Sei sulla pagina 1di 4

LA DONNA - l’evoluzione delle condizioni femminili nel corso della storia

Nel lungo corso della storia, i ruoli della donna e dell’uomo sono certamente variati e mutati
a seconda delle culture, epoche e luoghi geografici. Si è spesso erroneamente portati a
credere che la figura femminile sia sempre stata sottomessa all’autorità maschile. In realtà vi
sono sia momenti storici e culture che hanno visto preponderante la figura femminile nella
società e che hanno sviluppato una profonda rivalutazione della condizione femminile sia
epoche in cui, al contrario, si è sviluppato un malsano atteggiamento di sottomissione della
donna rispetto all’uomo lasciando emergere una disparità di genere e una netta
disuguaglianza dello stato sociale di genere. Perciò per quanto sia corretto affermare che
nelle epoche donne e uomini hanno avuto diritti, doveri e privilegi diversi, è altrettanto vero
che il rapporto tra i due sessi, a seconda delle culture di appartenenza e del contesto
storico-sociale in cui erano inseriti, si è di volta in volta integrato, completato o differenziato.
Per comprendere meglio l’evoluzione dello status sociale femminile, è opportuno sia fare un
salto nel passato sia guardare agli avvenimenti più recenti.

GUARDANDO ALL’ANTICHITÁ
L’antica Grecia ha conosciuto sia donne vittime di misoginia sia eroine e donne che si sono
distinte per il loro coraggio e le loro azioni, e le cui storie vengono narrate nelle molteplici
opere teatrali del tempo.
In particolare, il tragediografo greco del V secolo a.C., Euripide, carica i personaggi femminili
di un’intensità emotiva straordinaria, in cui vediamo emergere i conflitti individuali: lo scontro
di potere in una città o in una famiglia, il desiderio amoroso trasformato in forza rovinosa e
incontenibile, la follia che si scatena all’interno di una mente. A esprimere questa nuova
sensibilità sono appunto le donne greche del V secolo: relegate in casa con il compito di
badare alla famiglia, e a cui erano impedite una formazione culturale appropriata, la
partecipazione alla vita sociale e politica e tutte le di attività di svago e di divertimento.
Proprio loro possono rappresentare in maniera efficace sulla scena la passione e la
sofferenza che Euripide traduce in momenti di lucida drammaticità.
Egli,infatti, si fa portavoce e rappresentante di quelle vittime, da sempre considerate deboli e
inferiori, ma che grazie alla sua visione risultano in tutta la loro complessità e profondità.
Euripide propone modelli di donne differenti.
La prima opera in cui egli presenta una figura femminile è l’Alcesti, messa in scena nel 438
a.C: l’omonima eroina sceglie di sacrificarsi al posto del marito, perché questo possa
rimanere in vita, sovrastando il marito per “statura morale e generosità di sentimenti”. Ella
incarna a pieno l'ideale di donna e madre proposto nella società greca, consapevole di ciò
che significherebbe la morte del marito per lei stessa e per i figli.
Euripide poi, a pochi anni di distanza, tra il 431 e il 428 a.C., mette in scena due delle sue
tragedie più importanti: Medea e Ippolito. Qui lo sviluppo del personaggio come centro
dell’azione drammatica è giunto a piena maturazione: ne emergono due figure opposte ad
Alcesti, due donne ribelli alle leggi della famiglia, perturbatrici, inquietanti, portatrici di
sciagura. La prima, Medea, donna tradita e abbandonata dall’amato dopo aver lottato e
addirittura ucciso per lui, accecata dalla gelosia, decide di ferirlo nel profondo uccidendone i
figli. Nell’ Ippolito, invece, viene analizzato psicologicamente il personaggio di Fedra: donna
estremamente moderna nel suo tormento interiore. Anche lei, come Medea, provoca la
distruzione della sua famiglia, non però per sua scelta, ma perché travolta da una forza
oscura che le annienta la ragione. Ella è una dei grandi personaggi del teatro tragico: entra
in scena furibonda, incapace di confessare il suo segreto, poi lo svela, passando da uno
stato di vergogna ad uno di speranza; tuttavia, quando si vede rifiutata, tutto il suo amore si
trasforma in odio profondo e forza autodistruttiva, che la porta al suicidio e causa la rovina di
chi le sta intorno.
Infine, nelle Troiane, Euripide racconta del destino funesto che spetta alle donne troiane, le
quali aspettano di essere portate via come preda di guerra sulle navi dei vincitori, per un
futuro di schiave e concubine, nonostante loro siano moglie, figlie e nuore di un re.
Euripide, ancora una volta, sceglie di assumere il punto di vista delle donne per analizzare
l'atrocità di questa situazione; infatti gli uomini rimangono in un certo senso marginali,
rispetto alle protagoniste, appaiono addirittura grotteschi, nettamente inferiori alle loro
vittime. Proprio nel capovolgimento tra vincitori e vinti va identificato uno dei significati più
profondi del dramma, infatti se queste donne apparentemente sembrano più deboli dei loro
carnefici, in realtà non lo sono; dietro le loro imponenti figure si nasconde una forza violenta,
che le spinge a voler lottare a tutti i costi per conservare qualcosa di se stesse: la dignità
umana.

Poco più ad occidente, in età arcaica e repubblicana, le donne romane conducevano uno
stile di vita simile a quello delle donne attiche: dovevano quindi occuparsi prevalentemente
delle mansioni domestiche e della formazione dei figli, in particolare educandoli al mos
maiorum, il nucleo della morale tradizionale della civiltà romana.
In generale la donna, come i Latini usavano dire, avrebbe dovuto avere queste precise
caratteristiche: lanifica, casta, pia, frugi, domiseda. Essere in grado di filare, rimanere
sempre fedele al proprio marito senza cadere nella grave colpa dell’adulterio, essere
particolarmente pia ed umile, frugale in tutto ciò che diceva o faceva, oltre che essere
un’ottima padrona di casa, capace di gestire ogni singolo aspetto della vita domestica.
Educata, dunque, ai valori del pudore, della modestia e della riservatezza, viveva in
condizione di inferiorità rispetto all'uomo, da cui finiva per dipendere.
Tutte queste virtù sembrano, leggendo le fonti antiche, in particolare Tito Livio, essere
incarnate nella figura di Lucrezia, graziosa moglie di Collatino e figlia di Lucrezio Tricipitino.
La vicenda di Lucrezia è ambientata nella Roma dell’inizio del VI secolo a.C., un Urbe
soffocata dal regime tirannico, sempre secondo le cronache a noi pervenute, di Tarquinio il
Superbo e della sua gens. Nonostante questo clima ben poco piacevole, c'era ancora
qualcuno che riusciva a ricordare ai Romani i principi e le virtù, come Lucrezia, sebbene
fosse donna.
L'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, aveva un figlio di nome Sesto Tarquinio. Durante
l'assedio della città di Ardea, i figli del re assieme ai nobili, per ingannare il tempo, tornando
di nascosto a Roma, si divertivano a vedere ciò che facevano le proprie mogli durante la loro
assenza. Collatino sapeva che nessuna moglie poteva battere la sua Lucrezia in quanto a
pacatezza, laboriosità e fedeltà. Così portò con sé gli altri nobili, tra cui Sesto Tarquinio, a
visitarla nel pieno della notte: poterono constatare che Lucrezia stava tessendo la lana con
le sue ancelle, mentre le nuore del re si divertivano in banchetti e atti osceni.
Tito Livio racconta che Sesto Tarquinio, invitato a cena da Collatino, conobbe la nobildonna,
se ne invaghì per la bellezza e la provata castità, e fu preso dal desiderio di averla a tutti i
costi. Qualche giorno più tardi, Sesto Tarquinio, all'insaputa di Collatino, si recò da Lucrezia
che, ignorando le sue reali intenzioni, lo accolse in modo ospitale: l’uomo la immobilizzò e
dunque a Lucrezia, sapendo che non solo avrebbe perso la vita, ma anche l’onore, non
restò che sottostare alle voglie di Sesto.
Il marito Collatino, il padre e il suo grande amico Lucio Giunio Bruto decisero di vendicarla,
provocando e guidando una sommossa popolare, che cacciò i Tarquini da Roma e li
costrinse a rifugiarsi in Etruria.
Così nacque la res publica romana, i cui primi due consoli furono Lucio Tarquinio Collatino e
Lucio Giunio Bruto, artefici della sollevazione contro quello che fu l'ultimo re di Roma.
Nel corso dei secoli, però, la condizione di vita delle donne romane cambiò gradualmente.
Già negli ultimi anni dell'età repubblicana le donne videro migliorate le proprie condizioni:
Roma comincia a vedere donne diverse, più libere e più coscienti del loro ruolo all’interno
della società. Un cambiamento che, assecondato, in parte, dalla legislazione, comportò il
superamento del vecchio diritto gentilizio, ormai caduto in disuso, consentendo alle donne
libertà mai conosciute prima. Non è un caso che la letteratura ci presenti figure di donne ben
diverse dalle antiche matronae. Giovenale nelle sue satire ci parla di donne che bevono
vino, che si allenano alla lotta, che parlano in greco per ostentare la loro cultura e che
divorziano come e quando vogliono. Nella satira 6, nota anche come Satira contro le donne,
Giovenale, per dissuadere l’amico Postumo dalle nozze, si scaglia contro il genere
femminile, e più precisamente contro le matronae romane. Vi è una serie di “bozzetti” in
climax che descrivono i più svariati tipi di matrone romane che si abbandonano alla lussuria
e all’adulterio: si tratta di donne nobili e famose, che tradiscono il marito e che sono capaci
di seguire i loro amanti fino in capo al mondo, abbandonando casa e figli, o persino di farsi
prostitute sotto falso nome pur di soddisfare la propria lussuria; tra queste si trova anche
Messalina, la moglie dell’imperatore Claudio. L’infedeltà è il loro difetto maggiore, ma non
l’unico: sono anche amanti del lusso, sperperano denaro, eccedono nel trucco, parlano in
greco per darsi un tono. Alcune donne arrivano persino a uccidere i propri figli o i propri
mariti, come fecero le mitiche Medea o Clitemnestra: osserva però Giovenale che mentre le
eroine tragiche agivano spinte dalla follia, le matrone romane uccidono per calcolo e per
denaro.

IN ETÁ MODERNA
In età moderna, il ruolo della donna nella società, la sua condizione lavorativa, la sua
funzione all’interno delle dinamiche familiari rappresentano questioni che nascono e si
affermano per la prima volta sul finire dell’Ottocento.
Il cammino di queste trasformazioni socio-culturali non è lineare: prende vigore all’inizio del
secolo, s’interrompe fra le due guerre, riprende dopo la Seconda guerra mondiale, accelera
dagli anni Settanta del Novecento.
Il tutto è connesso alle trasformazioni complessive della società: l’industrializzazione
crescente e l’inurbamento, che modificano i modi di vivere e sconvolgono la tradizionale
divisione sessuale del lavoro; lo sviluppo scientifico e tecnologico, che permettono migliori
condizioni di salute e una maggiore aspettativa di vita.
È un cammino irto di difficoltà e resistenze segnato da molte lotte politiche e sindacali e da
molte battaglie femministe.
La battaglia per l’eguaglianza nei diritti (di voto, di accedere a tutte le professioni e alle
cariche pubbliche, di gestire liberamente la propria vita e i propri beni, di pari trattamento
nella famiglia e nel lavoro) si concentra inizialmente sulla lotta per il suffragio, ovvero per il
diritto di voto, da cui il termine suffragette per definire le militanti di questi movimenti, attivi
un po’ ovunque, ma soprattutto negli Stati Uniti, nei paesi scandinavi, in Gran Bretagna. In
particolare, in quest’ultimo Paese, in etá vittoriana, le donne erano vittime di una società
patriarcale che le costringeva a stare in casa ad occuparsi della gestione delle finanze e
dell’educazione dei figli, non permettendo loro di giovare alla comunità in alcun modo.
Fra Ottocento e Novecento le suffragette irrompono sulla scena pubblica e impongono le
donne come un soggetto politico autonomo, capace di decidere e di agire senza la tutela di
padri, mariti, legislatori o preti. I risultati concreti tuttavia sono scarsi: all’inizio del Novecento
solo pochi stati riconoscono il diritto di voto alle donne (Finlandia, Norvegia e alcuni stati
degli Stati Uniti).
Una scossa potente arriva con la Prima guerra mondiale, che infrange (per necessità)
alcune rigide barriere tra i sessi. Immobilizza infatti per quattro anni la popolazione attiva
maschile, crea mancanza di manodopera in settori fondamentali dell’industria (innanzitutto
quella degli armamenti), obbliga a utilizzare manodopera femminile anche per compiti
importanti. Alla fine della guerra le donne sono in gran parte espulse dal mercato del lavoro,
ma i cambiamenti portati dalla mobilitazione bellica trovano riscontro nel riconoscimento del
loro diritto di voto in più Paesi.

La questione dell’emancipazione, dell’eguaglianza di diritti come viene ripresa anche dai


filosofi del 900, come John Stuart Mill. Egli, insieme a Harriet Taylor, scrisse nel
“Sull’eguaglianza e l’emancipazione femminile”. In questo trattato, Mill mette per iscritto, e
supporta, problematiche storico-politiche a lui contemporanee. Mill riconosce la parità di
genere e l’emancipazione della donna non per una questione di diritti umani egualitari ma in
quanto utile alla società (collaborazione verso il progresso). Egli difatti ritiene che se questa
sottomissione fosse effettivamente stata utile alla comunità allora sarebbe stata
perfettamente lecita, ma non essendo stati tentati tutti i possibili modelli di società rispetto al
genere, non si può essere certi di ciò, anzi al contrario si priva la comunità di almeno metà
della propria forza lavoro. La sottomissione della donna dunque, secondo il principio
utilitaristico, è controproducente. Per Mill infatti le donne hanno sviluppato solo determinate
inclinazioni perché indirizzate in tal senso dagli uomini, come una pianta/albero che viene
per metà accudita nella serra e per metà abbandonata al freddo. Nonostante poi entri
parzialmente in contraddizione poiché comunque fortemente influenzato dalla società e
dall’educazione dell’epoca, Mill riconosce alla donna pari capacità e possibilità cognitive, se
ovviamente istruite come gli uomini.

Da allora la mentalità comune sul maschile e sul femminile è senza dubbio cambiata e
l’immagine delle donne è divenuta più complessa. Sono cadute molte barriere sociali e
culturali che impedivano alle donne libertà, indipendenza, autorealizzazione e successo,
nonostante ingiustizie e rimangano.
Numerose sono state le donne insignite del premio Nobel, come Grazia Deledda per la
letteratura e Marie Curie per la scienza.

Potrebbero piacerti anche