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Ebrei e Lettere Cattoliche • AA 2020/21 Lettera agli Ebrei – 47

6.1 Culto antico, santuario e riti, inefficaci (9,1-10)

Cominciando questa sezione della sua esposizione centrale (8,1-9,28),


l’autore ne sottolinea l’importanza, dichiarando che essa costituisce il “punto
capitale” del suo discorso: «Il punto capitale delle cose che stiamo dicendo è
questo…» (8,1). Essa è d’importanza capitale perché riguarda la fase ascen-
dente della mediazione di Cristo, una fase decisiva per il successo della me-
diazione.
L’autore definisce il tema in due maniere, anzitutto riferendosi all’ultima
espressione della sezione precedente. In 7,28 ha detto che il giuramento di-
vino del Salmo 110 stabilisce sommo sacerdote «il Figlio, reso perfetto per
sempre»; in 8,1a dichiara «noi abbiamo un sommo sacerdote così grande…»,
vale a dire un sommo sacerdote che è un Figlio reso perfetto per l’eternità. Il
tema della sezione consisterà, dunque, nella spiegazione di quello che signi-
fica «essere reso perfetto» e diventare così sommo sacerdote.
A questa prima definizione del tema, l’autore ne aggiunge subito un’altra,
dicendo che il sommo sacerdote che abbiamo è un sommo sacerdote «che si
è assiso alla destra del trono della Maestà nei cieli, ministro del santuario e della
vera tenda, che il Signore, e non un uomo, ha costruito» (8,1b-2). Questa se-
conda definizione precisa la maniera in cui sarà spiegata l’espressione «essere
reso perfetto», una maniera che sarà differente dalle spiegazioni date finora.
Nelle parti precedenti, l’accesso di Cristo alla perfezione è stato descritto in
termini esistenziali: l’autore ha utilizzato l’espressione «rendere perfetto at-
traverso sofferenze» (2,10) e ha detto che Cristo «ha appreso mediante sof-
ferenze l’obbedienza» e così è stato «reso perfetto» (5,8-9). Nella sezione
presente, non abbandonerà completamente questo vocabolario; farà ancora
allusione alla «morte» di Cristo (9,15) e alle sue sofferenze (9,26), ma si
esprimerà soprattutto in termini cultuali, descrivendo l’accesso di Cristo alla
perfezione come un’attività liturgica, un’oblazione sacerdotale. Mostrerà,
cioè, che la Passione di Cristo ha costituito una vera offerta sacerdotale, di un
genere completamente nuovo.
Quindi, dando in questa frase al nostro sommo sacerdote il titolo di «mi-
nistro», (in greco: leitourgo\ß, da dove viene la parola “liturgia”), che desi-
gna una funzione attiva perché è imparentato al greco e¶rgon «opera», l’au-
tore annuncia uno sviluppo sull’azione liturgica che ha permesso a Cristo di
pervenire fino al trono celeste di Dio. Questa azione liturgica è stata già men-
zionata alla fine della sezione precedente, in una frase che prepara questa se-
zione, parlando di oblazione sacrificale: il sommo sacerdote che «ci conve-
niva» (7,26) «offrì se stesso» (7,27b). La sua azione liturgica è consistita in
un’oblazione personale, effettuata «una volta per tutte» (7,27). Che il titolo
di «ministro» in 8,2 si riferisca a questa offerta, se ne ha subito conferma
dalla frase di 8,3, in cui l’autore spiega l’uso di questo titolo: Cristo è chiamato
leitourgo\ß perché «ogni sommo sacerdote viene costituito per offrire doni e
sacrifici: di qui la necessità che anche Gesù abbia qualcosa da offrire» (8,3)24.
24
Nel caso di «ogni sommo sacerdote», il verbo «offrire» si trova al presente di ripe-
tizione; nel caso di Cristo, il verbo è all’aoristo, perché si tratta di un’offerta unica, fatta nel
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L’insieme della frase di 8,1-2 dà dunque ad intendere che Cristo è stato


«reso perfetto» per mezzo di un’oblazione sacrificale, della quale è stato il
celebrante e grazie alla quale è pervenuto fino a Dio e ha ottenuto di sedersi
alla sua destra. Questa oblazione è stata l’atto che ha costituito Cristo media-
tore tra gli uomini e Dio. Ha per coordinate «il santuario e la tenda vera, che
ha piantato il Signore, non un uomo» (8,2)25.
Le coordinate indicate in 8,2 – «santuario» e «tenda» – catturano l’at-
tenzione lungo tutta la sezione (8,1-9,28) e non si trovano più in seguito.
Hanno evidentemente una grande importanza per la questione della media-
zione, perché interessano la strada che bisogna prendere per pervenire a Dio.
L’opposizione espressa in 8,2 tra la tenda piantata dal Signore e una tenda
piantata da un uomo introduce un’esposizione divisa in due grandi paragrafi
antitetici, di cui il primo (8,3-9,10) descrive e critica il culto antico, caratte-
rizzato dalla «tenda» che preparò un uomo, «Mosè» (8,5), un «luogo
santo» che era «di questo mondo» (9,1); mentre il secondo grande para-
grafo (9,11-28) descrive e mette in evidenza l’offerta di Cristo, caratterizzata
dal suo rapporto con «una tenda più grande e più perfetta, non costruita da
mano d'uomo» (9,11) e dall’ingresso di Cristo «una volta per sempre nel san-
tuario» (9,12) e che «non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, fi-
gura di quello vero, ma nel cielo stesso» (9,24)26.
Il nostro autore descrive prima il luogo del culto (9,2-5), la «tenda dell’in-
contro» descritta nella legge di Mosè (Es 25-26), e ricorda che era eviden-
ziata una separazione all’interno stesso di questo luogo santo tra una parte
considerata come “santa” e un’altra considerata come “santissima”. Con que-
sta maniera d’esprimersi, l’autore accentua questa separazione, perché di
fatto parla di due tende distinte, «la prima, [...] chiamata il Santo» (9,2) e
«la tenda chiamata il Santo dei Santi» (9,3). Un po’ più avanti, dice: «la
prima tenda» (9,6) e «la seconda» (9,7). Alla distinzione dei luoghi corri-
sponde una distinzione delle persone abilitate a compiere i riti in questi luo-
ghi (9,6-7): queste persone sono «i sacerdoti» e «il sommo sacerdote»,

passato «una volta per tutte» (Eb 7,27; 9,14.25-26; 10,12). Bisogna dunque compren-
dere: «da qui c’era necessità...», e non: «da qui c’è necessità...». Eb 7,27 esclude esplici-
tamente, per il nostro sommo sacerdote, ogni necessità presente di offrire sacrifici.
25
Dal punto di vista retorico, l’espressione di 8,2 costituisce una nuova formulazione,
più dettagliata, della propositio enunciata in 5,9 e ripresa in 7,28 per mezzo di una sola
parola greca che significa «reso perfetto».
26
Una particolarità importante, che la formula di 8,2 non rivela, è che al tema del culto
l’autore unisce strettamente quello dell’alleanza, al centro di ciascuno dei due paragrafi. Si
ha quindi due volte la successione culto (a/a’), alleanza (b/b’), culto (a/a’) e la sezione si
compone di sei unità, che si corrispondono secondo uno schema concentrico:
a – 8,3-6: esclusione del culto antico, di livello terreno
b – 8,7-13: alleanza antica imperfetta, da sostituire con la nuova
a – 9,1-10: culto antico, santuario e riti inefficaci
a’ – 9,11-14: oblazione di Cristo, perfettamente efficace
b’ – 9,15-23: alleanza nuova, fondata sul sangue come l’antica
a’ – 9,24-28: culto di Cristo, livello celeste
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situati in cima ad una piramide di separazioni rituali27. Tutta la serie di sepa-


razioni rituali non era ancora sufficiente perché potesse stabilirsi la media-
zione, poiché malgrado tutte le cerimonie della sua consacrazione il sommo
sacerdote non poteva presentarsi davanti a Dio; continuava ad essere un
uomo terreno, «affetto di debolezza» (7,28), indegno e incapace di entrare
nella sfera divina. Era indispensabile un’ulteriore separazione, quindi. Per
realizzarla, il sommo sacerdote doveva scegliere una vittima senza imperfe-
zioni né difetti, che fosse immolata e che egli disponesse sull’altare. Consu-
mata dal fuoco sacro dell’altare, la vittima si trovava completamente separata
dal mondo terreno; trasformata in fumo, saliva verso Dio. Il sommo sacer-
dote poteva allora prendere il sangue di questa vittima e penetrare nel santo
dei santi, offrendo questo sangue «per se stesso e per quanto commesso dal po-
polo» (9,7b; cfr. 5,3; 7,27).
Il culto antico presentava così tutta una serie di consacrazioni sempre più
complete, effettuate per mezzo di separazioni rituali successive, il cui scopo
era quello di stabilire una mediazione tra il popolo e Dio. Si sperava che il
movimento ascendente delle separazioni portasse ad un’accoglienza presso
Dio, da cui sarebbe risultato un movimento discendente di favori divini ac-
cordati al popolo: perdono delle colpe commesse e fine delle sciagure, che ne
erano le conseguenze; indicazione delle vie di Dio, che conducono al suc-
cesso delle imprese; benedizioni divine, che assicurano la fecondità e la pro-
sperità.
Teoricamente perfetto, questo schema non aveva funzionato. L’alleanza
del Sinai era stata rotta (cfr. 8,9b; Ger 31,32). In 9,8-10, l’autore analizza le
ragioni di questo insuccesso del progetto di mediazione e le trova nel culto
stesso, che era incapace di assicurare la realizzazione di questo progetto.
Tutta l’organizzazione del culto antico era difettosa. In primo luogo, la strada
artificiosa per andare verso Dio era un vicolo cieco. Questa strada era «la
prima tenda», che, in teoria, doveva condurre alla dimora di Dio, al «santua-
rio». Ma la prima tenda era stata piantata da un uomo, Mosè; non poteva
dunque condurre che ad una seconda tenda, che era ugualmente un fabbri-
cato umano e non era veramente la dimora di Dio, perché «l’Altissimo non
abita nelle costruzioni umane» (cfr. At 7,48; 17,24)28.

27
Gli uomini ordinari non hanno la santità richiesta per il contatto con Dio. Tra tutte
le nazioni, un popolo particolare è messo a parte, è «consacrato», per essere «la parte
personale» di Dio (Dt 7,6; 14,2). Ciò nondimeno, esso non ha la santità sufficiente per
entrare nel santuario e avvicinarsi a Dio; se tentasse di farlo, l’annienterebbe il fuoco della
santità divina (Es 19,12; Nm 18,22). S’impone la necessità di una mediazione. La tribù di
Levi è messa a parte (Nm 3,4) e, in questa tribù, Aronne e i suoi figli, «sacerdoti consacrati
mediante l’unzione e investiti della funzione sacerdotale» (Nm 3,3). Sono poi distinti due
gradi di «santità» sacerdotale: ci sono, da una parte, i semplici sacerdoti e, dall’altra, il
sommo sacerdote, le cui attribuzioni sono differenti: «nella prima tenda entrano sempre i
sacerdoti per celebrare il culto; nella seconda invece entra solamente il sommo sacerdote, una
volta all'anno» (Eb 9,6-7a).
28
Conformemente a questa verità, l’autore si è ben guardato, nella sua descrizione del
luogo santo della prima alleanza (Eb 9,2-5), di fare la benché minima allusione ad una
presenza di Dio e, in particolare, si è guardato dal dire che l’arca dell’alleanza fosse il trono
di Dio, il quale siederebbe sui Cherubini (1Sam 4,4; Sal 80,2). Al momento preciso in cui
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L’autore non dice, come certi traduttori gli fanno dire: «La strada del san-
tuario non era ancora aperta», il che lascerebbe intendere che essa fosse co-
nosciuta, ma non ancora accessibile. Egli dice che questa strada non era stata
ancora «manifestata»; non la si conosceva (9,8). Si aveva una strada che era
un vicolo cieco e non si sapeva dove trovare la vera strada. La comunicazione
non poteva dunque essere stabilita. La mediazione non era effettiva.
Se i riti prescritti al sommo sacerdote lo avessero messo sulla buona strada,
il suo sacrificio sarebbe stato gradito a Dio; egli stesso sarebbe stato accolto
nel vero santuario presso Dio e avrebbe così tracciato il cammino della me-
diazione, che sarebbe diventato, allo stesso tempo, accessibile al popolo. Così
le proibizioni antiche sarebbero state abolite. Di fatto, niente di tutto ciò si
realizzava e il culto antico manteneva continuamente le sue barriere. Dopo la
liturgia della grande Espiazione, esattamente come prima di essa, i divieti ri-
manevano in vigore: il popolo non poteva entrare nel santo dei santi e nean-
che i sacerdoti erano autorizzati a farlo. Per di più, lo stesso sommo sacerdote
doveva attendere un anno intero per poter compiere di nuovo i riti. Era dun-
que evidente che la comunicazione non fosse stata stabilita.
Qual era la ragione di questa impossibilità di comunicazione? L’autore la
scopre nell’insufficienza dei mezzi che erano utilizzati per superare la di-
stanza tra gli uomini e Dio. A questo riguardo, osserva che, nel culto antico,
«vengono offerti doni e sacrifici che non possono rendere perfetto, nella sua co-
scienza, colui che offre» (9,9). È significativa questa frase, in cui torna il tema
dell’acquisizione della perfezione. Esprime un punto di vista inatteso sulla fi-
nalità dei sacrifici e sul loro ruolo per stabilire una mediazione. Spontanea-
mente, si concepiscono i sacrifici come regali offerti a Dio allo scopo d’in-
fluire sulle sue disposizioni e renderlo favorevole nei confronti del popolo29.
Il nostro autore prende il punto di vista inverso. Lo scopo dei sacrifici –
secondo lui – dev’essere di cambiare le disposizioni degli uomini e non quelle
di Dio. Il sacrificio dovrebbe trasformare chi lo offre, «renderlo perfetto»,
così da metterlo in grado di avanzare verso Dio e di essergli gradito. È a questa
condizione che il sacrificio può servire effettivamente a stabilire una media-
zione tra gli uomini e Dio, facendo del sacerdote un mediatore autentico. La
trasformazione necessaria non può evidentemente limitarsi ad un livello su-
perficiale, esteriore, rituale; bisogna che sia profonda, interiore, personale,

ci si attenderebbe che lo dicesse, egli interrompe la sua descrizione, dichiarando: «Di que-
ste cose non è necessario ora parlare nei particolari» (Eb 9,5). Tiene a marcare bene le di-
stanze. Secondo lui, le prescrizioni della legge che concernono il culto, prescrizioni che
fanno parte della Scrittura ispirata dallo Spirito Santo, manifestano l’impotenza del culto
antico: «Lo Spirito Santo intendeva così mostrare che non era stata ancora manifestata la via
del santuario, finché restava la prima tenda» (Eb 9,8).
29
Questo modo di vedere si esprime spesso nell’AT, a cominciare dal racconto del sa-
crificio di Noè. Dopo il diluvio, Noè, uscito dall’arca, elevò un altare per il Signore. Prese
ogni sorta di animali puri, ogni sorta di uccelli puri e offrì olocausti sull’altare. Il Signore
respirò il profumo calmante e disse a se stesso: «Non maledirò mai più il suolo a causa
dell’uomo» (cfr. Gn 8,20-21). Si offrono sacrifici per “calmare” Dio, quando lo hanno
irritato i peccati. L’espressione «profumo calmante» ritorna più volte a questo riguardo
(Lv 1,9.13.17; ecc.) e la si trova anche nel NT e nella liturgia cristiana, per qualificare il
sacrificio di Cristo (Ef 5,2) o la generosità dei cristiani (Ef 4,18).
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perché «gli uomini vedono l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1Sam


16,7). Si tratta dunque di essere resi perfetti «nella propria coscienza» (9,9).
I sacrifici del culto antico non corrispondevano per nulla a questa esigenza.
In 9,9 l’autore lo dichiara in modo chiaro. La frase seguente rende conto di
questa dichiarazione; dice che «si tratta soltanto di cibi, di bevande e di varie
abluzioni, tutte prescrizioni carnali» (9,10).
I sacrifici antichi costituivano il vertice di una specie di piramide di sepa-
razioni rituali, ma non erano essi stessi che «riti di carne», cioè riti che non
raggiungevano che l’esteriorità della persona umana ed erano incapaci di
operare una trasformazione profonda, indispensabile per i rapporti con Dio.
Si offrivano animali immolati, offerte radicalmente esteriori al sacerdote.
Non si poteva fare altrimenti, perché il sacerdote era indegno e incapace di
offrire se stesso a Dio; indegno, perché peccatore come i suoi fratelli in uma-
nità; dovendo offrire per se stesso, non poteva offrire se stesso.
Così, al posto di una situazione di comunicazione e di mediazione, il culto
antico presenta una situazione di persistente separazione: il popolo resta se-
parato dal sacerdote; il sacerdote, separato dalla vittima; la vittima, separata
da Dio. Il culto antico esprime, sicuramente, una forte aspirazione religiosa,
degna di rispetto, ma il suo valore di mediazione non è effettivo; è solamente
figurativo. Per questa ragione, il culto antico non poteva costituire una situa-
zione definitiva. Essendo insoddisfacente, era provvisorio; si trattava sola-
mente di «cibi, di bevande e di varie abluzioni, tutte prescrizioni carnali, valide
fino al tempo in cui sarebbero state riformate (lett.: fino al tempo del raddrizza- 6.2 Oblazione di
mento, me÷cri kairouv diorqw¿sewß)» (9,10). Cristo, perfettamente
Il “tempo del raddrizzamento” è, più precisamente, il tempo dell’oblazione efficace (9,11-14)
di Cristo, grazie alla quale la natura umana, in Cristo, è stata “raddrizzata”,
«resa perfetta», ed è diventata uno strumento perfetto di mediazione. Per
parlare di quest’oblazione, l’autore usa due generi di espressioni, che corri-
spondono alla doppia prospettiva di valutazione che ha dato del culto antico
nelle frasi precedenti (9,8-10). La prima prospettiva è spaziale e s’ispira allo
spostamento effettuato dal sommo sacerdote nella liturgia della grande
Espiazione: egli attraversava la prima tenda allo scopo di entrare nel santua-
rio. L’impresa di mediazione è così rappresentata da un movimento che va
dagli uomini a Dio. L’altra prospettiva è meno eloquente, ma più importante,
e considera l’azione di “offrire”. Il testo fa comprendere che è l’azione di of-
frire che condiziona la possibilità del movimento verso Dio.
La prima frase descrive dunque il movimento della mediazione di Cristo e
indica i mezzi che gli hanno assicurato l’accesso al santuario. La frase, accu-
ratamente strutturata, insiste sui mezzi: «Cristo, invece, è venuto come sommo
sacerdote dei beni futuri, attraverso (διὰ) una tenda più grande e più perfetta,
non costruita da mano d'uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli
entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante (διὰ) il sangue di capri e
di vitelli, ma in virtù del (διὰ) proprio sangue, ottenendo così una redenzione
eterna» (9,11-12).
All’inizio, l’autore mette il nome di Cristo e il suo titolo di sommo sacer-
dote, precisato dai beni che porta; alla fine, l’azione mediatrice decisiva, l’in-
gresso nel santuario, con il suo risultato di redenzione. Ai «beni futuri»,
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dell’inizio (i beni escatologici), corrisponde la «redenzione eterna» della


fine. Al centro della frase, introdotti dalla preposizione «attraverso» (διὰ),
ripetuta volutamente tre volte, si trovano i mezzi che sono serviti a Cristo per
la sua impresa di mediazione: «la tenda» e «il sangue». Questi mezzi sono
definiti con cura, mentre «il santuario» è nominato senz’altra precisazione30.
In 9,11-12, tutta l’attenzione è data alla «tenda» e al «sangue». A queste
realtà sono date parecchie qualificazioni, positive e poi negative per «la
tenda», negative e poi positive per «il sangue». Primo mezzo designato, «la
tenda» ha certamente un’importanza di prim’ordine per stabilire la media-
zione. Ma la sua identificazione precisa non è facile da definire; i commenta-
tori propongono interpretazioni molto divergenti. Noi soffermiamoci sul se-
condo mezzo, il sangue.

6.2 Oblazione di Cristo, perfettamente efficace (9,11-14)


Nel paragrafo sul culto antico (9,1-10), l’autore ha ricordato che era ne-
cessario del sangue per l’opera di mediazione del sommo sacerdote. L’in-
gresso di costui nella seconda tenda, un’unica volta all’anno, era possibile
solo con del sangue «che egli offre per se stesso e per quanto commesso dal po-
polo» (9,7). Nella liturgia di Cristo, è stata rispettata un’esigenza analoga, ma
con una differenza radicale. Tra la liturgia di Cristo e il culto antico i rapporti
sono ad un tempo di somiglianza, di differenza e di superiorità. Di somi-
glianza e continuità, perché, da un lato come dall’altro, è stato usato sangue;
di differenza, perché, nel caso di Cristo, non è più «sangue di capri e di vi-
telli»; di superiorità, perché si tratta del sangue di un essere umano, cosciente
e libero. Esiste un’altra differenza, implicitamente indicata dal cambio
dell’espressione. Nel caso del sommo sacerdote, è detto che egli «offre» il
sangue, lo porta con sé in un vaso e con questo sangue effettua un rito litur-
gico. Nel caso di Cristo, l’autore non dice che egli ha offerto il suo sangue, ma
che, «attraverso il proprio sangue», è entrato nel santuario. Ci si sbaglie-
rebbe immaginando qui che Cristo abbia compiuto nel cielo un rito liturgico
con il proprio sangue. Evidentemente bisogna comprendere l’espressione
come una metafora, intendendo il sangue come una morte violenta. «Attra-
verso il proprio sangue» vuol dire «servendosi della propria morte violenta»
e, più precisamente, «trasformando la propria morte violenta in mezzo di
unione definitiva con Dio» (cfr. 2,17-18; 4,15; 5,7-8). Al posto di un rito
esteriore effettuato con sangue di bestie, l’atto di mediazione di Cristo è stato
un’oblazione personale ed esistenziale, una trasformazione radicale di un av-
venimento di rottura in strumento di comunione e, attraverso ciò, di reden-
zione31.
30
Sarà definito più avanti, in 9,24. Si saprà allora che si tratta del vero santuario, «il
cielo stesso».
31
La parola «sangue» presentava per l’autore il vantaggio di essere suscettibile di pa-
recchi significati metaforici e di permettere, in particolare, il passaggio dalla sfera cultuale
alla realtà esistenziale. In effetti, quando si parla di sangue versato, si può trattare di un rito
liturgico o di una sanzione penale giuridica, o ancora di un crimine o infine di un’azione
generosa. Nel caso di Cristo, si è trattato, in teoria, di una sanzione penale giuridica: Cristo
«sopportò la croce» (12,2), una pena legale inflitta ai malfattori. In realtà, questa
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La crocifissione di Gesù, dunque, non ha avuto alcun rapporto apparente


con una celebrazione liturgica. Tuttavia, il nostro autore ha l’audacia di par-
lare di «liturgia» (8,6) a proposito di questo avvenimento tragico e di appli-
cargli termini basati sulla liturgia antica. La ragione di questa audacia è sem-
plice: l’autore è andato al di là delle apparenze ed ha riconosciuto che questo
avvenimento aveva compiuto pienamente ciò che i riti antichi si sforzavano
invano di realizzare e potevano solamente figurare: l’ingresso del sommo sa-
cerdote nel vero santuario; cioè, l’elevazione della natura umana di Cristo
fino all’intimità celeste di Dio (cfr. 9,24).
Ma l’autore non si ferma qui. Aggiunge, alla fine della frase, la menzione di
un altro risultato: nello stesso tempo, Cristo ha «trovato una redenzione
eterna» (9,12). Questa menzione ci fa passare dalla fase ascendente alla fase
discendente dell’atto di mediazione, perché la «redenzione eterna» è un’al-
tra maniera di designare la «salvezza eterna» (5,9) procurata da Cristo. La
fase discendente sarà il soggetto di un’altra sezione (10,1-18), la terza ed ul-
tima di questa lunga parte. È significativo che l’autore non abbia atteso di es-
serci arrivato per menzionarne il tema. Mostra così che non si può separare
la fase discendente dalla fase ascendente. Non si possono distinguere due
momenti successivi, il primo dei quali sarebbe quello della consacrazione sa-
cerdotale di Cristo, per mezzo del suo sacrificio, che lo ha «reso perfetto» e
lo ha introdotto presso Dio, mentre il secondo momento sarebbe quello dei
sacrifici ulteriori di Cristo per salvare i suoi fratelli. Nel caso del sommo sa-
cerdote levitico, esisteva questa distinzione. I sacrifici della sua consacrazione
sacerdotale, che riguardavano solo lui, mettevano il sommo sacerdote in
grado di offrire in seguito altri sacrifici a favore del popolo. Ma nel caso di
Cristo, il sacrificio della sua consacrazione sacerdotale è allo stesso tempo sa-
crificio di redenzione, efficace per tutti i credenti, una volta per tutte. Si vede
qui a che punto il sacrificio di Cristo è in se stesso mediatore.
L’unione delle fasi ascendente e discendente si manifesta di nuovo – e più
chiaramente ancora – nei due versetti seguenti (9,13-14). Questi conten-
gono una definizione dottrinale molto densa del sacrificio di Cristo, come
offerta personale, spirituale, perfetta, ma si servono di questa definizione per
dimostrare l’efficacia del sangue di Cristo a favore dei credenti. L’autore uti-
lizza un argomento a fortiori, che prende per base l’efficacia relativa che si può
riconoscere ai riti antichi. Questi procuravano una certa «santificazione»,
non interiore, ma – dice l’autore – limitata alla «purezza della carne», nel

sanzione legale era un crimine, perpetrato dai «peccatori» (12,3), perché Cristo era
«santo, innocente, immacolato» (7,26) e non meritava quindi alcuna pena legale. Ciò
nondimeno, gli si è fatta subire la pena peggiore di tutte, il che era un’azione criminale. Ma
questa azione criminale. Cristo l’ha trasformata in occasione per compiere l’azione più
generosa, un’azione mediatrice, che ha ristabilito la piena comunione tra gli uomini e Dio.
Esteriormente, l’avvenimento non aveva nulla di un rito liturgico. Un’azione criminale, in
effetti, è proprio il contrario di una liturgia. Lo stesso vale per una sanzione penale, benché
per altre ragioni. Nell’azione criminale, ben lungi dal rendere culto a Dio, l’uomo offende
il suo creatore. Quanto alla sanzione penale, essa esclude radicalmente il criminale dalla
sfera del sacro; è un’«esecrazione» nel senso etimologico del termine, vale a dire l’inverso
di una consacrazione.
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senso che essi comunicavano la purezza rituale richiesta per prendere parte
al culto antico (9,13). L’autore ammette dunque che «il sangue dei capri e dei
vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santifi-
cano purificandoli nella carne» (9,13). E aggiunge: «quanto più il sangue di
Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio –
purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vi-
vente» (9,14). Ricchissima di contenuto dottrinale, questa frase descrive
l’oblazione di Cristo, opponendola implicitamente ai sacrifici antichi. Questi
erano esteriori rispetto alla persona del sacerdote; Cristo, invece, «offrì se
stesso». Quelli non erano che «riti di carne», mentre l’oblazione di Cristo si
è realizzata sotto l’azione dello «Spirito eterno». Quelli non potevano co-
municare che «la purità della carne», mentre il sangue di Cristo purifica le
coscienze e rende atti ad una relazione autentica con il Dio vivente.
«Cristo [...] offrì se stesso». Questa espressione è in rapporto antitetico con
la formula «offrire doni e sacrifici», caratteristica del paragrafo precedente,
in cui essa inquadra la descrizione del culto antico (8,3; 9,9). Un’unica offerta
personale efficace ha sostituito le offerte esteriori indefinitamente ripetute e
inefficaci. L’affermazione dell’autore fa la sintesi di due dati della catechesi
del NT: la presentazione di Cristo come vittima sacrificale e l’aspetto di dono
volontario da parte sua. L’apostolo Paolo presenta Cristo come vittima sacri-
ficale, quando proclama: «Cristo, nostra pasqua, è stato immolato» (1Cor
5,7). Si accorda in questo con il quarto Vangelo che chiama Gesù «l’agnello
di Dio» (Gv 1,29.36) e suggerisce un rapporto tra la condanna di Gesù e la
«preparazione della Pasqua» (Gv 19,14-16). La Prima Lettera di Pietro
compara Cristo ad «un agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,19) e
l’Apocalisse presenta Cristo glorificato con l’immagine di un «un Agnello, in
piedi, come immolato» (Ap 5,6). In tutti questi testi, è l’aspetto passivo della
situazione di Cristo che è espresso.
Altri testi mostrano che Cristo non è restato passivo, ma che è andato da
se stesso verso la sua Passione. A questo riguardo, la dichiarazione più chiara
si trova nel quarto Vangelo, sulle labbra di Gesù stesso: «Nessuno me la toglie:
io la do da me stesso» (Gv 10,18). I racconti evangelici indicano parecchi
modi in cui Gesù ha affrontato volontariamente la sua Passione. L’istituzione
dell’Eucaristia ne è una chiara attestazione: Gesù ha donato il suo «sangue
versato». Poi, quando si è giunti ad arrestarlo nell’orto degli Ulivi, ha impe-
dito ai suoi discepoli di opporsi al suo arresto (cfr. Mt 26,50-54 e paralleli).
Paolo può dunque affermare che Cristo «ha dato se stesso per i nostri peccati»
(Gal 1,4) e che «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20).
Nella sintesi che opera, l’autore passa dal vocabolario esistenziale («de-
porre la propria vita», «darsi», «consegnarsi») al vocabolario liturgico (of-
frire a Dio una vittima immacolata), il che mette in evidenza l’aspetto reli-
gioso dell’avvenimento. Ma l’espressione completa dell’autore («offrire se
stesso a Dio») non s’incontra mai nel rituale antico. Era impensabile – come
abbiamo detto –, perché il sacerdote non era né degno né capace di offrire se
stesso. Essa costituisce una novità inaudita. Nella sua offerta, Cristo è allo
stesso tempo colui che offre e colui che è offerto, il sacerdote e la vittima. Da
Ebrei e Lettere Cattoliche • AA 2020/21 Lettera agli Ebrei – 55

parte sua, questa novità è stata possibile perché egli era una vittima degna di
Dio e un sacerdote capace di far salire questa vittima fino a Dio.
Per qualificare Cristo come vittima, l’autore utilizza un aggettivo che si ap-
plica, nella legge di Mosè, alle vittime delle immolazioni rituali. Per i sacrifici,
bisognava scegliere bestie «immacolate», senza macchie né difetti. Questo
aggettivo è ripetuto più di quaranta volte nelle prescrizioni rituali della legge
di Mosè (Es 29,1.38; Lv 1,3.10; 3,1.6.9; ecc.). Trattandosi di animali, la pa-
rola significava semplicemente l’assenza di qualsiasi difetto fisico. Il profeta
Malachia critica aspramente i sacerdoti che presentavano in sacrificio «una
bestia cieca», «una zoppa e una malata» (Ml 1,8.13-14). Applicata a Cristo,
la parola prende evidentemente un senso più profondo, quello che ha nei
Salmi, quando si applica a persone. Si tratta allora dell’assenza di qualsiasi
colpa morale, di qualsiasi complicità con il male32. Cristo aveva questa purità
perfetta; egli poteva dire: «Chi di voi può dimostrare che ho peccato?» (Gv
8,46). Per questa ragione, non ha avuto bisogno di andare a cercare in un
gregge una bestia senza imperfezione per offrirla sull’altare del tempio. Po-
teva offrire se stesso a Dio con la certezza di essere gradito.
Vittima degna di essere gradita, Cristo era allo stesso tempo sacerdote ca-
pace di realizzare la trasformazione sacrificale, necessaria perché la vittima sia
santificata e unita a Dio. La sua capacità gli veniva dalla presenza in lui dello
«Spirito eterno»; infatti, «mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza mac-
chia a Dio» (9,14). L’espressione è unica in tutta la Bibbia e questo fa sì che
la sua interpretazione si presti a discussione. Si è proposto d’intendere per
«Spirito eterno» una disposizione della persona di Cristo33. Ma il senso di
«disposizione» si accorda male con l’aggettivo qualificativo usato dall’au-
tore, «eterno». Qualche altro commentatore ritiene che «Spirito eterno»
designi la natura divina di Cristo. Ma l’interpretazione più plausibile è quella
dei Padri greci, che hanno visto nell’espressione «Spirito eterno» un altro
modo di designare lo Spirito Santo. D’altronde, il testo greco comporta una
variante, che sostituisce «eterno» con «Santo». L’assenza d’articolo davanti
alla parola «Spirito» non impedisce l’identificazione con lo Spirito Santo,
non più che la sua assenza davanti alla parola «Figlio» (1,2; 7,28) impedisca
l’identificazione con l’unico Figlio di Dio, nominato altrove con l’articolo
(4,14; 10,29)34. La scelta dell’aggettivo «eterno» piuttosto che «santo» si
spiega con il desiderio che aveva l’autore di manifestare un rapporto tra la
forza che è stata attiva nell’offerta e il risultato ottenuto: occorreva l’inter-
vento dello «Spirito eterno» per pervenire ad una «redenzione eterna»

32
È così che il Salmo 118 proclama «beati» quelli che sono «immacolati nel loro cam-
mino», vale a dire quelli la cui condotta è irreprensibile (Sal 118,1); il salmista esclama:
«Il mio cuore sia immacolato!» (Sal 118,80), il che mostra bene che non abbia in mente
semplicemente una purità rituale esteriore, ma una purità di coscienza.
33
La parola greca pneuvma, «spirito», può effettivamente significare «disposizione
interiore»; Paolo invita parecchie volte i cristiani ad intervenire «in spirito di dolcezza»
(1Cor 4,21; Gal 6,1).
34
In greco, l’assenza di articolo non significa necessariamente indeterminazione; può
servire a sottolineare l’idea espressa, come in italiano l’articolo indefinito.
56 – Lettera agli Ebrei Ebrei e Lettere Cattoliche • AA 2020/21

(9,12) e al dono di una «eredità eterna» (9,15), fondata su un’«alleanza


eterna» (13,20).
Cristo è stato un sacerdote capace, perché aveva in lui lo Spirito Santo, che
gli ha comunicato, per così dire, la forza ascensionale necessaria per elevare
la natura umana fino a Dio. Questa forza non è di ordine materiale; non si
tratta di un viaggio nello spazio. Il culto antico pensava di avere a sua dispo-
sizione, per l’offerta dei sacrifici, una forza divina nel fuoco che bruciava
sull’altare degli olocausti. Una tradizione biblica affermava, in effetti, che
questo fuoco non fosse una produzione umana, ma un fuoco uscito dalla pre-
senza del Signore, venuto sull’altare a consumare gli olocausti alla conclu-
sione delle cerimonie della consacrazione sacerdotale del primo sommo sa-
cerdote (cfr. Lv 9,24). Questa e altre tradizioni simili35 manifestavano un’in-
tuizione profonda – e sempre valida – sulla natura dei sacrifici. Troppo
spesso, si concepisce il sacrificio come un’impresa umana. Gli Israeliti ave-
vano compreso che è un’impresa che andava oltre l’elemento umano. Nessun
uomo è capace di realizzare soltanto con le proprie forze un sacrificio, perché
“sacrificare” è “rendere sacro” e Dio solo può rendere sacra un’offerta comu-
nicandogli la sua santità. L’uomo è capace di presentare un’offerta, ma è il
fuoco della santità divina che fa passare questa offerta nella dimensione del
sacro.
Perfettamente valida, l’intuizione dell’AT restava tuttavia a metà strada,
perché concepiva il fuoco divino in maniera materiale. Dato che la folgore era
caduta sull’altare e vi aveva bruciato le bestie immolate, i sacerdoti israeliti
pensavano di avere il fuoco del cielo a loro disposizione. L’autore della Let-
tera agli Ebrei comprese che il vero fuoco del cielo è un fuoco spirituale, il
fuoco dello Spirito Santo, il solo capace di realizzare la vera trasformazione
sacrificale, che raggiunge l’essere umano nel più profondo di se stesso e lo
prende tutto intero, corpo e anima, impregnandolo di santità divina e unen-
dolo a Dio.
Nel caso di Cristo, in che modo si è realizzata la trasformazione sacrificale
sotto l’azione dello Spirito Santo? La frase di 9,14 non lo spiega; ma non è
necessario, perché la spiegazione è già stata data nella parte precedente, in
5,7-8. Là, l’autore ha mostrato come Cristo abbia affrontato la situazione
drammatica in cui i suoi nemici lo avevano messo. Si è aperto all’azione dello
Spirito Santo offrendo «preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime a Dio che
poteva salvarlo da morte» (5,7) e, nello stesso tempo, mediante una

35
Una tradizione analoga riferiva che la dedicazione del tempio di Salomone avesse
avuto la stessa conclusione: «Appena Salomone ebbe finito di pregare, cadde dal cielo il fuoco,
che consumò l'olocausto e le altre vittime, mentre la gloria del Signore riempiva il tempio» (2Cr
7,1). Un precetto della legge ordinava di conservare con cura questo fuoco caduto dal
cielo e di non lasciarlo mai spegnere (cfr. Lv 6,5-6). Un racconto pittoresco del Secondo
Libro dei Maccabei racconta che, al momento della partenza in esilio, alcuni sacerdoti si
erano presi cura di nascondere il fuoco dell’altare in una specie di pozzo disseccato e che,
dopo il ritorno dall’esilio, i loro discendenti l’avevano ritrovato sotto forma di un liquido
grasso, che, sotto i raggi del sole, era ridiventato fuoco per bruciare gli animali immolati
(2Mac 1,18-36). Così era stata assicurata la continuità tra i sacrifici del post-esilio e quelli
prima dell’esilio.
Ebrei e Lettere Cattoliche • AA 2020/21 Lettera agli Ebrei – 57

disposizione di «pieno abbandono» verso Dio (5,7). È in questa maniera che


offri se stesso a Dio (9,14). L’azione dello Spirito Santo si esercitò su di lui in
due maniere strettamente collegate tra loro: ispirando in lui un’adesione per-
fetta alla volontà santa di Dio e una completa solidarietà con i suoi fratelli.
Cristo «imparò l'obbedienza da ciò che patì» (5,8) e si rese «in tutto simile ai
fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso» (2,17). In queste due
disposizioni, si può riconoscere le due dimensioni della carità: amore per
Dio, amore per il prossimo, di modo che si possa concludere che Cristo è
stato un sommo sacerdote capace, perché era riempito della forza dello Spi-
rito Santo, una forza d’amore generoso.
Una tale oblazione è un atto efficace di mediazione, di cui l’autore esprime
subito il duplice aspetto, negativo e positivo. L’aspetto negativo consiste
nell’eliminazione degli ostacoli; l’aspetto positivo, nell’istituzione della rela-
zione con Dio. Nell’AT era il sangue che assicurava il valore dell’oblazione,
perché era considerato come sacro, per il fatto che conteneva il principio vi-
tale (in ebraico: nefesh)36. Nel caso di Cristo, il rapporto è capovolto: non è
più il sangue che dona valore all’oblazione, ma è l’oblazione che dona valore
al sangue, perché è aperta all’azione dello Spirito Santo. Da una sacralità fi-
siologica si passa così ad una sacralità spirituale incarnata. L’analogia della
respirazione è qui chiarificante. L’essere umano aspira l’aria per far entrare
l’ossigeno nel suo sangue e così mantenersi in vita. Mediante la sua preghiera
intensa e la sua docilità nella sofferenza, Cristo ha aspirato lo Spirito Santo e
ne ha riempito il suo sangue, che è così diventato capace di comunicare alle
coscienze dei credenti una forza purificante e vivificante. È in questa maniera
che si realizza in profondità la sua mediazione.
Per parlare delle colpe commesse l’autore dice «le opere morte»,
un’espressione doppiamente suggestiva. Da una parte, fa allusione alla puri-
ficazione rituale praticata nell’AT dove bisognava purificarsi da ogni contatto
con la morte (cfr. Nm 19,16-22), perché un tale contatto rendeva la persona
indegna di partecipare al culto antico. L’autore ha precisato, all’inizio della
sua frase, che la purità ottenuta nell’AT era una «purità della carne» (9,13),
una purità esteriore che eliminava le macchie esterne. Il sangue di Cristo, in-
vece, comunica una purità interiore, alla «coscienza» e non semplicemente
alla «carne»: egli elimina dalla coscienza le macchie interne provocate da
«opere morte», vale a dire da atti colpevoli.
D’altra parte, l’espressione «opere morte» manifesta meglio di altri ter-
mini l’incompatibilità che esiste tra il peccato e «il Dio vivente». Le persone
che hanno la coscienza carica di «opere morte» sono evidentemente inde-
gne di «rendere un culto al Dio vivente». Per questo culto, la purificazione
portata mediante il sangue di Cristo è indispensabile ed è perfettamente effi-
cace, perché è accompagnata da una santificazione positiva. Il sangue di Cri-
sto mette in rapporto intimo con la santità di Dio (cfr. 13,12). Con il suo

36
«La vita della carne è nel sangue. […] il sangue espia, in quanto è la vita» (Lv 17,11);
«Astieniti dal mangiare il sangue, perché il sangue è la vita; tu non devi mangiare la vita insieme
con la carne» (Dt 12,23).
58 – Lettera agli Ebrei Ebrei e Lettere Cattoliche • AA 2020/21

sangue versato, Cristo realizza la mediazione. L’autore può dunque conti-


nuare dicendo: «Per questo egli è mediatore di un'alleanza nuova [...]» (9,15).
Presentando il mistero pasquale di Cristo come una liturgia, l’autore ha
messo in grande evidenza il suo valore di mediazione religiosa, espressa per
mezzo di categorie cultuali dell’AT; ma, allo stesso tempo, ha rinnovato radi-
calmente il modo di concepire un sacrificio. Il culto antico era rituale, este-
riore, convenzionale. Lo era necessariamente, perché i sacerdoti, essendo
peccatori, erano incapaci di realizzare un vero atto di mediazione tra il popolo
e Dio; non potevano darne che una figurazione inefficace. Cristo ha rimpiaz-
zato questo culto figurativo con la realtà esistenziale della sua offerta perso-
nale, che ha messo le sue sofferenze e la sua morte sotto l’impulso dello Spi-
rito e ha introdotto così la sua umanità trasformata, «resa perfetta», nell’in-
timità celeste di Dio. Essendo un atto di estrema solidarietà con gli uomini,
questa offerta ha aperto loro, allo stesso tempo, la via di una simile trasforma-
zione ed elevazione. Ha stabilito una mediazione perfetta.

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