblicai il
mio primo libro, Alla murena e al cielo di pioggia. Era il 5 maggio
del 2009 quando andai a presentarlo a Roma. Sono passati dieci
anni: ricordo ancora che sapore aveva la birra che bevvi prima di
sedermi davanti al pubblico.
La storia più grande di tutte, però, quella che mi diede il colpo
di grazia, mi venne in mente un pomeriggio di primavera, sul fare
del tramonto. Stavo camminando lungo il corso del fiume Chiese,
in provincia di Brescia, in seno alla grande Pianura. Il colore del
cielo era lavanda e c’era tanto fuoco rosa là sopra da ardere intere
le robinie che gettavano ombra sul greto. L’acqua scorreva lenta.
Sembrava mercurio. Ad un tratto, proprio davanti a me, un airo-
ne si staccò dalla terra e volò alto sopra gli alberi. Allora capii che
l’airone era il nulla e che tutte le storie sono il suo racconto. Così
decisi di narrare la storia di Virgilio, che fu costretto a inventare
l’Eternità. Là, sulla sua terra, io vidi le storie sparire, come l’acqua
del greto del Chiese. Là compresi che non avevo scampo, poiché
da bambino, quando facevo il bagno e raccontavo le mie storie
di mare, stavo già affogando nei mari che la mia immaginazione
avrebbe fatto sempre più profondi.

376
LA PRIMA IMMAGINE

La prima immagine è quella di Jack Crabb nel Piccolo grande uomo:


un vecchio di 121 anni relegato in un ospizio, che se ne sta in silenzio a
riflettere sulla battaglia del Little Big Horn e sulla fine del mondo.
“La voglio scrivere anch’io una storia così”, pensai, dopo aver
visto il film e aver letto il romanzo di Thomas Berger: la storia di
un uomo vecchissimo che racconta la propria vita.
Decisi allora di ambientare la vicenda in Italia. Il mio mondo
ideale a quel tempo, grazie a Novecento di Bertolucci, era la Bassa
emiliana.
Stefano Turati era di Guastalla, in provincia di Reggio Emilia.
Era un vecchio di cent’anni, che il 10 giugno 1940, alla dichiara-
zione di guerra di Mussolini, comincia a ricordare il suo passato e
quell’impresa dei Mille che non aveva portato altro che a una serie
infinita di guerre disastrose.
Scrissi un racconto. Si intitolava Uno di Mille e andò a far parte
di una raccolta mai pubblicata davvero col titolo C’era una volta in
Italia. Era il mese di aprile del 2007.
L’anno dopo andai in Sardegna e visitai la tomba di Garibaldi a
Caprera. L’avevo già fatto da bambino, ma quella volta fu diverso.
Ricordo ch’ero a letto la sera di quel giorno alla Maddalena. “E
se Stefano Turati fosse napoletano?” pensai. “Se in realtà a lui non
fregasse niente dell’Unità? Lui non è come gli altri, lui è un egoista.
È un borghese pieno di privilegi, scontento delle sue comodità, per-
ché non se ne avvede”.
Allora, gli diedi un pretesto: Giorgia. Sarebbe stata lei il motivo
per cui Stefano sarebbe andato in guerra. “Niente politica, nien-
te fede, niente amore: solo un capriccio, un capriccio terribile che
porterà alla fine del mondo. Come per i Borbone, che per conser-
vare il trono hanno perso il Regno”.
377
“Poi” mi dissi “non voglio un altro Jack Crabb. Turati deve rin-
giovanire. Non voglio copiare Berger. Sarà anziano, ma non decre-
pito”, e così gli tolsi trent’anni e gliene diedi settanta.
A quel punto Uno di Mille non poteva più essere una novella:
doveva diventare un romanzo.
Ricordo ancora il cuore che mi pulsava quella sera in Sardegna,
mentre prendevo appunti. Avevo diciotto anni, e non sapevo dav-
vero un cacchio di come si scrivesse un romanzo.
Il titolo, però, non mi piaceva. Quello già scelto sembrava preso
da un romanzo didascalico d’età umbertina.
Decisi di intitolarlo Ottocento, senza sapere, però, che stavo ru-
bando a Salvator Gotta e alla sua saga omonima. Allora, mi venne
in soccorso Homer Simpson.
C’è una puntata in cui gli springfieldiani parodiano Amadeus di
Forman. Bart è Mozart e Homer è il padre Leopold.
Alla morte del musicista, Homer esce in strada e in lacrime gri-
da: «Mozart è morto!», tentando poi di vendere ai passanti la sua
maschera mortuaria come souvenir.
Quel grido era l’apocalisse. La fine di un’epoca. Dopo Mozart,
c’è Napoleone, c’è Beethoven. C’è l’Ottocento.
“Chi potrebbe rappresentare la fine del mondo in Italia?” mi
chiesi. Manzoni era uno dei personaggi del mio racconto, anzi, era
la struttura morale del mio lavoro. Morto Manzoni, muore l’Otto-
cento. Allora, Manzoni è morto, con quella bella allitterazione delle
m che è una goduria tra le labbra.
Scrissi il romanzo, lo scrissi a mano, col pennino e la penna stilo-
grafica, perché sentissi davvero il peso del lavoro fatto come usava
a quei tempi. Lo lessi, lo rilessi, lo feci leggere. Piacque a molti, ma
a me no. Allora lo riscrissi, tutto d’accapo, dopo essermi allenato
con Virgilio o la terra del tramonto.
Alla fine, lo lessi di nuovo. Turati era diventato ciò che credevo
e volevo: un uomo che vuol sbarazzarsi di tutti i ricordi, che trova
più vera la sua decadenza che la sua gloria.
Sono passati più di dieci anni. Ci ho messo metà della mia vita
per arrivare a scrivere queste due pagine. Questa è la fine. Ora
Turati e tutto il Regno possono tornare finalmente a dormire.
378
INDICE

Prologo, 1889 7
Prologo, 1909 11

PARTE PRIMA - IL REGNO DELLE DUE SICILIE 17


La ferrovia Napoli–Portici, 1839 21
La nascita, 1840 31
La disputa del nome, 1840 34
La Villa dei Pezzenti, 1846 36
L’illustre conoscente di Roberto Turati, 1842 40
La lettera del mese di marzo, 1846 49
L’amico di Francesco Mario Pagano, 1799 62
Il Quarantotto, 1848 83
Una brutta notizia, 1848 91
Papa Pio ix, 1849 93
Zia Margherita, 1854 97
Il colera, 1854 102
Irene, 1855 104
Agesilao Milano, 1856 109
La Spigolatrice di Sapri, 1857 116
Umberto e gli anni della bohème, 1858 119
Carlo lo Stregato, 1858 124
In viaggio, 1858 128
Benevento, 1858 132
Gesualdo, 1858 140
Don Carlo da Venosa, 1858 146
La foresta, 1858 150
Franceschiello e l’Aquiletta bavara, 1859 154
Il drago, 1859 158
Le notti passate in via Toledo, 1860 164
Libiamo, 1860 169
1909 175
PARTE SECONDA - LA LUNGA ESTATE 179
Dopo i fatti della Gancia, 1860 183
Quarto, 1860 190
Sul Piemonte, 1860 202
Talamone, 1860 206
Marsala, 1860 212
Salemi, 1860 219
Lone Star State, 1858 226
La dittatura, 1860 244
Calatafimi, 1860 249
Alcamo, 1860 257
Partinico, 1860 265
Palermo, 1860 268
Vendetta, 1860 271
Fagioli alla maruzzara, 1860 276
Intermezzo, 1889 280
Milazzo, 1860 282
Intermezzo, 1889 286
Beresina, 1812 290
Napoli, 1860 294
A casa, 1860 299

PARTE TERZA - IL REGNO D’ITALIA 303


Il Re Galantuomo, 1861 307
Lissa, 1866 310
Il professor Turati, 1867 314
Il Mercato rotto e Luigi Settembrini, 1867 320
L’abbecedario, 1867 326
Nando Gemito, 1868 335
A nozze, 1869 345
La vendetta di Monti e Tognetti, 1870 349
Il capitano degli uomini della morte, 1871 354
Il capodoglio, 1873 357
Epilogo, 1845 362
Epilogo, 1909 364

LA STANZA DELLO SCRITTORE 367

Potrebbero piacerti anche