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Con questa definizione, la legge intende affermare sostanzialmente che il rapporto individuale di
lavoro ha natura contrattuale, in cui vi è lo scambio tra retribuzione e prestazione lavorativa
(intellettuale o manuale).
Imputazione dei rischi: l’imputazione di questi 2 rischi varia a seconda che si abbia locatio operis
o locatio operatum:
Impossibilità (mancanza) del lavoro: è sempre a carico del lavoratore, sia nella locatio
operis che nella locatio operatum. Ciò significa che il debitore (lavoratore
autonomo/subordinato) è esonerato dall’obbligo di eseguire la prestazione divenuta
impossibile, ma di contro non avrà diritto alla controprestazione (cioè alla retribuzione).
A tutela del lavoratore, l’OG fa evitare tale perdita nei casi previsti dalla legge (malattia,
infortunio e simili).
Rischio del lavoro: essendo collegato alla variabilità economica della prestazione lavorativa
e all’incertezza del risultato, tale rischio è ripartito diversamente a seconda che vi sia:
Lavoro autonomo: il rischio è a carico esclusivo del lavoratore autonomo,
qualunque sia il risultato finale dell’opera.
Lavoro subordinato: il rischio è a carico del datore o dell’imprenditore, poiché il
lavoratore subordinato si obbliga a prestare le proprie energie lavorative presso di
lui, sopportando il solo rischio di mancanza del lavoro.
“Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con
lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del
committente, si applicano le norme di questo capo [...]” (art. 2222 cc)
Il legislatore rimarca, per il contratto d’opera, l’assenza del vincolo di subordinazione, che è
invece presente nel rapporto di lavoro subordinato.
Ed è proprio l’assenza del vincolo di subordinazione l’elemento distintivo tra le 2 fattispecie.
Infatti, sia per il lavoro subordinato che per quello autonomo l’oggetto dell’obbligazione è il
lavoro, inteso come prestazione di facere (attività personale economicamente utile); ma se nel lavoro
autonomo questo facere è finalizzato al compimento di un’opera/servizio con l’attività
prevalentemente personale dello stesso lavoratore, viceversa nel lavoro subordinato il facere è
finalizzato alla collaborazione, per cui il lavoratore metterà a disposizione le proprie energie
lavorative a disposizione del proprio datore e della sua organizzazione
(lavoro autonomo→ il sarto artigiano a cui viene commissionato un abito si obbliga a confezionarlo per un prezzo da
corrispondersi al compimento dell’opera;
lavoro subordinato→ un sarto che lavora in sartoria a cui viene commissionato un abito verrà retribuito in base alle energie
lavorative prestate nella sartoria, ossia in base al tempo per eseguire tale attività).
A differenza del lavoratore subordinato, il quale è obbligato ad eseguire la propria attività alle
dipendenze del datore, il lavoratore autonomo può si essere vincolato alle direttive, ma non può
essere alle dipendenze del committente.
L’elemento oggettivo del contratto di lavoro subordinato è invece dato dalla collaborazione, il
che sottolinea l’importanza dell’aspettativa del creditore (datore) al risultato della prestazione e,
quindi, del suo interesse a coordinare ed organizzare l’attività lavorativa del debitore (prestatore). Ciò
è ulteriormente messo in evidenza anche dal fatto che il rischio del lavoro (alea dell’area tecnico-
economica della prestazione e che riguarda quindi l’organizzazione del lavoro) è a carico del datore di lavoro.
Si può quindi affermare che non tanto la subordinazione, quanto la collaborazione (intesa come
cooperazione del prestatore all’adempimento della prestazione lavorativa, conformata all’organizzazione
produttiva del datore) è lo scopo tipico, e quindi la causa, del contratto di lavoro subordinato.
Indici empirici: tuttavia, questi criteri non risultano sufficienti a qualificare il rapporto di lavoro
come subordinato o autonomo, per cui la giurisprudenza ricorre ad altri criteri o indici empirici. In
particolare, al fine di distinguere tra le fattispecie di lavoro autonomo e subordinato, risulta
fondamentale:
1. Assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del
datore di lavoro: si concretizza nell’emanazione, da parte del datore di lavoro, di ordini
specifici, nel controllo e nella vigilanza sull’esecuzione della prestazione del lavoratore.
Da tale assoggettamento derivano:
o Inserimento nell’organizzazione aziendale del lavoratore.
o Limitazione dell’autonomia/libertà di quest’ultimo nello svolgimento delle
mansioni.
In via sussidiaria, poi, vi sono:
2. Assenza di rischio.
3. Continuità della prestazione.
4. Osservanza della prestazione.
5. Osservanza di un orario lavorativo.
6. Cadenza e misura fissa della retribuzione.
COLLABORAZIONE E PARASUBORDINAZIONE
Per poter stabilire se un rapporto di lavoro sia autonomo o subordinato, occorre verificare se
sussista il requisito della continuità, ossia la durata nel tempo del vincolo di disponibilità
funzionale del lavoratore all’impresa.
Collaborazione: l’inserzione del lavoratore nell’organizzazione produttiva dell’impresa è un
sicuro indice presuntivo della sussistenza del requisito di collaborazione (come anche osservanza
dell’orario di lavoro; obbedienza alle direttive impartite dall’imprenditore per l’esecuzione dell’attività).
Tuttavia, tale presunzione non è assoluta, poiché ciò vorrebbe dire che ogni prestazione di lavoro
resa ad un’impresa o ad un organizzazione di lavoro assimilabile sarebbe necessariamente di
natura subordinata, andando di fatto contro alla previsione legislativa dei rapporti di
collaborazione continuativi, ma non subordinati (si pensi al contratto di agenzia, nel quale l’agente – a sua volta
imprenditore – assume stabilmente l’incarico di concludere contratti e affari nell’interessi del preponente).
Inoltre, alcune norme riguardanti le controversie di lavoro (rinunce, transazioni...) hanno equiparato la
disciplina del rapporto di lavoro subordinato con quella di alcune categorie di rapporti di lavoro
autonomo (agenzia; rappresentanza commerciale; institori; procuratori) o altri rapporti di collaborazione di
prestazione d’opera senza vincolo di subordinazione.
Per cui, l’inserzione del lavoratore nell’impresa rimane un elemento tipico del lavoro
subordinato, ma non esclusivo, confermando il significato oggettivo di collaborazione come
attività lavorativa continuata e coordinata, prestata nell’interesse di un creditore (datore di
lavoro o committente).
Parasubordinazione: si ha parasubordinazione tutte le volte che il lavoro autonomo è
finalizzato alla produzione di un’attività/servizio, integrati stabilmente nell’attività del
committente (anche in un’impresa). Per cui anche il contratto d’opera, seppur senza vincolo di
subordinazione, può essere un rapporto di lavoro durevole e continuativo nel tempo, ma solo
sul piano della reiterazione delle singole prestazioni, non sul piano della programmazione o del
coordinamento nello spazio e nel tempo dell’attività, e quindi sulla disponibilità del lavoratore.
Infatti, nella prestazione d’opera coordinata e continuativa, il lavoratore non è vincolato a
tenersi a disposizione del committente, seppur l’apporto della sua attività sia stabilmente inserita
nell’azienda.
Interventi legislativi: per cui era sorta la necessità di contrastare l’abuso al ricorso di queste
collaborazioni pseudo-autonome attraverso interventi legislativi:
Collaborazioni autonome: le collaborazioni autonome, che rientrano nella disciplina del lavoro
autonomo, sono tutte quelle nelle quali il coordinamento, da parte del committente, può
incidere solo sul risultato finale, e non sull’attività necessaria per la sua esecuzione.
Requisito confermato anche dalla modifica di una norma del c.p.c. (codice procedura civile) che
stabilisce che “la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di
coordinamento stabilite di comune accordo tra le parti, il collaboratore organizza
autonomamente l’attività lavorativa”.
Stabilizzazione dei collaboratori coordinati e continuativi: infine il decreto del 2015 (art. 54), al
fine di promuovere la stabilizzazione dell'occupazione mediante il ricorso a contratti di lavoro
subordinato a tempo indeterminato, nonché di garantire il corretto utilizzo dei contratti di
lavoro autonomo, ha previsto che a decorrere dal 1° gennaio 2016, i datori di lavoro privati
debbano procedere all’assunzione, con contratto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato, dei soggetti già parte di contratti di collaborazione coordinata e continuativa
e i soggetti titolari di partita IVA con cui abbiano intrattenuto rapporti di lavoro autonomo.
La norma prevede poi, a chiusura del pregresso rapporto di lavoro, una “conciliazione tombale”,
cioè comprensiva di:
Ogni eventuale pretesa del lavoratore.
Obbligo per il datore di non licenziare il lavoratore nei 12 mesi successivi alla
stabilizzazione del rapporto, salvo giusta causa o giustificato motivo soggettivo (gms).
L’assunzione a queste condizioni determina l’estinzione di ogni illecito amministrativo,
contributivo e fiscale connesso all’irregolare qualificazione del rapporto.
Disciplina comune: le prestazioni di lavoro occasionale vengono suddivise sulla base di tetti di
compenso rapportati all’anno civile, e distinti per prestatore e utilizzatore. In particolare, sono
occasionali le attività lavorative che diano luogo a:
Compensi netti per ciascun prestatore < 5000€ nei confronti della totalità degli
utilizzatori.
Compensi netti per ciascun prestatore < 2500€ e/o 280 ore annuali nei confronti di
ogni singolo utilizzatore.
Compensi netti per ciascun utilizzatore < 5000€ verso la totalità dei prestatori.
Inoltre, prendendo spunto dall’originaria disciplina del 2003 per quanto riguarda le prestazioni rese
da “particolari soggetti” ai margini del mercato del lavoro, il decreto legge del 2017 prevede per
l’utilizzatore, ai fini del raggiungimento del limite annuo verso la totalità dei prestatori, la
possibilità di computare i compensi fino al 75%, qualora i prestatori di cui si avvale siano:
1) Titolari di pensioni di vecchiaia o invalidità.
2) Giovani < 25 anni regolarmente iscritti a un ciclo di studi di qualsiasi ordine e grado
(anche universitario).
3) Disoccupati.
4) Beneficiari di ammortizzatori sociali.
5) Beneficiari di reddito di inclusione.
6) Beneficiari di reddito di cittadinanza.
Comune, poi, alle 2 modalità di acquisizione di attività lavorative occasionali è la previsione del
diritto del prestatore a:
Assicurazione per invalidità.
Assicurazione per vecchiaia.
Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.
con relativi oneri a carico dell’utilizzatore, e differenziati a seconda che si tratti di Libretto
Famiglia o Contratto per prestazioni occasionali.
In più, il reddito da lavoro occasionale è:
a) Esente da prelievo fiscale.
b) Non incide sullo stato di disoccupazione.
c) È computabile per il conseguimento, il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno.
Infine, una significativa novità dell’attuale disciplina riguarda il riconoscimento del diritto ai riposi
giornalieri/settimanali e alle pause, insieme alla disciplina sanzionatoria che prevede, al
superamento dei limiti di compenso e orari da parte dell’utilizzatore, la trasformazione da lavoro
occasionale a rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato.
8€
compenso
netto al
lavoratore
10€ valore 0,10€
1,65€ finanziament
contribuzione nominale o oneri
previdenziale orario gestionali
0,25€
premio
assicurazioni
infortuni
SISTEMA PREVIDENZIALE
Tra i più importanti effetti indiretti della costituzione del rapporto di lavoro subordinato c’è la
costituzione obbligatoria del rapporto di previdenza sociale, intercorrente tra i 2 soggetti del
rapporto di lavoro e gli enti previdenziali.
Assicurazioni sociali: le leggi speciali impongono la costituzione per legge delle assicurazioni
sociali, sulla base dell’esistenza del rapporto di lavoro.
I contributi, solitamente, sono posti a carico sia dell’imprenditore che dei lavoratori. Tuttavia, la
loro ripartizione è oramai stabilita in misura prevalente (assicurazione di invalidità; vecchiaia; superstiti), o
esclusiva (assicurazione infortuni; malattie professionali) a carico del datore di lavoro. In ogni caso,
comunque, il datore è responsabile del versamento dei contributi, anche per le quote a carico
del prestatore, salvo il diritto di rivalsa che può esercitare a norma delle leggi speciali (obbligo
della ritenuta→ sancisce la nullità di patti in violazione o in frode degli obblighi posti dalle norme di previdenza e
assistenza).
Funzionamento sistema previdenziale: seppur simile al sistema assicurativo di tipo privatistico,
il sistema previdenziale presenta qualche scostamento. Infatti, in esso vige il principio
dell’automaticità delle prestazioni, per cui le prestazioni dell’istituto assicuratore sono dovute
in tutti i casi in cui l’evento assicurato si verifichi, indipendentemente dal concreto versamento
dei contributi da parte del datore di lavoro.
Ciò non avviene, invece, per le pensioni di vecchiaia, dove il mancato versamento dei
contributi da parte del datore fa sì che il lavoratore non consegua il diritto al trattamento
previdenziale o ottenga un trattamento inferiore; in tal caso, egli potrà ottenere il diritto al
risarcimento del danno da parte del datore di lavoro.
Natura delle assicurazioni sociali: le assicurazioni sociali intervengono a garanzia del reddito
del lavoratore tutte le volte che la sua capacità di lavoro, e quindi di guadagno, vengano meno
per colpa di infortuni sul lavoro, malattie professionali, malattia comune, maternità, invalidità,
vecchiaia, morte (a favore degli eredi), disoccupazione involontaria, disoccupazione temporanea o
parziale. Alla base dell’intervento assicurativo c’è la valutazione, secondo parametri generali, della
situazione di bisogno in cui versa il lavoratore o la sua famiglia in un dato momento di
temporanea e involontaria inattività, per cui egli viene indennizzato in misura variabile per la
perdita temporanea della retribuzione; oppure, qualora l’inattività abbia carattere definitivo,
vengono erogate le pensioni di invalidità, di vecchiaia e ai superstiti.
Tendenza espansiva del diritto del lavoro: seppur con l’ultima riforma il sistema pensionistico
è diventato abbastanza simile a quello assicurativo (per cui versando i contributi avrò nel futuro
diritto alla pensione), l’insieme dei trattamenti previdenziali, tuttavia, è ancora ispirato al concetto
di sicurezza e solidarietà sociale. Ciò si nota, anche dall’attribuzione ai lavoratori autonomi e ai
piccoli imprenditori del trattamento previdenziale.
Per questo si parla di tendenza espansiva del diritto del lavoro, volta a proteggere
maggiormente il lavoratore in generale, indipendentemente se subordinato o autonomo.
Tuttavia ciò non cancella le differenze tra i 2 tipi di rapporto: infatti, solo nel lavoro subordinato si
ha la traslazione del rischio sociale dal prestatore al datore di lavoro, e il rapporto
previdenziale si può configurare come effetto indiretto del contratto.
PRESTAZIONE DI LAVORO
DILIGENZA
Il connotato tipico del contratto di lavoro subordinato, che lo distingue da tutti gli altri contratti
aventi per oggetto lo scambio tra un’attività lavorativa e un corrispettivo, è la collaborazione, la
quale ne rappresenta dunque la causa del contratto stesso. Il contratto di lavoro subordinato
realizza, quindi, sia l’interesse del datore di lavoro alla collaborazione, sia l’interesse del lavoratore
alla retribuzione.
Requisiti della subordinazione: l’art 2104 cc fissa 2 requisiti tipici della prestazione e, quindi,
della subordinazione, al fine di valutare l’eventuale adempimento degli obblighi del prestatore di
lavoro derivanti dalla prestazione di lavoro subordinato:
1) Diligenza.
2) Obbedienza.
Diligenza del prestatore di lavoro: per la valutazione della diligenza dovuta dal prestatore,
bisogna dar conto a 3 criteri definiti dalla legge:
1) Natura della prestazione dovuta: la diligenza si differenzia in base al tipo di lavoro, e quindi
di mansioni, a cui il lavoratore è posto (diligenza professionale). Infatti, sarà richiesta una
diversa diligenza al lavoratore nell’esercizio di mansioni impiegatizie rispetto a quelle operaie;
e anzi, anche a parità di mansioni può essere richiesto un diverso comportamento del
prestatore (si pensi al muratore che lavori con materiali delicati piuttosto che con materiali
meno pregiati). Perciò, la diligenza non si differenzia solo in base alle mansioni.
2) Interesse superiore della produzione nazionale: questo parametro è stato di fatto
abrogato per il venir meno del regime corporativo/fascista, il quale prevedeva che il
prestatore di lavoro nel rendere la prestazione dovesse usare una diligenza anche in relazione
all'interesse della produzione nazionale.
3) Interesse dell’impresa: esso può essere visto in:
Senso oggettivo: interesse dell’impresa in sé, come istituzione.
Senso soggettivo: interesse concreto dell’imprenditore. In questo senso, la
diligenza richiesta al prestatore si dovrebbe conformare sostanzialmente all’interesse
dell’imprenditore, dando di fatto poca portata alla norma.
Tuttavia, essendo l’attività del lavoratore organizzata dal datore di lavoro, nell’ambito
della collaborazione che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato, la diligenza richiesta
al prestatore dovrà essere commisurata all’attività organizzatrice dell’imprenditore. Per
cui, l’interesse dell’impresa dev’essere inteso in senso soggettivo, ma non come generico
interesse del datore all’esatto adempimento dell’obbligazione da parte del lavoratore, ma
piuttosto come specifico interesse dell’imprenditore all’esercizio della propria attività di
organizzazione del lavoro alle proprie dipendenze.
Invenzioni del lavoratore: non costituiscono concorrenza, invece, le invenzioni del lavoratore, il
quale viene riconosciuto autore dell’invenzione creata nello svolgimento del rapporto di lavoro. Vi
sono 3 tipi di invenzioni a cui corrispondono altrettanti diritti:
a) Invenzione di servizio: quando l’attività inventiva fa parte dell’oggetto del contratto di
lavoro. I diritti derivanti dall’invenzione ottenuta dal lavoratore durante lo svolgimento del
proprio contratto spettano al datore di lavoro, ma al lavoratore viene riconosciuto di
esserne autore.
b) Invenzione aziendale: quando l’attività inventiva non fa parte dell’oggetto del contratto
di lavoro, ma l’invenzione viene creata comunque nel corso dell’adempimento del
rapporto di lavoro, i diritti spettano al datore di lavoro; ma qualora il datore ottenga il
brevetto per tale invenzione, all’autore spetta un equo premio in base all’importanza della
stessa.
c) Invenzione occasionale: quando l’invenzione viene fatta indipendentemente dal rapporto
di lavoro, ma rientri nel campo di attività dell’impresa, i diritti da essa derivanti spettano al
prestatore, ma al datore viene concesso il diritto di opzione per l’uso o l’acquisto
dell’invenzione (da esercitarsi entro 3 mesi dal ricevimento della comunicazione o dal deposito della
domanda di brevetto).
POTERE DISCIPLINARE
L’inosservanza delle disposizioni impartite dall’imprenditore può essere sanzionata tramite
sanzioni disciplinari, ossia “pene private” che si misurano in proporzione alla gravità
dell’infrazione e in conformità delle norme sui contratti collettivi. Le pene previste dai contratti,
in base alle inadempienze (mancanze) elencate da questi, sono:
Rimprovero verbale o scritto.
Multa.
Sospensione dal lavoro.
Licenziamento (massima delle sanzioni disciplinari).
Come il potere direttivo, anche il potere disciplinare è espressione dell’autorità privata del datore
di lavoro, e di conseguenza un riflesso della subordinazione in relazione all’inadempimento del
prestatore. Infatti, l’esercizio del potere disciplinare rappresenta la reazione all’inadempimento
dell’obbligo di prestare l’attività lavorativa, sotto il profilo sia della diligenza, sia dell’obbedienza.
Inoltre, esso può essere correlato anche all’inadempimento dell’obbligo di fedeltà.
Limiti procedurali: lo Statuto innanzitutto subordina l’utilizzo del potere disciplinare alla
pubblicazione del codice disciplinare, ossia un regolamento che dev’essere portato a conoscenza
di tutti i lavoratori mediante affissione in un luogo accessibile da tutti, e che deve indicare le
sanzioni, le infrazioni applicabili e le procedure di contestazione. Inoltre, nessun provvedimento
disciplinare può essere applicato al lavoratore se non sia stato preventivamente contestato
l’addebito e senza che quest’ultimo non sia stato sentito a sua difesa. Infatti, la procedura di
contestazione, la quale deve rispettare il principio di immediatezza, deve consentire al lavoratore
un’effettiva difesa, anche tramite rappresentanti sindacali.
Limiti sostanziali: lo Statuto ha previsto che le sanzioni disciplinari non comportino mutamenti
definitivi del rapporto di lavoro (ad eccezione del licenziamento); per cui sono esclusi la
retrocessione, il trasferimento ecc.
Trasferimento disciplinare: per il trasferimento disciplinare (ossia come sanzione) vi
dev’essere una previsione tassativa nella contrattazione collettiva per poter essere
applicata. Senza questa previsione, il trasferimento può essere comunque applicato, ma con
funzione cautelare, ossia come strumento per rimuovere screzi e incompatibilità tra il
lavoratore e l’ambiente di lavoro e, di conseguenza, migliorare l’organizzazione lavorativa
dell’impresa.
Sospensione disciplinare: per la sospensione disciplinare, invece, lo Statuto ha previsto un
massimo di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione di 10 gg.
Multa: il limite massimo dell’importo della multa esigibile dal lavoratore è di 4 ore della
retribuzione-base.
Per tutte le sanzioni più gravi del rimprovero verbale, non possono essere applicate prima di 5 gg
dalla contestazione scritta del fatto che ne ha costituito la causa.
Contestazione: il lavoratore a cui viene comminata una sanzione può impugnarla entro i 20
seguenti (che si aggiungono ai 5 di dilazione dalla contestazione scritta) davanti ad un collegio di
conciliazione ed arbitrario (previsto o dai contratti collettivi o costituito espressamente presso la Direzione
territoriale del lavoro). La sanzione non ha efficacia se il datore non nomina un proprio
rappresentante nel collegio arbitrale entro 10 gg, a meno che la disputa non si trasferisca in sede
giudiziale.
Recidiva: altro limite sostanziale previsto dallo Statuto è quello della recidiva, per cui non si può
tener conto di una sanzione disciplinare decorsi 2 anni dalla sua applicazione.
LIMITI AL POTERE DI CONTROLLO
Lo Statuto dei lavoratori impone dei limiti anche ai controlli finalizzati alla salvaguardia del
patrimonio aziendale.
Guardie giurate: infatti, l’imprenditore può sì servirsi di guardie giurate per salvaguardare il
patrimonio aziendale, ma è esclusa loro la possibilità di contestare ai dipendenti le azioni/fatti
non inerenti al patrimonio stesso. La ratio di questa norma è da ravvisare nell’intenzione del
legislatore di non voler avvantaggiare l’imprenditore nella sua posizione di supremazia all’interno
dell’azienda, servendosi di una specie di polizia privata per gestirla. Per cui le guardie giurate non
possono per legge essere adibite a compiti di vigilanza sull’attività lavorativa. Inoltre, il soggetto
con qualifica di guardia giurata o addetto alla vigilanza deve essere preventivamente portato a
conoscenza dei lavoratori.
Visite personali di controllo: lo Statuto ha stabilito che le visite personali di controllo siano
consentite solo se indispensabili alla tutela del patrimonio aziendale, in relazione agli strumenti
di lavoro, materie prime, prodotti ecc. Le visite personali di controllo, in ogni caso, potranno
effettuarsi a patto che:
Siano eseguite all’uscita dei luoghi di lavoro.
Siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del lavoratore.
I lavoratori sottoposti a controllo vengano scelti in maniera imparziale.
La novità apportata dalla riforma riguarda però il fatto che non si rende necessario l’intervento della
contrattazione collettiva (sindacato) o eventualmente della Direzione territoriale del lavoro,
qualora il controllo venga svolto sulle apparecchiature con cui viene resa la prestazione
lavorativa (pc; tablet; smartphone...) e sugli strumenti di rilevazione di accessi e delle presenze (badge
aziendale per marcare inizio-fine turno, pause ecc.).
I dati raccolti da tali strumenti possono essere utilizzati a tutti i fini connessi al rapporto di
lavoro, a patto che sia data al lavoratore adeguata informazione circa le modalità d’uso degli
strumenti e di effettuazione dei controlli, sempre nel rispetto del diritto del lavoratore alla
riservatezza. Dunque, si possono raccogliere informazioni attraverso gli strumenti usati dai lavoratori,
e tutte queste informazioni possono essere utilizzate per tutti i fini, anche disciplinari.
Tuttavia, qualora l’imprenditore non osservi i limiti riguardanti l’informativa preliminare e il
codice della privacy, oltre a non poter utilizzare tutte le informazioni raccolte (e le prove
eventualmente individuate non rileveranno ai fini di un procedimento disciplinare), sarà passibile
anche di sanzioni penali.
ACCERTAMENTI SANITARI
L’art. 5 dello Statuto dei lavoratori disciplina gli accertamenti sanitari, ed al riguardo si pensa, in
primo luogo, a quelli diretti a controllare la giustificazione dell’assenza del lavoratore in caso di
infermità.
Assenza del lavoratore per malattia: la norma ha vietato la prassi di far controllare da un
medico di fiducia del datore di lavoro lo stato di malattia giustificativo dell’assenza dal lavoro
e di esporre il prestatore a sanzioni disciplinari nel caso in cui non fosse riconosciuto
temporaneamente inabile. Ed a tal fine la norma ha disposto che il controllo possa avvenire soltanto
attraverso un accertamento medico effettuato dai servizi ispettivi degli istituti previdenziali, su
richiesta del datore di lavoro.
In caso di malattia, il medico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) deve inviare all’istituto
previdenziale, telematicamente, un certificato di diagnosi indicando l’inizio e la presunta durata
della malattia (ai fini previdenziali di pagamento dell’indennità di malattia).
Obblighi del lavoratore: in passato il lavoratore doveva inviare una raccomandata con avviso di
ricevimento al datore l’attestazione della malattia nei 2 giorni successivi il controllo medico; ora,
invece, essendo l’istituto previdenziale a comunicare l’evento malattia al datore, ha il solo obbligo
di comunicare tempestivamente al datore la propria assenza dal posto di lavoro.
Controlli sullo stato di malattia: i controlli sullo stato di malattia dei lavoratori vengono
richiesti dal datore di lavoro, e devono effettuarsi il giorno stesso della richiesta ad opera di
medici convenzionati con l’istituto previdenziale, in fasce orarie prestabilite (fasce di reperibilità).
Qualora il lavoratore non sia nel proprio domicilio senza un giustificato motivo, decade dall’intero
trattamento economico per i primi 10 gg, e dalla metà per i giorni successivi al 10°.
Idoneità fisica del lavoratore: lo Statuto ha previsto anche di far controllare l’idoneità fisica dei
lavoratori da enti pubblici e istituti specializzati di diritto pubblico. Anche per questo tipo di
visite è posto il divieto del ricorso ai medici fiduciari dell’imprenditore.
La normativa inerente all’idoneità fisica va, poi, coordinata con la normativa sulla sicurezza sul
lavoro (d.lgs. 81/2008), la quale obbliga l’imprenditore a nominare un medico competente per la
sorveglianza sanitaria dei lavoratori con mansioni particolarmente rischiose. Il medico può essere
sia un dipendente di una struttura pubblica o privata convenzionata con l’imprenditore, sia un libero
professionista, sia anche un dipendente dell’imprenditore stesso. Tale medico sarà incaricato, inoltre,
di svolgere gli accertamenti preventivi e periodici al fine di valutare l’idoneità del lavoratore ad
una specifica mansione.
MANSIONI E QUALIFICHE
LE MANSIONI E LA QUALIFICA
La prestazione di lavoro consiste nello svolgere un’attività (facere) alle dipendenze
dell’imprenditore. In diritto del lavoro, questo facere prende il nome di mansioni, termine che
indica i vari compiti da svolgere nell’azienda e per cui il lavoratore viene assunto. Le mansioni, in
sostanza, sono l’insieme dei compiti e delle operazioni che il lavoratore individualmente può
essere chiamato a svolgere, e che il datore può pretendere da quest’ultimo; di conseguenza,
rappresentano il criterio di determinazione qualitativa della prestazione.
Le mansioni si identificano, dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, con la posizione di
lavoro e, dal punto di vista della struttura dell’obbligazione di lavoro, con l’oggetto della
prestazione di lavoro.
Qualifica: le mansioni possono altresì individuarsi non mediante l’attività complessiva da svolgersi,
bensì tramite una qualifica riferita al lavoratore (operatore di computer...) addetto a quella mansione. Per
cui mansioni e qualifica sono termini che indicano lo stesso oggetto, ossia la prestazione lavorativa
presente nel contratto di lavoro.
OPERAI vs IMPIEGATI
In passato, la distinzione tra impiegati e operai si estrapolava da un regio decreto legge del 1924,
il quale dava la definizione di impiegato: “lavoratore che svolge al servizio dell’azienda (quindi con
vincolo di subordinazione) attività professionale con funzioni di collaborazione, ... eccettuata ogni
prestazione che sia semplicemente di manodopera”. In sostanza, la distinzione di fondo tra
impiegato e operaio è la mansione svolta, rispettivamente lavoro prevalentemente intellettuale
il primo, lavoro prevalentemente manuale il secondo.
Oggi, tuttavia, l’operaio può compiere il proprio lavoro in maniera più intellettuale di molti impiegati
di bassa qualificazione, o l’impiegato svolgere lavori meccanizzati e ripetitivi, per cui la distinzione
primordiale tra manualità e intellettualità non è attendibile.
La dottrina ha quindi affermato che la distinzione tra le 2 categorie sta nel fatto che l’operaio
collabora nell’impresa (poiché svolge l’attività produttiva), mentre l’impiegato collabora
all’impresa (poiché contribuisce all’organizzazione dell’attività produttiva).
Inquadramento unico: Nel corso del tempo, però, la distinzione tra categoria impiegatizia e
operaia non è stata più quella del passato, per cui gli operai erano persone analfabete e manuali,
mentre l’impiegato era istruito e sapeva sia leggere che scrivere; si è perciò avvertita l’esigenza,
intorno gli anni ’70, di superare questa distinzione ormai obsoleta sul piano sociale e produttivo,
attraverso l’instaurazione di un nuovo sistema di classificazione professionale, ovvero
l’inquadramento unico.
DIRIGENTI
Inizialmente, i dirigenti vennero considerati impiegati con funzioni direttive. Successivamente, ai
dirigenti sono stati aggiunti un tipo di inquadramento e di organizzazione sindacale separati.
Attualmente, il sindacato dei dirigenti resta ancora separato da quello delle altre categorie, e la
contrattazione collettiva, anch’essa separata, definisce i dirigenti come “lavoratori che ricoprono
nell’azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere
decisionale, ed esplicano le loro funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione
degli obiettivi dell’impresa”. L’appartenenza alla categoria dei dirigenti fa scaturire l’applicazione
dei trattamenti economici e normativa di fonte collettiva, nonché in passato l’applicazione di un
regime previdenziale particolare (l’Istituto nazionale di previdenza per i dirigenti di aziende industriali (INPDAI) è
stato soppresso e tutte le strutture/funzioni sono state trasferite all’INPS).
Nel concreto, tuttavia, la distinzione tra impiegati con funzioni direttive e quadri intermedi o
dirigenti non è così immediata. Perciò, i contratti collettivi hanno subordinato l’attribuzione della
qualifica dirigenziale alla nomina da parte dell’imprenditore.
Tuttavia, la giurisprudenza non attribuisce efficacia vincolante a tale nomina, dando rilievo
piuttosto all’effettivo svolgimento delle mansioni dirigenziali. Per la giurisprudenza è dirigente
colui che è preposto direttamente dall’imprenditore ad un ramo autonomo dell’azienda; facendo
così intendere che peculiarità del rapporto di dirigenza sia il contatto diretto e immediato (quindi
il vincolo fiduciario) con l’imprenditore.
QUADRI INTERMEDI
L’art 2095 cc così com’è oggi è frutto di una novella di una legge del 1985 sul riconoscimento
giuridico dei quadri intermedi; infatti, fino ad allora, la norma distingueva i lavoratori solo in
dirigenti amministrativi e tecnici, impiegati e operai. Tuttavia, con l’affermarsi dell’inquadramento
unico, erano sorte nelle aziende nuove figure impiegatizie dotate di elevata professionalità,
soprattutto in ambito tecnologico, ma penalizzate dagli effetti ugualitari prodotti dall’unificazione
del trattamento operai-impiegati. A fronte di ciò, nacquero delle associazioni di lavoratori che
protestavano e che spinsero all’emanazione della l. 190/1985.
Tale legge estende ai quadri le norme applicabili agli impiegati, escludendo di fatto la loro
confondibilità nella categorie dirigenziale, ma con la particolarità che il datore di lavoro ha l’obbligo
di assicurare i quadri contro il rischio di responsabilità verso terzi.
MUTAMENTO DI MANSIONI
Il datore assume il lavoratore affinché esso svolga determinate mansioni di assunzione, che
identificano la professionalità dello stesso. Peraltro, nello svolgimento del rapporto di lavoro il
contenuto professionale delle mansioni può avere un andamento dinamico, cioè modificarsi nel
corso del tempo.
Art 2103 cc vecchio (ius variandi): si è sempre ritenuto che la prestazione lavorativa potesse
essere modificata unilateralmente per volontà del datore di lavoro, in quanto dotato del potere
direttivo dell’attività del prestatore, al contrario della generalità dei contratti dove le modifiche del
rapporto possono intervenire soltanto per mutuo consenso delle parti contraenti. Questo potere
di modificare unilateralmente la prestazione di lavoro (ius variandi) era riconosciuto
espressamente dall’art. 2103 del cc, il quale disponeva che il prestatore veniva adibito alle mansioni
per cui era stato assunto dal datore, ma che quest’ultimo poteva unilateralmente adibire il
lavoratore ad una mansione diversa per esigenze dell’impresa, purché senza mutamento
sostanziale della sua posizione e della paga; e addirittura non si escludeva la modifica delle
mansioni in peggio, sia per quanto riguarda la posizione che la retribuzione.
Statuto dei lavoratori 1970: l’art 2103 è stato novellato dallo Statuto dei lavoratori nel 1970, il
quale introdusse una disciplina abbastanza restrittiva della mobilità del lavoratore all’interno
dell’azienda. Infatti, la norma statutaria riconosceva la possibilità di modifica di mansione (sia
temporanea che definitiva) da parte del datore di lavoro, ma tale mobilità poteva essere solo
orizzontale (mansioni equivalenti) o verticale (mansioni superiori); mentre rimaneva esclusa la
possibilità di mobilità verso il basso per il lavoratore, salvo che per alcune ipotesi tassative:
a) Esigenze straordinarie sopravvenute.
b) Maternità: in caso di maternità, le lavoratrici madri potevano essere adibite ad una
mansione che non pregiudicasse la loro salute, anche inferiore a quella di appartenenza
(ma con diritto alla conservazione della retribuzione di provenienza).
c) Sopravvenuta inabilità per infortunio/malattia: anche in questo caso i lavoratori
conservavano il diritto alla retribuzione di appartenenza.
d) Accordo sindacale collettivo: era consentita l’adibizione a mansioni inferiori qualora,
nell’ambito di procedura di licenziamento per riduzione del personale, si fosse raggiunto
un accordo sindacale collettivo che prevedesse il riassorbimento totale/parziale dei
lavoratori in esubero.
e) Crisi aziendali/occupazionali: in caso di grave crisi aziendale o occupazionale, c’era la
possibilità, per tutti i lavoratori interessati, di essere adibiti a mansioni inferiori.
Inoltre, l’art. 2103 disponeva, nella versione del ’70, la nullità di ogni patto contrario alla norma,
escludendo quindi la validità di tutti i patti, anche collettivi, volti ad ampliare l’area di mobilità
del lavoratore nell’azienda. Per cui la nullità sanciva l’inefficacia di qualsiasi modificazione in
peius delle mansioni (anche se la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il demansionamento, ma solo nel caso in
cui fosse l’unica alternativa al licenziamento per motivo oggettivo).
D.lgs. 81/2015 (Jobs Act): l’art 2103 cc è stato novellato ulteriormente con il Jobs Act, prevedendo
una liberalizzazione (e quindi espansione) del potere del datore di lavoro di modificare
unilateralmente l’assegnazione delle mansioni. Il nuovo art. 2103 cc dispone che “Il lavoratore
deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti
all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, o ancora a mansioni
riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente
svolte”.
Dunque, si abbandona il criterio-limite dell’equivalenza delle mansioni in base alla
professionalità del lavoratore, il quale viene sostituito dal criterio dell’unicità-identità (o criterio
di equivalenza) di classificazione professionale della prestazione (o delle mansioni).
Mobilità orizzontale: ciò consente la mobilità del prestatore di lavoro, per volontà
unilaterale (o anche delle parti) del datore, su tutte le mansioni classificate allo stesso
livello contrattuale e nella stessa categoria legale di inquadramento delle ultime mansioni
effettivamente svolte. In questo modo, perciò, si ha una notevole espansione delle mansioni
che il lavoratore può svolgere e, di conseguenza, un espansione dello ius variandi
dell’imprenditore in senso orizzontale.
Mobilità verticale verso l’alto: non cambia molto dalla 1° novella introdotta con lo Statuto
dei lavoratori. Il lavoratore può essere assegnato, in via unilaterale dal datore, a mansioni
corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia acquisito successivamente, e avrà
diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta. Inoltre, l’assegnazione a
mansioni superiori diventa definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, qualora non si
sia provveduto a sostituire il lavoratore in servizio con qualcun altro entro il periodo
fissato nei contratti collettivi o, in mancanza, dopo 6 mesi.
Mobilità verso il basso: mentre nella 1° novella del ’70 tale possibilità era totalmente esclusa
se non per alcuni limiti tassativi, il nuovo 2103 cc ammette, invece, la possibilità di
demansionamento del lavoratore. La nuova norma distingue tra:
Mutamento unilaterale: il lavoratore può essere demansionato solo su mansioni
classificate nel livello immediatamente inferiore di classificazione prevista dal
contratto collettivo, ma sempre all’interno della stessa categoria legale. In più, il
mutamento unilaterale dev’essere giustificato da una modificazione
dell’organizzazione produttiva tale da ricadere sulla posizione lavorativa del
prestatore. Tale giustificazione è ovviamente a carico del datore di lavoro.
Vi è anche il caso in cui i contratti collettivi ammettano la possibilità di mutamento
in peius della posizione dei lavoratori senza giustificazione causale.
La modificazione delle mansioni verso il basso dev’essere comunicata per iscritto
ad substantiam (e motivata con la giustificazione causale); inoltre il lavoratore ha
diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento
retributivo in godimento, salvo alcune eccezioni.
Infine, il mutamento di mansione comporta un obbligo formativo a carico
dell’azienda, il cui inadempimento, tuttavia, non comporta la nullità dell’atto
unilaterale del datore, ma il solo risarcimento dei danni nei confronti del lavoratore.
Mutamento consensuale: il nuovo art. 2103 prevede che possano essere stipulati
accordi individuali di modifica verso il basso delle mansioni, della categoria
legale, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del
lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa
professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore, avanti alle
commissioni di certificazione, può farsi assistere da un rappresentante sindacale, un
avvocato o un consulente del lavoro. Inoltre, l’efficacia di tali accordi è subordinata
all’accertamento dell’esistenza reale di un interesse del lavoratore al passaggio ad
una mansione e all’inquadramento inferiori (spesso in alternativa al licenziamento).
Nullità di ogni patto contrario: il nuovo art. 2103 cc riafferma la previgente disposizione che
prevedeva la nullità di ogni patto contrario ma, a differenza del passato in cui diveniva inefficace
ogni mutamento di mansione in peius, viene sanzionata solo l’adibizione del lavoratore a mansioni
inferiori disposta in violazione dei limiti posti all’esercizio dello ius variandi (mutamento della categoria
legale; omissione della motivazione ecc.), o quando vi sia un accordo individuale tra le parti in sede non
assistita (in forma tacita).
Nelle ipotesi di illegittima adibizione a mansioni inferiori (dequalificazione), il lavoratore ha
diritto a:
Tutela ripristinatoria: restituzione delle mansioni e dell’inquadramento
precedentemente acquisito.
Tutela risarcitoria: risarcimento del danno patrimoniale (mancato sviluppo di carriera; perdita di
occasioni di lavoro...) e non patrimoniale (professionale, biologico o esistenziale) conseguente al
pregiudizio arrecato alla capacità professionale, all’integrità fisica e/o alla vita di relazione.
Tuttavia, il lavoratore deve allegare le prove della sussistenza del pregiudizio subìto e il
nesso causale con l’inadempimento del datore di lavoro (per cui il danno professionale non è una
conseguenza automatica della dequalificazione).
TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE
La determinazione del luogo in cui il lavoratore deve svolgere la propria attività, di solito, appartiene
al potere direttivo del datore di lavoro.
Il trasferimento del lavoratore da un’unità produttiva ad un’altra può essere disposto
dall’imprenditore soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive
dell’azienda. Per cui la legge intende, da un lato, riconoscere un certo potere direttivo
all’imprenditore; dall’altro, limitare la possibilità di modifica definitiva del luogo di lavoro, a parità di
mansioni del lavoratore (in ciò si riscontra la differenza tra trasferimento e trasferta).
Motivazione: per quanto riguarda le motivazioni, il datore non è tenuto a comunicarle al
lavoratore al momento del trasferimento; tuttavia, ha l’onere di provarle qualora quest’ultimo lo
citi in giudizio.
Nullità: nell’ipotesi in cui non sussistano tali presupposti legali, il trasferimento è considerato
illegittimo, e il lavoratore può accertarne in giudizio la nullità e rifiutarsi di adempiere al
provvedimento del datore.
Discriminazione: è vietato in ogni caso il trasferimento dettato da motivi di discriminazione
sindacale, politica, religiosa, razziale, di lingua, di sesso, di handicap, di età, di orientamento
sessuale o di convinzioni personali; inoltre, non può esser trasferito il lavoratore che accudisca
un parente o affine entro il 3°grado handicappato.
TUTELA DEL LAVORATORE NELL’ORGANIZZAZIONE DI LAVORO
Tutela dell’integrità fisica del lavoratore: fin dagli inizi del nostro OG, vi è stato sempre l’obiettivo
della tutela dell’integrità fisica del lavoratore (si pensi al r.d.1899 sulla prevenzione degli infortuni).
Attraverso perfezionamenti e modifiche nel corso degli anni, si è venuto a creare un organico sistema
di assicurazioni sociali contro gli infortuni sul lavoro e malattie professionali, in virtù del quale
tutti i lavoratori prestati a lavorazioni potenzialmente pericolose o nocive hanno il diritto ad
essere assicurati contro gli eventi dannosi lesivi dell’attitudine psico-fisica al lavoro che
potrebbero capitare al lavoratore (occasione di lavoro), indipendentemente dalla colpa
dell’imprenditore o del lavoratore stesso, e cioè per caso fortuito.
Principio rischio professionale: tale istituto è retto dal principio di rischio professionale, il quale
si sostituisce a quello generale della colpa come fondamento della responsabilità civile
dell’imprenditore. Grazie a tale principio si comprende come per queste assicurazioni sociali sia
previsto l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile derivante dal verificarsi degli
eventi dannosi assicurati in capo al lavoratore (infortunio o malattia professionale). Infatti, in
questi casi è proprio l’ente assicuratore ad essere obbligato a risarcire il lavoratore (mediante
indennità per i periodi di assenza da lavoro per infortunio o malattia; pagamento di una rendita nel caso in cui l’evento lesivo
comporti un’inabilità permanente di lavoro).
Danno biologico: all’interno del contratto lavorativo, tra i vari danni a cui si riconosce un
risarcimento in violazione del 2087 cc. rientra anche il danno biologico. Il danno biologico
è un danno non patrimoniale, consistente nella menomazione dell’integrità psico-fisica
della persona (che rientra quindi ad una lesione della salute, protetta costituzionalmente). La sua tutela va
oltre alla sola capacità di lavorare, e si riferisce anche all’esplicazione intellettuale e alle
relazioni sociali dell’individuo.
In passato, l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni derivanti
da infortunio/malattia professionale, essendo posto a tutela del rischio di riduzione della
capacità lavorativa, operava solo se quest’ultima veniva meno, e non anche in relazione al
danno biologico eventualmente conseguente a tale infortunio/malattia.
In seguito, il legislatore è tornato sul punto, estendendo tutela assicurativa anche al danno
biologico e, di conseguenza, si è esteso anche l’esonero del datore di lavoro dalla
responsabilità civile per i casi di danno biologico derivanti da infortunio e malattia
professionale. La responsabilità civile, invece, rimane a carico del datore al di fuori dell’area
coperta dall’assicurazione obbligatoria.
Princìpi della riforma: le linee guida della riforma sono costituite da 2 princìpi:
1. Principio dell’universalità: l’obiettivo della nuova normativa è quello di estendere
le disposizioni pressoché a tutte le tipologie di lavoro. Sicuramente, l’estensione
più importante riguarda i lavoratori autonomi, i quali sono stati inclusi in alcune
disposizioni della nuova riforma (osservanza delle disposizioni attinenti all’uso delle attrezzature di
lavoro e dei dispositivi di protezione personale; nei contratti d’appalto, il committente deve redigere un
documento unico di valutazione dei rischi, che indichi le misure da tenere per ridurre al minimo i rischi di
infortuni/malattie professionali),
ma la normativa include anche i componenti dell’impresa
familiare, i coltivatori diretti del fondo, i soci di società semplici del settore
agricolo, gli artigiani e i piccoli commercianti.
2. Principio dell’effettività: la novità più rilevante riguarda la delega di funzioni.
Infatti, l’imprenditore può delegare ai dirigenti o ai preposti i propri compiti in
materia di sicurezza (salvo disposizione contraria), a patto però che siano rispettate le
seguenti condizioni:
Forma scritta ad substantiam.
Idoneità del delegato a svolgere tali compiti.
Attribuzione al delegato dei poteri organizzativi, gestionali, di controllo e
di spesa.
La nomina dev’essere resa pubblica.
DURATA DELLA PRESTAZIONE
D.lgs. 66/2003: questo decreto, modificato più volte nel corso degli anni (per ultimo dal d.l. 112/2008),
ha stabilito una completa e organica normativa sia dell’orario di lavoro, sia degli istituti del
“tempo di non lavoro” (pause, riposo giornaliero e settimanale, ferie), disponendo dalla sua entrata in vigore
l’abrogazione di tutte le disposizioni legislative e regolamentari in materia, salvo quelle
espressamente richiamate.
Il decreto, che si applica a tutti i settori di attività pubblici e privati, definisce l’orario di lavoro=
qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia a lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio
della sua attività o delle sue funzioni. Si usa distinguere tra:
Orario normale di lavoro: è fissato in 40 ore settimanali. Tuttavia, i contratti collettivi
ammettono la possibilità di utilizzare anche l’orario multiperiodale, il quale considera
l’orario lavorativo come valore medio in un arco temporale non superiore all’anno, e la
cui appetibilità per i datori di lavoro sta nel fatto che, nei periodi di maggiore attività, questi
possono superare il limite delle 40 ore settimanali, senza ricadere nella disciplina del lavoro
straordinario; ma, ovviamente, per rispettare il valore medio delle 40 ore settimanali,
dovranno ridurre le ore settimanali nei periodi di minore attività.
Orario straordinario di lavoro: sono le ore di lavoro eccedenti l’orario normale. Il decreto
rimette ai contratti collettivi la regolamentazione di eventuali modalità di esecuzione. In
mancanza di disciplina collettiva, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso solo previo
accordi tra datore di lavoro e lavoratore, per un periodo non superiore a 250 ore annuali.
Le ore di straordinario devono essere conteggiate a parte, e ai contratti collettivi è
rimesso il compito di stabilire la maggiorazione retributiva dovuta al lavoratore, e di
consentire ai lavoratori dei riposi compensativi in aggiunta o in alternativa ad essa. In
mancanza di contrattazione collettiva, la retribuzione dello straordinario è comunque
garantita dal principio di proporzionalità dell’art. 36 Cost. (il lavoratore ha diritto a una
retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro).
Limite settimanale onnicomprensivo: la riforma del 2003 non fissa un limite giornaliero all’orario
normale di lavoro o onnicomprensivo (di orario normale e straordinario), ma fissa un limite
settimanale onnicomprensivo di 48 ore ogni 7 giorni, da intendersi come valore medio calcolato
su una arco temporale di 4 mesi. Anche in questo caso i contratti collettivi possono modificare la
norma, poiché sono autorizzati ad innalzare l’arco temporale fino a 6 mesi, o addirittura a 12 a fronte
di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro. Al contrario, gli stessi contratti
collettivi possono stabilire la durata massima settimanale dell’orario di lavoro come limite
invalicabile (pertanto, sia nei casi in cui il datore ricorra al multiperiodale e/o al lavoro straordinario, nell’arco di un certo
periodo di tempo vi potranno essere settimane con orari di lavoro molto differenziati, a patto che si rispettino i limiti di 40 ore
settimanali di orario normale e di 48 ore complessive quali valori medi settimanali nei rispettivi periodi di riferimento (4 mesi
o più), nonché il limite di durata massima settimanale eventualmente fissato dalla contrattazione collettiva).
Riposo giornaliero: il riposo giornaliero consecutivo di 11 ore ogni 24, dopo le modifiche del
d.l. del 2008, ora può essere concesso anche non consecutivamente non solo per le attività
caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata, ma anche per le attività
caratterizzate da “regimi di reperibilità” (ad eccezione del personale sanitario del SSN e dei dirigenti degli Enti
e Aziende del SSN).
Altra modifica del d.l. 112/2008 è stata il rinvio ai contratti collettivi per l’eventuale deroga alle
disposizioni relative a riposo giornaliero, pause e lavoro notturno. Le deroghe ora possono
essere stabilite anche dai contratti collettivi territoriali o aziendali (non più solo dai contratti collettivi
nazionali).
LAVORO NOTTURO
Sul tema della disciplina del lavoro notturno, innanzitutto il d.lgs. 66/2003 dà le definizioni di:
Periodo notturno= periodo di almeno 7 ore consecutive comprendenti l’intervallo tra
00:00-05:00.
Lavoratore notturno= 2 definizioni:
1. Qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga almeno 3 ore del suo
tempo di lavoro giornaliero impiegato in maniera normale.
2. Qualsiasi lavoratore che svolga, durante il periodo notturno, almeno una parte del
suo orario di lavoro secondo le norme della contrattazione collettiva. In mancanza
di questa, è considerato lavoratore notturno qualsiasi individuo che svolga, per
almeno 3 ore, lavoro notturno per un minimo di 80 gg lavorativi all’anno.
Il decreto prevede che l’orario dei lavoratori notturni non possa superare le 8 ore di media nelle
24 ore (salvo che i contratti collettivi anche aziendali non individuino un arco temporale più ampio sui calcolare tale limite).
Sempre ai contratti collettivi è stata poi affidata:
Eventuale riduzione dell’orario di lavoro notturno.
Individuazione dei trattamenti retributivi spettanti ai lavoratori notturni.
Fissazione dei requisiti per l’esclusione dall’obbligo di effettuare lavoro notturno
(l’inidoneità al lavoro notturno, invece, viene accertata dalle strutture sanitarie pubbliche competenti).
Divieto lavoro notturno: per i lavoratori notturni sono stati previsti particolari controlli e
garanzie per la loro sicurezza e, qualora il medico o la struttura sanitaria competente accertino
condizioni di salute che comportino l’inidoneità del lavoratore alla prestazione di lavoro
notturno, il lavoratore dev’essere assegnato al lavoro diurno in altre mansioni equivalenti (se
esistono e sono disponibili).
Un’ipotesi generale di divieto di lavoro notturno è la gravidanza e al puerperio (periodo post-nascita)
fino al compimento di 1 anno di età del bambino.
Busta paga: una legge speciale (l. 4/1953) obbliga l’imprenditore ad allegare alla corresponsione
della paga anche un prospetto paga, in cui siano contenute analiticamente tutte le voci che lo
compongono. Quest’obbligo è previsto per tutti i tipi di lavoro (anche lavoro agricolo, in precedenza
escluso), ad eccezione dei dirigenti e dei lavoratori domestici.
Regola generale: la regola generale dei contratti vorrebbe che se un oggetto non è determinato,
il contratto è nullo; per cui, la mancanza dell’accordo retributivo tra le parti dovrebbe causare la
nullità dell’intero contratto.
Rapporto di lavoro (deroga): in realtà, l’art 2099 cc deroga a questa regola generale, disponendo
che, nel contratto di lavoro, la mancanza della retribuzione non sia causa la nullità dell’intero
contratto, ma di integrazione giudiziale della lacuna. Per cui il contratto viene conservato.
Peraltro, questa norma ha operato non solo nel caso di clausola inesistente della retribuzione
(quindi come prevede letteralmente l’art. 2099 cc), ma anche nel caso di clausola retributiva esistente, ma
considerata insufficiente, e quindi nulla poiché in contrasto con l’art. 36 Cost.
Perché si: sembrerebbero suggerire Perché no: se non viene calibrato in modo
l’introduzione del salario minimo legale: adeguato il livello della predeterminazione del
La forte discrezionalità attribuita al salario minimo legale, in base alle reali
giudice nella determinazione della condizioni del paese e al rispetto dell’autonomia
retribuzione (dato che egli può anche discostarsi della contrattazione collettiva, può sovrapporsi o
dai minimi previsti dai contratti collettivi, i quali porsi in concorrenza con la determinazione
fungono, quindi, solo da parametri retributivi). negoziale tra le parti della retribuzione.
L’incremento negli ultimi anni della
contrattazione collettiva pirata,
stipulata da sindacati dotati di
scarsissima rappresentatività.
L’imposizione di un salario minimo legale
risolverebbe entrambi i problemi, poiché:
Diverrebbe il parametro principale per la
determinazione retributiva da parte del
giudice.
Scongiurerebbe una corsa al ribasso dei
salari condotta attraverso la
contrattazione “di comodo” (sindacati di
fatto comandati dal datore di lavoro).
STRUTTURA DELLA RETRIBUZIONE
SISTEMI DI RETRIBUZIONE
La legge prevede 2 tipi principali di retribuzione, a cui si aggiungono poi altri sistemi secondari:
Retribuzione commisurata sulla base del tempo della
A TEMPO
prestazione di lavoro (ore, giornate, mesi).
PRINCIPALE Retribuzione commisurata in base al risultato del lavoro; non
A COTTIMO si guarda esclusivamente al tempo di realizzazione (durata), ma al
risultato finale del lavoro.
Il prestatore viene retribuito, in tutto o in parte, con una
percentuale sugli utili conseguiti dall’imprenditore
PARTECIPAZIONE
nell’esercizio della sua attività. Questi utili vanno calcolati, salvo
AGLI UTILI
diversa pattuizione, in base agli utili netti dell’impresa
risultanti da bilancio.
Il prestatore di lavoro viene retribuito attraverso i prodotti
realizzati direttamente in azienda. Per cui non si tiene conto
del profitto (come sopra), ma della produzione aziendale (questo
sistema si utilizza soprattutto nel settore agricolo o della pesca, in cui alla
retribuzione si combina anche la retribuzione in natura).
Sia per la partecipazione agli utili che ai prodotti, lo svantaggio
di questa retribuzione sta nel rischio della
produttività/redditività dell’impresa, che ricade sul
PARTECIPAZIONE
prestatore. Infatti, soprattutto per la partecipazione agli utili, il
AI PRODOTTI
SECONDARIO lavoratore è in balia della variabilità della retribuzione, la quale
dipende dall’andamento dell’impresa, su cui influiscono
diversi fattori su cui il lavoratore non ha voce in capitolo (capacità
dell’imprenditore, mercato, tecnologie ecc.).
In ogni caso, in virtù dell’art. 36 Cost., al lavoratore retribuito in
uno di questi 2 modi spetta comunque una retribuzione
sufficiente, anche qualora l’impresa non abbia prodotto utili
in bilancio o ne abbia prodotti pochi.
È prevista questa modalità nelle attività in cui il prestatore deve
realizzare affari, concludendo contratti nell’interesse del
datore di lavoro (e quindi in rappresentanza→ institori, procuratori,
commessi). In questi casi, la retribuzione può essere prevista
PROVVIGIONE
anche totalmente a provvigione, in percentuale al volume di
affari conclusi per conto dell’imprenditore (agenti, rappresentanti di
commercio).
RETRIBUZIONE A TEMPO
Nella retribuzione a tempo si usa distinguere tra:
Salario: retribuzione oraria→ utilizzata per gli operai. La retribuzione oraria è calcolata in
base alle ore lavorate nel mese (tranne i casi di sospensione legittima, con permanenza del diritto alla
retribuzione). Il rischio dell’inattività o della mancanza di lavoro, dunque, grava
esclusivamente sul lavoratore.
Stipendio: retribuzione mensile→ utilizzata per gli impiegati. Nella retribuzione mensile, il
datore si assume il rischio della mancata prestazione di lavoro nel mese di riferimento
(salvo che la mancata prestazione non derivi da inadempimento).
In ambedue i casi, però, il termine di adempimento dell’obbligazione retributiva può essere la
fine del mese o un periodo più breve (quindicina, settimana...).
Maggiorazioni: sulla retribuzione normale (compenso corrisposto per la prestazione svolta nell’orario
normale di lavoro) si calcolano tutte le maggiorazioni per:
1) Lavoro straordinario: attualmente, è affidato alla contrattazione collettiva il compito di
determinare le maggiorazioni relative al lavoro reso al di fuori dell’orario normale, o di
prevedere dei riposi compensativi in aggiunta/alternativa ad esse.
2) Lavoro notturno: anche in questo caso, la legge rinvia alla contrattazione collettiva la
definizione dei trattamenti economici eventuali o delle riduzioni dell’orario di lavoro a
titolo di indennizzo dei lavoratori notturni.
3) Lavoro festivo: le festività devono essere retribuite con la busta paga giornaliera, mentre
il lavoro festivo (domenicale o infrasettimanale) va compensato con la retribuzione normale,
maggiorata di una percentuale stabilita sempre dai contratti collettivi.
Ferie: la riforma del 2003 ha stabilito, innanzitutto, il periodo annuale di ferie retribuite (4
settimane) cui il lavoratore ha diritto; in più, ha escluso che tale periodo possa essere sostituito da
un’indennità per “ferie non godute” (salva l’ipotesi di risoluzione del contratto). La mancata fruizione del
riposo feriale da parte del lavoratore (ogni patto simile è nullo) scaturisce in quest’ultimo il diritto sia
alla retribuzione per il lavoro prestato, che il risarcimento per il danno subìto.
WELFARE AZIENDALE
Nella nozione di retribuzione non rientrano solo i compensi monetari, ma anche tutte le utilità
(economicamente valutabili) percepite dal lavoratore in forza del rapporto di lavoro.
Nel welfare aziendale (forma di retribuzione non monetaria) rientrano una serie di utilità che
possono individuarsi nelle prestazioni, opere, servizi corrisposti al dipendente in natura o come
rimborso spese, aventi finalità di rilevanza sociale. A questa definizione, bisogna precisare tuttavia
che, per parlare di welfare aziendale, queste utilità devono riferirsi alla generalità dei dipendenti o
a categorie contraddistinte dall’omogeneità dei soggetti che vi appartengono.
Gap del welfare aziendale: ad oggi i sistemi di welfare aziendale sono caratterizzati da una forte
differenziazione in relazione a:
Differenti aree del Paese: sono presenti maggiormente al Centro-Nord.
Settori produttivi: sono maggiormente sviluppati nel settore dei servizi.
Dimensioni dell’impresa: sono più presenti nelle imprese di maggiori dimensioni, le quali,
riuscendo ad attivare con più facilità economie di scala, sono in grado di ridurre i costi di
erogazione dei servizi ai lavoratori.
RETRIBUZIONE A COTTIMO
È l’altro tipo di retribuzione principale, il quale tiene conto, per la determinazione della
retribuzione, non solo del tempo impiegato, ma anche del risultato/rendimento fornito dal
lavoratore durante l’orario di lavoro.
In principio, la retribuzione a cottimo era la forma tipica della retribuzione del lavoro autonomo.
Successivamente, il cottimo è stato utilizzato sempre più spesso anche nel lavoro subordinato, per
misurare la retribuzione in relazione ad un risultato predeterminato. Infatti, con l’introduzione dei
metodi di organizzazione scientifica del lavoro e della misurazione dei tempi di lavorazione, a
cui si unisce la parcellizzazione delle mansioni, sono nati diversi tipi di cottimo:
Cottimo a pezzo/a misura: retribuzione misurata in proporzione alle quantità prodotte.
Cottimo a tempo: retribuzione determinata sulla base del tempo di lavorazione impiegato,
e quindi del rendimento del lavoratore.
Rischio della produttività del lavoro: nel cottimo, il rischio della produttività del lavoro è a
carico del datore (per quanto riguarda organizzazione del lavoro, e quindi il risultato della prestazione). Esso,
tuttavia, viene in parte trasferito a carico del lavoratore per quanto concerne la quantità della
retribuzione in base alle singole frazioni di risultato o unità di cottimo. Infatti, nel cottimo la
retribuzione è parametrata alla quantità della prestazione lavorativa, sulla base dell’intensità
del lavoro nell’unità di tempo (non della durata, come nella retribuzione a tempo).
Obbligo di cottimo: per legge, il prestatore dev’essere retribuito a cottimo tutte le volte che:
a) In conseguenza dell’organizzazione di lavoro, è vincolato all’osservanza di un determinato
ritmo produttivo (catene di montaggio).
b) Nelle lavorazioni ad economia di tempo, in cui la valutazione della sua prestazione sia
fatta in base al risultato dei tempi di lavorazione.
NOZIONE DI RETRIBUZIONE
Non tutto ciò che viene erogato dall’imprenditore ai lavoratori fa parte della retribuzione. Infatti,
affinché si parli di retribuzione in senso stretto, occorre che l’attribuzione del datore dovuta al
lavoratore sia in via necessaria (obbligatoria), e non eventuale come compenso di una specifica
attività di lavoro ordinario/straordinario, o di un periodo di inattività (riposo; interruzione) ricompreso
nella durata convenzionale della prestazione.
Sono perciò da escludere dalla nozione di retribuzione tutte le attribuzioni patrimoniali prive di
un collegamento con lo svolgimento della prestazione lavorativa, ossia tutte quelle corrisposte
in via eventuale e non necessaria (sconti sui beni/prodotti finiti; prestazioni di assistenza; agevolazioni ecc.), non
richieste dal lavoratore e che potrebbe decidere di non usufruirne.
Definizione onnicomprensiva della retribuzione: nella definizione legislativa della
retribuzione sono compresi tutti gli elementi fondamentali ed accessori che la compongono:
Maggiorazioni dovute per lavoro straordinario e notturno.
Compensi per ferie, festività, malattie, infortuni ecc.
Voci o integrazioni corrisposte a titolo di cottimo, incentivo, premio, indennità, gratifica
o mensilità supplementari.
NOZIONE DI REDDITO DA LAVORO DIPENDENTE A FINI CONTRIBUTIVI
La retribuzione, oltre come elemento del contratto di lavoro, è vista dalla legge anche come base
imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali, e come reddito imponibile ai fini fiscali.
D.lgs. 314/1997: il decreto ha introdotto una nuova definizione della base imponibile ai fini
fiscali, fornendo le nozioni di reddito da lavoro dipendente ai fini fiscali, e di reddito da lavoro
dipendente ai fini contributivi.
Per dare la definizione di reddito da lavoro dipendente ai fini contributivi, la legge rinvia
direttamente alla definizione di reddito da lavoro dipendente ai fini fiscali = quello derivante da
rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto
la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio quando sia considerato lavoro dipendente secondo
le norme del diritto del lavoro. Il reddito da lavoro dipendente ai fini fiscali è costituito da tutte
le somme e i valori in generale, a qualunque titolo percepiti, anche sotto forma di erogazioni liberali,
in relazione al rapporto di lavoro.
In sostanza, non si richiede più la connessione corrispettiva tra prestazione di lavoro e somme
e valori percepiti dal prestatore ma, per l’assoggettabilità ai fini fiscali e previdenziali, interessa la
sola erogazione del datore, e cioè la circostanza che le somme e i valori percepiti dal lavoratore
siano “in relazione” al rapporto di lavoro, e non appartengano alle somme escluse dall’imposizione
fiscale e previdenziale (quelle: a titolo di TFR; in occasione della cessazione di lavoro; al fine di incentivare l’esodo dei
lavoratori).
Infine, la legge stabilisce che la retribuzione imponibile ai fini contributivi non può essere
inferiore a quella definita dai contratti collettivi, stipulati dai sindacati più rappresentativi su base
nazionale.
TRATTAMENTO RETRIBUTIVO NEI CASI DI SOSPENSIONE DEL RAPPORTO
Sospensione del rapporto di lavoro: il principio della traslazione del rischio viene enunciato
negli art. 2110-11 cc, che disciplinano la sospensione del rapporto lavorativo nei casi di
impossibilità temporanea del lavoratore per infortunio, malattia, gravidanza e puerperio,
servizio militare.
Questi articoli tutelano il lavoratore sotto 2 aspetti:
1. Conservazione della retribuzione: in tutti questi casi di assenza da lavoro, il lavoratore
conserva il diritto alla retribuzione, oppure ha diritto ad un’indennità determinata da leggi
speciali, contratti collettivi, dagli usi o secondo equità.
2. Sospensione della prestazione e conservazione del posto di lavoro: il lavoratore, inoltre,
non può essere licenziato per il periodo stabilito dalle stesse fonti (vedi sopra). In più, il
periodo d’assenza da lavoro, anche oltre il periodo obbligatorio di conservazione del posto,
per una di queste cause, dev’essere computato all’anzianità di servizio del prestatore.
Periodo di irrecedibilità: le leggi o i contratti collettivi prevedono che il prestatore con un minimo
di anzianità (1 anno almeno) abbia diritto ad un periodo di conservazione del posto di lavoro
proporzionale all’anzianità di servizio (periodo di irrecedibilità→ se si tratta di
malattia/infortunio, periodo di comporto).
Il licenziamento operato durante il periodo di irrecedibilità viene ritenuto non nullo, ma
temporaneamente inefficace. Trascorso detto periodo, il datore può conservare volontariamente
il contratto (senza obbligo di retribuzione) o recedere dallo stesso.
ESTINZIONE IN GENERALE
RISOLUZIONE CONSENSUALE
Con la risoluzione consensuale, il datore e il prestatore di lavoro pervengono, di comune
accordo, alla risoluzione del rapporto lavorativo e, dunque, alla sua estinzione.
Risoluzione consensuale in frode alla legge: tuttavia, con la progressiva riforma della disciplina
dei licenziamenti, diventata sempre più restrittiva, vi è stato l’aumento dell’utilizzo della
risoluzione consensuale per aggirare i rigidi limiti legali (per cui nasceva un negozio in frode alla legge
che, in quanto tale, è nullo). Per far fronte a ciò, la giurisprudenza deve accertare, secondo criteri di
rigore, la sussistenza di una chiara e certa volontà delle parti di porre fine al rapporto,
ritenendo insufficienti la sola forma scritta ad substantiam per le dimissioni, o che il lavoratore
abbia percepito il TFR o abbia trovato altra occupazione.
Ratio recesso ad nutum: il preavviso è importante poiché, sia in caso di dimissioni che di
licenziamento, l’interruzione del rapporto può causare dei danni più o meno gravi all’altra
parte. Per questo l’efficacia del recesso è subordinata ad una preventiva manifestazione di
volontà del recedente.
Natura dell’obbligo di preavviso: in dottrina si è spesso discusso se la natura dell’obbligo di
preavviso sia reale o obbligatoria. Seppur vi sia la possibilità, per il contraente, di poter scegliere
tra l’adempimento dell’obbligo o il pagamento dell’indennità di mancato preavviso, sembra
preferibile la tesi per cui l’obbligo di preavviso ha natura reale. Ciò perché rispetterebbe
maggiormente la ratio dell’obbligo stesso, mentre lasciare la scelta tra una o l’altra alternativa
sarebbe un incentivo alla frustrazione di quella ratio (cioè la tutela dell’interesse alla prosecuzione del
rapporto di chi subisce il recesso e, in particolare, del lavoratore).
LICENZIAMENTO AD NUTUM
Con l’introduzione del principio di giustificazione del licenziamento della l. 108/1990, il
licenziamento ad nutum (ossia il recesso libero del datore, senza che questo debba fornire alcuna
giustificazione) ha avuto un’applicazione meramente residuale, poiché si applica ad una ristretta
cerchia di lavoratori:
1) Lavoratori domestici e sportivi professionisti: sono esplicitamente esclusi nella l.
108/1990 e dallo Statuto dei lavoratori.
2) Lavoratori in prova: esclusi esplicitamente dalla l. 604/1966. Tale esclusione, tuttavia,
cessa nel momento in cui l’assunzione del lavoratore diviene definitiva e, in ogni caso,
dopo 6 mesi dall’inizio del rapporto di lavoro.
3) Lavoratori anziani: il recesso ad nutum si applica poi ai lavoratori che abbiano maturato il
diritto alla pensione di vecchiaia (che abbiano compiuto 67 anni). Lo Statuto dei lavoratori
offre la possibilità, però, di far lavorare gli anziani anche oltre i 67 anni, fino ad un’età
massima di 70 anni (al fine di migliorare il trattamento pensionistico).
4) Dirigenti: sono esclusi dalla disciplina limitativa dei licenziamenti su dettato della legge
stessa, la quale dichiara l’applicazione alle sole categorie di operai, impiegati e quadri
intermedi. A differenza delle altre categorie (sopra) in cui vige il principio della libertà di
forma, per i dirigenti vi è l’obbligo della comunicazione scritta del licenziamento, oltre
che la tutela contro il licenziamento discriminatorio (al pari di tutti i lavoratori).
In realtà, per i dirigenti vi è un obbligo di giustificazione del licenziamento previsto
direttamente dalla contrattazione collettiva, nonché la possibilità di ricorrere ad un
collegio arbitrale (o in alternativa al giudice) il quale, accertata l’insussistenza di una
giustificazione, può condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità
supplementare, di natura risarcitoria, oltre all’indennità di mancato preavviso.
GIUSTA CAUSA
L’art. 2119 cc definisce la giusta causa quella che non permette la prosecuzione, neppure
provvisoria, del rapporto lavorativo, aggiungendo inoltre che fallimento e liquidazione coatta
amministrativa dell’azienda non ne integrano gli estremi (per cui anche in queste 2 ipotesi di procedure
concorsuali, il lavoratore licenziato ha diritto al preavviso).
In realtà, la nozione di giusta causa si è modificata nel corso del tempo:
Prima della l. 604/1966: l’opinione prevalente in dottrina era che la giusta causa si
identificasse con ogni fatto capace di giustificare la risoluzione del contratto senza
preavviso (in tronco); per cui poteva consistere non solo in un inadempimento, ma anche
ogni altro fatto che inficiasse il rapporto di fiducia personale tra datore e lavoratore (che
era ritenuto essenziale nel rapporto di lavoro), indipendentemente dalla colpa di quest’ultimo.
Dopo la l. 604/1966: la dottrina maggioritaria ha pensato che la nozione di giusta causa
dovesse essere modificata in relazione alla nuova nozione di gms (che prevedeva un notevole
inadempimento), dalla quale si differenziava solo per la particolare e maggiore gravità
dell’inadempimento, e non più sotto il piano della considerazione soggettiva della
persona del lavoratore e della fiducia del datore nei suoi confronti (che invece è stata
ridimensionata).
Contratti collettivi: di norma, i contratti collettivi contengono l’elencazione dei fatti che
legittimano il licenziamento senza preavviso per giusta causa (danneggiamento volontario di
macchinari e impianti; rissa nei luoghi di lavoro; furto; ingiurie; grave insubordinazione). Anche per la giusta causa,
come per il gms, queste tipizzazioni non sono vincolanti per le decisioni del giudice, il quale
deve comunque verificare, nel caso concreto, se la fattispecie rientri nell’area della giusta causa o
meno.
Principio immediatezza e tempestività: la validità e, quindi, la legittimità del licenziamento
per giusta causa è subordinata all’immediatezza e alla tempestività della sua adozione e
comunicazione, tenuto comunque conto del tempo per gli accertamenti necessari del datore di
lavoro.
Effetti della nullità del licenziamento: anche gli effetti hanno visto una modifica col passare del
tempo:
1) Prima della legge Fornero: tranne che per il licenziamento discriminatorio e ritorsivo
(per cui si applicava l’art. 18 St. lav., che prevedeva la reintegrazione), per le altre fattispecie di nullità,
il licenziamento era considerato come se non fosse mai esistito, e al lavoratore che
avesse costituito in mora il datore spettavano le retribuzioni maturate.
2) Legge Fornero (l. 92/2012): con la riscrittura dell’art. 18 St. lav., tutte le ipotesi di nullità
del licenziamento, e di inefficacia per mancanza della forma scritta, sono state unificate
e prevedono tutte la reintegrazione piena nel posto di lavoro, a prescindere dal n° di
dipendenti occupati dal datore di lavoro. Anche la riforma del 2015 dispone in questo
senso.
Differenza trattamento per inosservanza requisiti formali: per quanto attiene alle sanzioni
previste per l’inosservanza dei requisiti di forma del licenziamento, vi è una differenza tra la
vecchia (l. 604/1966, modificata dalla l. 108/1990) e la nuova disciplina (d. lgs. 23/2015):
L. 604/1966: è prevista la nullità del licenziamento sia per la mancanza di forma scritta,
sia per la mancanza dei motivi. La nullità del recesso datoriale dà diritto al risarcimento
del danno nei confronti del lavoratore (di solito pari alle retribuzioni perse). Questa disciplina
resta in vigore nell’area della tutela obbligatoria.
D. lgs. 23/2015: gli effetti del licenziamento illegittimo, che si applicano nell'area della
tutela reale, cambiano a seconda che:
a) Difetto di forma: se il licenziamento è intimato in forma orale, esso è
radicalmente nullo e si attua la reintegrazione piena.
b) Difetto di motivazione: se nel licenziamento manca la motivazione, risulta
violata la procedura per il licenziamento disciplinare o quella di conciliazione
obbligatoria per il licenziamento per gmo, la tutela è solo indennitaria (e anche in
misura minore rispetto alle altre ipotesi).
LICENZIAMENTO DISCIPLINARE
Sempre in merito alla forma, deve aggiungersi l’obbligo della procedura dell’art. 7 St. lav. per i
casi di licenziamento disciplinare, che includono tutti i casi di licenziamento per giusta causa e
per gms, mentre ne rimane escluso soltanto il licenziamento per gmo.
Anzitutto, l’art. 7 St. lav. prevede diversi vincoli procedurali all’esercizio del potere di
licenziamento (affissione del codice disciplinare in un luogo accessibile a tutti; divieto di provvedimento senza
preventiva contestazione degli addebiti e senza aver sentito il lavoratore a sua difesa).
Con l’entrata in vigore dello Statuto, si è posto in dottrina il problema del coordinamento tra
esercizio del potere di licenziamento per gms/giusta causa e l’art. 7 St. lav., soprattutto a fronte
della dicitura di tale norma, la quale dispone che “non possono essere disposte sanzioni
disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro”.
Dopo lunghe dispute giudiziali, la Corte di Cassazione ha previsto l’applicazione dei vincoli
procedurali a tutti i licenziamenti che hanno natura oggettivamente disciplinare (in quanto
motivati da un comportamento inadempiente del lavoratore).
Inosservanza limiti procedurali: infine, in caso di inosservanza dei vincoli posti dall’art. 7 nel
caso di licenziamento disciplinare, la Corte di Cassazione ha escluso che ricorra un ipotesi di
nullità di licenziamento; essa sostiene, invece, che in questi casi il licenziamento è da
considerarsi illegittimo, e viene assoggettato allo stesso trattamento sanzionatorio previsto per
il licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, ossia una tutela indennitaria
ridotta.
Innanzitutto, l’art. 2119 cc stabilisce che l’apertura della liquidazione giudiziale, nei confronti del
datore di lavoro, non costituisce giusta causa di licenziamento.
Curatore: tuttavia, per tutti i rapporti giuridici pendenti, ancora ineseguiti o eseguiti
parzialmente, è disposta la sospensione dei rapporti di lavoro, con conseguente perdita della
retribuzione e della contribuzione previdenziale. La sospensione si protrae fin quando il
curatore decida tra:
1) Subentro: il curatore comunica ai lavoratori di subentrare nei rapporti, assumendo i
relativi obblighi. Se avviene il subentro, i suoi effetti si producono fin dalla sua
comunicazione.
2) Recesso: il curatore invia la lettera di licenziamento nel caso in cui non sia possibile la
continuazione o il trasferimento d’azienda, o di un suo ramo, o sussistano manifeste
ragioni economiche riguardanti l’assetto dell’organizzazione del lavoro (ipotesi di gmo). Gli
effetti del recesso decorrono dalla data di apertura della liquidazione giudiziale.
Il curatore deve decidere tra le 2 opzioni entro 4 mesi dall’apertura della liquidazione, trascorso
il quale tutti i rapporti di lavoro subordinato ancora non estinti si intendono risolti di diritto,
con conseguente corresponsione ai lavoratori di un’indennità non assoggettata a contribuzione
previdenziale (pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione percepita per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio).
Proroga: il termine di 4 mesi è prorogabile dal giudice delegato, o su richiesta del curatore,
del direttore dell’ispettorato territoriale del lavoro o su istanza dei singoli lavoratori (ma in tal
caso gli effetti ricadranno solo nei confronti dei richiedenti), per un termine comunque non superiore a 8
mesi dall’ultima istanza. La proroga ha luogo, però, solo qualora si rinvengano concrete
possibilità di ripresa dell’azienda o di trasferimento dell’azienda (o solo un ramo).
RIMEDI CONTRO IL LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO
PREMESSA
L. 604/1966: Il quadro giuridico antecedente alla legge Fornero prevedeva 2 regimi di tutela
contro il licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo (soggettivo/oggettivo):
1) Tutela obbligatoria: lascia alla volontà del datore l’alternativa tra la riassunzione del
lavoratore, o il pagamento di un’indennità (art. 8 l. 604/1966). Si applica alle imprese di
piccole dimensioni.
2) Tutela reale: obbligo del datore di riassumere il lavoratore nel posto di lavoro (art. 18 St.
lav.). Si applica nei confronti delle imprese di grosse dimensioni.
L’applicazione di una o dell’altra tutela, quindi, si basava sulle diverse dimensioni aziendali.
Legge Fornero: in realtà oggi, dopo la modifica apportata dalla legge Fornero, l’art. 18 si applica
in tutti i casi di licenziamento discriminatorio, o altrimenti nullo, o inefficace per carenza della
forma scritta, indipendentemente dal n° di lavoratori occupati.
REINTEGRAZIONE PIENA
La reintegrazione piena (o tutela ripristinatoria con effetti risarcitori pieni) si applica nei casi
più gravi di licenziamento illegittimo, ossia quando quest’ultimo lede un diritto della persona
del lavoratore, oltre che il diritto al mantenimento del posto di lavoro. La reintegrazione piena si
applica in tutti i casi in cui viene dichiarata la nullità del licenziamento, ossia per:
1) Licenziamento discriminatorio.
2) Licenziamento intimato in concomitanza del matrimonio.
3) Licenziamento in violazione della tutela a favore della maternità/paternità.
4) Licenziamento riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge.
5) Licenziamento per motivo illecito.
6) Licenziamento intimato in forma orale.
Risoluzione del lavoratore: se, a seguito dell’avviso di reintegrazione, il lavoratore non abbia
ripreso servizio entro 30 gg, il rapporto di lavoro si intende risolto, salva l’ipotesi in cui il
lavoratore abbia richiesto l’indennità sostitutiva, la quale determina di per sé la risoluzione
contrattuale.
REINTEGRAZIONE ATTENUATA
La reintegrazione attenuata (o tutela ripristinatoria con effetti risarcitori attenuati) trova
applicazione nei casi più gravi di licenziamento ingiustificato per motivi soggettivi e oggettivi.
In tal caso, il giudice condanna, con sentenza costitutiva (non dichiarativa come nella reintegrazione
piena) il datore alla:
Reintegrazione del lavoratore.
Pagamento di un’indennità risarcitoria: l’indennità dev’essere pari all’ultima
retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento a quello della
reintegrazione, detratto quanto percepito dal lavoratore per lo svolgimento di altre attività
lavorative nel periodo di estromissione (aliunde perceptum), nonché di quanto avrebbe
potuto percepire dedicandosi alla ricerca di una nuova occupazione (aliunde
percipiendum). La misura dell’indennità non può superare le 12 mensilità della
retribuzione globale di fatto.
Anche in questo caso il datore deve versare i contributi previdenziali ed assistenziali del
periodo di estromissione.
Motivi soggettivi ingiustificati: la reintegrazione attenuata si applica in tutti quei casi in cui il
giudice accerta che non ricorrono gli estremi del gms o giusta causa di licenziamento, per:
Tutela obbligatoria vs tutela reale: in conclusione, se per i casi di tutela reale il licenziamento
privo di giustificazione è nullo o annullabile, nelle ipotesi di applicazione della tutela
obbligatoria esso, anche se illegittimo, non è annullabile, ma è soltanto illecito, per cui viene
sanzionato mediante obbligazione risarcitoria. L’effetto finale di estinzione del rapporto
lavorativo è ugualmente realizzato, salva l’ipotesi in cui il lavoratore riassuma il lavoratore mediante
un nuovo atto negoziale.
Interventi modificativi: tuttavia, il d.lgs. 23/2015 è stato modificato nel corso degli anni
seguenti:
1. Decreto dignità (2018): questo provvedimento ha incrementato la soglia minima (4→6
mensilità) e massima (18→36 mensilità) dell’indennità, lasciando inalterato il coefficiente
fisso di 2 mensilità per ogni anno di servizio.
2. Sentenza Corte costituzionale (2018): ha ritenuto illegittimo (per violazione del principio
di ragionevolezza) il criterio di calcolo dell’indennità commisurato alla sola anzianità di
servizio, introducendo altri parametri che ne vadano a determinare l’entità (n° dipendenti
occupati; dimensioni dell’attività economica; comportamento e condizioni delle parti).
CAMPO DI APPLICAZIONE
La nuova disciplina del d.lgs. 23/2015 si applica a:
Tutti i lavoratori appartenenti alle categorie degli operai, impiegati e quadri assunti
con contratto a tempo indeterminato dall’entrata in vigore del decreto stesso (7
marzo 2015): Vengono quindi esclusi i dirigenti, ai quali si applicherà, di conseguenza, il
vecchio regime previsto dall’art. 18 st. Lav. per tutte le ipotesi di licenziamenti illegittimi.
Lavoratori già occupati presso datori di lavoro che, a seguito di assunzioni avvenute
con la nuova disciplina, raggiungano le soglie dimensionali dettate dall’art. 18 St. lav.
(+15 lavoratori x unità produttiva; +60 dipendenti complessivi).
Casi di conversione di contratti a termine e di apprendistato in contratti a tempo
indeterminato successiva all’entrata in vigore del decreto.
Cambio di appalto: se il lavoratore passa alle dipendenze di un’altra impresa
subentrante nell’appalto, dopo il 7 marzo 2015, l’anzianità di servizio utile per il calcolo
dell’eventuale indennità da licenziamento illegittimo deve ricomprendere tutto il
periodo in cui questo ha lavorato nell’attività appaltata.
L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto, a seguito del subentro di un nuovo
appaltatore, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte di essa.
Aziende no profit: la disciplina è estesa anche ai datori di lavoro non imprenditori, che
svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, religiosa o di
culto senza scopo di lucro.
Perciò, la reintegrazione si configura sia come sanzione del licenziamento illegittimo, ma anche
come obbligo di fare che, in quanto tale, è infungibile e incoercibile.
Prosecuzione del vincolo iuris: qualora non sia possibile la prosecuzione materiale del rapporto
di lavoro, per volontà del datore, a seguito del licenziamento illegittimo, è garantita la
prosecuzione come vincolo iuris. In questo senso, perciò, alla condanna di reintegrazione, si
accompagna la condanna al pagamento di un’indennità risarcitoria (nelle diverse misure previste per
la vecchia e la nuova disciplina).
Indennità risarcitoria sostitutiva: sia la vecchia che la nuova disciplina prevedono poi
un’ulteriore indennità risarcitoria, sostitutiva della reintegrazione. Infatti, oltre all’indennità
spettante al lavoratore per il periodo di estromissione dal posto di lavoro, quest’ultimo ha il
diritto di optare, entro 30 gg dalla sentenza di reintegrazione, se riprendersi il posto di lavoro o
risolvere il rapporto, obbligando il datore al pagamento di un’ulteriore indennità pari a 15
mensilità di retribuzione globale di fatto (vecchia disciplina) o della retribuzione di riferimento per
il calcolo del TFR (nuova disciplina).
TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO (TFR)
Così formato, il TFR rappresenta sia un massimo che un minimo inderogabile dall’autonomia
negoziale individuale e collettiva, per espressa previsione di legge.
In ogni caso, il lavoratore ha un diritto di credito nei confronti del datore solo nel momento di
cessazione del rapporto. Nel corso del rapporto non potrà mai esigere preventivamente la
propria quota di TFR, ma potrà agire giudizialmente solo per accertarne l’entità o per
conservare la garanzia patrimoniale.
Erogazione TFR nella retribuzione mensile: una funzione diversa (incremento della
retribuzione corrente) svolge l’opzione del lavoratore, che abbia maturato almeno 6 mesi di
servizio, di includere la quota del TFR in corso di maturazione nella retribuzione mensile,
riducendone l’entità in misura corrispondente alla cessazione del rapporto di lavoro.
Tale diritto, introdotto in via sperimentale fino a giugno 2016, è un diritto potestativo del
lavoratore, a cui il datore non può opporsi, se esercitato. Perciò, lo Stato ha previsto che i piccoli
imprenditori che possano incontrare difficoltà ad erogare tali somme, possono fare ricorso ad un
finanziamento da parte di istituti di credito e intermediari finanziari.
Tuttavia, questa opzione non ha riscontrato molto successo per i lavoratori, poiché tale quota
integrativa della retribuzione è assoggettata a tassazione ordinaria ai fini dell’imposta sul
reddito del dipendente, e non a quella più favorevole prevista per il TFR; per cui il lavoratore, a
fronte di un’erogazione mensile maggiorata, subirebbe comunque una perdita economica rispetto
a quanto percepirebbe alla cessazione del rapporto.
Fondi pensionistici complementari: negli anni ’90 la funzione di risparmio previdenziale del
TFR è stata collegata all’introduzione di fondi pensionistici complementari del sistema
dell’assicurazione obbligatoria. Obiettivo dei fondi pensionistici complementari è consentire
livelli aggiuntivi di copertura previdenziale ai lavoratori dipendenti, autonomi, liberi
professionisti, soci lavoratori di cooperative di produzione, persone che svolgono lavori di cura,
derivanti da responsabilità familiari, non retribuiti, salva sempre la volontarietà dell’adesione da
parte del singolo lavoratore.
I fondi pensione possono essere istituiti dai contratti collettivi (anche aziendali) o, in mancanza,
da accordi fra lavoratori, promossi in ogni caso dai sindacati con maggiore rappresentanza
nazionale.
L’accesso alle forme pensionistiche complementari può essere realizzato attraverso:
Adesione a fondi aperti: in base alla previsione della contrattazione collettiva (adesioni
collettive).
Forme pensionistiche individuali.
L’onere del finanziamento dei fondi pensione è a carico dei destinatari (lavoratori) e, nel caso di
lavoratori subordinati o parasubordinati, anche a carico del datore di lavoro o committente.
Al fondo pensione può andare o parte della retribuzione, o altresì mediante conferimento del
TFR (a patto però che il lavoratore scelga tale opzione entro 6 mesi dall’assunzione mediante comunicazione
scritta al datore di lavoro).
Nelle forme pensionistiche complementari collettive è vietata qualsiasi discriminazione
diretta o indiretta per quanto riguarda:
a) Campo di applicazione e relative condizioni di accesso.
b) Obbligo di versamento dei contributi e calcolo degli stessi.
c) Calcolo delle prestazioni e le condizioni relative alla durata e al mantenimento del
diritto alle prestazioni.
TUTELA DEL LAVORATORE NEL MERCATO DEL LAVORO
INTERMEDIAZIONE PRIVATA
In passato, vigeva il divieto di mediazione (individuazione dei lavoratori da collocare) ed intermediazione
privata (assunzione di lavoratori da altri utilizzati) tra domanda-offerta di lavoro, la cui inosservanza era
punita con sanzioni a livello penale.
D.lgs. 469/97: tale divieto crollò a partire dal ’97, sia pure con un intervento legislativo molto
timoroso dei contraccolpi. Per questo si spiegano i limiti posti alla fornitura di lavoro temporaneo
e il vincolo di esclusività dell’attività di mediazione rispetto a quella di intermediazione.
Riforma Biagi (2003): col d.lgs. 276/2003 si è fatto un passo avanti per la liberalizzazione
dell’attività di intermediazione del mercato del lavoro, venendo meno:
Molte limitazioni riguardanti la fornitura di lavoro temporaneo, ora somministrato.
Il vincolo di esclusività, consentendo alle neo-costituite agenzie per il lavoro di svolgere
attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione di personale e
ricollocazione al lavoro.
Limiti mediazione privata: gli unici limiti all’attività di mediazione privata (che in realtà riguardano
anche quella pubblica) provengono da una serie di disposizioni definibili come statuto protettivo del
lavoratore nel mercato, le quali lo tutelano quando si pone alla ricerca di un’occupazione:
Ambito di diffusione dei dati del lavoratore: compete al lavoratore definire l’ambito di
diffusione dei propri dati all’interno del sistema di circolazione degli stessi.
Comunicazioni: le comunicazioni relative ad attività di ricerca e selezione del personale;
ricollocamento professionale; intermediazione/somministrazione attraverso stampa,
internet, televisione o altri mezzi informativi, deve avvenire su iniziativa di soggetti
autorizzati e nel rispetto delle modalità di legge.
Legittimazione attività di intermediazione dei gestori di siti internet: i gestori di siti
internet possono svolgere attività di intermediazione a patto che lo facciano senza fini di
lucro e che rendano pubblici sul proprio sito i dati identificativi del legale rappresentante.
Divieto di indagine su opinioni e divieto di trattamenti discriminatori nell’attività di
intermediazione.
Gratuità dell’attività di mediazione per i lavoratori, non anche per i datori di lavoro.
Al servizio pubblico fu mantenuta la competenza in merito all’inserimento al lavoro dei disabili
e all’avviamento a selezione presso le PA.
Ci sono voluti altri 10 anni per devolvere totalmente al privato l’attività di mediazione, finanche
alle categorie più svantaggiate, compresi i disabili.
Critiche riforma Renzi: alla riforma del Jobs Act 2 sono state mosse diverse critiche:
1) Il contrasto tra la ricentralizzazione delle competenze e l’art. 117 Cost.
2) Con riferimento all’integrazione tra politiche attive e passive, i tempi dell’operazione, dato
che la minore tutela “della” disoccupazione è già operativa, mentre la maggiore tutela
“contro” la disoccupazione è condizionata dalle concrete capacità dell’Agenzia
Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (ANPAL) su cui si regge l’intera riforma.
3) La configurazione assicurativa data agli ammortizzatori sociali (minore durata, collegamento
alla contribuzione versata, decalage), tale da aumentare il bisogno, ma diminuire la protezione,
quasi attribuendo la colpa al lavoratore del proprio stato di disoccupazione.
SIUPoL: elemento essenziale per l’integrazione tra politiche attive e passive del lavoro è
sicuramente la raccolta e la circolazione dei dati relativi ai soggetti che concorrono alla gestione
del mercato del lavoro (INPS; Regioni; soggetti privati accreditati; disoccupati; datori di lavoro). Questa infinità di
dati e informazioni viene gestito dal SIUPoL, nel quale confluiscono tutti i dati registrati
dall’ANPAL, INPS, ISFOL (ora INAPP), Regioni + PATB e Ministero del Lavoro.
Fascicoli elettronici: i dati di ogni singolo utente sono consultabili attraverso 2 fascicoli
elettronici:
Fascicolo elettronico del lavoratore (FEL): in sostituzione del libretto formativo del
cittadino, per i lavoratori si è creato il FEL, contenente informazioni relative a percorsi
educativi e formativi svolti, periodi lavorativi, fruizione di provvidenze pubbliche e
versamenti contributivi ai fini della fruizione degli ammortizzatori sociali.
Fascicolo dell’azienda (FEA): per le aziende, invece, è stato creato il FEA, contenente tutte
le comunicazioni obbligatorie, all’interno della banca dati, relative alle politiche attive del
lavoro e agli incentivi erogati ai datori di lavoro.
STATO DI DISOCCUPAZIONE
Il d.lgs. 150/2015 ha modificato la disciplina relativa all’acquisizione, al mantenimento e alla
perdita dello stato di disoccupazione. Sul punto è intervenuto successivamente anche il d.l.
4/2019, il quale considera in stato di disoccupazione non solo i soggetti privi di impiego e che si
dichiarino immediatamente disponibili al lavoro (DID), o a partecipare a misure di politica attiva, ma
anche i lavoratori precari occupati che hanno un reddito annuo che ricada nella “no tax area”.
No tax area: secondo ANPAL, il lavoratore dipendente permane nella no tax area se ha redditi da
lavoro dipendente (o assimilati) non superiori a 8.145€ l’anno, indipendentemente dalla durata
del rapporto di lavoro e al netto dei contributi a carico del lavoratore (ai fini IRPEF). In caso di
lavoratore autonomo, la no tax area si abbassa fino a 4.800€ annui.
Sospensione stato di disoccupazione: una volta acquisito lo stato di disoccupazione, può essere
sospeso in caso di rapporto di lavoro subordinato di durata non superiore a 6 mesi, fermo
restando che bisognerà considerare anche se il reddito, derivante dall’occupazione, rientri o meno
nella no tax area, in quanto:
No tax area: se il reddito rientra nella no tax area, il soggetto sarà comunque considerato
disoccupato, anche qualora il rapporto di lavoro dovesse avere una durata superiore a 6
mesi.
Tax area: se il reddito è superiore alla no tax area, lo stato di disoccupazione sarà sospeso
per massimo 6 mesi. A decorrere dal 181° gg, il soggetto non sarà più considerato
disoccupato.
La disciplina della sospensione dello stato di disoccupazione muta in relazione alle varie fattispecie:
1) Contratto di lavoro intermittente: se il disoccupato riceve un contratto di lavoro
intermittente, conserva lo stato di disoccupazione per tutta la durata del contratto, a
patto però che la retribuzione annua non superi la no tax area.
Invece, la situazione cambia se nel contratto è presente o meno dell’obbligo di risposta
da parte del lavoratore e, quindi, della correlata indennità di disponibilità per i periodi
non lavorativi:
Assenza di obbligo di risposta e ricevimento di indennità: lo stato di
disoccupazione resta sospeso nei periodi di effettivo svolgimento dell’attività
lavorativa, mentre nei periodi di non lavoro, il soggetto è considerato disoccupato.
Obbligo di risposta e ricevimento di indennità: lo stato di disoccupazione è
sospeso per tutta la durata del contratto se la retribuzione annua prospettica sia
superiore a 8.145€. Tuttavia, se il lavoratore svolge più di 180 gg continuativi di
lavoro effettivo, decade dallo stato di disoccupazione, se la retribuzione annua
prospettica superi 8.145€.
2) NASpI: la NASpI è una indennità mensile di disoccupazione che spetta ai lavoratori con
rapporto di lavoro subordinato che hanno perduto involontariamente l'occupazione. In
merito alla sospensione dello stato di disoccupazione, si usa distinguere i lavoratori percettori
di NASpI in base a che instaurino un:
Rapporto di lavoro subordinato: in questo caso:
Se il reddito annuale derivante dalla nuova occupazione supera 8.145€, il
lavoratore decadrà dall’erogazione della NASpI, a meno che il rapporto di
lavoro non abbia durata superiore a 6 mesi, dove la prestazione verrà
sospesa d’ufficio per tutta la durata del rapporto lavorativo.
Se il reddito annuale derivante dalla nuova occupazione è inferiore a 8.145€,
si avrà la conservazione del diritto alla prestazione, seppur in maniera
ridotta, a patto però che sia comunicato all’INPS il reddito annuo previsto,
entro 30 gg dall’inizio dell’attività lavorativa, e che il datore (o utilizzatore→
contratto di somministrazione) siano diversi dal datore (o utilizzatore) per i quali
il lavoratore prestava la propria attività quando è cessato il rapporto di
lavoro, determinando il diritto alla NASpI.
Rapporto di lavoro autonomo: se il percettore di NASpI avvii un’attività lavorativa
autonoma o un’impresa individuale, il cui reddito annuo previsto rientri nella no
tax area, con obbligo di informare l’INPS entro 30 gg, egli continuerà a percepire la
NASpI, ma di un importo ridotto dell’80% del reddito previsto. Successivamente,
la riduzione è calcolata d’ufficio al momento della presentazione della
dichiarazione dei redditi.
3) DIS-COLL: il DIS-COLL è un’indennità di disoccupazione mensile per collaboratori
coordinati e continuativi, anche a progetto, assegnisti di ricerca e dottorandi di ricerca
con borsa di studio che hanno perso involontariamente la propria occupazione. La sua
erogazione è condizionata non solo dalla permanenza nello stato di disoccupazione, ma
anche dalla partecipazione ad iniziative di attivazione lavorativa e percorsi di
riqualificazione professionale proposti dai Servizi competenti.
Se il percettore di DIS-COLL instaura un nuovo:
Rapporto di lavoro subordinato: se il nuovo rapporto di lavoro ha durata
superiore a 5 gg, decade la prestazione di DIS-COLL; viceversa, rimarrà sospesa se
il contratto ha durata inferiore.
Rapporto di lavoro autonomo: se invece il percettore avvii un’attività di lavoro
autonomo o impresa individuale con un reddito annuo auspicabile non superiore
alla no tax area, deve comunicare all’INPS entro 30 gg dall’inizio dell’attività il
reddito annuo che prevede di trarne. In tal caso, avrà diritto al mantenimento della
DIS-COLL, ma con un importo ridotto dell’80%, fino alla presentazione della
dichiarazione dei redditi, in cui la riduzione verrà ricalcolata d’ufficio. In caso di
mancata comunicazione all’INPS, il lavoratore decadrà dal diritto alla DIS-COLL.
Decadenza dello stato di disoccupazione: oltre ai casi appena visti, vi sono altri casi in cui
concorre la decadenza dello stato di disoccupazione:
a) 3° mancata presentazione alle convocazioni/appuntamenti per la profilazione, la stipula
del PSP o la frequenza ordinaria di contatti col responsabile delle attività, senza
giustificato motivo.
b) Mancata partecipazione ad iniziative di orientamento, 2° mancata partecipazione alle
iniziative di carattere formativo, riqualificazione o altre forme di politica attiva, senza
giustificato motivo.
c) Mancata accettazione di un’offerta di lavoro congrua, senza giustificato motivo.
Misure di attivazione dell’utenza: l’oggetto del PSP è l’attivazione di chi cerca lavoro
(disoccupato; mai occupato; beneficiario di ammortizzatori sociali ecc.), ma anche di lavoratori già occupati che
vogliono cercare un’altra occupazione (con priorità per i primi), attraverso percorsi personalizzati di
istruzione-formazione professionale-lavoro.
Le singole misure di attivazione sono rimesse ai centri per l’impiego e costituiscono LEP.
L’attivazione è estesa anche ai disabili.
L’attività dei centri per l’impiego può essere delegata anche a soggetti privati accreditati e
garantendo in ogni caso all’utente la possibilità di scegliere tra servizio pubblico e privato, ad
eccezione del PSP e del rilascio dell’AIR.
RIPERSONALIZZAZIONE DELLA CONDIZIONALITÀ
Meccanismo di attivazione e condizionalità: chi riceve un sostegno al reddito (politica
passiva), si deve impegnare a partecipare a misure di politica attiva del lavoro, o accettare offerte
di lavoro congrue, pena la riduzione/perdita del sostegno economico e dello stato di
disoccupazione. Infatti, il meccanismo di condizionalità prevede il principio di gradualità delle
sanzioni:
Prima la decurtazione progressiva del sostegno al reddito (prima ¼ mensilità, poi intera)
attraverso il decalage (-3% dal 4°mese)
Fino alla perdita completa della prestazione e dello stato di disoccupazione.
La riforma Renzi ha voluto ripersonalizzare il meccanismo di condizionalità, sanando la frattura
creatasi nel 2004 e accentuatasi nel 2012.
Excursus normativo:
D.lgs. 181/2000: tale decreto definiva “congrua” la proposta di lavoro che tenesse conto
della professionalità posseduta dall’interessato.
D.lgs. 297/2002: la stessa norma, modificata nel 2002, collegava la congruità alla durata
del rapporto offerto (differenziata tra giovani e non) e alla sua collocazione geografica.
Requisito della durata del rapporto che successivamente scomparve a seguito della 2°
modifica della riforma Fornero (2012).
L. 291/2004: il legislatore ha adottato una nozione di offerta congrua, riferita ai percettori
di trattamenti di disoccupazione, totalmente sganciata dalla professionalità posseduta
dall’interessato, ma agganciata al dato retributivo (livello retributivo non inferiore al 20% rispetto
al livello delle mansioni di provenienza) e alla collocazione geografica.
Legge Fornero (2012): la frattura viene ulteriormente accentuata in quanto viene preso
come livello retributivo di riferimento l’importo lordo dell’indennità di disoccupazione
cui l’interessato ha diritto, maggiorata di almeno il 20%, confermandosi in ogni caso il
requisito della collocazione geografica.
Riforma Renzi (2015): la frattura viene in parte ricomposta dalla riforma Renzi, la quale
prevede che, dopo aver individuato le misure di politica attiva, è prevista la profilazione del
disoccupato da aggiornare periodicamente (ogni 90 gg) e la stipula del PSP che tiene conto
della profilazione. L’obiettivo di tale riforma è ridare importanza alla professionalità e alle
competenze possedute dal disoccupato, attraverso PSP e congrua offerta di lavoro.
Congruità dell’offerta: per quanto riguarda la “congruità” dell’offerta di lavoro, si tiene conto di
4 indici:
1) Coerenza con le esperienze maturate.
2) Durata della disoccupazione: la durata dello stato di disoccupazione viene considerata
secondo 3 intervalli temporali (0-6 mesi; 6-12 mesi; +12 mesi), ai quali viene agganciata la
rilevazione delle esperienze/competenze maturate.
3) Collocazione geografica: la durata della disoccupazione incide anche sulla congruità
dell’offerta di lavoro dal punto di vista della collocazione geografica.
Primi 12 mesi disoccupazione: l’offerta è congrua quando il luogo di lavoro è a non
più di 50 km dal domicilio, o sia raggiungibile mediamente in 80 min con i trasporti
pubblici. In assenza di mezzi pubblici, vi è una riduzione del 30% delle distanze (35
km).
Oltre 12 mesi disoccupazione: l’offerta è congrua se il luogo di lavoro dista non
più di 80 km o sia raggiungibile mediamente in 100 min coi trasporti pubblici. In
assenza di mezzi pubblici, vi è una riduzione del 30% delle distanze (56 km).
4) Retribuzione: per i soggetti beneficiari di NASpI e AIR, indipendentemente dalla durata
dello stato disoccupazionale, l’offerta di lavoro è congrua se la retribuzione è superiore
di almeno il 20% rispetto all’indennità percepita nell’ultimo mese precedente, o del 10%
per i beneficiari del RdC.
L’offerta di lavoro è congrua quando ricorrono contestualmente i seguenti requisiti:
a) Rapporto di lavoro a tempo indeterminato o determinato/di somministrazione non
inferiore a 3 mesi.
b) Rapporto di lavoro a tempo pieno o con un orario di lavoro non inferiore all’80%
dell’orario dell’ultimo contratto di lavoro.
c) Retribuzione non inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi.
Disabili: per quanto riguarda l’offerta di lavoro congrua relativa ai disabili, questa deve tener
conto delle condizioni psico-fisiche del soggetto, a cui non si possono richiedere prestazioni
lavorative incompatibili con le loro minorazioni.
Rifiuto proposta di lavoro: il lavoratore, a cui pervenga una proposta di lavoro, può rifiutarne
l’offerta, andando incontro a diverse conseguenza a seconda che vi sia:
Rifiuto legittimo: rifiuto dell’offerta di lavoro che, seppur rispetti il criterio della
retribuzione (retribuzione superiore 20% NASpI/AIR/RdC ultimo mese), non rispetti il criterio della
coerenza con le esperienze maturate.
Rifiuto illegittimo: il rifiuto da parte del disoccupato di un’offerta di lavoro congrua fa
decadere il diritto alla prestazione e dello stato di disoccupazione, fermo restando
comunque l’obbligo di comunicazione e documentazione del giustificato motivo di
rifiuto entro 2 gg lavorativi dalla proposta dell’offerta di lavoro congrua.
Convocazione: una volta riconosciuto il diritto al RdC, il beneficiario viene convocato entro 30
gg presso:
Centri per l’impiego: il beneficiario di RdC viene convocato dal Centro per l’impiego per
siglare il Patto per il lavoro, a patto che nella famiglia almeno un componente sia in 1 delle
seguenti condizioni:
a) Disoccupato da non più di 2 anni.
b) Beneficiario di NASpI o di altro strumento di sostegno al reddito.
c) Sottoscrittore di un Patto di servizio presso i Centri per l’impiego negli ultimi 2
anni.
d) Non abbia sottoscritto un progetto personalizzato per il Reddito di inclusione
(REI).
Il beneficiario convocato deve rispettare gli impegni assunti alla firma del Patto per il
lavoro, tra cui quello di accettare almeno 1 di 3 offerte di lavoro congrue in base a
parametri quali:
Coerenza tra lavoro-esperienza/competenza;
Durata stato di disoccupazione;
Distanza dal domicilio: è congrua l’offerta di lavoro che
Primi 12 mesi di RdC: sia collocata, dalla residenza del beneficiario, a:
1. 1°offerta: 100 km distanza; raggiungibile in 100 min con mezzi
pubblici.
2. 2° offerta: 250 km distanza.
3. 3° offerta: ovunque in Italia.
Dopo 12 mesi di RdC: sia collocata, dalla residenza del beneficiario, a:
1. 1°-2° offerta: 250 km distanza
2. 3° offerta: ovunque in Italia.
Rinnovo del beneficio: offerta congrua ovunque in ITA anche a 1° offerta.
Servizi dei comuni competenti: in tutti gli altri casi, la convocazione avviene ad opera dei
servizi dei comuni competenti per il contrasto alla povertà, affinché sia stipulato il Patto
per l’inclusione sociale.
Sospensione/decadenza RdC: la violazione degli impegni assunti dal nucleo familiare dopo la
sottoscrizione del Patto per l’inclusione sociale può essere sanzionata con la
sospensione/decadenza dal RdC (in caso di mancata presentazione alle convocazioni/appuntamenti; mancato
rispetto di altri impegni previsti nel Patto ecc.)
Indebita percezione RdC: sono previste sanzioni più gravi, anche penali, in caso di indebita
percezione del RdC, per effetto di documenti falsi e dichiarazioni mendaci o attestanti cose non
vere, omissione di informazioni dovute, per cui è prevista la reclusione da 2-6 anni. Mentre, la
mancata comunicazione delle variazioni reddituali o patrimoniali o di altre informazioni rilevanti
ai fini della revoca/riduzione del RdC è punita con la reclusione da 1-3 anni.
COLLOCAMENTI SPECIALI
A fronte della totale eliminazione del collocamento ordinario, sono sopravvissuti alcuni
collocamenti speciali, oltre a quello dei lavoratori disabili:
L. 482/1968: per quanto riguarda il collocamento dei disabili, prima della l. 68/1999 vigeva la l.
482/1968, la quale però aveva un meccanismo meramente impositivo nei confronti dei datori di
lavoro, i quali avevano l’obbligo di assunzione dei lavoratori disabili, senza alcun incentivo.
La disciplina, perciò, è stata profondamente modificata prima dalla l. 68/1999 e in seguito dal Jobs
Act 2.
Ratio e finalità l. 68/1999: l’obiettivo della riforma del ’99 è quello di garantire il diritto al lavoro
dei disabili, sempre prevedendo il collocamento obbligatorio, ma strutturalmente diverso.
Infatti, la legge prevede degli incentivi all’inserimento del disabile nell’organizzazione lavorativa,
in modo da non disciplinare il solo inserimento del disabile nel mondo del lavoro, ma puntando su
una sua vera e propria integrazione.
Questo meccanismo prende il nome di “collocamento mirato”, inteso come insieme di strumenti
tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle
loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, analizzando i vari posti di lavoro, le forme
di sostegno ecc. In sostanza, il datore di lavoro non viene obbligato ad assumere un soggetto
appartenente alle categorie protette per poi essere abbandonato, ma viene incentivato
all’adempimento del collocamento attraverso una serie di misure, anche economiche.
Tuttavia, non in tutte le Regioni l’inserimento dei disabili è stato uguale; infatti, specie nelle regioni
del Sud, l’inserimento dei disabili ha avuto delle percentuali bassissime rispetto a quelle del Nord.
Difatti, l’inserimento non ha funzionato nelle Regioni in cui non hanno funzionato anche i servizi
per l’impiego. Ed è proprio per questo motivo che il riaccentramento delle competenze operato
dal Jobs Act 2 ha coinvolto anche il collocamento dei disabili.
SOGGETTI PROTETTI
La 1° differenza con la vecchia disciplina è l’individuazione dei soggetti protetti, ora chiamati
“disabili” e non più “invalidi”.
Altra novità è stato l’abbandono del calcolo percentuale dei posti riservati alle categorie di
soggetti protetti, attraverso la previsione di un unico elenco, creato secondo determinati criteri, in
cui rientrano i portatori di disabilità, qualunque sia la causa che l’ha determinata, e dai quali si può
attingere per l’avviamento al lavoro.
Categorie: i soggetti protetti sono sia persone con disabilità che normodotati:
1) Invalidi civili (riduzione capacità lavorativa +45%): soggetti le cui capacità di lavoro,
attinenti alle loro attitudini, siano ridotte in modo permanente a causa di infermità, difetti
fisici o mentali a meno di ⅓ (minorati fisici, psichici, sensoriali; portatori di handicap intellettivo; invalidi
civili). L’accertamento della disabilità avviene a cura delle Commissioni ASL.
A differenza della previgente normativa, la l. 68/1999 non fa distinzione tra handicap fisico
e mentale, la quale aveva provocato in passato l’esclusione della tutela degli invalidi psichici,
ma anzi vi destina una tutela particolarmente pregnante.
2) Invalidi da lavoro (invalidità +33%): in questo caso l’invalidità viene accertata dall’INAIL.
La materia è stata significativamente modificata dalla riforma del 2015, salvo che per le
persone non vedenti o sordomute per le quali restano vigenti le norme preesistenti alla l.
68/1999.
3) Invalidi di guerra: rientrano nella tutela sia i civili di guerra che per servizio.
L’accertamento della disabilità, in tal caso, avviene ad opera delle commissioni mediche
militari.
Come si può notare, la riforma del 1999 non ha risolto il problema della competenza
all’accertamento della disabilità poiché, in base alla causa determinante, intervengono diversi
enti (commissioni mediche ASL; INAIL; militari).
4) Orfani; coniugi superstiti di lavoratori deceduti/divenuti grandi invalidi per cause di
lavoro/guerra/servizio; profughi italiani rimpatriati (cittadini italiani residenti all’estero e da questi
paesi cacciati/scappati): per queste categorie di soggetti normodotati, che tuttavia vivono in una
situazione di disagio, la l. 68/1999 prevede una quota di riserva sul n° di dipendenti pari
all’1% aggiuntiva rispetto a quella prevista per i disabili, e posta a carico per i soli datori di
lavoro che occupino + di 50 dipendenti.
5) Superstiti di mafia/terrorismo: dopo gli eventi drammatici di mafia e terrorismo, si è voluta
allargare la tutela anche al coniuge, figli superstiti, fratelli conviventi e a carico che siano
gli unici superstiti di vittime o soggetti resi permanentemente invalidi per atti di
terrorismo o per fatti delittuosi di matrice mafiosa.
6) Testimoni di giustizia.
Queste ultime categorie, oltre alle tutele previste, hanno diritto al collocamento obbligatorio
presso le PA, con precedenza rispetto ad ogni altra categoria, e con preferenza a parità di titoli.
SOGGETTI OBBLIGATI
Area dell’obbligo: rispetto alla disciplina previgente, la riforma del ’99 ha apportato un
ampliamento dell’area dell’obbligo, compensata da una riduzione della percentuale dei posti da
riservare ai disabili. Infatti, ora sono obbligati ad assumere disabili tutti i datori di lavoro, pubblici
e privati, che occupino almeno 15 dipendenti:
Datori con 15-35 dipendenti: obbligo ad assumere 1 disabile. È una novità rispetto al
passato, in quanto questa categoria era prima esclusa.
Tuttavia, l’obbligo di assunzione scatta solo in caso di nuove assunzioni (infatti, se il datore
effettua una nuova assunzione, aggiuntiva rispetto ai dipendenti in servizio, è obbligato ad assumere entro 12 mesi
un disabile. Se nello stesso termine il datore effettua una 2° nuova assunzione, l’obbligo di assunzione del disabile
andava adempiuto immediatamente).
Datori con 36-50 dipendenti: obbligo ad assumere 2 disabili.
Datori con + di 50 dipendenti: obbligo ad assumere il 7% di lavoratori disabili + 1% di
normodotati “svantaggiati” (n°4-5-6).
Invalidi interni: la l. 68/1999 ha ridisciplinato il fenomeno degli “invalidi interni”, cioè
dell’eventuale computo, nella quota d’obbligo, dei lavoratori invalidatisi nel corso del rapporto di
lavoro. Si è previsto che possono essere conteggiati solo:
a) Soggetti divenuti invalidi per infortunio/malattia sul lavoro che abbiano subito una
riduzione della capacità lavorativa + del 60%.
b) Soggetti divenuti inabili non per inadempimento del datore di lavoro in merito le
norme per la sicurezza e l’igiene del lavoro (accertato giudizialmente).
Lavoratori già disabili: infine, la l. 68/1999 ha previsto il computo dei lavoratori già disabili,
prima della costituzione del rapporto di lavoro, anche se non assunti tramite collocamento
obbligatorio, nel caso in cui abbiano una riduzione della capacità lavorativa + 60%, o una
disabilità intellettiva/psichica con conseguente riduzione della capacità lavorativa + 45%,
accertata dagli organi competenti.
Computo n° dipendenti: per capire in quale classe d’obbligo rientri il singolo datore di lavoro,
o se ne sia totalmente escluso, la legge prevede alcune categorie da escludere nel computo del
n° di dipendenti:
Lavoratori occupati ai sensi della l. 68/1999.
Soci di cooperative di produzione e lavoro.
Dirigenti.
Lavoratori occupati con contratto di somministrazione presso l’utilizzatore.
Lavoratori assunti per attività da svolgersi all’estero, per tutta la sua durata.
Soggetti impegnati in lavori socialmente utili.
Lavoratori a domicilio.
Lavoratori che aderiscono al programma di emersione.
Sono da computare invece:
o Lavoratori con contratto di apprendistato (prima esclusi).
o Lavoratori a tempo parziale: computati in proporzione a orario svolto/orario totale.
o Lavoratori intermittenti: computati in proporzione all’orario effettivamente svolto
nell’arco di ogni semestre.
o Lavoratori a tempo determinato: se il contratto ha durata + 6 mesi.
Disabili licenziati: per agevolare il reinserimento dei disabili licenziati per riduzione del
personale o per gmo, gli stessi mantengono la posizione in graduatoria acquisita all’atto
dell’inserimento nell’azienda che li ha poi licenziati.
Decadenza del trattamento di disoccupazione (NASpI): il disabile che rifiuti per 2 volte
consecutive, senza giustificato motivo, un posto di lavoro idoneo alle competenze possedute e alle
proprie minorazioni, decade dal diritto alla NASpI e viene cancellato per 6 mesi dalla lista di
collocamento.
ASSUNZIONI OBBLIGATORIE
Richiesta di avviamento (nominativa): il datore di lavoro obbligato deve fare richiesta di
avviamento, ove non stipuli una convenzione di inserimento lavorativo, agli uffici competenti. Tale
richiesta, a differenza del passato, ora è totalmente nominativa (non più numerica), il che permette al
datore di scegliere nominativamente il soggetto, anche attraverso una pre-selezione, tra i disabili
disoccupati iscritti nell’elenco.
Avviamento per graduatoria: se il datore non assume secondo queste modalità, entro 60 gg dal
giorno in cui sorge l’obbligo di assunzione dei lavoratori disabili, gli uffici competenti avviano i
lavoratori disabili secondo l’ordine di graduatoria, in base alla qualifica richiesta o a qualifiche
simili. Gli uffici possono procedere anche previa chiamata con avviso pubblico, e con graduatoria
limitata a coloro che aderiscono alla specifica occasione di lavoro. Il Ministero del lavoro ha il
compito di monitorare gli effetti di questa modalità di avviamento.
Avviamento per convenzione: se l’assunzione riguarda una disabile psichico, la richiesta è
sempre nominativa, ma dev’essere attuata col meccanismo della convenzione.
Banca dati collocamento mirato: ogni anno il datore deve inviare alla Banca dati del
collocamento mirato un prospetto informativo nella quale vanno indicati:
Consistenza dell’organico.
Lavoratori da non computare nella quota d’obbligo.
Entità della quota d’obbligo.
Eventuali scoperture.
La legge riconosce al prospetto informativo valore di richiesta, la quale dev’essere comunque
effettuata entro 60 gg dall’insorgenza dell’obbligo; se nell’anno precedente non ci sono state
variazioni di organico, non vi è obbligo di invio del prospetto informativo.
La Banca dati del collocamento mirato, nata con la l. 68/1999 come sezione della Banca dati
politiche attive e passive, ha come scopo quello di razionalizzare la raccolta sistematica dei dati
sul collocamento mirato, di semplificare gli adempimenti, di rafforzare i controlli e di migliorare
il monitoraggio e la valutazione degli interventi in materia di collocamento mirato.
La Banca dati del collocamento mirato raccoglie informazioni sui datori di lavoro pubblici e
privati obbligati e sui lavoratori interessati. Perciò viene alimentata dai dati che le vengono
trasmessi da:
Datori di lavoro: i quali trasmettono alla Banca dati:
Prospetti informativi.
Comunicazioni obbligatorie e le informazioni relative al lavoratore disabile
assunto.
Info su sospensioni degli obblighi, esoneri autorizzati e convenzioni.
Info sui soggetti iscritti negli elenchi del collocamento obbligatorio.
INPS: trasmette info relative agli incentivi di cui beneficia il datore di lavoro.
INAIL: trasmette info relative agli interventi di reinserimento e di integrazione lavorativa
delle persone con disabilità da lavoro.
Regioni e PATB: trasmettono info relative agli incentivi e alle agevolazioni erogate sulla
base di disposizioni regionali e dal Fondo Regionale per l’occupazione dei disabili, per il
collocamento delle persone con disabilità.
Utilizzo informazioni Banca dati: la Banca dati del collocamento mirato mette poi a
disposizione le informazioni raccolte alle Regioni + PATB, agli enti pubblici responsabili del
collocamento mirato, all’INAIL e infine a enti di ricerca e di studio per elaborazioni a fini
statistici.
CONVENZIONI
Altra novità introdotta dalla l. 68/1999 è quella dell’assunzione e/o distacco tramite convenzione.
1) Convenzione per assunzione: la legge prevede che il datore possa stipulare una
convenzione con gli uffici competenti, specie per i disabili caratterizzati da forti difficoltà
all’inserimento nel mondo del lavoro, nella quale concordi tempi e modalità di
assunzione, tirocini di inserimento, assunzioni a termine o in prova. L’assunzione di
disabili psichici può avvenire solo mediante questa tipologia di convenzione.
2) Convenzione per assunzione con temporaneo distacco: una variante della 1° convenzione
è quella che prevede l’assunzione del disabile da parte del datore di lavoro obbligato, ma
con temporaneo distacco del lavoratore presso cooperative sociali, imprese sociali, liberi
professionisti disabili o altri datori di lavoro non soggetti ad obbligo di assunzione. Si
tratta dunque di un distacco temporaneo, con conseguente ritorno del disabile in azienda
al termine della convenzione. Affinché si scelga questa strada, la legge prevede una serie
di condizioni che devono sussistere per la stipula della convenzione, la quale ha durata
massima di 12 mesi, prorogabile 1 sola volta per ulteriori 12 mesi.
3) Convenzione per assunzione presso ente convenzionato: ultima fattispecie prevede
l’assunzione del disabile direttamente presso l’ente ospitante (cooperative sociali, imprese sociali
o altri datori di lavoro non soggetti ad obbligo di assunzione), e quindi non presso il datore di lavoro
legalmente obbligato, il quale assumerà il disabile solo alla scadenza della convenzione
di durata non inferiore a 3 anni, prorogabile per un periodo non inferiore a 2 anni.
Questa convenzione può essere stipulata se ci si trovi difronte a disabili con particolari
caratteristiche e difficoltà di inserimento nel ciclo lavorativo, e in ogni caso a non più
del 10% della quota d’obbligo per i datori di lavoro con + 50 dipendenti.
INCENTIVI
La disciplina degli incentivi accordati ai datori di lavoro obbligati all’assunzione dei disabili (ma
anche quelli non obbligati possono accedervi), introdotta con la l.68/1999 è stata più volte oggetto di
dibattito e di modifiche, tanto che sia nel 2007, che nel 2015, l’art. 13 è stato sostituito quasi per
intero.
D.lgs. 151/2015: la novella del 2015 reintroduce un incentivo, economico, calcolato e concesso
su base mensile, al posto del contributo all’assunzione una tantum introdotto nel 2007, garantendo
così una stabilità del rapporto maggiore.
Durata incentivo: l’incentivo ha durata variabile a seconda del tipo di disabilità del lavoratore
assunto. Ha una durata standard di 36 mesi, incrementata a 60 mesi per i disabili psichici e
intellettivi.
Misura incentivo: anche l’entità dell’incentivo varia a seconda della percentuale di riduzione
della capacità lavorativa:
1) 70% retribuzione mensile lorda: disabile con riduzione della capacità lavorativa +79%.
2) 70% retribuzione mensile lorda: disabile psichico/intellettivo con riduzione della
capacità lavorativa +45%.
3) 35% retribuzione mensile lorda: disabile con riduzione della capacità lavorativa tra 67%-
79%.
Condizioni per godimento incentivo: la condizione fondamentale per il godimento dell’incentivo
resta l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con l’unica eccezione per i
disabili psichici/intellettivi per i quali è consentita anche l’assunzione a termine di durata non
inferiore a 12 mesi (ovviamente, l’incentivo verrà erogato fino al termine del contratto).
Procedura d’accesso agli incentivi:
La fruizione avviene mediante conguaglio nelle denunzie contributive mensili.
L’INPS è obbligato a comunicare, entro 5 gg dalla trasmissione della domanda, se c’è
capienza di risorse, con riserva della somma necessaria a finanziare l’incentivo.
Il datore deve stipulare il contratto di lavoro entro 7 gg dalla comunicazione, e nei
successivi 7 gg darne comunicazione all’INPS. Si tratta di termini perentori, la cui
inosservanza comporta la perdita del beneficio.
Le domande di incentivo vengono valutate dall’INPS in base all’ordine cronologico di
presentazione, con comunicazione sul sito internet istituzionale dell’esaurimento delle
risorse.
Fondo Nazionale disabili: per il finanziamento degli incentivi la legge ha istituito il Fondo
Nazionale disabili presso il Ministero del lavoro. Il Fondo si articola in più Fondi a livello regionale,
istituiti dalle Regioni, i quali erogano i contributi aggiuntivi o altre provvidenze. Ai Fondi regionali
confluiscono varie risorse, tra cui le sanzioni per inadempimento dell’obbligo di assunzione,
nonché i contributi esonerativi.
I Fondi regionali erogano:
Contributi agli enti che svolgono attività di sostegno e integrazione lavorativa dei
disabili.
Contributi per il rimborso spese necessarie agli “accomodamenti ragionevoli” per i
lavoratori con riduzione della capacità lavorativa +50% (utilizzo di tecnologie di telelavoro;
rimozione di barriere architettoniche che limitano l’integrazione lavorativa del disabile; istituzione del disability
manager (responsabile dell’inserimento lavorativo dei disabili) ecc.).
Ogni altra provvidenza in finalità dell’integrazione dei disabili.
Fondo per il diritto al lavoro dei disabili: la riforma del 2015 ha modificato anche l’utilizzo delle
risorse del Fondo per il diritto al lavoro dei disabili:
Pre-riforma 2015: la ripartizione delle risorse avveniva annualmente tra Regioni e PATB
in proporzione alle richieste presentate e ritenute ammissibili.
Post-riforma 2015: le Regioni sono quasi del tutto estromesse dalla gestione delle risorse
del Fondo, prevedendosi che il 95% di tali risorse vengano trasferite all’INPS, il quale poi
provvede alla corresponsione dell’incentivo. Il rimanente 5% è destinato a Regioni e PATB,
ma sulla base di linee guida previste dal Ministero del lavoro.
SANZIONI
L’apparato sanzionatorio della l. 68/1999 prevede sanzioni per:
Ritardo nell’invio del prospetto informativo: è prevista una sanzione amministrativa
pecuniaria di 635,11€ + 30,76€ per ogni giorno di ulteriore ritardo.
Se è una PA ad essere inadempiente, si applicano le sanzioni penali, amministrative e
disciplinari previste dalle norme sul pubblico impiego.
Inadempimento dell’obbligo di assunzione dei disabili: per ogni giorno di ritardo per
l’assunzione dei disabili, il datore è obbligato al versamento di una sanzione
amministrativa pari a 5 volte la misura del contributo esonerativo (153,20€), che va al
Fondo regionale per l’occupazione dei disabili.
Diffida: il Jobs Act 2 ha introdotto, per l’obbligo di assunzione, la possibilità di applicazione
della diffida, ossia di ovviare all’inadempimento dell’obbligo presentando agli uffici
competenti la richiesta di assunzione o la stipulazione del contratto di lavoro del disabile
avviato dagli uffici stessi.
3)FORMAZIONE PROFESSIONALE
FORMAZIONE PROFESSIONALE
Per formazione personale si intendono l’insieme delle iniziative finalizzate ad accrescere e
migliorare le conoscenze e le competenze dei lavoratori, al fine di facilitarne l’ingresso,
reingresso o la permanenza nel mercato del lavoro. Il legislatore ha dato talmente importanza a
questo strumento di politica attiva da annoverarlo nella Costituzione (cura della formazione e della
elevazione professionale dei lavoratori – art. 35 Cost.).
Legge quadro (1978): la legge fondamentale in materia è l. quadro 845/1978 che recepisce e
ribadisce il sistema duale, previsto anche dalla Costituzione, tra istruzione scolastica e formazione
professionale, mantenendoli separati e non in un sistema unico. Secondo il sistema duale, ogni
persona entra prima a far parte del sistema di istruzione scolastica per un certo periodo di vita, che
si conclude una volta adempiuto l’obbligo scolastico; dopodiché, esaurito il ciclo di studi, si prevede
una fase autonoma e successiva di formazione professionale come percorso che precede
l’accesso al mercato del lavoro (sistema sequenziale).
L.196/1997: a partire dagli anni ’90, per effetto delle indicazioni della Comunità Europea, si è messo
in discussione il sistema sequenziale “istruzione-formazione professionale-lavoro”, in favore del
“sistema circolare” in cui ogni lavoratore poteva muoversi liberamente all’interno dei 3 sistemi,
spendendo in ognuno le competenze e le abilità conseguite negli altri. Lo strumento per realizzare
questa “circolarità” è quello dei crediti certificati, ossia l’insieme delle competenze e dei saperi
acquisiti in uno dei sistemi, spendibili negli altri 2 purché certificati.
A tal fine, la l. 196/1997 ha operato un riordino della materia, prevedendo la:
Valorizzazione della formazione professionale in prospettiva dell’occupabilità, per
incrementare l’occupazione.
Realizzazione di un legame tra formazione e lavoro.
Diversa configurazione degli strumenti di finanziamento della formazione professionale,
riducendo il ruolo del Fondo di rotazione per la formazione continua (introdotto nel 1978 e
rivisitato nel ’93), in favore di Fondi di tipo privatistico.
Incremento degli strumenti formativi sia per i primi destinatari (disoccupati), che per i
lavoratori in costanza di rapporto di lavoro, in funzione accrescitiva o manutentiva delle
competenze.
D.l. 148/1993: il legislatore è ritornato sull’istituto nel ’93, individuando i soggetti che potevano
essere coinvolti nei tirocini formativi, e la durata degli stessi. In più, la legge precisava che il
rapporto che si instaurava tra ospitato-ospitante non costituiva rapporto di lavoro.
L. 196/1997: nel ’97 col “pacchetto Treu” si è avuto un grosso riordino della formazione
professionale, il quale dedicava una norma specifica ai tirocini formativi e di orientamento,
fissandone i princìpi generali, abrogando tutte le disposizioni previgenti in merito (il problema di
incostituzionalità di tale abrogazione non fu mai sollevato, seppur sussistente, poiché le Regioni hanno continuato ad
occuparsene anche dopo il 1997).
Secondo la l. 196/1997, il tirocinio è un rapporto formativo che non costituisce rapporto di
lavoro subordinato. In forza di questo rapporto, il datore di lavoro ospitante si obbliga ad
impartire la formazione dedotta in convenzione, col corrispondente obbligo del tirocinante a
garantire le presenze in azienda e rispettare le direttive impartitegli per lo svolgimento del
percorso formativo. Per cui, il tirocinio si caratterizzava per l’obbligo formativo, in assenza di quello
retributivo (salvo che non venissero previsti rimborsi spese per vitto e alloggio).
Alla fine del tirocinio formativo, viene riconosciuto al tirocinante un credito formativo e, ove
certificato, può inserirlo nel proprio curriculum.
Convenzione: al fine dello svolgimento del tirocinio, occorre la stipula di una convenzione tra i
soggetti promotori (centri territoriali per l’impiego; strutture scolastiche e universitarie; centri di formazione
professionale; comunità terapeutiche; servizi di inserimento per i disabili ecc.) e i soggetti ospitanti (datori di lavoro
pubblici e privati).
Tutor: ruolo importante è attribuito al tutore, ossia il soggetto messo a disposizione da parte del
soggetto ospitante, il quale dev’essere in possesso di competenze idonee all’affiancamento del
tirocinante.
Assicurazione: anche in questa legge il soggetto ospitato è assicurato, contro infortuni e
responsabilità civile verso terzi, a carico del soggetto promotore.
D.l. 138/2011: la disciplina del ’97 tuttavia è stata spesso oggetto di un uso distorto dei
tirocinanti, i quali venivano usati come forza lavoro a costo zero, vanificando la finalità formativa.
Per fronteggiare ciò, il legislatore nel 2011 ha operato un nuovo riordino della materia, introducendo
una serie di limitazioni:
Legittimazione a promuovere l’avvio del tirocinio solo da parte di soggetti in possesso
dei requisiti definiti dalle Regioni.
Riduzione della durata massima del tirocinio.
Destinazione del tirocinio solo a neodiplomati/neolaureati entro 12 mesi dal
conseguimento del titolo. Unica eccezione a favore di soggetti svantaggiati e disabili.
Dove vi era un vuoto nella disciplina, si continuava ad applicare la disciplina del ’97.
L’eccezione di illegittimità costituzionale, che in passato non era stata sollevata, invece per il d.l.
138/2011 è stata sollevata, accusata di aver invaso l’area di competenza delle Regioni, ed è stata
accolta da parte della Corte costituzionale.
Accordo in Conferenza permanente (2013): alla scadenza del termine di 6 mesi è stato adottato
nel 2013 l’Accordo in Conferenza permanente, il quale ha enunciato le linee guida, seguendo i
criteri previsti dalla nuova legge, e prevedendo che Regioni+PATB le recepissero nelle proprie
normative entro 6 mesi dalla sottoscrizione dell’Accordo.
CONTRATTO DI APPRENDISTATO
La combinazione tra esperienza formativa e prestazione lavorativa ha dato vita anche ai contratti
di lavoro con finalità formativa (apprendistato), che si differenziano dai rapporti formativi in
assenza di contratto di lavoro (tirocini formativi e di orientamento) nei quali la prestazione
lavorativa ha una valenza meramente formativa, essendo vietata la sua finalizzazione a fini
produttivi.
Nei contratti di lavoro con finalità formativa sono posti a carico del datore di lavoro 2 specifici
obblighi: quello retributivo e quello di impartire una formazione, specializzando così la causa
contrattuale.
La disciplina dei contratti formativi è poi caratterizzata dal concorso di più fonti regolative (leggi
statali; regolamentazioni regionali; disciplina collettiva), che hanno dato vita a rapporti di convivenza piuttosto
tribolati.
Competenze regionali: le competenze regionali sui contratti di apprendistato sono state
oggetto di 2 riforme nel corso degli ultimi anni:
Riforma 2011: le competenze delle Regioni sono state fortemente compromesse con
riferimento ai contratti di apprendistato, a vantaggio dell’autonomia collettiva a cui si erano
attribuite quasi tutte le competenze in materia, da esercitarsi nel rispetto dei criteri direttivi
fissati dal Testo Unico del 2011.
Riforma 2015: le competenze regionali sono riemerse con prepotenza, specie per quanto
riguarda l’apprendistato di 1° e 3° tipo, nei quali è più marcata la componente formativa.
Riforma Fornero (2012): dopodiché la riforma Fornero del mercato del lavoro (2012) ha
modificato parzialmente il TU del 2011 e ha abrogato il contratto d’inserimento.
Legge di stabilità (2012): a ridosso della l. 92/2012, per incentivare il ricorso al contratto di
apprendistato, la legge di stabilità ha previsto uno sgravio contributivo totale per i periodi
contributivi maturati nei primi 3 anni di contratto per gli apprendisti assunti dal 01/01/2012 al
31/12/2016, in favore dei datori di lavoro che abbiano ≤ 9 dipendenti.
Jobs Act 2 (2015): infine, con l’entrata in vigore della riforma del 2015, si è disposta l’abrogazione
di tutta la disciplina previgente. La nuova disciplina si struttura in 2 nuclei:
1) Disciplina generale: valida per tutte le tipologie di apprendistato.
2) Disciplina specifica: contiene la disciplina specifica per ognuna delle tipologie.
Incentivi: per incentivare l’assunzione degli apprendisti, il decreto ha previsto una serie di
agevolazioni nei confronti dei datori di lavoro:
1) Retribuzione inferiore: per l’apprendista è prevista una retribuzione inferiore rispetto al
lavoratore standard occupato nella posizione a cui ambisce l’apprendista.
2) Esclusione dal computo dei limiti numerici: gli apprendisti vengono esclusi dal computo
delle quote d’obbligo di lavoratori, previste da leggi e contratti collettivi, per l’applicazione
di particolari normative o istituti (collocamento disabili...), salvo diversa previsione della
legge/contratto collettivo.
3) Regime contributivo: per gli apprendisti l’aliquota contributiva è ridotta rispetto a quella
standard, ed è pari al 10%, a cui si aggiunge l’aliquota per l’assicurazione contro la
disoccupazione involontaria (1,31% della retribuzione imponibile). Quest’agevolazione
rimane in vigore per altri 12 mesi qualora il rapporto prosegua al termine del periodo
formativo (tranne se l’apprendista è percettore di un trattamento di disoccupazione).
4) Deducibilità del costo salariale e contributivo: il costo salariale e contributivo degli
apprendisti è interamente deducibile dalla base imponibile ai fini IRAP.
Sanzioni: per quanto riguarda l’apparato sanzionatorio, la violazione degli obblighi formativi a
carico del datore, ove impedisca il conseguimento della finalità dell’apprendistato di qualsiasi tipo,
comporta l’obbligo di corrispondere la differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta
(ragguagliata al livello di inquadramento contrattuale finale).
Se, invece, la violazione riguardi:
La predisposizione del PFI da parte del datore;
Divieto di retribuzione a cottimo;
Norma sul trattamento retributivo dell’apprendista;
Previsione di un tutor o referente aziendale
scatta una sanzione amministrativa pecuniaria da 100€-600€, maggiorata in caso di recidiva del
datore da 300€-1500€. La violazione è diffidabile da parte del personale ispettivo.
DISCIPLINA DI FONTE CONTRATTUALE
La libera iniziativa di intervento da parte della contrattazione collettiva, in merito ai contratti di
apprendistato, deve attenersi a diversi princìpi direttivi fissati dalla legge:
Divieto di retribuzione a cottimo.
Possibilità di inquadrare l’apprendista fino a 2 livelli inferiori rispetto alla categoria
spettante, nell’applicazione del contratto collettivo nazionale o, in alternativa, di stabilirne
la retribuzione in misura percentuale e in proporzione all’anzianità di servizio.
Presenza di un tutor/referente aziendale.
Possibilità di finanziamento dei percorsi formativi aziendali attraverso fondi paritetici
interprofessionali, anche mediante accordi con le Regioni.
Possibilità di riconoscimento della qualificazione professionale ai fini contrattuali e delle
competenze acquisite al termine del contratto.
Registrazione della formazione effettuata e della qualificazione professionale ai fini
contrattuali nel FEL.
Possibilità di prolungare ulteriormente il periodo di apprendistato in caso di malattia,
infortunio o altra causa di sospensione involontaria del rapporto superiore a 30 gg.
APPRENDISTATO 1° TIPO
Introdotto nel 2003 con la legge Biagi, l’apprendistato 1° tipo è rimasto inapplicato fino alla
riforma del 2015. Innanzitutto, è stata eliminata la scelta fatta nel 2003 di separare i percorsi
scolastici primari (apprendistato 1° tipo) da quelli secondari superiori (3° tipo), riunendoli entrambi
nell’apprendistato di 1° tipo.
L’apprendistato di 1° tipo tende al conseguimento della qualifica, del diploma professionale,
diploma di istruzione superiore secondarie e, infine, del certificato di specializzazione tecnica
superiore. La competenza di tale disciplina è affidata alle Regioni+PATB, con un potere
sostitutivo del Ministero del lavoro in caso di inerzia.
Età: i giovani che possono essere assunti col contratto di apprendistato di 1° tipo sono ricompresi
tra 15-25 anni.
Durata: la durata dell’apprendistato è determinata in base al titolo da conseguire, ma non può
essere superiore a 3 anni, elevati a 4 per il conseguimento del diploma professionale
quadriennale. È comunque possibile una proroga fino ad 1 anno per i giovani qualificati e
diplomati, ai fini dell’acquisizione o consolidamento di ulteriori competenze tecnico-professionali e
specialistiche, utili al conseguimento del Certificato Specializzante Tecnica Superiore (CSTS) o del
diploma di maturità professionale.
Per non pregiudicare il percorso scolastico, la legge fissa anche un tetto massimo delle ore di
formazione esterna all’azienda (impartita nell’istituzione formativa) nella misura del 60% dell’orario
ordinamentale del 2° anno, 50% per gli anni successivi.
Retribuzione: per incentivarne l’utilizzo, non è previsto alcun obbligo retributivo a carico del
datore di lavoro per l’apprendistato di 1° tipo per le ore di formazione svolte nell’istituzione
formativa, mentre vi è una riduzione del 10% della retribuzione per le ore di formazione a carico
del datore di lavoro (salvo diversa previsione dei contratti collettivi).
Trasformazione 1°→2° tipo: è possibile trasformare l’apprendistato di 1° tipo in 2° tipo entro
il limite di durata massima dei 2 periodi, individuato dalla contrattazione collettiva.
Assicurazione: per quanto riguarda l’alternanza scuola-lavoro, l’assicurazione contro infortuni
sul lavoro e malattie professionali è obbligatoria, e a carico dell’istituzione formativa.
APPRENDISTATO 2° TIPO
L’apprendistato professionalizzante è utilizzabile da tutti i datori di lavoro (pubblici/privati) per il
conseguimento di una qualificazione professionale.
Età: è destinato ai giovani tra i 18-29 anni, con possibilità di abbassare la quota minima di età a 17
anni se il giovane è in possesso di una qualificazione professionale.
Durata: la durata e la modalità di erogazione dell’apprendistato sono rimesse alla
contrattazione collettiva nazionale in base alla qualificazione da conseguire. In ogni caso, la durata
non può essere superiore a 3 anni, elevata a 5 anni per la figura professionale dell’artigiano.
Altri destinatari: con l’apprendistato di 2° tipo si possono assumere, senza limiti di età, anche i
lavoratori iscritti nelle liste di mobilità (ormai soppresse) e tutti i percettori di trattamenti di
disoccupazione, per cui però non operano i benefici contributivi in favore del datore di lavoro
in proroga per 1 anno in caso di mantenimento in servizio dell’apprendista alla fine del contratto,
non essendo consentita al datore la disdetta dello stesso.
APPRENDISTATO 3° TIPO
L’apprendistato specializzante riguarda tutti i percorsi di alta formazione, con una stringente
interazione tra alta formazione (anche universitaria) e apprendistato. È utilizzato per:
Conseguimento di un titolo di studi universitario o di alta formazione (tra cui dottorato di
ricerca).
Conseguimento di diplomi dei percorsi ITS.
Attività di ricerca.
Praticantato per l’accesso a professioni ordinistiche.
Età: l’apprendistato di 3° tipo è dedicato ai giovani tra 18-29 anni, che abbiano il diploma di
istruzione secondaria superiore o professionale.
Competenza: compete alle Regioni+PATB la disciplina dei profili formativi dell’apprendistato
3° tipo, sentite le associazioni territoriali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente
più rappresentative sul piano nazionale, le Università, gli ITS e le altre istituzioni di ricerca e
formative.
PFI: il PFI dev’essere predisposto dall’istituzione formativa col coinvolgimento dell’impresa.
Durata: il rapporto tra orario ordinamentale/formazione esterna all’azienda svolta
nell’istituzione formativa non può superare il 60% (anche se tale percentuale è derogabile).
Retribuzione: non è previsto alcun obbligo retributivo a carico del datore di lavoro per
l’apprendistato di 1° tipo per le ore di formazione svolte nell’istituzione formativa, mentre vi è
una riduzione del 10% della retribuzione per le ore di formazione a carico del datore di lavoro
(salvo diversa previsione dei contratti collettivi).
Trasformazione 3°→2° tipo: è possibile trasformare l’apprendistato di 3° tipo in 2° tipo entro
il limite di durata massima dei 2 periodi, individuato dalla contrattazione collettiva.
INPS= istituto nazionale della previdenza sociale
INTRODUZIONE
Nella tutela del prestatore di lavoro all’interno del mercato del lavoro rientra anche la disciplina
relativa alla domanda flessibile della forza-lavoro.
Flessibilità del lavoro:
Legislazione antifraudolenta (1960): per lungo tempo la legge ha voluto tutelare il
lavoratore dalla domanda di prestazioni di lavoro temporaneo o discontinuo (flessibile),
dettando una disciplina che, restringendo l’autonomia negoziale delle parti nella
formazione/esecuzione di questi contratti, perseguisse l’obiettivo di dare continuità e
stabilità dell’occupazione al prestatore di lavoro (legislazione antifraudolenta→
disciplina contratto a tempo determinato-1962; divieto di intermediazione e interposizione nell’impiego dei
lavoratori nell’appalto di manodopera-1960).
Flessibilità contratta (’80-’90): intorno agli anni ’80-’90 si è assistito ad un progressivo
allentamento dei limiti legali per il ricorso a forme di lavoro flessibile, in ragione delle
crescenti esigenze di flessibilizzazione nell’utilizzo di forza-lavoro da parte delle imprese.
Ciò si è realizzato attraverso il conferimento alla contrattazione collettiva della facoltà di
temperare tali limiti legali (flessibilità contratta) e, in tempi più recenti, attraverso la
soppressione di quest’ultimi.
Lavoro a tempo determinato:
Ipotesi contrattuali (’70): la disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato
nacque nel 1960, il quale prevedeva il suo ricorso solo per determinate ipotesi
tassativamente previste dalla legge. Intorno agli anni ’70 c’è stato un ampliamento dei
casi in cui era possibile il ricorso al lavoro a tempo determinato, con l’attribuzione alla
contrattazione collettiva della competenza di individuare le ipotesi di ricorso ad esso,
ulteriori rispetto alle ipotesi legali.
D.lgs. 368/2001: il percorso di ampliamento è proseguito fin al 2001, quando è stato
emanato un decreto che ha previsto le assunzioni a tempo determinato per ragioni
oggettive (al di fuori delle ipotesi legali, ed entro eventuali limiti della contrattazione collettiva).
Lavoro temporaneo:
Lavoro temporaneo (interinale-1997): nel ’97 è stata emanata una legge che consentiva
la disciplina del lavoro temporaneo (interinale), che derogava il generale divieto di
intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro del 1960, consentendo alla
contrattazione collettiva di prevedere ulteriori ipotesi di lavoro temporaneo rispetto a
quelle legali.
D.lgs. 276/2003: l’istituto è stato riformato con la legge Biagi, che lo ha ridenominato
“somministrazione di lavoro”, con l’obiettivo di rendere la disciplina meno vincolante
per le imprese.
Rapporti di lavoro “atipici”: nel corso degli anni, dunque, si è assistito ad un aumento dei
contratti di lavoro flessibili che si discostano dal modello tipico del lavoratore a tempo pieno
e indeterminato. Tra i rapporti di lavoro “atipici”, oltre al lavoro a termine e lavoro
somministrato, rinveniamo: contratto di lavoro a tempo parziale; di lavoro ripartito; lavoro
intermittente; contratto di lavoro parasubordinato.
Negli anni più recenti, tuttavia, queste forme di lavoro sono state oggetti di diversi dibattiti
politici in quanto, seppur la loro diffusione ha favorito la flessibilità organizzativa delle imprese,
ha al contrario causato la diffusione di una grave precarietà occupazionale. Per cui i diversi
interventi legislativi in merito, talvolta, sono in contrasto tra loro (per cui alcuni aumentano la flessibilità,
altri la restringono ecc.).
Jobs Act (2014-15): la linea di apertura verso la flessibilità tipologica ha infine prevalso con
l’emanazione dei provvedimenti legislativi da parte del Governo Renzi (Jobs Act 2014-15),
dapprima eliminando i vincoli causali al contratto di lavoro a tempo determinato e alla
somministrazione, e poi riordinando le diverse fattispecie attraverso la redazione di un testo
organico semplificato (d.lgs. 81/2015).
D.lgs. 81/2015: il decreto in realtà ha avuto dei risultati inferiori alle aspettative, poiché,
sostanzialmente, ha eliminato il contratto di lavoro ripartito, mentre le altre tipologie di lavoro
flessibile (a tempo parziale; intermittente; a tempo determinato; somministrazione di lavoro; apprendistato) sono
state solo modificate dalla disciplina preesistente.
Decreto dignità (2018): una parziale inversione di tendenza, poi, la si è vista con l’introduzione
del decreto dignità (d.l. 87/2018), la quale ha irrigidito nuovamente la disciplina reintroducendo il
vincolo causale del lavoro a termine e della somministrazione a tempo determinato. Tuttavia,
questo provvedimento ha scoraggiato i datori di lavoro ad assumere lavoratori a tempo
determinato, incrementando le assunzioni a tempo indeterminato.
1) CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO
Art. 2097 cc: inizialmente, il legislatore ha dedicato al contratto a termine un articolo del
Codice che limitasse l’uso incondizionato dello stesso, in quanto pensava fosse in contrasto con
l’interesse alla continuità dell’occupazione del lavoratore. Perciò l’art. 2097 cc disponeva che “il
contratto di lavoro si deve reputare a tempo indeterminato se il termine non risulta da atto
scritto o dalla specialità del rapporto”, e sanciva l’inefficacia dell’apposizione del termine per
atto scritto quando questa serviva “per eludere le disposizioni che riguardano il contratto a
tempo indeterminato”. Infine, disponeva che “se la prestazione lavorativa continuava dopo la
scadenza del termine, e non risultava una contraria volontà delle parti, il contratto si considerava a
tempo indeterminato”.
L. 230/1962: la scarsa efficacia pratica della norma codicistica ha portato, con la l.230/1962,
alla sua abrogazione. In più, essa ha disposto che i casi di apposizione del termine andavano visti
come eccezioni alla regola generale della durata a tempo indeterminato dei contratti di lavoro,
ammessi solo in certi casi tassativamente previsti dalla legge, relativi a:
Situazioni occasionali e straordinarie nell’attività dell’impresa.
Specifici settori produttivi: spettacoli, programmi radiotelevisivi, trasporto aereo, servizi aeroportuali.
Autorizzazione dell’autorità amministrativa: per la periodica intensificazione di
determinate attività (punte stagionali).
Autorizzazione della contrattazione collettiva.
Dirigenti: la legge dettava la libera utilizzazione del contratto a termine per la loro
assunzione.
Al di fuori di queste ipotesi, il termine doveva considerarsi come non apposto e, dunque, il
contratto era da considerarsi a tempo indeterminato.
D.lgs. 368/2001 (liberalizzazione controllata): la legge del ’62 rimase in vigore fino al 2001,
quando la l. n°368 ne ha disposto l’abrogazione. Tale legge introduceva delle causali per il
ricorso al contratto a termine, disponendo che il contratto a tempo determinato poteva essere
utilizzato in presenza di ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo e sostitutivo.
L. 92/2012 (legge Fornero): ulteriore passo verso la liberalizzazione del contratto a termine si è
avuto con la legge Fornero che, in deroga al principio della necessaria giustificazione,
ammetteva la possibilità di stipulare un contratto a tempo determinato “acausale” della durata
massima di 12 mesi, non prorogabili.
D.lgs. 81/2015 (Jobs Act): con la riforma Renzi, la disciplina del contratto a tempo
determinato è stata completamente riscritta, attuando la totale liberalizzazione dell’istituto
rimuovendo le previgenti causali per il suo utilizzo.
D.l. 87/2018 (decreto dignità): un piccolo passo indietro è stato fatto con il decreto dignità del
2018, che ha disposto innanzitutto la riduzione della durata complessiva del rapporto a tempo
determinato e delle proroghe legate ad esso, ma anche la reintroduzione delle causali per le
proroghe oltre 1 anno, rinnovi o per il contratto con durata iniziale superiore a 12 mesi.
DAL D.LGS. 368/2001 AL D.LGS. 81/2015
D.lgs. 368/2001: Il d.lgs. 368/2001 nasce dal recepimento della direttiva comunitaria 99/70
volta alla promozione, e non più alla restrizione, della domanda di lavoro a tempo determinato.
Il d.lgs. 368/2001 ha abrogato anzitutto la previgente legge in merito (l. 230/1962) ed è stata, fino
al Jobs Act, la fonte esclusiva di disciplina dell’intera materia, oggetto tuttavia di periodici
rimaneggiamenti nel corso degli anni e del susseguirsi dei Governi (2005/07/08/12/13/14).
Apposizione del termine: la principale novità apportata è stato l’abbandono del principio di
tassatività delle fattispecie giustificatrici in cui si poteva apporre il termine finale (causali).
Infatti, il decreto stabiliva che l’apposizione del termine era consentita per ragioni di carattere
tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo (causalone) (sostituzione di lavoratori in ferie, distaccati o
in trasferta; assunzione di lavoratori specializzati per determinati tipi di lavorazione o fasi di produzione; assunzioni di
lavoratori per variazioni quantitative di attività dovute a fattori stagionali o indotte dal mercato ecc.).
L. 92/2012: la riforma Fornero ha introdotto una deroga alla regola della necessaria
giustificazione causale nella stipula del contratto a tempo indeterminato. La legge ammetteva
che, per lo svolgimento di qualsiasi mansione, le parti (datore/utilizzatore; lavoratore) potessero
stipulare un primo contratto a tempo determinato per una durata complessiva non superiore
a 12 mesi, senza che ricorresse il “causalone”. Di fatto, dunque, la nuova disciplina allargava
considerevolmente la platea di lavoratori assumibili con contratto a tempo determinato, anche se
l’apposizione del termine rimaneva comunque vincolata all’esistenza obiettiva di una causa
giustificatrice della temporaneità del rapporto, la cui individuazione era rimessa alla scelta
delle parti, e sul datore di lavoro incombeva l’onere della prova di tale causa o ragione
giustificatrice.
D.lgs. 81/2015: la riforma Renzi ha poi abrogato totalmente la previgente disciplina del 2001,
ponendosi come fonte esclusiva del lavoro a tempo determinato. La principale novità da esso
apportata è stata l’eliminazione del “causalone” per l’assunzione a tempo determinato. In più, il
d.lgs. 81/2015 prevedeva anche che la durata massima del contratto a termine fosse di 36 mesi,
prorogabile per un massimo di 5 volte.
Periodo di tolleranza: questo periodo di tolleranza, in cui la validità del contratto a termine
rimane intatta per un determinato periodo di tempo, è equiparabile ad una breve proroga
tacita, giustificata dall’immediata esigenza di continuazione dell’attività lavorativa. La
maggiorazione retributiva (su cui gravano contributi previdenziali e ritenute fiscali), invece, vale come una
sorta di penale o sanzione economica volta a disincentivare la prosecuzione del rapporto a
termine oltre la scadenza, pur rimanendo comunque un comportamento legittimo e lecito.
Successione dei contratti a tempo determinato: la legge ha previsto degli intervalli temporali
tra contratti a termine successivi (stop and go) che devono essere rispettati per evitare la
conversione dell’ultimo contratto a termine in uno a tempo indeterminato:
Se il lavoratore viene riassunto entro 10 gg dalla scadenza del contratto a tempo
determinato di durata fino a 6 mesi, il 2° contratto verrà considerato a tempo
indeterminato.
Se il lavoratore viene riassunto entro 20 gg dalla scadenza del contratto a tempo
determinato di durata superiore a 6 mesi, il 2° contratto verrà considerato a tempo
indeterminato.
Esclusioni: questa disciplina non si applica ai lavoratori stagionali e a tutte le altre ipotesi
previste espressamente dai contratti collettivi.
Sanzioni: anche in questo caso è prevista la sanzione della conversione qualora le parti non
rispettino gli intervalli temporali tra un’assunzione e quella successiva.
Limite alle successioni: successivamente la legge ha previsto ulteriori limiti alla successione dei
contratti a termine, disponendo che la successione di contratti a termine tra lavoratore e
stesso datore di lavoro, per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale, non
possa eccedere i 24 mesi, calcolati sommando tutti i periodi del rapporto indipendentemente dalla
durata e dal n° di interruzioni del rapporto.
Deroga successione “in sede protetta”: il legislatore ha poi riconosciuto un’ulteriore deroga
alla possibilità di stipulare un contratto a termine oltre il limite dei 24 mesi. Questa possibilità è
concessa, per 1 sola volta, con una procedura “in sede protetta”, ossia le stesse parti possono
stipulare un nuovo contratto a termine, di durata max di 12 mesi, a condizione che ciò avvenga
presso la Direzione territoriale del lavoro competente per territorio.
Computo del limite di 24 mesi: per il computo del limite massimo dei 24 mesi, si tiene conto
anche dei periodi di missione nell’ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato,
svolti dal lavoratore presso l’impresa utilizzatrice, con riferimento a mansioni dello stesso
livello e categoria legale. La ratio di questa norma è quella di evitare che, attraverso le
somministrazioni di lavoro, i datori possano aggirare i limiti di durata all’impiego dello stesso
lavoratore, ma con riferimento a mansioni di pari livello e categoria legale (modificando invece questi 2
parametri, le missioni non vengono computate nel calcolo).
Scioglimento del rapporto “ante tempus”: nel Jobs Act non v’è alcun riferimento allo
scioglimento del rapporto a tempo determinato prima della scadenza. Escluso il ricorso al
recesso unilaterale, contrario alla natura stessa del contratto a termine, è possibile recedere prima
della scadenza qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione (anche temporanea)
del rapporto. Non è invece applicabile la previsione del giustificato motivo, in quanto la legge
delimita la sfera di applicabilità al rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Dunque, oltre alla sussistenza di una giusta causa, la legge assicura alle parti (specie al lavoratore)
una stabilità relativa al vincolo contrattuale, il quale dovrà proseguire fino alla scadenza
concordata.
Esenzioni alla soglia del 20%: le fattispecie esenti dalla soglia del 20%, previste dalla legge,
sono:
1) Avvio di nuove attività: i datori di lavoro che avviino una nuova attività (limitatamente a
periodi definiti, in misura non uniforme per aree geografiche e/o settori merceologici
previsti dai contratti collettivi) possono assumere lavoratori superando il limite del 20%.
2) Start-up innovative: per un periodo di 4 anni dalla costituzione.
3) Attività stagionali: appositamente individuate dal Ministero del lavoro.
4) Realizzatori di specifici spettacoli o specifici programmi radiofonici, televisivi, teatrali
ecc.
5) Assunzione di lavoratori in fascia debole: sono contratti giustificati da una causale
“soggettiva” volta a promuovere l’occupazione di lavoratori con più di 50 anni.
DECADENZE E TUTELE
Impugnazione: il contratto a tempo determinato dev’essere impugnato, a pena di decadenza,
entro 180 gg dalla cessazione del singolo contratto. Esso può essere impugnato con qualsiasi
atto scritto (anche extragiudiziale) idoneo a manifestare l’intento del lavoratore. Inoltre,
l’impugnazione è inefficace se nei successivi 180 gg non è seguita dal deposito del ricorso al
giudice del lavoro.
Conversione contratto a termine illegittimo: in tutte le ipotesi in cui avviene la conversione del
contratto a termine illegittimo in contratto a tempo indeterminato, il giudice condannerà il
datore ad un’indennità risarcitoria onnicomprensiva tra le 2,5-12 mensilità dell’ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, in base a parametri quali:
N° dipendenti occupati.
Dimensioni dell’impresa.
Anzianità di servizio del prestatore di lavoro.
Comportamento complessivo delle parti.
2) SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO
Appalti leciti: tuttavia, la legge del ’60 prevedeva anche una disciplina degli appalti leciti,
distinguendo tra:
Appalti esterni: estranei all’impresa e al suo normale ciclo produttivo, regolati dal
diritto comune.
Appalti interni: inerenti al normale ciclo produttivo dell’impresa committente. Per
questi, la legge disponeva la responsabilità in solido tra appaltante e appaltatore nei
confronti dei lavoratori dipendenti di quest’ultimo, sia per l’applicazione di un
trattamento normativo ed economico non inferiore rispetto ai lavoratori dipendenti
dell’appaltante, sia per l’adempimento degli obblighi assistenziali e previdenziali
(uniformità di trattamento).
L. 196/1997: nel corso degli anni ’90 il divieto di intermediazione posto dalla legge del ’60 è stato
valutato come troppo rigido e, in più, in quasi tutti i Paesi comunitari era stata ammessa da lungo
tempo la somministrazione di manodopera, direttamente assunta da agenzie specializzate e inviata
a lavorare presso imprese utilizzatrici, dietro corrispettivo.
Fu così che nacque la l. 196/1997, che introdusse in ITA l’istituto del lavoro interinale (fornitura
di lavoro temporaneo), consistente in una relazione trilaterale in cui un’agenzia intermediatrice
(impresa fornitrice) inviava temporaneamente un lavoratore, da essa stessa assunto, per
effettuare una prestazione di lavoro presso un terzo (utilizzatore). Questa relazione trilaterale si
reggeva su 2 distinti rapporti contrattuali:
1) Contratto commerciale di fornitura: agenzia fornitrice – utilizzatore.
2) Contratto di lavoro: agenzia fornitrice – lavoratore.
AGENZIA la disciplina del 1997, poi, prevedeva una rigida
FORNITRICE
disciplina per l’esercizio della:
Attività di fornitura: era consentita solo a
contratto di contratto di soggetti autorizzati dal Ministero del lavoro.
lavoro fornitura
Ricorso al lavoro temporaneo: era permesso
solo per il soddisfacimento di esigenze temporanee
dell’utilizzatore, la cui determinazione era di
lavora
LAVORATORE presso UTILIZZATORE competenza della contrattazione collettiva (oltre alle 2
ipotesi già previste dalla legge della sostituzione dei lavoratori
assenti, e della temporanea utilizzazione in qualifiche non
previste da normali assetti produttivi aziendali).
D.lgs. 81/2015 (riforma Renzi): dopo vari interventi, l’emanazione del Jobs Act nel 2015 ha
abrogato la disciplina previgente e ha operato un organico riordino della materia, salvo che per
i soggetti autorizzati per cui rimaneva in vigore la disposizione del 2003.
D.lg. 87/2018 (decreto dignità): infine, nel 2018 si è novellato il d.lgs. 81/2015 col decreto
dignità, il quale oggi prevede, per quanto riguarda la somministrazione di manodopera, 2
tipologie in base alla durata del contratto commerciale tra agenzia e utilizzatore:
1) Somministrazione a tempo indeterminato: è prevista una clausola legale di
𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐬𝐨𝐦𝐦𝐢𝐧𝐢𝐬𝐭𝐫𝐚𝐭𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐢𝐧𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨
contingentamento, che prevede che 𝟐𝟎% al 1°
𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐢𝐧𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨
gennaio dell’anno di stipula del contratto (con arrotondamento del decimale all’unità superiore se 0,5 o
superiore). Inoltre, la legge prevede che solo i lavoratori assunti a tempo indeterminato
possano essere somministrati a tempo indeterminato.
Infine, le PA non possono ricorrere alla somministrazione a tempo indeterminato.
2) Somministrazione a tempo determinato: vi sono 2 limiti all’assunzione di lavoratori
somministrati a tempo determinato:
𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨
a) 𝟐𝟎%.
𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐢𝐧𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐮𝐭𝐢𝐥𝐢𝐳𝐳𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞
𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐢𝐧 𝐬𝐨𝐦𝐦𝐢𝐧𝐢𝐬𝐭𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨
b) 𝟑𝟎%.
𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐢𝐧𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐮𝐭𝐢𝐥𝐢𝐳𝐳𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞
Esenzione: la legge, tuttavia, prevede l’esenzione di dette soglie percentuali se la
somministrazione a tempo determinato riguardi percettori di trattamenti di
disoccupazione o di ammortizzatori sociali (lavoratori svantaggiati), al pro di favorirne
il reinserimento lavorativo.
Deroga: i limiti per la somministrazione di manodopera sono derogabili, sia in peggio che in
meglio, dalla contrattazione collettiva.
Divieti contratti di somministrazione: il decreto individua anche dei casi in cui sia vietato il
ricorso al contratto di somministrazione (sia a tempo indeterminato che determinato):
1) Per sostituire lavoratori in sciopero.
2) Per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi.
3) Nelle unità produttive in cui, nei 6 mesi precedenti, siano state effettuate procedure di
licenziamento collettivo, che abbiano interessato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui
si riferisce il contratto di somministrazione.
4) Nelle unità produttive in cui siano previste riduzioni di orario o sospensioni di lavoro
con diritto al trattamento d’integrazione salariale (CIGS), per i lavoratori adibiti alle
stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione.
Proroghe: il termine inizialmente posto alla durata del contratto di somministrazione può
essere prorogato, col consenso del lavoratore somministrato, per atto scritto (nei casi e per la
durata prevista dai contratti collettivi).
Somministrazione fraudolenta: è quella posta in essere col solo fine di eludere le norme
inderogabili di legge o di contratti collettivi. Prevede un reato contravvenzionale punito con
l’ammenda di 20€ per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione.
Sanzioni penali: sono inoltre previste sanzioni penali a carico di chi esercita illegittimamente
l’attività di somministrazione e di chi utilizza prestatori di lavoro somministrati da soggetti
non autorizzati (con aggravio in caso di sfruttamento di minori).
APPALTO
Outsourcing o esternalizzazione sono termini equivalenti e indicano la prassi, molto diffusa nelle
aziende attuali, di affidare tutta una serie di attività ritenute non centrali per l’azienda a soggetti
terzi che le svolgono per conto della società come fornitori di servizi esterni. La pratica
dell’esternalizzazione avviene soprattutto con lo strumento dell’appalto.
Art. 1655 cc: il Codice civile definisce l’appalto come il contratto con il quale una parte assume,
con organizzazione di mezzi necessari e gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera
o di un servizio dietro un corrispettivo in denaro.
L. 1369/1960: la legge del ’60 offriva ai lavoratori una tutela antifraudolenta per i casi di
pseudo-appalto, che si realizzava qualora l’impresa appaltatrice si obbligasse a fornire un
servizio con gestione a proprio rischio ma, di fatto, utilizzava la manodopera assunta dal
committente, costituendo così un’ipotesi di interposizione vietata.
D.lgs. 276/2003: la riforma Biagi ha disposto l’abrogazione della legge del ’60, eliminando
questa forma di tutela, e stabilendo che il contratto di appalto si distingue dalla
somministrazione di lavoro per l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore,
che può anche risultare dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei
lavoratori utilizzati nell'appalto, nonché per l’assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del
rischio d'impresa.
Appalto di manodopera: oggi, in realtà, sono da ritenersi lecite quelle fattispecie (in passato di
dubbia liceità) in cui, in relazione alla particolare natura e modalità dell’opera o del servizio oggetto di
appalto, l’organizzazione di mezzi dell’appaltatore consiste nella semplice organizzazione delle
prestazioni dei lavoratori utilizzati (appalto di manodopera).
Pseudo-appalto: qualora, invece, questa “semplificazione” del profilo organizzativo
dell’appaltatore non si possa operare, ricorre l’ipotesi di pseudo-appalto, vietata dalla legge. Il
d.lgs. 276/2003 dispone che qualora il contratto d’appalto sia stipulato in violazione di legge, il
lavoratore interessato può chiedere, mediante ricorso giudiziale, la costituzione di un rapporto
di lavoro alle dipendenze dell’appaltatore.
DISTACCO
Il distacco (o comando) si ha quando il dipendente viene comandato dal datore di lavoro a
prestare servizio, per un certo lasso di tempo, presso un terzo (di solito titolare di un’altra impresa). Il
beneficiario della prestazione di lavoro è legittimato ad esercitare alcuni poteri disciplinari e
di controllo sul prestatore, ma anche ad adempiere a taluni obblighi nei suoi confronti
(pagamento della retribuzione ecc.). In ogni caso, il rapporto di lavoro resta nella titolarità del datore
assuntore, anche se il lavoratore presta servizio presso il beneficiario (si parla, infatti, anche di “prestito
di dipendente”).
L. 1369/1960: la legge del ’60 riteneva essenziale, affinché ricorresse il distacco, la sussistenza
di un concreto interesse dell’assuntore, il cui difetto originario o sopravvenuto qualificava la
fattispecie come interposizione vietata, con la conseguenza che si instaurava un rapporto
diretto tra prestatore e il terzo beneficiario.
D.lgs. 276/2003: abrogando la previgente disciplina, la riforma Biagi introduce la definizione di
“distacco” riprendendola, senza modifiche, dalla giurisprudenza. Il distacco si configura quando un
datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente 1 o più
lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa.
Requisiti: per cui i requisiti di legge richiesti sono 2:
1) Temporaneità del distacco.
2) Interesse del datore di lavoro che dispone il distacco.
Rete d’impresa: con una disposizione del 2013 si è precisato che, se tra 2 o più imprese vi sia un
contratto di rete d’impresa, e avvenga il distacco di personale da una all’altra, l’interesse del
distaccante sorge automaticamente in forza al contratto di rete.
Obblighi datore: il datore rimane responsabile del trattamento economico e normativo del
lavoratore. Inoltre, il distacco deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato qualora
comporti un mutamento di mansioni.
Trasferimento: se il distacco implica un trasferimento ad un’unità produttiva distante +50km
da quella in cui è adibito, esso può avvenire solo dietro comprovate ragioni tecniche,
organizzative, produttive e sostitutive.
Alternativa all’espulsione: la normativa speciale, tra le soluzioni alternative all’espulsione di
personale, individua espressamente il distacco di 1 o più lavoratori presso un’altra impresa, per
una durata temporanea.
Sicurezza sul lavoro: sono a carico del terzo beneficiario tutti gli obblighi di prevenzione e
protezione, mentre sono a carico del datore distaccante gli obblighi informativi e di
formazione del lavoratore attinenti ai rischi tipici legati allo svolgimento delle mansioni a cui è
adibito.
Libro unico: da ultimo, i dati relativi ai lavoratori distaccati devono essere conservati nel libro
unico del datore distaccante; tuttavia, è plausibile che anche l’azienda beneficiaria debba tenere
un libro unico in cui inscrivere i dati del lavoratore.
3) CONTRATTO DI LAVORO A ORARIO RIDOTTO E FLESSIBILE
D.lgs. 61/2000: nel 1997 l’UE aveva emanato una direttiva, attuando l’Accordo-quadro sul
lavoro a tempo parziale, volto a eliminare le discriminazioni poste nei confronti dei lavoratori
part-time e, anzi, a promuovere questa forma occupazionale.
Tale direttiva è stata recepita in ITA con il d.lgs. 61/2000, il quale ha dettato una nuova disciplina
del rapporto di lavoro part-time.
D.lgs. 276/2003: con la riforma Biagi il legislatore è intervenuto nuovamente a riguardo per
incentivare il ricorso al part-time, abolendo alcuni vincoli dettati a maggior tutela dei
lavoratori.
L. 247/2007: con la riforma del 2007, tuttavia, il legislatore ha reintrodotto alcune garanzie a
favore dei lavoratori, riducendo gli spazi di flessibilità gestionale per i datori di lavoro.
L. 148/2011: tale legge ha consentito ai contratti collettivi “di prossimità” (offrono alle imprese la
possibilità di adeguare alcuni istituti normativi e contrattuali alle condizioni e alle specifiche esigenze delle diverse realtà
aziendali) di derogare alcune disposizioni di legge riguardanti contratti a orario ridotto,
modulato o flessibile e alle regolamentazioni dei contratti collettivi nazionali.
Legge di stabilità (2012): la legge restituisce alle parti individuali una maggiore autonomia
nella gestione della durata e della collocazione temporale della prestazione a tempo parziale.
L. 92/2012: in controtendenza con la legge di stabilità, il governo Monti ha di nuovo
reintrodotto i margini di flessibilità collegati al tempo parziale.
D.lgs. 81/2015: la riforma Renzi ha abrogato completamente la previgente disciplina (d.lgs.
61/2000), apportando alcune modifiche all’istituto del part-time che, per il resto, è rimasto
invariato. In particolare:
Semplificazione della definizione: vengono abolite le distinzioni tra part-time orizzontale,
verticale e misto, creando una definizione di part-time generale.
Generalizzazione del lavoro supplementare: il lavoro supplementare non è più adattabile
alla sola ipotesi di part-time orizzontale.
Compatibilità col lavoro a turni.
Unificazione concettuale delle clausole elastiche e flessibili sotto l’unica espressione di
elastiche, le quali oggi possono essere pattuite anche individualmente, se convalidate dalla
commissione di certificazione.
Applicabilità del rapporto di lavoro parziale anche alle PA, salvo alcune eccezioni
previste dalla legge.
Forma: per la stipulazione del rapporto a tempo parziale, la legge richiede la forma scritta ad
substantiam, con la “puntuale” indicazione della durata della prestazione lavorativa e della sua
collocazione temporale (giornaliera; settimanale; mensile; annuale).
Qualora l’organizzazione produttiva sia articolata in turni, è previsto che l’indicazione della
collocazione oraria della prestazione possa avvenire anche mediante il rinvio ai turni di lavoro
programmati su fasce orarie prestabilite.
Principio di non discriminazione: vige il divieto per il datore di lavoro di riservare al
lavoratore part-time, per il solo motivo di lavorare a tempo parziale, un trattamento meno
favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno di pari inquadramento.
Trattamento economico-normativo: ovviamente, il trattamento economico e normativo
riservato al lavoratore part-time sarà riproporzionato in base alle ore di lavoro effettivamente
svolte, soprattutto per alcuni istituti (importo della retribuzione globale; retribuzione delle ferie). Per garantire
l’applicazione del principio di proporzionalità, la legge rinvia alla contrattazione collettiva il
compito di modulare, in relazione all’orario di lavoro, anche la durata del periodo di prova, del
periodo di preavviso in caso di licenziamento/dimissioni e del periodo di conservazione del
posto in caso di malattia/infortunio.
Facoltà di scelta: è attribuita dal decreto la possibilità, per il lavoratore, di scegliere tra lavoro
a tempo pieno e lavoro a tempo parziale, nonché la possibilità di modificare tale scelta nel
corso del rapporto.
Rifiuto di trasformazione: il rifiuto, da parte del lavoratore, di trasformare il proprio rapporto
da tempo pieno a tempo parziale (o viceversa) non costituisce, di per sé, giustificato motivo di
licenziamento (fermo restando comunque la possibilità di licenziare il lavoratore, qualora il suo comportamento
interferisca in concreto con l’attività produttiva, con l’organizzazione del lavoro o col suo regolare funzionamento,
costituendo un’ipotesi di gmo).
Oggi, il legislatore prevede che la trasformazione del rapporto da pieno a parziale possa
avvenire grazie ad un accordo tra le parti, che risulti da atto scritto, senza la necessità di nessuna
convalida da parte del lavoratore.
Diritto di precedenza: la legge sancisce anche un diritto di precedenza, nelle assunzioni con
contratto a tempo pieno, per i lavoratori part-time che svolgano le stesse mansioni. Tale
previsione, tuttavia, non è assistita da alcuna sanzione nel caso di sua violazione da parte del
datore (prima era previsto il risarcimento del danno, eliminato dalla riforma del 2015).
INCENTIVI E SANZIONI
Trasformazione da rapporto a tempo pieno-tempo parziale: con riferimento all’incentivazione
del lavoro part-time, sono da menzionare sicuramente le disposizioni attinenti alla trasformazione
del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. La trasformazione può avvenire:
1) Accordo tra le parti: è ammessa la trasformazione del rapporto da pieno a part-time su
accordo delle parti da atto scritto.
2) Legge: il diritto di trasformazione del rapporto da tempo pieno a part-time (e viceversa) è
garantito, invece, solo in 1 ipotesi legale, ossia quella riguardante i lavoratori, del settore
pubblico/privato, affetti da patologie oncologiche, nonché da gravi patologie cronico-
degenerative da cui risulti una ridotta capacità lavorativa.
Diritto di priorità: nelle altre ipotesi di legge, piuttosto, è previsto il diritto di priorità
nella trasformazione in part-time del rapporto lavorativo. È il caso di:
Lavoratori con familiari aventi gravi patologie cronico-degenerative ed
oncologiche.
Lavoratori che assistono un familiare con totale e permanente inabilità
lavorativa.
Lavoratori che assistono il figlio convivente con meno di 13 anni o disabile.
Computo lavoratori part-time: funzione per certi versi promozionale ha la norma secondo cui,
per disposizioni di legge o contratto collettivo, si renda necessario il computo dei lavoratori
dipendenti. In tal caso, i lavoratori part-time sono computati nel n° complessivo dei
dipendenti in proporzione all’orario effettivamente svolto.
𝐨𝐫𝐞 𝐬𝐯𝐨𝐥𝐭𝐞 𝐝𝐚𝐥 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐩𝐚𝐫𝐭 𝐭𝐢𝐦𝐞
𝐧° 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐩𝐚𝐫𝐭 𝐭𝐢𝐦𝐞
𝐨𝐫𝐚𝐫𝐢𝐨 𝐝𝐢 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐨 𝐩𝐢𝐞𝐧𝐨
Richiesta temporanea di trasformazione in part-time: una novità introdotta nel 2015, è la
possibilità accordata al lavoratore di richiedere (1 sola volta), al posto del congedo parentale, la
trasformazione del rapporto in part-time, per un periodo corrispondente a quello
dell’aspettativa prevista dalla legge, e con un limite di riduzione dell’orario del 50%. In tal caso,
il datore di lavoro deve procedere alla trasformazione del rapporto entro 15 gg dalla richiesta.
Soglia di giornate lavorative: ad eccezione del settore turistico, dello spettacolo e dei pubblici
esercizi, il contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ogni lavoratore con lo stesso
datore di lavoro, per un periodo complessivo non superiore a 400 gg effettivi di lavoro
nell’arco di 3 anni. In caso di superamento, il rapporto si trasforma in rapporto di lavoro
indeterminato a tempo pieno.
Periodi di inutilizzabilità: il decreto stabilisce che, di norma, nei periodi in cui il lavoratore non
sia utilizzato non maturi alcun trattamento economico e normativo.
Tuttavia, in via del tutto eccezionale, la legge ammette che, nel caso in cui il lavoratore abbia
garantito al datore la piena disponibilità a rispondere alle chiamate, avrà conseguentemente
diritto alla maturazione dell’indennità di disponibilità.
Indennità di disponibilità: nei casi in cui sia prevista dai contratti collettivi, il lavoratore riceve
un’indennità mensile per mettere a servizio la propria disponibilità nei confronti del datore.
L’entità dell’indennità di disponibilità, divisibile in quote orarie, è stabilita dai contratti
collettivi, e in ogni caso non può essere inferiore all’importo fissato con decreto dal Ministero
del lavoro e delle politiche sociali, sentite le associazioni sindacali più rappresentative a livello
nazionale.
Il diritto all’indennità mensile resta escluso nei casi di malattia/infortunio o altro evento che
rendano il lavoratore temporaneamente indisponibile a rispondere alla chiamata. In questo
caso, il lavoratore deve preventivamente avvisare il proprio datore (specificando la durata
dell’impedimento durante il quale non matura il diritto all’indennità di disponibilità), pena la perdita del diritto
all’indennità per 15 gg, salvo diversa previsione dei contratti collettivi.
Rifiuto ingiustificato alla chiamata: invece, il rifiuto ingiustificato alla chiamata può costituire
un giustificato motivo di licenziamento, e comportare anche la restituzione della quota di
indennità di diponibilità del periodo successivo al rifiuto.
Smart-working: il lavoro agile (smart-working) è uno dei modelli che più ha riscontrato
successo negli ultimi anni (sia nel privato che nel pubblico), in quanto offre indiscutibili vantaggi sia alle
aziende, in termini di risparmio dei costi organizzativi (risparmio sul costo del trasfertismo e delle relative
indennità previste dai contratti collettivi) realizzando così incrementi della produttività, sia al lavoratore,
il quale può conciliare meglio la vita lavorativa con quella quotidiana.
Tuttavia, la distanza dall’azienda comporta la predisposizione di regole ad hoc per quanto
riguarda i poteri tipici del datore di lavoro (potere direttivo; di controllo; disciplinare) e gli obblighi su di
lui incombenti (sicurezza ecc.).
Accordo datore-lavoratore: il legislatore non prevede alcun rinvio della disciplina alla
contrattazione collettiva, attribuendo questo compito direttamente al datore di lavoro e al
lavoratore. Questi, devono stipulare un accordo individuale in forma scritta ad substantiam (ai
fini dei controlli dell’Ispettorato del lavoro), e tale documento dev’essere obbligatoriamente
comunicato per via telematica ai servizi per l’impiego.
L’accordo deve regolare:
Modalità di esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali
aziendali; quantità temporale dell’impegno lavorativo all’esterno; strumenti utilizzati
dal prestatore.
Modalità con cui verrà esercitato il potere direttivo e di controllo al di fuori dei locali
aziendali.
Condotte che danno vita a sanzioni disciplinari all’esterno dei locali aziendali.
Tempi di riposo del lavoratore.
Diritto alla disconnessione: le specifiche misure tecniche e organizzative necessarie per
assicurare al lavoratore la possibilità di disconnettersi dalle strumentazioni tecnologiche
usate per la prestazione lavorativa.
Recesso dall’accordo: lo smart-working può essere utilizzato sia a termine, sia a tempo
indeterminato. In quest’ultimo caso, viene garantito alle parti il diritto di recesso, che ciascuno
può usare con un preavviso non inferiore a 30 gg (90 gg qualora il datore voglia recedere e il lavoratore sia
disabile).
La presenza di un giustificato motivo (che può essere il venir meno dell’interesse del lavoratore a questo tipo di
contratto; l’inadempimento delle modalità previste dall’accordo ecc.) rende l’accordo immediatamente
revocabile, prima della scadenza (se a termine) o senza necessità di preavviso (se indeterminato).
L’effetto della revoca si manifesta, in ogni caso, esclusivamente sulla modalità della
prestazione lavorativa (cioè lo smart-working), e non anche sul contratto di lavoro subordinato,
ripristinando così un rapporto di lavoro svolto interamente all’interno dei locali aziendali.
Lavoro agile nelle PA: il lavoro agile può essere utilizzato anche nelle PA e anzi, il
provvedimento prevede di portare, entro 3 anni, il 10% di lavoratori pubblici in smart-working,
senza pregiudizio per la loro professionalità e carriera.
ECCEDENZE DI PERSONALE E TUTELA DELL’OCCUPAZIONE
INTRODUZIONE
Tra gli strumenti di governo del marcato del lavoro, ritroviamo le eccedenze di personale, le quali
cercano di bilanciare la fuoriuscita di forza lavoro con meccanismi finalizzati all’agevolazione e
alla promozione del loro reingresso nel mercato.
Surplus forza lavoro: le eccedenze di forza lavoro possono essere temporanee o definitive,
(anche se nella pratica questa distinzione è parecchio labile, poiché spesso lavoratori considerati in eccedenza temporanea
rimangono, di fatto, per anni al di fuori del contesto aziendale) in base alla modalità di fronteggiarle:
1) Surplus temporaneo: occorre un sostegno alle imprese e ai lavoratori per superare il
temporaneo momento di difficoltà.
2) Surplus definitivo: occorrono strumenti di sostegno esclusivamente per i lavoratori
espulsi.
Ammortizzatori sociali: l’insieme di tali misure vanno a contraddistinguere il fenomeno degli
ammortizzatori sociali, i quali furono introdotti per la prima volta nell’immediato dopoguerra e
da lì ha avuto un “andamento fasico” in base al succedersi dei vari governi (alcuni che li hanno utilizzati
come strumenti di sostegno al reddito; altri che hanno al contrario dato risalto alla loro funzione di sostegno all’occupazione).
PREMESSA
La disciplina dettata dalla l. 223/1991, la quale attribuiva allo strumento della CIG una funzione di
sostegno al reddito dei lavoratori (e non più di sostegno all’occupazione, come era diventata) nel caso di
riduzione/sospensione dell’attività lavorativa, fissandone dei limiti all’utilizzo, non è mai stata in
grado di raggiungere gli obiettivi prefissati. Questo per via delle ricorrenti crisi economiche degli
anni successivi (specie nel ’93) che hanno reso di fatto inattuabile la riforma, riconducendo ben presto
la CIG alla funzione di sostegno all’occupazione.
CIG in deroga: l’emblema del ritorno a tale funzione è rappresentata dalla CIG in deroga, intesa
quella:
Accordata ad aziende non ricomprese nel campo di applicazione della CIG.
In deroga ai limiti di durata previsti dalla l. 223/1991.
La crisi nazionale e mondiale del 2008 ha portato all’exploit di questo strumento anomalo di
integrazione salariale.
L. 92/2012: la legge Fornero ha cambiato questo trend, avviando la riforma degli ammortizzatori
sociali (sia gli strumenti a sostegno del reddito in costanza di rapporto lavorativo, sia trattamenti di disoccupazione
involontaria).
Jobs Act 2: la riforma è stata poi portata a termine grazie alla riforma della CIG (d.lgs. 148/2015) e
dei trattamenti di disoccupazione (d.lgs. 22/2015) durante il governo Renzi.
Obiettivi riforme: sia la legge Fornero che il Jobs Act 2 hanno voluto realizzare 3 obiettivi:
1) Semplificare l’apparato normativo in materia.
2) Razionalizzare il ricorso agli ammortizzatori sociali: le riforme hanno voluto collegare
l’utilizzo degli ammortizzatori sociali alla vita lavorativa e contributiva del lavoratore
(prima non inclusa, per cui si garantivano trattamenti di lungo periodo a soggetti con modesta anzianità lavorativa
e contributiva).
3) Condizionalità: le riforme hanno ideato un sistema per far interagire politica passiva e attiva
del lavoro, concedendo gli ammortizzatori sociali solo a patto che i soggetti percettori si
attivino per uscire il più velocemente possibile dallo stato di disoccupazione.
Requisiti: condizione generale per l’accesso alla CIG è il possesso di un’anzianità di almeno 90
gg di effettivo lavoro svolto presso l’unità produttiva interessata dall’intervento (in caso di appalti,
l’anzianità viene calcolata con quella maturata nell’attività appaltata).
Misura dell’integrazione salariale: al prestatore di lavoro in CIG spetta un’integrazione
salariale pari all’80% della retribuzione persa a causa della riduzione/sospensione lavorativa,
entro un tetto massimo differenziato in base alla retribuzione percepita dal lavoratore. L’importo
sia della retribuzione soglia, sia del tetto massimo, vengono aggiornati annualmente in misura
del 100% dell’indice Istat maturato rispetto all’anno precedente.
Malattia: in caso di malattia durante la CIG, al trattamento previdenziale e contrattuale per tale
evento si sostituisce l’integrazione salariale della CIG.
Durata: il d.lgs. 148/2015 prevede che sia la CIGO che la CIGS hanno una durata massima di 24
mesi all’interno di un quinquennio mobile. Unica eccezione si ha per la CIGS prevista per
solidarietà difensiva, per la quale è previsto un allungamento a 36 mesi dell’intervento.
Unità produttiva: i limiti e le condizioni di accesso alla CIG hanno come riferimento non più
l’azienda nel suo complesso (come prima), ma l’unità produttiva intesa come ogni articolazione
dell’impresa con una sua autonomia organizzativa, amministrativa e finanziaria.
Condizionalità: a carico del lavoratore sono posti obblighi di attivazione (condizionalità), la cui
violazione comporta inizialmente la perdita parziale del trattamento e, in caso di persistenza, la
decadenza dallo stesso.
Omessa comunicazione: altra ipotesi di decadenza dal trattamento integrativo è l’omessa
comunicazione all’INPS dello svolgimento di un’altra attività di lavoro autonomo o
subordinato, durante il percepimento della CIG, che comporta la non corresponsione dello stesso.
Informazione e consultazione sindacale: sia l’intervento della CIGO che della CIGS è preceduto
da una procedura che prevede l’obbligo di informazione e consultazione con la rappresentanza
sindacale di base (RSA/RSU) o con le organizzazioni di categoria. Nel corso della consultazione
sindacale, devono emergere:
Cause della sospensione/riduzione dell’orario di lavoro.
Entità e durata prevedibile dell’intervento.
N° di lavoratori interessati dalla CIG.
Del termine della procedura di consultazione sindacale va dato atto nella domanda di intervento.
Domanda di concessione CIGO: altra novità introdotta dal Jobs Act 2 è la previsione secondo cui,
nella domanda di intervento, vanno identificati i lavoratori interessati alla sospensione/riduzione
dell’orario lavorativo, anche al fine di attivare i meccanismi di condizionalità. La domanda va
presentata entro 15 gg dall’inizio della sospensione/riduzione e, in caso di presentazione tardiva
o omessa, spetterà al datore corrispondere ai lavoratori una somma pari all’integrazione non
percepita.
EONE: la riforma prevede degli esoneri ai vincoli e ai limiti delle disposizioni in tema di CIGO,
relativamente agli eventi oggettivamente non evitabili (EONE). Infatti, al verificarsi di un EONE:
Viene erogata la CIGO anche in favore dei lavoratori che abbiano un’anzianità inferiore a
quella prevista dalla legge (90 gg di effettivo lavoro presso l’unità produttiva).
Non opera il limite delle 52 settimane nel biennio mobile, ove la CIGO sia stata accordata
in più periodi non consecutivi.
Non è dovuto il contributo addizionale.
L’impresa è esonerata dall’obbligo di informazione e consultazione sindacale, ed ha il
solo obbligo di comunicazione alle RSA o RSU della prevedibile durata della
sospensione/riduzione.
Il termine di presentazione della domanda decorre dalla fine del mese successivo a quello
in cui si è verificato l’EONE (deroga introdotta con il decreto correttivo del Jobs Act 2).
Concessione CIGO: la competenza in merito alla concessione dell’integrazione salariale spetta
all’INPS.
Causali CIGS: le causali di intervento straordinario, grazie al Jobs Act, si sono ridotte a 3:
1) Riorganizzazione aziendale (in cui sembrano rientrare anche ristrutturazioni e riconversioni aziendali).
2) Crisi aziendale.
3) Contratto di solidarietà: nato per tutelare i lavoratori, il contratto di solidarietà prevede
un accordo tra il datore di lavoro, il sindacato e il dipendente per una riduzione delle ore
di lavoro e della retribuzione in caso di crisi. Tramite il contratto di solidarietà, si consente
all’azienda in crisi di rientrare con i costi, garantendo comunque uno stipendio ai
lavoratori.
La l. 863/1984 prevede i cosiddetti contratti di solidarietà difensiva (che servono ad evitare il
licenziamento dei dipendenti) e espansiva (per favorire nuove assunzioni).
Decreto Sostegni Bis: di recente il contratto di solidarietà è stato sottoposto ad una serie
di modifiche attraverso il Decreto Sostegni Bis (2021) per far fronte alle conseguenze
derivanti dall’emergenza pandemica.
La nuova normativa prevede che, nel 1° semestre del 2021, le imprese che hanno avuto una
riduzione del fatturato pari al 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno 2019 hanno
diritto a richiedere la CIGS per un periodo di 26 settimane. Tale richiesta è subordinata
alla stipulazione dell’accordo del contratto di solidarietà.
FONDI DI SOLIDARIETÀ
L’aumento dei casi di ricorso alla CIG e la progressiva insufficienza delle finanze pubbliche volte
al sostegno al reddito dei lavoratori hanno indotto il legislatore a valorizzare il welfare privato (o
“fai da te”), affidato all’intervento del bilateralismo.
Enti bilaterali: gli enti bilaterali sono degli organismi a gestione paritaria composti da
rappresentanti delle associazioni sindacali dei datori di lavoro e dai rappresentanti dei
lavoratori che, mediante finanziamento a totale carico degli iscritti a queste associazioni,
provvedono ad erogare le provvidenze sostitutive di quelle pubbliche non accessibili o
integrative delle stesse (nei limiti di quanto raccolgono).
Bilateralismo consolidato: ci sono settori in cui il bilateralismo è utilizzato da lungo tempo,
ossia l’artigianato, edilizia e settore terziario.
Volontarietà: la caratteristica fondamentale degli enti bilaterali è la volontarietà dell’adesione da
parte dei datori di lavoro, e della limitazione delle prestazioni erogabili in base alla provvista
finanziaria raccolta attraverso la contribuzione.
L. 92/2012: la legge Fornero ha utilizzato questi strumenti per far fronte alle esigenze della crisi,
prevedendo per la prima volta la costituzione di fondi bilaterali di sostegno al reddito ad
adesione obbligatoria, con connessa contribuzione obbligatoria, da parte dei datori di lavoro
con +15 dipendenti esclusi dal campo applicativo della CIG.
Tuttavia, la riforma Fornero ha anche confermato il vincolo di bilancio, ossia l’obbligo di non
corrispondere alcuna prestazione in assenza di risorse disponibili.
Infine, in caso di mancata costituzione di fondi bilaterali privati, la l. 92/2012 ha previsto la
costituzione di un fondo residuale da parte dell’INPS. Di fatto, però, nel triennio fino
all’emanazione del Jobs Act, questa legge ha avuto scarsa applicazione.
D.lgs. 148/2015: per questo il Jobs Act 2 ha ridisciplinato completamente i fondi di solidarietà,
abrogando l’intera disciplina previgente, e prevedendo che:
Non è previsto un termine per l’istituzione del fondo bilaterale.
Il fondo residuale dell’INPS viene rinominato “Fondo di integrazione salariale”.
La soglia dimensionale oltre la quale scatta l’obbligo del versamento della contribuzione
scende da 15 a 5 dipendenti.
Dai fondi bilaterali può essere erogato un assegno di solidarietà (al posto della provvidenza
erogata tramite i contratti di solidarietà senza CIGS).
Si prevede un aggravamento della contribuzione dovuta ai fondi.
Si prevede un’integrazione tra di essi.
CIG IN AGRICOLTURA
L. 457/1972: Per quanto riguarda l’integrazione salariale per le imprese del settore agricolo, la
principale fonte normativa è la l. 457/1972 (non è stata abrogata dal d.lgs. 148/2015, in quanto le norme della
legge sono compatibili col decreto).
Campo di applicazione soggettivo: possono usufruire dell’integrazione salariale prevista dalla l.
457/1972 gli operai agricoli con contratto a tempo indeterminato che siano sospesi
temporaneamente dal lavoro per intemperie stagionali o per altre cause non imputabili al
datore di lavoro o ai lavoratori.
Misura del trattamento: in favore degli operai agricoli viene erogato un trattamento sostitutivo
della retribuzione, per le giornate di lavoro non prestate, pari a ⅔ della retribuzione.
Durata: il trattamento può essere concesso per un massimo di 90 gg all’anno, cui si aggiungono
gli assegni familiari (ove spettanti).
Procedura d’ammissione: per essere ammessi al trattamento, il datore di lavoro deve
presentare domanda alla sede provinciale dell’INPS (tramite i Centri per l’impiego) entro 15 gg dalla
sospensione del lavoro. Nella domanda deve indicare:
Nominativo dei lavoratori sospesi.
N° di giornate di sospensione.
Causa della sospensione dell’attività lavorativa.
L’INPS decide se concedere o meno il trattamento entro 20 gg, trascorsi i quali la domanda si
intende accolta. È poi l’INPS stesso a corrispondere al datore il trattamento sostitutivo.
L. 223/1991: nel ’91 sono poi state apportate alcune modifiche all’istituto:
Il trattamento ordinario per il settore agricolo è stato esteso anche a impiegati e quadri.
La fruizione del trattamento di integrazione salariale (sempre di 90 gg), per operai e
impiegati agricoli con contratto indeterminato, è concessa anche nei casi di sospensione
lavorativa per esigenze di riconversione/ristrutturazione aziendale da imprese che:
1. Occupino almeno 6 lavoratori con contratto a tempo indeterminato; o
2. Occupino 4 lavoratori a tempo indeterminato, e nell’anno precedente abbiano
impiegato manodopera agricola per un n° di giornate non inferiore a 1080.
2) LICENZIAMENTI COLLETTIVI
L. 604/1966: il legislatore del ’66 ha introdotto dei limiti al potere di recesso del datore di lavoro
nei licenziamenti individuali, prevedendo il principio del giustificato motivo come limite al
diritto potestativo di licenziamento. Tuttavia, ha espressamente previsto l’esclusione di tale
disposizione per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale.
Di conseguenza, per lungo tempo non si è potuto applicare la disciplina protettiva dei licenziamenti
individuali anche a quelli collettivi, per cui i licenziamenti collettivi illegittimi venivano sanzionati,
secondo la tutela del diritto comune, col solo risarcimento del danno; ma ciò avveniva solo se il
datore di lavoro:
avviava le procedure di consultazione sindacale (previste dagli Accordi interconfederali), che
diventava così un requisito formale essenziale del licenziamento collettivo; oppure
nell’ipotesi di insussistenza dell’elemento sostanziale della riduzione o trasformazione
di attività o lavoro.
In mancanza di queste 2 circostanze, il licenziamento collettivo si trasformava in una somma di
licenziamenti individuali (licenziamenti individuali plurimi).
L. 223/1991: solo nel ’91 si è colmato questo vuoto legislativo, con l’emanazione della l.
223/1991 che ha dato attuazione alla direttiva CE 75/129.
Direttiva CE 98/59: dopo l’emanazione della legge del ’91, l’UE ha previsto nuove norme
comunitarie, fino all’emanazione della direttiva 98/59 che ha abrogato tutte le direttive
precedenti. Questa direttiva ha riprodotto quasi alla lettera la vecchia direttiva del ’75, per cui in
Italia non si è resa necessaria inizialmente l’integrazione della nuova direttiva.
Successivamente, la CGCE ha condannato l’Italia per non aver dato attuazione alla nuova
direttiva, perché all’interno della l. 223/1991 erano esclusi dalla disciplina dei licenziamenti
collettivi i datori di lavoro non imprenditori (inclusi nella direttiva del ’98). Perciò il legislatore è
intervenuto per inserirli nel 2004.
Infine, nel 2014 la CGCE ha ulteriormente sanzionato l’Italia per non aver incluso nella disciplina
dei licenziamenti collettivi i dirigenti (inseriti nel 2014 mediante la legge europea 2013 bis).
RIDUZIONI DEL PERSONALE (L. 223/1991)
L. 223/1991: con la l. 223/1991 il legislatore ha voluto disciplinare tutte le situazioni di
eccedenza di personale, prevedendo gli interventi della CIG e le norme in materia di licenziamenti
collettivi. Il legislatore, accanto alle ipotesi in cui ricorreva la CIG, ha previsto 2 ipotesi di
trattamento delle eccedenze definitive di personale:
Collocamento in mobilità: l’eccedenza di personale si manifesta durante una crisi
aziendale per la quale è stato concesso l’intervento della CIGS.
Licenziamento collettivo per riduzione del personale: il datore decide di procedere ai
licenziamenti delle eccedenze di personale, prescindendo dal ricorso alla CIGS (anche se
legittimato a richiederla).
L. 92/2012: la legge Fornero, nella riforma degli ammortizzatori sociali, ha eliminato le liste di
mobilità, sostituendo l’indennità di mobilità con l’ASpI (assicurazione sociale per l’impiego) come unico
ed universale strumento di tutela contro la disoccupazione, eliminando dunque la distinzione tra
le 2 fattispecie e riunendo tutta la disciplina sotto la dicitura “procedura per i licenziamenti
collettivi per riduzione del personale”.
Licenziamento collettivo per riduzione del personale: questa disciplina ha una portata generale:
Campo di applicazione: riguarda anche le imprese non rientranti nella disciplina della
CIGS, ma che effettuino licenziamenti collettivi. Inoltre, dopo le modifiche apportate nel
2004-2014 essa si applica anche ai datori di lavoro non imprenditori e ai dirigenti (con
alcune varianti).
Limite dimensionale: sia per la riduzione di personale operata durante l’intervento della
CIGS, sia nel caso in cui il datore intenda procedere direttamente, si applica il limite
dimensionale di 15 dipendenti (stessi criteri di calcolo utilizzati per la CIGS).
Rinvio disciplina alla CIGS: la disciplina dei licenziamenti collettivi per riduzione di
personale viene rinviata in buona parte alla procedura di licenziamento nel corso della
CIGS, per uniformità di trattamento delle riduzioni di personale.
Comunicazione scritta licenziamento: una volta scelti i lavoratori da licenziare, il datore di lavoro
ha l’obbligo di comunicare individualmente a ciascuno di loro il provvedimento di licenziamento
in forma scritta, il quale deve rispettare l’obbligo del preavviso.
Entro 7 gg dal licenziamento, inoltre, il datore deve comunicare agli Uffici del lavoro competenti
un elenco contente i dati anagrafici e professionali dei lavoratori espulsi, nonché l’indicazione
delle modalità di applicazione dei criteri di scelta.
Vincoli formali: per quanto riguarda i vincoli formali del provvedimento di licenziamento, sono
cambiati col passare delle disposizioni:
1) L. 223/1991: la legge del ’91 disponeva:
Inefficacia: licenziamenti senza forma scritta, o in violazione della procedura
prevista dalla legge. Veniva applicato, in questo caso, il vecchio art. 18 St. lav., e
dunque la reintegrazione nel posto di lavoro.
Annullabilità: licenziamenti in violazione dei criteri di scelta. Anche in questo caso
si applicava la reintegrazione piena.
2) L. 92/2012: la legge Fornero ha modificato l’apparato sanzionatorio, prevendo:
Reintegrazione piena: inosservanza forma scritta.
Indennità risarcitoria piena: violazione delle procedure di licenziamento.
Indennità risarcitoria ridotta: violazione dei criteri di scelta.
3) D.lgs. 23/2015: sono esclusi dal regime sanzionatorio della legge Fornero i lavoratori
assunti dal 7 marzo 2015 in poi, ai quali si applica:
Reintegrazione piena: inosservanza forma scritta.
Tutela risarcitoria piena: violazione delle procedure e criteri di scelta (il datore deve
pagare un’indennità pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni
anno di servizio, comunque non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità).
Impugnazione: salva l’ipotesi di assenza di forma scritta, il licenziamento dev’essere impugnato,
e il ricorso depositato al giudice, entro il termine e le forme previste per i licenziamenti
individuali (60 gg), pena decadenza del diritto di impugnazione.
L. 161/2014: successivamente, a seguito di un’altra condanna della CGCE per aver escluso dalla
disciplina dei licenziamenti collettivi illegittimi anche i dirigenti, quest’ultimi sono stati inclusi
dalla l. 161/2014 nel OG italiano.
Anche in questo caso ai dirigenti si applicano tutte le procedure previste dalla legge, con la
precisazione che nella consultazione sindacale devono essere previsti “appositi incontri” dedicati
alla categoria. Vengono escluse, invece, le disposizioni relative alla CIGS e all’indennità di mobilità
(in quanto non rientrano nel suo campo applicativo).
Regime sanzionatorio: delle eccezioni sono previste per l’apparato sanzionatorio applicabile ai
dirigenti:
Reintegrazione piena: inosservanza forma scritta.
Indennità risarcitoria piena: violazione della procedura e violazione dei criteri di scelta
(a differenza della regola generale che prevedeva la reintegrazione in misura ridotta per quest’ultima).
Questo regime è applicabile anche per i dirigenti assunti dopo il 7 marzo 2015, poiché i dirigenti
sono stati espressamente esclusi dalla disciplina del d.lgs. 23/2015 (mantenendo così, forse ad insaputa del
legislatore, un trattamento più favorevole per i dirigenti rispetto alle altre categorie di lavoratori, per le quali è prevista una
tutela inferiore).
Ticket licenziamento: la normativa introdotta con la legge Fornero, e confermata nel 2015, ha
previsto il “ticket licenziamento” pari al 41% del massimale mensile di NASpI per ogni anno di
anzianità aziendale, fino a un massimo di 3 anni, in ogni caso di cessazione del rapporto per
licenziamento che darebbe diritto al trattamento di disoccupazione.
Tuttavia, il ticket licenziamento è stato modificato dopo qualche anno:
2018: in caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale, il contributo è
raddoppiato (82% massimale NASpI per ogni anno di anzianità). In caso di mancato accordo
sindacale, è triplicato (123% massimale NASpI).
2019: in caso di mancato accordo sindacale, per un lavoratore con almeno 3 anni di
anzianità aziendale il contributo dovuto è pari a 9.012,78€.
Azione di rivalsa: l’art. 1676 cc prevede, nel contratto di appalto, che il prestatore di lavoro
dipendente dall’appaltatore possa rivalersi per i propri crediti nei confronti del committente,
fino alla concorrenza del debito che costui vanta verso l’appaltatore. L’azione di rivalsa va
coordinata con il d.lgs. 276/2003, il quale prevede espressamente una responsabilità solidale tra
committente e appaltatore (da far valere entro 2 anni dalla cessazione dell’appalto) per i trattamenti
retributivi, comprese le quote di TFR, i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in
relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.
TRASFERIMENTO D’AZIENDA
L’art. 2112 cc definisce trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione
contrattuale o a fusione, comporti il mutamento della titolarità di un’attività economica
organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento, e che conserva nel
trasferimento la propria identità (a prescindere dalla tipologia negoziale usata per il trasferimento, inclusi anche
usufrutto o affitto d’azienda).
Attività economica organizzata: nella definizione, emerge il concetto di “attività economica
organizzata”, ossia una parte dell’azienda che, al momento dello scorporo, sia già in grado di
provvedere coi propri mezzi ad uno scopo produttivo definito e predeterminato.
Al riguardo la CGCE ha ammesso, in passato, che possa avvenire trasferimento d’azienda nel caso
in cui si trasferiscano all’esterno anche solo lavoratori nello svolgimento di un’attività (successione
di 2 operatori economici nello svolgimento di opere o servizi d’appalto), e al tempo stesso risulti minimale o
addirittura assente il trasferimento di elementi patrimoniali materiali e/o immateriali. Per cui, la
Corte ha ritenuto non necessario anche il trasferimento di elementi patrimoniali al fine di
delineare la fattispecie di trasferimento d’azienda, occorrendo piuttosto una valutazione nel caso
concreto dell’operazione economica in atto.
Perciò, il legislatore comunitario nel ’98 ha dovuto correggere la precedente direttiva del ’77,
stabilendo che è considerato trasferimento quello di un’entità economica che conserva la propria
identità (intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica), sia essa essenziale
o accessoria.
Alla luce di questo cambiamento interpretativo comunitario, si capisce che all’espressione “attività
economica organizzata” vadano ricondotte anche le ipotesi nelle quali, tenuto conto dell’attività
svolta, oggetto del trasferimento sia un’entità caratterizzata dalla presenza estremamente
ridotta o assente di elementi materiali e/o immateriali (successione nell’appalto di un servizio di pulizia
locali, dove c’è l’assenza di beni materiali/immateriali da trasferire; c’è trasferimento d’azienda nella cessione di un gruppo di
dipendenti, dotati di un particolare “know-how” stabilmente coordinati e organizzati tra loro; c’è trasferimento anche quando
si trasferisce un “ramo dematerializzato” dell’impresa, nel quale il fattore personale sia preponderante rispetto ai beni
materiali, a patto che il ramo sia funzionale alla realizzazione di un risultato produttivo definito e predeterminato).
Trasferimento d’azienda vs cessione del contratto di lavoro: per avere trasferimento d’azienda,
dunque, l’elemento determinante è l’organizzazione, ossia il legame funzionale che rende l’attività
dei dipendenti appartenenti ad uno stesso gruppo in grado di realizzare un determinato
risultato produttivo; altrimenti, si configura un’altra vicenda traslativa, ossia la cessione del
contratto di lavoro, il cui perfezionamento è subordinato al consenso del contraente ceduto (a
differenza di quanto accade nel trasferimento d’azienda).
Acquisizione lavoratori in appalto: l’art. 29 d.lgs. 276/2003, originariamente, escludeva che
l’acquisizione di personale già occupato nell’appalto, a seguito del subentro di un nuovo
appaltatore, costituisse fattispecie di trasferimento d’azienda (o di parte di essa).
Tuttavia, al fine di non entrare in conflitto con la disciplina comunitaria, la giurisprudenza ha usato
interpretare il d.lgs. 276/2003 in termini limitativi, ossia:
Escludendo l’applicabilità del 2112 cc nelle sole ipotesi in cui il personale
precedentemente impiegato nell’appalto non potesse essere considerato come
un’attività economica organizzata (cioè un’azienda o un ramo di essa).
Riconoscendo l’applicazione del 2112 cc ogni qualvolta la vicenda circolatoria assumesse
in concreto le caratteristiche del trasferimento di un’attività economica organizzata.
Legge europea (2015-16): sul punto ha provato a far chiarezza la legge europea 2015-16, che
ha novellato il d.lgs. 276/2003, stabilendo che l’acquisizione del personale già impiegato
nell’appalto, a seguito del subentro di un nuovo appaltatore dotato di propria struttura
organizzativa e operativa, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una
specifica identità d’impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte di essa. Perciò,
per capire se ci si trovi di fronte alla fattispecie di cambio d’appalto o di trasferimento d’azienda,
bisogna capire se l’appaltatore subentrante sia in possesso di una struttura organizzativa
autonoma e preesistente, e se ci siano elementi che escludano la piena sovrapponibilità delle
attività imprenditoriali.
Tuttavia, la norma pone parecchi dubbi interpretativi, soprattutto sui concetti di discontinuità e di
identità d’impresa (è sufficiente che l’appaltatore subentrante svolga attività ulteriori, o un servizio più esteso e
diversificato rispetto al precedente per escludere l’applicazione del 2112 cc?), tuttora affidati alla discrezionalità dei
giudici.
Ramo d’azienda: le norme del trasferimento d’azienda si applicano anche al trasferimento di
parte di essa, quando questa sia intesa come un “articolazione funzionalmente autonoma” di
un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al
momento del trasferimento.
Questa norma è volta a rendere più agevoli le operazioni di esternalizzazione di fasi o parti
dell’attività, favorendo anche la cessione di rami d’azienda prive di autonomia funzionale fino
al momento del trasferimento, poiché nella formulazione precedente la legge disponeva che per
trasferire un ramo d’azienda era necessario che quest’ultimo conservasse in esso l’identità
dell’azienda.
PREMESSA
L’accesso al mercato del lavoro non può essere agevolato solo da misure di politica attiva del
lavoro, ma bisogna operare anche delle misure politiche per l’occupazione. In questa categoria
rientrano tutte quelle misure o interventi idonei a sollecitare la domanda di lavoro:
Creando nuova domanda di lavoro: incentivi per sostenere nuovi investimenti e per
creare nuove attività produttive.
Facendo emergere domanda di lavoro latente: misure finalizzate a incentivare
l’assunzione di categorie di soggetti considerati “svantaggiati” nel mercato di lavoro,
dall’ordinamento europeo e nazionale.
QUADRO EUROPEO
Il sistema degli incentivi all’occupazione è fortemente condizionato dalla normativa europea. In
particolare, sono previsti dei divieti di Aiuti di Stato, posti dal Trattato per il Funzionamento
dell’Unione Europea (TFUE), a tutela della libera concorrenza tra gli Stati membri.
Nel corso degli anni, il legislatore europeo ha definito e circoscritto i componenti della categoria
dei soggetti svantaggiati nel mercato del lavoro, nei cui confronti gli Stati membri possono
concedere aiuti di Stato, esentandoli dall’obbligo di notifica alla Commissione.
Affinché operi l’incompatibilità degli aiuti con il mercato interno, è necessario il concorso di tutti
questi elementi e, inoltre, non deve ricorrere nessuna eccezione prevista dal TFUE o
l’autorizzazione da parte della Commissione.
Nozione Aiuti di Stato: la nozione di Aiuti di Stato non è definita nel TFUE; perciò tale vuoto
normativo è stato colmato da 2 nozioni elaborate da soggetti diversi:
1) Dottrina: sono diverse le definizioni dottrinali, ma tutte con un unico punto in comune, ossia
il vantaggio economicamente apprezzabile concesso ad un’impresa attraverso
l’intervento pubblico (anche se non direttamente proveniente dallo Stato).
2) Commissione e Corte di Giustizia: la prassi della Commissione e la giurisprudenza della
CGCE hanno invece enucleato 3 criteri di definizione degli aiuti di Stato:
Criterio dell’effetto: l’elemento essenziale è la produzione di un effetto favorevole
sui bilanci dell’impresa beneficiaria. Nella nozione di sovvenzione rientrano, oltre
che le prestazioni positive, qualsiasi misura volta a ridurre gli oneri che un’impresa
deve sostenere in condizioni normali.
Criterio di selettività: è previsto direttamente nella dall’art. 107 (“l’aiuto è
incompatibile col mercato interno qualora favorisca talune imprese o produzioni”).
“De minimis”: la Commissione ha previsto, tuttavia, una deroga al criterio di
selettività, escludendo l’effetto distorsivo sulla concorrenza qualora l’aiuto sia di
modesta entità (regola del de minimis).
Onere economico dello Stato: deve sussistere un sacrificio economico (o un mancato
guadagno) da parte dello Stato.
Obbligo di notifica: i finanziamenti che soddisfano i requisiti previsti dall’art. 107 del TFUE
costituiscono aiuti di Stato, e in quanto tali, sono soggetti a notifica alla Commissione.
Esenzione obbligo notifica: tuttavia, lo stesso TFUE (art. 109) dispone che il Consiglio può stabilire
delle categorie di aiuti che sono esentate dall’obbligo di notifica (in quanto compatibili col mercato
interno). Questi aiuti sono:
Aiuti a favore di piccole-medie imprese (PMI).
Aiuti alla ricerca e sviluppo.
Aiuti per la tutela dell’ambiente.
Aiuti all’occupazione e alla formazione.
Aiuti a finalità regionale, conformi alla carta approvata dalla Commissione per ogni Stato
membro.
Regolamento (CE) 800/2008: il Reg. 2002 scadeva nel 2006, per cui la Commissione lo sostituì con
il Reg. (CE) 800/2008 in cui si sono registrate numerose novità. Su tutte la drastica riduzione dei
soggetti svantaggiati, passati a 8:
1) Soggetti senza un impiego regolare da almeno 6 mesi.
2) Soggetti privi di diploma di scuola media superiore o professionale.
3) Ultra 50enni.
4) Adulti che vivono da soli con più persone a carico.
5) Appartenenti a minoranza etnica.
6) Disparità uomo-donna > 25%: svantaggiati erano considerati i lavoratori occupati in
professioni/settori in cui era presente un tasso di disparità uomo-donna superiore al 25%
rispetto alla disparità media uomo-donna in tutti i settori economici dello Stato membro
interessato. Rispetto al 2002, dunque, non venivano più considerate svantaggiate le donne,
ma il criterio utilizzato nel 2008 era neutro (non discriminatorio), in quanto poteva riferirsi a
uno o l’altro sesso in relazione al settore di riferimento.
7) Lavoratore molto svantaggiato: lavoratore senza lavoro da almeno 24 mesi. Questa
previsione strideva un po’ all’obiettivo dichiarato del regolamento di aiutare la fuoriuscita
dallo stato di disoccupazione nel minor tempo possibile, poiché si passava, rispetto al 2002,
da un periodo di disoccupazione di 12 mesi, che dava titolo all’incentivo, a 24 mesi.
8) Disabili: non si riscontravano novità rispetto al 2002.
Categorie escluse: il legislatore europeo del 2008, perciò, ha lasciato fuori dalla categoria dei
soggetti svantaggiati i giovani, gli affetti da dipendenze, i pregiudicati e tutte le altre categorie
individuate, a livello nazionale, dalla l. 381/1991. Per questi soggetti, dunque, l’ammissibilità degli
aiuti di Stato in loro favore era subordinata alla preventiva notifica alla Commissione.
Regolamento (UE) 651/2014: con l’introduzione del Reg. (UE) 651/2014 si assiste ad una sorta
di ritorno al passato, per cui vengono reinserite nei soggetti svantaggiati categorie che erano
previste nel Reg. del 2002, successivamente rimosse nel 2008, su tutti i giovani. Il motivo del
reinserimento dei giovani è rinvenibile nella constatazione di una dilagante e strutturale
disoccupazione di questa categoria, colpita maggiormente dalla crisi economica e finanziaria.
I soggetti svantaggiati nel Reg. del 2014, per cui non è previsto l’obbligo di notifica, sono:
1) Soggetti senza un impiego regolare da almeno 6 mesi.
2) Giovani tra 15-24 anni.
3) Soggetti che non hanno un diploma di scuola media superiore o professionale, o hanno
completato la formazione da non più di 2 anni e non hanno ancora ottenuto il 1° impiego
regolarmente retribuito (Not in Education, Employment or Training→ NEET).
4) Ultra 50enni.
5) Adulti che vivono soli con 1 o più persone a carico.
6) Disparità uomo-donna > 25%.
7) Appartenenti a minoranza etnica.
8) Lavoratore molto svantaggiato: in questa categoria rientrano:
Lavoratore privo di impiego da almeno 24 mesi.
Giovani o appartenenti a minoranza etnica disoccupati da almeno 12 mesi.
9) Disabili.
Garanzia giovani: in risposta alla crisi occupazionale giovanile, i NEET sono stati oggetto
dell’avvio di un programma a loro dedicato, ossia “European Youth Guarantee” (nel nostro OG
“Garanzia Giovani”), che prevedeva l’impegno degli Stati membri a garantire a tutti i giovani
con meno di 25 anni di ricevere un’offerta qualitativamente valida di lavoro, di proseguimento
degli studi, di apprendistato o tirocinio entro un periodo di 4 mesi dall’inizio della
disoccupazione o dall’uscita dal sistema d’istruzione formale.
Limiti di aiuto di Stato: il Reg. prevede poi alcuni limiti relativi agli aiuti di Stato:
Misura dell’aiuto: l’intensità dell’aiuto non deve superare il 50% dei costi ammissibili
(corrispondenti al salario per un periodo massimo di 12 mesi, o 24 mesi per i lavoratori molto svantaggiati).
Incremento occupazionale: deve realizzarsi l’effetto incrementale del livello medio
occupazionale rispetto ai 12 mesi precedenti l’assunzione.
Per il calcolo dell’organico medio, si utilizza una nuova unità di misura (ULA→ unità di
lavoro-anno), conteggiando il lavoro a tempo parziale e quello a termine come frazioni
di ULA. L’effetto incrementale non viene meno se i posti coperti dalle nuove assunzioni
diventano vacanti in seguito a:
Dimissioni volontarie. Mentre l’incremento
Invalidità. occupazionale non si realizza
Pensionamento per sopraggiunti limiti di qualora vi sia licenziamento per
età. riduzione del personale (poiché la
Riduzione volontaria dell’orario di lavoro. riduzione dell’organico è una libera iniziativa
Licenziamento per giusta causa. del datore di lavoro).
Disabili: per l’assunzione dei disabili sono previste delle condizioni più favorevoli, al fine di
consentire all’impresa di sopportare la minore produttività legata all’handicap, i costi per
l’adattamento dei locali, delle apparecchiature utilizzate dal disabile e delle persone che lo
assistono. Per cui, per i disabili sono previste le stesse condizioni dei lavoratori normali, ma con
elevazione dell’intensità dell’aiuto statale al 75%, e con la possibilità di compensare i sovraccosti
connessi alla loro occupazione.
Obbligo di notifica: se gli aiuti soddisfano tutti questi criteri, non è previsto l’obbligo di
notifica. Questo permane, invece, per l’assunzione di soggetti non svantaggiati.
“De minimis”: continuano ad essere esentati dall’obbligo di notifica gli aiuti di entità modesta
(“de minimis”) che, per la loro scarsa entità, non incidono sulla concorrenza tra imprese,
falsandola. Il reg. (UE) 651/2014 ha fissato l’entità massima per rientrare nel “de minimis”:
200.000€ limite massimo di incentivi che un’impresa può ricevere nell’arco di 3 esercizi
finanziari (periodo di riferimento a fini fiscali).
100.000€ per le imprese di trasporto merci su strada per conto terzi.
Ulteriore novità introdotta, per l’applicazione della disciplina degli aiuti minori “de minimis”, è:
Inclusione delle imprese in difficoltà.
Introduzione del criterio di “impresa unica”: ossia nel caso in cui tra 2 imprese vi sia un
rapporto di collegamento o di controllo, o una eserciti un’influenza dominante sull’altra.
QUADRO NAZIONALE
Il quadro nazionale legato agli incentivi statali per incrementare il tasso di occupazione ha visto
3 fasi:
1) Anni ‘60-primi ’90: si caratterizza per la presenza di agevolazioni concesse sotto forma di
sgravi contributivi (riduzione degli oneri previdenziali) e di fiscalizzazione degli oneri sociali di
lunga durata (finanziamento dello Stato di una parte dei contributi (specie quelli per l’assistenza di malattia)
obbligatori a carico delle imprese), accessibili in base alla collocazione geografica delle imprese
in “aree depresse” (in ritardo di sviluppo). Questi interventi avevano l’obiettivo di ridurre il costo
del lavoro gravante sulle imprese attraverso il trasferimento dello stesso a carico della
fiscalità generale e, dunque, dell’intera collettività.
2) Secondi ’90-d.lgs. 276/2003: caratterizzata dalla presenza di sgravi contributivi o di crediti
d’imposta accessibili, per un verso, in ragione del criterio geografico e, per altro,
dell’assunzione di determinate categorie di soggetti svantaggiati.
3) D.lgs. 276/2003-oggi: caratterizzata per le agevolazioni interamente orientate a creare
occupazione in favore dei soggetti svantaggiati (previsti dal Reg. comunitario).
CONDIZIONI OSTATIVE
Con la legge Fornero sono state previste per la 1° volta, in maniera generalizzata, delle condizioni
ostative all’accesso ai benefici statali. La l. 92/2012 ne prevedeva 4; con il Jobs Act, nel 2015,
queste disposizioni sono state abrogate e riscritte nel d.lgs. 150/2015 il quale, oltre a queste, ne
ha previste altre 4, per un totale di 8 condizioni ostative agli incentivi, finalizzate a contrastare
l’uso illegittimo degli incentivi attraverso la fittizia creazione di nuovi posti di lavoro a cui, però,
non corrisponde un effettivo incremento occupazionale (condizione inderogabile per accedere ai
benefici).
Condizioni ostative ai benefici: le condizioni ostative non sono altro che una generalizzazione
di condizioni già previste per singole tipologie di incentivi, e le ritroviamo nell’art. 31
d.lgs.150/2015:
1) Assunzioni in attuazione di un obbligo preesistente: l’incentivo non spetta al datore in
caso di assunzioni effettuate in attuazione di un obbligo preesistente (stabilito da legge o
contratto collettivo). La previsione si riferisce, sostanzialmente, al caso in cui il datore di lavoro
richieda l’accesso ai benefici per assumere o utilizzare in somministrazione un
lavoratore, che però già vanti nei suoi confronti un diritto di precedenza nell’assunzione
presso la sua azienda.
Diritto di precedenza (legge): la legge prevede 4 ipotesi in cui ricorre il diritto di
precedenza, la cui violazione osta alla concessione dell’incentivo:
a) Lavoratori a tempo indeterminato: la 1° ipotesi riguarda il diritto di precedenza
dell’ex dipendente a tempo indeterminato, licenziato per riduzione del
personale nei 6 mesi precedenti all’assunzione. Questo diritto è oggi concesso
anche ai lavoratori collocati in mobilità (licenziamenti collegati con la CIGS) e al
lavoratore licenziato per gmo (ragioni inerenti all’attività produttiva, organizzazione del lavoro
e regolare funzionamento dell’impresa).
b) Lavoratore a tempo determinato: il Jobs Act prevede il diritto di precedenza al
lavoratore a termine che, nell’esecuzione di 1 o più contratti a termine presso la
stessa azienda, ha lavorato per un periodo superiore a 6 mesi. Il diritto di
precedenza vale per le assunzioni a tempo indeterminato eventualmente
effettuate dal datore nei 12 mesi successivi, in riferimento alle stesse mansioni già
svolte.
Affinché operi il diritto di precedenza, questo dev’essere richiamato nell’atto
scritto dove si è apposto il termine al contratto, e che il lavoratore esprima per
iscritto la volontà di avvalersene, entro i termini di decadenza.
c) Lavoratore stagionale: il diritto di precedenza è accordato anche al lavoratore
assunto a tempo determinato per lo svolgimento di attività stagionali, rispetto
alle nuove assunzioni, sempre a tempo determinato, da parte dello stesso datore
di lavoro per le medesime attività stagionali.
d) Trasferimento d’azienda: nei casi di crisi aziendale o di apertura di procedura
concorsuale, la legge riconosce il diritto di precedenza nell’assunzione (a tempo
indeterminato o determinato) ai lavoratori che non siano stati riassunti dall’acquirente
subentrante nell’operazione di trasferimento d’azienda, e che quindi siano rimasti
alle dipendenze del cedente, a patto che sia stato raggiunto un accordo tra le parti
circa il mantenimento (anche parziale) dell’occupazione. Il diritto di precedenza, in
caso di nuove assunzioni da parte dell’acquirente, può esser fatto valere entro 1
anno dalla data del trasferimento d’azienda (o nel più ampio periodo previsto dai contratti
collettivi).
Diritto di precedenza (contratti collettivi): oltre ai diritti di precedenza legali, sono
previste anche ipotesi stabilite dalla contrattazione collettiva, soprattutto nei settori
produttivi dove è previsto un forte fenomeno di esternalizzazione (cambio d’appalto).
Infatti, per il cambio d’appalto sono previste delle “clausole di protezione” (o clausole sociali
oppure clausole di assorbimento di manodopera) che determinano un obbligo di assunzione in capo
all’impresa subentrante del personale precedentemente occupato dall’appaltatore
cedente.
In tal caso, dunque, l’impresa subentrante non potrà beneficiare degli incentivi per
l’assunzione dei lavoratori, i quali vantano un diritto di precedenza riconosciuto loro dalle
clausole contrattuali.
Queste disposizioni non si applicano in caso di assunzioni di disabili.
2) Assunzioni in violazione del diritto di precedenza: nel caso di violazione del diritto di
precedenza (di legge o contratto collettivo) nell’assunzione di nuovi lavoratori, il datore di
lavoro non potrà beneficiare di alcun incentivo statale (salvo che dimostri di aver preventivamente
offerto l’assunzione al lavoratore riservatario, e che questi l’abbia rifiutata).
3) Crisi e riorganizzazione aziendale: nel caso di sospensione di lavoro connessa a una crisi
aziendale o ad una riorganizzazione, il d.lgs. 150/2015 esclude l’accesso ai benefici per il
datore di lavoro o l’utilizzatore. L’espressione “crisi o riorganizzazione aziendale” va
intesa in senso espansivo ricomprendendo tutti i casi di sospensione dal lavoro in cui vi sia
l’intervento di un ammortizzatore sociale (tranne per la CIGO poiché è un intervento di breve durata
ed è determinato da motivi contingenti).
4) Assunzione di dipendenti da imprese controllate/collegate: il datore di lavoro non può
beneficiare degli incentivi all’assunzione qualora questa riguardi lavoratori licenziati nei 6
mesi precedenti al licenziamento, e abbia elementi di relazione con il datore che li ha
licenziati. In sostanza, non deve intercorrere alcuna coincidenza degli assetti proprietari
(ossia una relazione che faccia presumere un comune nucleo proprietario) o la sussistenza di rapporti di
controllo o collegamento tra le 2 imprese.
La norma ha un generale scopo antielusivo, volta a garantire effettivi incrementi
occupazionali delle aziende, ed evitare licenziamenti fittizi da parte di un’impresa
controllata o collegata e la riassunzione degli stessi lavoratori da parte dell’altra impresa,
al fine di eludere la normativa e beneficiare indebitamente degli incentivi.
5) Somministrazione di lavoratore assunto con incentivi: il d.lgs. 150/2015 fissa il principio
secondo cui se un lavoratore, assunto con fruizione dei benefici economici, venga
somministrato presso altra azienda, di quei benefici godrà l’utilizzatore e non il
somministratore. Anche in caso di incentivo in regime di “de minimis” il beneficio viene
computato in capo all’utilizzatore, a cui compete però la relativa comunicazione all’Ente
erogatore.
6) Incremento occupazionale: una delle regole più importanti subordina il godimento degli
incentivi alla realizzazione dell’incremento occupazionale netto della forza lavoro
mediamente occupata. Per verificare l’incremento occupazionale netto, bisogna fare:
Calcolo dei dipendenti: prima di tutto bisogna calcolare il n° di dipendenti
occupati nell'impresa che richieda l’incentivo. Questo calcolo viene effettuato
mediante l’unità di misura ULA (unità di lavoro-anno), pari al n° di dipendenti a tempo
pieno durante l’anno + lavoratori a tempo parziale o a tempo
determinato/stagionale, calcolati come frazioni di ULA.
Il calcolo deve considerare l’effettiva forza occupazionale media al termine dei 12
mesi, e non la forza lavoro “stimata” al momento dell’assunzione (poiché possono
intercorrere dimissioni, licenziamenti ecc.).
Verifica dell’aumento occupazionale: dopodiché bisogna verificare la sussistenza
effettiva di un aumento del n° di posti di lavoro, mettendo a confronto il n° medio
di ULA dell’anno precedente all’assunzione (per cui si richiede l’incentivo), col n° medio
di ULA dell’anno successivo all’assunzione (incentivato).
Questo calcolo viene svolto ogni mese.
Se al termine del calcolo, nell’anno successivo all’assunzione, si riscontri un incremento
occupazionale netto, in termini di ULA, l’incentivo va riconosciuto per l’intero periodo
previsto, e le quote mensili eventualmente già godute si consolidano.
In caso contrario, l’incentivo non può essere riconosciuto e occorre procedere al recupero
di tutte le quote eventualmente già godute.
Esclusioni: ai fini del computo dei lavoratori nell’impresa, vengono esclusi quelli che
hanno abbandonato il posto di lavoro per dimissioni volontarie, invalidità,
pensionamento per sopraggiunti limiti di età, riduzione volontaria dell’orario di lavoro,
licenziamento per giusta causa. Per cui, anche qualora l’incremento occupazionale non si
realizzasse, l’incentivo verrebbe riconosciuto ugualmente al datore.
7) Cumulo dei periodi di lavoro: Ai fini della determinazione del diritto agli incentivi e della
loro durata, si cumulano i periodi in cui il lavoratore ha prestato l'attività in favore dello
stesso soggetto, a titolo di lavoro subordinato o somministrato; non si cumulano, invece,
le prestazioni in somministrazione effettuate dallo stesso lavoratore nei confronti di
diversi utilizzatori, anche se fornite dalla medesima agenzia di somministrazione (salvo che tra
gli utilizzatori ricorrano assetti proprietari sostanzialmente coincidenti o intercorrano rapporti di collegamento o
controllo).
Con questa disposizione, il legislatore ha voluto impedire che uno stesso lavoratore venisse
impiegato alternativamente come dipendente o come somministrato, al fine di eludere
la legge e godere oltre il limite fissato del beneficio.
8) Inoltro tardivo comunicazioni obbligatorie: l’inoltro tardivo delle comunicazioni
telematiche obbligatorie inerenti l’instaurazione o la modifica di un rapporto di lavoro
o di somministrazione producono la perdita dell'incentivo, per la parte relativa al periodo
compreso tra la decorrenza del rapporto agevolato e la data della tardiva
comunicazione.
Repertorio nazionale degli incentivi all’occupazione: col Jobs Act è stato introdotto il
Repertorio nazionale degli incentivi all’occupazione, istituito presso ANPAL, al fine di garantire
trasparenza e coordinamento nella fruizione degli incentivi all’occupazione. Il Repertorio deve
indicare, per ogni schema incentivante:
Categorie di lavoratori interessati.
Categorie di datori di lavoro interessati.
Modalità di corresponsione dell’incentivo.
Importo e durata dell’incentivo.
Ambito territoriale interessato.
Conformità alla normativa in materia di aiuti di Stato.
Definizione legale incentivo: inoltre, l’art. 30 del d.lgs. 150/2015 fornisce una definizione legale
di incentivi all’occupazione, i quali si intendono “benefici normativi o economici riconosciuti ai
datori di lavoro in relazione all'assunzione di specifiche categorie di lavoratori”. Quindi, i 3
requisiti fondamentali sono:
a) Benefici economici: si intendono tutte le agevolazioni che comportino un vantaggio
patrimoniale diretto all’impresa (sgravi o esoneri contributivi; agevolazioni e bonus fiscali; premi o
sovvenzioni erogati in caso di assunzione di determinate categorie di lavoratori). Di regola, l’incentivo
economico viene erogato mediante conguaglio con il versamento dei contributi
previdenziali. Questo perché la maggior parte degli incentivi economici nazionali vengono
gestiti dall’INPS, il quale procede con il conguaglio/compensazione del proprio credito
vantato nei confronti dei datori di lavoro.
b) Beneficio normativo: consiste in una deroga o esenzione dall’applicazione di una
determinata disciplina, che comporta un beneficio solo indirettamente patrimoniale
(beneficio del non computo di alcune categorie di lavoratori per determinare l’organico aziendale, al fine
dell’applicazione di alcune norme).
c) Criterio di selettività: opera il requisito di selettività, in quanto l’incentivo viene erogato
solo in seguito all’assunzione di determinate categorie di lavoratori.
Incentivi apprendistato: per le assunzioni con contratto di apprendistato (di qualsiasi tipo), sono
previsti degli incentivi aggiuntivi a quelli previsti in generale, introdotti inizialmente in via
sperimentale e successivamente stabilizzati con la Legge di Bilancio per il 2019, la quale vi ha
destinato risorse finanziarie (progressivamente ridotte nel 2019 e 2020). Gli incentivi aggiuntivi sono:
Non applicazione del contributo di licenziamento: sia in caso di interruzione del rapporto
in corso, sia di recesso al termine del contratto.
Riduzione aliquota contributiva obbligatoria dal 10% al 5%.
Sgravio totale dei contributi per il finanziamento della NASpI, a carico del datore.
Sgravio totale del contributo integrativo per l’assicurazione obbligatoria contro la
disoccupazione involontaria (oggi destinabile al finanziamento dei fondi interprofessionali per la
formazione continua).
Incentivi donne-over 50: la riforma Fornero ha previsto un incentivo strutturale per i disoccupati
over 50 da oltre 12 mesi o donne disoccupate (di qualsiasi età) da almeno 6 mesi, consistente in una
riduzione del 50% dei contributi a carico del datore di lavoro per 18 mesi (assunzione a tempo
indeterminato) o per 12 mesi (assunzione a tempo determinato, prolungabile di altri 6 mesi in caso di trasformazione
del rapporto).
Incentivi giovani: per i giovani sono previsti diversi incentivi strutturali o introdotti a cadenza
annuale, in base alle risorse disponibili:
1) Bonus under 30: incentivo, introdotto nella legge di bilancio 2018, originariamente previsto
per incentivare le assunzioni a tempo indeterminato per gli under 35 (solo per il 2018), o per
gli under 30 (per le assunzioni dal 2019) che, nell’intero arco della loro vita, non abbiano mai
avuto rapporti di lavoro a tempo indeterminato (anche con altri datori).
L’incentivo consiste nella riduzione del 50% dei contributi previdenziali a carico del datore
di lavoro (con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL) per 36 mesi, e per una misura
massima di 3.000€ annui.
La riduzione è prevista al 100% per le assunzioni di studenti che abbiano svolto presso
l’azienda l’alternanza scuola-lavoro o periodi di apprendistato, entro 6 mesi
dall’acquisizione del titolo di studio.
2) Bonus under 30 Sud: collegato al bonus under 30 è l’incentivo, previsto dalla Legge di
Bilancio 2020, che eleva il beneficio fino al 100% per le assunzioni con contratto a tempo
indeterminato dei giovani under 35, privi di un impiego regolarmente retribuito da
almeno 6 mesi, nelle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia,
Sardegna e Sicilia. Il beneficio non può superare il tetto massimo di 8.060€ su base
annua.
3) Incentivo NEET: incentivo per le assunzioni a tempo indeterminato (anche in
somministrazione) o in apprendistato, o a tempo determinato (anche in somministrazione) di
durata almeno di 6 mesi, di giovani tra i 16-29 anni registrati al Programma operativo
nazionale “Iniziativa Occupazione Giovani” e che siano NEET, ossia non siano inseriti in
alcun percorso di studio o formazione, e che siano disoccupati.
L’incentivo è del 100% degli sgravi contributivi (tranne INAIL), per un massimo di 8.060€,
per le assunzioni a tempo indeterminato; del 50% (e limite massimo 4.030€) per
assunzioni a tempo determinato.
4) Bonus occupazionale giovani eccellenze: incentivo per l’assunzione a tempo
indeterminato di giovani under 30 con laurea magistrale o dottorato di ricerca, a
determinate condizioni (voto di laurea, età ecc.). L’incentivo prevede l’esonero totale dei
contributi previdenziali (tranne INAIL) per 12 mesi dall’assunzione, col limite massimo di
8000€ (per ogni rapporto di lavoro).
Incentivi disoccupati: anche per i disoccupati sono previsti diversi incentivi, in alcuni casi
cumulabili tra loro:
1) Disoccupati Sud: la legge di bilancio 2018 ha previsto un esonero contributivo del 100%
(nel limite massimo di 8.060€ annui per lavoratore) per le assunzioni a tempo indeterminato o
con contratto di apprendistato di 2° tipo, di lavoratori disoccupati tra i 16-34 anni o con
almeno 35 anni (in tal caso, privi di impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi) nelle regioni
Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia.
2) Reddito di Cittadinanza: il d.l. 4/2019 ha previsto degli incentivi per chi assuma i percettori
del RdC. La norma prevede 3 tipi di incentivo:
Incentivo riconosciuto al datore di lavoro per l’assunzione dei percettori di RdC:
è previsto l’esonero dei contributi previdenziali ed assistenziali a carico suo e del
lavoratore (tranne INAIL), nel limite dell’importo mensile del RdC percepito dal
lavoratore, in ogni caso fino ad un massimo di 780€ mensili, per un periodo non
inferiore a 5 mensilità e pari alla differenza tra 18 mensilità – mensilità godute.
In caso di rinnovo del RdC, l’esonero contributivo è pari alla misura fissa di 5
mensilità.
Incentivo riconosciuto al datore di lavoro e all’Ente di formazione, se
l’assunzione avviene a seguito di un percorso formativo e di riqualificazione
professionale: l’incentivo al datore di lavoro viene riconosciuto a metà (con unica
eccezione che il n° minimo di mensilità e il n° fisso in caso di rinnovo passa da 5 a 6), poiché la
restante parte va all’Ente di formazione.
Incentivo riconosciuto al lavoratore percettore di RdC che avvii un’attività
autonoma, un’impresa individuale o partecipi ad una cooperativa di lavoro: se il
lavoratore avvii un’attività lavorativa autonoma entro i primi 12 mesi di fruizione
del RdC, può richiedere l’erogazione una tantum pari a 6 mensilità del RdC, sempre
nel limite massimo di 780€ mensili.
3) NASpI: incentivi per l’assunzione a tempo indeterminato di percettori di NASpI.
L’incentivo consiste nel riconoscimento al datore di lavoro di un contributo mensile pari
al 20% dell’indennità mensile residua che sarebbe stata corrisposta al lavoratore.
Il lavoratore, in alternativa, può richiedere la liquidazione anticipata una tantum
dell’importo complessivo del trattamento ancora non erogato, a titolo di incentivo per
l’avviamento di un’attività lavorativa autonoma, un’impresa individuale o la
sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa di lavoro.
Incentivi per altre categorie: sono, infine, previsti svariati incentivi per altre categorie di soggetti
svantaggiati (lavoratori in CIGS da almeno 3 mesi; detenuti o internati; ex degenti di ospedali psichiatrici; lavoratori
disabili; vittime di violenza di genere; lavoratori assunti in sostituzione; giovani genitori ecc.).
VIGILANZA SUL LAVORO
D.p.r. 144/2011: tale decreto ha modificato la denominazione del DPL in Direzioni Territoriali
del lavoro (DTL).
D.lgs. 149/2015: infine, i risultati sotto le aspettative hanno indotto il legislatore del 2014 a
razionalizzare e semplificare l’attività ispettiva, attraverso l’emanazione del d.lgs. 149/2015, con il
quale si è istituita un’agenzia unica per le ispezioni del lavoro, l’Ispettorato Nazionale del lavoro
(INL).
DIRITTO DI INTERPELLO
Diritto di appello: altra misura preventivo-promozionale è il diritto d’interpello, disciplinato
all’art. 9 d.lgs. 124/2004, il quale attribuisce solo a soggetti qualificati (organismi associativi di rilevanza
nazionale di enti territoriali; enti pubblici nazionali) e, di propria iniziativa o su segnalazione dei propri iscritti,
alle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, il “diritto” di sottoporre al
Ministro del lavoro quesiti, di carattere generale, sull’applicazione delle normative di
competenza del Ministero del lavoro.
Divieto di interpello ai singoli: il diritto di interpello è escluso ai singoli (cittadini; datori di lavoro;
lavoratori), se non tramite le organizzazioni sindacali o associazioni di categoria cui appartengono.
La ratio di tale divieto sta nello scongiurare l’uso personalistico dell’istituto che, perciò, conserva
quel carattere di generalità richiesto dalla norma.
Oggetto dell’interpello: l’istanza può riguardare l’applicazione di normative statali, anche
secondarie (regolamenti), o di normative regionali integrative di quelle nazionali (norme
sull’apprendistato). È da escludersi, invece, la prassi amministrativa (circolari esplicative ed interpretative del
Ministero del lavoro).
Competenza a rispondere: la competenza a rispondere ai quesiti è del Ministero del lavoro.
Inoltre, l’adeguamento alle indicazioni, contenute nella risposta all’interpello, mettono al riparo il
datore di lavoro dall’applicazione di eventuali sanzioni penali, amministrative e civili. Ciò avviene
per 2 motivi:
I quesiti trattano di argomenti di ordine generale, non su casi specifici.
La risposta del Ministero assume carattere di “ufficialità”.
Interpello per sicurezza e salute sul lavoro (d.lgs. 81/2008): anche in materia di salute e
sicurezza nei luoghi di lavoro è stato ripreso il modello di interpello, con l’unica differenza che
le indicazioni contenute nella risposta costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio
dell’attività di vigilanza, non rendendo così immune il datore di lavoro che vi si adegui da
eventuali responsabilità penali, amministrative o civili.
PROCEDIMENTO ISPETTIVO
La principale modalità di svolgimento della funzione di vigilanza è costituita dall’attività ispettiva.
Avvio azione ispettiva: in generale, l’azione ispettiva prende avvio a seguito di:
Programmazione effettuata dai singoli uffici a livello territoriale: la programmazione
può riguardare un territorio specifico e, al proprio interno, un determinato settore di
attività. La scelta dei soggetti da sottoporre a verifica è a discrezione degli ispettori, su
indicazione dei vertici.
Richiesta di intervento da parte di 1 o più lavoratori (direttamente o per tramite
dell’organizzazione sindacale a cui sia stato conferito mandato): la presentazione di una richiesta
di intervento, sia da parte dei lavoratori che dei sindacati, non comporta un obbligo, in
capo all’Ispettorato, di dare necessariamente corso alla verifica ispettiva (salvo che i fatti
denunciati non abbiano carattere penale). Tuttavia, all’Ispettorato grava comunque un dovere di
informativa alla parte istante sull’esito del procedimento (anche nel caso in cui la richiesta sia
improcedibile).
Caratteristiche richiesta: ai fini della procedibilità dell’accertamento ispettivo, la
richiesta:
Non dev’essere palesemente pretestuosa.
Non dev’essere priva di fondamento.
Non dev’essere oggettivamente non attendibile.
Non può essere anonima (poiché contraria ai principi di correttezza e trasparenza).
Su iniziativa delle organizzazioni sindacali: qualora queste abbiano un interesse diretto,
e si trovino in una posizione giuridicamente tutelata (inottemperanza al decreto dell’Autorità
giudiziaria col quale è stato ordinato al datore di lavoro di porre fine alla condotta antisindacale).
Una volta accolta la domanda da parte dell’ITL, e qualora si rinvengano nel caso concreto i margini
per trovare una soluzione conciliativa tra le parti, gli Uffici territoriali avviano la procedura di
conciliazione monocratica (introdotta ex novo nel 2004), prima ed in alternativa all’avvio del
procedimento di accertamento ispettivo.
CONCILIAZIONE MONOCRATICA
La conciliazione monocratica è un istituto che potenzialmente può soddisfare una pluralità di
interessi nelle controversie tra le parti (datore-lavoratore). Infatti:
Punto di vista rapporto tra le parti: lo strumento conciliativo, nel rapporto datore di
lavoro-lavoratore, permette la risoluzione rapida della controversia e soddisfacente per
entrambi:
Datore di lavoro: non subirà alcun accertamento ispettivo dall’ITL, né
l’irrogazione di qualche sanzione.
Lavoratore: soddisferà i crediti vantati col datore, in tempi sicuramente più rapidi
di quelli necessari all’avviamento delle pratiche giudiziarie.
La conciliazione monocratica deve svolgersi con la garanzia da parte di un terzo super
partes (funzionario pubblico), che è il promotore del tentativo di conciliazione tra le parti.
Punto di vista della PA: il buon esito della conciliazione monocratica soddisfa l’interesse
all’economicità dell’azione della PA, perché:
Estingue il procedimento senza dar corso all’attività ispettiva e a tutto ciò che ne
consegue sia in termine di costi diretti (per gli ITL), sia potenziali e indiretti (possibile
contenzioso).
Previene la lite giudiziaria tra le parti, riducendo di gran lunga i contenziosi
gravanti sui Tribunali.
Dir. Min. lav. 2008: nei primi anni dall’istituzione, la conciliazione monocratica è stata poco
utilizzata. Ciò ha indotto il Ministro del lavoro ad emanare una direttiva (2008) affinché tale
strumento diventasse la prassi (e infatti, ad oggi il 25% delle richieste di intervento viene gestito mediante procedura
conciliativa).
Divieto conciliazione monocratica: ci sono casi in cui la conciliazione non è possibile (e dunque
si procederà direttamente all’avvio degli accertamenti ispettivi). Ciò avviene quando la denuncia riguardi:
Fatti di rilevanza penale.
Coinvolga più di 1 lavoratore.
Riguardi fenomeni di illegalità particolarmente diffusi nel territorio di riferimento.
Abbia ad oggetto esclusivamente questioni di carattere contributivo, previdenziale o
assicurativo.
ACCERTAMENTI ISPETTIVI
La principale modalità di svolgimento dell’attività di accertamento è l’accesso nel luogo di lavoro
(salvo rari casi in cui l’avvio delle verifiche può avvenire d’ufficio). L’art. 13 del d.lgs. 124/2004 stabilisce che
l’ispettore del lavoro ha il potere di accedere presso i luoghi di lavoro nei modi e nei tempi
stabiliti dalla legge; a tal proposito dispongono leggi previgenti:
a) Potere di visita (d.p.r. 520/1955): il decreto presidenziale attribuisce all’ispettore del
lavoro il potere di visitare in ogni parte, e a qualunque ora del giorno/notte, i laboratori,
gli opifici, cantieri e i lavori, nonché i dormitori e i refettori annessi allo stabilimento.
b) Potere di interrogare (dir.d. 1422/1924): all’ispettore di lavoro è riconosciuto il potere di
interrogare il personale (direttivo, amministrativo e operaio) presente nell’impresa, ma anche tutti
coloro che l’ispettore ritenga in grado di fornire informazioni utili.
Sanzioni: l’eventuale impedimento all’esercizio dei poteri di vigilanza costituisce illecito
amministrativo, da cui scaturisce una sanzione pecuniaria (ostacolo materiale all’accesso nel luogo di lavoro;
atteggiamento ostruzionistico per impedire l’acquisizione di informazioni ecc.).
PROCEDIMENTO SANZIONATORIO
Lo scopo principale dell’accertamento ispettivo è quello di verificare la conformità dei rapporti
di lavoro alle previsioni di legge o contratto collettivo, qualsiasi natura essi siano e a prescindere
dallo schema contrattuale utilizzato.
Violazione obblighi datore: la violazione degli obblighi e dei doveri in capo al datore di lavoro,
dalla fase di instaurazione fino alla cessazione del rapporto di lavoro, può essere punita con sanzioni
amministrative, penali o civili, a seconda dell’illecito commesso.
Generalmente, l’attività ispettiva rileva gli illeciti di natura amministrativa e penale.
Omissione/evasione contributiva: tuttavia, in materia di omissione (quando il mancato versamento dei
contributi è rilevabile dalle denunce periodiche obbligatorie del monte retribuzioni o da altre registrazioni contabili (rilevazioni
degli orari di lavoro e delle retribuzioni nel libro unico)) o evasione contributiva (quando il datore ometta di effettuare
rilevazioni contabili o le denunce periodiche delle retribuzioni; oppure quando queste risultino false o infedeli (siano effettuate
in misura minore a quella reale, al fine di occultare rapporti di lavoro o l’effettivo ammontare delle retribuzioni))
sono previste
sanzioni civilistiche, consistenti in maggiorazioni percentuali sui contributi e/o premi assicurativi
dovuti e non versati, irrogate esclusivamente dagli enti previdenziali interessati (INPS; INAIL...),
limitandosi, gli ispettori, alla mera quantificazione delle somme imponibili.
Depenalizzazione: con alcune eccezioni (tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; reati penali ecc.), la
maggioranza delle violazioni nei rapporti di lavoro sono punite attraverso sanzioni
amministrative pecuniarie. Tale assetto, è il risultato di 2 provvedimenti intervenuti a distanza di
35 anni, mirati a “depenalizzare” i reati contravvenzionati (in passato sanzionati con la pena alternativa tra
ammenda o arresto), trasformandoli in illeciti amministrativi, e quindi reati di minore gravità:
1) L. 681/1981: è la principale fonte relativa alla punibilità degli illeciti amministrativi e ai
suoi aspetti procedurali.
2) D.lgs. 8/2016: il legislatore ha inserito nell’area degli illeciti amministrativi tutti i reati
puniti con sanzione pecuniaria, sia che si tratti di delitti (puniti con la multa), sia che si tratti di
contravvenzioni (puntiti con l’ammenda).
Fanno eccezione, nell’ambito dei rapporti lavorativi:
Violazioni delle norme a tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Reati relativi all’occupazione di lavoratori in violazione del TU
sull’immigrazione.
Fattispecie regolate dal Codice penale.
D.lgs. 124/2004: con la riforma del 2004, il procedimento sanzionatorio è stato profondamente
innovato e semplificato, grazie all’introduzione del potere di diffida e del verbale unico di
accertamento e notificazione (verbale unico).
Diffida obbligatoria: l’art. 13 d.lgs. 124/2004 prevede che, in caso di accertamento di violazioni
amministrative, si proceda a diffidare il datore di lavoro a regolarizzare le inosservanze entro
un termine di 30 gg dalla notifica del verbale unico. Trascorsi questi 30 gg:
1) Pagamento sanzione pecuniaria ridotta: se il datore di lavoro adempia alla diffida
obbligatoria, ossia compia tutti gli adempimenti per ripristinare la situazione di legalità,
al datore viene assegnato un ulteriore termine di 15 gg per pagare la sanzione, nella
misura pari al minimo dell’importo (se è previsto importo min. e max.), o a ¼ dell’importo (se
stabilito in misura fissa).
Il rispetto delle 2 condizioni (adempimento diffida e pagamento sanzione) estingue il
procedimento sanzionatorio.
2) Applicazione della l. 681/1981: se il datore non adempie alla diffida entro i 30 gg
assegnatigli, cominciano a decorrere i 60 gg per il pagamento in misura ridotta previsto
dalla l. 681/1981.
La diffida obbligatoria ha introdotto un forte incentivo alla regolarizzazione delle violazioni,
poiché concede la possibilità di estinguere il procedimento sanzionatorio col pagamento di una
sanzione molto più agevolata rispetto a quella della l. 681/1981.
Insanabilità della violazione: ovviamente, il potere di diffida è subordinato alla materiale
sanabilità dell’inadempimento, ossia il ripristino della legalità dev’essere materialmente
realizzabile e le inosservanze non devono riguardare norme poste a tutela dell’integrità
psicofisica del lavoratore (il mancato godimento del riposo giornaliero o settimanale è una violazione non sanabile,
poiché la disciplina legale sull’orario di lavoro è posta a tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore e, inoltre, il riposo non
goduto non è ripetibile).
L’impossibilità di sanare la violazione successivamente comporta che la contestazione
dell’illecito avvenga direttamente secondo la procedura prevista dalla l. 681/1981, senza
procedere preventivamente alla diffida obbligatoria.
Titolari del potere di diffida: i soggetti legittimati a diffidare i trasgressori sono:
Ispettori del lavoro.
Personale di vigilanza e amministrativo degli enti e istituti previdenziali: essi sono stati
inseriti nel 2010, che ha novellato l’art. 13 d.lgs. 124/2004. Tuttavia, per effetto
dell’integrazione nell’INL dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro, dell’INPS e INAIL, la
disposizione perde di significato.
Agenti e ufficiali di polizia giudiziaria: legittimati ad accertare violazioni amministrative
punite con sanzione pecuniaria.
La redazione del rapporto dà luogo ad una serie di fasi del procedimento sanzionatorio:
1) Fase valutativa: innanzitutto, si apre la fase di valutazione degli accertamenti, finalizzata a
verificare l’effettiva regolarità formale e sostanziale dell’intero procedimento
sanzionatorio.
2) Provvedimento ordinanza-ingiunzione: al termine delle valutazioni, qualora il dirigente
dell’ITL ritenga fondate le violazioni commesse, egli procede all’adozione del
provvedimento di ordinanza-ingiunzione, con il quale viene determinata la somma
definitiva delle sanzioni e se ne ingiunge (ordina) il pagamento al trasgressore e
all’eventuale obbligato in solido.
2.1) Ordinanza archiviazione: qualora, invece, il dirigente dell’ITL ritenga che non sussistano
sufficienti elementi di prova, o che i procedimenti di contestazione degli illeciti non siano
stati rispettati dal personale di vigilanza, egli adotta un’ordinanza di archiviazione del
procedimento sanzionatorio (che può riguardare anche solo parte delle violazioni contestate).
3) Quantificazione della somma: la quantificazione della somma avviene sulla base di alcuni
parametri dettati dalla stessa l- 681/1981, quali:
Gravità della violazione.
Condotta tenuta dal responsabile (nel corso dell’intero procedimento e anche delle azioni poste
in essere per eliminare/attenuare le violazioni).
Condizione economica del trasgressore.
Il versamento della somma dev’essere effettuato entro 30 gg (60 gg se il trasgressore risiede
all’estero) dalla notifica dell’ordinanza.
Importo maxi-sanzione: l’importo della maxi-sanzione è graduato per fasce di durata del
periodo di irregolare occupazione del lavoratore:
1.800-10.800€ per ciascun lavoratore irregolare impiegato fino a 30 gg di effettivo lavoro.
3.600-21.600€ per ciascun lavoratore irregolare impiegato dal 31°-60° gg di effettivo lavoro.
7.200-43.200€ per ciascun lavoratore irregolare impiegato oltre 60 gg di effettivo lavoro.
Questi importi sono maggiorati del 20% qualora il lavoratore in nero sia:
Immigrato privo di regolare permesso di soggiorno.
Minore in età non lavorativa.
Soggetti percettori del RdC.
Diffida per lavoro nero: il d.l. 12/2002 prevede poi, ad eccezione delle ipotesi aggravate appena
sopra, che la violazione per lavoro sommerso dev’essere comunque contestata con la procedura
di diffida. In questo caso, l’adempimento della diffida prevede:
Assunzione del lavoratore:
A tempo indeterminato (anche part-time fino ad un massimo di 50% dell’orario a tempo pieno);
oppure
A tempo determinato e pieno: per un periodo non inferiore a 3 mesi, con
decorrenza dal giorno dell’accesso ispettivo.
Adempimento degli obblighi previdenziali e assicurativi (anche dei periodi precedenti).
Pagamento della sanzione (nella misura minima per ogni fascia).
Il termine di dimostrazione dell’avvenuta regolarizzazione è maggiore rispetto alla norma
generale, cioè di 120 gg (anziché 30 gg) dalla notifica del verbale unico.
La mancata ottemperanza alla diffida fa proseguire il procedimento sanzionatorio come previsto
dalla l. 681/1981.
PRESCRIZIONE OBBLIGATORIA
Prescrizione obbligatoria: l’art. 15 d.lgs. 124/2004 disciplina l’istituto della prescrizione
obbligatoria, il cui utilizzo è concesso solo agli ispettori del lavoro in merito a ipotesi residue di
reati contravvenzionali nelle materie di competenza (richiedere di fornire notizie, documenti o risultanze).
Procedura: qualora il datore abbia commesso un reato contravvenzionale, per i quali è prevista
la pena alternativa tra arresto o ammenda, o solo ammenda, i funzionari ispettivi procedono ad
impartire apposita prescrizione, con la quale viene assegnato un termine per la cessazione della
condotta illecita e per la rimozione delle relative conseguenze. Della prescrizione gli ispettori
devono darne comunicazione all’Autorità giudiziaria competente per l’azione penale, la quale
resta sospesa fino al termine della scadenza assegnata.
Estinzione in via amministrativa: qualora il trasgressore adempia tutte le indicazioni contenute
nel provvedimento, viene ammessa una procedura di “estinzione in via amministrativa”, la quale
prevede il pagamento di una sanzione pecuniaria pari al minimo previsto o a ¼ della sanzione
fissa (ha la stessa ratio della diffida).
DIFFIDA ACCERTATIVA
Altro istituto nato nel 2004 è la diffida accertativa, con la quale gli ispettori, accertato che
dall’inosservanza della disciplina contrattuale del rapporto di lavoro derivino crediti
patrimoniali in favore del lavoratore, diffidano il datore di lavoro al loro soddisfacimento. In
questo caso, al datore di lavoro viene concesso un termine di 30 gg entro cui può, in alternativa:
Pagare la somma indicata nel provvedimento: il procedimento si estingue.
Promuovere un tentativo di conciliazione: anche in questo caso il procedimento si
estingue, se il datore trova un accordo con il lavoratore titolare del credito, mediante
sottoscrizione di un verbale di accordo.
Non adempiere all’atto di diffida: se non si trova un accordo o trascorrono i 30 gg, senza
che il datore presenti alcuna istanza di conciliazione o non paghi la somma prevista nel
provvedimento, la diffida acquista valore di accertamento tecnico ed efficacia di titolo
esecutivo, con provvedimento del dirigente dell’ITL.
Prestare ricorso.
Dubbi interpretativi: La novità della diffida accertativa risiede nel fatto che per la 1° volta
nell’ordinamento giuridico italiano rivolto al lavoro si introduce un titolo esecutivo di formazione
amministrativa per la soddisfazione di un diritto soggettivo privato.
Tuttavia, proprio questa sua caratteristica ha mosso alcuni dubbi di interpretazione:
1) Natura dei rapporti di lavoro: la 1° questione ha riguardato la natura dei rapporti in merito
ai quali può essere adottata la diffida accertativa. Il Ministero del lavoro ha chiarito che la
diffida accertativa può essere utilizzata in tutti quei rapporti di lavoro, anche di lavoro
autonomo (CO.CO.CO), “in cui l’erogazione dei compensi sia legata a presupposti oggettivi
e predeterminati, che non richiedano complessi approfondimenti in merito alla verifica
dell’effettivo raggiungimento o meno dei risultati dell’attività”.
2) Crediti oggetto del provvedimento: il 2° dubbio invece riguardava quali crediti fossero
oggetto del provvedimento di diffida accertativa. Sempre il Ministero del lavoro ha chiarito
che vi rientrano indifferentemente crediti scaturenti dalla contrattazione collettiva o dal
contratto individuale di lavoro.
Requisiti credito: il credito oggetto di diffida accertativa deve avere determinati requisiti:
Certezza: il credito è determinato nei suoi elementi oggettivi e soggettivi.
Liquidità: il credito è determinato/determinabile nel suo ammontare.
Esigibilità: il credito non dev’essere sottoposto a termini o a condizioni.
Categorie di credito: inoltre, il Ministero ha indicato una serie di categorie di credito di lavoro
per il quale si applica la diffida accertativa nei confronti del datore di lavoro:
a) Crediti nascenti dalla mancata corresponsione delle retribuzioni previste da contratto.
b) Somme dovute a titolo di lavoro straordinario.
c) TFR.
d) Crediti nascenti da demansionamento o da lavoro sommerso.
Sono esclusi invece i crediti derivanti dalla riqualificazione del rapporto di lavoro o da scelte
discrezionali del datore di lavoro (attribuzione di premi di produzione ecc.).