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LE ORIGINI.
La tradizione vuole che le IPA (India Pale Ale) debbano la loro energica luppolatura alle necessità
storiche e contingenti degli inglesi, che nell’epoca del colonialismo, verso la metà del XVIII secolo,
dovendo trasportare la birra fino in India, avevano visto deteriorarsi il carico per via dei lunghi
viaggi, della salsedine e delle alte temperature presenti nelle stive delle navi. I mastri birrai inglesi,
per far fronte a tali condizioni, provarono a migliorare la stabilità ed aumentare la capacità
conservativa delle birre destinate all’esportazione. Fu proprio la necessità di conservazione che
portò a un impiego deciso del luppolo assieme all’aumento della gradazione alcolica: tutto
ciò permise alla birra di sopportare meglio i lunghi viaggi in nave.
Sebbene le assiomatiche proprietà antisettiche ed antiossidanti del luppolo possano averne aiutato
l’affermazione, i fatti non sono andati esattamente così e non c’è certezza che le IPA siano state
create espressamente per la colonia indiana. Nel XVIII secolo un viaggio per nave in India da
Londra poteva protrarsi anche sei mesi, nei quali le difficoltà erano all’ordine del giorno, per non
parlare del pericolo di imbattersi in qualche burrasca, che spesso, portava a tragiche
conseguenze. I problemi avevano inizio appena lasciato il porto: venti e correnti, difatti,
orientavano i vascelli verso l’America anziché verso il subcontinente indiano. Dopo il cambio di
rotta a babordo all’altezza del Portogallo e delle Canarie (il canale di Suez fu inaugurato il 17
novembre del 1869), le imbarcazioni viravano a Sud in mare aperto; superato l’equatore, ci si
dirigeva verso Rio de Janeiro, in Brasile. In questo luogo, nonostante il caldo soffocante, ci si
fermava non solo per rifornirsi di cibo e acqua ma anche per riposarsi prima di riprendere il mare
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verso Est, solcando tutto l’Atlantico meridionale fino a raggiungere, fra mille pericoli compreso la
Pirateria, il famigerato Capo di Buona Speranza.
Da qui, a vele spiegate, fino al canale del Mozambico per poi di nuovo oltrepassare l’equatore e
giungere finalmente a Bombay. Dopo quattro o sei mesi di sballottamenti e disagi di ogni sorta, le
navi avevano bisogno di manutenzione e i loro passeggeri esausti, di riposo. La birra, stivata in
botti di quercia sotto il ponte, fungendo anche da zavorra, giungeva in “discrete” condizioni,
traendo quasi “beneficio” dagli scossoni e dagli ondeggiamenti che subiva a causa del
rollio della nave, arrivando a destinazione con il giusto grado di amarezza e corpo. Il caldo,
inoltre, faceva la sua parte e la temperatura che superava facilmente i 35°C metteva in atto
una sorta di pastorizzazione naturale che eliminava il lievito rimasto dopo il filtraggio effettuato a
Londra.
Le Pale Ale che si consumavano in India, spesso a colazione com’era abitudine tra le classi più
abbienti, erano “abbastanza” simili alle moderne birre in fusto (se prodotte con metodi e ricette
originali): non erano cioè maturate in botte, perché se così fosse stato, sarebbero di certo esplose
durante il lungo viaggio (la maturazione è il processo orientato all'equilibrio molecolare degli
elementi che compongono la birra, che porta all'aroma finale, alla saturazione con anidride
carbonica e alla stabilità chimico-fisica). L e Pale Ale che erano imbarcate per l’India erano
semplicemente già state create con una maggiore quantità di luppolo e con una gradazione
sufficiente da poter sopportare le ingiurie dei viaggi (si attestavano sui 6-7° che allora era il
loro valore medio). Non si trattava quindi di nuove invenzioni né di birre destinate specificatamente
all’esportazione sul mercato indiano in forte sviluppo. Anche perché il termine Pale Ale era già
stato utilizzato sin dall’inizio del XVIII secolo (1703) per designare birre create con malti essiccati a
carbone, metodo che serviva a donare un colore più chiaro rispetto alle altre birre più popolari in
quel periodo.
Diverse tecniche di produzione e differenti livelli di luppolatura hanno portato a una vasta gamma
di sapori e di gradazioni alcoliche all'interno della famiglia delle birre Pale Ale; si aggiunga, inoltre,
che la colonizzazione dell’India da parte della Gran Bretagna cominciò qualche hanno dopo, verso
la fine del 1757; l'India entrò a far parte dell'impero britannico nel 1876 quando la regina Vittoria fu
proclamata imperatrice delle Indie. I birrai inglesi erano consapevoli, già da parecchio tempo, della
capacità di conservazione di alcol e luppoli (le sostanze acide antiossidanti contenute nei coni di
luppolo, servivano proprio a questo scopo) e in questo periodo erano numerose le Ales che nelle
stive dei velieri attraversavano i mari per soddisfare i palati degli emigranti britannici; fra queste
c’era anche una birra stagionale solitamente prodotta in ottobre (birre di questo tipo in alcune
Country House venivano create anche ad inizio primavera), denominata October Ale e
considerata un prodotto molto pregiato. Tra i vari birrifici in cui era prodotta, ce n’era uno, di
piccole-medie dimensioni, chiamato Old Bow Brewery (Foto 1) fondato nel 1752 da George
Hodgson e condotto dal figlio Mark Hodgson a partire dal 1811.
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Foto 1: la fabbrica di birra Bow Brewery nel 1827, immagine dal Museo di Londra
Si trattava di una birra creata con malto chiaro e luppolo appena raccolto, maturata in botte
di quercia anche per un anno, dotata di un vigoroso amaro e alquanto alcolica,
com’era comune in quei periodi sul suolo britannico, prima della crescita delle imposte portate
dalle Guerre Mondiali. Era, inoltre, una birra che esibiva una buona secchezza e una discreta
attenuazione (l’attenuazione è la percentuale di zuccheri presenti nel mosto che viene
effettivamente trasformata in alcol durante la fermentazione per mezzo dell’azione dei lieviti), il
tutto contribuiva a limitare il pericolo di eccedenti infezioni microbiche che potevano scaturire dal
prolungato viaggio e dalla conservazione in botte. La concomitanza di questi elementi le tributò
notevoli apprezzamenti e divenne molto popolare fra gli anglosassoni d’India, tributando a
Hodgson una notevole nomea.
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Queste stesse birre, a volte, venivano solo lievemente ritoccate per il mercato indiano ed erano
definite appunto “Pale Ale preparate per l’India”. Inaspettatamente, il nome ufficiale IPA (India
Pale Ale) entrò a far parte del gergo birrario solo molto tempo dopo l’inizio dell’era delle
esportazioni a Bombay, Calcutta e nelle altre basi del commercio inglese nel subcontinente
indiano.
In molti attribuiscono a Hodgson l’invenzione sia delle birre IPA sia della relativa espressione, ma
non inventò né l’una né l’altra cosa. Le importazioni indiane di Pale Ale risalgono all’inizio del
Settecento e le prime menzioni del termine apparvero molto prima che Hodgson esportasse i suoi
prodotti. A lui va certamente il merito di essere stato un pioniere nell’assicurarsi un ruolo di rilievo
sul mercato indiano, grazie anche ai rapporti che intratteneva con la Compagnia delle Indie
Orientali, che nel subcontinente era una potenza economico-politica. Il birrificio Bow si trovava
all'estremità orientale di Londra, al confine fra la contea di Middlesex ed Essex; era uno dei tanti
birrifici che si prodigava alla creazione di birre Porter e Pale Ale e verosimilmente neppure uno dei
più eccellenti, ma la fortuna della Bow Brewery fu di trovarsi molto adiacente ai moli, dove
ormeggiavano i vascelli della Compagnia delle Indie Orientali. Quest'ultima importava spezie e
materie prime dalle colonie asiatiche e nel viaggio di rientro verso l'India riempiva le stive delle navi
di beni da rivendere ai coloni e fra i molteplici articoli c'era anche la birra. La Compagnia delle Indie
(i capitani e gli ufficiali) preferì imbarcare quella prodotta da Hodgson perché, da un lato, era poco
attratta a commercializzare e quindi a rivendere in India nomi importanti e altisonanti e, dall'altro,
cercava il prezzo più conveniente possibile per i propri affari. La coincidenza volle che la Bow
Brewery di Hodgson fosse situata soltanto a 1,3 miglia in linea d'aria dagli attracchi utilizzati dalla
Compagnia (che si trovavano a Blackwall, sul Tamigi, a tre miglia a Est di Londra). L’adiacenza del
birrificio consentiva di contenere, difatti, le spese di trasporto; inoltre, Hodgson era l'unico che
accordava credito fino a diciotto mesi. Il birrificio, assieme alla propria Porter e a diverse Pale Ale
abbastanza leggere, produsse ed inviò in India, almeno dal 1790, pure una propria Stock Pale Ale
(denominazione che si usava per indicare la versione più estrema, luppolata e di gradazione
alcolica più elevata di birra, maturata per almeno dodici mesi).
Durante il tragitto, la stessa, incorreva in un'energica e veloce maturazione in virtù dei lenti ma
progressivi cambiamenti di temperatura e grazie ai sobbalzi all'interno delle botti di rovere in esse
contenuta. La facinorosa traversata la faceva giungere alla meta in uno stato analogo a
quello derivato da una maturazione di alcuni anni e, una volta giunta sul suolo indiano, i coloni
la apprezzarono talmente tanto da arrivare a etichettarla come la miglior birra mai bevuta in quei
luoghi, determinando l’ascesa di quella che sarebbe divenuta una vera e propria
epopea. L’affermazione e la richiesta della Stock di Hodgson persuase La Compagnia delle Indie
ad intensificare gli ordini e in un lasso di tempo molto breve la Bow Brewery quadruplicò la
produzione. Nel 1821, la gestione del birrificio passò nelle mani di Frederick Hodgson e Thomas
Drane, che decisero di non affidare più le proprie birre alla Compagnia delle Indie Orientali ma di
occuparsi direttamente delle spedizioni, chiaramente con lo scopo di aumentare i margini di
profitto.
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Verso il 1830, però, la Bow Brewery, cominciò a perdere il controllo su queste importazioni,
soprattutto a causa della concorrenza di alcuni birrifici di Burton upon Trent, una cittadina vicino a
Birmingham, nota anche come Burton-on-Trent o semplicemente Burton, situata nella contea dello
Staffordshire. Nel frattempo, la Compagnia delle Indie, si era rivolta al quarantaduenne Samuel
Allsopp, uno dei birrai più stimati di Burton, chiedendogli di riprodurre la birra realizzata da
Hodgson. Si racconta che il mastro birrario Samuel, quando assaggiò l’India Pale Ale creata dal
rivale londinese, per poco non la sputò poiché, l'amaro donato dai luppoli fu ritenuto davvero
estremo. Tuttavia Samuel accettò la sfida e dopo aver prodotto la prima cotta, sempre secondo la
leggenda in una teiera, ben presto riuscì a creare una birra simile ma con attributi migliori per
merito anche delle più avanzate
padronanze tecniche. Agli inizi del 1820,
Samuel Allsopp & Sons Brewery (Foto 2)
insieme ad altri birrifici, a causa del
boicottaggio russo, avevano perso un
mercato molto remunerativo nei Paesi
Baltici, dove esportavano birre forti e dolci;
così, incoraggiati dalla stessa Compagnia
delle Indie Orientali, decisero di sfruttare i
mercati indiani creando birre più chiare ed
amare.
La chiave di questa repentina ascesa e imminente successo si deve soprattutto alla qualità
dell’acqua presente nei pozzi di Burton poiché era particolarmente adatta alla creazione di Pale
Ale luppolate: ricca di solfati di calcio e sodio attenuava il deciso amaro del luppolo, pur
conservandone i delicati aromi e il risultato finale fu palesemente migliore. Ben presto Allsopp e
Bass spodestarono Hodgson assicurandosi il controllo del mercato che si estese sino ad
abbracciare non solo le Indie ma anche gli Stati Uniti, l’Australia e la Nuova Zelanda. E fu così,
dalla casualità e dal trionfo mercantile, che piano piano germogliarono le caratteristiche dello stile.
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I l più antico riferimento alle Pale Ale rivolte alle colonie
inglesi dove ci si avvale dell’espressione "India Pale Ale" per
identificare l’esportazione della stessa, risale al 29 Agosto del
1829 e non si trova scritto su una testata giornalistica inglese o
indiana ma in un annuncio pubblicitario del primo giornale
stampato in Australia: The Sydney Gazette and New South
Wales Advertiser (Foto 3). Nella didascalia si legge: “Taylor’s
and East India Pale Ale” che quasi sicuramente ha attinenza
con la birra creata a Londra, meglio conosciuta come la Taylor
Foto 3: Pubblicità di una "East India Pale Walker Special Pale Ale. In Inghilterra, il termine India Pale
Ale", Sydney Gazette - 29 agosto 1829
Ale, fu utilizzato per la prima volta in un annuncio economico
sul giornale “Liverpool Mercury”, pubblicato venerdì 30
gennaio del 1835 (Foto 4 e 5). L’IPA può essere considerata come una delle prime birre
“d’esportazione” e si può tranquillamente affermare che nacque anche da un “artificio
commerciale", ossia quella di servirsi della rotta delle navi inglesi verso le Indie.
Foto 4: Pubblicità di una "East India Pale Ale", Foto 5: Pubblicità di una "East India Pale Ale",
Liverpool Mercury - 30 gennaio 1835 Liverpool Mercury
I vascelli ritornavano colmi di mercanzie ma nel tragitto che li riportava in India, erano semivuoti:
per quale ragione non giovarsi di ciò al fine di inviare barili di birra nei territori occupati?
Difatti la locuzione “India” è stata aggiunta a Pale Ale proprio perché questo tipo di birra era
destinato a essere trasportato via mare dall’isola britannica alle coste indiane per essere
consumata dai coloni e dai sudditi inglesi. In precedenza ma si continuò a farlo per altri dieci
anni, si usavano nomi quali: “Pale Ale”, “Pale Ale as prepared for India”, “India Ale”, “Pale India
Ale”, “Pale Export India Ale” e “Pale Ale prepared for the East and West India Climate” (preparata
per i climi indiani) per indicare questa tipologia di birra. Ma com'era fatta un’IPA ottocentestesca?
Era più limpida, più asciutta e più aspra se paragonata alle altre Pale Ale. La luppolatura, in
conformità con un prontuario del 1840, doveva essere di cinque libbre e un terzo per barile (circa
2,5 kg di luppolo ogni 164 litri). In aggiunta a questa quantità determinata, si annetteva poi del
luppolo fresco direttamente nel cask, letteralmente nella botte, tramite dry-hopping (tecnica in cui si
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aggiunge il luppolo direttamente nella birra alla fine della fermentazione e che serve per
intensificare gli aromi luppolati senza aggiungere amarezza).
Questo permise alla Bass & Co. Pale Ale (Foto 7) di diventare
Foto 7: Bass & C. Pale Ale uno dei marchi più importanti e di maggiore successo del
momento. Un avvenimento di fondamentale rilevanza nel
“romanzo” delle IPA avvenne nel 1839, quando giunse la ferrovia (Foto 8) a Burton upon Trent che
consentì comunicazioni nazionali molto più celeri e uno spostamento molto più protetto della
bevanda. Se in precedenza era doverosa una settimana di tragitto, adesso occorrevano soltanto
dodici ore per diffondere le birre di Burton nella capitale inglese. Questo contrassegnò l'inizio della
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f i n e p e r l a Bow Brewery e d ef in ì
un’egemonia definitiva dei birrifici di
Burton su quel lembo di mercato, a Londra
come nelle colonie indiane. Attorno al
1840, le IPA, iniziarono a conseguire
un’enorme popolarità anche in patria, il
loro consumo e la loro fama seguitarono Foto 8: la prima stazione ferroviaria di Burton (1839)
a crescere in modo continuo nei decenni
successivi e in breve tempo s’incominciò a definire queste birre “indiane” con l’appellativo di “India
Pale Ale”. Anche birrifici al di fuori da burton incominciarono a produrne, a volte cambiando
solamente il nome alle pale ale luppolate già in produzione. È molto interessante osservare e far
notare che, durante tutto l'ottocento e per buona metà del novecento, nessun birraio esigette
mai la paternità della creazione di un nuovo stile di birra, più alcolico e più luppolato destinato
all'esportazione verso oriente, neppure hodgson. Nonostante tutto, nel 1869, tal William
Molyneaux scrittore e autore del libro: “Burton-on-Trent. Its History, Its Waters, and Its Breweries”
affermò che: “L'origine dell’India Ale è accreditata secondo l'opinione comune ad un birraio di
nome Hodgson, che [...] scoprì il processo di produzione di una bevanda particolarmente adatta al
clima delle Indie Occidentali e che, sotto il nome di “India Pale Ale”, monopolizzò il mercato
indiano di birra inglese. [...] Il birrificio in cui la Pale Ale fu prodotta per la prima volta, secondo la
credenza comune, fu l’Old Bow Brewery”. Fu la prima volta che qualcuno sostenne che IPA fosse
uno stile ideato ex novo deliberatamente per le colonie, andando così a mitizzare e a facilitare la
nascita dello stile stesso.
Questo punto di vista ebbe così, tanto successo, che si diffuse molto
rapidamente e, ancora adesso, è la spiegazione più in voga in quasi
tutti i pub e birrifici; persino in molte pubblicazioni di settore risulta
essere la versione più accreditata. Interpretazione sulla quale però
non tutti sono d’accordo; ad esempio Martin Cornell (Foto 9),
premiato consulente birraio, giornalista, scrittore, nonché membro
fondatore della Gilda britannica degli scrittori birrari e vincitore per
quattro anni consecutivi (2011-14) della “British Guild of Beer Writers”,
in un suo articolo “demolisce” alcune credenze sull’ascesa delle Pale
Ale da esportazione. Sinteticamente, questi sono i passaggi contestati
Foto 9: Martin Cornell da Cornell in un suo post del 2011. Primo, già innanzi alla metà del
Settecento le difficoltà del viaggio sembrano non fossero poi così
drammatiche: le birre in certe circostanze “capitolavano” ma non sempre succedeva; anche
perché, e siamo al secondo punto di disaccordo, era come minimo fin dal 1760 che i birrai inglesi
avevano preso coscienza dell’esigenza di un “extra hopping” per “rafforzare” i propri lotti destinati
all’esportazione. Terzo, non c’è nessuna conferma o prova che tale “sussulto d’acume” sia da
assegnare a un individuo/birrificio in particolare; Hodgson conquistò una posizione di prim’ordine
nei commerci e nelle vendite in India ma non perché la sua Pale Ale fosse migliore delle altre
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(d'altra parte, i suoi 6,5 gradi alcolici, e siamo alla quarta obiezione, erano inferiori o al massimo
uguali, e non superiori alla media del periodo), bensì perché la sua Bow Brewery, era più
adiacente ai moli d’attracco degli “East Indiaman” sul Tamigi, classe di navi divisa in sottoclassi di
diversi tonnellaggi costruite, in varie darsene inglesi, con lo scopo di solcare i mari, destinazione
Oriente. Quinto ma non ultimo punto, il conio del termine IPA, come lo si intende ai giorni nostri,
non appare se non dal 1829 al 1835, in pubblicità su testate giornalistiche. Dopo avervi lasciato
con questo dubbio di paternità riferito alle origini dello stile, che siate “riformisti” o sostenitori della
“storiografia popolare”, ci catapultiamo verso la fine dell’Ottocento dove il “fausto” momento,
sfruttato anche da diverse birrerie scozzesi, proseguì tuttavia solo per alcuni decenni, sino a
quando le storiche nazioni consumatrici e produttrici di birra, Inghilterra compresa, iniziarono a
importare nuovi stili birrai, adoperandosi nella costruzione locale d’impianti atti a produrre, nella
maggior parte dei casi, le "nuove" Lager.
Difatti, nel frattempo, nell’Europa Centrale si stavano diffondendo le Pils, anche se è doveroso
porre l’accento sul fatto che lo sviluppo scientifico e tecnologico delle birrerie inglesi era molto
superiore paragonato a quello del continente e non di rado si assisteva a bizzarri e singolari
episodi di vera e propria delazione industriale da parte di celebri birrai tedeschi in visita alle birrerie
inglesi. Di fatto le chiare e luppolate IPA cominciarono a capitolare, anche se, in qualche
maniera concorsero allo sviluppo delle altrettante chiare ma meno amare P i l s e Lager. Si
aggiunga, che, sempre in madrepatria, ci fu un’inversione di tendenza nei gusti della popolazione,
c h e ritornò a richiedere Pale Ale piuttosto che IPA e quindi le stesse birrerie di Burton
produssero per il mercato interno birre meno chiare e meno luppolate, che divennero di gran moda
e diedero inizio alle odierne Bitter e Pale Ale inglesi.
Con l'inizio del XX secolo cominciò il vero e proprio lento declino dello stile IPA: la Prima
Guerra Mondiale implicò un aumento del costo delle materie prime ma principalmente un rincaro
della tassazione per far fronte all’impegno bellico. Poiché le imposte erano direttamente
proporzionali alla percentuale alcolica, i birrifici inglesi incominciarono a diminuire il grado alcolico
e il corpo delle proprie birre per pagare meno tasse. Le India Pale Ale divennero molto simili alle
Extra Special Bitter o, addirittura, in alcuni casi alle Best Bitter e non più distinguibili al palato dei
consumatori, dando inizio al declino del loro prestigio. Sfortunatamente, come succede di
frequente, anche questa tipologia di birra nel corso della sua vita, ha subìto un periodo di regresso.
Questo perché tendenzialmente le produzioni inizialmente corpose ed alcoliche si indebolirono ed
il gusto iniziò e si rivelò più “appiattito” fino a che, intorno agli inizi del secolo scorso, le IPA non
andarono più di moda. Nel periodo compreso fra le due Guerre Mondiali, il loro fascino venne
meno definitivamente, tanto che nel 1948 nel libro “The Brewer's Art” dell’editore inglese
Whitbread & Co, si giunse a sostenere che l’espressione India Pale Ale era oramai “quasi del tutto
obsoleta” e l’identità dello stile fu dispersa. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale
perdurarono difatti solo alcuni, a dire la verità molto pochi, esempi riconducibili allo stile primigenio,
sia in madre patria che nelle ex-colonie (Australia, Canada, Stati Uniti ed India). I giorni di gloria
delle IPA erano ormai finiti. Il ritorno alla ribalta dello stile e la sua resurrezione si devono alla
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“Reinessance b i r r a r i a a m e r i c a n a” o
“Rinascimento birraio americano”. Anche negli
Stati Uniti, dove le IPA erano state create,
apprezzate e diffuse ampiamente nel Nord-Est,
queste grandi birre furono dimenticate ma a
cavallo fra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso i
giovani m i c r o b i r r i f i c i d e l l a W e s t C o a s t
scorsero in questo stile quello che più si
prestava all’esaltazione dei pregevoli luppoli
coltivati nelle regioni che si affacciano
sull’oceano Pacifico. Da questo momento le IPA Foto 10: Bert Grant
e le cugine d’oltre oceano, le APA, sono salpate
alla conquista del mondo e stanno vivendo
un’era di grande espansione e un boom produttivo continuo, quasi comparabile a quello che
ebbero in passato le Porter. Bert Grant (Foto 10), un birraio scozzese che iniziò a produrre birra
nel 1982 a Yakima, capoluogo della contea
omonima nello stato di Washington,
conosciuto anche per il suo modo di vestire e
per il suo comportamento (indossava
sempre il kilt, occasionalmente ballava sul
balcone del proprio locale e per far rispettare
il divieto di fumo si aggirava tra i tavoli con
uno spadone a doppia lama), fu uno dei
primi precursori della moderna American
IPA (AIPA o APA) e il promotore/fondatore
del primo brewpub americano dall'epoca
del proibizionismo. Grant presentò, per la
prima volta, una birra molto luppolata
Foto 11: Anchor Liberty Ale Foto 12: Sierra Nevada
fruendo di varietà americane di luppolo che
Celebration
erano coltivate negli stati di Washington,
Oregon e nel Nord della California; tuttavia, la birra che i birrai americani presero come modello
per la rinascita dello stile IPA fu presumibilmente la Liberty Ale (Foto 11) prodotta nel 1975 con
fiori di luppolo Cascade dal birrificio Anchor Brewing Company e la Celebration Ale di Sierra
Nevada (Foto 12), creata con luppoli americani Cascade, Centennial e Chinook ed immessa sul
mercato a partire dal 1981. Nel 1994 i birrai americani hanno aumentato sensibilmente il quoziente
dell’amaro (IBU) fino a creare un nuovo stile definito Double IPA ma l’americanizzazione di
questo stile birrario si è conclusa solo quando hanno iniziato a imitarlo anche i britannici, gli stessi
che lo avevano inventato più di due secoli prima. Anche nel Pacifico, in nazioni come l’Australia, la
Nuova Zelanda e il Giappone, questo stile birraio è diventato molto alla moda ed “osanna” le
varietà e la versatilità dei luppoli nativi, caratterizzati da fragranze tropicali, di uva spina e frutti a
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polpa gialla. In Europa continentale, le IPA, si sono affermate particolarmente presso i birrifici
del Nord, dove assieme a grandi interpretazioni dello stile, si assiste, di frequente, a varianti filo-
americane un po’ eccedenti e parodistiche, con la ricerca all’amaro fine a se stessa a
discapito dell’armonia e dell’equilibrio che sempre dovrebbero essere presenti.
Le versioni italiane, anche a causa della mancanza di varietà di luppolo nazionale, sono ancora, in
alcuni casi, abbastanza precoci per uno stampo veramente originale. Appaiono, di frequente, con
un maggiore corpo, poco secche e con manifeste note caramellate e biscottate a sorreggere
un’importante luppolatura. Esistono, comunque, anche nella nostra Penisola ottimi esempi dello
stile. Più di trentacinque anni fa si gettarono pertanto le basi di quel trend che negli ultimi anni si é
imposto nel mondo della birra artigianale, grazie all'intensa e rivoluzionaria aromaticità di molti
luppoli americani capaci di elargire vigorosi e profondi aromi erbacei, resinosi, balsamici, di agrumi
e frutta tropicale, in grado, inoltre, di contribuire a sviluppare una decisa sapidità amaricante. Gli
esempi moderni di IPA hanno attinenza e s’ispirano alle versioni classiche del passato ma non si
deve pensare che abbiano lo stesso preciso profilo gustativo. Probabilmente non sono proprio
quelle che bevevano gli inglesi nel corso del ‘800 e del ‘900 ma le energiche Ale americane infuse
di luppoli “indigeni”, sia amaricanti che aromatici, sono diventate il manifesto della birra artigianale.
L a Worthington White Shield è probabilmente l’esempio più antico che risale alle forti IPA di
Burton, prodotta per la prima volta nel 1829.
Le versioni inglesi (IPA) e quelle americane (APA) sono molto simili ma non identiche come si
potrebbe ritenere in un primo momento e la diversità non è solamente geografica. La prima
disuguaglianza che appare subito all’occhio è il colore: Le IPA appaiono, di solito, con un colore
più chiaro rispetto alle cugine americane. La seconda differenza, quella più evidente al palato, è
nella varietà di luppolo utilizzato. La “mistura” impiegata nelle APA volge su toni più agrumati,
balsamici, resinosi e di frutta tropicale e fruisce di un aroma più avvolgente e più dolce. Nelle IPA,
differentemente, la fragranza del luppolo è meno “tentacolare”, più secca, immediata e
decisamente più floreale, speziata, terrosa ed erbacea, sorretta, inoltre, da un sapore di
malto/caramello più marcato rispetto alle versioni americane.
Teoricamente non è difficile distinguere un’APA da un’IPA, anche se non vi sono regole chiare e
complete, o forse è meglio dire che non sempre sono prese alla lettera. Per togliersi eventuali
dubbi è utile consultare eventualmente il BJCP (Beer Judge Certification Program), un ente
statunitense istituito dal 1985, con lo scopo di preparare e certificare la formazione di quanti
desiderano raggiungere il titolo di giudice o mastro birraio. Le linee guida del manuale definiscono
l e diverse tipologie di birra e i criteri che conferiscono a una birra uno “stile” tale da
tributarne l’unicità. Numerosi birrifici artigianali, soprattutto in Italia ma anche in altri paesi come
l’Inghilterra, creano APA, che però vendono come IPA. Nel nostro paese la maggioranza delle
IPA prodotte sono delle APA. È ovvio che se non ci si avvalga di regole stringenti per la
classificazione della birra; se un produttore inglese decide di dare un tono più fruttato o resinoso
alla sua IPA, continuerà a chiamarla IPA, sebbene sia più consono denominarla APA. Da questa
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nova categoria dello stile, sono nate, negli ultimi anni, molte altre sotto-categorie di successo,
come ad esempio:
• Saison IPA
• Belgian IPA
• Black IPA
• White IPA
• Session IPA
• Red IPA
• Brown IPA
• Rye IPA
Tutte queste nuove varietà si sono diffuse in principio negli Stati Uniti (eccezione fatta per
le Belgian IPA) e poi si sono affermate nel Vecchio Continente, Italia compresa. Quella delle
varie American IPA o APA è tutta un'altra storia... quella delle India Pale Ale originali inglesi, per
ora, finisce qui.
Fonte: http://www.fermentobirra.com/stile-ipa-genesi-ed-evoluzione-birra-cosmopolita/
Fonte: http://ilsimposiodellabirra.blogspot.it/2015/07/la-storia-delle-ipa-quella-vera.html
Fonte: http://www.fermentobirra.com/martin-cornell-storia-ipa/
Fonte: http://www.ragusaoggi.it/38909-american-pale-ale-e-indian-pale-ale-simili-e-diversi
IPA - DEGUSTAZIONE
ASPETTO VISIVO.
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Ricoperta da un cappello di schiuma a grana fine color crema, compatta e mediamente
persistente ma di ridotte dimensioni, indossa un abito il cui colore si frappone fra un
dorato/ambrato sino ad un rame chiaro. La maggior parte degli esempi di stile si presenta con una
tinta ambrata iridescente con riflessi aranciati. La diafanità dovrebbe essere eccellente, anche
se le versioni non filtrate che utilizzano il dry-hopping possono apparire un po’ opalescenti.
SENTORI OLFATTIVI.
Elargisce un tipico aroma, donato dai luppoli Inglesi utilizzati, floreale, speziato (pepe),
agrumato (limone, pompelmo e scorza d’arancia) e terroso che si frappone tra moderato a
moderatamente alto; l’intensità del carattere del luppolo è generalmente inferiore rispetto alle
versioni americane. Un aroma erbaceo da dry-hopping è accettabile ma non obbligatorio.
L a presenza di aromi di malto moderatamente bassi che ricordano il caramello o il pane
tostato sono comuni ma non essenziali e un fruttato da basso a moderato, derivato sia da Esteri
che dal luppolo è accettabile. Alcune versioni possono avere una nota sulfurea che dipende dal
tipo di acqua utilizzata, anche se non è obbligatoria. L’acqua ricca di solfati di calcio e sodio
attenuava il deciso amaro del luppolo, pur conservandone i delicati aromi.
NOTE GUSTATIVE.
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CONSIDERAZIONI GENERALI.
Create fruendo del metodo dell’alta fermentazione, sono birre originarie della Gran Bretagna,
“moderatamente” alcoliche e marcatamente luppolate, tradizionalmente create con malti,
luppoli e lieviti inglesi. Hanno origine, perlomeno secondo leggenda, in epoca coloniale nel corso
della seconda metà del XVIII secolo come variante più alcolica e luppolata delle Pale Ale, rivolte
all’esportazione ed al consumo nelle colonie indiane dei sudditi inglesi e per questo motivo
dovevano sopportare lunghe traversate nella stiva dei velieri. Tutto ciò fu possibile grazie
all’elevata attenuazione (percentuale di zuccheri fermentati) e dall’utilizzo di porzioni maggiori
di luppoli, in particolare nel dry-hopping, che rendeva meno complicata la traversata per via
delle note proprietà antisettiche ed antiossidanti degli stessi.
La peculiarità che ancora caratterizza un’IPA (India Pale Ale) è di certo la robusta presenza
del luppolo. In tempi odierni questa particolarità è percepita come un elemento peculiare della
birra ma in passato l’uso del luppolo aveva solamente una funzione conservativa. Si mostrano, di
solito, con colore ambrato iridescente con sfumature arancio e con una schiuma color crema
di medie dimensioni e persistenza. Sono birre ben attenuate, aromatiche, fresche, beverine
e rinfrescanti con aromi erbacei, floreali, fruttati, speziati e terrosi elargiti dai luppoli inglesi
utilizzati e qualche nota caramellata. Al palato, presentano un corpo medio-leggero, una
frizzantezza media ed un’amarezza decisa ma bilanciata da dolci note e qualche lieve
tostatura, derivate dai malti caramellati spesso impiegati negli stili inglesi e dall’utilizzo saltuario di
zucchero raffinato. Hanno un carattere meno luppolato ed un profilo maltato superiore
rispetto alle versioni americane. Si congedano con un lungo retrogusto secco e finemente
amaro. Con il trascorrere del tempo questa tipologia di birra, dopo aver superato un periodo di
declino, si è affermata sempre più sul mercato, sino a divenire, ai giorni nostri, uno degli stili più
graditi e “tracannati” al mondo.
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le classiche Ales di tipo anglosassone (Bitter, Pale Ale ed IPA).
Inoltre, l’allargamento appena sotto l’orlo, esalta la densità della
birra e modera lo sviluppo della schiuma, fatto molto apprezzato in
Inghilterra, dove la birra, come da tradizione, è servita senza schiuma
(al massimo un centimetro e mezzo). Nello stesso tempo però, se in
molte Ales inglesi lo “slargo” neutralizza la schiuma, nelle Stout e nelle
Porter ne esalta la cremosità.
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ossida. L e IPA possiedono un elemento la cui robusta presenza funge anche da
antiossidante: il luppolo.
ABBINAMENTI CONSIGLIATI.
L'amaro è l’elemento di maggiore rilevanza che contraddistingue un’India Pale Ale e tende a
ponderare/ridurre, se non “tagliare”, la parte grassa presente in alcuni cibi, riducendo il
senso di pesantezza e lasciando la bocca pulita. Inoltre, bilancia la dolcezza presente in diversi
alimenti a tendenza dolce e si rapporta in maniera egregia con piatti piccanti. L’IPA è ottima in
aperitivo magari accompagnata da prosciutto dolce e/o salumi piccanti, focaccia salata
farcita con mortadella con pistacchi, formaggi freschi, a media stagionatura (meglio di latte
di pecora e/o di mucca, tipo il Cacio Romano), formaggi erborinati (Cashel Blue), a pasta molle
e a crosta fiorita (Camembert), a pasta dura (Stilton, Grana, Parmigiano e Pecorino), a crosta
lavata molto stagionati e piccanti.
Per quanto riguarda l’accostamento con primi piatti meglio scegliere una pasta in bianco con
condimenti speziati o piccanti (spaghetti aglio, olio e peperoncino). Immancabile l’abbinamento
con il pesce: al forno (marinato ed aromatico), bollito, affumicato o in salamoia, cozze alla
marinara, filetto di salmone gratinato con maionese, crostacei, grigliata mista, calamari in
guazzetto e il polpo con patate.
L’India Pale Ale si abbina egregiamente anche a secondi di carne bianca come il pollo al forno
con verdure grigliate o al vapore, carne rossa come il maiale con chutney (salsa di origine
indiana) alle mele, la costata di manzo alla brace, il chili con carne, la bistecca al pepe,
spiedini, salsiccia arrosto con salsa agrodolce, l’agnello al forno, il confit di anatra, lo
stinco di maiale in fricassea d’uva Fragolina con contorno di caponata di verdurine ma
anche a piatti meno impegnativi come l’hamburger e il cheeseburger. La fragranza
erbacea/floreale che contraddistingue questa birra ben si sposa con l’aroma della carne
affumicata, tipo il bacon.
Pietanze con una particolare indole amarognola (asparagi, rucola, cicoria, etc.) difficili da
abbinare con altre tipologie di birra, trovano complemento con le luppolate India Pale Ale. Per
quanto riguarda l’accostamento con i dessert, la nota amara ma bilanciata la rende una
bevanda perfetta per accompagnare i biscotti speziati, le torte al cioccolato o al caramello,
la crostata in tricolore d’uva e i gamberi rossi al frutto della passione.
Immancabile l’abbinamento con la pizza marinara, dove il tono aromatico di aglio e origano si
coniuga perfettamente con le fragranze agrumate di un’India Pale Ale.
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peperoncini come il Black Prince, il Fushimi, il Jalapeno e lo Shishito, purché non molto piccanti
perché l'amaro del luppolo intensifica la percezione di calore di cibi e spezie.
OG.
L’OG (Original Gravity) o Gravità Iniziale è la quantità di zuccheri fermentabili nella mistura di
malto e di acqua presenti all’inizio della fermentazione misurata con il densimetro (foto 15).
Il densimetro o areometro è lo strumento che permette di misurare la densità di un liquido. Il
suo funzionamento è basato sulla spinta di Archimede, ovvero sull’impulso verso l'alto che un
corpo riceve quando è immerso in un liquido. Il densimetro è costituito da un bulbo contenente al
suo interno della massa (generalmente sferette di piombo), unito ad un'asta capillare su cui è
riportato un regolo per la misurazione. Il densimetro è immerso in un "cilindro di test" in
precedenza riempito col liquido di cui si vuole conoscere la densità, ed è lasciato libero di
galleggiare. Una volta che la sua posizione si è stabilizzata, la misura della densità è quella
corrispondente al valore individuato dall'intersezione tra il pelo libero del liquido e l'asta contenente
il regolo. Le misurazioni della densità vanno fatte alla temperatura alla quale è stato tarato il
densimetro (generalmente 20°C). In caso contrario, è facile trovare in rete delle tabelle di
conversione della densità. Esistono due tipi di densimetro: a peso e a volume costante. Il primo è
più immediato nell'uso, mentre il secondo consente una maggiore precisone. Per questo
rilevamento si utilizza anche un’altra scala detta gradi Plato che è una misura della densità riferita
ad una soluzione zuccherina (mosto) ed equivale alla percentuale di estratto (zuccheri in
soluzione) in una data quantità di acqua. Quindi ad esempio una soluzione avente 10° Plato è una
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soluzione contenente il 10% circa di zuccheri disciolti, quindi 100g ogni 1000g di soluzione. Per la
sua misurazione s’impiega il saccarometro (foto 16).
Fonte: http://www.hbsardi.it/index.php?page=glossario
FG.
FG (Final Gravity) o Gravità Finale è la quantità di zuccheri/alcool presenti alla fine della
fermentazione ed è misurata anch’essa con il densimetro. Sta a significare che tutti gli zuccheri
fermentabili sono stati convertiti.
IBU.
L’IBU (International Bitterness Units) rappresenta uno dei termini birrai che ha suscitato negli ultimi
anni più interesse e fama verso gli appassionati di birre artigianali, grazie soprattutto al successo
delle birre luppolate. Il motivo è semplice: rappresenta la scala internazionale per misurare
l’amaro di una birra. Birre poco amare avranno un IBU di 4-10, birre notevolmente amare
possederanno un IBU di 60-70. 100 IBU indicano il limite di percezione nell’essere umano,
oltre il quale non si riesce più ad avvertire l’aumento di amaro. Pertanto valori più alti
designano birre più amare ma il ragionamento non è così semplice perché nella percezione del
gusto subentrano altri fattori. Se una birra è, molto maltata (dolce), la parte amara sarà meno
evidente anche a fronte di un valore di IBU molto alto. Per di più il valore è spesso teoretico e
non sempre preciso o indicativo al 100%, anche perché esistono diversi sistemi per quantificarlo. È
lampante perciò che l’IBU possa essere adoperato più come strumento di marketing che come
indicazione valida per il consumatore, specialmente quando sono ostentati in maniera palese.
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EBC.
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L’EBC (European Brewery Convention) e la SRM (Standard Reference Method) non sono altro
che le scale per misurare il grado di colorazione di una birra. Il colore di una birra è
determinato dal tipo di malto impiegato e, nelle birre più scure, dal suo grado di tostatura.
Tenendo presente che l'acqua è sia inodore che incolore, che il luppolo coadiuva il grado di
amarezza e che i lieviti sono i delegati alla fermentazione, ne deriva che il malto rimane il solo
elemento in grado di dare il colore alla birra. Quando l'orzo viene maltato ed essiccato, cambia di
colore a seconda della temperatura raggiunta per l'essiccazione. Nel caso delle birre scure il
malto è tostato e tenderà a divenire più scuro con una temperatura più alta di essiccazione
e una maggiore tostatura. Il colore della birra deriverà dalla quantità e dalla proporzione dei malti
utilizzati, ad esempio tra chiari e scuri. Per misurare il colore della birra sono impiegate tre scale: la
Lovibond (°L) che rappresenta la storia della stima del colore della birra, nata nel 1883 quando
Joseph W. Lovibond utilizzò per la prima volta dei vetrini colorati per raffrontarli al colore della
birra. La SRM, impiegata generalmente negli Stati Uniti, che determina quanta luce con
un’intensità regolata a 430 nm riesce a passare attraverso un centimetro di birra all'interno di
un fotometro (sostanzialmente non c'è una grande diversità tra Lovibond e SRM, molti usano la
prima per disegnare quanto è scura la birra, mentre adoperano la SRM per definire il colore vero e
proprio), ed infine la scala denominata EBC che viene impiegata in Europa e si basa sull’utilizzo di
uno spettrofotometro per la misurazione del colore. Il rapporto tra scala EBC e scala SRM è di
circa 2:1 (10 EBC = 5 SRM).
Per convertire i risultati delle diverse scale, di seguito queste pratiche formule:
Fonte: http://www.giornaledellabirra.it/produzione/i-colori-della-birra-lescale-di-misura/
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ABV.
L’ABV (Alcohol by Volume) è la definizione stabilita in ambito internazionale per designare la
percentuale in volume del contenuto di etanolo in una bevanda alcolica. In Italia prende il nome
di titolo alcolometrico o di gradazione alcolica e si esprime col simbolo “% vol.”.