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passato «una volta per tutte» (Eb 7,27; 9,14.25-26; 10,12). Bisogna dunque compren-
dere: «da qui c’era necessità...», e non: «da qui c’è necessità...». Eb 7,27 esclude esplici-
tamente, per il nostro sommo sacerdote, ogni necessità presente di offrire sacrifici.
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Dal punto di vista retorico, l’espressione di 8,2 costituisce una nuova formulazione,
più dettagliata, della propositio enunciata in 5,9 e ripresa in 7,28 per mezzo di una sola
parola greca che significa «reso perfetto».
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Una particolarità importante, che la formula di 8,2 non rivela, è che al tema del culto
l’autore unisce strettamente quello dell’alleanza, al centro di ciascuno dei due paragrafi. Si
ha quindi due volte la successione culto (a/a’), alleanza (b/b’), culto (a/a’) e la sezione si
compone di sei unità, che si corrispondono secondo uno schema concentrico:
a – 8,3-6: esclusione del culto antico, di livello terreno
b – 8,7-13: alleanza antica imperfetta, da sostituire con la nuova
a – 9,1-10: culto antico, santuario e riti inefficaci
a’ – 9,11-14: oblazione di Cristo, perfettamente efficace
b’ – 9,15-23: alleanza nuova, fondata sul sangue come l’antica
a’ – 9,24-28: culto di Cristo, livello celeste
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Gli uomini ordinari non hanno la santità richiesta per il contatto con Dio. Tra tutte
le nazioni, un popolo particolare è messo a parte, è «consacrato», per essere «la parte
personale» di Dio (Dt 7,6; 14,2). Ciò nondimeno, esso non ha la santità sufficiente per
entrare nel santuario e avvicinarsi a Dio; se tentasse di farlo, l’annienterebbe il fuoco della
santità divina (Es 19,12; Nm 18,22). S’impone la necessità di una mediazione. La tribù di
Levi è messa a parte (Nm 3,4) e, in questa tribù, Aronne e i suoi figli, «sacerdoti consacrati
mediante l’unzione e investiti della funzione sacerdotale» (Nm 3,3). Sono poi distinti due
gradi di «santità» sacerdotale: ci sono, da una parte, i semplici sacerdoti e, dall’altra, il
sommo sacerdote, le cui attribuzioni sono differenti: «nella prima tenda entrano sempre i
sacerdoti per celebrare il culto; nella seconda invece entra solamente il sommo sacerdote, una
volta all'anno» (Eb 9,6-7a).
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Conformemente a questa verità, l’autore si è ben guardato, nella sua descrizione del
luogo santo della prima alleanza (Eb 9,2-5), di fare la benché minima allusione ad una
presenza di Dio e, in particolare, si è guardato dal dire che l’arca dell’alleanza fosse il trono
di Dio, il quale siederebbe sui Cherubini (1Sam 4,4; Sal 80,2). Al momento preciso in cui
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L’autore non dice, come certi traduttori gli fanno dire: «La strada del san-
tuario non era ancora aperta», il che lascerebbe intendere che essa fosse co-
nosciuta, ma non ancora accessibile. Egli dice che questa strada non era stata
ancora «manifestata»; non la si conosceva (9,8). Si aveva una strada che era
un vicolo cieco e non si sapeva dove trovare la vera strada. La comunicazione
non poteva dunque essere stabilita. La mediazione non era effettiva.
Se i riti prescritti al sommo sacerdote lo avessero messo sulla buona strada,
il suo sacrificio sarebbe stato gradito a Dio; egli stesso sarebbe stato accolto
nel vero santuario presso Dio e avrebbe così tracciato il cammino della me-
diazione, che sarebbe diventato, allo stesso tempo, accessibile al popolo. Così
le proibizioni antiche sarebbero state abolite. Di fatto, niente di tutto ciò si
realizzava e il culto antico manteneva continuamente le sue barriere. Dopo la
liturgia della grande Espiazione, esattamente come prima di essa, i divieti ri-
manevano in vigore: il popolo non poteva entrare nel santo dei santi e nean-
che i sacerdoti erano autorizzati a farlo. Per di più, lo stesso sommo sacerdote
doveva attendere un anno intero per poter compiere di nuovo i riti. Era dun-
que evidente che la comunicazione non fosse stata stabilita.
Qual era la ragione di questa impossibilità di comunicazione? L’autore la
scopre nell’insufficienza dei mezzi che erano utilizzati per superare la di-
stanza tra gli uomini e Dio. A questo riguardo, osserva che, nel culto antico,
«vengono offerti doni e sacrifici che non possono rendere perfetto, nella sua co-
scienza, colui che offre» (9,9). È significativa questa frase, in cui torna il tema
dell’acquisizione della perfezione. Esprime un punto di vista inatteso sulla fi-
nalità dei sacrifici e sul loro ruolo per stabilire una mediazione. Spontanea-
mente, si concepiscono i sacrifici come regali offerti a Dio allo scopo d’in-
fluire sulle sue disposizioni e renderlo favorevole nei confronti del popolo29.
Il nostro autore prende il punto di vista inverso. Lo scopo dei sacrifici –
secondo lui – dev’essere di cambiare le disposizioni degli uomini e non quelle
di Dio. Il sacrificio dovrebbe trasformare chi lo offre, «renderlo perfetto»,
così da metterlo in grado di avanzare verso Dio e di essergli gradito. È a questa
condizione che il sacrificio può servire effettivamente a stabilire una media-
zione tra gli uomini e Dio, facendo del sacerdote un mediatore autentico. La
trasformazione necessaria non può evidentemente limitarsi ad un livello su-
perficiale, esteriore, rituale; bisogna che sia profonda, interiore, personale,
ci si attenderebbe che lo dicesse, egli interrompe la sua descrizione, dichiarando: «Di que-
ste cose non è necessario ora parlare nei particolari» (Eb 9,5). Tiene a marcare bene le di-
stanze. Secondo lui, le prescrizioni della legge che concernono il culto, prescrizioni che
fanno parte della Scrittura ispirata dallo Spirito Santo, manifestano l’impotenza del culto
antico: «Lo Spirito Santo intendeva così mostrare che non era stata ancora manifestata la via
del santuario, finché restava la prima tenda» (Eb 9,8).
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Questo modo di vedere si esprime spesso nell’AT, a cominciare dal racconto del sa-
crificio di Noè. Dopo il diluvio, Noè, uscito dall’arca, elevò un altare per il Signore. Prese
ogni sorta di animali puri, ogni sorta di uccelli puri e offrì olocausti sull’altare. Il Signore
respirò il profumo calmante e disse a se stesso: «Non maledirò mai più il suolo a causa
dell’uomo» (cfr. Gn 8,20-21). Si offrono sacrifici per “calmare” Dio, quando lo hanno
irritato i peccati. L’espressione «profumo calmante» ritorna più volte a questo riguardo
(Lv 1,9.13.17; ecc.) e la si trova anche nel NT e nella liturgia cristiana, per qualificare il
sacrificio di Cristo (Ef 5,2) o la generosità dei cristiani (Ef 4,18).
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sanzione legale era un crimine, perpetrato dai «peccatori» (12,3), perché Cristo era
«santo, innocente, immacolato» (7,26) e non meritava quindi alcuna pena legale. Ciò
nondimeno, gli si è fatta subire la pena peggiore di tutte, il che era un’azione criminale. Ma
questa azione criminale. Cristo l’ha trasformata in occasione per compiere l’azione più
generosa, un’azione mediatrice, che ha ristabilito la piena comunione tra gli uomini e Dio.
Esteriormente, l’avvenimento non aveva nulla di un rito liturgico. Un’azione criminale, in
effetti, è proprio il contrario di una liturgia. Lo stesso vale per una sanzione penale, benché
per altre ragioni. Nell’azione criminale, ben lungi dal rendere culto a Dio, l’uomo offende
il suo creatore. Quanto alla sanzione penale, essa esclude radicalmente il criminale dalla
sfera del sacro; è un’«esecrazione» nel senso etimologico del termine, vale a dire l’inverso
di una consacrazione.
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senso che essi comunicavano la purezza rituale richiesta per prendere parte
al culto antico (9,13). L’autore ammette dunque che «il sangue dei capri e dei
vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santifi-
cano purificandoli nella carne» (9,13). E aggiunge: «quanto più il sangue di
Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio –
purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vi-
vente» (9,14). Ricchissima di contenuto dottrinale, questa frase descrive
l’oblazione di Cristo, opponendola implicitamente ai sacrifici antichi. Questi
erano esteriori rispetto alla persona del sacerdote; Cristo, invece, «offrì se
stesso». Quelli non erano che «riti di carne», mentre l’oblazione di Cristo si
è realizzata sotto l’azione dello «Spirito eterno». Quelli non potevano co-
municare che «la purità della carne», mentre il sangue di Cristo purifica le
coscienze e rende atti ad una relazione autentica con il Dio vivente.
«Cristo [...] offrì se stesso». Questa espressione è in rapporto antitetico con
la formula «offrire doni e sacrifici», caratteristica del paragrafo precedente,
in cui essa inquadra la descrizione del culto antico (8,3; 9,9). Un’unica offerta
personale efficace ha sostituito le offerte esteriori indefinitamente ripetute e
inefficaci. L’affermazione dell’autore fa la sintesi di due dati della catechesi
del NT: la presentazione di Cristo come vittima sacrificale e l’aspetto di dono
volontario da parte sua. L’apostolo Paolo presenta Cristo come vittima sacri-
ficale, quando proclama: «Cristo, nostra pasqua, è stato immolato» (1Cor
5,7). Si accorda in questo con il quarto Vangelo che chiama Gesù «l’agnello
di Dio» (Gv 1,29.36) e suggerisce un rapporto tra la condanna di Gesù e la
«preparazione della Pasqua» (Gv 19,14-16). La Prima Lettera di Pietro
compara Cristo ad «un agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,19) e
l’Apocalisse presenta Cristo glorificato con l’immagine di un «un Agnello, in
piedi, come immolato» (Ap 5,6). In tutti questi testi, è l’aspetto passivo della
situazione di Cristo che è espresso.
Altri testi mostrano che Cristo non è restato passivo, ma che è andato da
se stesso verso la sua Passione. A questo riguardo, la dichiarazione più chiara
si trova nel quarto Vangelo, sulle labbra di Gesù stesso: «Nessuno me la toglie:
io la do da me stesso» (Gv 10,18). I racconti evangelici indicano parecchi
modi in cui Gesù ha affrontato volontariamente la sua Passione. L’istituzione
dell’Eucaristia ne è una chiara attestazione: Gesù ha donato il suo «sangue
versato». Poi, quando si è giunti ad arrestarlo nell’orto degli Ulivi, ha impe-
dito ai suoi discepoli di opporsi al suo arresto (cfr. Mt 26,50-54 e paralleli).
Paolo può dunque affermare che Cristo «ha dato se stesso per i nostri peccati»
(Gal 1,4) e che «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20).
Nella sintesi che opera, l’autore passa dal vocabolario esistenziale («de-
porre la propria vita», «darsi», «consegnarsi») al vocabolario liturgico (of-
frire a Dio una vittima immacolata), il che mette in evidenza l’aspetto reli-
gioso dell’avvenimento. Ma l’espressione completa dell’autore («offrire se
stesso a Dio») non s’incontra mai nel rituale antico. Era impensabile – come
abbiamo detto –, perché il sacerdote non era né degno né capace di offrire se
stesso. Essa costituisce una novità inaudita. Nella sua offerta, Cristo è allo
stesso tempo colui che offre e colui che è offerto, il sacerdote e la vittima. Da
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parte sua, questa novità è stata possibile perché egli era una vittima degna di
Dio e un sacerdote capace di far salire questa vittima fino a Dio.
Per qualificare Cristo come vittima, l’autore utilizza un aggettivo che si ap-
plica, nella legge di Mosè, alle vittime delle immolazioni rituali. Per i sacrifici,
bisognava scegliere bestie «immacolate», senza macchie né difetti. Questo
aggettivo è ripetuto più di quaranta volte nelle prescrizioni rituali della legge
di Mosè (Es 29,1.38; Lv 1,3.10; 3,1.6.9; ecc.). Trattandosi di animali, la pa-
rola significava semplicemente l’assenza di qualsiasi difetto fisico. Il profeta
Malachia critica aspramente i sacerdoti che presentavano in sacrificio «una
bestia cieca», «una zoppa e una malata» (Ml 1,8.13-14). Applicata a Cristo,
la parola prende evidentemente un senso più profondo, quello che ha nei
Salmi, quando si applica a persone. Si tratta allora dell’assenza di qualsiasi
colpa morale, di qualsiasi complicità con il male32. Cristo aveva questa purità
perfetta; egli poteva dire: «Chi di voi può dimostrare che ho peccato?» (Gv
8,46). Per questa ragione, non ha avuto bisogno di andare a cercare in un
gregge una bestia senza imperfezione per offrirla sull’altare del tempio. Po-
teva offrire se stesso a Dio con la certezza di essere gradito.
Vittima degna di essere gradita, Cristo era allo stesso tempo sacerdote ca-
pace di realizzare la trasformazione sacrificale, necessaria perché la vittima sia
santificata e unita a Dio. La sua capacità gli veniva dalla presenza in lui dello
«Spirito eterno»; infatti, «mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza mac-
chia a Dio» (9,14). L’espressione è unica in tutta la Bibbia e questo fa sì che
la sua interpretazione si presti a discussione. Si è proposto d’intendere per
«Spirito eterno» una disposizione della persona di Cristo33. Ma il senso di
«disposizione» si accorda male con l’aggettivo qualificativo usato dall’au-
tore, «eterno». Qualche altro commentatore ritiene che «Spirito eterno»
designi la natura divina di Cristo. Ma l’interpretazione più plausibile è quella
dei Padri greci, che hanno visto nell’espressione «Spirito eterno» un altro
modo di designare lo Spirito Santo. D’altronde, il testo greco comporta una
variante, che sostituisce «eterno» con «Santo». L’assenza d’articolo davanti
alla parola «Spirito» non impedisce l’identificazione con lo Spirito Santo,
non più che la sua assenza davanti alla parola «Figlio» (1,2; 7,28) impedisca
l’identificazione con l’unico Figlio di Dio, nominato altrove con l’articolo
(4,14; 10,29)34. La scelta dell’aggettivo «eterno» piuttosto che «santo» si
spiega con il desiderio che aveva l’autore di manifestare un rapporto tra la
forza che è stata attiva nell’offerta e il risultato ottenuto: occorreva l’inter-
vento dello «Spirito eterno» per pervenire ad una «redenzione eterna»
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È così che il Salmo 118 proclama «beati» quelli che sono «immacolati nel loro cam-
mino», vale a dire quelli la cui condotta è irreprensibile (Sal 118,1); il salmista esclama:
«Il mio cuore sia immacolato!» (Sal 118,80), il che mostra bene che non abbia in mente
semplicemente una purità rituale esteriore, ma una purità di coscienza.
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La parola greca pneuvma, «spirito», può effettivamente significare «disposizione
interiore»; Paolo invita parecchie volte i cristiani ad intervenire «in spirito di dolcezza»
(1Cor 4,21; Gal 6,1).
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In greco, l’assenza di articolo non significa necessariamente indeterminazione; può
servire a sottolineare l’idea espressa, come in italiano l’articolo indefinito.
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Una tradizione analoga riferiva che la dedicazione del tempio di Salomone avesse
avuto la stessa conclusione: «Appena Salomone ebbe finito di pregare, cadde dal cielo il fuoco,
che consumò l'olocausto e le altre vittime, mentre la gloria del Signore riempiva il tempio» (2Cr
7,1). Un precetto della legge ordinava di conservare con cura questo fuoco caduto dal
cielo e di non lasciarlo mai spegnere (cfr. Lv 6,5-6). Un racconto pittoresco del Secondo
Libro dei Maccabei racconta che, al momento della partenza in esilio, alcuni sacerdoti si
erano presi cura di nascondere il fuoco dell’altare in una specie di pozzo disseccato e che,
dopo il ritorno dall’esilio, i loro discendenti l’avevano ritrovato sotto forma di un liquido
grasso, che, sotto i raggi del sole, era ridiventato fuoco per bruciare gli animali immolati
(2Mac 1,18-36). Così era stata assicurata la continuità tra i sacrifici del post-esilio e quelli
prima dell’esilio.
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«La vita della carne è nel sangue. […] il sangue espia, in quanto è la vita» (Lv 17,11);
«Astieniti dal mangiare il sangue, perché il sangue è la vita; tu non devi mangiare la vita insieme
con la carne» (Dt 12,23).
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