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STORIA

TERZO ANNO

di Giacomo Marciani
a.s. 2008/2009
STORIA
TERZO ANNO

PRIMO BLOCCO DIDATTICO:


- Le Tre Guerre d’Indipendenza
- L’Unificazione Tedesca
- Il Colonialismo in Africa e l’Imperialismo in
Oriente (India e Cina)
- La Questione Giapponese
- Differenza fra Liberismo e Liberalismo.
Evoluzione del Pensiero Liberale

1. Camillo Benso, conte di Cavour

Le Tre Guerre d’Indipendenza

Premesse alla Prima Guerra d’Indipendenza


Gli insuccessi repubblicani e la crisi del mazzinianesimo favorirono l’affermazione di correnti
moderate: il Neoguelfismo di Gioberti, il quale auspicava la nascita di una confederazione
presieduta dal papato, il Federalismo Repubblicano di Cattaneo, il Neoghibellinismo di
Guerrazzi, Nicolini e Giusti, e le politiche anti-austriache di Balbo. In una situazione di
confusione quale era quella che vigeva in Italia, l’Austria decise di affermare ancor di più il
proprio potere occupando la fortezza di Ferrara. Il gesto suscitò l’ira del popolo, insofferente
non solo per la questione italiana generale, quanto per i soprusi dei domini locali. Le
insurrezioni di Palermo costrinsero Ferdinando II a concedere la Costituzione. Seguirono il suo
esempio Pio IX, dimostrando una politica papale più liberale (veniva chiamato “il papa
liberale”) concedendo l’amnistia per coloro che si erano macchiati di reati politici, Leopoldo II
di Toscana, concedendo la Costituzione, e Carlo Alberto, il quale concesse lo Statuto del Regno
Sabaudo, meglio conosciuto come Statuto Albertino (monarchia rappresentativa ereditaria,
bicameralismo e cattolicesimo come religione di stato). Le Cinque Giornate di Milano,
l’instaurazione della Repubblica di San Marco a Venezia, la ritirata del generale austriaco
Radetsky (il quale incarnava il potere austriaco nel nord Italia) e l’iniziale appoggio di
Leopoldo II e Pio IX spinsero Carlo Alberto a dichiarare guerra contro l’Austria.

La Prima Guerra d’Indipendenza (1848)


Dopo una poco significativa vittoria a Goito, i Piemontesi vennero sconfitti a Custoza e a
Novara. La prima sconfitta costrinse il generale Salasco a concedere il ritorno austriaco a
Milano, la seconda convinse Carlo Alberto ad abdicare in favore di Vittorio Emanuele II e a
ritirarsi in esilio ad Oporto. Vittorio Emanuele II stabilizza la situazione con l’Armistizio di
Novara, la Pace di Milano, per decretare la totale cessazione dei conflitti austo-piemontesi, ed
il Proclama di Moncalieri, con il quale volle indire nuove elezioni che affermassero una
maggioranza governativa nella Camera.
I restanti focolai insurrezionalisti, uno dei quali era riuscito ad instaurare la Repubblica
Romana sotto il comando del triumvirato mazziniano, si spensero sotto la pressione francese,

II
austriaca e dei rispettivi poteri locali. I maggiori fattori che determinarono la sconfitta italiana
furono l’estraneità delle masse e le fratture interne fra radical-democratici e liberal-moderati.

La Drammatica Situazione Italiana


La Seconda Restaurazione che fece seguito al fallimento dei moti indipendentisti del 1848
frenò pesantemente lo viluppo economico italiano in parallelo al maggior autoritarismo delle
politiche locali in tutta la Penisola. L’Italia risultava ferita anche da una natura
drammaticamente frammentaria (l’esorbitante numero di dialetti ne è uno dei sintomi più
evidenti) e dalla mancanza di una reale borghesia, la cui emergenza nel resto dell’Europa
aveva dimostrato una tenace fiducia nel progresso. Fu proprio grazie a tale fiducia che si riuscì
ad alimentare il boom scientifico, economico ed industriale che investì la gran parte d’Europa, e
dal quale si tenne largamente in disparte la penisola italiana. L’Italia infatti, estranea a tale
processo di modernizzazione, si sentiva totalmente fuori dal mondo. A peggiorare la situazione
si aggiunsero vere e proprie politiche ostruzionistiche ai danni di una potenziale borghesia:
basti pensare al Sillabo, la condanna papale del liberalismo, laicismo e supremazia dello Stato
sulla Chiesa)
L’unico ambiente italiano che riuscì bene o male a dissociarsi dalla disperata situazione fu il
Piemonte, il quale era riuscito a mantenere l’assetto costituzionale. Sicuramente il governo
D’Azeglio pose delle ottime basi (basti pensare alle leggi Siccardi, con le quali vennero
parzialmente rivisti i rapporti con la Chiesa), ma il vero ideatore e fautore di un piano di
diplomatizzazione rivoluzionaria efficace fu un aristocratico piemontese dal liberalismo
pragmatico e progressista, un politico dai progetti lungimiranti: Camillo Benso, conte di
Cavour. Entrato nella scena politica come ministro dell’agricoltura e del commercio nel 1850,
e divenuto il più giovane presidente del Consiglio nel 1852, Cavour riuscì a rendere il Piemonte
punto di riferimento e faro di speranza per l’opinione pubblica di tutta la Penisola. Dopo aver
spostato il dibattito politico al centro attraverso il Connubio con Rattazzi, mise in pratica una
politica liberoscambista fiduciosa nell’implementazione pubblica del settore industriale, sulla
scia delle maggiori potenze europee.

La Seconda Guerra d’Indipendenza (1859)


La Russia intanto aveva dichiarato guerra alla Turchia, nel tentativo di un avanzata significativa
verso il Mediterraneo. Spaventate dal potere zarista, Francia ed Inghilterra si allearono per
contrastare l’avanzata russa. Fu in tale contesto che Cavour riuscì ad ottenere un successo
diplomatico di fondamentale importanza, inviando 15.000 uomini a Crimea in sostegno agli
alleati. Tale successo gli valse l’aiuto di Napoleone III contro l’Austria, stipulato prima
informalmente durante il Congresso di Parigi (1856) e poi formalmente al Convegno Segreto
di Plombieèrs (1858). Il patto prevedeva la cessione di Nizza e Savoia ai Francesi, e venne
sancito dal matrimonio di Clotilde con il cugino dell’imperatore francese. L’iniziale riuscita
dell’accordo franco-piemontese fu tale che l’intera Italia dimostrò un orientamento fortemente
filo-sabaudo; sentimento di cui fu prova la creazione della Società Nazionale di Manin,
Pallavicini, Garibaldi e dello stesso Cavour.Accortasi del pericolo imminente l’Austria propone
una trattativa pacifica al Piemonte; offerta che, nonostante i suggerimenti di Napoleone III,
venne cortesemente rifiutata da Cavour. Anche l’ultimatum austriaco si rivelò un buco
nell’acqua e la guerra prese inizio.
L’Italia riportò successi a Montebello, Palestro, Magenta, San Martino e Solferino,
costringendo gli austriaci alla ritirata. Napoleone III decise poi di voltar le spalle al Piemonte
firmando la Pace di Villafranca, la quale fu a breve seguita dalla Pace di Zurigo, che decretò
l’annessione di Emilia, Romagna, Lombardia e Toscana al Piemonte.

I democratici convincono Vittorio Emanuele II, sconsigliato vivamente da Cavour, a


promuovere una spedizione comandata dal generale Garibaldi, alla conquista di tutta Italia.
Garibaldi partì da Genova con circa 1.000 “camicie rosse” sulle navi Lombardo e Piemonte.
Grazie all’aiuto degli inglesi e di latifondisti proto-mafiosi, il generale riuscì a sconfiggere il
potere borbonico, formando un governo provvisorio che suscitò immediatamente il malcontento

III
popolare, in particolar modo di quei contadini che speravano fortemente in una rivoluzione dei
rapporti di proprietà. Così il Re decise di incontrarsi a Teano con Garibaldi. Dopo aver
congedato il generale, il quale si ritirò a Caprera, il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II venne
incoronato Primo Re d’Italia “per grazia di Dio e volontà del popolo”. Roma venne dopo poco
fatta capitale del nuovo stato (mancante ancora del Veneto austriaco e del Lazio pontificio), ed
altrettanto presto il nobile Cavour morì (giugno del 1861).

L’Italia Post-Cavouriana
Dopo la morte di Cavour si susseguirono numerosi notabili della Destra Storica piemontese. Il
deficit statale causato dalle ingenti spese per la creazione pratica dell’unità, comportò una
stringente pressione fiscale, unita a leggi che sicuramente non contribuirono a sanare il
malcontento popolare (prima fra tutte le legge sul macinato). Nacque così il fenomeno del
brigantaggio, che dilaniò per tutta l’Italia meridionale.
La Destra Storica voleva impedire ogni tipo di moto insurrezionale: per questo fermò Garibaldi
nella battaglia dell’Aspromonte (Garibaldi aveva detto “o Roma o morte”). La Convenzione di
Settembre inasprì inoltre i rapporti con la Chiesa, la quale promulgò il Sillabo contro ogni tipo
di liberalismo.
Solo nel 1875 la Destra Storica venne destituita da De Pretis, appartenente alla Sinistra
Storica. Egli spostò il dialogo al centro e tentò l’osmosi fra riforma scolastica ed elettorale. Il
tentativo si rivelò inutile, in quanto l’arretrata economia del sud costringeva le famiglia ad
abbisognare la manodopera della prole.

La Terza Guerra d’Indipendenza (1866)


La premesse alla terza guerra d’indipendenza, assai importanti in quanto ne determinarono
l’esito positivo, devono essere ritrovate nei conflitti austro-prussiani e franco-prussiani che
verranno riportate nei paragrafi seguenti.

L’Italia venne sconfitta a Custoza e Lissa nel 1866. Le sconfitte portarono in primis
all’Armistizio di Cormons, che prevedeva la cessazione del conflitto, in secundis alla Pace di
Vienna, che prevedeva l’annessione del Veneto al Regno d’Italia.
Ciò lasciò tuttavia dell’amaro in bocca: l’Italia era infatti cosciente di aver ottenuto il Veneto
solo grazie al fronte austro-prussiano, e ci fu chi non riuscì ad accettarlo. Fu così che si riaprì la
“questione romana”. Dopo il Concilio Vaticano, in cui venne proclamata l’infallibilità
universale del papato, Vittorio Emanuele II cercò di accordarsi con il papa, volendo stabilire un
rapporto basato sul principio cavouriano di “libera Chiesa in libero Stato”. Il “non possum”
del papa fu la scintilla che causò l’occupazione di Roma attraverso la breccia di Porta Pia. Il
papa, rinchiusosi nelle mura vaticane, rifiutò le Leggi delle Guarentigie che gli avrebbero
concesso il libero esercizio spirituale, considerandole un affronto ed invitando i fedeli a non
votare.

***

L’Unificazione Tedesca

L’infermità mentale di Federico Guglielmo IV di Prussia comportò l’ascesa del partito


progressista e la nomina a primo ministro di Otto von Bismark, il quale si fece fautore della
Realpolitik (“politica realista”), atta ad affrontare qualsiasi ostacolo pur di affermare il
dominio prussiano sul DeutscherBund (“Confederazione Tedesca”).
Una volta neutralizzate Italia e Francia, quest’ultima con la promessa di alcuni territori
bavaresi, Bismark provocò l’Austria proponendo una riforma federale nel DeutscherBund.
Questa provocazione scatenò la guerra austro-prussiana. L’Armistizio di Nickolsburg a
seguito della gravosa sconfitta austriaca a Sedowa, comportò lo scioglimento del
DeutscherBund e la successiva proclamazione del Nord DeutscherBund (“Confederazione
Tedesca del Nord”) sotto il dominio prussiano.

IV
Napoleone III cominciò tuttavia a temere l’avanzata prussiana, in quanto un Hoenzollern si era
presentato come candidato al trono spagnolo. Con il famoso “inganno di Ems” Bismark riuscì
a provocare la Francia, scatenando la guerra franco-prussiana.
Dopo la sconfitta francese a Sedan i prussiani entrano a Parigi scatenando l’ira indomita del
popolo.
Durante le trattative di pace franco-prussiane il popolo parigino insorse, dando vita alla
Comune di Parigi, una rivoluzione proletaria socialista che verrà tuttavia soffocata nel sangue
da Adolphe Thiers, il quale, divenuto presidente della repubblica e capo di governo, ottenne
l’evacuazione prussiana da Parigi attraverso il pagamento di un indennizzo di guerra. La
maggioranza conservatrice (orleanisti, bonapartisti e legittimisti) fecero destituire Thiers ed
elessero il maresciallo Mac Mahon, considerato la “sentinella della monarchia”. Il tentativo
monarchico fallì e venne proclamata la Costituzione della Terza Repubblica.
Intanto le vittorie prussiane convinsero anche i principi tedeschi della Germania del Sud
dell’inestimabile talento di Bismark. Fu così che, dopo la Riunione nella Sala degli Specchi di
Versailles, Gugliemo I venne eletto kaiser del II Reich.
Durante l’intero governo di Gugliemo I si riuscirono a mentente ottimi rapporti fra imperatore e
Cancelliere (Bismark); rapporti che vennero totalmente sfaldati dopo la successione a
Guglielmo II. Gli attriti fra i due divennero tanto forti e destabilizzanti da comportare il
licenziamento dello stesso Bismark.

***

Il Colonialismo in Africa e l’Imperialismo in Oriente (India, Cina)

Nel 1875 l’immissione nel mercato europeo di grano a prezzi bassissimi proveniente
dall’America e dall’Australia provocò una forte crisi di sovrapproduzione. La crisi influì tanto
drammaticamente a livello di piccola impresa e a livello degli scambi internazionali, da
comportare inimmaginabili flussi migratori ed una in aspettabile controtendenza economica dal
capitalismo al protezionismo. La crisi portò anche all’attuazione di politiche fortemente
imperialiste, di cui la Conferenza del Congo (o Congresso di Berlino) del 1884-85, divenne
baluardo per antonomasia. Nonostante la sua avversione per le politiche colonialiste e le
avventure d’oltremare, Bismark si fece mediatore del dibattito sulle spartizioni dei cosiddetti
“territori liberi”.
La politica di De Pretis isolò l’Italia dal dibattito, da cui, paradossalmente, si astenne a livello
pratico anche la neo-unificata Germania, non ancora pronta ad avventure di conquista in terra
straniera. Fu così che le due protagoniste della grande spartizione africana divennero la Francia
e l’Inghilterra.

Protagonista di un violento imperialismo in Oriente fu tuttavia, almeno inizialmente, solo


l’Inghilterra. La Compagnia delle Indie Orientali, fondata da privati nel 1600 e passata in
mano governativa con il Regulating Act del 1773, divenne strumento monopolizzatore
dell’economia indiana fino all’anno del suo proscioglimento, voluto dalla Corona nel 1858.
Passando sopra alle deboli rivolte dei Maratti e dei Rajput, assoggettando i nababbi,
infischiandosene dei trattati che venivano stipulati per delimitarne le aree di influenza,
annettendo principati privi di eredi e corrompendo la borghesia attraverso numerose
concessioni l’Inghilterra riuscì a dominare l’intera economia indiana. Il primo esempio di
dominazione commerciale riguardò il cotone. Attraverso ingenti tassazioni, scusate con
l’indispensabile finanziamento della rivoluzione industriale della madrepatria, e la
burocratizzazione elitaria dell’aristocrazia indiana, gli inglesi compravano a basso prezzo il
cotone indiano, lo lavoravano in Inghilterra e lo rivendevano a prezzi altissimi agli indiani.
Quando dal cotone si passò allo smercio dell’oppio la Compagnia venne sciolta e, al suo posto,
venne creato un organo di sfruttamento mascherato da un front-end civilizzatore: l’Indian City
Service. L’apatia politica unita ad alcuni preconcetti religiosi immobilizzò persino il
movimento nazionalista indiano. Il riformatore Ramikrisna tentò allora la via della mediazione
cercando un punto di incontro tra la cultura occidentale e l’osservanza indù, portando
all’istituzione del Congresso Nazionale Indiano nel 1885. Tutto ciò non allentò tuttavia la

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presa inglese, che continuò a sfruttare le potenzialità indiane per lungo tempo, imponendosi
sommessamente sulla loro cultura.

Quando l’interesse inglese cominciò a spostarsi sullo smercio dell’oppio cominciarono le


occupazioni portuali in Cina, portate a termine anche grazie al sostegno delle mafie locali.
Quando poi i cinesi si resero conto del livello di sfruttamento a cui stavano andando incontro,
cominciarono a sequestrare le imbarcazioni mercantili inglesi e ad incendiare l’oppio
trasportatovi. Gli inglesi andarono su tutte le furie e, dopo aver accusato la Cina di reato ai
danni del commercio internazionale, diedero inizio ad una serie di conflitti. Si scatenò una vera
e propria guerra, conosciuta come Guerra dell’Oppio, che dal 1840 al 1842 non fece altro che
dimostrare la superiorità dell’armamentario occidentale e la facile sottomissibilità cinese. I
conflitti terminarono con la Pace di Nanchino, la quale prevedeva la cessione del porto di
Hong Kong alla flotta mercantile inglese, ed il Trattato di Pechino, con la quale si permetteva
agli occidentali la creazione di ambasciate in territorio cinese. I sussulti rivoluzionari si fecero
ancora più forti. La setta egualitaria dei Thai Ping, la quale voleva realizzare un “regno
celeste” cristiano-taoista basato su un economia agraria, diedero vita ad una vera e propria
rivolta (dal 1850 al 1864) sotto la guida di Hong Xiaopou. Ristabilito l’ordine attraverso la
politica poliziesca del cancelliere cinese Hung-Chang e l’aiuto del maggiore inglese Gordon,
nel 1900 fu la volta dei Boxers, nella cui rivolta si scatenò l’odio per i “diavoli stranieri”.
Questa setta di xenofobi del “pugno di diritto e dell’unità” portò avanti una rivolta per un anno
intero, fino a quando i continui assedi alle ambasciate estere di Pechino non comportarono
l’uccisione dell’ambasciatore tedesco. La spedizione punitiva condotta dal conte tedesco
Waldersee uccise numerosi rivoluzionari, spense i restanti focolai insurrezionalisti fino a
quando le potenze europee accordarono la messa in pratica della cosiddetta “politica della
porta aperta”, che avrebbe visto di li a poco la Cina trasformarsi in un bene di comune
spartizione commerciale e culturale, portando alla completa distruzione della cultura Manchù.

***

La Questione Giapponese

In Giappone vigeva da secoli un sistema basato su una rigida burocrazia piramidale ed


un’arretrata economia feudale. La gerarchia sociale vedeva in cima alla piramide l’Imperatore,
il quale deteneva un potere considerato divino, ma che nella pratica si riduceva ad un aspetto
essenzialmente formale; lo Shougun, vero detentore del potere esecutivo che per secoli si
assicurò l’accentramento del potere attraverso politiche poliziesche ed il confinamento
dell’imperatore nel ruolo di autorità religiosa; la nobiltà di corte (kuge); la nobiltà feudale
(daymio); i funzionari e i vassalli, che andavano a formare anche il corpo militare (samurai); il
popolo (heimin) e i paria (eta, henin).

Quando lo Shogun Togukawa, avendo assistito al deplorevole scenario cinese, decise di


anticipare l’ondata imperialista occidentale aprendo i propri porti ai mercati occidentali
capeggiati dal commodoro Perry, i samurai, alleatisi alla nobiltà feudale, si ribellarono, dando
vita ad una vera e propria rivoluzione. Questa rivoluzione è meglio conosciuta come
Restaurazione Meiji, in quanto, dopo aver destituito lo Shogun e confiscatene le terre, il
potere passò nelle mani dell’Imperatore Meiji, il quale avrebbe regnato dal 1868 al 1912.
Sebbene la rivoluzione avesse portato al potere, oltre all’Imperatore, una ristretta elìte di kuge,
daymio e in parte samurai (ora indicati nel complesso con il nome di genro), ciò non precluse la
via dello sviluppo. Il Giappone fu infatti il primo paese orientale ad avere una vera e propria
Costituzione; inoltre venne istituita la leva obbligatoria, l’istruzione pubblica e stanziate ingenti
somme a finanziamento dei viaggi di ingegneri, economisti, politologi ed intellettuali in
Occidente, per lo studio di una cultura dalla quale presto avrebbero preso e rielaborato
numerosi aspetti secondo la propria. In sintesi la Restaurazione Meiji quel fattore determinante
che catalizzò il Giappone verso la sua industrializzazione e che portò la nazione ad assurgere a
potenza militare dal 1905. Da ciò derivò il motto “Ricchezza Nazionale e Forza Militare”
(fukoku kyohei, letteralmente paese ricco, esercito forte).

VI
***

Differenza fra Liberismo e Liberalismo. Evoluzione del Pensiero Liberale

Il Liberismo
Il liberismo si delineò, parallelamente allo sviluppo del pensiero liberale, come corrente di
pensiero economico radicalmente contraria all’ingerenza economica dello stato. E’sinonimo di
liberalismo economico, laissez-faire e in parte di liberoscambismo, anche se quest’ultimo si
riferisce fondamentalmente all’abbattimento di barriere internazionali che impediscano gli
scambi commerciali fra stato e stato.

Introduzione al Liberalismo
Il liberalismo è invece una corrente di pensiero nata in Inghilterra ed Olanda verso la fine del
XVII secolo, come antitesi radicale ai residui medievali e feudali, che si erano dimostrati in
certi casi ancora vivi dal punto di vista religioso (intolleranza), politico (assolutismo) ed
economico (gerarchia feudale). A questi caratteri si contrappose un individualismo che fece dei
diritti inalienabili, preesistenti alla creazione della società civile, cardine della propria
impostazione di pensiero.
Nucleo originario del liberalismo furono il libero arbitrio protestante, la filosofia cartesiana, con
il suo razionalismo e soggettivismo, e la filosofia giusnaturalista. Il liberalismo si prefigura
come risposta filosofica e politica alle aspirazione della borghesia emergente. Il progresso
economico borghese si sarebbe potuto infatti realizzare solo e solamente in un clima socio-
politico che valorizzasse l’iniziativa individuale in tutte le sue manifestazioni benefiche nei
confronti della società. Non vi sono, secondo Locke, possibilità di conflitti distruttivi nati
dall’esplicazione dell’individuo. Da essa può solo nascere un equilibrato sviluppo armonico,
fruibile dall’intera umanità. Nelle opere di Locke (Saggio sulla tolleranza, Lettera sulla
tolleranza e Due trattati sul governo) si evince che solo in presenza di uno stato non
eccessivamente ingerente, limitato al suo ruolo di legislazione imparziale contro abusi e
sopraffazioni, sarà possibile creare l’equilibrio suddetto. Qualora il potere legislativo non
garantisca l’esercizio dei diritti inalienabili e di ciò che ne discende, il popolo ha la libertà di
ribellarsi. Saranno l’implicita accentuazione del carattere democratico del pensiero liberale a
dar vita, nel XVIII, a ciò che viene definito liberalismo politico, le cui massime espressioni
furono la Dichiarazione di Indipendenza americana e la Dichiarazione dei diritti fondamentali
dell’uomo della rivoluzione francese. Tuttavia le vicende che seguirono la rivoluzione francese,
quali il successivo periodo di restaurazione, fecero emergere una potenziale antitesi fra
liberalismo ed egualitarismo, il cui preludio era stato lo spostamento verso in fluente più
moderate dei movimenti liberali. Differente fu invece il progresso liberale oltreoceano di De
Toqueville, nella cui opera (La democrazia in America), si evince una conciliazione di
egualitarismo e liberalismo, concretizzatasi in una impostazione politico-economica
liberaldemocratica , fondata sul decentramento dei poteri decisionali e sul diritto di
associazionismo.

Quando assunto dalla classe dominante, l’ideologia liberale diviene spesso sinonimo di
conservatorismo. Si tende infatti ad accentuare il limitato potere statale previsto dal liberalismo
d’origine, giungendo a forme di statalismo atte alla difesa di istituzioni politiche ed economiche
consolidate. Emerse quindi una corrente riformista che si propose si limitare le libertà
individuali in relazione al riscatto dei ceti oppressi (“libertà da” e “libertà di” formulata da
Ruffini alla fine del XIX secolo). Il liberalismo moderno si è quindi concentrato sul ruolo dello
stato come mediatore delle “libertà da” e delle “libertà di” e come demolitore degli ostacoli
economico-culturali allo sviluppo equilibrato della società.

Il Liberalismo Economico
Per liberalismo economico si intende un indirizzo economico che cominciò, già dal 1776 (data
della pubblicazione della Ricchezza delle nazioni di Smith), ad intravedere nell’esplicazione
dell’individuo in campo economico, previa astensione dell’ingerenza statale, la condizione

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ottimale al benessere dell’intera società. Come in ambito politico la centralità è affidata
all’individuo, il cui campo d’azione viene imparzialmente razionalizzato dal sistema di
mercato. L’astensione dello stato non preclude tuttavia il dovere di legiferare la razionalità del
mercato e la prevenzione di distorsioni quali monopoli e cartelli capaci di influenzare fino ad
obbligare le scelte individuali. L’intervento statale si delinea quindi sotto l’aspetto formale e
non sostanziale.

Le Definizioni di Robbins e Platone


La complessità del pensiero economico, con la sua evoluzione, fino alla fondazione e lo studio
dell’economia politica come scienza, ruotò interamente attorno a due definizioni fondamentali:
una formale ed una sostanziale. La prima, elaborata da Robbins nel 1932, la quale concepì lo
studio dell’economia come lo studio dei rapporti fra mezzi e fini. I fini individuali si realizzano
infatti attraverso i mezzi collettivi previsti dalle dinamiche di mercato, il cui fine collettivo di
benessere sociale si realizza grazie a mezzi individuali. Fu seguendo tale cursus che si andò
delineando il pensiero economico di Smith. La seconda, di tipo sostanziale, fu quella elaborata
da Platone nella Repubblica: il pensiero economico è una disciplina che scandaglia i fenomeni
in cui si confrontano le molteplici teorie (inizialmente solo produzione, scambio, distribuzione,
consumo, benessere).

Evoluzione del Pensiero Economico Liberale: dallo Ius Naturalis a Keynes


I primi economisti liberali, investiti dalle violente tendenze mercantiliste del XVI/XVII
secolo, frutto del passaggio da un economia feudale ad una proto-capitalistica, concepirono,
rifacendosi al giusnaturalismo, un ordine naturale interno ai processi economici. Tale
argomento venne ripreso ed approfondito dalla fisiocrazia francese di Quesnay, il quale aveva
dato il via al movimento con la sua trattazione di economia agraria (i cui studi culminarono con
la tesi del sovrappiù e dell’importanza del settore primario), pubblicata nell’Enciclopedia del
1756-57. Fu proprio sotto l’influenza della corrente fisiocratica e dell’individualismo
hobbessiano e lockiano che nacque l’economia Classica, la cui nascita venne attribuita agli
studi di Smith. Egli rese definibile la ricchezza di una nazione concentrando i propri studi sui
meccanismi di mercato, piuttosto che all’esenza del mercato. La fisiocrazia si era infatti
impegnata a dimostrare la natura innata delle regole di mercato, Smith invece si focalizzò
maggiormente su come queste regole agissero all’interno di una struttura statale.
La fase definita appunto Classica del pensiero economico vide schierati anche filosofi ed
economisti come Malthus (importanza e tipo di influenza della crescita demografica nelle
dinamiche di mercato), Mill (utilitarismo), Ricardo (struttura ed infrastruttura di un sistema
economico classico, teoria del valore e della distribuzione, ricerca di un valore invariabile),
Marx (imperfezione del modello capitalista, teoria delle relazioni di produzione, le odierne
“filiere”, per la determinazione del valore) e Straffa, economista italiano che riprese i motivi
dell’economia Classica al fine di risolvere il problema riguardante la determinazione del valore.
Il Marginalismo, corrente che dominò la scena del dibattito economico dell’ultimo trentennio
del XIX secolo, si rifece invece particolarmente al calcolo marginale come metodo di analisi
economica per l’elaborazione di tesi accurate sul “valore naturale”, legato alla “scarsità
soggettiva”, piuttosto che alla produzione e alla distribuzione. Dal Marginalismo si passò poi
alla fase Neoclassica. Ad esse appartennero la Scuola Austriaca, di Losanna e di Cambridge; in
quest’ultima si formarono menti del calibro di Marshall e Keynes. La crisi del 1929-39 minò
alle fondamenta del pensiero neoclassico e marginalista, aprendo le porte ad una nuova fase: la
fase Keynesiana. Keynes aveva infatti elaborato, in controtendenza con i più importanti
filosofi liberali, una nuova “filosofia sociale” atta a reinventare l’intervento statale al fine di
garantire l’equilibrio monetario ed occupazionale.

Il Pensiero Economico Liberale Moderno


Lo scenario moderno vide e vede tuttora l’elaborazione di nuove teorie e l’apertura a nuove
frontiere di sviluppo, figli del sostrato di pensiero di cui abbiamo trattato finora. Tra di essi
possiamo annoverare lo nascita della Microeconomia, la teoria del benessere di Arrow, la
controrivoluzione neo-liberista (che ha ispirato i governi Thatcher e Reagan), la teoria
neoclassica della crescita, la teoria dei giochi (equilibrio dei sistemi cooperativi e non

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cooperativi di Nash ed il Dilemma del prigioniero), il Monetarismo di Friedman e Lucas (alla
base del neoliberismo delle politiche monetarie occidentale dagli anni Sessanta agli anni
Ottanta) ed infine gli studi sull’implementazione delle tecnologie di informazione.
SECONDO BLOCCO DIDATTICO:

- La Prima Guerra Mondiale


- La Rivoluzione Russa
- La Rivoluzione Spagnola
- Il Fascismo
- La Grande Depressione del ‘29
- Il Nazismo
- La Seconda Guerra Mondiale

2. L'assassinio dell'arciduca Francesco


Ferdinando da parte dello studente
nazionalista Princip; disegno di A.
Beltrame comparso su "Domenica del
Corriere" del 5 luglio 1914

La Prima Guerra Mondiale

Dall’Attentato di Sarajevo alla Guerra Europea


Il 28 giugno 1914 lo studente bosniaco irredentista Gavrilo Princip uccise con due colpi di
pistola l’arciduca ereditario Francesco Ferdinando d’Austria, nipote dell’Imperatore Francesco
Giuseppe, e la moglie, durante una visita in macchina per le vie di Sarajevo. Sebbene l’attentato
terroristico non fosse molto dissimile dai molti altri di matrice anarchica, questo scatenò una
catena di reazioni e controreazioni che diedero vita ad un conflitto di proporzioni mia viste,
aprendo una fase di guerre e rivolgimenti interni durata più di trent’anni e conclusasi con il
definitivo tramonto della centralità europea. L’attentato all’arciduca fece esplodere quelle
tensioni che altrimenti sarebbero rimaste latenti: i rapporti incrinati fra le grandi potenze
(Austria contro Russia, Francia contro Germania, Germania contro Inghilterra), le due grandi
alleanze (matrici della Triplice Alleanza e della Triplice Intesa), la corsa agli armamenti e le
spinte bellicistiche interne ad ogni nazione.
Il 23 luglio l’Austria inviò un ultimatum alla Serbia, alla quale la Russia assicurò il proprio
sostegno. Il governo serbo rifiutò la clausola che prevedeva la partecipazione di funzionari
austriaci alle indagini sui mandanti dell’attentato ed il 28 luglio l’Austria dichiarò guerra alla
Serbia, mentre il governo russo ordinò la mobilitazione delle forze armate. Tuttavia, volendo
estendere la mobilitazione all’intero confine occidentale per paura di un eventuale attacco
tedesco, la Germania, interpretando il gesto come un atto di ostilità, inviò un ultimatum alla
Russia il 31 luglio, intimandole la sospensione dei preparativi bellici. Non avendo ottenuto
risposta, il 1° agosto la Germania dichiarò guerra alla Russia. Lo stesso giorno la Francia,
legata alla Russia da un trattato di alleanza militare, mobilitò le proprie forze armate, spingendo
al Germania a dichiararle guerra il 3 agosto. Fu dunque l’iniziativa del governo tedesco a far
precipitare la situazione; motivato non solo dall’alleanza militare con l’Austria, ma anche dal
suo complesso di accerchiamento e dal tentativo di mettere in atto il piano Schlieffen,
elaborato per fronteggiare una guerra su due fronti (Francia e Russia erano già alleate dal 1894)
dall’omonimo capo dello stato maggiore Alfred von Schlieffen ai primi del ‘900.
La necessaria rapidità d’attacco al confine nord-est della Francia costrinse i tedeschi ad
occupare il 4 agosto il Belgio, la cui neutralità era stata garantita da un trattato internazionale

IX
sottoscritto dalla stessa Germania. Il 5 agosto l’Inghilterra, non potendo sopportare
l’occupazione di uno stato neutrale affacciato sul canale della Manica, dichiarò guerra alla
Germania. Ciò diede prova della scarsa lungimiranza tedesca, la quale non aveva mai calcolato
l’eventualità di un attacco inglese. Inoltre i politici tedeschi credettero di avere a che fare con
una guerra-lampo che, non solo non avrebbe apportato particolari danni alla nazione, ma
avrebbe addirittura contribuito a sanare le tensioni sociali e rafforzare il potere della classe
dirigente.
Intanto la mobilitazione patriottica portò alla crisi dell’internazionalismo socialista. La
socialdemocrazia tedesca ed austriaca votarono a favore della guerra per paura di un’eventuale
vittoria zarista. I socialisti francesi, capeggiati da Jean Juarès, ucciso da un nazionalista,
rinunciarono ad ogni sorta di pacifismo; lo stesso fecero i laburisti inglesi. Solo in Russia e in
Serbia i socialisti mantennero un intransigente opposizione. Intanto la Seconda Internazionale,
espressione più alta di internazionalismo fra i lavoratori cessò praticamente di esistere.

Dalla Guerra di Movimento alla Guerra di Usura


Sebbene la mobilitazione avesse visto schierarsi una quantità di uomini mia vista prima di
allora e gli armamenti avessero subito evoluzioni straordinarie con l’apporto di fucili a
ripetizione, mitragliatrici automatiche e cannoni potentissimi, nessuno aveva elaborato
strategie militari differenti da quelle ottocentesche. Tutti pensavano di dover far fronte ad una
guerra di movimento, basata su una continua manovra offensiva di pochi mesi, o addirittura
poche settimane. Di certo la guerra di movimento portata avanti dai tedeschi non gli negò né i
clamorosi successi iniziali lungo le rive del Marna, a pochi chilometri da Parigi, né le vittorie
nelle grandi battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri, comandate dal generale Hindenburg
contro l’avanzata della Russia in Prussia Orientale. Tuttavia, quando il 6 settembre i francesi
riorganizzati dal generale Joffre costrinsero l’avanzata tedesca a ripiegare in corrispondenza dei
fiumi Aisne e Somme, venne creata una muraglia di trincee dal Mare del Nord al confine con
la Svizzera e, venutasi a creare una situazione di stallo, entrambi i contendenti capirono di
dover passare dalla guerra di movimento ad un nuovo tipo di scontro: la guerra di usura, o
logoramento.
Ruolo di vitale importanza venne rivestito dalla Gran Bretagna, con la sua superiorità navale e
le risorse provenienti dalle colonie, e dalla Russia, con il suo ingente potenziale umano. Molte
potenze minori poi contribuirono a far pendere la bilancia dall’una o dall’altra parte: di qui la
tendenza del conflitto ad allargarsi. Nell’agosto del 1914 il Giappone, legato alla Gran
Bretagna da un trattato firmato nel 1902, entrò in guerra contro la Germania, approfittando
dell’occasione per impadronirsi di possedimenti tedeschi in Estremo Oriente. Nel novembre
dello stesso anno la Turchia, legata alla Germania da un trattato segreto, entrò in guerra a
sostegno dei tedeschi. Nel maggio del 1915 l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria.
Entrarono poi la Bulgaria (1915) a fianco dei tedeschi, il Portogallo (1916), la Romania
(1916), la Grecia (1917) e gli Stati Uniti (1917), i quali si erano portati appresso alcune
repubbliche latino-americane, a favore dell’Intesa. Sebbene la guerre ebbe in Europa il suo
teatro principale, basta pensare all’estensione del conflitto agli imperi coloniali per capire che la
guerra stesse abbracciando per la prima volta tutti e cinque i continenti.

L’Intervento Italiano
Il 2 agosto 1914, appena scoppiata la guerra, il primo ministro Antonio Salandra aveva
dichiarato la neutralità italiana in onore al carattere difensivo, e non offensivo, della Triplice
Alleanza (l’Austria non era stata attaccata, e soprattutto non aveva consultato l’Italia prima di
aprire il conflitto con la Serbia). In seguito si pensò di intervenire contro l’Austria, in modo da
portare a compimento il processo risorgimentale, prendendosi Trento e Trieste, ed aiutare la
causa delle nazionalità oppresse e della stessa democrazia, la quale sarebbe stata messa a
repentaglio da un eventuale vittoria delle autoritarie Germani ed Austria.
I repubblicani, i radicali, i social-riformisti di Bissolati, le associazioni irredentiste, le frange
estremiste del movimento operaio, come i sindacalisti rivoluzionari di De Ambris e Corridoni,
si unirono ai nazionalisti, fautori attivi dell’intervento, i quali volevano affermare la vocazione
imperialista del Bel Paese.

X
Più cauta e graduale fu l’adesione alla causa interventista dei gruppi liberal-conservatori
rappresentati politicamente da Salandra e Sonnino, e dei quali il “Corriere della Sera” di Luigi
Albertini si era dimostrato essere il più autorevole portavoce.
La linea neutralista venne assunta da Giovanni Giolitti, il quale sperava di avere buona parte
dei territori rivendicati come compenso da parte della Triplice Alleanza per la neutralità del
paese, e dal pontefice Benedetto XV, contrario per il suo estremo pacifismo e per il rifiuto di
vedere l’Italia schierata contro la cattolicissima Austria, piuttosto che contro l’anticlericale
Francia. Poi sebbene i socialisti del PSI e della CGL, rispecchiando l’istintivo pacifismo delle
masse operaie e contadine, confermassero la dura condanna all’intervento, vi fu una defezione
molto importante: il direttore del “Avanti!” Benito Mussolini si convertì improvvisamente a
favore dell’intervento. Espulso dal partito e destituito dall’incarico, Mussolini fondò nel
novembre 1914 il quotidiano “Il Popolo d’Italia”, tribuna dell’interventismo di sinistra.
Sebbene quindi la frangia neutralista fosse la maggioranza, gli interventisti godevano di
maggiore rappresentanza politica e un decisivo dominio sulle piazze. Anche la piccola e media
borghesia colta, più sensibile ai valori patriottici, fomentata dagli intellettuali di maggior
prestigio, come Luigi Einaudi, Gaetano Salvemini, Giovanni Gentile e Giuseppe Prezzolino, si
schierò, con piccole eccezioni come Benedetto Croce, a favore dell’intervento.
Infine furono Salandra e Sonnino, i quali avevano allacciato rapporti segretissimi con l’Intesa
durante le trattative con la Germania e l’Austria-Ungheria (riguardo i territori rivendicati in
cambio della neutralità), a decretare l’intervento italiano firmando il Patto di Londra del 26
aprile 1915, all’insaputa del Parlamento e degli altri membri di governo.
L’opposizione neutralista della Camera, a cui spettava la ratifica del trattato londinese,
appoggiò Giolitti e destituì Salandra. Tuttavia il re e le “radiose giornate” delle manifestazioni
di piazza spinsero tutti i deputati, eccezion fatta per i socialisti, a votare per l’intervento
(l’alternativa neutralista prevedeva la destituzione del re e del governo, quindi una grave crisi
istituzionale). Il 23 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra a fianco dell’Intesa e il motto “né
aderire né sabotare” dell’internazionalismo proletario divenne un’implicita confessione di
impotenza.

La Grande Strage (1915-1916)


Le forze austro-ungariche, ripiegando lungo il corso dell’Isonzo e sulle alture del Carso per
inferiorità numerica, vennero subito attaccate dal generale italiano Luigi Cadorna, il quale non
riuscì a riportare alcun successo in nessuna delle quattro sanguinose battaglie dell’Isonzo.
Finora gli unici a riportare effettivi successi erano stati gli Austro-Tedeschi, sia contro i Russi,
conquistando gran parte della Polonia, sia i Serbi, la cui regione venne totalmente invasa e
cancellata dal novero dei contendenti.
All’inizio del 1916 gli Austro-Tedeschi attaccarono la piazzaforte francese di Verdun, con
l’obbiettivo di dissanguare le forze militari francesi. La Gran Bretagna organizzò la
controffensiva lungo la Somme, le cui battaglie non portarono né ad effettive vittorie né a
drammatiche sconfitte. Intanto, mentre i tedeschi finivano di occuparsi di Verdun, gli austriaci
organizzarono la cosiddetta Strafexpedition (spedizione punitiva contro l’alleato traditore), la
quale avrebbe dovuto invadere il Veneto e spezzare in due lo schieramento nemico, ma fu
faticosamente arrestata sugli altipiani di Asiago.
Gli insuccessi fecero dimettere il governo Salandra ed affidare la conduzione militare al
governo di Paolo Borselli, sotto il quale si riuscì, dopo ulteriori battaglie lungo l’Isonzo, a
conquistare Gorizia, una vittoria più morale, che strategica.
Sul fronte orientale i russi riuscirono a riconquistare i territori sottrattigli l’anno precedente e
convincere la Romania ad intervenire i favore dell’Intesa. Purtroppo le tocco la medesima sorte
della Serbia: venne sconfitta e divenne una prestante risorsa agricola e mineraria degli Austro-
Tedeschi. Tuttavia ciò non bastò a riequilibrare la situazione: gli Austro-Tedeschi restavano
infatti inferiori rispetto all’Intesa per apporto umano, risorse economiche, e in quanto subivano
le conseguenze del ferreo blocco navale, attuato dagli inglesi nel Mare del Nord. I tedeschi
cercarono allora lo scontro aperto con la flotta inglese, ma la flotta tedesca, che nell’anteguerra
aveva rappresentato un grave fattore di tensione internazionale, venne sconfitta in prossimità
della penisola dello Jutland.

XI
La Guerra nelle Trincee
Due anni e mezzo di guerra d’usura non risolsero la situazione di stallo, in cui la vecchia
dottrina militare (tattica di movimento) veniva messa in pratica con l’uso delle nuove armi
automatiche, capaci di trasformare uno scontro in una vera carneficina. Dal punto di vista
tecnico, il protagonista della guerra fu la trincea, inizialmente concepita come rifugio
provvisorio in previsione di un attacco decisivo, poi come sede permanente dei reparti di prima
linea. Venivano strutturate più linee di trincea, la prima posta anche a poche decine di metri
dalla prima linea nemica, collegate da camminamenti, protette da reticoli di filo spinato
(talvolta elettrificato) e da nidi di mitragliatrici. Le condizioni igieniche erano deplorevoli, e i
soldati erano costretti a cambi settimanali. La vita in trincea logorava i combattenti sia
fisicamente che moralmente, tanto che in pochi mesi l’entusiasmo patriottico svanì. Solo gli
ufficiali di complemento e le esigue minoranze organizzate in reparti speciali (come le
Strumtruppen tedesche o gli Arditi italiani), tutti gli altri, a partire dai giovani borghesi, fino ai
soldati semplici di origine contadina (gli operai erano rimasti nelle fabbriche per la produzione
bellica), furono tanto disillusi da mostrare un autentico rifiuto. Questo rifiuto si traduceva in
renitenza alla leva, alla diserzione, all’autolesionismo, fino ai casi più estremi:
l’ammutinamento collettivo, il cui numero crebbe con il prolungarsi del conflitto, con un
apice nel corso del 1917.

La Nuova Tecnologia Militare


La prima guerra mondiale si caratterizzò per l’uso intensivo e sistematico degli ultimi ritrovati
della tecnologia, il cui settore di ricerca aveva goduto di un forte impeto innovativo in onore
della grande guerra; basti pensare che nel 1903 i fratelli Orville e Wilbur Wright erano riusciti
per la prima volta a far sollevare un oggetto da terra e negli anni della guerra vennero prodotti
più di 200.000 aerei.
Le novità fondamentali consistettero nell’uso delle armi chimiche, indirizzate verso le trincee
nemiche, nei nuovi strumenti di telecomunicazione, che permisero la perfetta coordinazione
dei movimenti, i nuovi mezzi di aviazione, non ancora affidabili e quindi usati più per la
ricognizione che per l’attacco, nell’introduzione del carro armato, utilizzato
fondamentalmente dagli inglesi, nato dal perfezionamento delle autoblindo e dalla sostituzione
delle ruote con dei cingoli, e del sottomarino, introdotto per la prima volta dai tedeschi ed
utilizzato per l’abbattimento sistematico di navi da guerra nemiche e navi mercantili (anche
neutrali). I tedeschi sospesero la guerra sottomarina quando nel maggio 1915 un sottomarino
tedesco abbatté il transatlantico inglese Lusitania, il quale tuttavia, oltre a trasportare armi
destinate agli inglesi, aveva a bordo 140 civili americani.

La Mobilitazione Totale ed il Fronte Interno


Il coinvolgimento delle popolazioni che vivevano nella zone attraversate dalla guerra raggiunse
conseguenze drammatiche. Il caso limite degli armeni fu una di queste conseguenze. Già
vittime di persecuzioni dopo la Rivoluzione dei Giovani Turchi per sospettato tradimento nei
confronti dello Stato, quando nella primavera 1915 iniziò lo scontro tra Russia e Turchia nel
Caucaso, gli armeni subirono una brutale deportazione, che per molti (più di un milione) si
tradusse in un vero e proprio sterminio.
Un’altra diretta conseguenza fu la massiccia mobilitazione industriale, con lo sviluppo
imponente dei settori siderurgico, meccanico e chimico, la riorganizzazione del piano
produttivo ed un intervento statale incompatibile con il liberalismo ottocentesco. In Germania si
parlò addirittura di socialismo di guerra, anche se in realtà il sistema era gestito da organismi
paritetici di militari e industriali.
Dal punto di vista politico si assistette ad un forte processo di burocratizzazione e
militarizzazione: il potere esecutivo si era rafforzato a scapito degli organismi rappresentativi,
ma venne anch’esso subordinato al potere degli stati maggiori, i quali diedero vita a vere e
proprie dittature militari.
In Germania il potere era detenuto dallo stato maggiore di Hindenburg e Ludendorff, in
Francia dal governo di unione nazionale di Georges Clemenceau, in Inghilterra dal gabinetto
di guerra di David Lloyd George. Gli stati maggiori dimostrarono inoltre una gran cura
dell’opinione pubblica: la propaganda di guerra divenne infatti strumento essenziale per la

XII
mobilitazione dei cittadini. Venivano quindi stampati manifesti murali, organizzate
manifestazioni di solidarietà ai combattenti ed incoraggiate le associazioni di resistenza
interna. L’esaltazione patriottica non fece tacere i dissidenti del movimento operaio europeo,
tanto che si tennero in Svizzera le conferenze socialiste internazionali a Zimmerwald
(settembre 1915) e a Kienthal (aprile 1916), durante i quali Lenin, leader bolscevico, aveva
invitato i socialisti ad approfittare della guerra per affrettare il crollo del regime capitalista.
Tuttavia le conferenze resero evidenti alcune spaccature interne: la spaccatura tra il pacifismo
delle sinistre riformiste ed il disfattismo rivoluzionario dei radicali (ad esempio i bolscevichi
russi e gli spartachisti, chiamati così per la Lega di Spartaco, una società semiclandestina
fondata nel 1916 da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg).

La Svolta del 1917


All’inizio di marzo uno sciopero generale degli operai di Pietrogrado si trasformò un una
serrata manifestazione politica contro il regime zarista. L’alleanza degli operai con i soldati,
chiamati a sopprimere la rivolta, costrinse lo zar ad abdicare e a scontare il carcere insieme
all’intera famiglia. In breve tempo ciò avrebbe portato al collasso militare della Russia, i cui
primi sintomi si ebbero con la dura sconfitta in Galizia. Rovesciato il governo provvisorio con
la Rivoluzione d’Ottobre (dal 6 al 7 novembre 1917 per il calendario europeo) e stabilitosi un
governo rivoluzionario presieduto da Lenin, la Russia, rendendosi disponibile ad una pace
“senza annessioni e senza indennità”, decise di accettare le durissime condizioni imposte dai
tedeschi firmando la Pace di Brest-Litovsk, il 3 marzo 1918. La Russia perse circa un quarto
dei territori europei, ma in compenso era riuscita a mantenere lo stato socialista.
I mesi fra la primavera e l’autunno 1917 furono i più duri per l’Intesa: ai primi di febbraio la
Germania aveva ripreso l’indiscriminata guerra sottomarina, a marzo la Russia aveva
abbandonato il conflitto, l’aiuto americano, seppur in fieri, non riusciva ancora ad apportare
rilevanti benefici; in più l’insofferenza popolare si concretizzò in scioperi operai sempre più
agguerriti ed ammutinamenti di massa (è da notare che l’ammutinamento di 40.000 uomini
della fanteria francese, nonostante l’iniziale repressione, portò ad alcune concessioni grazie al
generale Philippe Petain).
D’altra parte neppure gli Austro-Tedeschi brillarono per stabilità: a maggio si ammutinarono i
marinai della flotta tedesca del Baltico, ed in parallelo crebbero le aspirazioni indipendentiste
delle nazionalità oppresse dallo strapotere dell’Austria-Ungheria (alla costituzione di un
governo cecoslovacco in esilio, seguì la costituzione di uno stato unitario degli Slavi del Sud, la
futura Jugoslavia).
Per non parlare del fallimento della propaganda pacifista promulgata da Benedetto XV, il quale
volendo promuovere la fine dell’“inutile strage” e considerando l’ipotesi di una pace senza
annessioni, non venne neanche preso in considerazione, ritenendo le sue affermazioni
contaminate da un qualche orientamento socialista.

L’Italia e il Disastro di Caporetto


La famosa disfatta di Caporetto, avvenuta il 24 ottobre 1917, venne premessa dai numerosi
insuccessi riportati da Cadorna sull’Isonzo tra maggio e settembre, dai tumulti popolari per
l’aumento dei prezzi e per la carenza dei generi alimentari e dalla vera e propria insurrezione
di Torino fra il 22 ed il 26 agosto, originata dalla mancanza di pane.
Fu quindi in questo clima di rottura che gli Austro-Tedeschi decisero di mettere in pratica la
tattica di infiltrazione (penetrare nel territorio nemico di sorpresa ed il più rapidamente
possibile senza preoccuparsi di consolidare le posizioni raggiunte). L’esercito italiano,
praticamente dimezzato, resistette all’ondata austro-tedesca ritirandosi sul Piave e sul Monte
Grappa. Sebbene la cruenta sconfitta avesse comportato gravose perdite umane, non solo i
soldati erano riusciti ad evitare la penetrazione del nemico nel Veneto, ma si assistette ad un
rapido cambio di rotta in ambito militare, attraverso la sostituzione del generale Cadorna con
Armando Diaz, e in quello politico, grazie all’accrescimento di patriottismo e coesione
politica in seno al nuovo governo di coesione nazionale presieduto da Vittorio Emanuele
Orlando, il quale riuscì a tenere a bada anche l’ala riformista del PSI.
Con Armando Diaz le condizioni dei soldati migliorarono: sia dal punto di vista materiale,
grazie a vitti più abbondanti, licenze più frequenti e maggiori possibilità di svago, che da quello

XIII
morale, grazie alla propaganda al fronte, garantita dai giornali di trincea e dal Servizio P,
affidato ad ufficialai minori e prestigiosi intellettuali.

Rivoluzione o Guerra Democratica?


Con l’uscita di scena della Russia zarista e la minaccia del disfattismo rivoluzionario leninista,
l’Intesa dovette rafforzare il carattere ideologico del conflitto, presentandolo sempre più come
una crociata della democrazia contro l’autoritarismo austro-ungarico e l’imperialismo tedesco.
Di tale concezione divenne massimo interprete il presidente USA Woodrow Wilson, il quale,
entrato in guerra per difendere la violata libertà dei mari e i diritti delle nazioni al fine di
instaurare un nuovo ordinamento internazionale basato sull’“accordo fra i popoli liberi”,
rispose all’armistizio russo-tedesco con la presentazione dei famosi quattordici punti, nei
quali proponeva anche la creazione di un organo internazionale garante del mutuo rispetto fra le
nazioni: la Società delle Nazioni.
Sebbene molti non condividessero i quattordici punti di Wilson, per il suo astratto utopismo,
dovettero accettarlo come “nuovo vangelo”, non solo in quanto avevano estremo bisogno del
sostegno americano, ma anche per contrastare la diffusione del vangelo rivoluzionario
promosso dalla Russia bolscevica.

L’Ultimo Anno di Guerra


All’inizio del 1918 i tedeschi riuscirono a sfondare fra Saint Quentin e Arras, oltrepassando la
Marna e minacciando Parigi con cannoni a lunga gittata. Tuttavia i primi segni di cedimento
non tardarono ad arrivare: gli Austriaci vennero respinti sul Piave e i tedeschi dalla Marna
grazie all’aiuto inglese. Da allora Francesi ed Inglesi agirono sotto un comando unificato
affidato al generale francese Foch, e l’Intesa cominciò anche a giovare finalmente del
massiccio apporto statunitense.
Il contrattacco dell’Intesa fece subire una prima dura sconfitta ai tedeschi nella grande battaglia
di Amiens (8-11 agosto 1918). In aggiunta alle sconfitte militari, la Germania subì una crisi
politica causata dallo sbarazzarsi immediato del potere da parte dei militari; crisi che solo il
governo di coalizione democratica, a cui presero parte socialdemocratici e cattolici centristi,
sarebbe riuscito a risolvere in ardue trattative di pace con l’Intesa.
Il 4 novembre gli Austriaci, sconfitti nella battaglia di Vittorio Veneto, si trovarono costretti a
firmare l’Armistizio di Villa Giusti con l’Italia; non da meno furono i tedeschi: spiazzati
dall’ammutinamento dei marinari di Kiel, il quale diede vita a numerosi consigli
rivoluzionari di ispirazione russa, e comandati dal socialdemocratico Friederich Ebert (il
Kaiser era fuggito in Olanda con l’Imperatore austriaco Carlo I), l’11 novembre 1918 firmarono
l’Armistizio di Rethondes, il quale li avrebbe costretti ad accettare le durissime condizioni
stabilite dai vincitori alla Conferenza di Pace di Versailles, protrattasi per un anno e mezzo
dal 18 gennaio 1919.

***
La Rivoluzione Russa

La Caduta dello Zar e il Governo Provvisorio


Il regime zarista, arretrato e antiquato, era destinato a trovare in fretta un modo di rinnovarsi o a
scomparire in fretta. Di fronte all’incapacità dello zar di rimodernare il paese, si formarono
movimenti popolari che miravano alla sua destituzione e alla creazione di uno stato più
democratico. Uno sciopero generale degli operai a Pietrogrado si trasformò presto in una
sollevazione contro il regime zarista. I soldati, rifiutandosi di sparare sulla folla, fraternizzarono
con i dimostranti imponendo le dimissioni dello zar il 15 marzo 1917 (Febbraio per il
calendario Russo, da cui Rivoluzione di Febbraio). Il comando fu quindi preso da un governo
provvisorio di orientamento liberale voluto dalla Duma e presieduto da Georgij L’vov,
appoggiato dai menscevichi (la corrente minoritaria del partito comunista) e dai cadetti ( i
social-democratici). Si voleva promuovere l’occidentalizzazione del paese e mantenere il patto
di guerra con l’Intesa. Soltanto i bolscevichi rifiutarono ogni partecipazione al potere, avversi
all’idea di una rivoluzione borghese.

XIV
I Soviet e Lenin
Subito al potere legale si affiancò quello dei soviet, (“consiglio”), cioè degli organi locali
rivoluzionari eletti direttamente dal popolo, sorti a Pietroburgo nella rivoluzione fallita del
1905. Dopo un viaggio tumultuoso attraverso l’Europa in guerra, Lenin tornò finalmente in
Russia e diffuse le cosiddette Tesi d’Aprile, un documento in cui rinforzava la necessità di una
rivoluzione proletaria e affermava, contrariamente a quanto diceva Marx, che in Russia doveva
avvenire per prima, proprio perché arretrata e debole. L’occasione per far entrare i bolscevichi
in tutti i soviet si presentò quando il presidente del Consiglio Kerenskij incitò le forze
socialiste a fermare il colpo di stato militare che cercava di attuare il generale Kornilov. La
rivolta fu stroncata, ma i bolscevichi ne uscirono immensamente rinforzati, conquistando la
maggior parte dei soviet a Pietrogrado e Mosca.

La Rivoluzione d’Ottobre e la Dittatura di Partito


In una riunione del Comitato generale, il 23 Ottobre, i bolscevichi decisero di passare
all’insurrezione. Trotzkij, il principale esponente del partito dopo Lenin, si occupò di
organizzare tatticamente e militarmente l’operazione. La mattina del 7 Novembre (25 Ottobre
secondo il calendario Russo) la guardia rossa, formata da milizie operaie, isolò il Palazzo
d’Inverno, già residenza dello Zar e sede del governo. La presa dell’edificio, avvenuta quasi
completamente senza spargimenti di sangue fu assunto a simbolo della rivoluzione, così come
era avvenuto per la Bastiglia nel 1789. Il Congresso Panrusso dei Soviet riunitosi lo stesso
giorno a Pietrogrado, con i delegati di tutti i soviet russi, decretò immediatamente che si doveva
cercare “una pace giusta e democratica” con gli stati Europei in guerra e che la grande
proprietà terriera era “abolita immediatamente e senza alcun indennizzo”.
Dopo che i bolscevichi persero le elezioni dell’Assemblea Costituente contro le forze più
moderate dei menscevichi e dei cadetti, Lenin non si arrese, e coerentemente con le sue idee,
che non prevedevano una democrazia borghese, sciolse la Costituente con un intervento
militare, creando di fatto una Dittatura di Partito.

Il Trattato di Brest-Litovsk (3/3/18) e la Guerra Civile


La Russia dovette sottoscrivere un patto di guerra con la Germania che continuava ad
occupare vaste zone dell’ex impero. Il trattato era durissimo e comportava la perdita di un
quarto circa dei territori europei. Le forze dell’Intesa avvertirono la firma del trattato come un
tradimento e incominciarono a finanziare le forze anti-bolsceviche, per lo più sotto la guida di
ex ufficiali zaristi, detti bianchi. Lenin fu costretto a finanziare una polizia politica, la Ceka e
un Tribunale Rivoluzionario Centrale che condannasse chiunque disubbidisse al partito. Tutti
i partiti d’opposizione vennero considerati fuori legge e fu reintrodotta la pena di morte.
L’Armata Rossa degli operai e dei contadini fu ufficialmente formata ad opera di Trotzkij e
divenne, da milizia popolare, una disciplinatissima macchina da guerra. Già nella primavera
del ’20 le forze antirivoluzionarie si potevano considerare sconfitte dopo circa due anni di
sanguinosi combattimenti.

La Terza Internazionale
Si doveva adesso, solidificata in patria, esportare la rivoluzione in Europa. Fu così che la
vecchia Internazionale Socialista divenne comunista a tutti gli effetti, e mirava a raccogliere
tutti i partiti rivoluzionari europei. Ai primi di marzo del 1919 l’Internazionale Comunista, o III
Internazionale, raccolse circa 50 delegati dalle province dell’ex impero russo. Fu dunque
decretata la fondazione ufficiale del Comintern (Internazionale Comunista). Il II Congresso
del Comintern, tenutosi nel luglio del 1920, raccolse ben più delegati, rappresentanti 64 partiti
operai da tutto il mondo. Tutti i partiti dovevano assumere il nome di Partito Comunista e
appoggiare la rivoluzione bolscevica in ogni sede e seguire le direttive del Partito centrale.

La Questione Economica e la Nep


Frattanto l’economia russa versava in situazioni disastrose, a causa delle guerre e delle carestie.
I contadini producevano soprattutto per l’autoconsumo, e nelle grandi città scarseggiavano i
beni alimentari. Addirittura si tornò al sistema del baratto. Fu così che il governo decise di
attuare quello che sarà definito successivamente il comunismo di guerra, una politica

XV
economica più energica e autoritaria. Furono istituiti dei comitati per distribuire le derrate
alimentari, e si crearono le fattorie collettive (Kolchoz) e fattorie sovietiche (Sovchoz) gestite
direttamente dai soviet locali. Con un decreto si attuò la nazionalizzazione delle industrie più
importanti (1918). Sebbene questo piano fosse sufficiente per alcune funzioni essenziali,
economicamente si rivelò un fallimento. Dopo una terribile carestia del ’21, il governo dovette
correre ai ripari. Nel marzo, si tenne a Mosca il X Congresso del Partito Comunista, che
formalmente decise di avviare la Nep, Nuova Politica Economica. Ai contadini si consentiva di
vendere in proprio le eccedenze, dopo averne donate una parte allo Stato. Venne stabilita la
liberalizzazione industriale, parallelamente alla nazionalizzazione parziale del sistema
creditizio. Questo piano favorì una notevole ripresa economica e un miglioramento generale
delle condizioni sociali, ma rimanevano molti punti oscuri, come i salari piuttosto bassi,
l’assenza di un’organizzazione sindacale, la disoccupazione e nonché la creazione del ceto dei
kulaki, cioè dei contadini ricchi che controllavano il mercato agricolo.

L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche


Nel Dicembre del 1924 i congressi dei soviet delle singole repubbliche federali appartenenti
all’ex impero decisero di dar vita all’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Il
potere supremo era teoricamente affidato al Congresso dei Soviet. In realtà esso giaceva nelle
mani del Partito comunista, quindi di un ristretto gruppo dirigente. Gli sforzi del governo si
concentrarono sulla scristianizzazione delle masse e sull’impulso dato all’istruzione di base,
che fu resa obbligatoria fino ai 15 anni.

La Morte di Lenin e l’Ascesa di Stalin


Josip Djugasvili, detto Stalin, nel 1922 venne eletto segretario del partito comunista. Poche
settimane dopo Lenin fu colpito da una malattia che lo porterà a morire nel gennaio del 1924.
Con la scomparsa della sua autorevole e carismatica figura, le correnti interne al partito adesso
erano libere di scontrarsi per la successione. In seguito a un’eccessiva burocratizzazione del
partito enormi poteri si andavano ad ammassare nelle mani di Stalin. Dall’altra parte Trotzkij,
l’altra grande figura nel partito si batteva contro questo processo. Inoltre riteneva di dover
esportare la rivoluzione negli altri stati al più presto, come era specificato nella teoria marxista
(il concetto di rivoluzione permanente), al contrario di Stalin che sosteneva il “socialismo in
un solo paese”. La dittatura del proletariato era una fase che per Trotzkij doveva essere
superata per approdare finalmente alla piena democrazia, con l’eliminazione delle classi sociali.
Fu così che nel ’27, durante il decennale della rivoluzione, Trotzkij tentò una sollevazione
contro il burocrate che incarnava sempre di più la figura del dittatore. Espulso dal partito, fu
dapprima deportato, poi esiliato, e poi (’40) fatto assassinare da un sicario Staliniano. Stalin
deteneva così il controllo totale del partito e mirava a trasformare l’URSS in una grande
potenza industriale e militare.

La Politica di Stalin
Proprio per il suo isolamento, l’Urss non fu toccata dalla crisi economica. Abbandonata la Nep
Stalin volle dare una spinta straordinaria all’industria. Dal ’29 iniziano i Piani quinquennali
cioè periodi in cui si stabiliva di quanto dovesse crescere l’industria e l’economia. Nonostante
la quota fissata dal primo piano non fosse stata raggiunta, si raggiunse il prestigioso risultato di
raddoppiare la produzione in un solo anno. Tristemente si propose anche di eliminare la classe
sociale dei kulaki con un processo chiamato dekulakizzazione. Prese le loro terre e le rese
pubbliche. Gran parte si rifiutava e preferiva bruciare i propri raccolti piuttosto che donarli ai
kolchozy. I refrattari venivano deportati e massacrati, si parla di 5 milioni di morti.
Dal momento che chiunque poteva essere tacciato di essere fascista e quindi deportato, si creò
un clima di tensione e di sfiducia nei confronti del prossimo. Stalin aveva operato la
distruzione della personalità. La “rieducazione” consisteva nella deportazione nei campi
forzati chiamati Lager. Il Gulag era l’organo centrale amministrativo del Lager. Solzenitsyn
chiamerà questi campi di concentramento sparsi in tutte le zone più inospitali dell’Urss
“Arcipelago Gulag”. Le grandi frange intellettuali russe cominciarono qui un enorme esodo
all’estero. Il regime condannò ogni forma d’avanguardia artistica che si discostasse dal
realismo comunista, che descriveva, idealizzandola, la vita nella Russia. Tutto il fiorente

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movimento artistico (il Costruttivismo, il cinema di Ejzenjstein) e letterario (Majakovskij) nato
durante le prime fasi della rivoluzione fu costretto a scomparire sotto il controllo e la censura di
quello che, tradendo le iniziali aspettative di libertà, diventava sempre di più un regime
dittatoriale totalitario al pari di quello fascista.

***

La Guerra Civile Spagnola

Primo de Rivera (1923-1930)


La dittatura di Miguel Primo de Rivera, instaurata grazie anche all’appoggio del sovrano
Alfonso XIII nel ’23 aveva portato la Spagna ad occupare un ruolo assolutamente arretrato e
marginale nello scenario internazionale. Si trattava infatti di una dittatura di vecchio stampo,
che non puntava sul coinvolgimento delle masse né si presentava come fautrice di
rinnovamento, al contrario del nazifascismo. Conservava inoltre intatte tutte le gerarchie
sociali, tra cui il latifondismo e il potere temporale della Chiesa, ultra-conservatrice e con le
mani nella finanza. Circa 50000 proprietari terrieri possedevano infatti metà del territorio
spagnolo.
Tra i movimenti politici vi erano i carlisti, un gruppo reazionario che voleva garantire la
discendenza di Carlo di Borbone; nonostante la grande presenza del ceto proletario, in Spagna
non si affermò mai un partito Comunista abbastanza significativo. Tuttavia nacque un forte
movimento anarchico, ferocemente anticlericale che controllavano il maggior sindacato (la
Cnt). Di fronte a una massiccia ondata di proteste popolari, Primo de Rivera dovette dimettersi
nel Gennaio del ’30.

La Repubblica
Nasce così una Repubblica, formata soprattutto da democratici e repubblicani, ma con una
maggioranza di destra. Dopo un periodo di notevole fragilità, con due tentativi di colpi di stato
(uno militare, nel ’32, e uno anarchico sanguinosamente represso nel ’32), nel Febbraio del ’36
finalmente uno schieramento composto dalle ali della sinistra parlamentare (comunisi,
repubblicani e socialisti), il Fronte Popolare, vince le elezioni e avvia una serie di importanti
riforme. Subito però si crearono tensioni. Da una parte, l’esito delle elezioni aveva dato alle
masse meno abbienti la speranza di una rivoluzione sociale che si concretizzò in un’esplosione
di collera nei confronti dell’aristocrazia e del clero cattolico; dall’altra, le numerose schiere
conservatrici e reazionarie trovarono nella Falange (un movimento militarista fondato dal figlio
di Rivera, ispirato nel nome alla falange macedone) una via per reinstaurare la monarchia.

Il Pronunciamiento e la Guerra Civile


Fu così che alcuni reparti militari iniziarono a non obbedire più agli ordini che venivano da
Madrid. Con un Pronunciamiento (ribellione) Francisco Franco, generale del reparto dislocato
in Marocco, insieme a una giunta composta da altri quattro generali, decise di far partire le
operazioni militari per un colpo di stato militare, che mirava alla ricostituzione di un regime
autoritario. Dal luglio del ’36 iniziarono le fasi di sbarco nella penisola ed in breve tempo i
nazionalisti (come venivano chiamati) occuparono tutta la zona occidentale della Spagna e
Franco prese il nome di Caudillo (duce). Se all’inizio delle operazioni il Fronte poteva contare
sull’appoggio di gran parte della popolazione e il controllo della zona orientale del paese, la più
ricca, e della capitale, ben presto le sorti dello scontro vireranno a favore dei nazionalisti,
soprattutto grazie all’aiuto nazifascista. Italia e Germania, infatti, aiutavano fortemente gli
insorti. Mussolini inviò un contingente di 50000 “volontari” (che erano in realtà soldati
regolari) e una notevole quantità di materiale bellico, tra cui carri armati, aeroplani e
mitragliatrici. Alcuni storici ritengono che Mussolini abbia ingenuamente speso troppo per
favorire la Falange, dissipando così le finanze italiane già critiche; anche ciò probabilmente
determinò la risibile situazione economica e militare italiana allo scoppio della II Guerra
Mondiale. L’intervento di Hitler fu ben più accorto. Il campo di guerra spagnolo fu prezioso per
testare i nuovi aerei e le nuove tecniche di bombardamento. Un episodio tristemente celebre è il
bombardamento di Guernica, che verrà completamente rasa al suolo durante una simulazione

XVII
aerea. Il Fronte invece non riceveva nessun aiuto dalle potenze democratiche europee, Francia e
Inghilterra. Secondo il patto per il non intervento sottoscritto (ma non rispettato) anche da Italia
e Germania esse rimanevano neutrali, ben lontane dal finanziare il Fronte, che appariva ai loro
occhi una forza comunista. Soltanto l’URSS aiutò la Repubblica, con l’invio di materiale
bellico, ma soprattutto con l’istituzione delle Brigate Internazionali, un esercito di volontari
aperto a tutti gli antifascisti di ogni paese. Tra gli altri vi aderirono intellettuali come
Hemingway e Orwell. La famosa Brigata Garibaldi era composta da italiani anti-fascisti
orgogliosi di combattere contro la stessa forza che in Italia non potevano contrastare.
Come se non bastasse, all’interno del Fronte si faceva sempre più forte il contrasto tra gli
anarchici e gli altri gruppi politici, più moderati e che cercavano di attenersi ad una disciplina
militare. Spaccato così, perse rapidamente anche quell’euforico appoggio popolare degli inizi e
nella primavera del ’38 la sorte della guerra fu segnata. I fascisti riuscirono a dividere i territori
repubblicani separando Madrid e la Catalogna. Dopo il ritiro delle Brigate Internazionali la
Repubblica riuscì a resistere ancora per quasi un anno. All’inizio del ’39, però, Madrid cadde e
i Franchisti vinsero la guerra e instaurarono un regime fascista sulla falsa riga di Nazismo e
Fascismo, destinato tristemente a durare addirittura fino al 1975, ovvero fino alla morte del
dittatore.

La guerra civile, durata circa tre anni, lascia un’eredità disastrosa: se oltre 500mila sono i morti
durante il conflitto (in combattimento, per rastrellamenti o per stragi ideologiche) decine di
migliaia ve ne furono in seguito alle violente repressioni franchiste. Nel suo radiomessaggio del
16 Aprile 1939, papa Pio XII osò parlare di una vera e propria “vittoria contro i nemici di
Gesù Cristo". Questa guerra è per molti storici un sinistro preambolo alla guerra totale di poco
tempo dopo, caratterizzata da metodi e tecniche di guerra (i bombardamenti di centri abitati, le
rappresaglie, i rastrellamenti) che l’Europa avrebbe sperimentato successivamente.

***

La Grande Depressione del ‘29

L’Inizio della Grande Depressione


La Grande Depressione cominciò a svilupparsi in USA a partire dall’autunno del 1929; essa si
sarebbe protratta per buona parte degli anni ’30 divenendo premessa del secondo conflitto
mondiale e comportando la decadenza dell’Europa liberale. Per una migliore comprensione
degli avvenimenti vedremo come dalla crisi interna USA, alimentata non solo da soluzioni
politiche inadeguate ma quanto da un incauto ottimismo borghese, si passò ad un necessario
quanto infausto legame con il mercato europeo, comportandone un rapido declino, del quale
prenderemo in considerazione le diverse manifestazioni locali.
Dalla depressione post-bellica del ’20 e ’21 gli USA uscirono vincitori detenendo il primato
sull’economia mondiale: il dollaro era divenuto così forte da essere la moneta ufficiale nelle
transazioni internazionali, mentre Wall Street era giunto a competere con la borsa di Londra.
La produzione in serie, il taylorismo avevano infatti comportato una straordinaria espansione
standardizzata dei consumi ed un notevole svilluppo del settore dei servizi, a prezzo tuttavia di
una consistente disoccupazione tecnologica a danno dei ceti meno abbienti. A ciò si
aggiungeva parallelamente il conservatorismo repubblicano: oltre ad imporre un rigido
proibizionismo che sarebbe durato fino al 1934, e a diffondere un notevole pregiudizio razziale
(contro le “ideologie sovversive europee”, contro i cattolici, gli ebrei, la popolazione di colore;
basti ricordare le dure leggi contro l’immigrazione, il KKK e la pena sommaria per gli italiani
Sacco e Vanzetti nel 1927 per potersi fare un’idea del fenomeno dilagante), con l’introduzione
delle corporations ed il fenomeno lobbysta che ne seguì, i repubblicani non avevano solo
garantito vantaggi ai grandi industriali e alla borghesia medio-alta a discapito dei ceti medi, ma
causato anche forti squilibri tra un’industria e l’altra.
Tuttavia l’ottimismo della borghesia americana non vacillò: inebriata alla vista
dell’espansione esponenziale dei consumi nazionali e dalla facile moltiplicazione dei capitali
con speculazioni finanziarie sempre più accurate in un periodo di vertiginosa ascesa delle
quotazioni, la borghesia non si rese conto della fragilità, non solo di quest’ultima euforia

XVIII
speculativa quanto dell’intero processo di espansione economica nazionale. Alla crisi di
sovrapproduzione dei settori industriali di guerra e alla crisi del settore agricolo si tentò di
ovviare con un maggior flusso di esportazioni, il quale, unito alla dipendenza economica
europea dai finanziamenti USA, fece si che il legame tra i due continenti divenisse ancor più
stretto ed indissolubile: l’espansione americana finanziava infatti la ripresa europea, dalla
quale traeva il suo maggior sostentamento. Quando nel 1928 i capitali vennero dirottati verso
operazioni speculative di Wall Street, la produzione industriale volta all’esportazione in
Europa calò e con essa i maggiori titoli industriali. Questo fu l’inizio della crisi. Se nel
settembre ’29 le azioni vantavano quotazioni altissime, dopo due settimane di incertezza gli
speculatori cominciarono a liquidare in massa le azioni fino all’avvenmto del cosiddetto
“Giovedi Nero” (24 ottobre ‘29) in cui la corsa alle vendite si dilatò così tanto da far crollare
tutti gli indici di Wall Street, danneggiando immediatamente i ceti ricchie benestanti, portando
persino al suicidio 11 speculatori. Il protezionismo USA, la sospensione dei crediti all’estero
ed il protezionismo europeo che ne era diretta conseguenza contrassero il commercio mondiale
del 60%. I licenziamenti nelle industrie in deficit comportarono un rapido calo dei consumi
interni (direttamente proporzionale al tasso di disoccupazione e sottoccupazione) e quindi ad
un’altra crisi del settore agricolo.

La Crisi in Europa
In Europa la crisi finanziaria colpì per prime Germania ed Austria, la cui crisi bancaria e
monetaria nonché l’ovvio declino delle attività produttive e commerciali portò ad una crisi in
Gran Bretagna (i maggiori investimenti inglesi si concentravano nel mercato tedesco ad
austriaco) tanto drammatica che il governo dell’ex laburista Mac Donald (unitosi con una
minoranza liberista dopo essersi sataccato dal partito laburista per opposizione della Trade
Unions al taglio del sussidio di disoccupazione) dovette stabilire un più rigido sistema di
tariffe doganali e sospendere la convertibilità della sterlina, svalutandola e comportando la
decadenza del “Grande Banchiere del Mondo”. In molti paesi europei si pensò di adottare la
risoluzione inglese; se non fosse che la svalutazione della moneta, atta a favorire le
esportazioni, unita ad un’impreparazione politica convinta dell’efficacia del pareggio del
bilancio (tassazzioni maggiori e licenziamenti dei dipendenti pubblici), non fece altro che
contrarre ulteriormente la domanda, facendo andare in recessione la maggior parte degli stati
europei; una recessione che si sarebbe sanata soltanto con il riarmo del 1933.
In Germania il legame ancor più stretto fra prestiti USA ed economia interna fece andare in
crisi l’Spd per dissensi con il centro-destra, portando al governo i cattolici centristi di
Bruning. La politica dell’austerità del governo cattolico fece sospendere, in una conferenza
del 1932, i versamenti tedeschi previsti dal Trattato di Versailles, riducendo tuttavia alla fame
circa 6 milioni di disoccupati, il cui mal contento fu alla base del consenso dell’ascendente
partito nazional-socialista.
In Francia la crisi durò più a lungo poiché, assumendo come onore della nazione il valore
della moneta, venne ritardata la svalutazione del franco al ’37, provocando una tale
instabilità politica da assistere alla successione di 17 governi dal ’29 al ’36.
In Italia, ma di questo tratteremo con più ampio respiro nella sezione dedicata all’economia
fascista, Mussolini istituì l’Imi e, due anni dopo, l’Iri, con l’iniziale intento di far
provvisoriamente carico ai due enti statali dei deficit industriali, se non fosse che il processo di
riprivatizzazione divenne così impraticabile da rendere permanente l’Iri presieduto da
Beneduce, ponendo così le basi per le attitudini odierne dell’economia italiana, incapace di
prescindere dagli interessi politici della classe dirigente.

La Crisi in America e il New Deal di Roosevelt


Ma torniamo in USA. Al presidente uscente Herbet Hoover, il quale non aveva ottenuto alcun
successo sulla Grande Depressione, seguì il democratico Roosevelt, le cui grandi doti
comunicative (basti pensare ai celebri “discorsi al caminetto”) supplirono alla mancanza di un
reale programma organico. L’intervento Rooseveltiano si sintetizzò nel New Deal, un progetto
di trasformazione dello stile di governo americano, già annunciato al discorso inaugurale di
presidenza del marzo 1933, che avrebbe presto trovato lo spassionato appoggio sindacale,
della borghesia medio-bassa e dei ceti meno abbienti, nonché la condanna di

XIX
incostituzionalità da parte della Corte Suprema, un’ira suscitata dall’incapacità del New Deal
di perseguire il fine ultimo che si era stabilito: ridare un nuovo slancio all’mpresa privata.
Vediamo ora di cosa si trattò. Nei “Cento Giorni” venne sostanzialmente rivalutata l’efficacia
e l’etica dell’intervento statale in campo economico, in netta opposizione con la tradizione
liberista dei repubblicani. In questo breve periodo venne ristrutturato il sistema creditizio
(erano infatti falliti oltre 5000 istituti bancari), svalutato il dollaro al fine di proporre ai mercati
europei esportazioni più competitive, aumentata la spesa pubblica, aumentati i sussidi di
disoccupazione, nonché i prestiti per il congelamento delle ipoteche sulle case, varata una
riforma fiscale ed una legge sulla sicurezza sociale la quale prevedeva la creazione di fondi
pensionistici per la vecchiaia e permetteva la contrattazione collettiva dei salari. Vennero poi
varati tre provvedimenti risolutivi: l’Agricoltural Adjustment Act (Aaa), il quale pur
prevedendo premi in denaro per limitare la sovrapproduzione agricola non riuscì ad arrestare la
caduta dei prezzi e l’aumento del tasso di disoccupazione rurale; il National Industrial
Recovery Act (Nira) che, atto a limitare la sfrenata concorrenza industriale a tutela dei diritti e
dei salari dei lavoratori, suscitò tuttavia la perplessità dei ceti medi per l’effettiva tutela dei soli
interessi dei grandi industriali; il Tennesee Valley Authority (Tva) per la vendita di energia a
buon mercato a favore degli agricoltori attraverso lo sfruttamento delle risorse idroelettriche
del bacino del Tennesee, il quale consistette in un successo più propagandistico che
concretamente economico.

Il Dibattito sull’intervento Statale e le Teorie di Keynes


I piani di intervento statale erano stati già messi in atto per l’organizzazione
dell’industrializzazione, per il sanamento dei conflitti di classe nonché per il sostegno
dell’economia bellica, ma con la Grande Depressione del ’29 lo stato passò dall’essere
sostegno esterno a divenire un vero e proprio soggetto attivo dei processi di espansione
economica e sanamento della crisi, attraverso tecniche finalizzate al potenziamento della
domanda e processi di statalizzazione delle industrie in deficit.
Da capitalismo liberista si passò così al capitalismo diretto, il quale, pur non intaccando i
principi di profitto, limitò drasticamente le scelte individuali, divenendo necessario ostacolo
allo sviluppo dell’impresa privata. Il dibattito sul ruolo dello stato in campo economico fece
scendere in campo economisti del calibro di Keynes, il quale con la pubblicazione nel 1936 di
“Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” criticò il dogmatismo
liberista basato sul principio del laissez-faire e sull’ormai inconsistente fiducia
nell’autoregolamentazione del mercato teorizzata dall’economia classica. Egli definì nuove
strategie di intervento non sfocianti in politiche socialiste, quanto incentrate sulla correzione
delle numerose contraddizioni insiste nel capitalismo. Schierandosi duramente contro le
politiche deflazioniste ed incentrate sul pareggio del bilancio, le quali non avrebbero
comportato altro che un’ulteriore gravante sulla domanda, Keynes propose una strategia che
sarebbe stata adottata finanche dopo il secondo dopoguerra: una tattica di intervento statale
basata sul deficit spending e su mirate iniezioni di liquidità.

I Nuovi Sviluppi della Società


Nonostante il generale impoverimento la società mondiale non arrestò la propria evoluzione. Si
assistette nel periodo della Grande Depressione ad un notevole processo di urbanizzazione
(nonostante il successo delle ideologie ruraliste), ad un proficuo boom edilizio, al successo
delle industrie dei beni durevoli (strettamente collegato al boom edilizio), allo sviluppo del
trasporto pubblico, dell’aereonautica militare, dell’aviazione e motorizzazione civile, e
della comunicazione massiva. Il successo della comunicazione di massa si basò su quello
delle trasmissione radiofoniche (vi erano enti statali tipo la BBC, affiancati da emittenti
private autofinanziate dall’attività pubblicitaria), a discapito dell’informazione stampata
(l’insuccesso diede vita alle riviste illustrate) e a favore naturalmente delle industrie
dell’elettronica, nonché del grande successo dell’attività cinematografica la quale, a metà tra
la creazione artistica ed il prodotto industriale, diede vita ad divismo massivo divenendo anche
fonte informativa (cinegiornali) e propagandistica (film). Inutile dire che lo sviluppo della
comunicazione di massa sarebbe presto divenuta un’arma della quale, sia i totalitarismi per

XX
l’indottrinamento ideologico ed il culto della persona, sia le democrazie per la
spettacolarizzazione del dibattito politico, non poterono più fare a meno.

La Disillusione Sociale
Parallelamente allo sviluppo ottimista della società e alla parziale e difficoltosa ripresa
dell’economia internazionale, la profonda disillusione collettiva fu alla base delle
Avanguardie Storiche, delle nuove filosofie (neopositivismo, fenomenologia, esistenzialismo,
spiritualismo cattolico e neo-marxismo), della crisi del romanzo borghese (ci si voleva
concentrare sui nuovi problemi dell’uomo del XX secolo piuttosto che promuovere gli agi
dell’universo preconfezionato della cultura borghese), delle grandi radicalizzazioni
ideologiche, dell’impegno politico dei grandi intellettuali ai fini della propaganda e della
fuga dei cervelli. In sostanza: la Grande Depressione non portò solo al crollo della tradizione
del liberismo radicale degli stati occidentali, ma all’impoveriemtno generale dell’intera cultura
europea.

***

Il Fascismo

L’Avvento del Fascismo


Il fascismo si stabilì in Italia, grazie ad un clima generalizzato di cui ora tratteremo che ne fu la
premessa, evolvendosi da movimento squadrista ad organo partitico fino ad un progressivo
accentramento del potere tale nella figura di Mussolini da portare all’avvento della dittatura, a
partire dal gennaio ’25, finanche allo stabilirsi di un regime semi-totalitario (in seguito
vedremo per quale motivo non si può parlare di vero e proprio totalitarismo).
Una crisi generalizzata aveva investito tutti i paesi occidentali, stremati dalle drammatiche
conseguenze dell’economia di guerra e dell’instabilità politica. Oltre ai fattori politico-
economici dovremmo considerare anche il fattore sociologico che portò nel nostro paese al
dilaniare di una profonda depressione su vasta scala. L’Italia era uscita scontenta dai trattati di
pace del primo conflitto mondiale, le ambizioni coloniali disilluse dalla sfrenata opposizione di
Inghilterra, Francia e dell’America di Wilson (principio di autodeterminazione dei popoli), la
gran parte della popolazione invalida sia fisicamente che psicologicamente rivendicava
possedimenti su terre che le erano state promesse e non concesse e gli eroi di guerra erano stati
costretti a tornare ai lavori di sempre, oppressi da condizioni lavorative sempre peggiori.
Questi fattori comportarono la diffusione di un pensiero che, a conti fatti, giudicava la vittoria
italiana come una “vittoria mutilata”. A ciò bisognava aggiungere una crisi economica che fu
il preambolo della celebre Grande Depressione del ’29. Lo stato aveva incentivato durante la
guerra gli investimenti in titoli del tesoro; al termine della guerra l’insolvibilità, non solo
degli interessi, ma della cedola totale causò l’impoverimento immediato di piccoli e medi
investitori, nonché una crisi economica generalizzata causata dall’inflazione. Questa crisi fu la
scintilla che infiammò una sfilata di scioperi e proteste generalizzate che sarebbe durata fino
alla brutale repressione da parte degli squadristi. A ciò bisognava inoltre aggiungere, come
suddetto, la grave instabilità politica che cominciò a sgretolare le alte sfere di potere con la
vittoria di socialisti e popolari, la cui maggioranza, decretata dal modello proporzionale,
aveva reso impossibile la governabilità del paese. Fu a causa di questa ingovernabilità e a
causa di politiche attesiste ed inconcludenti, volte centristicamente ad accontentare tutti e
nessuno di esponenti come Nitti, Giolitti, Fatta e Bonomi che cominciò a prendere piede il
movimento fascista, facendo leva sul malcontento generalizzato, la voglia di ordine e di
rivalsa. Nel ‘19 a Milano, precisamente a piazza del Santo Sepolcro, Mussolini fondò i fasci di
combattimento. I primi gravi attriti fra governo e frange radicali del movimento neonato si
ebbero con la pacifica repressione delle frange di D’Annunzio andate ad occupare Fiume.
Quando Mussolini pubblicò sul periodico “Il Popolo d’Italia” il programma di presentazione
del movimento (programma che risentiva palesemente del retroterra socialista di Mussolini,
almeno in apparenza) lo squadrismo divenne ancor più manifesto: con le dure repressioni
degli scioperi e i violenti attacchi alle leghe socialiste; attacchi che portarono al movimento

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un tale consenso da parte di quei ceti meno abbienti soggetti al dirigismo delle leghe che nel
’21 Mussolini riuscì ad unificare un movimento diviso fra la sua figura ed il fenomeno
squadrista sotto la comune bandiera nonché organo burocratico del Partito Nazionale
Fascista (Pnf). Un anno dopo, nell’ottobre del ’22, Italo Balbo convinse Mussolini a fare
sfoggio della forza acquisita dal movimento, facendo sfilare a Roma circa 30.000 soldati, ed
occupando successivamente arsenali e stazioni, i quella che sarebbe divenuta celebre con il
nome di Marcia su Roma. Fatta chiede al re di firmare lo stato d’assedio, andando incontro ad
un sicuro rifiuto, motivato da un ingiustificata fiducia in una possibile rivalsa liberale. Il re
chiama difatti Mussolini da Milano e gli propone di formare un governo in collaborazione con
le frange liberali del Parlamento. Mussolini rifiuta categoricamente e si dirige alla volta di
Roma, dove presto si sarebbe imposto come capo del governo e ministro degli esteri ad
interim. Con l’istituzione del Gran Consiglio del Fascismo e la sostituzione dei sindaci con la
Prefettura Mussolini cominciò l’accentramento di potere che gli permise di avere la meglio
alle elezioni del ’24. I palesi brogli elettorali suscitarono la rabbia dei socialisti, i quali
esposero tanto Matteotti a denuncia dell’accaduto, da procurarne indirettamente la morte nel
giro di due mesi (il corpo venne ritrovato nel boscho di Riano). L’evidente assassinio di
Matteotti portò alla secessione dell’Aventino dei socialisti, una forma di ribellione e
dimostrazione di dissenso che tuttavia non impedì, anzi, in un certo senso facilitò,
l’imposizione della dittatura fascista a partire dal gennaio ’25.

I Rapporti con la Chiesa


I rapporti con la Chiesa, in un paese che vantava il 99% di cristiani cattolici praticanti, si
rivelarono di grande importanza: non solo politicamente, con l’esclusione dal dibattito politico
e dalle dinamiche di potere del partito popolare (Ppi), ma anche dal punto di vista
propagandistico. Preceduti da trattative segrete a partire dall’estate del ’26, i Patti
Lateranensi dell’11 febbraio ’29 formalizzarono l’intesa tra le due sfere di potere. I Patti
erano composti da un trattato internazionale, nel quale si riconosceva la caduta del potere
temporale della Chiesa (fattore sostanzialmente formale) nonché la subordinazione dello Stato
Pontificio allo Stato Italiano, da una convenzione finanziaria, la quale prevedeva una forte
indennità al papa per la sottrazione del suddetto potere, e da un concordato che avrebbe di lì in
avanti regolato i rapporti interni fra l’uno e l’altro stato. I Patti Lateranensi ebbero un notevole
peso propagandistico che risultò nella schiacciante vittoria del Partito Nazionale Fascista (Pnf)
alle elezioni plebiscitarie a lista unica del marzo ’29. Fu tuttavia il Vaticano a godere di
vantaggi maggiori e duraturi: grazie ai Patti acquistò infatti un’incontestata influenza
sull’istruzione e sull’importantissima istituzione matrimoniale. Grazie poi ad Azione Cattolica
e ad altre organizzazioni collaterali giovanili, il Vaticano ebbe grande potere sulle formazione
di quella che sarebbe stata la classe dirigente a partire dal secondo dopoguerra, imponendo un
modus vivendi a gran parte dei giovani fascisti appartenenti alle organizzazioni collaterali del
Pnf. Il maggiore ostacolo che rimaneva al Pnf era rappresentato dalla monarchia: pur
detenendo un potere esecutivo effettivamente formale, il re deteneva comunque ancora il
potere di destituire il capo del governo.

L’Organizzazione Fascista
Negli anni ’20 in Italia lo stato totalitario era una realtà già profondamente consolidata nella
struttra giuridica e ben riconosciuta nelle sue manifestazioni esteriori. L’impalcatura esterna
dello stato andava sovrapponendosi sempre più a quella del partito grazie al Gran Consiglio
del Fascismo, detentore di funzioni costituzionali in crescita, Mussolini come capo del
governo e Duce del fascismo, la Prefettura, la Polizia di Stato e la Milizia, con la funzione
per lo più decorativa di potere ausiliario. A questi organi erano da aggiungersi le numerose
organizzazioni collaterali che consentirono al Pnf di permeare in ogni realtà sociale,
indirizzandone la mentalità. Gli organismi collaterali di maggior rilevanza erano l’Opera
Nazionale del Dopolavoro, il Comitato Olimpico Nazionale (Coni), i Fasci Giovanili, i
Gruppi Universitari Fascisti, l’Opera Nazionale Balilla, i Figli della Lupa, nonché le
organizzazioni collaterali femminili (Fasci Femminili, Piccole Italiane, Giovani Italiane e
Massaie Rurali), volti alla propaganda delle tradizionali virtù domestiche della donna e al
sotteso impedimento di ogni qualsivoglia processo di emancipazione della donna. Grazie a tale

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organizzazione, fondata sul raccordo fra organi burocratico-giuridici del Partito ed organi
collaterali volti all’indottrinamento politico-ideologico fondamentalmente giovanile, il Pnf
dilatò la propria presenza nella società civile tanto che l’adesione ad esso passò dall’essere
segno distintivo di una elite a pratica massiva, nonché formalità burocratica per l’accesso ai
posti di lavoro dell’amministrazione pubblica.

L’Immagine del Fascismo in Italia


L’immagine dell’Italia fascista non rispecchiava il reale processo di fascistizzazione nazionale.
Il fenomeno fu certamente ampio, ma riguardò fondamentalmente la borghesia medio-alta,
favorita dalla politica economica del governo e più sensibile ai valori esaltati dal fascismo.
Nonostante la sfrenata politica demografica (si pensava che il numero rispecchiasse la forza),
ruralizzante (veniva predicato il “ritorno alla campagna”), una politica economica icentrata
sugli interessi dei ceti medi e fondata sul valore della famiglia (premi in denaro alle famiglie
più numerose, tasse ai celibi, posti di lavoro nell’amministrazione pubblica per i padri di
famiglia), nonché una propaganda volta a promuovere l’ideale di “uomo nuovo”, lo sviluppo
demografico reale seguì le tendenze comuni a tutta l’Europa e in calo rispetto al ventennio
precedente, l’urbanizzazione si accentuò rapidamente, la non attenta politica economica a
tutela dei ceti bassi contrasse progressivamente il consumo nazionale fino all’apice massimo
degli anni ’30, la mancanza di infrastrutture rurali impedì al fascismo di fare breccia nel cure
dei ceti inferiori, bloccando così la propaganda dell’“uomo nuovo” e limitandone la diffusione
ai centri urbani. Altro punto a suo sfavore fu, come suddetto, l’opposizione al processo di
emancipazione femminile, dissimulata da un’immagine che voleva diffondere l’idea di
dilatare le possibilità della donna attraverso gli organi collaterali suddetti.
Il fascismo capì che, ai fini del consenso, sarebbero state di particolare importanza le
motivazioni ideologiche e culturali. A tal fine, la Riforma Gentile del ’23 sancì uno
spregiudicato controllo sulle elementari, medi e licei: ispirata ai principi della pedagogia
idealista, si cercò di accentuare la severità degli studi, propagandare il primato delle discipline
umanistiche, volte alla formazione di una elite dirigente, stringere la sorveglianza sui libri
(“testo unico” alle elementari a partire dal ‘30), nonché di limitare la maggiore autonomia
delle Università con l’obbligo del giuramento al regime dei docenti a partire dal ’31.
L’indottrinamento ideologico-culturale affidato prima alla Riforma Gentile, poi all’istituzione
del MinCulPop (Ministero della Cultura Popolare), venne affiancato dalla censura sempre più
sfrenata della stampa, da un rigido controllo delle emittenti radiofoniche (nel ’27 venne
fondato lo Eiar, emittente statale, mentre lvenne disincentivata la diffusione delle mittenti
private), e della cinematografia (si limitava al massimo la proiezione di film stranieri, in
particolar modo americani, incentivando economicamente la produzione italiana), dai
cinegiornali dell’Istituto Luce e dalla manifesta adesione dell’alta cultura all’ideologia del
Pnf.

La Politica Economica e la Risposta alla Grande Depressione del ‘29


In politica economica il fascismo propose la famosa “terza via” alternativa al socialismo e al
capitalismo: il corporativismo, fondato su idee nazionaliste e derivanti dal sindacalismo
rivoluzionario. Istituite nel ’34 le corporazioni divennero da mito realtà, ma non fecero altro
che sovrapporre alla burocrazia statale e parastatale la lobbystica burocrazia corporativa.
Nei primi anni il fascismo aveva attuato una politica liberista e liberoscambista, ma quando il
ministro delle finanze De Stefani venne sostituito da Giuseppe Volpi il liberismo produttivista
fece spazio al protezionismo, alla deflazione e all’interventismo statale. Il protezionismo si
realizzò con l’inasprimento dei dazi sui cereali che, accompagnato da lla battaglia del grano,
rese autonomo il settore cerealicolo a spese di quei settori più specializzati e volti
all’esportazione. La politica deflazionista vide la luce con il progetto di rivalutazione
monetaria “Quota Novanta”che , fissato nell’agosto ’26, raggiunse i suoi obbiettivi nel giro di
un anno. L’immagine di stabilità monetaria volta a rassicurare i ceti medi fu tuttavia pagata a
prezzo di ingenti debiti alle banche USA, della limitazione del credito, del taglio degli stipendi
ai lavoratori e del crollo delle esportazioni, che si facevano via via sempre meno competitive.
Si può quindi dire che la politica deflazionista avvantaggiò solamente le grandi industrie del
mercato interno, favorendo il processo di accentrazione aziendale. Il terzo provvedimento si

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palesò all’avvento della Grande Depressione del ’29, alla quale, se in un primo momento si
rispose con politiche disoccupazioniste, in seguitò vi si pensò di ovviare con lo sviluppo di
lavori pubblici e con l’intervento statale nelle imprese private. Del primo provvedimento si
videro i risultati con il Progetto di Bonifica Integrale dell’Agro-Pontino il quale, pur
valorizzando terre un tempo incolte, apportò un vantaggio sostanzialmente propagandistico
(basti pensare alla fondazione di Sabaudia e di Littoria), la costruzione di nuove strade, di
tronchi ferroviari e di nuovi edifici pubblici volti a soddisfare il gusto monumentale del Duce,
del Pnf e dei giovani “adepti”.
L’intervento diretto dello stato si ebbe con la cosiddetta “crisi delle banche miste”, cioè di
quelle banche che, create nell’800 a sostegno del credito industriale, si erano trovate a gestire
l’intera economia industriale del paese. In aiuto di Banco Commerciale e Credito Italiano
vennero istituiti l’Imi e, due anni dopo, l’Iri, istituto di credito che, inizialmente pensato come
provvisorio, si trovò a gestire come azionista di maggioranza l’intera struttura bancaria ed
imprenditoriale italiana, rendendo impraticabile la riprivatizzazione delle imprese e
divenendo quindi ente statale permanente nel ’37.
Lo Stato divenne quindi, oltre a banchiere, anche imprenditore, cercando tuttavia di ricreare
con incentivi statali un tessuto di impresa privata, i cui rischi andarono inevitabilmente a
gravare sulle tasche della collettività.
Uscita meglio e prima dalla crisi delle altre potenze occidentali, l’Italia di Mussolini decise di
convogliare i guadagni in dispendiose quanto poco proficue imprese militari, accentuando
l’isolamento economico del paese alle porte di una stagione di economia di guerra che si
sarebbe prolungata, con il secondo conflitto mondiale, fino al secondo dopoguerra.

Nazionalismo Fascista, Imperialismo Popolare e l’Impresa in Etiopia


Il carattere fortemente nazionalista del fascismo trovò il proprio sfogo imperialista
nell’impresa in Etiopia. Francia ed Gran Bretagna si opposero e, non potendo tollerare
l’invasione dell’unico stato africano indipendente per giunta membro della Società delle
Nazioni, imposero attraverso il Consiglio della Società delle Nazioni sanzioni consistenti nel
divieto di esportare in Italia merci necessarie all’industria di guerra. Pur danneggiando il
commercio italiano, dal punto di vista militare le sanzioni non ebbero il peso necessario: il
blocco non era infatti esteso a quelle nazioni che, come gli USA e la Germania, non facevano
parte della Società delle Nazioni. Mostrandosi come vittima di una congiura internazionale.
Solleticando istinti razzisti e vagheggiando intenti umanistici, il governo fascista, sebbene
inizialmente il popolo non ne sentisse la necessità, tentò di riuscire laddove la classe dirigente
liberale aveva fallito (sconfitta di Adua, 1896), infiammando così un imperialismo popolaresco
su ampia scala.
Il 5 maggio ’36, dopo sette mesi di scontri impari contro l’esercito etiope del negus Haile
Sellassiè, le truppe del maresciallo Badoglio fecero il loro ingresso ad Addis Abeba, offrendo
così al re la corona di imperatore di Etiopia e annunciando “la riapparizione dell’Impero sue
colli fatali di Roma”.
I vantaggi economici della guerra furono nulli; e anzi la povertà di risorse naturali e
l’inagibilità di terre incoltivabili, unite alle difficoltà commerciali delle sanzioni, rivelarono la
negatività dell’esperienza, affiancata d’altra parte da un notevole successo politico-
propagandistico.
Volendo poi sfruttare gli attriti fra Germania e l’alleanza franco-inglese, Mussolini firmò
nell’ottobre ’36 l’Asse Roma-Berlino, seguita nel maggio ’39 dal Patto d’Acciaio, il quale
avrebbe sancito l’effettiva subordinazione dell’Italia fascista al nazismo tedesco.

L’Antifascismo
L’Italia antifascista, a partire dagli anni in cui l’opposizione politica venne resa illegale
(’25-‘26) si organizzò in modo molto eterogeneo, dimostrandosi nei fatti inconcludente fino al
secondo dopoguerra. Se da una parte gli ex popolari (Ppi) poterono organizzare
un’opposizione silenziosa contando sull’indiretta protezione della Chiesa, e i liberali
antifascisti su personalità critiche di spicco del calibro di Benedetto Croce, i comunisti, unici
preparati all’attività cospiratoria con una fitta rete clandestina, concentrarono come anche i
socialisti, la propria principale attività nell’opposizione all’estero, e in particolar modo in

XXIV
Francia. L’opposizione estera si riunì nel ’27 nella Concentrazione Antifascista, la quale
portò anche, in fede di una prossima riscossa democratica, alla riunificazione dei socialisti nel
Psi nel ’30.
Contro la tattica attesista della Concentrazione Antifascista si schierò Giustizia e Libertà,
fondata nel ’29 da Lussu e Rosselli, due antifascisti della nuova generazione, i quali avevano
intenzione di creare, attraverso un gruppo di lotta di stampo mazziniano, un centro di raccordo
fra socialisti, liberali e e repubblicani, sanando così la profonda frattura fra marxismo e
liberalismo. Il Pci mantenne una posizione di orgoglioso isolamento strutturando
un’opposizione a Parigi facente capo all’Internazionale con dirigenza moscovita.
Con il Patto di Unità di Azione fra comunisti e socialisti, le forze di opposizione si unirono
sperando di poter incidere sul consenso popolare italiano a seguito della Grande Depressione
del ’29 e dell’impresa in Etiopia, dalle quali tuttavia l’immagine del fascismo uscì solo che
rinvigorita.

Il Crollo del Consenso


Sebbene il consenso giovanile fosse rimasto invariato nel nome di un fascismo ideale o di un
fascismo prossimo venturo, le prime sconfitte nel corso del secondo conflitto mondiale
bastarono a disilludere i giovani che, arruolatisi nell’esercito, vissero in prima persona la
drammatica debolezza italiana nonché lo scarto fra l’immagine del fascismo ed il suo valore
effettivo al momento del confronto.
Le incrinature del consenso furono fondamentalmente motivate: dalla disapprovazione di una
politica economica incentrata solo sul prestigio nazionale invece che sul benessere del
singolo, su spese militari gravose ed inutili (intervento in Spagna e focolai di guerriglia
indipendentista in Etiopia) e, a partire dal ’35, segnata da un orientamento autarchico che
avrebbe giovato solamente ai grandi industriali; in politica estera gravava sul consenso
l’amicizia con la Germania nazista e la presenza di Galeazzo Ciano al governo in veste di
ministro degli esteri; in politica interna infine sottrasse punti al Pnf la serrata polemica contro
la borghesia come stili di vita ozioso, i programmi imperialisti imposti ad un popolo che non
si auspicava altro che la pace, le leggi razziali contro gli ebrei sullo stampo di quelle naziste
nonchè il processo di più radicata totalitarizzazione necessario al Pnf per supplire alle ormai
manifeste mancanze (ampliamento delle funzioni costituzionali del Pnf, istituzione della
Camera dei Fasci e delle Corporazioni al posto della Camera dei Deputati, unificazione delle
organizzazioni collaterali giovanili in Gioventù Italiana del Littorio).

***

Il Nazismo

In Germania, nonostante vi fosse un partito comunista assai forte, il movimento comunista


aveva avuto poco seguito: i contadini erano troppo poco poveri. Ricordiamo che nel 1918 Rosa
Luxemburg e Liebnet avevano tentato il colpo di stato, e che, fallendo, erano stati uccisi. A
febbraio di quell’anno si formò una maggioranza di socialisti che diede vita ad una repubblica
a base parlamentare con un presidente molto forte, che poteva in ogni momento sciogliere le
libertà fondamentali e legiferare per decreto.
Hitler nacque nel 20 aprile 1889 a Braunnhad. Dopo aver frequentato senza buoni esiti il
liceo tecnico provò a intraprendere la carriera di architetto e di pittore, senza però riuscirvi.
Avendo collezionato un buon numero di letture proto naziste, il giovane hitler si arruolò
nell’esercito, dove trovò la sua identità, distinguendosi per l’attaccamento alle missioni. Si
notava già la sua difficoltà a comunicare con gli altri. Tornato a Vienna Hitler si arruolò come
agente segreto per il ministero della difesa, con l’incarico di scovare eventuali progetti di colpi
di stato. Per questo entrò nella Dap (Deutschland Arbeit Partei), il partito fondato da Dexler,
che poggiava sulla volontà di nobilitare l’operaio come parte della classe degli “specializzati” e
non dei “proletari”, e di denunciare qualsiasi forma di reddito non proveniente dal lavoro
(usura, speculazione). Per questo andava contro gli ebrei, i nemici della germania, usurai e
comunisti. La Dap inoltre era di stampo socialista, ma non rinunciava alla proprietà privata.

XXV
Presto però Hitler si dimenticò il ruolo di spia e cominciò a emergere in ambito politico, grazie
alle sue grandiose orazioni, che radunavano sempre più gente. Divenne il leader del partito,
scavalcando Dexler. Cambiò il nome in Nasdap, e nel ’23, quando l’inflazione era a livelli
intollerabili, insieme a Ludendorf tentò di compiere un colpo di stato a Monaco, ma viene
arrestato e imprigionato. In carcere scrisse il “Mein Kampf”, testo sacro del nazismo in cui
sono esposti i piani del dittatore. Crede in una razza superiore, quella tedesca ariana,
inquinatasi per la commistione con gli ebrei, popolo senza patria, portatore della dissoluzione
morale del capitalismo e del bolscevismo. Aspira all’abolizione del trattato di Versailles e a
recuperare lo “spazio vitale” espandendosi a oriente.
Fino al 1928 il partito nazionalsocialista non aveva mai ottenuto più del 3% dei voti, ma con lo
scoppio della Grande Depressione del ‘29 lo scenario cambiò radicalmente. A destra le forze
conservatrici cominciarono ad appoggiare le forze eversive, a cominciare dai nazisti. A sinistra
molti operai staccandosi dalla socialdemocrazia si avvicinarono ai comunisti. Alle elezioni del
1930 i nazisti ottennero il 18,3% dei voti. Alla paura e alla rabbia dei ceti medi e dei
disoccupati Hitler offriva esaltanti prospettive di un nuovo primato tedesco, rassicuranti
indicazioni contro i capri espiatori a cui addossare ogni male del paese, e l’immagine di una
forza politica in grado di ristabilire l’ordine contro i “traditori”. Il dissesto economico e
l’esplosione della violenza (150 morti per gli scontri tra nazisti e comunisti nel 1932) andarono
di pari passo con il collasso del sistema politico.
Alle elezioni del marzo’32 il presidente 85enne Hindenburg vinse contro il neocandidato
Adolf Hitler (prese il 37% dei voti) e, spinto dalla grande industria, congedò il cancelliere
Bruning per dar vita ad un governo di destra conservatrice, guidato da Papen e Schleicher.
Questi indissero subito nuove elezioni, cercando la stabilità politica, e Hitler vinse col 37%. Il
30 gennaio del 1933 accettò il governo con solo 3 ministeri nazisti su 11. I conservatori
crederono di aver ingabbiato i nazisti (come avevano creduto i liberali per Mussolini) ma non
fu così. Col pretesto che l’incendio del Reichstag del 27 febbraio 1933 fosse stato opera dei
comunisti, Hitler impose delle gravi limitazioni alla libertà di stampa e di riunione. Il Reichstag
gli concesse pieni poteri con una legge suicida, a cui votarono contro solo i socialdemocratici,
essendo i comunisti ormai nelle carceri o latitanti. In giugno fu sciolta la Spd, e il partito
tedesco-nazionale si autosciolse su pressione dei nazisti, come fece anche il Centro cattolico. In
luglio si proclamava che il partito nazionalsocialista era l’unico consentito in Germania.
Gli ultimi ostacoli erano le S.A. di Rohm (che non appoggiavano l’apertura all’industria di
Hitler) e il capo di stato Hindenburg. Le SA furono massacrate nella famosa “notte dei lunghi
coltelli” dalle SS, schlulz-staffeln, squadre di difesa, create da Hitler. Hindenburg morì del
1934, e Hitler cumulò nelle sue mani le cariche di cancelliere e capo di stato. Così nacque il
Terzo Reich.
Si realizzò il Fuhrerprinzip, il principio del capo come guida del popolo intero, investito del
potere carismatico, cioè fondato su un dono o su una qualità straordinaria, consapevole della
sua missione. Il Fuher doveva avere un rapporto diretto col popolo, e a questo scopo fu creata
la Hitlerjugend (gioventù hitleriana) e l’idea di una “comunità di popolo”. Da questa, in difesa
della razza, erano esclusi tutti i cittadini antinazionali, stranieri o non ariani, e soprattutto gli
ebrei. Allora erano 500.000, e occupavano le zone medio-alte della scala sociale. La loro
discriminazione fu sancita nel settembre 1935 dalle Leggi di Norimberga, che aboliva la parità
di diritti e proibiva i matrimoni tra ebrei e non ebrei; 200.000 ebrei abbandonarono il paese. Tra
l’8 e il 9 novembre’38 fu organizzato un gigantesco “pogrom” che fu ricordato come la notte
dei cristalli, in cui i nazisti distrussero gran parte delle proprietà degli ebrei, e ne uccisero a
decine. A guerra iniziata fu stabilita la soluzione finale, cioè la deportazione di massa e lo
sterminio del popolo ebraico.
La Chiesa nel luglio del 33 stipulò un concordato coi nazisti assicurandosi la libertà di culto e
la non interferenza dello stato negli affari del clero. Le chiese luterane si piegarono al potere e
giurarono fedeltà al fuher. L’unica opposizione un po’pericolosa fu quella della destra
conservatrice, paradossalmente, che aveva permesso al nazismo di ascendere. La mancanza di
dissenso fu dovuta al terribile apparato repressivo e terroristico, costituito di SS, Gestapo e
Lager. Ma come spiegare le dimensioni del consenso?
Grazie innanzitutto ai successi in politica estera: smontò pezzo per pezzo il Trattato di
Versailles, riportando la Germania al ruolo di protagonista europea.

XXVI
Poi ai successi economici: il piano di preparazione alla guerra permise di raggiungere nel ’39 la
piena occupazione. Inoltre fu costruita una vasta rete autostradale. Hitler usò la spesa pubblica
per favorire la ripresa (come Roosvelt con il new deal), e incoraggiò l’iniziativa privata a
rendere il paese pronto alla guerra. Fu applicato il fuhrerprinzip nelle industrie, con
l’imprenditore elevato a capo. Gli operai fruirono di migliori servizi sociali. Infine, grazie ad
una serie di miti vicini all’anima popolare e alla loro diffusione mediante tutti gli strumenti
delle comunicazioni di massa disponibili. Si parla di utopia ruralistica per indicare la società
di contadini-guerrieri celebrata dal nazismo, fondata sui miti della terra e del sangue. Fu
istituito il Ministero per la Propaganda , affidato a Joseph Goebbels. Gl intellettuali furono
inquadrati nella Camera di Cultura. Grandi spettacoli, sfilate, parate, eventi sportivi offrivano
ai cittadini la socializzazione e gli elementi sacrali di cui avevano bisogno.

***

La Seconda Guerra Mondiale

L’Antefatto
La causa principale dello scoppio del conflitto è da attribuirsi allo spregiudicato espansionismo
hitleriano. Tra il 1935 e l’inizio del 1939 infatti la Germania aveva riarmato la Renania
(1936), annesso l’Austria (Anschluss, 1938), occupato la regione dei Sudeti. Dopo la
Conferenza di Monaco nel 1938, con la quale la Germania aveva ottenuto il riconoscimento di
quei possedimenti, l’espansionismo tedesco anziché arrestarsi continuò freneticamente e la
Germania occupò tutta la Cecoslovacchia e rivendicò il corridoio di Danzica in Polonia. Dopo
che anche l’Italia aveva invaso l’Albania, le altre nazioni europee, Francia e Gran Bretagna in
testa, costituirono una rete di alleanze per frenare le potenze dell’Asse, che si erano alleate
militarmente con il Patto d’Acciaio. Nel frattempo Hitler sfruttando lo scetticismo dei sovietici
ad un’alleanza con le potenze occidentali, aveva avviato delle trattative con Stalin. Il 23 Agosto
1939 Ribbentrop e Molotov firmavano a Mosca un patto di non aggressione tra Germania e
Urss, con l’aggiunta di un protocollo segreto con il quale le due potenze leggitimavano le loro
mire espansionistiche nell’Est europeo (come ad esempio, la spartizione della Polonia). La
guerra, a quel punto inevitabile, scoppiò il 1° Settembre 1939, quando le truppe della
Wermacht penetrarono in territorio polacco con 1.200.000 uomini, mentre Varsavia veniva
bombardata dalla Luftwaffe. Immediatamente, il 3 Settembre Francia e Gran Bretagna
dichiararono guerra alla Germania.

La Prima Fase del Conflitto (1941-1942)

Le Prime Occupazioni
La Polonia cadde in due settimane, a causa dello strapotere bellico tedesco, che applicava la
tattica della guerra lampo (blitzkrieg). Intanto negli ultimi mesi del 1939 l’Urss occupò la
zona orientale della Polonia e la Finlandia(che attuò una forte resistenza). Ad inizio 1940 le
truppe tedesche invasero Danimarca e Norvegia, permettendo ad Hitler il controllo su buona
parte dell’Europa centro-settentrionale. In questo periodo Francia e Inghilterra stavano a
guardare senza attuare alcuna mossa (i francesi la chiamarono drole de guerre, guerra per
finta). Lo scontro ebbe inizio il 10 Maggio 1940, quando la Germania cominciò l’invasione
della Francia. La Wermacht penetrò facilmente in territorio francese attraverso i Paesi Bassi e
aggirando la linea Maginot, su cui erroneamente i generali francesi contavano eccessivamente.
L’esercito francese e il contingente alleato rischiarono la totale distruzione e soltanto
un’indecisione di Hitler permise a 350.000 uomini di imbarcarsi nei pressi di Dunkerque e
rifugiarsi in Inghilterra. Il 14 Giugno i tedeschi entrarono a Parigi e il 22 Giugno il maresciallo
Petain, ignorando le esortazioni del generale Charles De Gaulle, firmò l’Armistizio a
Rethondes (nello stesso vagone dove nel 1918 era stato firmato l’armistizio che sanciva la
sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale). I tedeschi permisero che nel sud della Francia e
nelle colonie vi fosse un regime collaborazionista guidato da Petain, il Governo di Vichy. Nel
frattempo il 10 Giugno anche l’Italia aveva dichiarato guerra a Francia e Gran Bretagna e aveva
sferrato una debole offensiva nel sud della Francia.

XXVII
La Battaglia d’Inghilterra
Una volta conquistata la Francia, ad Hitler restava da sconfiggere la sola Gran Bretagna per
ottenere il controllo totale sull’Europa occidentale. Dopo che le ipotesi di tregua tra i due paesi
erano sfumate, grazie alla combattività del primo ministro inglese Winston Churchill, gli
strateghi di Hitler avevano messo a punto un piano per l’invasione dell’Inghilterra, denominata
Operazione See-Lowe(Leone Marino). La premessa fondamentale per la riuscita di tale piano
era il controllo dei cieli. Ad inizio di luglio l’aviazione tedesca cominciò a bombardare
frequentemente il territorio inglese, distruggendo non solo obiettivi militari ma anche città
intere (ad esempio Coventry e Leicester), sperando così di fiaccare il morale inglese. Gli inglesi
però non cedettero e anzi respinsero buona parte degli attacchi grazie all’efficienza della Royal
Air Force (RAF) e ad un ottimo sistema di di informazione e di avvistamento radar.
L’aviazione inglese, che aveva circa un terzo degli aerei dei tedeschi, aveva aerei più efficienti
(come lo Spitfire) ed inflisse fortissime perdite alla Luftwaffe, tanto che dopo qualche mese
Hitler dovette rinunciare al suo progetto di conquista dell’Inghilterra.

Gli Aiuti all’Italia e l’Invasione dell’Unione Sovietica


Dopo aver dovuto soccorrere l’esercito italiano, che si trovava in grande difficoltà nel Nord
Africa e nei Balcani, nell’estate del 1941 la Germania diede il via all’Operazione Barbarossa
di invasione dell’Urss e in poche settimane avanzarono per centinaia di chilometri, non
riuscendo però a giungere a Mosca prima che giungesse l’inverno. Inoltre, a causa della tenacia
dei russi noncuranti delle ingenti perdite (3 milioni di uomini in 3 mesi) e che a dicembre
avevano contrattaccato, la Germania fu costretta ad affrontare una guerra d’usura.

Il Coinvolgimento degli Stati Uniti


Già dal 1940 gli Stati Uniti si erano impegnato ad aiutare economicamente la Gran Bretagna e
nel Marzo 1941 fu approvata la legge Affitti e Prestiti, secondo la quale veniva fornito alla
Gran Bretagna e ai suoi alleati materiale bellico a condizioni favorevoli. La vicinanza tra
Inghilterra e Stati Uniti era visibile anche nella stipulazione della Carta Atlantica, un
documento in cui si stabiliva la contrarietà a regimi fascisti e dittatoriali. Ad ogni modo, la
svolta per gli Stati Uniti avvenne verso la fine del 1941. Il Giappone, che si era alleato con
Germania e Italia, volendo espandere i propri possedimenti in Indocina e nel Pacifico, si trovò
di fronte alla decisione di entrare in guerra contro gli Stati Uniti. Il 7 Dicembre 1941, senza
alcuna dichiarazione di guerra, attaccavano con circa 450 aerei la base navale americana di
Pearl Harbor, nelle Hawaii, distruggendo buona parte della flotta statunitense e uccidendo
quasi 4000 marinai americani.
Ciò determinò l’intervento diretto degli Stati Uniti in guerra. Forti dell’acquisito vantaggio
navale, nel frattempo i giapponesi conquistarono le Filippine, la Malesia, la Birmania e
l’Indonesia.

Gli Effetti dell’Occupazione Tedesca


L’occupazione tedesca nei vari paesi europei fu molto dura. Essi cercarono di costruire un
nuovo ordine basato sulla supremazia della nazione eletta e sulla subordinazione degli altri
popoli alle esigenze dei dominatori. Particolarmente duro fu il trattamento riservato alle
popolazioni slave e dell’Est europeo, in paesi che secondo Hitler dovevano diventare colonie
agricole del Reich. Furono uccisi circa 6 milioni di civili sovietici e 2 milioni di civili slavi,
oltre all’uccisione di buona parte dei prigionieri di guerra. Altro elemento dell’accanimento dei
tedeschi fu la persecuzione degli ebrei. Nei paesi occupati gli ebrei venivano prima ghettizzati
e in seguito deportati in campi di prigionia (lager). A partire dal 1941 fu decisa una “soluzione
finale” del problema ebraico, con la quale gli ebrei venivano sterminati in massa (alla fine della
guerra ne furono uccisi 6 milioni). In alcuni paesi vi furono episodi di resistenza, sia armata sia
non, all’occupazione tedesca. In altri invece vi fu una forma di collaborazionismo.

La Svolta della Guerra (1942-1943)


Tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943 gli Alleati riuscirono ad invertire il corso della guerra,
fino a quel momento totalmente a favore delle forze dell’Asse.

XXVIII
- I primi segnali di ripresa arrivarono dall’Oceano Pacifico, dove nel maggio-giugno del
1942 gli americani arrestarono l’avanzata giapponese, con le importanti battaglie navali del Mar dei
Coralli e delle Isole Midway. A quel punto gli americani decisero di contrattaccare e costringere il
nemico sulla difensiva con lo sbarco di Guadalcanal, nel febbraio 1943.
- Anche nell’Oceano Atlantico si avvertì questa ripresa. Gli Alleati riuscirono a limitare
il pericolo degli U-Boote tedeschi, che dal 1940 imperversavano lungo le rotte dei convogli che
dall’America si dirigevano in Gran Bretagna, facendone strage. Tale pericolo fu sconfitto grazie a
vari fattori, tra cui il perfezionamento delle tecnologie radar (che furono applicati anche agli aerei) e
a nuove armi più precise. Ciò permise agli Alleati di far giungere più approvvigionamenti in
Inghilterra.
- Altro episodio decisivo fu la battaglia di Stalingrado, in Russia. Dopo durissimi
combattimenti durati mesi e mesi, nel novembre 1942 l’esercito sovietico era riuscito a contrattaccare
in maniera efficace e a chiudere l’armata tedesca in una morsa. Non autorizzando la ritirata delle sue
truppe, Hitler fece sì che l’intera armata tedesca fosse distrutta, subendo così una gravissima sconfitta
(160.000 morti e 91.000 prigionieri), che diede nuovo vigore all’esercito sovietico e alle altre potenze
alleate.
- Stesso discorso vale per il Nord-Africa, dove tra il 23 ottobre e il 2 novembre 1942 gli
inglesi, comandati dal generale Montgomery, avevano attuato una massiccia controffensiva
sconfiggendo il contingente italo-tedesco a El Alamein, in Egitto, costringendo Rommel e il suo
Africa Korps alla ritirata verso la Tunisia.
- Intanto l’8 novembre 1942 le truppe americane sbarcarono in Marocco e si avviavano
alla conquista dell’Algeria e della Tunisia (Operazione Torch). Dopo alcuni mesi grazie anche al
sopraggiungere da Est dell’armata inglese di Montgomery, che inseguiva l’Africa Korps di Rommel,
nel Maggio del 1943, una volta accerchiata l’ultima parte di Tunisia che resisteva, gli Alleati
cacciarono le forze dell’Asse fuori dal Nord-Africa. Mentre tale campagna si avviava al termine i capi
di stato alleati si riunirono nella Conferenza di Casablanca, in cui Roosevelt e Churchill decisero di
aprire un nuovo fronte in Italia.

La Campagna d’Italia
Il 10 luglio 1943 gli anglo-americani diedero inizio all’Operazione Husky, lo sbarco delle loro
truppe in Sicilia, per poi risalire la penisola italiana. Questo avvenimento rappresentò quasi un
colpo di grazia per il regime di Mussolini. Già a marzo c’erano stati scioperi e manifestazioni
nel Nord Italia, a causa del disagio popolare, degli stenti e dei sempre più frequenti
bombardamenti alleati. Il 25 Luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo votò la sfiducia nei
confronti del duce, che venne arrestato. Il governo fu affidato a Pietro Badoglio. L’8 Settembre
1943 fu divulgata la notizia dell’armistizio tra gli Alleati e l’Italia, decretando per quest’ultima
la resa incondizionata. Mentre il re e Badoglio fuggivano a Brindisi, già liberata dagli anglo-
americani, l’Italia si ritrovò nel caos. Le truppe, ormai senza più un capo, si ritrovarono del
tutto impreparate, e dovettero fronteggiare la forte repressione dell’esercito tedesco, già
presente in massa in Italia. I tedeschi fecero 600.000 prigionieri italiani e, in caso di non resa,
avvenivano dei veri e propri massacri (come a Cefalonia). A Porta San Paolo, a Roma, alcuni
reparti isolati uniti ai civili armati si ribellarono ai tedeschi, compiendo il primo episodio di
resistenza italiana ai tedeschi.
Il 12 Settembre 1943 Mussolini, dopo essere stato liberato dai tedeschi, proclamò la nascita
nell’Italia occupata dai tedeschi della Repubblica Sociale Italiana, con sede a Salò.
Intanto l’occupazione tedesca era estremamente pesante e attuava repressioni durissime nei
confronti della popolazione. Le truppe tedesche infatti, unite agli italiani fedeli alla Repubblica
di Salò, combatterono duramente qualsiasi tipo di qualsiasi tipo di Resistenza, che in quel
periodo si andava sempre più rafforzando (Gruppi d’Azione Patriottica in testa). Un episodio di
dura repressione lo si ebbe a Roma nel marzo del 1944, quando in seguito a un attentato che
aveva ucciso 33 soldati tedeschi, furono fucilati 335 italiani alle Fosse Ardeatine.
Dall’unione di sei partiti antifascisti nacque il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), che
incitava il popolo alla lotta contro i nazi-fascisti. Tale movimento non riuscì però a sostituirsi al
governo di Badoglio, che nel frattempo aveva dichiarato guerra alla Germania.

XXIX
L’avanzata alleata però era rimasta bloccata nel punto strategico di Cassino, lungo la Linea
Gustav. Questa località fu teatro di una sanguinosissima battaglia, durata fino al maggio del
1944, nel corso della quale caddero 150.000 soldati alleati e 70.000 tedeschi, e inoltre fu
distrutta l’antichissima abbazia di San Benedetto. Per velocizzare il rallentamento a Cassino, i
generali alleati pianificarono anche uno sbarco ad Anzio, che però fallì.
Una volta superata Cassino, gli americani entrarono il 4 Giugno 1944 a Roma, costringendo il
re Vittorio Emanuele III ad abdicare in favore di Umberto, che divenne luogotenente generale
del regno. Badoglio si dimise e fu sostituito da Ivanoe Bonomi, uno dei membri più importanti
del Cln. Mano a mano che il fronte si spostava verso Nord, anche la resistenza in quelle zone si
rafforzò notevolmente, e anche in questo caso vi furono durissime repressioni ( ad esempio a
Marzabotto e a Sant’Anna di Stazzema). L’offensiva alleata subì un nuovo stop nei pressi
della Linea Gotica, nell’Autunno del 1944.

L’Ultima Fase della Guerra (1944-1945)

Lo Sbarco in Normandia
Mentre i russi avevano preso ad avanzare da Est, e Roosevelt, Churchill e Stalin si accordavano
sul da farsi nella Conferenza di Teheran, le forze anglo-americane pianificarono
l’Operazione Overlord, che prevedeva un massiccio sbarco di uomini e mezzi sulle coste della
Normandia. Il piano fu messo in atto il 6 Giugno 1944, e, grazie alla netta superiorità bellica
alleata, fu un successo. Gli alleati infatti disponevano di quasi 3 milioni di uomini e di 3500
bombardieri(contro i 200 tedeschi), oltre che di 55 divisioni motorizzate contro nessuna dei
tedeschi. Nei mesi successivi, nonostante l’accanita resistenza dei tedeschi, la Francia fu
liberata e il 24 Agosto 1944 anche Parigi era libera.

La Fine della Guerra in Europa


Alla fine del 1944 ormai la potenza tedesca si era quasi del tutto sfaldata, essa era infatti
incalzata a Est dai sovietici e a Sud e a Ovest dagli anglo-americani. Inoltre a fiaccare
notevolmente la Germania in questa fase furono i massicci bombardamenti attuati
dall’aviazione anglo-americana, che fecero danni e vittime in grandissima quantità (Amburgo e
Dresda furono completamente rase al suolo; morirono oltre 600.000 civili). Nel Dicembre 1944
Hitler fece un ultimo disperato tentativo per rovesciare le sorti della guerra con una
controffensiva nelle Ardenne, che fu però solo un colpo di coda, poiché gli Alleati dopo un
inziale stupore ripresero in mano l’iniziativa e ripresero ad avanzare in territorio tedesco,
arrivando verso la fine di aprile insieme ai sovietici ad accerchiare Berlino. Proprio in quei
giorni, il 25 Aprile 1945, in Italia il Cln lanciò l’ordine di insurrezione generale contro i
tedeschi in ritirata. Mussolini fu fatto prigioniero il 28 Aprile e fucilato dai partigiani, che
appesero il suo corpo a Piazzale Loreto a Milano. L’Italia era stata liberata. Anche in
Germania la fine della guerra era vicina, e dopo che il 30 Aprile Hitler si era suicidato nel suo
bunker, l’ammiraglio Karl Donitz, suo successore, chiese immediatamente la resa agli Alleati.
L’Armistizio di Reims fu firmato il 7 Maggio 1945, e nella notte fra l’8 e il 9 maggio le ostilità
cessarono. La guerra in Europa era terminata con la resa incondizionata delle nazioni nazi-
fasciste.
Sul da farsi in Europa a guerra conclusa, nel Febbraio 1945 a Yalta, i capi di stato di Usa, Gran
Bretagna e Urss avevano stabilito quali sarebbero state le rispettive sfere d’influenza e quali
sarebbero stati i punti comuni di tale influenza.

La Fine della Guerra in Oriente


Nel Pacifico gli americani stavano compiendo una lenta sistematica riconquista delle isole del
Pacifico, nell’ottica di un avvicinamento al territorio nipponico. A tal scopo, una volta
diventata netta la supremazia aero-navale delle forze statunitensi, vennero effettuati oltre a
pesantissimi bombardamenti sul suolo giapponese anche numerosi sbarchi.
Tuttavia i giapponesi fecero una resistenza strenua di ogni metro di territorio e inflissero ai
marines ingenti perdite (ad Iwo Jima morirono 6000 marines, a Okinawa quasi 15.000).
In seguito a perdite tanto elevate per territori relativamente ristretti, il neo-presidente americano
Harry Truman decise di utilizzare una nuova arma che era stata da poco messa a punto

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dall’equipe del fisico Robert Oppenheimer, la bomba atomica. Ne furono sganciate due sul
territorio giapponese tra il 6 e il 9 Agosto 1945, rispettivamente a Hiroshima e Nagasaki,
causando centinaia di migliaia di morti tra i civili. Vista la situazione drammatica in cui versava
il Giappone, l’imperatore ordinò ai capi di stato maggiore dell’esercito di richiedere
l’armistizio. Esso fu firmato il 2 Settembre 1945 a bordo della corazzata americana Missouri.
Anche per il Giappone la resa fu incondizionata. La Seconda Guerra Mondiale era finita.

- La guerra aveva causato all’incirca 55 milioni di morti, e oltre 35 milioni di feriti.


Anche se c’è grande discordanza sulle cifre, le nazioni più colpite furono l’Urss (20 milioni di morti),
la Germania (5 milioni) e il Giappone (circa 3 milioni). In Jugoslavia e Polonia furono uccisi
rispettivamente 1,5 e 5 milioni di persone. Relativamente meno colpite furono le altre nazioni. La
Gran Bretagna e la Francia contarono 600.000 morti, gli Usa 300.000. Si stima che gli italiani che
persero la vita nel conflitto siano circa 400.000.

- Durante il conflitto vi erano stati molti episodi in cui erano state violate le
Convenzioni di Ginevra, compiendo crimini di guerra efferati. Gli Alleati dopo l’armistizio decisero
di punire i colpevoli di tali crimini, in Giappone e, soprattutto, in Germania. Alla fine del 1945 ebbe
luogo il processo di Norimberga, con il quale vennero giudicati i principali responsabili dei crimini
di guerra nazisti. Anche se molti si erano già suicidati (Hitler, Himmler, Goebels, Goring) furono
condannate a morte 12 imputati e molti altri scontarono pene detentive, soltanto 3 vennero assolti.

- L’assetto europeo subì notevoli cambiamenti. L’Urss ottenne diversi territori nell’Est
europeo, oltre ad avere una sfera d’influenza che si estendeva fino in Germania. L’Italia perse le
colonie e cedette l’Istria e parte della Venezia-Giulia alla Jugoslavia. Alla Polonia fu assegnato il
territorio ad Ovest dell’Oder-Neisse a scapito della Germania. Proprio quest’ultima fu la nazione che
ebbe cambiamenti maggiori. Essa fu occupata militarmente e divisa in 4 zone d’influenza (a Francia,
Gran Bretagna e Stati Uniti la zona occidentale, all’Urss quella orientale), e anche Berlino fu a sua
volta divisa in 4 zone con lo stesso criterio. Inoltre la Germania fu costretta al pagamento di un
risarcimento nei confronti delle nazioni alleate, che ammontava a 20 miliardi di dollari.

- Per quanto riguarda invece il Giappone, esso fu costretto a cedere tutti i territori
conquistati e gli fu imposta la smilitarizzazione e la democratizzazione.

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