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AZIONE UNIVERSITARIA TARANTO

Queste dispense sono appunti personali di studenti che hanno frequentato il


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LAVORO SUBORDINATO

“E' prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare


nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la
direzione dell'imprenditore”. (art. 2094 cc)

Con questa definizione, la legge intende affermare sostanzialmente che il rapporto individuale di
lavoro ha natura contrattuale, in cui vi è lo scambio tra retribuzione e prestazione lavorativa
(intellettuale o manuale).

RISCHIO DELL’UTILITÀ DEL LAVORO E DELL’IMPOSSIBILITÀ DEL LAVORO


In passato era importante distinguere tra locatio operis (lavoro autonomo) e locatio operatum
(lavoro subordinato), al fine di stabilire la diversa imputazione o ripartizione dei rischi riguardanti la
realizzazione della prestazione lavorativa tra datore e prestatore di lavoro. 2 sono i rischi tipici
in ambito lavorativo:
1) Rischio del lavoro: incide sull’utilità prodotta dalla prestazione lavorativa (difetto del
materiale di lavorazione che allunga i tempi della prestazione; fulmine che distrugge l’opera finita prima che il
creditore ne possa disporre ecc.).
È in sostanza l’alea che incide sul risultato produttivo
dell’attività lavorativa e dipende dalla difficoltà tecnico-economica del risultato di tale
attività.
2) Rischio di impossibilità (mancanza) del lavoro: incide sull’esecuzione della prestazione
lavorativa, la quale viene ostacolata per effetto del caso fortuito o per eventi di forza
maggiore (gravidanza, malattia, infortunio, invalidità, inondazioni, pioggia, terremoti ecc.). È, quindi, l’alea
che incide sulla perdita totale/parziale del corrispettivo da parte del lavoratore.

Imputazione dei rischi: l’imputazione di questi 2 rischi varia a seconda che si abbia locatio operis
o locatio operatum:
 Impossibilità (mancanza) del lavoro: è sempre a carico del lavoratore, sia nella locatio
operis che nella locatio operatum. Ciò significa che il debitore (lavoratore
autonomo/subordinato) è esonerato dall’obbligo di eseguire la prestazione divenuta
impossibile, ma di contro non avrà diritto alla controprestazione (cioè alla retribuzione).
A tutela del lavoratore, l’OG fa evitare tale perdita nei casi previsti dalla legge (malattia,
infortunio e simili).
 Rischio del lavoro: essendo collegato alla variabilità economica della prestazione lavorativa
e all’incertezza del risultato, tale rischio è ripartito diversamente a seconda che vi sia:
 Lavoro autonomo: il rischio è a carico esclusivo del lavoratore autonomo,
qualunque sia il risultato finale dell’opera.
 Lavoro subordinato: il rischio è a carico del datore o dell’imprenditore, poiché il
lavoratore subordinato si obbliga a prestare le proprie energie lavorative presso di
lui, sopportando il solo rischio di mancanza del lavoro.

LAVORO SUBORDINATO vs LAVORO AUTONOMO


Dalla nozione giuridica di lavoro subordinato fissata dal Codice, è desumibile la nozione tecnico-
funzionale di “subordinazione”:

 SUBORDINAZIONE= dipendenza del prestatore di lavoro, rispetto alla direzione del


datore, nell’esecuzione dell’attività lavorativa.

In sostanza, la subordinazione è la sottoposizione del debitore (prestatore) al potere del creditore


del lavoro (datore/imprenditore); per cui il prestatore è vincolato all’osservanza delle direttive e delle
disposizioni impartitegli dal datore nell’esecuzione dell’attività lavorativa, essendo quest’ultimo
titolare del potere direttivo (potere di poter dare direttive ai propri dipendenti) e disciplinare (potere di poter
applicare sanzioni disciplinari a chi non osservi le proprie direttive).
Lo stesso concetto di subordinazione viene rimarcato in negativo nell’art. 2222 cc in tema di lavoro
autonomo:

“Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con
lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del
committente, si applicano le norme di questo capo [...]” (art. 2222 cc)

Il legislatore rimarca, per il contratto d’opera, l’assenza del vincolo di subordinazione, che è
invece presente nel rapporto di lavoro subordinato.
Ed è proprio l’assenza del vincolo di subordinazione l’elemento distintivo tra le 2 fattispecie.
Infatti, sia per il lavoro subordinato che per quello autonomo l’oggetto dell’obbligazione è il
lavoro, inteso come prestazione di facere (attività personale economicamente utile); ma se nel lavoro
autonomo questo facere è finalizzato al compimento di un’opera/servizio con l’attività
prevalentemente personale dello stesso lavoratore, viceversa nel lavoro subordinato il facere è
finalizzato alla collaborazione, per cui il lavoratore metterà a disposizione le proprie energie
lavorative a disposizione del proprio datore e della sua organizzazione
(lavoro autonomo→ il sarto artigiano a cui viene commissionato un abito si obbliga a confezionarlo per un prezzo da
corrispondersi al compimento dell’opera;
lavoro subordinato→ un sarto che lavora in sartoria a cui viene commissionato un abito verrà retribuito in base alle energie
lavorative prestate nella sartoria, ossia in base al tempo per eseguire tale attività).

CONTRATTI DI LAVORO AUTONOMO


Il connotato tipico dei contratti di lavoro autonomo è la finalizzazione al risultato dell’opera
finita, la cui realizzazione viene organizzata dal debitore e a suo rischio. Vi sono diversi tipi di
contratti di lavoro autonomo:
1) Contratto d’opera: prestazione di un’opera/servizio mediante il lavoro prevalentemente
personale del debitore, ma a suo rischio e, perciò, senza vincolo di subordinazione.
2) Appalto: prestazione di un’opera/servizio da eseguirsi con organizzazione di mezzi e
gestione a rischio dell’appaltatore.
3) Trasporto: trasferimento di cose/persone da un luogo ad un altro.
4) Deposito generico: ha funzione di custodia di beni (il deposito alberghiero o dei magazzini generali
sono accessori al altri contratti tipici).
5) Mandato: riguarda la gestione di affari nell’altrui interesse mediante la conclusione di
contratti (commissione; agenzia; spedizione).

A differenza del lavoratore subordinato, il quale è obbligato ad eseguire la propria attività alle
dipendenze del datore, il lavoratore autonomo può si essere vincolato alle direttive, ma non può
essere alle dipendenze del committente.

CAUSA DEL CONRATTO DI LAVORO SUBORDINATO


La causa del contratto di lavoro subordinato è lo scambio tra le obbligazioni del prestatore e
del datore, ossia rispettivamente lo scambio tra collaborazione e retribuzione. Perciò, la
subordinazione non è un elemento oggettivo di tale contratto, ma è un effetto giuridico
essenziale che scaturisce da esso. Infatti, la subordinazione si identifica con la prestazione di
lavoro alle dipendenze e sotto le direttive dell’imprenditore che vincolano obbligatoriamente il
prestatore nella realizzazione della prestazione stessa (situazione soggettiva).

L’elemento oggettivo del contratto di lavoro subordinato è invece dato dalla collaborazione, il
che sottolinea l’importanza dell’aspettativa del creditore (datore) al risultato della prestazione e,
quindi, del suo interesse a coordinare ed organizzare l’attività lavorativa del debitore (prestatore). Ciò
è ulteriormente messo in evidenza anche dal fatto che il rischio del lavoro (alea dell’area tecnico-
economica della prestazione e che riguarda quindi l’organizzazione del lavoro) è a carico del datore di lavoro.
Si può quindi affermare che non tanto la subordinazione, quanto la collaborazione (intesa come
cooperazione del prestatore all’adempimento della prestazione lavorativa, conformata all’organizzazione
produttiva del datore) è lo scopo tipico, e quindi la causa, del contratto di lavoro subordinato.

CONTINUITÀ/DISPONIBILITÀ NEL TEMPO DELLA PRESTAZIONE


La continuità o disponibilità nel tempo della prestazione di lavoro verso il datore è l’essenza
del vincolo della subordinazione tecnico-funzionale.
Infatti, la continuità, intesa come disponibilità al coordinamento della prestazione nello spazio
e nel tempo, qualifica la subordinazione come dipendenza dal controllo dell’imprenditore
(eterodirezione). Vi sono varie forme in cui si presenta la subordinazione: eterodirezione o controllo
gerarchico; coordinamento solo funzionale dell’attività del prestatore di lavoro ecc.
Conseguenza del vincolo di subordinazione del prestatore nei confronti del datore è la
responsabilità oggettiva (senza colpa) a carico del datore stesso per i danni prodotti ai terzi, in
conseguenza del fatto illecito commesso dal lavoratore subordinato, nell’esecuzione della
prestazione.

COLLABORAZIONE E SUBORDINAZIONE NELLA GIURISPRUDENZA


 Subordinazione: sottoposizione del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro.
 Collaborazione: disponibilità delle energie lavorative messe al servizio
dell’imprenditore e rese in modo da poter essere inserite all’interno dell’organizzazione
aziendale.
Tradizionalmente, la giurisprudenza individua 4 elementi costitutivi tipici del rapporto di lavoro
subordinato, non tutti specificati (...):
1) Onerosità.
2) Collaborazione: inserzione del lavoratore nell’organizzazione produttiva dell’impresa.
3) Continuità: durata nel tempo del vincolo di disponibilità funzionale del lavoratore
all’impresa.
4) Subordinazione.
(...)E facendo riferimento ad altri elementi non indicati dal legislatore per l’individuazione in
concreto della natura subordinata del rapporto:
a) Oggetto della prestazione: applicazione delle energie lavorative del prestatore e,
quindi, con l’attività stessa da lui messa a disposizione del datore (non il risultato prodotto dal
lavoratore).
b) Incidenza del rischio: a carico del datore di lavoro.

Indici empirici: tuttavia, questi criteri non risultano sufficienti a qualificare il rapporto di lavoro
come subordinato o autonomo, per cui la giurisprudenza ricorre ad altri criteri o indici empirici. In
particolare, al fine di distinguere tra le fattispecie di lavoro autonomo e subordinato, risulta
fondamentale:
1. Assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del
datore di lavoro: si concretizza nell’emanazione, da parte del datore di lavoro, di ordini
specifici, nel controllo e nella vigilanza sull’esecuzione della prestazione del lavoratore.
Da tale assoggettamento derivano:
o Inserimento nell’organizzazione aziendale del lavoratore.
o Limitazione dell’autonomia/libertà di quest’ultimo nello svolgimento delle
mansioni.
In via sussidiaria, poi, vi sono:
2. Assenza di rischio.
3. Continuità della prestazione.
4. Osservanza della prestazione.
5. Osservanza di un orario lavorativo.
6. Cadenza e misura fissa della retribuzione.
COLLABORAZIONE E PARASUBORDINAZIONE
Per poter stabilire se un rapporto di lavoro sia autonomo o subordinato, occorre verificare se
sussista il requisito della continuità, ossia la durata nel tempo del vincolo di disponibilità
funzionale del lavoratore all’impresa.
Collaborazione: l’inserzione del lavoratore nell’organizzazione produttiva dell’impresa è un
sicuro indice presuntivo della sussistenza del requisito di collaborazione (come anche osservanza
dell’orario di lavoro; obbedienza alle direttive impartite dall’imprenditore per l’esecuzione dell’attività).
Tuttavia, tale presunzione non è assoluta, poiché ciò vorrebbe dire che ogni prestazione di lavoro
resa ad un’impresa o ad un organizzazione di lavoro assimilabile sarebbe necessariamente di
natura subordinata, andando di fatto contro alla previsione legislativa dei rapporti di
collaborazione continuativi, ma non subordinati (si pensi al contratto di agenzia, nel quale l’agente – a sua volta
imprenditore – assume stabilmente l’incarico di concludere contratti e affari nell’interessi del preponente).
Inoltre, alcune norme riguardanti le controversie di lavoro (rinunce, transazioni...) hanno equiparato la
disciplina del rapporto di lavoro subordinato con quella di alcune categorie di rapporti di lavoro
autonomo (agenzia; rappresentanza commerciale; institori; procuratori) o altri rapporti di collaborazione di
prestazione d’opera senza vincolo di subordinazione.
Per cui, l’inserzione del lavoratore nell’impresa rimane un elemento tipico del lavoro
subordinato, ma non esclusivo, confermando il significato oggettivo di collaborazione come
attività lavorativa continuata e coordinata, prestata nell’interesse di un creditore (datore di
lavoro o committente).
Parasubordinazione: si ha parasubordinazione tutte le volte che il lavoro autonomo è
finalizzato alla produzione di un’attività/servizio, integrati stabilmente nell’attività del
committente (anche in un’impresa). Per cui anche il contratto d’opera, seppur senza vincolo di
subordinazione, può essere un rapporto di lavoro durevole e continuativo nel tempo, ma solo
sul piano della reiterazione delle singole prestazioni, non sul piano della programmazione o del
coordinamento nello spazio e nel tempo dell’attività, e quindi sulla disponibilità del lavoratore.
Infatti, nella prestazione d’opera coordinata e continuativa, il lavoratore non è vincolato a
tenersi a disposizione del committente, seppur l’apporto della sua attività sia stabilmente inserita
nell’azienda.

COLLABORAZIONI COORDINATE E CONTINUATIVE


Il ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative, sempre più diffuse nell’odierno mercato
del lavoro, hanno messo in luce l’esigenza di disciplinare tale fenomeno e introdurre criteri distintivi
più specifici tra lavoro autonomo coordinato e lavoro subordinato; questo poiché si era diffuso il
ricorso proprio alle collaborazioni coordinate e continuative al fine di eludere le varie tutele
spettanti ai lavoratori subordinati.
Inizialmente le controversie riguardanti questo aspetto erano tutte fronteggiate dal giudice, il
quale era chiamato ad accertare la natura effettivamente subordinata del rapporto, su domanda
dell’interessato, creando ovviamente una situazione di grossa incertezza, riguardo l’alea del
giudizio, sia per il prestatore che per il datore.

Interventi legislativi: per cui era sorta la necessità di contrastare l’abuso al ricorso di queste
collaborazioni pseudo-autonome attraverso interventi legislativi:

1) D.lgs. 2003 “lavoro a progetto”: il 1° di questi interventi legislativi introdusse la disciplina


del lavoro a progetto, ossia un contratto di collaborazione senza vincolo di
subordinazione, volta a differenziare i rapporti di collaborazione autonoma genuini da
quelli che, di fatto, mascheravano un rapporto di lavoro subordinato.
Il contratto a progetto (visto come un sottotipo del contratto d’opera) disponeva che "i rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di
subordinazione, dovevano essere riconducibili a 1 o più progetti specifici o programmi di
lavoro, determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in
funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente e
indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa”.
In realtà, questo decreto non riuscì a differenziare le 2 fattispecie di lavoro, in quanto
proprio l’elemento centrale (il progetto) non riusciva a mettere un solco tra lavoro
autonomo e lavoro subordinato. Per cui, ogni volta che c’era un contenzioso tra le parti, il
giudice propendeva quasi sempre nel riconoscere la natura subordinata del rapporto,
ostacolando di fatto l’uso stesso del contratto a progetto.
2) L. 2012: fu introdotta una legge con lo stesso scopo antielusivo del decreto, la quale
modificava in senso restrittivo l’uso del contratto a progetto, ma allo stesso tempo
estendendolo anche alle prestazioni di lavoro autonomo economicamente dipendente
(partite IVA). Anche questa legge, però, di fatto non cambiò le cose.
3) D.lgs. 2015: tale decreto prevedeva il superamento dell’istituto del contratto a progetto
attraverso:
 Introduzione di criteri nuovi e più stringenti per stabilire la distinzione tra
collaborazioni autonome vs lavoro subordinato.
 Abrogazione delle norme riguardanti il contratto a progetto, il quale è stato
sostanzialmente assorbito nella fattispecie di lavoro subordinato. Infatti il decreto
prevedeva l’estensione alla disciplina del lavoro subordinato anche alle
collaborazioni organizzate dal committente (“tutti i rapporti di collaborazione che si
concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personale, continuative e le cui modalità di esecuzione
sono organizzate dal committente, anche con riferimento a tempi e luogo di lavoro”)
per le proprie
caratteristiche, di natura effettivamente subordinata della prestazione lavorativa,
quali:
 Esclusiva personalità della prestazione;
 Potere di organizzazione del committente che incide sull’esecuzione
della prestazione (non sul risultato finale), e vincola il collaboratore in
merito ai tempi e ai luoghi dell’attività lavorativa.
3.1) L. 2019: una legge del 2019, poi, per rafforzare lo scopo antielusivo del decreto del 2015,
ha modificato parzialmente la definizione di collaborazione organizzata dal
committente. Per cui si applica la disciplina del rapporto subordinato anche ai “rapporti di
collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personale,
continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente, anche con
riferimento a tempi e luogo di lavoro”, ampliando in pratica l’ambito di applicazione della
collaborazione etero-organizzata.

Collaborazioni autonome: le collaborazioni autonome, che rientrano nella disciplina del lavoro
autonomo, sono tutte quelle nelle quali il coordinamento, da parte del committente, può
incidere solo sul risultato finale, e non sull’attività necessaria per la sua esecuzione.
Requisito confermato anche dalla modifica di una norma del c.p.c. (codice procedura civile) che
stabilisce che “la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di
coordinamento stabilite di comune accordo tra le parti, il collaboratore organizza
autonomamente l’attività lavorativa”.

Ipotesi di esclusione dell’applicazione del criterio di subordinazione: vi sono alcune


importanti ipotesi di esclusione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato per le
collaborazioni coordinate e continuative:
 Accordi collettivi di associazioni sindacali: vengono esclusi i rapporti di collaborazione
per i quali il trattamento economico e normativo sia disciplinato, a livello nazionale, da
accordi collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative sul piano
nazionale, purché tale esclusione sia giustificata da particolari esigenze produttive e
organizzative del relativo settore.
 Natura dell’attività svolta/qualità del committente/collaboratore: sono escluse le
collaborazioni prestate nell’esercizio delle professioni intellettuali, per le quali è prevista
obbligatoriamente l’iscrizione negli appositi albi professionali (se un soggetto è iscritto presso
l’albo degli avvocati, non può per questo essere assunto con un contratto di collaborazione coordinata e
continuativa per fare l’impiegato, il custode o l’addetto alle fotocopie).
 Collaborazione prestate da membri di organi di amministrazione e controllo delle
società, di collegi e commissioni.
 Collaborazioni prestate a fini istituzionali in favore di società sportive dilettantistiche
o in favore di enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI.
 Collaborazioni nel settore pubblico: per le PA vi è il divieto di stipulare contratti di
collaborazione che prevedano prestazioni di lavoro esclusivamente personali,
continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente, anche
con riferimento a tempi e luogo di lavoro; l’eventuale violazione comporta sia la nullità del
contratto che la responsabilità erariale e dirigenziale.

Stabilizzazione dei collaboratori coordinati e continuativi: infine il decreto del 2015 (art. 54), al
fine di promuovere la stabilizzazione dell'occupazione mediante il ricorso a contratti di lavoro
subordinato a tempo indeterminato, nonché di garantire il corretto utilizzo dei contratti di
lavoro autonomo, ha previsto che a decorrere dal 1° gennaio 2016, i datori di lavoro privati
debbano procedere all’assunzione, con contratto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato, dei soggetti già parte di contratti di collaborazione coordinata e continuativa
e i soggetti titolari di partita IVA con cui abbiano intrattenuto rapporti di lavoro autonomo.
La norma prevede poi, a chiusura del pregresso rapporto di lavoro, una “conciliazione tombale”,
cioè comprensiva di:
 Ogni eventuale pretesa del lavoratore.
 Obbligo per il datore di non licenziare il lavoratore nei 12 mesi successivi alla
stabilizzazione del rapporto, salvo giusta causa o giustificato motivo soggettivo (gms).
L’assunzione a queste condizioni determina l’estinzione di ogni illecito amministrativo,
contributivo e fiscale connesso all’irregolare qualificazione del rapporto.

TUTELA DEL LAVORATORE AUTONOMO


Per quanto riguarda i lavoratori autonomi, vi è stato un intervento legislativo nel 2017, il quale
prevede una tutela del lavoratore autonomo su 3 piani diversi:
1) Tutela nel rapporto: si è estesa la disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali anche alle transazioni commerciali tra:
 Lavoratori autonomi e imprese.
 Lavoratori autonomi a PA
 Lavoratori autonomi tra di loro.
Inoltre, il lavoratore autonomo riceve tutela anche nel caso di clausole e condotte
abusive (modifica unilaterale delle condizioni contrattuali avente ad oggetto una prestazione continuativa;
recesso senza congruo preavviso; clausole relative a termini di pagamento superiori a 60 gg dal ricevimento della
fattura o della richiesta di pagamento da parte del committente). Infatti, i lavoratori possono richiedere,
oltre all’inefficacia delle clausole abusive, anche il risarcimento danni al committente.
2) Tutela nel mercato: si è previsto un rafforzamento della formazione permanente
mediante la deducibilità delle spese di formazione (entro certi limiti). Inoltre, si favorisce
l’accesso a info e servizi personalizzati di orientamento, riqualificazione e
ricollocazione attraverso la costituzione di uno sportello dedicato ai lavoratori autonomi
presso i centri dell’impiego.
3) Tutela a livello previdenziale: sono 2 le misure previdenziali previste dalla legge del 2017:
 La stabilizzazione e l’estensione dell’indennità di disoccupazione per i lavoratori
con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa.
 L’equiparazione a degenza ospedaliera dei periodi di malattia o di gravi
patologie che comportino un’inabilità lavorativa temporanea del 100%.
In caso di gravidanza, malattia e infortunio del lavoratore autonomo, che presti
la sua attività in via continuativa, non v’è estinzione, ma sospensione del rapporto,
qualora il lavoratore lo richieda, per un massimo di 150 gg ad anno solare, fatto
salvo il venir meno dell’interesse del committente.
La legge poi precisa che il monitoraggio dell’efficacia e dell’effettività di tali tutele è compito di
un tavolo tecnico e di confronto sul lavoro autonomo, istituito presso il Ministero del lavoro.

PRESTAZIONI OCCASIONALI DI TIPO ACCESSORIO


Al fine di portare alla luce una serie di attività quasi mai riconosciute e tutelate (giardinaggio; lezioni
didattiche private...), il legislatore istituì nel 2003 l’istituto delle “prestazioni occasionali di tipo
accessorio rese da particolari soggetti”. Nella realtà dei fatti, però, questo istituto era di difficile
collocamento poiché non sussistevano degli indici che permettessero di inquadrare la nozione di
lavoro occasionale nell’area del lavoro subordinato o in quello autonomo.
Dopo varie modifiche di tale istituto, la nuova disciplina, contenuta nel decreto legge n. 50/2017,
contiene alcuni princìpi di carattere generale, a cui si aggiunge una disciplina specifica a
seconda che l’utilizzatore (datore) sia una persona fisica non imprenditore o imprenditori, enti,
associazioni, fondazioni e PA.

Disciplina comune: le prestazioni di lavoro occasionale vengono suddivise sulla base di tetti di
compenso rapportati all’anno civile, e distinti per prestatore e utilizzatore. In particolare, sono
occasionali le attività lavorative che diano luogo a:
 Compensi netti per ciascun prestatore < 5000€ nei confronti della totalità degli
utilizzatori.
 Compensi netti per ciascun prestatore < 2500€ e/o 280 ore annuali nei confronti di
ogni singolo utilizzatore.
 Compensi netti per ciascun utilizzatore < 5000€ verso la totalità dei prestatori.
Inoltre, prendendo spunto dall’originaria disciplina del 2003 per quanto riguarda le prestazioni rese
da “particolari soggetti” ai margini del mercato del lavoro, il decreto legge del 2017 prevede per
l’utilizzatore, ai fini del raggiungimento del limite annuo verso la totalità dei prestatori, la
possibilità di computare i compensi fino al 75%, qualora i prestatori di cui si avvale siano:
1) Titolari di pensioni di vecchiaia o invalidità.
2) Giovani < 25 anni regolarmente iscritti a un ciclo di studi di qualsiasi ordine e grado
(anche universitario).
3) Disoccupati.
4) Beneficiari di ammortizzatori sociali.
5) Beneficiari di reddito di inclusione.
6) Beneficiari di reddito di cittadinanza.
Comune, poi, alle 2 modalità di acquisizione di attività lavorative occasionali è la previsione del
diritto del prestatore a:
 Assicurazione per invalidità.
 Assicurazione per vecchiaia.
 Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.
con relativi oneri a carico dell’utilizzatore, e differenziati a seconda che si tratti di Libretto
Famiglia o Contratto per prestazioni occasionali.
In più, il reddito da lavoro occasionale è:
a) Esente da prelievo fiscale.
b) Non incide sullo stato di disoccupazione.
c) È computabile per il conseguimento, il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno.
Infine, una significativa novità dell’attuale disciplina riguarda il riconoscimento del diritto ai riposi
giornalieri/settimanali e alle pause, insieme alla disciplina sanzionatoria che prevede, al
superamento dei limiti di compenso e orari da parte dell’utilizzatore, la trasformazione da lavoro
occasionale a rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato.

Disciplina specifica: si distingue a seconda che l’utilizzatore sia:


 Persona fisica non nell’esercizio di attività d’impresa o professionale: egli può acquisire
le prestazioni di lavoro occasionale mediante il “Libretto Famiglia”, il quale è composto
da “titoli di pagamento” del valore nominale orario di 10€ lordi (l’equivalente dei vecchi
voucher). L’attuale normativa prevede che i soggetti “non professionali” che possano
beneficiare di lavoro occasionale solo per remunerare:
 Lavori domestici (giardinaggio; pulizia; manutenzione).
 Assistenza domiciliare a bambini (baby-sitting), anziani, malati o disabili.
 Insegnamento privato supplementare.
 Servizi di stewarding in impianti sportivi.

8€    
compenso 
netto al 
lavoratore

10€ valore  0,10€ 
1,65€  finanziament
contribuzione  nominale  o oneri 
previdenziale orario gestionali

0,25€ 
premio 
assicurazioni 
infortuni

 Imprenditori professionali, enti, associazioni, fondazioni e PA: possono acquisire le


prestazioni occasionali mediante “Contratto di prestazione occasionale”, ossia il contratto
con cui un utilizzatore professionale “acquisisce, con modalità semplificate, prestazioni
di lavoro occasionali o saltuarie di ridotta entità”.
Per contrastare gli abusi, vi è un divieto al ricorso del Contratto di prestazione
occasionale per gli utilizzatori che:
 Hanno alle proprie dipendenze più di 5 lavoratori subordinati a tempo
indeterminato.
 Le imprese del settore agricolo (tranne nel caso in cui i prestatori rientrino nelle categorie per il
computo dei compensi per il 75% (vedi sopra)).
 Le imprese del settore edile (e affini), lapideo e di escavazione.
 Nell’ambito di esecuzione di contratti di appalto (a prescindere dal settore di attività).
Il compenso orario netto spettante al lavoratore è di 9€, ma con l’obbligo per
l’utilizzatore di remunerarlo comunque per almeno 4 ore lavorative (per cui, se anche
l’utilizzatore necessita del prestatore per 1 sola ora, lo deve pagare comunque non meno di 36€ netti). La ratio di
questa scelta è in previsione antielusiva e rende particolarmente oneroso il ricorso al
lavoro occasionale, dovendosi in più aggiungere gli oneri previdenziali, assicurativi (33%
INPS; 3,5% INAIL di 9€ l’ora) e gestionali (1% di quanto versato all’INPS per l’acquisizione dell’attività
lavorativa occasionale).

TUTELA DEL LAVORATORE SUBORDINATO


La distinzione tra lavoratore autonomo o subordinato, oggi, serve soprattutto per l’applicazione
dello statuto protettivo del lavoratore subordinato, ossia un apparato normativo volto alla
massima tutela degli interessi del lavoratore che, perciò, avrà interesse ad agire anche sul piano
giudiziario affinché venga riconosciuto il proprio vincolo di subordinazione.
Infatti, dall’applicazione delle norme relative al rapporto di lavoro subordinato derivano:
 Effetti diretti: effetti che incidono sul contenuto del rapporto e, quindi, sul regolamento
contrattuale; in sostanza, le condizioni riguardanti prestazione e remunerazione del
lavoro (diritto alla retribuzione; diritto alle ferie e riposo settimanale; trattamento di fine rapporto (TFR);
giustificazione del licenziamento; applicazione dei contratti collettivi; diritti sindacali).
 Effetti indiretti: effetti che incidono sui presupposti e sulle conseguenze della
costituzione del rapporto di lavoro, da cui derivano situazioni soggettive esterne di
matrice previdenziale, amministrativa e addirittura penale (sicurezza sul lavoro).

SISTEMA PREVIDENZIALE
Tra i più importanti effetti indiretti della costituzione del rapporto di lavoro subordinato c’è la
costituzione obbligatoria del rapporto di previdenza sociale, intercorrente tra i 2 soggetti del
rapporto di lavoro e gli enti previdenziali.

Assicurazioni sociali: le leggi speciali impongono la costituzione per legge delle assicurazioni
sociali, sulla base dell’esistenza del rapporto di lavoro.
I contributi, solitamente, sono posti a carico sia dell’imprenditore che dei lavoratori. Tuttavia, la
loro ripartizione è oramai stabilita in misura prevalente (assicurazione di invalidità; vecchiaia; superstiti), o
esclusiva (assicurazione infortuni; malattie professionali) a carico del datore di lavoro. In ogni caso,
comunque, il datore è responsabile del versamento dei contributi, anche per le quote a carico
del prestatore, salvo il diritto di rivalsa che può esercitare a norma delle leggi speciali (obbligo
della ritenuta→ sancisce la nullità di patti in violazione o in frode degli obblighi posti dalle norme di previdenza e
assistenza).
Funzionamento sistema previdenziale: seppur simile al sistema assicurativo di tipo privatistico,
il sistema previdenziale presenta qualche scostamento. Infatti, in esso vige il principio
dell’automaticità delle prestazioni, per cui le prestazioni dell’istituto assicuratore sono dovute
in tutti i casi in cui l’evento assicurato si verifichi, indipendentemente dal concreto versamento
dei contributi da parte del datore di lavoro.
Ciò non avviene, invece, per le pensioni di vecchiaia, dove il mancato versamento dei
contributi da parte del datore fa sì che il lavoratore non consegua il diritto al trattamento
previdenziale o ottenga un trattamento inferiore; in tal caso, egli potrà ottenere il diritto al
risarcimento del danno da parte del datore di lavoro.
Natura delle assicurazioni sociali: le assicurazioni sociali intervengono a garanzia del reddito
del lavoratore tutte le volte che la sua capacità di lavoro, e quindi di guadagno, vengano meno
per colpa di infortuni sul lavoro, malattie professionali, malattia comune, maternità, invalidità,
vecchiaia, morte (a favore degli eredi), disoccupazione involontaria, disoccupazione temporanea o
parziale. Alla base dell’intervento assicurativo c’è la valutazione, secondo parametri generali, della
situazione di bisogno in cui versa il lavoratore o la sua famiglia in un dato momento di
temporanea e involontaria inattività, per cui egli viene indennizzato in misura variabile per la
perdita temporanea della retribuzione; oppure, qualora l’inattività abbia carattere definitivo,
vengono erogate le pensioni di invalidità, di vecchiaia e ai superstiti.

PENSIONI DI ANZIANITÀ E VECCHIAIA


Il sistema pensionistico è stato più volte sottoposto a riforma; in ultima battuta nel 2011 con la
Riforma Fornero, che ha apportato delle modifiche restrittive della tutela per esigenze di
bilancio.
Nel sistema pensionistico vige un sistema a ripartizione, per cui la copertura finanziaria per
l’erogazione delle pensioni è affidata dai contributi versati dai lavoratori in servizio.

Evoluzione normativa: il sistema pensionistico ha vissuto diverse fasi.


 1968: viene introdotta la “pensione retributiva”, la cui misura era calcolata in percentuale
alle retribuzioni corrisposte nell’ultimo periodo lavorativo (prima 5, poi 10 anni). Questo
sistema, tuttavia, entrò in crisi col passare del tempo, anche per colpa dell’invecchiamento
della popolazione (al crescere dei pensionati non crescevano gli occupati, per cui il principio delle pensioni
per cui queste venivano finanziate dai contributi versati dalla forza-lavoro attiva non era più efficace).
 L. n.335/1995: nel ’95 la materia venne completamente rivista, per cui si passò da un
sistema retributivo di calcolo dei trattamenti economici ad un sistema contributivo. Il
sistema contributivo garantiva un trattamento pensionistico calcolato sull’ammontare
dei contributi versati nel corso della vita lavorativa.
 D.l. 2011 (Riforma Fornero): con la Riforma Fornero, il sistema pensionistico si è adeguato
alle direttive dell’UE e degli impegni internazionali riguardanti vincoli di bilancio, stabilità
economico-finanziaria, rafforzamento della sostenibilità di lungo periodo del sistema
pensionistico sull’incidenza della spesa previdenziale sul PIL. La riforma prevede:
 Estensione a tutti i lavoratori del sistema di calcolo contributivo.
 Revisione dei requisiti di accesso alle pensioni: vi è stato l’aumento del
requisito anagrafico minimo per accedere alla pensione di vecchiaia (dapprima 66
anni uomo – 62 anni donna; dal 2021 67 anni) e del requisito di anzianità contributiva per
la pensione anticipata (42 anni e 1 mese uomo – 41 e 1 mese donna; altra ipotesi di
pensionamento anticipato è per i lavoratori in regime contributivo pieno, i quali possono andare in
pensione a 63 anni e con almeno 20 anni di contributi, a patto che il trattamento pensionistico sia
almeno pari a 2,8 volte l’assegno sociale).

Tendenza espansiva del diritto del lavoro: seppur con l’ultima riforma il sistema pensionistico
è diventato abbastanza simile a quello assicurativo (per cui versando i contributi avrò nel futuro
diritto alla pensione), l’insieme dei trattamenti previdenziali, tuttavia, è ancora ispirato al concetto
di sicurezza e solidarietà sociale. Ciò si nota, anche dall’attribuzione ai lavoratori autonomi e ai
piccoli imprenditori del trattamento previdenziale.
Per questo si parla di tendenza espansiva del diritto del lavoro, volta a proteggere
maggiormente il lavoratore in generale, indipendentemente se subordinato o autonomo.
Tuttavia ciò non cancella le differenze tra i 2 tipi di rapporto: infatti, solo nel lavoro subordinato si
ha la traslazione del rischio sociale dal prestatore al datore di lavoro, e il rapporto
previdenziale si può configurare come effetto indiretto del contratto.
PRESTAZIONE DI LAVORO

POTERE DIRETTIVO E DISCIPLINARE

DILIGENZA
Il connotato tipico del contratto di lavoro subordinato, che lo distingue da tutti gli altri contratti
aventi per oggetto lo scambio tra un’attività lavorativa e un corrispettivo, è la collaborazione, la
quale ne rappresenta dunque la causa del contratto stesso. Il contratto di lavoro subordinato
realizza, quindi, sia l’interesse del datore di lavoro alla collaborazione, sia l’interesse del lavoratore
alla retribuzione.
Requisiti della subordinazione: l’art 2104 cc fissa 2 requisiti tipici della prestazione e, quindi,
della subordinazione, al fine di valutare l’eventuale adempimento degli obblighi del prestatore di
lavoro derivanti dalla prestazione di lavoro subordinato:
1) Diligenza.
2) Obbedienza.

Diligenza del prestatore di lavoro: per la valutazione della diligenza dovuta dal prestatore,
bisogna dar conto a 3 criteri definiti dalla legge:
1) Natura della prestazione dovuta: la diligenza si differenzia in base al tipo di lavoro, e quindi
di mansioni, a cui il lavoratore è posto (diligenza professionale). Infatti, sarà richiesta una
diversa diligenza al lavoratore nell’esercizio di mansioni impiegatizie rispetto a quelle operaie;
e anzi, anche a parità di mansioni può essere richiesto un diverso comportamento del
prestatore (si pensi al muratore che lavori con materiali delicati piuttosto che con materiali
meno pregiati). Perciò, la diligenza non si differenzia solo in base alle mansioni.
2) Interesse superiore della produzione nazionale: questo parametro è stato di fatto
abrogato per il venir meno del regime corporativo/fascista, il quale prevedeva che il
prestatore di lavoro nel rendere la prestazione dovesse usare una diligenza anche in relazione
all'interesse della produzione nazionale.
3) Interesse dell’impresa: esso può essere visto in:
 Senso oggettivo: interesse dell’impresa in sé, come istituzione.
 Senso soggettivo: interesse concreto dell’imprenditore. In questo senso, la
diligenza richiesta al prestatore si dovrebbe conformare sostanzialmente all’interesse
dell’imprenditore, dando di fatto poca portata alla norma.
Tuttavia, essendo l’attività del lavoratore organizzata dal datore di lavoro, nell’ambito
della collaborazione che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato, la diligenza richiesta
al prestatore dovrà essere commisurata all’attività organizzatrice dell’imprenditore. Per
cui, l’interesse dell’impresa dev’essere inteso in senso soggettivo, ma non come generico
interesse del datore all’esatto adempimento dell’obbligazione da parte del lavoratore, ma
piuttosto come specifico interesse dell’imprenditore all’esercizio della propria attività di
organizzazione del lavoro alle proprie dipendenze.

OBBEDIENZA E POTERE DIRETTIVO


Obbedienza: essa si manifesta nell’osservanza delle disposizioni impartite dal datore di lavoro
per l’esecuzione e la disciplina del lavoro. In ciò consiste, in sostanza, il potere direttivo
dell’imprenditore. La legge, inoltre, allarga il dovere di obbedienza non al solo datore di lavoro,
ma anche ai collaboratori di quest’ultimo, dai quali il lavoratore gerarchicamente dipende. Dunque,
il potere direttivo è dell’imprenditore, il quale può tuttavia concederlo ai suoi collaboratori.

Esecuzione/disciplina del lavoro: le direttive e i comandi dell’imprenditore possono riguardare:


 Organizzazione del lavoro: quelli necessari al controllo dell’esecuzione della prestazione
del lavoro (intellettuale o manuale).
 Disciplina del lavoro: quelli necessari alla regolamentazione della convivenza di chiunque
faccia parte dell’impresa.
OBBLIGHI E DIVIETI DEL LAVORATORE
Obbligo di fedeltà: insieme all’obbligo di prestare la propria collaborazione nell’impresa sotto le
direttive del datore di lavoro, il lavoratore ha un ulteriore obbligo a tutela dell’interesse
dell’imprenditore alla competitività dell’impresa: l’obbligo di fedeltà→ “Il prestatore di lavoro non
deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie
attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare
ad essa pregiudizio”.
Questo è un obbligo “accessorio” a quello principale riguardante la prestazione di lavoro, e rientra
negli “obblighi di protezione” posti a tutela dell’imprenditore. L’obbligo di fedeltà consiste in 2
tipi di divieti da parte del prestatore:
 Divieto di concorrenza: il prestatore deve astenersi dal trattare affari (per conto proprio
o di terzi) in concorrenza con l’impresa dove egli lavora, e che potrebbero arrecarle un
danno (anche solo potenziale). Il divieto di concorrenza non va confuso con il divieto di
concorrenza sleale, le cui sanzioni si applicano solo nelle circostanze previste tassativamente
dalla legge (atti di confusione; denigrazione; vanteria; atti contro i princìpi della correttezza professionale).
Tale divieto vige solo in permanenza del contratto di lavoro, in quanto derivante appunto
da quest’ultimo; tuttavia, il cc ha previsto la possibilità che si possa stipulare un patto di
concorrenza tra datore e lavoratore anche per un periodo successivo alla cessazione del
rapporto di lavoro (3 anni in generale, 5 per i dirigenti), a condizione che tale patto:
 Risulti in forma scritta ad substantiam.
 Sia stabilito un corrispettivo.
 Sia delimitato in base al luogo e all’oggetto dell’impresa.
 Divieto di utilizzo e divulgazione: il prestatore non può divulgare o utilizzare i segreti
aziendali riguardanti organizzazione e metodi di produzione dell’impresa, che possano
pregiudicare la stessa. E anzi, a tutela dei segreti aziendali si possono applicare anche
sanzioni penali.

Invenzioni del lavoratore: non costituiscono concorrenza, invece, le invenzioni del lavoratore, il
quale viene riconosciuto autore dell’invenzione creata nello svolgimento del rapporto di lavoro. Vi
sono 3 tipi di invenzioni a cui corrispondono altrettanti diritti:
a) Invenzione di servizio: quando l’attività inventiva fa parte dell’oggetto del contratto di
lavoro. I diritti derivanti dall’invenzione ottenuta dal lavoratore durante lo svolgimento del
proprio contratto spettano al datore di lavoro, ma al lavoratore viene riconosciuto di
esserne autore.
b) Invenzione aziendale: quando l’attività inventiva non fa parte dell’oggetto del contratto
di lavoro, ma l’invenzione viene creata comunque nel corso dell’adempimento del
rapporto di lavoro, i diritti spettano al datore di lavoro; ma qualora il datore ottenga il
brevetto per tale invenzione, all’autore spetta un equo premio in base all’importanza della
stessa.
c) Invenzione occasionale: quando l’invenzione viene fatta indipendentemente dal rapporto
di lavoro, ma rientri nel campo di attività dell’impresa, i diritti da essa derivanti spettano al
prestatore, ma al datore viene concesso il diritto di opzione per l’uso o l’acquisto
dell’invenzione (da esercitarsi entro 3 mesi dal ricevimento della comunicazione o dal deposito della
domanda di brevetto).
POTERE DISCIPLINARE
L’inosservanza delle disposizioni impartite dall’imprenditore può essere sanzionata tramite
sanzioni disciplinari, ossia “pene private” che si misurano in proporzione alla gravità
dell’infrazione e in conformità delle norme sui contratti collettivi. Le pene previste dai contratti,
in base alle inadempienze (mancanze) elencate da questi, sono:
 Rimprovero verbale o scritto.
 Multa.
 Sospensione dal lavoro.
 Licenziamento (massima delle sanzioni disciplinari).
Come il potere direttivo, anche il potere disciplinare è espressione dell’autorità privata del datore
di lavoro, e di conseguenza un riflesso della subordinazione in relazione all’inadempimento del
prestatore. Infatti, l’esercizio del potere disciplinare rappresenta la reazione all’inadempimento
dell’obbligo di prestare l’attività lavorativa, sotto il profilo sia della diligenza, sia dell’obbedienza.
Inoltre, esso può essere correlato anche all’inadempimento dell’obbligo di fedeltà.

LIMITI AL POTERE DISCIPLINARE


La normativa del cc attinente al potere direttivo e disciplinare dell’imprenditore va, tuttavia,
integrata con le norme contenute nello Statuto dei lavoratori, le quali tutelano la libertà e la
dignità del lavoratore, ponendo dei limiti più o meno stringenti all’esercizio di entrambi i poteri
(soprattutto per quanto riguarda la vigilanza e i controlli sull’attività lavorativa).

Limiti procedurali: lo Statuto innanzitutto subordina l’utilizzo del potere disciplinare alla
pubblicazione del codice disciplinare, ossia un regolamento che dev’essere portato a conoscenza
di tutti i lavoratori mediante affissione in un luogo accessibile da tutti, e che deve indicare le
sanzioni, le infrazioni applicabili e le procedure di contestazione. Inoltre, nessun provvedimento
disciplinare può essere applicato al lavoratore se non sia stato preventivamente contestato
l’addebito e senza che quest’ultimo non sia stato sentito a sua difesa. Infatti, la procedura di
contestazione, la quale deve rispettare il principio di immediatezza, deve consentire al lavoratore
un’effettiva difesa, anche tramite rappresentanti sindacali.
Limiti sostanziali: lo Statuto ha previsto che le sanzioni disciplinari non comportino mutamenti
definitivi del rapporto di lavoro (ad eccezione del licenziamento); per cui sono esclusi la
retrocessione, il trasferimento ecc.
 Trasferimento disciplinare: per il trasferimento disciplinare (ossia come sanzione) vi
dev’essere una previsione tassativa nella contrattazione collettiva per poter essere
applicata. Senza questa previsione, il trasferimento può essere comunque applicato, ma con
funzione cautelare, ossia come strumento per rimuovere screzi e incompatibilità tra il
lavoratore e l’ambiente di lavoro e, di conseguenza, migliorare l’organizzazione lavorativa
dell’impresa.
 Sospensione disciplinare: per la sospensione disciplinare, invece, lo Statuto ha previsto un
massimo di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione di 10 gg.
 Multa: il limite massimo dell’importo della multa esigibile dal lavoratore è di 4 ore della
retribuzione-base.
Per tutte le sanzioni più gravi del rimprovero verbale, non possono essere applicate prima di 5 gg
dalla contestazione scritta del fatto che ne ha costituito la causa.

Contestazione: il lavoratore a cui viene comminata una sanzione può impugnarla entro i 20
seguenti (che si aggiungono ai 5 di dilazione dalla contestazione scritta) davanti ad un collegio di
conciliazione ed arbitrario (previsto o dai contratti collettivi o costituito espressamente presso la Direzione
territoriale del lavoro). La sanzione non ha efficacia se il datore non nomina un proprio
rappresentante nel collegio arbitrale entro 10 gg, a meno che la disputa non si trasferisca in sede
giudiziale.
Recidiva: altro limite sostanziale previsto dallo Statuto è quello della recidiva, per cui non si può
tener conto di una sanzione disciplinare decorsi 2 anni dalla sua applicazione.
LIMITI AL POTERE DI CONTROLLO
Lo Statuto dei lavoratori impone dei limiti anche ai controlli finalizzati alla salvaguardia del
patrimonio aziendale.
Guardie giurate: infatti, l’imprenditore può sì servirsi di guardie giurate per salvaguardare il
patrimonio aziendale, ma è esclusa loro la possibilità di contestare ai dipendenti le azioni/fatti
non inerenti al patrimonio stesso. La ratio di questa norma è da ravvisare nell’intenzione del
legislatore di non voler avvantaggiare l’imprenditore nella sua posizione di supremazia all’interno
dell’azienda, servendosi di una specie di polizia privata per gestirla. Per cui le guardie giurate non
possono per legge essere adibite a compiti di vigilanza sull’attività lavorativa. Inoltre, il soggetto
con qualifica di guardia giurata o addetto alla vigilanza deve essere preventivamente portato a
conoscenza dei lavoratori.
Visite personali di controllo: lo Statuto ha stabilito che le visite personali di controllo siano
consentite solo se indispensabili alla tutela del patrimonio aziendale, in relazione agli strumenti
di lavoro, materie prime, prodotti ecc. Le visite personali di controllo, in ogni caso, potranno
effettuarsi a patto che:
 Siano eseguite all’uscita dei luoghi di lavoro.
 Siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del lavoratore.
 I lavoratori sottoposti a controllo vengano scelti in maniera imparziale.

CONTROLLI SULL’ATTIVITÀ LAVORATIVA


In tema di vigilanza, nell’originaria formulazione dello Statuto del 1970, vi era una norma che
disponeva un generale divieto di utilizzare impianti audiovisivi e altre apparecchiature al fine di
controllare a distanza l’attività dei lavoratori. In questo caso si voleva tutelare la privacy del
lavoratore sul controllo invasivo da parte dell’imprenditore. Tuttavia, col passare del tempo e con
l’avanzare delle tecnologie informatiche e degli strumenti digitali, la giurisprudenza ha avuto molte
difficoltà interpretative per applicare la norma.
D.lgs. 151/2015 (Jobs Act- Renzi): con la riforma del Jobs Act, la normativa è cambiata totalmente;
infatti, ora gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di
controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per:
 Esigenze organizzative e produttive.
 Per la sicurezza del lavoro.
 Per la tutela del patrimonio aziendale.
Tali apparecchiature possono essere installate previo accordo collettivo stipulato dalla
rappresentanza sindacale o, in mancanza di accordo, previa autorizzazione della Direzione
territoriale del lavoro. I provvedimenti amministrativi di autorizzazione o diniego sono
definitivi.

La novità apportata dalla riforma riguarda però il fatto che non si rende necessario l’intervento della
contrattazione collettiva (sindacato) o eventualmente della Direzione territoriale del lavoro,
qualora il controllo venga svolto sulle apparecchiature con cui viene resa la prestazione
lavorativa (pc; tablet; smartphone...) e sugli strumenti di rilevazione di accessi e delle presenze (badge
aziendale per marcare inizio-fine turno, pause ecc.).

I dati raccolti da tali strumenti possono essere utilizzati a tutti i fini connessi al rapporto di
lavoro, a patto che sia data al lavoratore adeguata informazione circa le modalità d’uso degli
strumenti e di effettuazione dei controlli, sempre nel rispetto del diritto del lavoratore alla
riservatezza. Dunque, si possono raccogliere informazioni attraverso gli strumenti usati dai lavoratori,
e tutte queste informazioni possono essere utilizzate per tutti i fini, anche disciplinari.
Tuttavia, qualora l’imprenditore non osservi i limiti riguardanti l’informativa preliminare e il
codice della privacy, oltre a non poter utilizzare tutte le informazioni raccolte (e le prove
eventualmente individuate non rileveranno ai fini di un procedimento disciplinare), sarà passibile
anche di sanzioni penali.
ACCERTAMENTI SANITARI
L’art. 5 dello Statuto dei lavoratori disciplina gli accertamenti sanitari, ed al riguardo si pensa, in
primo luogo, a quelli diretti a controllare la giustificazione dell’assenza del lavoratore in caso di
infermità.
Assenza del lavoratore per malattia: la norma ha vietato la prassi di far controllare da un
medico di fiducia del datore di lavoro lo stato di malattia giustificativo dell’assenza dal lavoro
e di esporre il prestatore a sanzioni disciplinari nel caso in cui non fosse riconosciuto
temporaneamente inabile. Ed a tal fine la norma ha disposto che il controllo possa avvenire soltanto
attraverso un accertamento medico effettuato dai servizi ispettivi degli istituti previdenziali, su
richiesta del datore di lavoro.
In caso di malattia, il medico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) deve inviare all’istituto
previdenziale, telematicamente, un certificato di diagnosi indicando l’inizio e la presunta durata
della malattia (ai fini previdenziali di pagamento dell’indennità di malattia).

Obblighi del lavoratore: in passato il lavoratore doveva inviare una raccomandata con avviso di
ricevimento al datore l’attestazione della malattia nei 2 giorni successivi il controllo medico; ora,
invece, essendo l’istituto previdenziale a comunicare l’evento malattia al datore, ha il solo obbligo
di comunicare tempestivamente al datore la propria assenza dal posto di lavoro.

Controlli sullo stato di malattia: i controlli sullo stato di malattia dei lavoratori vengono
richiesti dal datore di lavoro, e devono effettuarsi il giorno stesso della richiesta ad opera di
medici convenzionati con l’istituto previdenziale, in fasce orarie prestabilite (fasce di reperibilità).
Qualora il lavoratore non sia nel proprio domicilio senza un giustificato motivo, decade dall’intero
trattamento economico per i primi 10 gg, e dalla metà per i giorni successivi al 10°.

Idoneità fisica del lavoratore: lo Statuto ha previsto anche di far controllare l’idoneità fisica dei
lavoratori da enti pubblici e istituti specializzati di diritto pubblico. Anche per questo tipo di
visite è posto il divieto del ricorso ai medici fiduciari dell’imprenditore.
La normativa inerente all’idoneità fisica va, poi, coordinata con la normativa sulla sicurezza sul
lavoro (d.lgs. 81/2008), la quale obbliga l’imprenditore a nominare un medico competente per la
sorveglianza sanitaria dei lavoratori con mansioni particolarmente rischiose. Il medico può essere
sia un dipendente di una struttura pubblica o privata convenzionata con l’imprenditore, sia un libero
professionista, sia anche un dipendente dell’imprenditore stesso. Tale medico sarà incaricato, inoltre,
di svolgere gli accertamenti preventivi e periodici al fine di valutare l’idoneità del lavoratore ad
una specifica mansione.
MANSIONI E QUALIFICHE

LE MANSIONI E LA QUALIFICA
La prestazione di lavoro consiste nello svolgere un’attività (facere) alle dipendenze
dell’imprenditore. In diritto del lavoro, questo facere prende il nome di mansioni, termine che
indica i vari compiti da svolgere nell’azienda e per cui il lavoratore viene assunto. Le mansioni, in
sostanza, sono l’insieme dei compiti e delle operazioni che il lavoratore individualmente può
essere chiamato a svolgere, e che il datore può pretendere da quest’ultimo; di conseguenza,
rappresentano il criterio di determinazione qualitativa della prestazione.
Le mansioni si identificano, dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, con la posizione di
lavoro e, dal punto di vista della struttura dell’obbligazione di lavoro, con l’oggetto della
prestazione di lavoro.
Qualifica: le mansioni possono altresì individuarsi non mediante l’attività complessiva da svolgersi,
bensì tramite una qualifica riferita al lavoratore (operatore di computer...) addetto a quella mansione. Per
cui mansioni e qualifica sono termini che indicano lo stesso oggetto, ossia la prestazione lavorativa
presente nel contratto di lavoro.

DIFFERENZIAZIONE RETRIBUTIVA IN RELAZIONE ALLE MANSIONI


La moderna organizzazione di lavoro ha visto sempre più l’accrescersi della divisione del lavoro tra
gli addetti alla produzione. Per cui le mansioni possono essere di vario tipo all’interno della stessa
impresa e riguardare qualsiasi compito, non esclusivamente di produzione o di manutenzione degli
impianti (programmazione; controllo; sorveglianza; coordinamento...).
Ovviamente, le diverse mansioni, oltre a diversificare i compiti e le prestazioni di lavoro di ciascun
prestatore, possono presentare un diverso grado di complessità o penosità, per cui si richiede al
lavoratore un certo livello di abilità, esperienza, conoscenze teoriche/pratiche e via dicendo.
Messe queste premesse, nasce l’esigenza di una differenziazione sia delle condizioni della
prestazione, sia della retribuzione del lavoro; differenziazione che nasce da una valutazione del
contenuto professionale delle mansioni. Tale valutazione non è di libero arbitrio, ma è dettata
dal mercato del lavoro, ed è determinata dalla contrattazione collettiva (non individuale), la quale
opera una tipizzazione delle mansioni e ne crea una classificazione su una scala (ventaglio) che
le pone in ordine di valore, raggruppandole in entità classificatorie (categorie contrattuali e/o
qualifiche) in base alla capacità professionale richiesta per lo svolgimento di tali mansioni.

INQUADRAMENTO DEL PRESTATORE DI LAVORO


Per legge, l’imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momento dell’assunzione,
la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione alle mansioni per cui è stato assunto.
Pertanto, l’assegnazione delle mansioni è il presupposto per l’inquadramento individuale del
prestatore di lavoro nel sistema di classificazione professionale. Tale sistema si articola in:
1) Qualifiche: indicate nei contratti collettivi. La qualifica è l’identificazione di un soggetto
in merito all’attività che svolge all’interno dell’organizzazione produttiva (tornitore; custode;
contabile; analista...). La qualifica può, peraltro, essere intesa come l’insieme di mansioni che
individuano una figura professionale (si pensi alla differenza tra operai qualificati e non qualificati, per
cui i primi hanno un bagaglio di conoscenze tecnico-pratiche che permettono di svolgere attività complesse, a
differenza dei secondi. Ciò non vuol dire, però, che quelli non qualificati siano privi della “qualifica”, nel senso che
non abbiano una funzione all’interno dell’impresa; sono anch’essi inquadrati nel sistema di classificazione con gli
altri lavoratori, ma ad un livello più basso).
2) Categorie: previste dal 2095 cc., in passato si usava distinguere tra:
 Categorie legali: c’è la ripartizione tra dirigenti, quadri, impiegati e operai.
 Categorie contrattuali: a fronte di queste categorie legali, in passato i contratti
collettivi dell’industria erano soliti separare una parte impiegati, una parte operai,
ai quali era previsto un trattamento normativo differenziato.

Con l’introduzione dell’inquadramento unico, la categoria non fa più riferimento alle


sottoarticolazioni delle categorie legali, bensì ai livelli di inquadramento.
CATEGORIE LEGALI
L’art. 2095 cc dispone che i prestatori di lavoro subordinato si distinguono in:
1) Dirigenti.
2) Quadri.
3) Impiegati.
4) Operai.
L’appartenenza a una di tali categorie può comportare un diverso tipo di trattamento legale,
previdenziale o retributivo (gli impiegati e i quadri hanno diritto all’intera retribuzione in caso di malattia; i dirigenti
possono essere assunti liberamente con contratto a termine di durata non superiore a 5 anni, ma non godono di tutela contro
i licenziamenti ecc.).
Contrattazione collettiva: la norma, inoltre, prevede la possibilità di far determinare dei requisiti
di appartenenza alle leggi speciali e alle norme corporative (oggi i contratti collettivi), per
facilitare la distinzione tra le varie categorie in relazione alla particolare struttura di ciascuna impresa.
La contrattazione collettiva, oltre a determinare i requisiti di appartenenza alle categorie legali
(stabilendo i trattamenti economici e normativi, col solo limite di non poter peggiorare i trattamenti legali), può anche
creare proprie categorie sia all’interno di quelle legali (funzionari all’interno della categoria impiegati), sia
mediante aggregazione o accorpamento di qualifiche appartenenti a diverse categorie legali.

OPERAI vs IMPIEGATI
In passato, la distinzione tra impiegati e operai si estrapolava da un regio decreto legge del 1924,
il quale dava la definizione di impiegato: “lavoratore che svolge al servizio dell’azienda (quindi con
vincolo di subordinazione) attività professionale con funzioni di collaborazione, ... eccettuata ogni
prestazione che sia semplicemente di manodopera”. In sostanza, la distinzione di fondo tra
impiegato e operaio è la mansione svolta, rispettivamente lavoro prevalentemente intellettuale
il primo, lavoro prevalentemente manuale il secondo.
Oggi, tuttavia, l’operaio può compiere il proprio lavoro in maniera più intellettuale di molti impiegati
di bassa qualificazione, o l’impiegato svolgere lavori meccanizzati e ripetitivi, per cui la distinzione
primordiale tra manualità e intellettualità non è attendibile.

La dottrina ha quindi affermato che la distinzione tra le 2 categorie sta nel fatto che l’operaio
collabora nell’impresa (poiché svolge l’attività produttiva), mentre l’impiegato collabora
all’impresa (poiché contribuisce all’organizzazione dell’attività produttiva).
Inquadramento unico: Nel corso del tempo, però, la distinzione tra categoria impiegatizia e
operaia non è stata più quella del passato, per cui gli operai erano persone analfabete e manuali,
mentre l’impiegato era istruito e sapeva sia leggere che scrivere; si è perciò avvertita l’esigenza,
intorno gli anni ’70, di superare questa distinzione ormai obsoleta sul piano sociale e produttivo,
attraverso l’instaurazione di un nuovo sistema di classificazione professionale, ovvero
l’inquadramento unico.

INQUADRAMENTO CONTRATTUALE UNICO


Attualmente i contratti collettivi non si basano più sull’articolazione di categorie contrattuali basate
sulle categorie legali degli operai e degli impiegati, ma si fonda su una classificazione unica,
generalmente divisa in 7-8 categorie a cui corrispondono altrettanti livelli retributivi.
L’appartenenza del lavoratore ad uno di questi livelli è determinata sulla base di:
 Declaratorie: definizioni generali delle caratteristiche dell’attività lavorativa prestata.
 Esemplificazioni: elencazione dei diversi profili professionali specifici (quindi mansioni o
professionalità) comprese in ciascuna categoria.
L’inquadramento unico, perciò, non ha solamente abolito la distinzione tra operai e impiegati
nella contrattazione collettiva, ma ha anche portato alla creazione di nuove scale di categorie
contrattuali in cui sia impiegati che operai possono trovarsi allo stesso livello (ad esempio nel 5° livello
di metalmeccanici troviamo sia mansioni operaie, sia impiegatizie). I livelli, infatti, sono definiti in rapporto alla
valutazione della professionalità del prestatore, ossia la sua generica capacità professionale, e
raggruppano una serie di specifici profili professionali individuati sulla base delle caratteristiche
della prestazione (abilità, conoscenza, esperienza), e non più in base alla descrizione delle mansioni.
In alcuni contratti nazionali di categoria, l’inquadramento unico per aree professionali (o
categorie) prevede, all’interno di ogni livello, un trattamento retributivo differenziato, il quale è
composto da:
 Minimo contrattuale di area.
 Indennità di posizione organizzativa.

DIRIGENTI
Inizialmente, i dirigenti vennero considerati impiegati con funzioni direttive. Successivamente, ai
dirigenti sono stati aggiunti un tipo di inquadramento e di organizzazione sindacale separati.
Attualmente, il sindacato dei dirigenti resta ancora separato da quello delle altre categorie, e la
contrattazione collettiva, anch’essa separata, definisce i dirigenti come “lavoratori che ricoprono
nell’azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere
decisionale, ed esplicano le loro funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione
degli obiettivi dell’impresa”. L’appartenenza alla categoria dei dirigenti fa scaturire l’applicazione
dei trattamenti economici e normativa di fonte collettiva, nonché in passato l’applicazione di un
regime previdenziale particolare (l’Istituto nazionale di previdenza per i dirigenti di aziende industriali (INPDAI) è
stato soppresso e tutte le strutture/funzioni sono state trasferite all’INPS).

Nel concreto, tuttavia, la distinzione tra impiegati con funzioni direttive e quadri intermedi o
dirigenti non è così immediata. Perciò, i contratti collettivi hanno subordinato l’attribuzione della
qualifica dirigenziale alla nomina da parte dell’imprenditore.
Tuttavia, la giurisprudenza non attribuisce efficacia vincolante a tale nomina, dando rilievo
piuttosto all’effettivo svolgimento delle mansioni dirigenziali. Per la giurisprudenza è dirigente
colui che è preposto direttamente dall’imprenditore ad un ramo autonomo dell’azienda; facendo
così intendere che peculiarità del rapporto di dirigenza sia il contatto diretto e immediato (quindi
il vincolo fiduciario) con l’imprenditore.

QUADRI INTERMEDI
L’art 2095 cc così com’è oggi è frutto di una novella di una legge del 1985 sul riconoscimento
giuridico dei quadri intermedi; infatti, fino ad allora, la norma distingueva i lavoratori solo in
dirigenti amministrativi e tecnici, impiegati e operai. Tuttavia, con l’affermarsi dell’inquadramento
unico, erano sorte nelle aziende nuove figure impiegatizie dotate di elevata professionalità,
soprattutto in ambito tecnologico, ma penalizzate dagli effetti ugualitari prodotti dall’unificazione
del trattamento operai-impiegati. A fronte di ciò, nacquero delle associazioni di lavoratori che
protestavano e che spinsero all’emanazione della l. 190/1985.
Tale legge estende ai quadri le norme applicabili agli impiegati, escludendo di fatto la loro
confondibilità nella categorie dirigenziale, ma con la particolarità che il datore di lavoro ha l’obbligo
di assicurare i quadri contro il rischio di responsabilità verso terzi.

Quadri intermedi= lavoratori che svolgono funzioni a carattere continuativo di rilevante


importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa.
A tale definizione, la legge poi rinvia alla contrattazione collettiva nazionale o aziendale per la
determinazione dei requisiti di appartenenza alla nuova categoria, in relazione a ciascun ramo
di produzione e alla particolare struttura organizzativa dell’impresa.

MUTAMENTO DI MANSIONI
Il datore assume il lavoratore affinché esso svolga determinate mansioni di assunzione, che
identificano la professionalità dello stesso. Peraltro, nello svolgimento del rapporto di lavoro il
contenuto professionale delle mansioni può avere un andamento dinamico, cioè modificarsi nel
corso del tempo.
Art 2103 cc vecchio (ius variandi): si è sempre ritenuto che la prestazione lavorativa potesse
essere modificata unilateralmente per volontà del datore di lavoro, in quanto dotato del potere
direttivo dell’attività del prestatore, al contrario della generalità dei contratti dove le modifiche del
rapporto possono intervenire soltanto per mutuo consenso delle parti contraenti. Questo potere
di modificare unilateralmente la prestazione di lavoro (ius variandi) era riconosciuto
espressamente dall’art. 2103 del cc, il quale disponeva che il prestatore veniva adibito alle mansioni
per cui era stato assunto dal datore, ma che quest’ultimo poteva unilateralmente adibire il
lavoratore ad una mansione diversa per esigenze dell’impresa, purché senza mutamento
sostanziale della sua posizione e della paga; e addirittura non si escludeva la modifica delle
mansioni in peggio, sia per quanto riguarda la posizione che la retribuzione.

Statuto dei lavoratori 1970: l’art 2103 è stato novellato dallo Statuto dei lavoratori nel 1970, il
quale introdusse una disciplina abbastanza restrittiva della mobilità del lavoratore all’interno
dell’azienda. Infatti, la norma statutaria riconosceva la possibilità di modifica di mansione (sia
temporanea che definitiva) da parte del datore di lavoro, ma tale mobilità poteva essere solo
orizzontale (mansioni equivalenti) o verticale (mansioni superiori); mentre rimaneva esclusa la
possibilità di mobilità verso il basso per il lavoratore, salvo che per alcune ipotesi tassative:
a) Esigenze straordinarie sopravvenute.
b) Maternità: in caso di maternità, le lavoratrici madri potevano essere adibite ad una
mansione che non pregiudicasse la loro salute, anche inferiore a quella di appartenenza
(ma con diritto alla conservazione della retribuzione di provenienza).
c) Sopravvenuta inabilità per infortunio/malattia: anche in questo caso i lavoratori
conservavano il diritto alla retribuzione di appartenenza.
d) Accordo sindacale collettivo: era consentita l’adibizione a mansioni inferiori qualora,
nell’ambito di procedura di licenziamento per riduzione del personale, si fosse raggiunto
un accordo sindacale collettivo che prevedesse il riassorbimento totale/parziale dei
lavoratori in esubero.
e) Crisi aziendali/occupazionali: in caso di grave crisi aziendale o occupazionale, c’era la
possibilità, per tutti i lavoratori interessati, di essere adibiti a mansioni inferiori.
Inoltre, l’art. 2103 disponeva, nella versione del ’70, la nullità di ogni patto contrario alla norma,
escludendo quindi la validità di tutti i patti, anche collettivi, volti ad ampliare l’area di mobilità
del lavoratore nell’azienda. Per cui la nullità sanciva l’inefficacia di qualsiasi modificazione in
peius delle mansioni (anche se la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il demansionamento, ma solo nel caso in
cui fosse l’unica alternativa al licenziamento per motivo oggettivo).

D.lgs. 81/2015 (Jobs Act): l’art 2103 cc è stato novellato ulteriormente con il Jobs Act, prevedendo
una liberalizzazione (e quindi espansione) del potere del datore di lavoro di modificare
unilateralmente l’assegnazione delle mansioni. Il nuovo art. 2103 cc dispone che “Il lavoratore
deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti
all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, o ancora a mansioni
riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente
svolte”.
Dunque, si abbandona il criterio-limite dell’equivalenza delle mansioni in base alla
professionalità del lavoratore, il quale viene sostituito dal criterio dell’unicità-identità (o criterio
di equivalenza) di classificazione professionale della prestazione (o delle mansioni).
 Mobilità orizzontale: ciò consente la mobilità del prestatore di lavoro, per volontà
unilaterale (o anche delle parti) del datore, su tutte le mansioni classificate allo stesso
livello contrattuale e nella stessa categoria legale di inquadramento delle ultime mansioni
effettivamente svolte. In questo modo, perciò, si ha una notevole espansione delle mansioni
che il lavoratore può svolgere e, di conseguenza, un espansione dello ius variandi
dell’imprenditore in senso orizzontale.
 Mobilità verticale verso l’alto: non cambia molto dalla 1° novella introdotta con lo Statuto
dei lavoratori. Il lavoratore può essere assegnato, in via unilaterale dal datore, a mansioni
corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia acquisito successivamente, e avrà
diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta. Inoltre, l’assegnazione a
mansioni superiori diventa definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, qualora non si
sia provveduto a sostituire il lavoratore in servizio con qualcun altro entro il periodo
fissato nei contratti collettivi o, in mancanza, dopo 6 mesi.
 Mobilità verso il basso: mentre nella 1° novella del ’70 tale possibilità era totalmente esclusa
se non per alcuni limiti tassativi, il nuovo 2103 cc ammette, invece, la possibilità di
demansionamento del lavoratore. La nuova norma distingue tra:
 Mutamento unilaterale: il lavoratore può essere demansionato solo su mansioni
classificate nel livello immediatamente inferiore di classificazione prevista dal
contratto collettivo, ma sempre all’interno della stessa categoria legale. In più, il
mutamento unilaterale dev’essere giustificato da una modificazione
dell’organizzazione produttiva tale da ricadere sulla posizione lavorativa del
prestatore. Tale giustificazione è ovviamente a carico del datore di lavoro.
Vi è anche il caso in cui i contratti collettivi ammettano la possibilità di mutamento
in peius della posizione dei lavoratori senza giustificazione causale.
La modificazione delle mansioni verso il basso dev’essere comunicata per iscritto
ad substantiam (e motivata con la giustificazione causale); inoltre il lavoratore ha
diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento
retributivo in godimento, salvo alcune eccezioni.
Infine, il mutamento di mansione comporta un obbligo formativo a carico
dell’azienda, il cui inadempimento, tuttavia, non comporta la nullità dell’atto
unilaterale del datore, ma il solo risarcimento dei danni nei confronti del lavoratore.
 Mutamento consensuale: il nuovo art. 2103 prevede che possano essere stipulati
accordi individuali di modifica verso il basso delle mansioni, della categoria
legale, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del
lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa
professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore, avanti alle
commissioni di certificazione, può farsi assistere da un rappresentante sindacale, un
avvocato o un consulente del lavoro. Inoltre, l’efficacia di tali accordi è subordinata
all’accertamento dell’esistenza reale di un interesse del lavoratore al passaggio ad
una mansione e all’inquadramento inferiori (spesso in alternativa al licenziamento).

Nullità di ogni patto contrario: il nuovo art. 2103 cc riafferma la previgente disposizione che
prevedeva la nullità di ogni patto contrario ma, a differenza del passato in cui diveniva inefficace
ogni mutamento di mansione in peius, viene sanzionata solo l’adibizione del lavoratore a mansioni
inferiori disposta in violazione dei limiti posti all’esercizio dello ius variandi (mutamento della categoria
legale; omissione della motivazione ecc.), o quando vi sia un accordo individuale tra le parti in sede non
assistita (in forma tacita).
Nelle ipotesi di illegittima adibizione a mansioni inferiori (dequalificazione), il lavoratore ha
diritto a:
 Tutela ripristinatoria: restituzione delle mansioni e dell’inquadramento
precedentemente acquisito.
 Tutela risarcitoria: risarcimento del danno patrimoniale (mancato sviluppo di carriera; perdita di
occasioni di lavoro...) e non patrimoniale (professionale, biologico o esistenziale) conseguente al
pregiudizio arrecato alla capacità professionale, all’integrità fisica e/o alla vita di relazione.
Tuttavia, il lavoratore deve allegare le prove della sussistenza del pregiudizio subìto e il
nesso causale con l’inadempimento del datore di lavoro (per cui il danno professionale non è una
conseguenza automatica della dequalificazione).
TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE
La determinazione del luogo in cui il lavoratore deve svolgere la propria attività, di solito, appartiene
al potere direttivo del datore di lavoro.
Il trasferimento del lavoratore da un’unità produttiva ad un’altra può essere disposto
dall’imprenditore soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive
dell’azienda. Per cui la legge intende, da un lato, riconoscere un certo potere direttivo
all’imprenditore; dall’altro, limitare la possibilità di modifica definitiva del luogo di lavoro, a parità di
mansioni del lavoratore (in ciò si riscontra la differenza tra trasferimento e trasferta).
Motivazione: per quanto riguarda le motivazioni, il datore non è tenuto a comunicarle al
lavoratore al momento del trasferimento; tuttavia, ha l’onere di provarle qualora quest’ultimo lo
citi in giudizio.
Nullità: nell’ipotesi in cui non sussistano tali presupposti legali, il trasferimento è considerato
illegittimo, e il lavoratore può accertarne in giudizio la nullità e rifiutarsi di adempiere al
provvedimento del datore.
Discriminazione: è vietato in ogni caso il trasferimento dettato da motivi di discriminazione
sindacale, politica, religiosa, razziale, di lingua, di sesso, di handicap, di età, di orientamento
sessuale o di convinzioni personali; inoltre, non può esser trasferito il lavoratore che accudisca
un parente o affine entro il 3°grado handicappato.
TUTELA DEL LAVORATORE NELL’ORGANIZZAZIONE DI LAVORO

INSERIMENTO DEL LAVORATORE AMBIENTE DI LAVORO: ASSICURAZIONE (infortunio/malattia


professionale)
Alla base dell’intervento della contrattazione collettiva e della legge c’è sempre stata l’esigenza di
tutelare al meglio la persona del lavoratore. Ciò è avvenuto disciplinando soprattutto le condizioni
ambientali (igiene; sicurezza) e la durata della prestazione lavorativa (orario di lavoro), attraverso la
progressiva limitazione della discrezionalità del datore di lavoro.

Ambiente di lavoro= insieme di fattori dell’organizzazione produttiva di un’impresa, quali fattori


naturali e artificiali, ritmi e tempi di lavoro, locali dell’impresa, macchinari adibiti alla produzione,
materie di lavorazione.

Tutela dell’integrità fisica del lavoratore: fin dagli inizi del nostro OG, vi è stato sempre l’obiettivo
della tutela dell’integrità fisica del lavoratore (si pensi al r.d.1899 sulla prevenzione degli infortuni).
Attraverso perfezionamenti e modifiche nel corso degli anni, si è venuto a creare un organico sistema
di assicurazioni sociali contro gli infortuni sul lavoro e malattie professionali, in virtù del quale
tutti i lavoratori prestati a lavorazioni potenzialmente pericolose o nocive hanno il diritto ad
essere assicurati contro gli eventi dannosi lesivi dell’attitudine psico-fisica al lavoro che
potrebbero capitare al lavoratore (occasione di lavoro), indipendentemente dalla colpa
dell’imprenditore o del lavoratore stesso, e cioè per caso fortuito.
Principio rischio professionale: tale istituto è retto dal principio di rischio professionale, il quale
si sostituisce a quello generale della colpa come fondamento della responsabilità civile
dell’imprenditore. Grazie a tale principio si comprende come per queste assicurazioni sociali sia
previsto l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile derivante dal verificarsi degli
eventi dannosi assicurati in capo al lavoratore (infortunio o malattia professionale). Infatti, in
questi casi è proprio l’ente assicuratore ad essere obbligato a risarcire il lavoratore (mediante
indennità per i periodi di assenza da lavoro per infortunio o malattia; pagamento di una rendita nel caso in cui l’evento lesivo
comporti un’inabilità permanente di lavoro).

PREVENZIONE DEL RISCHIO


Le norme più significative riguardo la prevenzione dei rischi sul lavoro sono quelle attinenti
all’organizzazione e l’ambiente di lavoro:
1) Art. 2087 cc: “L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che,
secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare
l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Dalla norma, quindi,
desumiamo che l’imprenditore ha, nei confronti del lavoratore, un obbligo di protezione
che impone di adottare tutte le misure atte a salvaguardare la salute di chi presta la propria
attività lavorativa alle sue dipendenze, soprattutto attraverso una generale attività di
prevenzione dei rischi derivanti dall’ambiente di lavoro.
Sul piano sistematico, è stato rilevato il collegamento di tale norma con le norme
costituzionali poste a difesa del diritto alla salute (32 Cost.) e del rispetto della sicurezza e
della libertà e dignità umana nell’esplicazione dell’iniziativa economica (41 Cost.).
Tuttavia, nella pratica, l’art. 2087 cc ha avuto scarso impiego nella sua tipica funzione di
prevenzione, ed è stato, invece, invocato spesso ex post, in funzione risarcitoria di eventi
dannosi già verificatisi. Probabilmente, lo scarso uso di tale norma in via preventiva è dovuta
al fatto che questa attribuisce una posizione soggettiva individuale al lavoratore, a fronte di
un fenomeno (le condizioni di lavoro) che si sviluppa prevalentemente in una collettività.

Danno biologico: all’interno del contratto lavorativo, tra i vari danni a cui si riconosce un
risarcimento in violazione del 2087 cc. rientra anche il danno biologico. Il danno biologico
è un danno non patrimoniale, consistente nella menomazione dell’integrità psico-fisica
della persona (che rientra quindi ad una lesione della salute, protetta costituzionalmente). La sua tutela va
oltre alla sola capacità di lavorare, e si riferisce anche all’esplicazione intellettuale e alle
relazioni sociali dell’individuo.
In passato, l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni derivanti
da infortunio/malattia professionale, essendo posto a tutela del rischio di riduzione della
capacità lavorativa, operava solo se quest’ultima veniva meno, e non anche in relazione al
danno biologico eventualmente conseguente a tale infortunio/malattia.
In seguito, il legislatore è tornato sul punto, estendendo tutela assicurativa anche al danno
biologico e, di conseguenza, si è esteso anche l’esonero del datore di lavoro dalla
responsabilità civile per i casi di danno biologico derivanti da infortunio e malattia
professionale. La responsabilità civile, invece, rimane a carico del datore al di fuori dell’area
coperta dall’assicurazione obbligatoria.

Mobbing: il datore di lavoro è responsabile sia delle singole condotte lesive


dell’integrità fisica e personalità morale del lavoratore, sia delle condotte persecutorie
reiterate e protratte nel tempo, finalizzate alla mortificazione o emarginazione della
vittima. La fattispecie del mobbing, se da una parte tutela maggiormente i lavoratori in caso
di condotte persecutorie, dall’altro comporta un aggravio degli oneri probatori rispetto ai
casi di violazione dell’obbligo di sicurezza. Infatti, la vittima di mobbing, per ottenere il
risarcimento del danno, deve dimostrare oltre che la sussistenza dei molteplici fatti lesivi,
continuativi o reiterati, tra loro connessi da un comune carattere vessatorio, anche
l’intento persecutorio dei colpevoli.
2) Art. 9 Statuto Lavoratori: lo Statuto ha attribuito ai lavoratori il diritto di esercitare, a
mezzo di rappresentanze, il controllo sull’applicazione delle norme sulla prevenzione
degli infortuni e delle malattie professionali all’interno dell’azienda, e di promuovere la
ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e
integrità fisica. La disposizione statutaria, in realtà, non si distingue molto dal principio
dell’art. 2087 a difesa della salute del lavoratore; la vera differenza sta nel fatto che:
 L’esercizio della posizione soggettiva attiva del lavoratore, a tutela della salute,
deve essere collettivo (a mezzo di rappresentanze).
 Il contenuto del diritto è anch’esso innovativo, poiché i lavoratori possono sia
controllare le condizioni di lavoro esistenti, sia promuovere nuove misure
migliorative.
3) D.lgs. 81/2008: da una delega del Governo nacque il d.lgs. 81/2008 (e il suo correttivo
l’anno dopo) che ha emendato tutta la legislazione previgente in materia di sicurezza sul
lavoro, le cui disposizioni valgono sia per i lavoratori subordinati, che per quelli autonomi.
Gli interventi normativi hanno riguardato soprattutto:
 Valutazione ed eliminazione (o comunque riduzione al minimo) dei rischi e,
contemporaneamente, programmazione della prevenzione.
 Imposizione di utilizzo ridotto di agenti chimici, fisici e biologici.
 Obbligo di informazione e formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti.
 Rafforzamento del diritto all’informazione: è obbligatorio eleggere in tutte le
aziende 1 o più rappresentanti per la sicurezza. Essi hanno diritto alle informazioni
riguardanti l’ambiente di lavoro e vanno consultati preventivamente e
tempestivamente in merito alla valutazione dei rischi e a tutte le misure necessarie
alla prevenzione nell’azienda.
 Obbligo di istituzione di un servizio di prevenzione e protezione dei rischi a
carico del datore di lavoro: tale servizio può essere sia interno che esterno
(obbligatoriamente interno per grandi aziende o attività rischiose), ma dev’essere composto da
esperti con livelli minimi di professionalità.
 Obbligo di sorveglianza sanitaria del medico competente per i lavoratori esposti
ad agenti chimici, che rendano la loro attività particolarmente rischiosa: l’attività
del medico competente comprende sia le visite mediche precedenti l’assunzione,
sia quelle di controllo per l’idoneità del lavoratore ad una mansione specifica.
 Obbligo per il datore di effettuare una valutazione dei rischi per la sicurezza e la
salute dei lavoratori: il datore deve valutare la sicurezza e la salute dei lavoratori
in relazione a:
 Attività svolta dall’azienda o unità produttiva.
 Attrezzature di lavoro, sostanze o miscele chimiche impiegate.
 Sistemazione dei luoghi di lavoro.

Princìpi della riforma: le linee guida della riforma sono costituite da 2 princìpi:
1. Principio dell’universalità: l’obiettivo della nuova normativa è quello di estendere
le disposizioni pressoché a tutte le tipologie di lavoro. Sicuramente, l’estensione
più importante riguarda i lavoratori autonomi, i quali sono stati inclusi in alcune
disposizioni della nuova riforma (osservanza delle disposizioni attinenti all’uso delle attrezzature di
lavoro e dei dispositivi di protezione personale; nei contratti d’appalto, il committente deve redigere un
documento unico di valutazione dei rischi, che indichi le misure da tenere per ridurre al minimo i rischi di
infortuni/malattie professionali),
ma la normativa include anche i componenti dell’impresa
familiare, i coltivatori diretti del fondo, i soci di società semplici del settore
agricolo, gli artigiani e i piccoli commercianti.
2. Principio dell’effettività: la novità più rilevante riguarda la delega di funzioni.
Infatti, l’imprenditore può delegare ai dirigenti o ai preposti i propri compiti in
materia di sicurezza (salvo disposizione contraria), a patto però che siano rispettate le
seguenti condizioni:
 Forma scritta ad substantiam.
 Idoneità del delegato a svolgere tali compiti.
 Attribuzione al delegato dei poteri organizzativi, gestionali, di controllo e
di spesa.
 La nomina dev’essere resa pubblica.
DURATA DELLA PRESTAZIONE

ORARIO DI LAVORO E DETERMINAZIONE DELLA PRESTAZIONE


Per quanto riguarda la disciplina limitativa della durata massima della prestazione di lavoro
(orario di lavoro, riposi, ferie annuali), nel contratto di lavoro subordinato la dimensione temporale ha 2
funzioni:
1) Criterio di determinazione quantitativa della prestazione lavorativa e retributiva: in
quest’ottica, l’orario di lavoro stabilisce la quantità della prestazione lavorativa
normalmente richiesta e utilizzata dal datore di lavoro in relazione del programma
contrattuale (orario normale contrattuale di lavoro); ma stabilisce anche la
determinazione della retribuzione comunque garantita al lavoratore in base alle sue ore
offerte (retribuzione normale minima).
2) Limite massimo di esigibilità della prestazione di lavoro: il datore di lavoro non può
pretendere dal lavoratore un numero di ore di lavoro superiore a quello stabilito nel
contratto (salvo ovviamente l’ipotesi dello straordinario).
L’art. 36 Cost. stabilisce che la durata massima della giornata lavorativa viene stabilita
direttamente dalla legge e che, inoltre, il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e alle ferie
annuali retribuite, e non può rinunziarvi.

DISCIPLINA LEGALE DELL’ORARIO DI LAVORO


Prima della riforma del 2003, la disciplina dell’orario di lavoro era contenuta solo in alcune norme
codicistiche (2107-08-09 cc) inerenti a orario di lavoro normale, straordinario e notturno e al
periodo di riposo (settimanale e feriale).

D.lgs. 66/2003: questo decreto, modificato più volte nel corso degli anni (per ultimo dal d.l. 112/2008),
ha stabilito una completa e organica normativa sia dell’orario di lavoro, sia degli istituti del
“tempo di non lavoro” (pause, riposo giornaliero e settimanale, ferie), disponendo dalla sua entrata in vigore
l’abrogazione di tutte le disposizioni legislative e regolamentari in materia, salvo quelle
espressamente richiamate.
Il decreto, che si applica a tutti i settori di attività pubblici e privati, definisce l’orario di lavoro=
qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia a lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio
della sua attività o delle sue funzioni. Si usa distinguere tra:
 Orario normale di lavoro: è fissato in 40 ore settimanali. Tuttavia, i contratti collettivi
ammettono la possibilità di utilizzare anche l’orario multiperiodale, il quale considera
l’orario lavorativo come valore medio in un arco temporale non superiore all’anno, e la
cui appetibilità per i datori di lavoro sta nel fatto che, nei periodi di maggiore attività, questi
possono superare il limite delle 40 ore settimanali, senza ricadere nella disciplina del lavoro
straordinario; ma, ovviamente, per rispettare il valore medio delle 40 ore settimanali,
dovranno ridurre le ore settimanali nei periodi di minore attività.
 Orario straordinario di lavoro: sono le ore di lavoro eccedenti l’orario normale. Il decreto
rimette ai contratti collettivi la regolamentazione di eventuali modalità di esecuzione. In
mancanza di disciplina collettiva, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso solo previo
accordi tra datore di lavoro e lavoratore, per un periodo non superiore a 250 ore annuali.
Le ore di straordinario devono essere conteggiate a parte, e ai contratti collettivi è
rimesso il compito di stabilire la maggiorazione retributiva dovuta al lavoratore, e di
consentire ai lavoratori dei riposi compensativi in aggiunta o in alternativa ad essa. In
mancanza di contrattazione collettiva, la retribuzione dello straordinario è comunque
garantita dal principio di proporzionalità dell’art. 36 Cost. (il lavoratore ha diritto a una
retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro).

Limite settimanale onnicomprensivo: la riforma del 2003 non fissa un limite giornaliero all’orario
normale di lavoro o onnicomprensivo (di orario normale e straordinario), ma fissa un limite
settimanale onnicomprensivo di 48 ore ogni 7 giorni, da intendersi come valore medio calcolato
su una arco temporale di 4 mesi. Anche in questo caso i contratti collettivi possono modificare la
norma, poiché sono autorizzati ad innalzare l’arco temporale fino a 6 mesi, o addirittura a 12 a fronte
di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro. Al contrario, gli stessi contratti
collettivi possono stabilire la durata massima settimanale dell’orario di lavoro come limite
invalicabile (pertanto, sia nei casi in cui il datore ricorra al multiperiodale e/o al lavoro straordinario, nell’arco di un certo
periodo di tempo vi potranno essere settimane con orari di lavoro molto differenziati, a patto che si rispettino i limiti di 40 ore
settimanali di orario normale e di 48 ore complessive quali valori medi settimanali nei rispettivi periodi di riferimento (4 mesi
o più), nonché il limite di durata massima settimanale eventualmente fissato dalla contrattazione collettiva).

ATTIVITÀ ESCLUSE DALLA DISCIPLINA DELL’ORARIO DI LAVORO


ATTIVITÀ ESCLUSE SOLO DAL LIMITE DELLE 40 ORE ATTIVITÀ ESCLUSE DA ENTRAMBI I LIMITI (ATTIVITÀ LA
SETTIMANALI (NON ANCHE 48 ORE OGNI 7 GG) CUI PRESTAZIONE NON È MISURATA O PUÒ ESSERE
DETERMINATA DAI LAVORATORI STESSI)

Lavoratori addetti a lavoro discontinuo o di Dirigenti


semplice attesa o custodia
Personale viaggiante dei servizi pubblici di Personale direttivo delle aziende o altri soggetti
trasporto via terra aventi potere decisionale autonomo
Giornalisti
Personale dell’informazione radiotelevisiva
Addetti alle: poste; autostrade; trasporti;
telecomunicazioni; fornitura elettrica, di gas,
calore, acqua ecc.

Riposo giornaliero: il riposo giornaliero consecutivo di 11 ore ogni 24, dopo le modifiche del
d.l. del 2008, ora può essere concesso anche non consecutivamente non solo per le attività
caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata, ma anche per le attività
caratterizzate da “regimi di reperibilità” (ad eccezione del personale sanitario del SSN e dei dirigenti degli Enti
e Aziende del SSN).
Altra modifica del d.l. 112/2008 è stata il rinvio ai contratti collettivi per l’eventuale deroga alle
disposizioni relative a riposo giornaliero, pause e lavoro notturno. Le deroghe ora possono
essere stabilite anche dai contratti collettivi territoriali o aziendali (non più solo dai contratti collettivi
nazionali).

LAVORO NOTTURO
Sul tema della disciplina del lavoro notturno, innanzitutto il d.lgs. 66/2003 dà le definizioni di:
 Periodo notturno= periodo di almeno 7 ore consecutive comprendenti l’intervallo tra
00:00-05:00.
 Lavoratore notturno= 2 definizioni:
1. Qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga almeno 3 ore del suo
tempo di lavoro giornaliero impiegato in maniera normale.
2. Qualsiasi lavoratore che svolga, durante il periodo notturno, almeno una parte del
suo orario di lavoro secondo le norme della contrattazione collettiva. In mancanza
di questa, è considerato lavoratore notturno qualsiasi individuo che svolga, per
almeno 3 ore, lavoro notturno per un minimo di 80 gg lavorativi all’anno.
Il decreto prevede che l’orario dei lavoratori notturni non possa superare le 8 ore di media nelle
24 ore (salvo che i contratti collettivi anche aziendali non individuino un arco temporale più ampio sui calcolare tale limite).
Sempre ai contratti collettivi è stata poi affidata:
 Eventuale riduzione dell’orario di lavoro notturno.
 Individuazione dei trattamenti retributivi spettanti ai lavoratori notturni.
 Fissazione dei requisiti per l’esclusione dall’obbligo di effettuare lavoro notturno
(l’inidoneità al lavoro notturno, invece, viene accertata dalle strutture sanitarie pubbliche competenti).
Divieto lavoro notturno: per i lavoratori notturni sono stati previsti particolari controlli e
garanzie per la loro sicurezza e, qualora il medico o la struttura sanitaria competente accertino
condizioni di salute che comportino l’inidoneità del lavoratore alla prestazione di lavoro
notturno, il lavoratore dev’essere assegnato al lavoro diurno in altre mansioni equivalenti (se
esistono e sono disponibili).
Un’ipotesi generale di divieto di lavoro notturno è la gravidanza e al puerperio (periodo post-nascita)
fino al compimento di 1 anno di età del bambino.

Il lavoro notturno è invece facoltativo per:


a) Lavoratrice madre di un figlio< 3 anni o, in alternativa, per il lavoratore padre convivente
con la stessa.
b) Lavoratore/lavoratrice che sia unico genitore affidatario di un figlio convivente< 12
anni.
c) Lavoratrice madre adottiva o affidataria di un minore nei primi 3 anni dall’ingresso del
bambino in famiglia, e comunque non oltre 12 anni o, in alternativa e alle stesse
condizioni, il lavoratore padre adottivo o affidatario convivente con la stessa.
d) Lavoratore/lavoratrice che assistano un disabile.

TEMPO DI NON LAVORO


Il decreto del 2003 indica poi una serie di disposizioni riguardanti:
 Pause: intervalli durante i quali è vietata l’esecuzione della prestazione lavorativa, e che
servono a far recuperare l’integrità psico-fisica del lavoratore e, eventualmente, a
consentirgli la consumazione del pasto.
L’art. 8 prevede che ove il lavoro giornaliero ecceda il limite delle 6 ore, il lavoratore debba
beneficiare di una pausa, le cui modalità e durata sono fissate da contrati collettivi. In
mancanza di queste, la pausa non potrà essere di durata inferiore a 10 minuti, e dovrà
essere goduta sul posto di lavoro e collocata tra l’inizio e la fine di ogni periodo
giornaliero di lavoro.
 Riposi giornalieri: Ogni 24 ore il lavoratore ha diritto a 11 ore di riposo giornaliero
consecutivo, salvo che non ci siano esigenze aziendali che determinino il frazionamento del
riposo durante la giornata. Questa norma, pertanto, consente implicitamente di determinare
una durata massima onnicomprensiva di 13 ore di lavoro giornaliero.
Anche per il riposo giornaliero, le norme possono essere derogate dalle previsioni della
contrattazione collettiva nazionale.
 Riposi settimanali: il riposo settimanale è un diritto espressamente garantito dalla
Costituzione ed è irrinunciabile per il lavoratore. Il decreto del 2003 ha stabilito il lavoratore
ha diritto, ogni 7 gg, ad un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive. Sono escluse
da questa disciplina alcune ipotesi previste da legge (lavoro a turni; attività con periodi frazionati
durante la giornata; personale addetto al settore dei trasporti ferroviari) o dai contratti collettivi. Di solito il
riposo settimanale coincide con la domenica, ma può benissimo esser scelto un altro giorno.
 Ferie: anche il diritto al riposo annuale è riconosciuto dalla Costituzione ed è un diritto
irrinunciabile del lavoratore. Secondo la disciplina del 2003, il periodo di ferie dev’essere
retribuito al lavoratore in misura normale, come tempo lavorato, e dev’essere goduto
nell’arco di un periodo di tempo continuativo. All’imprenditore spetta però la decisione di
fissare il tempo di fruizione delle ferie, dandone preventiva comunicazione agli interessati,
tenuto conto degli interessi dell’impresa e del prestatore di lavoro.
Il d.lgs. del 2003 ha riconosciuto il periodo annuale di ferie in 4 settimane. Tale periodo,
salvo deroghe della contrattazione collettiva, va goduto per almeno 2 settimane,
consecutive in caso di richiesta da parte del lavoratore, nel corso dell’anno di maturazione
e, per le restanti 2, nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione.
RETRIBUZIONE

OBBLIGAZIONE RETRIBUTIVA E RETRIBUZIONE MINIMA SUFFICIENTE

OBBLIGAZIONE RETRIBUTIVA E LA BUSTA PAGA


La retribuzione è l’oggetto dell’obbligazione corrispettiva o sinallagmatica (di contratto a prestazioni
corrispettive) del datore di lavoro. Innanzitutto, la retribuzione è una tipica obbligazione
corrispettiva, rientrante nelle obbligazioni pecuniarie, aventi quindi ad oggetto una somma di
denaro (non sempre, ma nella maggior parte dei casi).
Per quanto riguarda la corresponsione della retribuzione, la legge stabilisce che i termini e le
modalità del pagamento devono essere quelli in uso nel luogo dove l’attività lavorativa viene
svolta.
Modalità (sede): la retribuzione viene corrisposta nella sede di lavoro (in deroga alla regola generale
delle obbligazioni pecuniarie, le quali devono essere adempiute al domicilio del creditore).
Termine: il termine di corresponsione della retribuzione è quello stabilito dai contratti collettivi
o, in mancanza, dagli usi. Di solito, la retribuzione viene pagata settimanalmente o mensilmente,
in ogni caso dopo aver eseguito la prestazione lavorativa, secondo la regola della post-
numerazione, in forza della quale il pagamento della retribuzione avviene dopo l’erogazione della
prestazione lavorativa.

Busta paga: una legge speciale (l. 4/1953) obbliga l’imprenditore ad allegare alla corresponsione
della paga anche un prospetto paga, in cui siano contenute analiticamente tutte le voci che lo
compongono. Quest’obbligo è previsto per tutti i tipi di lavoro (anche lavoro agricolo, in precedenza
escluso), ad eccezione dei dirigenti e dei lavoratori domestici.

ORARIO DI LAVORO COME CRITERIO COMMISURATIVO DELLA RETRIBUZIONE


Spesso, per quantificare l’ammontare della retribuzione, bisogna determinare la misura della
prestazione lavorativa del prestatore, richiamando, dunque, la regola della post-numerazione.

Post-numerazione: mentre nella generalità dei contratti, questa modalità dev’essere


espressamente prevista dalle parti, nel contratto di lavoro, la post-numerazione è effetto naturale
del contratto. L’art. 2099 cc, infatti, dispone che la retribuzione va commisurata alla quantità della
prestazione di lavoro. Questa quantità può essere misurata:
 A tempo: la prestazione di lavoro viene determinata direttamente sulla base del tempo
impiegato per lo svolgimento dell’attività lavorativa prestata dal lavoratore.
 A cottimo: la prestazione di lavoro viene determinata indirettamente sulla base del
risultato produttivo ottenuto durante lo svolgimento del lavoro.
In entrambi i casi, comunque, è la quantificazione del tempo lavorato (orario di lavoro) alla base
per la determinazione della controprestazione retributiva.

Dunque, la regola della post-numerazione sottolinea l’importanza dell’orario di lavoro sotto 2


punti di vista:
 Criterio della determinazione della durata (quindi quantità) della prestazione lavorativa.
 Criterio di commisurazione dell’obbligazione retributiva del datore.

RETRIBUZIONE MINIMA, CONTRATTI COLLETTIVI E ART. 36 COST.


Contratti collettivi e retribuzione minima: La legge rinvia ai contratti collettivi il compito di
stabilire la misurazione della prestazione dovuta dal datore di lavoro (retribuzione). La funzione
fondamentale del contratto collettivo, infatti, è proprio quella tariffaria, ossia di determinazione
della retribuzione attraverso norme e regole comuni.
Tale funzione risponde ad un interesse non meramente individuale del singolo lavoratore, ma
collettivo di tutto il gruppo professionale. Questo interesse è realizzato attraverso la fissazione di
una retribuzione minima per ogni categoria professionale, mentre i superminimi (ciò che supera le
tariffe collettive) sono fissati dall’autonomia contrattuale individuale.
Art. 36 Cost.: tuttavia, la fissazione di una retribuzione minima non è di competenza esclusiva
della contrattazione collettiva, in quanto è addirittura un articolo costituzionale (art. 36 Cost.) a
riconoscere al lavoratore il diritto soggettivo alla retribuzione minima sufficiente. Infatti, il
precetto costituzionale prevede che il lavoratore abbia diritto ad una “retribuzione proporzionata
alla quantità e qualità del suo lavoro, e in goni caso sufficiente ad assicurare, a sé e alla sua
famiglia, un’esistenza libera e dignitosa”.
L’art. 36 Cost. indica nei criteri della proporzionalità e della sufficienza i requisiti essenziali per
la determinazione della retribuzione. Per parte della dottrina, questa norma avrebbe le
caratteristiche di una clausola generale (giusta retribuzione) come quelle della correttezza, buon
costume, buona fede; in realtà, si tratta di una norma-principio poiché questa non lascia spazio ad
una valutazione equitativa da parte del giudice, il quale invece deve attenersi direttamente ai
requisiti di proporzionalità e sufficienza per la determinazione della retribuzione nel caso
concreto. Il giudice, nella valutazione dell’adeguatezza del rapporto tra prestazione/retribuzione
del lavoro, deve conformarsi a parametri oggettivi (dunque secondo le regole di mercato), e non soggettivi
(esigenze personali delle parti).
 Requisito proporzionalità: secondo questo principio, la retribuzione dev’essere
determinata in relazione alla quantità e alla qualità oggettiva del lavoro. Quindi, la sua
misurazione non dipenderà solo dalla sua durata o intensità, ma anche dal tipo di mansioni
espletate o dalle caratteristiche di quest’ultima (specializzazione tecnica, responsabilità professionale,
difficoltà o gravosità dei compiti). Per cui vige il principio di differenziazione salariale in relazione
alle mansioni svolte e alla classificazione professionale assegnata al prestatore di lavoro.
 Requisito sufficienza: secondo questo principio, la retribuzione minima per un lavoratore
deve andare oltre il minimo vitale o di sussistenza, in modo da garantire un tenore di vita
sufficiente ad ottenere un’esistenza libera e dignitosa, sia per il lavoratore stesso che per
la sua famiglia.
Il principio della retribuzione minima sufficiente ha una doppia funzione:
 Funzione di sostentamento del lavoratore.
 Limite all’autonomia contrattuale delle parti nella determinazione della
retribuzione.

APPLICAZIONE GIURISPRUDENZIALE DELL’ART. 36 COST.


L’art. 36 Cost. è importante soprattutto nella sua applicazione giurisprudenziale, non solo in
funzione direttiva del principio della retribuzione minima sufficiente, ma anche in funzione
precettiva e perciò direttamente vincolante per l’autonomia contrattuale privata.

Nella pratica, il prestatore di lavoro (o il dipendente da un datore di lavoro) non iscritto al


sindacato che ha stipulato il contratto collettivo non potrebbe invocare in giudizio l’applicazione
delle relative clausole retributive. In virtù dell’applicazione della norma costituzionale, tuttavia, il
lavoratore può chiedere al giudice il risarcimento del danno, da parte del datore di lavoro,
equivalente alla differenza tra retribuzione percepita (inferiore ai minimi del contratto collettivo) e la
retribuzione stabilita dal giudice.
Retribuzione equivalente ai contratti collettivi: infatti, secondo la giurisprudenza, la
retribuzione equivalente a quella prevista nei contratti collettivi risponde ai requisiti di
proporzionalità e sufficienza. E anche in mancanza di contrattazione collettiva, la giurisprudenza fa
riferimento ai contratti collettivi per categorie affini.
In ogni caso, il giudice nella sua valutazione prende a riferimento solo i minimi retributivi stabiliti
dai contratti collettivi, tralasciando tutti i compensi aggiuntivi, gli scatti di anzianità e le
mensilità ulteriori rispetto alla tredicesima.
Retribuzione inferiore ai contratti collettivi: infine, secondo parte della dottrina e della
giurisprudenza, il giudice, nella valutazione della retribuzione, può discostarsi dai minimi salariali
previsti dai contratti collettivi, e riconoscere al lavoratore una retribuzione anche inferiore a questi
ultimi, a patto che motivi adeguatamente la sua decisione.
STRUMENTI TECNICI USATI DALLA GIURISPRUDENZA
L’art. 2099 cc dispone che, in mancanza di norme della contrattazione collettiva o di accordo
individuale tra datore-prestatore, la retribuzione sia determinata dal giudice, tenuto conto, ove
possibile, del parere delle associazioni professionali.

Regola generale: la regola generale dei contratti vorrebbe che se un oggetto non è determinato,
il contratto è nullo; per cui, la mancanza dell’accordo retributivo tra le parti dovrebbe causare la
nullità dell’intero contratto.
Rapporto di lavoro (deroga): in realtà, l’art 2099 cc deroga a questa regola generale, disponendo
che, nel contratto di lavoro, la mancanza della retribuzione non sia causa la nullità dell’intero
contratto, ma di integrazione giudiziale della lacuna. Per cui il contratto viene conservato.
Peraltro, questa norma ha operato non solo nel caso di clausola inesistente della retribuzione
(quindi come prevede letteralmente l’art. 2099 cc), ma anche nel caso di clausola retributiva esistente, ma
considerata insufficiente, e quindi nulla poiché in contrasto con l’art. 36 Cost.

SALARIO MINIMO LEGALE


In molti paesi Occidentali (ma attualmente non in ITA), è stabilito un salario minimo legale, il quale
vincola l’autonomia contrattuale privata a non poter stipulare contratti lavorativi con una
retribuzione inferiore a quelle fissate dalla legge. Per cui il salario minimo legale è sia vincolante
che inderogabile.
Il salario minimo legale viene determinato, solitamente, in riferimento alla generalità dei
lavoratori, e risponde ad un obiettivo di garanzia di una soglia minima ed universale di reddito
per il lavoratore, che corrisponde più o meno ai bisogni primari di quest’ultimo.
Mentre la fissazione del salario minimo legale avviene per atto legislativo, l’aggiornamento dei
relativi importi è frutto di atti amministrativi che coinvolgono anche le organizzazioni sindacali.
Funzione: la funzione del salario minimo legale dipende dall’effettivo livello di
predeterminazione:
 Livello medio basso: finalità di garanzia dalla povertà relativa (nei paesi di ingresso recente in
UE).
 Livello medio alto: funzione di stabilizzatore economico (FRA→10,03€ all’ora).
Italia: in ITA è ancora dibattuto se introdurre un salario minimo legale o meno.

Perché si: sembrerebbero suggerire Perché no: se non viene calibrato in modo
l’introduzione del salario minimo legale: adeguato il livello della predeterminazione del
 La forte discrezionalità attribuita al salario minimo legale, in base alle reali
giudice nella determinazione della condizioni del paese e al rispetto dell’autonomia
retribuzione (dato che egli può anche discostarsi della contrattazione collettiva, può sovrapporsi o
dai minimi previsti dai contratti collettivi, i quali porsi in concorrenza con la determinazione
fungono, quindi, solo da parametri retributivi). negoziale tra le parti della retribuzione.
 L’incremento negli ultimi anni della
contrattazione collettiva pirata,
stipulata da sindacati dotati di
scarsissima rappresentatività.
L’imposizione di un salario minimo legale
risolverebbe entrambi i problemi, poiché:
 Diverrebbe il parametro principale per la
determinazione retributiva da parte del
giudice.
 Scongiurerebbe una corsa al ribasso dei
salari condotta attraverso la
contrattazione “di comodo” (sindacati di
fatto comandati dal datore di lavoro).
STRUTTURA DELLA RETRIBUZIONE

SISTEMI DI RETRIBUZIONE
La legge prevede 2 tipi principali di retribuzione, a cui si aggiungono poi altri sistemi secondari:
Retribuzione commisurata sulla base del tempo della
A TEMPO
prestazione di lavoro (ore, giornate, mesi).
PRINCIPALE Retribuzione commisurata in base al risultato del lavoro; non
A COTTIMO si guarda esclusivamente al tempo di realizzazione (durata), ma al
risultato finale del lavoro.
Il prestatore viene retribuito, in tutto o in parte, con una
percentuale sugli utili conseguiti dall’imprenditore
PARTECIPAZIONE
nell’esercizio della sua attività. Questi utili vanno calcolati, salvo
AGLI UTILI
diversa pattuizione, in base agli utili netti dell’impresa
risultanti da bilancio.
Il prestatore di lavoro viene retribuito attraverso i prodotti
realizzati direttamente in azienda. Per cui non si tiene conto
del profitto (come sopra), ma della produzione aziendale (questo
sistema si utilizza soprattutto nel settore agricolo o della pesca, in cui alla
retribuzione si combina anche la retribuzione in natura).
Sia per la partecipazione agli utili che ai prodotti, lo svantaggio
di questa retribuzione sta nel rischio della
produttività/redditività dell’impresa, che ricade sul
PARTECIPAZIONE
prestatore. Infatti, soprattutto per la partecipazione agli utili, il
AI PRODOTTI
SECONDARIO lavoratore è in balia della variabilità della retribuzione, la quale
dipende dall’andamento dell’impresa, su cui influiscono
diversi fattori su cui il lavoratore non ha voce in capitolo (capacità
dell’imprenditore, mercato, tecnologie ecc.).
In ogni caso, in virtù dell’art. 36 Cost., al lavoratore retribuito in
uno di questi 2 modi spetta comunque una retribuzione
sufficiente, anche qualora l’impresa non abbia prodotto utili
in bilancio o ne abbia prodotti pochi.
È prevista questa modalità nelle attività in cui il prestatore deve
realizzare affari, concludendo contratti nell’interesse del
datore di lavoro (e quindi in rappresentanza→ institori, procuratori,
commessi). In questi casi, la retribuzione può essere prevista
PROVVIGIONE
anche totalmente a provvigione, in percentuale al volume di
affari conclusi per conto dell’imprenditore (agenti, rappresentanti di
commercio).

RETRIBUZIONE A TEMPO
Nella retribuzione a tempo si usa distinguere tra:
 Salario: retribuzione oraria→ utilizzata per gli operai. La retribuzione oraria è calcolata in
base alle ore lavorate nel mese (tranne i casi di sospensione legittima, con permanenza del diritto alla
retribuzione). Il rischio dell’inattività o della mancanza di lavoro, dunque, grava
esclusivamente sul lavoratore.
 Stipendio: retribuzione mensile→ utilizzata per gli impiegati. Nella retribuzione mensile, il
datore si assume il rischio della mancata prestazione di lavoro nel mese di riferimento
(salvo che la mancata prestazione non derivi da inadempimento).
In ambedue i casi, però, il termine di adempimento dell’obbligazione retributiva può essere la
fine del mese o un periodo più breve (quindicina, settimana...).

Maggiorazioni: sulla retribuzione normale (compenso corrisposto per la prestazione svolta nell’orario
normale di lavoro) si calcolano tutte le maggiorazioni per:
1) Lavoro straordinario: attualmente, è affidato alla contrattazione collettiva il compito di
determinare le maggiorazioni relative al lavoro reso al di fuori dell’orario normale, o di
prevedere dei riposi compensativi in aggiunta/alternativa ad esse.
2) Lavoro notturno: anche in questo caso, la legge rinvia alla contrattazione collettiva la
definizione dei trattamenti economici eventuali o delle riduzioni dell’orario di lavoro a
titolo di indennizzo dei lavoratori notturni.
3) Lavoro festivo: le festività devono essere retribuite con la busta paga giornaliera, mentre
il lavoro festivo (domenicale o infrasettimanale) va compensato con la retribuzione normale,
maggiorata di una percentuale stabilita sempre dai contratti collettivi.

Ferie: la riforma del 2003 ha stabilito, innanzitutto, il periodo annuale di ferie retribuite (4
settimane) cui il lavoratore ha diritto; in più, ha escluso che tale periodo possa essere sostituito da
un’indennità per “ferie non godute” (salva l’ipotesi di risoluzione del contratto). La mancata fruizione del
riposo feriale da parte del lavoratore (ogni patto simile è nullo) scaturisce in quest’ultimo il diritto sia
alla retribuzione per il lavoro prestato, che il risarcimento per il danno subìto.

ELEMENTI ACCESSORI DELLA RETRIBUZIONE


All’interno del contratto di lavoro, spesso si prevedono anche degli elementi accessori della
retribuzione.
Integrazioni: ci possono essere attribuzioni di natura obbligatoria (integrazioni) corrisposte in
via continuativa o saltuaria, in aggiunta alla retribuzione normale minima fissata dai contratti collettivi
per l’orario normale di lavoro, in base alle diverse categorie e qualifiche (paga-base o differenziali
di qualifica).
Retribuzione globale: tenendo conto delle integrazioni, e anche delle maggiorazioni per lavoro
straordinario, notturno e festivo, vien fuori la retribuzione complessivamente corrisposta al
lavoratore (retribuzione globale).
Tra gli elementi accessori della retribuzione si menzionano:
 Scatti di anzianità: aumenti che maturano col permanere del lavoratore nella stessa
qualifica ogni tot. anni (di solito, ogni 2 anni, ma i contratti collettivi possono prevedere una diversa
frequenza in base ai settori).
 Superminimi (individuali/collettivi): parte della retribuzione che supera i minimi tariffari
previsti dalla contrattazione collettiva nazionale, i quali sono assegnati individualmente
(aumenti di merito; assegni ad personam) o collettivamente come regola aziendale (mensilità
supplementari come la tredicesima (o gratifica natalizia)).
 Indennità: compensazioni previste dai contratti collettivi per i lavoratori addetti a mansioni
disagiate, gravose o considerate penose rispetto allo “standard” della prestazione
(monetizzazione del rischio o del disagio della prestazione). Anche se la dicitura “indennità” inganna,
non sono erogazioni di natura risarcitoria, ma di natura corrispettiva.
 Premi di produttività: sono diffusi i premi collettivi di produzione o di rendimento,
istituiti solitamente dalla contrattazione collettiva per far in modo che i lavoratori partecipino
ai benefici della produttività aziendale, misurata su indicatori tecnici (quantità di produzione;
risparmio dei costi; qualità del prodotto) ed economici (maggior fatturato; utili di bilancio...), attraverso
un’integrazione dello stipendio.
I premi di produttività sono stabiliti dalla contrattazione di secondo livello (ossia
contratti collettivi territoriali o aziendali) e, a tal proposito, una legge del 2012 ha concesso
delle agevolazioni fiscali per incentivarne la creazione e l’utilizzo da parte delle imprese.
La disciplina, tuttavia, è stata oggetto di parziale riforma nella legge di bilancio del 2017, la
quale ha mantenuto l’applicazione dell’aliquota agevolata sempre al 10%, ma ha innalzato
da 3.000€ a 4.000€ l’importo massimo assoggettabile a tale aliquota agevolata.
 Premi di presenza: hanno lo scopo di disincentivare l’assenteismo.
 Gratifiche (o premi individuali): assicurano un’integrazione discrezionale della
retribuzione normale.
Ratio della struttura complessa della retribuzione: la ragione per cui la retribuzione ha una
struttura complessa sta nel fatto che le aziende, mediante contrattazione collettiva, vogliono
differenziare la retribuzione, adattandola alle diverse prestazioni, alle condizioni di lavoro e al
comportamento del singolo lavoratore.

WELFARE AZIENDALE
Nella nozione di retribuzione non rientrano solo i compensi monetari, ma anche tutte le utilità
(economicamente valutabili) percepite dal lavoratore in forza del rapporto di lavoro.
Nel welfare aziendale (forma di retribuzione non monetaria) rientrano una serie di utilità che
possono individuarsi nelle prestazioni, opere, servizi corrisposti al dipendente in natura o come
rimborso spese, aventi finalità di rilevanza sociale. A questa definizione, bisogna precisare tuttavia
che, per parlare di welfare aziendale, queste utilità devono riferirsi alla generalità dei dipendenti o
a categorie contraddistinte dall’omogeneità dei soggetti che vi appartengono.

Gap del welfare aziendale: ad oggi i sistemi di welfare aziendale sono caratterizzati da una forte
differenziazione in relazione a:
 Differenti aree del Paese: sono presenti maggiormente al Centro-Nord.
 Settori produttivi: sono maggiormente sviluppati nel settore dei servizi.
 Dimensioni dell’impresa: sono più presenti nelle imprese di maggiori dimensioni, le quali,
riuscendo ad attivare con più facilità economie di scala, sono in grado di ridurre i costi di
erogazione dei servizi ai lavoratori.

Interventi legislativi: i principali interventi legislativi in materia di welfare aziendale hanno


riguardato soprattutto l’incentivazione all’utilizzo di tali sistemi mediante agevolazioni fiscali
(attraverso una progressiva esenzione delle somme destinate a tali servizi).
 Legge di bilancio 2016: una delle prime tappe in questo senso ha previsto la possibilità, per
il lavoratore, di convertire le somme attribuitegli a titolo di premio di produttività in
servizi di welfare aziendale (solo nel caso in cui sia previsto all’interno del contratto collettivo di 2° grado).
Nel caso il lavoratore fosse interessato a questa misura, il valore di tali servizi non
concorrerà alla formazione del suo reddito.

RETRIBUZIONE A COTTIMO
È l’altro tipo di retribuzione principale, il quale tiene conto, per la determinazione della
retribuzione, non solo del tempo impiegato, ma anche del risultato/rendimento fornito dal
lavoratore durante l’orario di lavoro.
In principio, la retribuzione a cottimo era la forma tipica della retribuzione del lavoro autonomo.
Successivamente, il cottimo è stato utilizzato sempre più spesso anche nel lavoro subordinato, per
misurare la retribuzione in relazione ad un risultato predeterminato. Infatti, con l’introduzione dei
metodi di organizzazione scientifica del lavoro e della misurazione dei tempi di lavorazione, a
cui si unisce la parcellizzazione delle mansioni, sono nati diversi tipi di cottimo:
 Cottimo a pezzo/a misura: retribuzione misurata in proporzione alle quantità prodotte.
 Cottimo a tempo: retribuzione determinata sulla base del tempo di lavorazione impiegato,
e quindi del rendimento del lavoratore.

Rischio della produttività del lavoro: nel cottimo, il rischio della produttività del lavoro è a
carico del datore (per quanto riguarda organizzazione del lavoro, e quindi il risultato della prestazione). Esso,
tuttavia, viene in parte trasferito a carico del lavoratore per quanto concerne la quantità della
retribuzione in base alle singole frazioni di risultato o unità di cottimo. Infatti, nel cottimo la
retribuzione è parametrata alla quantità della prestazione lavorativa, sulla base dell’intensità
del lavoro nell’unità di tempo (non della durata, come nella retribuzione a tempo).

Cottimo puro/misto: il cottimo, di solito, rappresenta una maggiorazione (percentuale/utile di


cottimo) integrativa della retribuzione fissa (minimo di paga base calcolata a tempo).
 Cottimo misto: il contratto di lavoro standard (previsto spesso anche dalla contrattazione collettiva)
presenta la combinazione tra la retribuzione fissa calcolata a tempo, e quella a cottimo
compensativa del rendimento.
 Cottimo puro: la retribuzione è calcolata interamente in base al risultato. È utilizzata
principalmente nel lavoro a domicilio.

Obbligo di cottimo: per legge, il prestatore dev’essere retribuito a cottimo tutte le volte che:
a) In conseguenza dell’organizzazione di lavoro, è vincolato all’osservanza di un determinato
ritmo produttivo (catene di montaggio).
b) Nelle lavorazioni ad economia di tempo, in cui la valutazione della sua prestazione sia
fatta in base al risultato dei tempi di lavorazione.

Tariffe di cottimo: la contrattazione collettiva e il sindacato negoziano col datore le tariffe di


cottimo (compenso unitario del risultato del lavoro calcolato a tempo o a misura), ma non hanno voce in
capitolo sulla sottostante organizzazione del lavoro, che rimane invece di esclusiva competenza
del datore, il quale può decidere come meglio crede i ritmi e i tempi della prestazione.
 Fase sindacale: in ogni caso, la legge stabilisce che le tariffe dei contratti collettivi:
 Non diventano definitive, se non dopo un periodo di esperimento.
 Possono essere sostituite/modificate solo se ci sono mutamenti delle condizioni
di lavoro, in ragione dei quali si giustifica tale decisione. La sostituzione/modifica
non diviene definitiva se non dopo un periodo sperimentale stabilito dai contratti
collettivi (assestamento).
 Fase aziendale: è la fase in cui si applicano concretamente le tariffe stabilite dalla
contrattazione collettiva. L’imprenditore ha l’obbligo di comunicare preventivamente ai
prestatori di lavoro i dati riguardanti tariffa di cottimo, lavorazioni da eseguire e il
relativo compenso unitario (bolla di cottimo). Inoltre, l’imprenditore ha l’obbligo di
comunicare anche i dati relativi alla quantità di lavoro eseguite e il tempo impiegato; in
sostanza, il datore deve comunicare un riepilogo del lavoro eseguito a cottimo, in modo
tale che i lavoratori possano controllare i criteri di calcolo della propria retribuzione.

NOZIONE DI RETRIBUZIONE
Non tutto ciò che viene erogato dall’imprenditore ai lavoratori fa parte della retribuzione. Infatti,
affinché si parli di retribuzione in senso stretto, occorre che l’attribuzione del datore dovuta al
lavoratore sia in via necessaria (obbligatoria), e non eventuale come compenso di una specifica
attività di lavoro ordinario/straordinario, o di un periodo di inattività (riposo; interruzione) ricompreso
nella durata convenzionale della prestazione.
Sono perciò da escludere dalla nozione di retribuzione tutte le attribuzioni patrimoniali prive di
un collegamento con lo svolgimento della prestazione lavorativa, ossia tutte quelle corrisposte
in via eventuale e non necessaria (sconti sui beni/prodotti finiti; prestazioni di assistenza; agevolazioni ecc.), non
richieste dal lavoratore e che potrebbe decidere di non usufruirne.
Definizione onnicomprensiva della retribuzione: nella definizione legislativa della
retribuzione sono compresi tutti gli elementi fondamentali ed accessori che la compongono:
 Maggiorazioni dovute per lavoro straordinario e notturno.
 Compensi per ferie, festività, malattie, infortuni ecc.
 Voci o integrazioni corrisposte a titolo di cottimo, incentivo, premio, indennità, gratifica
o mensilità supplementari.
NOZIONE DI REDDITO DA LAVORO DIPENDENTE A FINI CONTRIBUTIVI
La retribuzione, oltre come elemento del contratto di lavoro, è vista dalla legge anche come base
imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali, e come reddito imponibile ai fini fiscali.
D.lgs. 314/1997: il decreto ha introdotto una nuova definizione della base imponibile ai fini
fiscali, fornendo le nozioni di reddito da lavoro dipendente ai fini fiscali, e di reddito da lavoro
dipendente ai fini contributivi.
Per dare la definizione di reddito da lavoro dipendente ai fini contributivi, la legge rinvia
direttamente alla definizione di reddito da lavoro dipendente ai fini fiscali = quello derivante da
rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto
la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio quando sia considerato lavoro dipendente secondo
le norme del diritto del lavoro. Il reddito da lavoro dipendente ai fini fiscali è costituito da tutte
le somme e i valori in generale, a qualunque titolo percepiti, anche sotto forma di erogazioni liberali,
in relazione al rapporto di lavoro.

In sostanza, non si richiede più la connessione corrispettiva tra prestazione di lavoro e somme
e valori percepiti dal prestatore ma, per l’assoggettabilità ai fini fiscali e previdenziali, interessa la
sola erogazione del datore, e cioè la circostanza che le somme e i valori percepiti dal lavoratore
siano “in relazione” al rapporto di lavoro, e non appartengano alle somme escluse dall’imposizione
fiscale e previdenziale (quelle: a titolo di TFR; in occasione della cessazione di lavoro; al fine di incentivare l’esodo dei
lavoratori).
Infine, la legge stabilisce che la retribuzione imponibile ai fini contributivi non può essere
inferiore a quella definita dai contratti collettivi, stipulati dai sindacati più rappresentativi su base
nazionale.
TRATTAMENTO RETRIBUTIVO NEI CASI DI SOSPENSIONE DEL RAPPORTO

CONTRATTO DI LAVORO E RIMEDI SINALLAGMATICI


Il contratto di lavoro è un contratto con prestazioni corrispettive o sinallagmatico, che consiste
nello scambio tra l’obbligazione retributiva del datore di lavoro e la prestazione lavorativa del
prestatore.
Rimedi sinallagmatici: al contratto di lavoro, dunque, si applicano le norme generali sui rimedi
sinallagmatici, volti a garantire il puntuale e reciproco adempimento delle rispettive promesse e
prestazioni. Tra queste norme rientrano la risoluzione per inadempimento, per impossibilità
sopravvenuta e per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Eccezione d’inadempimento: l’eccezione d’inadempimento è l’espressione più rilevante del


principio della corrispettività delle prestazioni. Secondo tale principio, le parti possono rifiutarsi
di adempiere le proprie obbligazioni a prestazioni corrispettive, se la controparte non adempie
contemporaneamente alla propria obbligazione (ovviamente, salvo che non sia stato previsto diversamente
dalle parti).
Per cui, esistendo nel rapporto di lavoro un nesso (sinallagma) di interdipendenza tra le
obbligazioni del lavoratore e del datore (collaborazione-retribuzione) sia genetico (attinente alla
conclusione del contratto) che funzionale (attinente alla sua esecuzione), ne consegue che si avrà sospensione
del rapporto lavorativo quando, o il prestatore o il datore, ritengano che la controprestazione
non sarà adempiuta. In questo caso, quindi, una delle parti può invocare l’eccezione
d’inadempimento, interrompendo l’esecuzione del contratto.
Ciò vale nelle ipotesi di inadempimento imputabile a una delle parti, ma anche per impossibilità
oggettiva sopravvenuta (forza maggiore; caso fortuito) ed eccessiva onerosità sopravvenuta (anche se è
un ipotesi eccezionale, data la natura duratura e continuativa del contratto di lavoro).

Risoluzione del contratto: solitamente, nel rapporto di lavoro le impossibilità sopravvenute


non danno luogo automaticamente alla risoluzione del contratto, ma spesso succede che
avvenga una sospensione del rapporto (senza estinguere l’obbligazione) o il recesso unilaterale dal
contratto per previsione di legge o contratto collettivo.
La risoluzione del contratto si opera solo nel caso in cui la prestazione impedita sia irripetibile e
irrecuperabile, neanche con un adempimento tardivo. Con la risoluzione del contratto, le parti
vengono liberate dalle rispettive obbligazioni, ed hanno l’obbligo di restituzione di ciò che
hanno ricevuto in anticipo a titolo di corrispettivo.

SOSPENSIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO


Principio di traslazione sul datore del rischio di inattività del prestatore: nel nostro OG si è
progressivamente affermato il principio di traslazione sul datore del rischio di inattività del
prestatore (mancanza di lavoro) nei casi di impossibilità sopravvenuta della prestazione per
cause fortuite o di forza maggiore, attinenti alla persona del lavoratore.
Normalmente, l’impossibilità della prestazione del lavoratore, la quale può essere determinata da
un fatto anche non imputabile al datore di lavoro, come per ogni altra causa di forza maggiore,
dovrebbe portare all’estinzione dell’obbligazione per impossibilità oggettiva sopravvenuta, e
alla conseguente liberazione del datore dall’obbligazione reciproca della retribuzione.
Nel rapporto di lavoro, invece, il lavoratore viene sollevato dagli effetti economici della propria
inattività, proprio in virtù di tale traslazione del rischio, e conserva (in tutto o in parte) il diritto alla
retribuzione.

Sospensione del rapporto di lavoro: il principio della traslazione del rischio viene enunciato
negli art. 2110-11 cc, che disciplinano la sospensione del rapporto lavorativo nei casi di
impossibilità temporanea del lavoratore per infortunio, malattia, gravidanza e puerperio,
servizio militare.
Questi articoli tutelano il lavoratore sotto 2 aspetti:
1. Conservazione della retribuzione: in tutti questi casi di assenza da lavoro, il lavoratore
conserva il diritto alla retribuzione, oppure ha diritto ad un’indennità determinata da leggi
speciali, contratti collettivi, dagli usi o secondo equità.
2. Sospensione della prestazione e conservazione del posto di lavoro: il lavoratore, inoltre,
non può essere licenziato per il periodo stabilito dalle stesse fonti (vedi sopra). In più, il
periodo d’assenza da lavoro, anche oltre il periodo obbligatorio di conservazione del posto,
per una di queste cause, dev’essere computato all’anzianità di servizio del prestatore.
Periodo di irrecedibilità: le leggi o i contratti collettivi prevedono che il prestatore con un minimo
di anzianità (1 anno almeno) abbia diritto ad un periodo di conservazione del posto di lavoro
proporzionale all’anzianità di servizio (periodo di irrecedibilità→ se si tratta di
malattia/infortunio, periodo di comporto).
Il licenziamento operato durante il periodo di irrecedibilità viene ritenuto non nullo, ma
temporaneamente inefficace. Trascorso detto periodo, il datore può conservare volontariamente
il contratto (senza obbligo di retribuzione) o recedere dallo stesso.

REGOLA GENERALE CONTRATTI CONTRATTO DI LAVORO


L’impossibilità sopravvenuta non imputabile al
debitore, se definitiva, determina l’estinzione L’impossibilità
dell’obbligazione; mentre, se temporanea, temporanea (arresto del
l’obbligazione rimane sospesa. Ma se lavoratore) non estingue il
IMPOSSIBILITÀ l’impossibilità temporanea rimane sospesa per rapporto, ma lo sospende.
SOPRAVVENUTA lungo tempo, l’obbligazione si estingue se: L’estinzione non è
 Il debitore non possa più ritenersi automatica, ma è
vincolato ad eseguirla. subordinata alla
 Il creditore non abbia più interesse ad un manifestazione di volontà
adempimento tardivo. del datore di lavoro a
L’impossibilità sopravvenuta temporanea, nei recedere dal contratto, una
contratti di durata, deve ritenersi equivalente a volta decorso il periodo di
OBBLIGAZIONI quella definitiva. Per cui, l’obbligazione si conservazione del posto di
DI DURATA estingue, salvo che il creditore sia interessato ad lavoro.
un adempimento parziale.

MALATTIA, INFORTUNIO, GRAVIDANZA E PUERPERIO


Ipotesi di sospensione del rapporto: l’art. 2110 cc dispone la sospensione dell’obbligazione di
lavoro per i casi di:
 Malattia
 Infortunio
 Gravidanza e puerperio.
Il lavoratore, che versa in queste situazioni, ha l’obbligo di giustificare la propria assenza da
lavoro, ed ha diritto alla conservazione dell’obbligazione retributiva. Infatti, il datore in questi
casi è obbligato comunque a corrispondere al lavoratore assente la retribuzione, o perlomeno,
un’indennità stabilita da leggi speciali, contratti collettivi, dagli usi o secondo equità.
Tuttavia, il datore è esonerato da quest’obbligo qualora la legge o i contratti collettivi
stabiliscano forme equivalenti di previdenza o assistenza, anche privatistiche.

Assicurazione contro malattia: nel nostro sistema, è obbligatoria l’assicurazione contro le


malattie, che è a carico del datore, ma a cui contribuisce in misura minore anche il prestatore di
lavoro. Inizialmente, per i lavoratori privati l’assicurazione era gestita dall’INAM; oggi, invece,
l’assistenza medica è totalmente affidata al Servizio sanitario nazionale, mentre l’indennità
(spettante solo agli operai) è corrisposta dall’INPS.
Accertamento malattia: dato che la malattia comporta l’inabilità/incapacità lavorativa del
prestatore, è chiaro che si venga a creare un conflitto d’interessi col datore, interessato alla sua
prestazione.
Il bilanciamento tra l’interesse alla salute del lavoratore, e l’interesse alla prestazione del datore,
è alla base dell’art. 5 dello Statuto dei lavoratori, che ha previsto l’esclusione degli accertamenti
sanitari da parte di medici di fiducia del datore di lavoro.
L’interesse al controllo della malattia del lavoratore, inoltre, interessa anche all’ente
previdenziale, che è colui che paga al lavoratore l’indennità al posto del datore (anche se questo è
obbligato ad anticiparla). In realtà, questo vale solo per gli operai, i quali, tra l’altro, sono esclusi dalla
copertura di un’indennità per i primi 3 gg di malattia (periodo di carenza assicurativa). Mentre
per gli impiegati le assenze per malattia vengono integralmente retribuite fin dal 1° gg dal
datore di lavoro.
Assicurazione infortuni: valgono le stesse regole previste per l’assicurazione contro la malattia.
Tuttavia, l’assicurazione contro gli infortuni e malattie professionali è obbligatoria solo per i
lavoratori addetti a determinate attività previste dalla legge.

ALTRE IPOTESI DI SOSPENSIONE DEL RAPPORTO


Vi sono poi altre ipotesi di sospensione della prestazione per impossibilità temporanea del
lavoratore:
 Lavoratori con cariche pubbliche elettive: i lavoratori chiamati a ricoprire cariche
pubbliche elettive possono essere sospesi dal rapporto lavorativo per tutto il tempo
necessario all’espletamento del loro incarico (membri del Parlamento europeo, nazionale, delle
assemblee regionali, amministratori degli enti locali (tra cui sindaci, presidenti di provincia, consiglieri comunali o
presidenti del consiglio comunale, assessori, membri di sindacati ecc.)).
Per questi soggetti, è prevista la:
 Conservazione del posto di lavoro (aspettativa).
 Sospensione del rapporto senza corresponsione della retribuzione.
 Lavoratori impegnati con operazioni elettorali: essi hanno diritto al pagamento di
specifiche maggiorazioni retributive o, in alternativa, a riposi compensativi per i giorni
festivi impegnati nello svolgimento delle operazioni elettorali.
 Servizio militare: in questo caso, in passato, si usava distinguere i lavoratori tra:
 Posizione di chiamata: il lavoratore aveva diritto alla conservazione dell’anzianità
maturata e alla sospensione del rapporto lavorativo, ma senza diritto di
retribuzione.
 Posizione di richiamo: il lavoratore aveva diritto alla sospensione del rapporto con
diritto alla retribuzione per tutto il periodo di sospensione.
Tuttavia, nel 2005 è stata eliminata la leva obbligatoria (trasformata in servizio volontario)
per cui non si applicano più tutte le norme riguardanti il servizio militare obbligatorio.
 Tossicodipendenza: anche per il lavoratore tossicodipendente, accertato secondo le
modalità previste, è previsto il diritto alla conservazione del posto di lavoro (aspettativa)
per tutta la durata della riabilitazione e comunque non superiore a 3 anni.
 Morte/grave infermità del coniuge/convivente/parente (2°grado): sono concessi al
lavoratore 3 giorni di permesso retribuiti all’anno in occasione di eventi particolari
connessi alla vita familiare.
 Formazione: sono concessi 3 giorni di permesso retribuiti anche ai lavoratori che
partecipino a percorsi formativi.
OGGETTIVA IMPOSSIBILITÀ TEMPORANEA DELLA PRESTAZIONE DI LAVORO
L’oggettiva impossibilità temporanea della prestazione lavorativa si ha quando la sospensione
dell’attività lavorativa dipenda da fatti direttamente o indirettamente riconducibili
all’organizzazione produttiva dell’impresa (mancanza di energia elettrica, di materiali, malfunzionamento di
macchinari o impianti...).
La regola generale vuole che l’impossibilità temporanea della prestazione determini la
sospensione del rapporto, senza diritto alla retribuzione per il prestatore. Solo in caso di
sospensione per colpa dell’imprenditore, il lavoratore ha diritto alla retribuzione normale.

Impossibilità temporanea nei contratti collettivi: La materia è regolata principalmente dalla


contrattazione collettiva, la quale prevede che:
 Sospensioni di breve durata (soste): queste sono a carico dell’imprenditore, il quale è
obbligato a retribuire i lavoratori entro un certo limite massimo (di solito, 2 ore giornaliere).
 Sospensioni di lunga durata: superato il limite massimo di ore giornaliere, l’imprenditore
può “mettere in libertà” i lavoratori, senza essere ulteriormente obbligato al pagamento
della retribuzione.
ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

ESTINZIONE IN GENERALE

MODI DI ESTINZIONE DEL RAPPORTO LAVORATIVO


Il rapporto di lavoro, come ogni altro negozio, viene a cessare. L’effetto estintivo può avvenire
per:
 Volontà di 1 parte: recesso unilaterale (dimissioni o licenziamento).
 Volontà di entrambe le parti: risoluzione contrattuale.

RISOLUZIONE CONSENSUALE
Con la risoluzione consensuale, il datore e il prestatore di lavoro pervengono, di comune
accordo, alla risoluzione del rapporto lavorativo e, dunque, alla sua estinzione.
Risoluzione consensuale in frode alla legge: tuttavia, con la progressiva riforma della disciplina
dei licenziamenti, diventata sempre più restrittiva, vi è stato l’aumento dell’utilizzo della
risoluzione consensuale per aggirare i rigidi limiti legali (per cui nasceva un negozio in frode alla legge
che, in quanto tale, è nullo). Per far fronte a ciò, la giurisprudenza deve accertare, secondo criteri di
rigore, la sussistenza di una chiara e certa volontà delle parti di porre fine al rapporto,
ritenendo insufficienti la sola forma scritta ad substantiam per le dimissioni, o che il lavoratore
abbia percepito il TFR o abbia trovato altra occupazione.

Risoluzione giudiziale: secondo la recente dottrina, al contratto di lavoro non si applica la


risoluzione giudiziale per inadempimento. Questo perché la legge già prevede la possibilità, per
la parte adempiente nei confronti di quella inadempiente, di recedere unilateralmente dal
contratto di lavoro.

RECESSO NEL RAPPORTO DI LAVORO


Il recesso è un atto/negozio unilaterale (espressione della volontà di una delle parti) e recettizio (produce
i propri effetti nella sfera giuridica altrui solo dopo l’effettiva (o presunta) conoscenza della controparte).
Recesso regola generale (contratti di durata): nei contratti di durata, il recesso può essere
esercitato indistintamente da una delle 2 parti, anche contro la volontà dell’altra, attraverso 2
modalità:
 Recesso ordinario (ad nutum): facoltà di recesso dal contratto con preavviso.
 Recesso straordinario: facoltà di recesso dal contratto intimato senza preavviso e,
quindi, con effetto immediato. Solitamente, viene esercitato a seguito di anomalie
funzionali del rapporto (inadempimento di obbligazioni sinallagmatiche).

Recesso contratto di lavoro: si distingue tra 2 tipi di recesso:


 Recesso del lavoratore (dimissioni): è espressione della libertà morale del prestatore.
 Recesso del datore (licenziamento): è espressione di un interesse patrimoniale del
datore di lavoro e, perciò, della sua libertà di iniziativa economica. Incide, però, sul
diritto al lavoro della controparte.
Per equilibrare gli interessi in gioco, e per il principio della perfetta eguaglianza giuridica tra i
contraenti, il legislatore ha fatto sì che il lavoratore (visto come contraente debole e socialmente sotto-
protetto dal legislatore) sia maggiormente tutelato all’interno del rapporto di lavoro, attraverso
l’apposizione di limiti formali e sostanziali al recesso del datore di lavoro (licenziamento).
RECESSO AD NUTUM E OBBLIGO DI PREAVVISO
Secondo l’art. 2118 cc, ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo
indeterminato, con l’unico obbligo di dare preavviso entro i termini previsti dalla
contrattazione collettiva o, in sua assenza, secondo gli usi o equità.
Se il recedente non adempie a tale obbligo, dovrà corrispondere alla controparte un’indennità di
mancato preavviso (corrispondente all’importo delle retribuzioni che sarebbero spettate per il periodo di
preavviso).
Tale indennità è, peraltro, dovuta ai superstiti del lavoratore in caso di cessazione del rapporto
per la sua morte.

Ratio recesso ad nutum: il preavviso è importante poiché, sia in caso di dimissioni che di
licenziamento, l’interruzione del rapporto può causare dei danni più o meno gravi all’altra
parte. Per questo l’efficacia del recesso è subordinata ad una preventiva manifestazione di
volontà del recedente.
Natura dell’obbligo di preavviso: in dottrina si è spesso discusso se la natura dell’obbligo di
preavviso sia reale o obbligatoria. Seppur vi sia la possibilità, per il contraente, di poter scegliere
tra l’adempimento dell’obbligo o il pagamento dell’indennità di mancato preavviso, sembra
preferibile la tesi per cui l’obbligo di preavviso ha natura reale. Ciò perché rispetterebbe
maggiormente la ratio dell’obbligo stesso, mentre lasciare la scelta tra una o l’altra alternativa
sarebbe un incentivo alla frustrazione di quella ratio (cioè la tutela dell’interesse alla prosecuzione del
rapporto di chi subisce il recesso e, in particolare, del lavoratore).

RECESSO PER GIUSTA CAUSA


La legge prevede che il recesso di entrambi i contraenti possa essere immediato, anche senza
preavviso (recesso straordinario) nei rapporti a tempo indeterminato, o prima della scadenza
del termine in quelli a tempo determinato, solo se si verifica una causa che non consenta la
prosecuzione (neanche provvisoria) del rapporto (recesso per giusta causa). Perciò, di fronte ad
una giusta causa, il contraente potrà recedere subito dal contratto di lavoro.
Recesso ad nutum e per giusta causa non sono 2 differenti negozi di recesso, ma un unico tipo
di negozio, nella quale la giusta causa è il presupposto che esonera dal preavviso. Per cui,
qualora il giudice accerti l’insussistenza della giusta causa, pur rimanendo valido il recesso, il
recedente dovrà pagare l’indennità di mancato preavviso alla controparte.
Dimissioni per giusta causa: inoltre, nel caso di dimissioni per giusta causa del lavoratore, a
quest’ultimo spetterà l’indennità di mancato preavviso da parte del datore di lavoro. Questo
perché il recesso è conseguenza di un fatto dipendente da quest’ultimo, per cui sarà a suo carico la
corresponsione dell’indennità.

DIMISSIONI VOLONTARIE E RISOLUZIONE CONSENSUALE


Il legislatore ha previsto una speciale procedura per evitare che le dimissioni del lavoratore non
siano frutto della sua libera volontà, ma influenzate da pressioni del datore. Gli interventi in
materia riguardano i casi di:
 Maternità/paternità: durante il periodo di gravidanza (affidamento/adozione) ed entro 3
anni di vita del bambino, le dimissioni sono nulle se non convalidate dalla lavoratrice,
o lavoratore, presso il servizio ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche
sociali competente per territorio.
Dal 2015, inoltre, le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro devono
avvenire, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi
disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali..., e trasmessi al datore di lavoro e alla
Direzione territoriale del lavoro competente.
Con le stesse modalità, il lavoratore ha poi la facoltà di revocare le dimissioni/risoluzione
consensuale entro 7 gg dalla data di trasmissione del modulo.
Il datore che modifichi i moduli è punito con una sanzione amministrativa tra 5.000-30.000€.
LICENZIAMENTO INDIVIDUALE

EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA LIMITATIVA DEI LICENZIAMENTI


Dimissioni: nel recesso ad nutum del lavoratore (dimissioni), il potere di recedere dal
rapporto di lavoro ha come unico limite l’obbligo di preavviso.
Licenziamento: viceversa, il recesso del datore di lavoro (licenziamento) è stato oggetto di
diversi interventi legislativi limitativi, con l’obiettivo di aumentare la tutela del prestatore di
lavoro, considerato dall’OG soggetto socialmente sotto-protetto. Questi interventi hanno
introdotto, a carico del datore di lavoro, un generale obbligo di giustificazione del recesso, a
garanzia del quale è stata predisposta per il lavoratore, a seconda dei casi, una tutela reale
(reintegrazione nel posto di lavoro) o solo obbligatoria (pagamento di un’indennità).
1) L. 604/1966: il primo intervento legislativo prevedeva dei limiti formali e sostanziali al
potere di recesso del datore:
 Limite formale: obbligo di comunicazione scritta.
 Limite sostanziale: obbligo di giustificato motivo o giusta causa di
licenziamento.
Qualora si verificasse un licenziamento ingiustificato, il datore era obbligato alla
riassunzione o, in mancanza, al pagamento di una penale a titolo risarcitorio (tutela
obbligatoria). Tuttavia, questa disciplina era applicabile solo a:
 Soggetti iscritti alle associazioni sindacali che avevano stipulato questi accordi
interconfederali.
 Settore industriale.
 Datori di lavoro con + di 35 dipendenti.
E demandavano l’accertamento della giustificazione del licenziamento alla valutazione
equitativa di un apposito collegio di conciliazione ed arbitrato (arbitrato irrituale),
piuttosto che al giudice.
2) L. 300/1970 (Statuto lavoratori): successivamente è intervenuto l’art. 18 St. lav., il quale
prevedeva per tutti i licenziamenti illegittimi la reintegrazione nel posto di lavoro, oltre
al risarcimento del danno (tutela reale).
L’ambito di applicazione era limitato alle unità produttive con + di 15 dipendenti,
lasciando di fatto senza tutela dai licenziamenti ingiustificati tutti i dipendenti delle
piccole imprese.
3) L. 109/1990: per far fronte a questa lacuna, è stata emanata una legge nel ’90 che ha
ridefinito il campo di applicazione della tutela reale e di quella obbligatoria, novellando
l’art. 18 St. lav.:
 Dopo la riforma, l’art. 18 St. lav. trovava applicazione per tutti i datori di lavoro
che occupavano + di 15 dipendenti nell’unità produttiva nella quale ha avuto
luogo il licenziamento, o che occupavano + di 60 dipendenti complessivamente.
 Si sancì il generale principio di giustificazione del licenziamento (recesso
vincolato) per tutti i lavoratori (salvo pochissime eccezioni).
4) L. 92/2012 (Legge Fornero): la Riforma Fornero ha modificato profondamente la
disciplina dei licenziamenti, riducendo la tutela attribuita al lavoratore. Infatti, la legge, al
fianco della tutela reintegratoria (che prima copriva tutti i casi di licenziamento illegittimo), ha
introdotto la tutela indennitaria.
La legge, che partiva con l’obiettivo di disincentivare nuove assunzioni e accrescere
l’occupazione, ha circoscritto la tutela reale (anche per le grandi imprese) solo ad alcune
ipotesi di licenziamento illegittimo di rilevante gravità, mentre per le altre casistiche
era prevista solamente la tutela obbligatoria attraverso un risarcimento del danno
variamente graduato (ma in misura maggiore di quello previsto dalla l. 604/1966).
5) D. lgs. 23/2015 (Jobs Act): la progressiva riduzione della tutela del lavoratore dinanzi al
licenziamento illegittimo è stata confermata anche dal decreto legislativo emanato dal
Governo (2015). Infatti, il Jobs Act ha ridotto ulteriormente i casi di reintegrazione nel
posto di lavoro, elevando a regola generale la compensazione monetaria mediante la
corresponsione di un’indennità crescente in proporzione agli anni di servizio del
lavoratore.
Doppio regime: questo nuovo regime trova applicazione per tutti i lavoratori assunti
con contratto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dall’entrata in vigore del d.
lgs. (7 marzo 2015). Per tutti i lavoratori assunti prima, invece, continua ad applicarsi la
precedente disciplina del novellato art. 18 St. lav. e la l. 604/1966. Per cui vige un
doppio regime (uno ad esaurimento, l’altro definitivo).

LICENZIAMENTO AD NUTUM
Con l’introduzione del principio di giustificazione del licenziamento della l. 108/1990, il
licenziamento ad nutum (ossia il recesso libero del datore, senza che questo debba fornire alcuna
giustificazione) ha avuto un’applicazione meramente residuale, poiché si applica ad una ristretta
cerchia di lavoratori:
1) Lavoratori domestici e sportivi professionisti: sono esplicitamente esclusi nella l.
108/1990 e dallo Statuto dei lavoratori.
2) Lavoratori in prova: esclusi esplicitamente dalla l. 604/1966. Tale esclusione, tuttavia,
cessa nel momento in cui l’assunzione del lavoratore diviene definitiva e, in ogni caso,
dopo 6 mesi dall’inizio del rapporto di lavoro.
3) Lavoratori anziani: il recesso ad nutum si applica poi ai lavoratori che abbiano maturato il
diritto alla pensione di vecchiaia (che abbiano compiuto 67 anni). Lo Statuto dei lavoratori
offre la possibilità, però, di far lavorare gli anziani anche oltre i 67 anni, fino ad un’età
massima di 70 anni (al fine di migliorare il trattamento pensionistico).
4) Dirigenti: sono esclusi dalla disciplina limitativa dei licenziamenti su dettato della legge
stessa, la quale dichiara l’applicazione alle sole categorie di operai, impiegati e quadri
intermedi. A differenza delle altre categorie (sopra) in cui vige il principio della libertà di
forma, per i dirigenti vi è l’obbligo della comunicazione scritta del licenziamento, oltre
che la tutela contro il licenziamento discriminatorio (al pari di tutti i lavoratori).
In realtà, per i dirigenti vi è un obbligo di giustificazione del licenziamento previsto
direttamente dalla contrattazione collettiva, nonché la possibilità di ricorrere ad un
collegio arbitrale (o in alternativa al giudice) il quale, accertata l’insussistenza di una
giustificazione, può condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità
supplementare, di natura risarcitoria, oltre all’indennità di mancato preavviso.

CASI DI LIMITAZIONE TEMPORALE DEL LICENZIAMENTO


La legge ha previsto casi in cui il licenziamento è limitato nel tempo da eventi di vario tipo, e per
cui è prevista la sospensione del rapporto e la conservazione del posto di lavoro:
1) Infortunio, malattia, gravidanza e puerperio: il cc prevede che il datore non possa
licenziare ad nutum, ma solo per giusta causa, nei casi in cui il prestatore sia
impossibilitato ad effettuare la prestazione per infortunio, malattia, gravidanza o
puerperio, e cioè quando si trovi sostanzialmente in una condizione di bisogno (incapacità
temporanea di lavoro e guadagno).
Questa disciplina si applica a tutti i lavoratori, per cui in questi periodi di sospensione del
rapporto (e di conservazione del posto) si può essere licenziati solo per giusta causa; ed
anzi, in alcuni casi non basta, ma si necessita di fatti ancora più gravi (lavoratrici madri).
Periodo di comporto: il limite al potere di licenziamento è solo temporaneo, e dura
solo per il “periodo di comporto” determinato dalla legge (lavoratrici madri/padri) o dalla
contrattazione collettiva (infortunio/malattia). Terminato questo periodo, il datore riacquista
nuovamente il potere di licenziare.
2) Servizio militare: si ha sospensione del rapporto e conservazione del posto di lavoro anche
nei casi di chiamata e richiamo alle armi.
3) Lavoratore con funzioni pubbliche elettive.
4) Tossicodipendenti: ha diritto anche chi gode dei congedi per motivi di cura.
5) Formazione: ha diritto chi gode di congedi per la propria formazione personale.

Licenziamento inefficace: l’eventuale licenziamento posto in essere durante il periodo di


sospensione del rapporto, che sia privo di giusta causa, seppur formalmente e sostanzialmente
valido, risulta inefficace (per cui produrrà i propri effetti solo alla scadenza di tali periodi). Solo
per le lavoratrici madri/lavoratori padri e per i lavoratori che godono di congedi di cura e
formativi, il licenziamento è considerato nullo.

LIMITI SOSTANZIALI AL LICENZIAMENTO


Il più importante limite sostanziale (o causale) affinché il licenziamento sia legittimo è la
sussistenza di una giusta causa o un giustificato motivo. Infatti, dall’entrata in vigore della l.
109/1990, la quale ha sancito il generale principio di giustificazione del licenziamento (recesso
vincolato) per tutti i lavoratori, c’è stato un ridimensionamento della distinzione tra recesso
ordinario (con preavviso) e straordinario (senza preavviso) del datore di lavoro. Se, infatti, per le
dimissioni tale distinzione è rimasta immutata, nel licenziamento ad nutum ormai non basta più
la sola manifestazione di volontà del datore, ma si necessita anche della motivazione che ha
portato a quella decisione (giusta causa o giustificato motivo), rendendo di fatto simili il recesso ordinario
con quello straordinario.
Preavviso: in ogni caso, la distinzione sostanziale tra recesso ordinario e straordinario riguarda
soltanto gli effetti relativi al preavviso, previsto solo nel licenziamento per giustificato motivo.
TFR: quanto al trattamento di fine rapporto (TFR), al contrario di quanto accadeva con
l’indennità di anzianità, spetta oggi in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro.

GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO E SOGGETTIVO


L’art. 3 l.604/1966 contiene la definizione di giustificato motivo soggettivo e oggettivo:
 Giustificato motivo soggettivo (gms): ricorre quando il lavoratore incorre in un notevole
inadempimento degli obblighi contrattuali. L’inadempimento non deve essere di scarsa
rilevanza per l’altro contraente.
Solitamente, i contratti collettivi prevedono le ipotesi in cui ricorre il gms, elencando le
infrazioni disciplinari che, per le loro gravità, sono ritenute tali da giustificare un
licenziamento. Tuttavia, per dottrina e giurisprudenza le tipizzazioni dei contratti collettivi
non sono ritenute vincolanti per il giudice, il quale può valutare nel caso concreto se un
comportamento sia o meno grave al punto di giustificare il licenziamento.
Immediatezza e tempestività: Il licenziamento per gms, come quello per giusta causa,
dev’essere comminato in un termine congruo per soddisfare i requisiti di immediatezza e
tempestività (un eccessivo lasso di tempo tra il fatto contestato e l’esercizio del potere di recesso, infatti,
potrebbe far dubitare di quell’interesse).
 Giustificato motivo oggettivo (gmo) (impresa): si realizza quando vi siano ragioni
relative all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare
funzionamento di essa. In questa situazione, l’OG fa prevalere l’interesse economico e
tecnico dell’organizzazione produttiva sulla tutela del lavoratore, anche qualora abbia
adempiuto correttamente alla sua prestazione.
Ruolo del giudice: per quanto riguarda il gmo, in dottrina e giurisprudenza è sorto un
contrasto tra chi pensa che:
 il giudice debba svolgere un controllo di merito sulla necessità del licenziamento e
sulle scelte organizzative e produttive del datore, tali da giustificare il recesso.
 Il giudice deve limitarsi a verificare la sussistenza del motivo fornito dal datore e il
nesso di causalità tra le scelte organizzative dell’imprenditore ed il
licenziamento (opinione prevalente).
La Cassazione ultimamente si è decisamente schierata con la 2° ipotesi, prevedendo per
configurare il gmo è sufficiente un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo
attraverso la soppressione di un individuata posizione lavorativa, a patto però che il
licenziamento porti ad una migliore efficienza gestionale o ad un incremento della
produttività, e che ovviamente il licenziamento sia la conseguenza, e non la causale, del
riassetto organizzativo.
Repechage: inoltre, affinché sussista un gmo, il licenziamento deve essere senza
alternative per il datore di lavoro, nel senso che non vi possa essere alcuna possibilità di
reimpiego del lavoratore nell’organizzazione lavorativa in mansioni diverse (repechage).
Per mansioni “diverse” si intendono sia quelle equivalenti alla categoria di appartenenza,
ma anche quelle inferiori. La prova di tale impossibilità di reimpiego spetta al datore di
lavoro.
 Giustificato motivo oggettivo (lavoratore): oltre alle ipotesi di gmo relative alle esigenze
dell’impresa, la giurisprudenza ha collegato varie ipotesi di gmo collegate alla persona del
lavoratore:
1) Carcerazione preventiva.
2) Sopravvenuta inidoneità del lavoratore: in caso di sopravvenuta inidoneità del
lavoratore alle mansioni specifiche, accertata da un medico competente, il datore
di lavoro deve reinserire il lavoratore in altre mansioni compatibili col suo stato
di salute, che possono essere sia equivalenti, sia inferiori (ma con diritto alla
conservazione della retribuzione in godimento).
3) Inabilità da infortunio/malattia: qualora i lavoratori diventino inabili a svolgere le
proprie mansioni per infortunio o malattia (sia sul lavoro che da causa civile), non
possono essere licenziati per gmo se possono essere reinseriti in mansioni
equivalenti o anche inferiori.
4) Violazione del periodo di comporto: in caso di violazione della conservazione
del posto (periodo di comporto) per malattia, il datore è legittimato a licenziare
il lavoratore, a causa dell’impossibilità temporanea ad effettuare la prestazione.
Tutte queste ipotesi sono state ricondotte, dal novellato art. 18 St. lav. a difetto di
giustificazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e per esse è
prevista la reintegrazione (attenuata) nel posto di lavoro.
Anche con la nuova disciplina del 2015, l’ingiustificatezza del motivo attinente alla
disabilità fisica/psichica del lavoratore comporta la reintegrazione.

GIUSTA CAUSA
L’art. 2119 cc definisce la giusta causa quella che non permette la prosecuzione, neppure
provvisoria, del rapporto lavorativo, aggiungendo inoltre che fallimento e liquidazione coatta
amministrativa dell’azienda non ne integrano gli estremi (per cui anche in queste 2 ipotesi di procedure
concorsuali, il lavoratore licenziato ha diritto al preavviso).
In realtà, la nozione di giusta causa si è modificata nel corso del tempo:
 Prima della l. 604/1966: l’opinione prevalente in dottrina era che la giusta causa si
identificasse con ogni fatto capace di giustificare la risoluzione del contratto senza
preavviso (in tronco); per cui poteva consistere non solo in un inadempimento, ma anche
ogni altro fatto che inficiasse il rapporto di fiducia personale tra datore e lavoratore (che
era ritenuto essenziale nel rapporto di lavoro), indipendentemente dalla colpa di quest’ultimo.
 Dopo la l. 604/1966: la dottrina maggioritaria ha pensato che la nozione di giusta causa
dovesse essere modificata in relazione alla nuova nozione di gms (che prevedeva un notevole
inadempimento), dalla quale si differenziava solo per la particolare e maggiore gravità
dell’inadempimento, e non più sotto il piano della considerazione soggettiva della
persona del lavoratore e della fiducia del datore nei suoi confronti (che invece è stata
ridimensionata).
Contratti collettivi: di norma, i contratti collettivi contengono l’elencazione dei fatti che
legittimano il licenziamento senza preavviso per giusta causa (danneggiamento volontario di
macchinari e impianti; rissa nei luoghi di lavoro; furto; ingiurie; grave insubordinazione). Anche per la giusta causa,
come per il gms, queste tipizzazioni non sono vincolanti per le decisioni del giudice, il quale
deve comunque verificare, nel caso concreto, se la fattispecie rientri nell’area della giusta causa o
meno.
Principio immediatezza e tempestività: la validità e, quindi, la legittimità del licenziamento
per giusta causa è subordinata all’immediatezza e alla tempestività della sua adozione e
comunicazione, tenuto comunque conto del tempo per gli accertamenti necessari del datore di
lavoro.

NULLITÀ DEL LICENZIAMENTO


La legge dispone la nullità del licenziamento quando il recesso datoriale è di una gravità
maggiore, dovuta alla lesione non solo del diritto del lavoratore alla stabilità del posto di
lavoro, ma anche di alcuni princìpi costituzionali.
Ipotesi di nullità del licenziamento:
 Motivi discriminatori: il licenziamento discriminatorio è stato modificato più volte nel
corso degli anni:
1) L. 604/1966: stabiliva che i licenziamenti determinati da ragioni di credo politico,
fede religiosa, appartenenza ad un sindacato e partecipazione alle sue attività
sono da considerare nulli indipendentemente dalla motivazione data.
2) Statuto lavoratori: con la sua introduzione, si è allargato il campo di applicazione
dei licenziamenti discriminatori (previsti dalla l. 604/1966) anche per ragioni di razza,
lingua, sesso, handicap, età e orientamento sessuale.
3) L. 108/1990: ha confermato i motivi discriminatori per cui è prevista la nullità del
licenziamento e, in più, ha stabilito che in tali casi è sempre applicabile la tutela
reale (reintegrazione nel posto di lavoro).
 Matrimonio: la legge sancisce la nullità del licenziamento intimato dal giorno della
pubblicazione del matrimonio, fino ad 1 anno dopo la sua celebrazione. A completare
tale tutela, si aggiunge la sanzione di nullità delle dimissioni presentate dalla lavoratrice
nel periodo di matrimonio, salvo che questa non le confermi, entro 1 mese, alla Direzione
provinciale del lavoro.
 Violazione delle norme a tutela di maternità/paternità: si ha nullità del licenziamento
intimato alla lavoratrice madre/lavoratore padre nel periodo che va dall’inizio della
gravidanza fino al compimento di 1 anno di età del bambino.
 Congedi per cura/formazione/malattia del bambino: è altresì sancito con la nullità il
licenziamento del lavoratore causati dalla domanda/fruizione dei congedi per motivi di
cura familiare, formazione e per malattia del bambino.

Effetti della nullità del licenziamento: anche gli effetti hanno visto una modifica col passare del
tempo:
1) Prima della legge Fornero: tranne che per il licenziamento discriminatorio e ritorsivo
(per cui si applicava l’art. 18 St. lav., che prevedeva la reintegrazione), per le altre fattispecie di nullità,
il licenziamento era considerato come se non fosse mai esistito, e al lavoratore che
avesse costituito in mora il datore spettavano le retribuzioni maturate.
2) Legge Fornero (l. 92/2012): con la riscrittura dell’art. 18 St. lav., tutte le ipotesi di nullità
del licenziamento, e di inefficacia per mancanza della forma scritta, sono state unificate
e prevedono tutte la reintegrazione piena nel posto di lavoro, a prescindere dal n° di
dipendenti occupati dal datore di lavoro. Anche la riforma del 2015 dispone in questo
senso.

FORMA E REVOCA LICENZIAMENTO


Aldilà dei limiti sostanziali al licenziamento (gms, gmo, giusta causa), la legge prevede anche dei limiti
formali al potere di licenziamento.
Forma licenziamento: la legge dispone che il licenziamento sia comunicato in forma scritta al
lavoratore, e chi vi siano allegate le cause giustificatrici. La Legge Fornero, in questo senso, ha
superato la precedente previsione per cui i motivi dovevano essere forniti solo su richiesta del
lavoratore entro 15 gg dalla comunicazione del licenziamento.
Questa disposizione non è prevista per i dirigenti, rispetto ai quali il datore ha il solo obbligo di
comunicazione in forma scritta del licenziamento.
La ratio della scelta di fornire anche le motivazioni risiede nel fatto che, affinché il lavoratore
decida di impugnare o meno il provvedimento disciplinare, deve essere a conoscenza dei
motivi dello stesso, consentendogli di formulare la domanda di impugnazione in relazione alle
diverse tipologie di sanzioni che possono essere applicate, sulla base della motivazione addotta.

Immodificabilità motivazione: l’imprenditore deve fornire una motivazione completa ed


analitica, e non può più modificarla aggiungendo motivi diversi o ulteriori rispetto a quelli
originariamente dichiarati. Per cui, in base al principio di immodificabilità della motivazione,
l’eventuale impugnazione del provvedimento viene circoscritto a ciò che è contenuto nella
comunicazione scritta.
Conversione giusta causa→ gms: non è esclusa la possibilità che, durante l’impugnazione del
licenziamento, il giudice ritenga che i fatti contestati non integrino una giusta causa, ma siano
configurabili come gms di licenziamento. Nel caso della conversione di licenziamento, dunque, il
provvedimento rimane valido, ma il datore dovrà corrispondere al lavoratore l’indennità di
mancato preavviso. È da escludere la possibilità di una conversione al contrario (gms→ giusta causa).

Differenza trattamento per inosservanza requisiti formali: per quanto attiene alle sanzioni
previste per l’inosservanza dei requisiti di forma del licenziamento, vi è una differenza tra la
vecchia (l. 604/1966, modificata dalla l. 108/1990) e la nuova disciplina (d. lgs. 23/2015):
 L. 604/1966: è prevista la nullità del licenziamento sia per la mancanza di forma scritta,
sia per la mancanza dei motivi. La nullità del recesso datoriale dà diritto al risarcimento
del danno nei confronti del lavoratore (di solito pari alle retribuzioni perse). Questa disciplina
resta in vigore nell’area della tutela obbligatoria.
 D. lgs. 23/2015: gli effetti del licenziamento illegittimo, che si applicano nell'area della
tutela reale, cambiano a seconda che:
a) Difetto di forma: se il licenziamento è intimato in forma orale, esso è
radicalmente nullo e si attua la reintegrazione piena.
b) Difetto di motivazione: se nel licenziamento manca la motivazione, risulta
violata la procedura per il licenziamento disciplinare o quella di conciliazione
obbligatoria per il licenziamento per gmo, la tutela è solo indennitaria (e anche in
misura minore rispetto alle altre ipotesi).

Revoca licenziamento: la Legge Fornero, infine, ha disciplinato la revoca del licenziamento.


Questa può essere effettuata dal datore entro 15 gg dalla comunicazione di impugnazione del
licenziamento da parte del prestatore.
La revoca produce il ripristino del rapporto senza soluzione di continuità, con diritto del
lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente e, nei confronti del datore di
lavoro, l’inapplicabilità delle sanzioni per il licenziamento illegittimo.

LICENZIAMENTO DISCIPLINARE
Sempre in merito alla forma, deve aggiungersi l’obbligo della procedura dell’art. 7 St. lav. per i
casi di licenziamento disciplinare, che includono tutti i casi di licenziamento per giusta causa e
per gms, mentre ne rimane escluso soltanto il licenziamento per gmo.
Anzitutto, l’art. 7 St. lav. prevede diversi vincoli procedurali all’esercizio del potere di
licenziamento (affissione del codice disciplinare in un luogo accessibile a tutti; divieto di provvedimento senza
preventiva contestazione degli addebiti e senza aver sentito il lavoratore a sua difesa).
Con l’entrata in vigore dello Statuto, si è posto in dottrina il problema del coordinamento tra
esercizio del potere di licenziamento per gms/giusta causa e l’art. 7 St. lav., soprattutto a fronte
della dicitura di tale norma, la quale dispone che “non possono essere disposte sanzioni
disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro”.
Dopo lunghe dispute giudiziali, la Corte di Cassazione ha previsto l’applicazione dei vincoli
procedurali a tutti i licenziamenti che hanno natura oggettivamente disciplinare (in quanto
motivati da un comportamento inadempiente del lavoratore).
Inosservanza limiti procedurali: infine, in caso di inosservanza dei vincoli posti dall’art. 7 nel
caso di licenziamento disciplinare, la Corte di Cassazione ha escluso che ricorra un ipotesi di
nullità di licenziamento; essa sostiene, invece, che in questi casi il licenziamento è da
considerarsi illegittimo, e viene assoggettato allo stesso trattamento sanzionatorio previsto per
il licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, ossia una tutela indennitaria
ridotta.

IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO


Onere della prova: la l. 604/1966 dispone espressamente che la prova a sussistenza della giusta
causa o del giustificato motivo del licenziamento sono a carico del datore di lavoro.
In giudizio, in ogni caso, entrambe le parti sono tenute all’allegazione e alla dimostrazione dei
fatti alla base delle proprie tesi. Per cui, se il datore deve dimostrare la sussistenza di una causa
giustificatrice che legittimi il licenziamento, il prestatore dovrà dimostrare in giudizio l’esistenza
di un rapporto di lavoro e la modalità di licenziamento.

Impugnazione licenziamento: la stessa legge, poi, disciplina l’impugnazione del licenziamento


illegittimo da parte del prestatore di lavoro. Mentre per i negozi invalidi in generale
l’impugnazione può essere proposta solo mediante ricorso giudiziale, nel rapporto di lavoro
l’impugnazione può avvenire anche stragiudizialmente. Infatti, il lavoratore può far pervenire una
comunicazione scritta al datore di lavoro o attraverso l’intervento del sindacato, entro un
termine di decadenza di 60 gg dalla comunicazione del licenziamento. Ciò configura
l’impugnazione come un negozio unilaterale recettizio.
All’impugnazione stragiudiziale deve seguire, a pena di inefficacia, il deposito del ricorso nella
cancelleria del giudice del lavoro, o la comunicazione alla controparte della richiesta di
tentativo di conciliazione o arbitrato, entro 180 gg decorrenti dalla data di spedizione
dell’impugnazione (non al termine dei 60 gg).
I termini di decadenza non riguardano l’ipotesi di licenziamento inefficace per difetto di
forma scritta, per espressa previsione della l. 604/1966 (che fa decorrere il termine di 60 gg solo per i
licenziamenti illegittimi intimati per iscritto). Tali termini, invece, sono applicabili, oltre che per i
licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo, a tutti gli altri casi di licenziamento nullo
(discriminatorio; per motivo illecito...).

LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE DELL’IMPRESA


Il nuovo codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza (2019) detta una disciplina speciale
attinente alle ipotesi in cui la crisi dell’impresa determini, per il datore, l’apertura della
liquidazione giudiziale, con un occhio di riguardo anche per le sorti dei rapporti di lavoro dei
prestatori. In questi casi, il codice opera un bilanciamento degli interessi in gioco:
 Interesse primario dei creditori nella procedura concorsuale.
 Tutela dell’occupazione e del reddito dei lavoratori.

Innanzitutto, l’art. 2119 cc stabilisce che l’apertura della liquidazione giudiziale, nei confronti del
datore di lavoro, non costituisce giusta causa di licenziamento.
Curatore: tuttavia, per tutti i rapporti giuridici pendenti, ancora ineseguiti o eseguiti
parzialmente, è disposta la sospensione dei rapporti di lavoro, con conseguente perdita della
retribuzione e della contribuzione previdenziale. La sospensione si protrae fin quando il
curatore decida tra:
1) Subentro: il curatore comunica ai lavoratori di subentrare nei rapporti, assumendo i
relativi obblighi. Se avviene il subentro, i suoi effetti si producono fin dalla sua
comunicazione.
2) Recesso: il curatore invia la lettera di licenziamento nel caso in cui non sia possibile la
continuazione o il trasferimento d’azienda, o di un suo ramo, o sussistano manifeste
ragioni economiche riguardanti l’assetto dell’organizzazione del lavoro (ipotesi di gmo). Gli
effetti del recesso decorrono dalla data di apertura della liquidazione giudiziale.
Il curatore deve decidere tra le 2 opzioni entro 4 mesi dall’apertura della liquidazione, trascorso
il quale tutti i rapporti di lavoro subordinato ancora non estinti si intendono risolti di diritto,
con conseguente corresponsione ai lavoratori di un’indennità non assoggettata a contribuzione
previdenziale (pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione percepita per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio).
Proroga: il termine di 4 mesi è prorogabile dal giudice delegato, o su richiesta del curatore,
del direttore dell’ispettorato territoriale del lavoro o su istanza dei singoli lavoratori (ma in tal
caso gli effetti ricadranno solo nei confronti dei richiedenti), per un termine comunque non superiore a 8
mesi dall’ultima istanza. La proroga ha luogo, però, solo qualora si rinvengano concrete
possibilità di ripresa dell’azienda o di trasferimento dell’azienda (o solo un ramo).
RIMEDI CONTRO IL LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO

PREMESSA
L. 604/1966: Il quadro giuridico antecedente alla legge Fornero prevedeva 2 regimi di tutela
contro il licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo (soggettivo/oggettivo):
1) Tutela obbligatoria: lascia alla volontà del datore l’alternativa tra la riassunzione del
lavoratore, o il pagamento di un’indennità (art. 8 l. 604/1966). Si applica alle imprese di
piccole dimensioni.
2) Tutela reale: obbligo del datore di riassumere il lavoratore nel posto di lavoro (art. 18 St.
lav.). Si applica nei confronti delle imprese di grosse dimensioni.
L’applicazione di una o dell’altra tutela, quindi, si basava sulle diverse dimensioni aziendali.

L. 92/2012: ha mantenuto inalterate le cause giustificatrici e gli ambiti di applicazione, ma ha


modificato l’art. 18 St. lav., prevedendo diversi tipi di sanzioni a seconda della gravità delle
causali del licenziamento.
Per cui la tutela obbligatoria è rimasta invariata sia per l’area di applicazione, sia per il regime
sanzionatorio. La disciplina della tutela reale, che in precedenza era unitaria (l’invalidità del
licenziamento, sia per vizi di forma che di sostanza, produceva sempre la reintegrazione nel posto di lavoro), è
passata ad essere frazionata in diverse e graduate sanzioni in base alle specifiche
giustificazioni del licenziamento.

D.lgs. 23/2015: il decreto ha nuovamente modificato la disciplina, prevedendo per il


licenziamento illegittimo una generale tutela indennitaria, marginalizzando ulteriormente la
reintegrazione nel posto di lavoro. Questa disciplina trova applicazione solo per i lavoratori
assunti dalla sua entrata in vigore (7 marzo 2015).
Per cui, ad oggi, vigono 2 regimi per la tutela contro i licenziamenti illegittimi, uno ad esaurimento
e l’altro definitivo.

1)DISCIPLINA DEI LAVORATORI ASSUNTI PRIMA DEL 7/03/2015

AMBITO DI APPLICAZIONE DELL’ART. 18 ST. LAV.


L’art. 18 St. lav. (ossia la tutela reale contro il licenziamento illegittimo) si applica nei confronti
dei datori di lavoro che:
 Occupino + di 15 dipendenti (+ di 5 impresa agricola) nell’unità produttiva in cui è
avvenuto il licenziamento.
 Che abbiano globalmente + di 60 dipendenti, indipendentemente dal frazionamento o
meno in unità produttive.
Conteggio: nel conteggio dei dipendenti si deve tener conto dei lavoratori occupati, tra cui i
dirigenti. Sono, invece, esclusi dal conteggio i parenti (entro 2° grado) del datore, i lavoratori
assunti con contratto di reinserimento e quelli assunti con contratto di apprendistato.

Legge Fornero: in realtà oggi, dopo la modifica apportata dalla legge Fornero, l’art. 18 si applica
in tutti i casi di licenziamento discriminatorio, o altrimenti nullo, o inefficace per carenza della
forma scritta, indipendentemente dal n° di lavoratori occupati.

PLURALITÀ DELLE SANZIONI DELL’ART. 18 ST. LAV.


Grazie alla Riforma Fornero, l’art. 18 prevede diverse tutele in caso di licenziamento illegittimo
in base alla gravità del vizio che inficia il recesso:
1) Reintegrazione piena: licenziamento discriminatorio o viziato da nullità.
2) Reintegrazione attenuata: difetto di giusta causa o giustificato motivo perché il fatto
non sussiste o rientra tra le condotte punibili con sanzione conservativa.
3) Indennità risarcitoria in misura piena: altre ipotesi di difetto di giusta causa o
giustificato motivo (meno gravi per il legislatore).
4) Indennità risarcitoria in misura ridotta: vizi di forma o di procedura del negozio di
licenziamento.
Risarcimento danni ulteriore: oltre alle tutele specifiche riguardanti tutte le ipotesi di
licenziamento illegittimo, il lavoratore può richiedere, con onere di specifica prova, anche il
risarcimento del danno all’immagine, alla professionalità, alla dignità e alla salute.

REINTEGRAZIONE PIENA
La reintegrazione piena (o tutela ripristinatoria con effetti risarcitori pieni) si applica nei casi
più gravi di licenziamento illegittimo, ossia quando quest’ultimo lede un diritto della persona
del lavoratore, oltre che il diritto al mantenimento del posto di lavoro. La reintegrazione piena si
applica in tutti i casi in cui viene dichiarata la nullità del licenziamento, ossia per:
1) Licenziamento discriminatorio.
2) Licenziamento intimato in concomitanza del matrimonio.
3) Licenziamento in violazione della tutela a favore della maternità/paternità.
4) Licenziamento riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge.
5) Licenziamento per motivo illecito.
6) Licenziamento intimato in forma orale.

In tutti questi casi, il lavoratore ha diritto a 2 tutele:


 Obbligo di reintegrazione: il datore è tenuto a reinserire il prestatore nel posto di
lavoro, indipendentemente dal motivo addotto, ed al n° di dipendenti occupati.
 Risarcimento del danno: il giudice, inoltre, condanna il datore al risarcimento del danno
subìto dal lavoratore, attraverso il pagamento di un’indennità pari all’ultima retribuzione
globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione,
detratto quanto percepito dal lavoratore per lo svolgimento di altre attività lavorative nel
periodo di estromissione (aliunde perceptum). L’indennità non può essere minore di 5
mensilità della retribuzione globale di fatto.
In aggiunta, il datore è costretto a versare i contributi previdenziali e assistenziali del
periodo di estromissione.

Risoluzione del lavoratore: se, a seguito dell’avviso di reintegrazione, il lavoratore non abbia
ripreso servizio entro 30 gg, il rapporto di lavoro si intende risolto, salva l’ipotesi in cui il
lavoratore abbia richiesto l’indennità sostitutiva, la quale determina di per sé la risoluzione
contrattuale.

REINTEGRAZIONE ATTENUATA
La reintegrazione attenuata (o tutela ripristinatoria con effetti risarcitori attenuati) trova
applicazione nei casi più gravi di licenziamento ingiustificato per motivi soggettivi e oggettivi.
In tal caso, il giudice condanna, con sentenza costitutiva (non dichiarativa come nella reintegrazione
piena) il datore alla:
 Reintegrazione del lavoratore.
 Pagamento di un’indennità risarcitoria: l’indennità dev’essere pari all’ultima
retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento a quello della
reintegrazione, detratto quanto percepito dal lavoratore per lo svolgimento di altre attività
lavorative nel periodo di estromissione (aliunde perceptum), nonché di quanto avrebbe
potuto percepire dedicandosi alla ricerca di una nuova occupazione (aliunde
percipiendum). La misura dell’indennità non può superare le 12 mensilità della
retribuzione globale di fatto.
Anche in questo caso il datore deve versare i contributi previdenziali ed assistenziali del
periodo di estromissione.

Motivi soggettivi ingiustificati: la reintegrazione attenuata si applica in tutti quei casi in cui il
giudice accerta che non ricorrono gli estremi del gms o giusta causa di licenziamento, per:

 Insussistenza del fatto contestato: con questa espressione, il legislatore ha voluto


smorzare la discrezionalità del giudice nella valutazione delle nozioni di giusta causa e gms.
In dottrina, per fatto contestato si è voluto intendere qualsiasi inadempimento degli
obblighi contrattuali, sia con dolo che con colpa. Per cui, il fatto non sussiste se:
 Non è accaduto.
 Non è stato commesso dal lavoratore incolpato.
 Non sia qualificabile come inadempimento contrattuale, che dia luogo a
responsabilità del lavoratore.
Dunque, la condotta del lavoratore va valutata non solo sulla materialità del fatto (azione
o omissione), ma anche se esso è idoneo a ledere in concreto l’interesse del datore alla
prestazione diligente e fedele (lavoratore che si presenti con un abbigliamento o con una capigliatura
non consoni al luogo di lavoro, ma di fatto ininfluenti sul piano dell’esatto adempimento delle obbligazioni
lavorative;
il ritardo di pochi minuti che, seppur ascrivibile come condotta inosservante dell’orario di lavoro, dev’essere
valutato nel caso concreto se provocante un danno al datore di lavoro e, per tale, punibile con il licenziamento).
 Fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa (sulla base delle
previsioni della contrattazione collettiva o dei codici disciplinari applicabili): in questo caso, invece, la
valutazione del giudice è più semplice, in quanto le fattispecie di licenziamento
ingiustificato sono state già previste ex ante dal contratto collettivo e, quindi,
conosciute dal datore di lavoro, il quale ha considerato il fatto inidoneo a intaccare la
continuità del rapporto di lavoro. Perciò, in tali ipotesi, troverà applicazione la tutela
reintegratoria.

Motivi oggettivi ingiustificati: per quanto riguarda il gmo, la reintegrazione attenuata è


prevista nell’ipotesi di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento. Prima
di tutto, il gmo può essere ricondotto a 2 fattispecie, che il giudice deve preventivamente
accertare e trovare il nesso di causalità con il licenziamento:
1) Persona del lavoratore: si tratta di situazioni personali che producono l’impossibilità
oggettiva della prestazione, la cui sussistenza è, solitamente, di facile rilevazione
(inidoneità fisica o professionale sopravvenuta; superamento periodo di comporto di malattia; detenzione).
Perciò, se il licenziamento è intimato per un gmo relativo alla persona, la mancanza di
giustificazione è sanzionabile con la reintegrazione.
2) Impresa: si tratta del licenziamento, frutto di una libera valutazione economica del
datore di lavoro (di per sé insindacabile dal giudice), per far fronte ad esigenze dell’impresa
(inutilità sopravvenuta delle mansioni; riduzione di costi; incremento della produttività del lavoro ecc.).
Oggetto della valutazione del giudice, in tal caso, è il nesso causale tra la decisione
economica del datore e la soppressione del posto di lavoro. Infatti, il giudice non solo
deve valutare la sussistenza di un concreto vantaggio economico in conseguenza alla
soppressione del posto, ma altresì se l’imprenditore abbia provato a reinserire il
lavoratore in altre mansioni (equivalenti o inferiori), non riuscendoci (obbligo di repechage).
Alla fine della valutazione, il giudice stabilirà se il licenziamento è da considerarsi:
 Licenziamento legittimo: il licenziamento sarà giustificato.
 Licenziamento illegittimo: il licenziamento non sarà giustificato, per cui il giudice
potrà scegliere tra la reintegrazione o il pagamento di un’indennità, in relazione
al fatto che il motivo addotto, oltre ad essere ingiustificato, sia anche
manifestamente insussistente (in relazione all’organizzazione del lavoro, all’impossibilità di
repechage...).

INDENNITÀ RISARCITORIA PIENA


In tutti gli altri casi di licenziamento ingiustificato, in cui non ricorrono né giusta causa, né gms o
gmo, il giudice condanna il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria che va da un
minimo di 12 mensilità ad un massimo di 24, in relazione a criteri quali:
 Anzianità del lavoratore;
 N° dipendenti occupati e dimensioni dell’impresa;
 Comportamento e condizioni delle parti: solo nel caso di licenziamento per gmo il
giudice, per la determinazione dell’indennità tra min e max, tiene conto delle iniziative
assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento di
entrambe le parti.
Dunque, la tutela indennitaria è subordinata alla valutazione di ingiustificatezza del
licenziamento, che però non impedisce a quest’ultimo di produrre i propri effetti.
INDENNITÀ RISARCITORIA RIDOTTA
L’indennità risarcitoria in misura ridotta è prevista per le ipotesi di licenziamento viziato da
difetti di forma o di procedura:
 Licenziamento in forma scritta, ma privo della motivazione.
 Licenziamento in violazione della procedura prevista dall’art. 7 St. lav. (procedimento
disciplinare) e dall’art. 7 l. 604/1966 (il licenziamento per gmo dev’essere preventivamente comunicato dal
datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro del luogo dove il lavoratore presta la sua opera, e al
prestatore stesso, con annesse le motivazioni della decisione).
Inefficacia del licenziamento: Il licenziamento viziato da difetti di forma o procedurali è
inefficace (l’inefficacia è l’invalidità per vizio di forma). In quest’ipotesi, la sanzione per il datore non è
mai la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, ma trova applicazione la tutela
indennitaria ridotta, determinata in relazione alla gravità del vizio formale/procedurale tra un
minimo di 6 mensilità ed un massimo di 12 dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere
di specifica motivazione da parte del giudice.

TUTELA OBBLIGATORIA (ART.8 L. 604/1966)


Area di applicazione: l’ambito di applicazione della tutela obbligatoria è prevista per:
 L’area esclusa dalla tutela reale prevista dall’art. 18 st. Lav.: in cui sono comprese tutte
le piccole imprese con – di 15 dipendenti per unità produttiva, o – di 60 dipendenti
globali.
 Illegittimità del licenziamento per mancata giustificazione (carenza di giusta causa o
giustificato motivo): il datore di lavoro è comunque obbligato a giustificare il
licenziamento; tuttavia, in assenza di giustificazione, egli è obbligato, in alternativa, a:
1. Riassumere il lavoratore entro 3 gg, o in mancanza;
2. Pagargli un’indennità a titolo di risarcimento del danno (penale):
quest’indennità, però, non ha carattere meramente risarcitorio del danno
conseguente al licenziamento illegittimo, ma anche sanzionatorio per
l’inadempimento dell’obbligazione principale (riassunzione), e perciò si tratta di
un’obbligazione con facoltà alternativa a beneficio del datore.
L’indennità può variare tra un minimo di 2,5 mensilità fino ad un massimo di 6
(aumentabile fino a 10 mensilità (+10 anni anzianità) o 14 mensilità (+20 anni anzianità)), in base
all’anzianità del lavoratore, n° dipendenti occupati, dimensioni dell’impresa e
comportamento e condizioni delle parti.

Tutela obbligatoria vs tutela reale: in conclusione, se per i casi di tutela reale il licenziamento
privo di giustificazione è nullo o annullabile, nelle ipotesi di applicazione della tutela
obbligatoria esso, anche se illegittimo, non è annullabile, ma è soltanto illecito, per cui viene
sanzionato mediante obbligazione risarcitoria. L’effetto finale di estinzione del rapporto
lavorativo è ugualmente realizzato, salva l’ipotesi in cui il lavoratore riassuma il lavoratore mediante
un nuovo atto negoziale.

2)DISCIPLINA DEI LAVORATORI ASSUNTI DOPO DEL 7/03/2015

LINEA POLITICA D.LGS. 23/2015


Nel 2014 una legge delega ha previsto l’emanazione di decreti legislativi che potessero
riformare l’allora disciplina del lavoro, prevedendo:
 Per le nuove assunzioni, l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele
crescenti, in base all’anzianità di servizio.
 L’esclusione della possibilità di reintegrazione del lavoratore per i licenziamenti
economici (gmo).
 Limitazione del diritto alla reintegrazione solo ai licenziamenti nulli, discriminatori e
specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.

Obiettivi: il legislatore voleva favorire lo sviluppo economico ed occupazionale ed attrarre


investimenti dall’estero, garantendo, da un lato, maggiore flessibilità alle imprese nella gestione
degli organici e, dall’altro, rendendo più conveniente l’uso del contratto a tempo
indeterminato (disincentivato dall’eccessiva tutela posta a beneficio del lavoratore in caso di licenziamento
illegittimo).

D.lgs. 23/2015: nel 2015 si attua il provvedimento, che prevede:


1) Marginalizzazione della reintegrazione del lavoratore: il lavoratore può essere
reintegrato nel posto di lavoro solo nei casi di:
 Licenziamento discriminatorio.
 Licenziamento nullo.
 Grave abuso del datore di lavoro nell’esercizio del potere di licenziamento.
2) Ridimensione della discrezionalità del giudice: nello stabilire l’entità del risarcimento, il
giudice non potrà più valutare se applicare il min/max delle mensilità, poiché è stato
previsto un “filtro monetario” che permette la risoluzione del contratto di lavoro dietro
pagamento di una somma predeterminata (cosicché il datore sappia già con certezza quanto gli
costerà l’indennità di licenziamento illegittimo del lavoratore).
3) Scoraggiamento al ricorso giudiziale: il Jobs Act ha introdotto una nuova forma di
conciliazione tra datore e lavoratore, incentivata dallo Stato, che consente al primo
un’ulteriore contenimento del costo del licenziamento illegittimo e,
contemporaneamente, può essere vantaggioso anche per il lavoratore.

Interventi modificativi: tuttavia, il d.lgs. 23/2015 è stato modificato nel corso degli anni
seguenti:
1. Decreto dignità (2018): questo provvedimento ha incrementato la soglia minima (4→6
mensilità) e massima (18→36 mensilità) dell’indennità, lasciando inalterato il coefficiente
fisso di 2 mensilità per ogni anno di servizio.
2. Sentenza Corte costituzionale (2018): ha ritenuto illegittimo (per violazione del principio
di ragionevolezza) il criterio di calcolo dell’indennità commisurato alla sola anzianità di
servizio, introducendo altri parametri che ne vadano a determinare l’entità (n° dipendenti
occupati; dimensioni dell’attività economica; comportamento e condizioni delle parti).

CAMPO DI APPLICAZIONE
La nuova disciplina del d.lgs. 23/2015 si applica a:
 Tutti i lavoratori appartenenti alle categorie degli operai, impiegati e quadri assunti
con contratto a tempo indeterminato dall’entrata in vigore del decreto stesso (7
marzo 2015): Vengono quindi esclusi i dirigenti, ai quali si applicherà, di conseguenza, il
vecchio regime previsto dall’art. 18 st. Lav. per tutte le ipotesi di licenziamenti illegittimi.
 Lavoratori già occupati presso datori di lavoro che, a seguito di assunzioni avvenute
con la nuova disciplina, raggiungano le soglie dimensionali dettate dall’art. 18 St. lav.
(+15 lavoratori x unità produttiva; +60 dipendenti complessivi).
 Casi di conversione di contratti a termine e di apprendistato in contratti a tempo
indeterminato successiva all’entrata in vigore del decreto.
 Cambio di appalto: se il lavoratore passa alle dipendenze di un’altra impresa
subentrante nell’appalto, dopo il 7 marzo 2015, l’anzianità di servizio utile per il calcolo
dell’eventuale indennità da licenziamento illegittimo deve ricomprendere tutto il
periodo in cui questo ha lavorato nell’attività appaltata.
L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto, a seguito del subentro di un nuovo
appaltatore, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte di essa.
 Aziende no profit: la disciplina è estesa anche ai datori di lavoro non imprenditori, che
svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, religiosa o di
culto senza scopo di lucro.

PLURALITÀ SANZIONI D.LGS. 23/2015


Anche per la nuova disciplina è prevista la divisione tra reintegrazione piena, attenuata, tutela
indennitaria piena e in misura ridotta, ma con un ridimensionamento dei casi di
reintegrazione.
TUTELA REINTEGRATORIA PIENA
Tutela reintegratoria piena: nella nuova disciplina del licenziamento illegittimo, viene
confermata la reintegrazione nel posto di lavoro per le ipotesi di:
1) Licenziamento discriminatorio.
2) Licenziamento nullo per previsione di legge (tra cui il motivo illecito determinante).
3) Licenziamento inefficace perché dichiarato in forma orale.
4) Licenziamento per disabilità del lavoratore: è assicurata la reintegrazione piena anche
nel caso in cui sussista il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità
fisica/psichica del lavoratore (a differenza della vecchia disciplina che collocava questa ipotesi
nell’ambito del gmo (inidoneità al lavoro), con conseguente applicazione della reintegrazione in misura
attenuata).
Tutela indennitaria: la misura dell’indennità da corrispondere al lavoratore nel periodo di
estromissione dal lavoro (dal licenziamento alla reintegrazione), non è calcolato più sulla base
dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita da questo, ma in base alla retribuzione di
riferimento per il calcolo del TFR.
Tale formula è ripresa non solo in quest’ipotesi, ma per tutte le ipotesi di sanzione meramente
indennitaria, con l’obiettivo, secondo il legislatore, di rendere più chiara l’individuazione delle voci
retributive su cui fare il calcolo. Tuttavia, non è chiaro se tali voci debbano riferirsi all’anno solare o
a quello civile (1° gen-31 dic), creando conseguenze diverse se il licenziamento avviene nel corso
dell’anno.

TUTELA REINTEGRATORIA ATTENUATA


La reintegrazione nel posto di lavoro conseguente all’annullamento del licenziamento viene
limitata ai casi di:
 Licenziamento per gms o giusta causa in cui sia direttamente dimostrata, in giudizio,
l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore: il fatto, la cui insussistenza
può dar luogo alla reintegrazione, dev’essere inteso, nella nuova disciplina, in senso
materiale; inoltre, qualora ricorra tale presupposto, resta estranea ogni valutazione circa
la sproporzione tra il fatto commesso dal lavoratore e il licenziamento.
Nell’individuazione della sanzione, non importa più il principio di proporzionalità, ma
esso rileva soltanto nella fase di valutazione di legittimità del licenziamento. Dunque, la
maggiore novità apportata dalla nuova disciplina risiede proprio nell’aver eliminato il
riferimento alle previsioni dei codici disciplinari riguardo le tipologie di
inadempimento e le relative sanzioni.
 Pre-2015: l’art. 18 St. lav. stabilisce che quando il fatto contestato preveda una
sanzione conservativa, il licenziamento deve essere annullato con applicazione della
reintegrazione. Questa disposizione ha costituito la spinta per l’applicazione del
principio di proporzionalità anche nella fase di individuazione della sanzione,
poiché i giudici facevano una comparazione tra fatto contestato e previsioni del
codice, applicando la reintegrazione in tutti i casi in cui licenziamento risultasse
sproporzionato rispetto alle tipizzazioni contenute nei contratti collettivi.
 Post-2015: venendo meno il principio di proporzionalità anche
nell’individuazione della sanzione, l’area della reintegrazione attenuata si è ridotta
notevolmente.
Il legislatore ha dunque escluso completamente la reintegrazione per licenziamento determinato
da ragioni tecnico-organizzative o produttive (gmo), al fine di garantire maggiore flessibilità al
datore nella scelta dell’organico.
Effetti economici reintegrazione: gli effetti economici relativi alla reintegrazione nel posto di
lavoro sono gli stessi previsti dalla vecchia disciplina, ma con 2 differenze:
a) Il criterio per la misurazione dell’indennità del periodo di estromissione ora è quello
dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR (sempre per un max di 12
mensilità).
b) L’aliunde percipiendum è calcolata su quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire,
accettando una congrua offerta di lavoro in base alla tipologia di contratto (a tempo
indeterminato; determinato; di somministrazione; distanza dal domicilio ecc.).
TUTELA INDENNITARIA PIENA
La nuova disciplina ha esteso il principio di sanzione indennitaria, a scapito di quella
reintegratoria. La legge, infatti, prevede che il lavoratore ha diritto ad una tutela indennitaria in
misura piena quando:
 Licenziamento privo di giustificato motivo o giusta causa: in tal caso, il giudice dichiara
che il rapporto di lavoro è estinto, e condanna il datore al pagamento di un’indennità
non assoggettata a contribuzione previdenziale, e predeterminata in relazione
all’anzianità di servizio.
 Tutti i casi di licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo.
Calcolo indennità: L’importo dell'indennità è pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio.
La norma, inoltre, fissa un importo minimo (6 mensilità→ licenziamento prima di 3 anni di decorrenza del
rapporto) e uno massimo (36 mensilità→ per cui dopo il 18° anno di servizio, l’indennità rimane bloccata e non
crescerà più). All’interno di questo gap, il giudice può determinare la misura indennitaria,
aumentandola rispetto al solo parametro di anzianità di servizio, attraverso altri criteri aggiunti
successivamente dalla sentenza della Corte costituzionale del 2018 (n° dipendenti occupati; dimensioni
dell’attività economica; comportamenti e condizioni delle parti).
Infine, è sempre ammessa la possibilità di risarcimento per ulteriori danni non patrimoniali
subìti dal lavoratore (salute; immagine; dignità professionale...), cui spetta però l’onere della prova.

TUTELA INDENNITARIA RIDOTTA


Anche per la nuova disciplina la tutela indennitaria ridotta trova applicazione nei casi di:
 Licenziamento in forma scritta, ma privo della motivazione.
 Licenziamento in violazione della procedura prevista dall’art. 7 St. lav. (procedimento
disciplinare) e dall’art. 7 l. 604/1966 (il licenziamento per gmo dev’essere preventivamente comunicato dal
datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro del luogo dove il lavoratore presta la sua opera, e al
prestatore stesso, con annesse le motivazioni della decisione).
Calcolo indennità: L’indennità è pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per
il calcolo del TFR per ogni anno di servizio. È stabilito un minimo di 2 mensilità e un massimo
di 12.
Domanda introduttiva del giudizio: è comunque possibile, per il lavoratore, richiedere al
giudice di valutare anche la presenza di vizi sostanziali all’interno del provvedimento di recesso,
affinché ottenga una tutela reintegratoria piena o attenuata, o una tutela indennitaria in
misura piena. In tal caso, comunque, resta a carico del datore l’onere della prova della
legittimità del licenziamento, mentre il lavoratore avrà soltanto il compito di allegare i fatti a
favore della sua tesi.

LICENZIAMENTO NELLA PICCOLA IMPRESA


Il d.lgs. 23/2015 trova applicazione anche per il licenziamento intimato dai datori di lavoro che
non raggiungano i limiti dimensionali dell’art. 18 St. lav.
Tutela reintegratoria: per i casi di licenziamento discriminatorio, intimato oralmente, nullo per
legge ecc. è sempre applicabile la reintegrazione piena nella piccola impresa. Resta, invece,
esclusa la reintegrazione attenuata per l’insussistenza del fatto materiale contestato.
Tutela indennitaria: in tutte le altre ipotesi di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese
trova applicazione la tutela indennitaria, la cui misura è ridotta della metà, con un minimo di 6
mensilità:
 Carenza gms/gmo o giusta causa: 1 mensilità per ogni anno di servizio (min=3; max=6).
 Vizi formali/procedurali: 0,5 mensilità per ogni anno di servizio (min=1; max=6).
DISCIPLINA SPECIALE PER LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO NELLE PA
Per i dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni è stata introdotta una disciplina ad hoc che
prevede:
 Reintegrazione nel posto di lavoro: in tutte le ipotesi di licenziamento illegittimo (nullo
e annullabile); e
 Pagamento di un’indennità risarcitoria: commisurata all’ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del TFR per tutto il periodo di estromissione, in ogni caso non
superiore a 24 mensilità, detratto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento
di altre attività lavorative (aliunde perceptum).
Inoltre, il datore di lavoro deve versare anche i contributi previdenziali e assistenziali
per tale periodo.

INCOERCIBILITÀ DELL’OBBLIGO DI REINTEGRAZIONE


Nelle ipotesi di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, il datore è obbligato a
mandare al prestatore un apposito invito a riprendere il servizio (adempiendo così al suo obbligo di
reintegrazione); se non vi provvede, al contrario, il datore verserà in mora credendi, con la
conseguenza che il lavoratore avrà diritto alle retribuzioni, nonostante l’inattività (retribuzioni che,
quindi, avranno natura risarcitoria).
Il lavoratore, a sua volta, a fronte dell’invito dovrà ottemperare al proprio obbligo entro 30 gg
dalla comunicazione dello stesso, decorsi i quali il rapporto si intenderà risolto per dimissioni.

Perciò, la reintegrazione si configura sia come sanzione del licenziamento illegittimo, ma anche
come obbligo di fare che, in quanto tale, è infungibile e incoercibile.

Prosecuzione del vincolo iuris: qualora non sia possibile la prosecuzione materiale del rapporto
di lavoro, per volontà del datore, a seguito del licenziamento illegittimo, è garantita la
prosecuzione come vincolo iuris. In questo senso, perciò, alla condanna di reintegrazione, si
accompagna la condanna al pagamento di un’indennità risarcitoria (nelle diverse misure previste per
la vecchia e la nuova disciplina).

Natura plurifunzionale indennità: vista così, l’indennità ha più funzioni:


a) Natura risarcitoria del danno subìto dal lavoratore: per il periodo trascorso tra il
licenziamento e la sentenza di reintegrazione.
b) Pena privata o comminatoria: per il successivo inadempimento dell’obbligo di
reintegrazione.
In più, la legge impone al datore di versare anche i contributi previdenziali ed assistenziali
relativi al periodo tra licenziamento e reintegrazione.

Indennità risarcitoria sostitutiva: sia la vecchia che la nuova disciplina prevedono poi
un’ulteriore indennità risarcitoria, sostitutiva della reintegrazione. Infatti, oltre all’indennità
spettante al lavoratore per il periodo di estromissione dal posto di lavoro, quest’ultimo ha il
diritto di optare, entro 30 gg dalla sentenza di reintegrazione, se riprendersi il posto di lavoro o
risolvere il rapporto, obbligando il datore al pagamento di un’ulteriore indennità pari a 15
mensilità di retribuzione globale di fatto (vecchia disciplina) o della retribuzione di riferimento per
il calcolo del TFR (nuova disciplina).
TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO (TFR)

DALL’INDENNITÀ DI ANZIANITÀ AL TFR


Con la l. 297/1982 il legislatore ha profondamente modificato la disciplina previgente attinente
alla cessazione del rapporto, sostituendo l’indennità di anzianità con il trattamento di fine
rapporto (TFR). Il TFR consiste in una somma di denaro dovuta dal datore al prestatore di
lavoro in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato.
Funzione retributivo-previdenziale: il TFR svolge una funzione retributivo-previdenziale
(poiché dovuta in ogni caso di cessazione) che giustifica una particolare tutela al suo effettivo
godimento, anche nel caso in cui il datore sia inadempiente o insolvente, attraverso l’istituzione
presso l’INPS di un apposito fondo di garanzia.
Sistema di calcolo: la principale differenza tra indennità di anzianità e TFR sta nel sistema di
calcolo. Esso non consiste più nel prodotto (ricalcolo) di una quota dell’ultima retribuzione per gli
anni di servizio, ma nella somma di quote di retribuzione accantonate annualmente.

TFR E MECCANISMO DI CALCOLO


L’art. 2120 cc, novellato dalla legge dell’’82, riconosce al lavoratore il diritto al trattamento
economico di fine rapporto, dovuto in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro
subordinato, calcolato in misura proporzionale all’anzianità di servizio.
Calcolo del TFR: per calcolare il TFR bisogna sommare le quote accantonate per ogni anno di
servizio; in particolare, la quota da accantonare è pari alla retribuzione annua/13,5 (frutto della
media rispetto al n° delle mensilità (13 o 14) di solito corrisposte al lavoratore in base ai contratti collettivi).

retribuzione anno 1 retribuzione anno 2


𝐓𝐅𝐑 ecc.
13,5 13,5

Così formato, il TFR rappresenta sia un massimo che un minimo inderogabile dall’autonomia
negoziale individuale e collettiva, per espressa previsione di legge.

In ogni caso, il lavoratore ha un diritto di credito nei confronti del datore solo nel momento di
cessazione del rapporto. Nel corso del rapporto non potrà mai esigere preventivamente la
propria quota di TFR, ma potrà agire giudizialmente solo per accertarne l’entità o per
conservare la garanzia patrimoniale.

BASE DI CALCOLO, FRAZIONABILITÀ INTRO-ANNUALE E INDICIZZAZIONE TFR


Ai fini del calcolo del TFR, la retribuzione annua deve includere tutte le somme corrisposte in
dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale, compreso l’equivalente delle
prestazioni in natura, con l’esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese, salvo
diversa previsione dei contratti collettivi.
Quest’ultimo inciso, trasforma il principio dell’onnicomprensività della retribuzione base da
inderogabile a derogabile, sia in meglio che in peggio, dalla sola autonomia collettiva.

Vi sono poi altre regole previste dell’art. 2120 cc:


 Frazionabilità intro-annuale del TFR.
 Calcolo della quota annuale del TFR per i periodi di assenza per malattia, infortunio e
maternità: in caso di sospensione (totale o parziale) per la quale sia prevista l’integrazione
salariale, dev’essere computato nella retribuzione annua l’equivalente della retribuzione
a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto
lavorativo.
 Indicizzazione TFR: alla fine di ciascun anno di servizio, la quota di retribuzione annua
maturata nell’anno (o frazione di anno) precedente viene incrementata nella misura
fissa dell’1,5%, e dal 75% dell’aumento dell’indice ISTAT dei prezzi di consumo rispetto
all’anno precedente.
DIRITTO DI ANTICIPAZIONE E OPZIONE DEL LAVORATORE PER EROGAZIONE DEL TFR NELLA
RETRIBUZIONE MENSILE
Diritto di anticipazione TFR: la funzione di risparmio del TFR viene in risalto soprattutto per la
previsione della legge che riconosce al lavoratore il diritto di richiedere, dopo almeno 8 anni di
servizio, un’anticipazione del TFR maturato fino a quel momento, per un importo massimo del
70%. Questa anticipazione, però, può essere richiesta 1 sola volta nel corso del rapporto di
lavoro, e viene definitivamente detratta dal TFR una volta concessa.
Il diritto all’anticipazione incontra poi dei limiti, posti a tutela dell’interesse aziendale
all’autofinanziamento dell’impresa:
1) Limiti soggettivi: sono legittimati a richiedere l’anticipazione non più del 10% degli
aventi titolo per aver raggiunto gli 8 anni di anzianità; in ogni caso, non più del 4% del
totale dei dipendenti.
2) Limiti oggettivi: l’anticipazione può essere erogata solo per fini previdenziali, e cioè:
 Per comprovata necessità di cure mediche.
 Per l’acquisto della 1° casa abitativa.
 Per le spese da sostenere nei periodi di fruizione dei congedi, per astensione
facoltativa dal lavoro dei genitori, nei primi 8 anni di vita del bambino.
 Per le spese da sostenere nei periodi di fruizione dei congedi per formazione
del lavoratore.
Ovviamente, il diritto all’anticipazione incontra un limite anche economico che riguarda
l’azienda. Infatti, esso è subordinato dalla disponibilità dei mezzi finanziari dell’azienda; per cui
il diritto all’anticipazione è escluso nel caso di aziende dichiarate in crisi.

Erogazione TFR nella retribuzione mensile: una funzione diversa (incremento della
retribuzione corrente) svolge l’opzione del lavoratore, che abbia maturato almeno 6 mesi di
servizio, di includere la quota del TFR in corso di maturazione nella retribuzione mensile,
riducendone l’entità in misura corrispondente alla cessazione del rapporto di lavoro.
Tale diritto, introdotto in via sperimentale fino a giugno 2016, è un diritto potestativo del
lavoratore, a cui il datore non può opporsi, se esercitato. Perciò, lo Stato ha previsto che i piccoli
imprenditori che possano incontrare difficoltà ad erogare tali somme, possono fare ricorso ad un
finanziamento da parte di istituti di credito e intermediari finanziari.
Tuttavia, questa opzione non ha riscontrato molto successo per i lavoratori, poiché tale quota
integrativa della retribuzione è assoggettata a tassazione ordinaria ai fini dell’imposta sul
reddito del dipendente, e non a quella più favorevole prevista per il TFR; per cui il lavoratore, a
fronte di un’erogazione mensile maggiorata, subirebbe comunque una perdita economica rispetto
a quanto percepirebbe alla cessazione del rapporto.

INDENNITÀ PER CAUSA DI MORTE


In caso di morte del lavoratore, la devoluzione delle somme dovute a titolo di TFR, nonché di
quelle pari all’indennità di mancato preavviso, devono essere corrisposte ai superstiti del
lavoratore (coniuge, figli, parenti entro 3° grado, affini entro 2° grado).
La ripartizione, se non vi è accordo tra i successori, avviene secondo il bisogno di ciascuno, per
cui secondo parte della dottrina, l’indennità per causa di morte non sarebbe assoggettata alle
norme della successione (iure successionis), ma avverrebbe a titolo di retribuzione differita (iure proprio).
Tuttavia, la giurisprudenza dominante opta ancora per la tesi successoria.
Infine, è nullo ogni patto anteriore alla morte del lavoratore attinente all’attribuzione o
ripartizione delle indennità.

AMBITO DI APPLICAZIONE TFR


Le norme relative al TFR vanno aldilà dell’area tradizionale del lavoro subordinato, e si applicano
anche al personale navigante marittimo aereo e a tutti i rapporti di lavoro subordinato per i
quali siano previste indennità di fine rapporto comunque denominate (buonuscita; anzianità) e
disciplinate da qualsiasi fonte legislativa o contrattuale.
L’art. 4 della l. 297/1982 escludeva, in passato, dall’applicazione della normativa il settore del
pubblico impiego; tuttavia, con la privatizzazione del pubblico impiego (1996), anche per i
dipendenti pubblici valgono le regole previste per il settore privato.
Efficacia assolutamente inderogabile: la nuova disciplina del TFR ha efficacia assolutamente
inderogabile (sia in meglio che in peggio) non solo dall’autonomia individuale, ma anche da quella
collettiva. Infatti, la legge dichiara nulle e sostituite di diritto tutte le clausole dei contratti
collettivi che prevedano regole diverse per quanto riguarda le indennità di fine rapporto,
comunque denominate.

FORME VOLONTARIE E COMPLEMENTARI DI PREVIDENZA


Forme di retribuzione differita in funzione previdenziale: può accadere anche che il datore di
lavoro istituisca delle forme volontarie di previdenza, con il contributo dei dipendenti,
sottoposte alle regole del contratto individuale, al fine di erogare prestazioni economiche a
fronte di determinati eventi o bisogni del lavoratore (in caso di cessazione del rapporto, il lavoratore avrà
diritto alla liquidazione della quota eventualmente contribuita (conto individuale) in aggiunta al TFR).

Fondi pensionistici complementari: negli anni ’90 la funzione di risparmio previdenziale del
TFR è stata collegata all’introduzione di fondi pensionistici complementari del sistema
dell’assicurazione obbligatoria. Obiettivo dei fondi pensionistici complementari è consentire
livelli aggiuntivi di copertura previdenziale ai lavoratori dipendenti, autonomi, liberi
professionisti, soci lavoratori di cooperative di produzione, persone che svolgono lavori di cura,
derivanti da responsabilità familiari, non retribuiti, salva sempre la volontarietà dell’adesione da
parte del singolo lavoratore.

I fondi pensione possono essere istituiti dai contratti collettivi (anche aziendali) o, in mancanza,
da accordi fra lavoratori, promossi in ogni caso dai sindacati con maggiore rappresentanza
nazionale.
L’accesso alle forme pensionistiche complementari può essere realizzato attraverso:
 Adesione a fondi aperti: in base alla previsione della contrattazione collettiva (adesioni
collettive).
 Forme pensionistiche individuali.
L’onere del finanziamento dei fondi pensione è a carico dei destinatari (lavoratori) e, nel caso di
lavoratori subordinati o parasubordinati, anche a carico del datore di lavoro o committente.
Al fondo pensione può andare o parte della retribuzione, o altresì mediante conferimento del
TFR (a patto però che il lavoratore scelga tale opzione entro 6 mesi dall’assunzione mediante comunicazione
scritta al datore di lavoro).
Nelle forme pensionistiche complementari collettive è vietata qualsiasi discriminazione
diretta o indiretta per quanto riguarda:
a) Campo di applicazione e relative condizioni di accesso.
b) Obbligo di versamento dei contributi e calcolo degli stessi.
c) Calcolo delle prestazioni e le condizioni relative alla durata e al mantenimento del
diritto alle prestazioni.
TUTELA DEL LAVORATORE NEL MERCATO DEL LAVORO

1)DAL COLLOCAMENTO AI SERVIZI PER IL LAVORO

ISTITUTO DEL COLLOCAMENTO


Per contrastare il fenomeno della disoccupazione frizionale (dovuta all’andamento ciclico dell’economia) o
strutturale la soluzione più antica e gettonata è stato l’istituto del collocamento, concepita
originariamente come mediazione pubblica e gratuita al fine di aiutare la conclusione dei contratti
di lavoro, tutelando i lavoratori sia dalla speculazione degli intermediari privati, ma anche più in
generale dagli effetti negativi dello squilibrio tra domanda e offerta di lavoro. L’istituto del
collocamento ha vissuto varie fasi:
1) Periodo pre-corporativo: in questo periodo nacque il collocamento di classe o sindacale,
in cui i sindacati, istituendo uffici di collocamento, si proponevano di tutelare i lavoratori
nella ricerca di un’occupazione e, in più, di rafforzare il loro potere contrattuale attraverso la
contrattazione delle assunzioni.
2) Periodo corporativo: durante questo periodo il collocamento divenne una funzione
pubblica, col divieto, punito penalmente, di intermediazione tra domanda-offerta di
lavoro da parte dei privati. Tuttavia, non scomparve del tutto l’intervento sindacale in quanto
le concrete funzioni gestionali del collocamento vennero affidate ai sindacati corporativi.
3) Periodo post-corporativo (l. 264/1949): dopo la caduta del periodo corporativo, la l.
264/1949 confermò la funzione pubblica del collocamento e ribadì il monopolio statale
attraverso il divieto di intermediazione privata tra domanda e offerta di lavoro.
Richiesta numerica: inoltre, la l. del ’49 previde un’equa ripartizione delle occasioni di
lavoro mediante la regola dell’”assunzione attraverso richiesta numerica” da parte delle
imprese agli Uffici pubblici di collocamento (cioè con la sola indicazione del numero, della categoria
e qualifica professionale dei lavoratori da assumere), i quali provvedevano all’avviamento dei
lavoratori in base alla loro collocazione nelle liste.
Anche in questo caso, i sindacati non erano estromessi, in quanto questi erano chiamati a
concorrere alle Commissioni costituite a vari livelli (Commissione centrale; regionali; provinciali;
circoscrizionali per l’impiego) per esercitare concretamente la gestione del collocamento.
4) Richiesta nominativa (1991): il servizio di collocamento pubblico ha cominciato a
tramontare innanzitutto col progressivo abbandono dell’assunzione tramite richiesta
numerica, passando ad una sempre più sistematica assunzione tramite richiesta
nominativa.
5) Assunzione diretta-comunicazione successiva (1996): dopodiché nel ’96 è definitivamente
scomparsa l’assunzione tramite richiesta, prevedendosi l’assunzione diretta con
comunicazione successiva alla sezione circoscrizionale per l’impiego.
6) Assunzione diretta-comunicazione preventiva (2006): successivamente, allo scopo di
contrastare il fenomeno del lavoro nero, si è prevista l’assunzione diretta con
comunicazione preventiva al centro territoriale per l’impiego.
Se l’interesse dei datori di lavoro è stato soddisfatto dall’abolizione dell’obbligo di assunzione
tramite richiesta, per contro non ha risolto i problemi di un sistema statale di collocamento
strutturalmente inidoneo a gestire politiche attive di lavoro, e che in più escludeva istituzioni
locali e soggetti privati dalla gestione del mercato del lavoro. In aggiunta a ciò, quest’esclusione
era in contrasto con la normativa europea sulla concorrenza (la Corte di Giustizia dell’UE ha inflitto
parecchie sanzioni all’ITA). Per cui non si poteva più rimandare una riforma che:
 Sostituisse a una mera assistenza passiva e burocratica del lavoratore disoccupato alla ricerca
di un posto di lavoro un sistema di servizi per l’impiego che stimolasse domanda e offerta
di lavoro e supportasse le crisi occupazionali.
 Tenesse conto delle esigenze dei mercati del lavoro locali.
 Utilizzasse anche gli intermediari privati, ma regolamentandone l’attività, onde evitare
fenomeni degenerativi (si veda il caporalato diffuso nel settore agricolo).
DAL COLLOCAMENTO PUBBLICO CENTRALE AI SERVIZI PER L’IMPIEGO REGIONALI E MEDIAZIONE
PRIVATA
Tra il 1997 e il 2003 (con la riforma Biagi) si è avviato il processo di riforma della disciplina del mercato
del lavoro, il quale sostanzialmente si è mosso lungo 3 direttrici:
1) Abolizione divieto di intermediazione privata: si è ammesso sia la fornitura di lavoro
temporaneo, sia la mediazione privata tra domanda e offerta di lavoro. Tuttavia, i
soggetti privati dovevano limitarsi allo svolgimento di 1 sola tra queste attività:
 Somministrazione.
 Intermediazione.
 Ricerca e selezione del personale.
 Ricollocazione professionale.
2) Tramonto del collocamento pubblico statale: la gestione del collocamento e della
politica attiva del lavoro venne attribuita alle Regioni, grazie alla riforma federalista
dell’amministrazione pubblica (riforma Bassanini 1997).
3) Passaggio dalla funzione di collocamento al servizio per l’impiego: sul piano legislativo,
questa svolta fu realizzata su 3 versanti:
a) Struttura dei servizi dell’impiego: i centri territoriali per l’impiego erano situati
sul territorio a livello provinciale.
b) Definizione delle misure di politica attiva del lavoro e dei suoi destinatari.
c) Strumentazione per la gestione dei servizi per l’impiego:
 Fu abolito il libretto di lavoro, sostituito dalla scheda anagrafico-
professionale;
 Furono abolite le liste di collocamento e l’iscrizione a queste, sostituite
dall’anagrafe dei lavoratori e dalla dichiarazione di immediata
disponibilità (DID);
 Si istituirono sistemi informatici volti ad agevolare la circolazione delle
informazioni relative a chi cerca/offre lavoro.
Istituti vecchio sistema di collocamento: del vecchio sistema di collocamento si sono salvati
solo 2 istituti:
1. Intermediazione pubblica esclusiva per l’inserimento lavorativo dei disabili e
all’avviamento a selezione presso le PA.
2. Obblighi informativi a carico dei datori di lavoro: gli obblighi informativi sono finalizzati
a contrastare il fenomeno del lavoro irregolare e a controllare il comportamento dei lavoratori
disoccupati.

COMPETENZE AMMINISTRATIVE E LEGISLATIVE DELLE REGIONI


Tra il 1997-2001, con la riforma Bassanini, è stata portata a termine la riforma in senso federalista
del nostro sistema, mediante trasferimento di funzioni amministrative statali alle Regioni in
primo luogo, e poi attraverso l’attribuzione a queste di competenze legislative.
D.lgs. 469/1997: relativamente al mercato del lavoro, con un decreto del ’97 furono decentrati
alle Regioni le funzioni e i compiti relativi al collocamento, all’incontro tra domanda-offerta di
lavoro, a tutte le iniziative volte ad incrementare l’occupazione e anche tutte le funzioni e i
compiti attinenti alla politica attiva del lavoro.
Centri per l’impiego: il d.lgs. 469/97 ha inoltre attribuito alle Province le funzioni e i compiti
relativi alle varie forme di collocamento e ha previsto l’istituzione da parte di quest’ultime dei
Centri per l’impiego (in sostituzione delle Sezioni Circoscrizionali per l’Impego, che a loro volta avevano sostituito
gli Uffici di collocamento), per poter gestire ed erogare i servizi ai compiti e alle funzioni attribuitegli.
Riforma costituzionale (2001): il decentramento amministrativo cominciato con la riforma
Bassanini si è rafforzato con la riforma costituzionale del 2001, la quale ha previsto che tra le
materie di competenza concorrente tra Stato-Regioni ci fosse anche la tutela e la sicurezza del
lavoro. Ad oggi la disciplina dei servizi per l’impiego e del collocamento sono di competenza
delle Regioni, le quali però seguono le direttive fissate dallo Stato.
Risposta delle Regioni: si è accentuata la differenza organizzativa e la capacità di governare il
fenomeno del collocamento tra le varie regioni, di gran lunga maggiore al Nord e molto inferiore
al Centro-Sud. Per di più, dopo la riforma costituzionale del 2001, il gap si è ulteriormente
allargato, come dimostra la perdurante assenza di leggi regionali sul mercato del lavoro in alcune
regioni del Sud, contrariamente all’adozione di buone leggi in materia al Nord.

INTERMEDIAZIONE PRIVATA
In passato, vigeva il divieto di mediazione (individuazione dei lavoratori da collocare) ed intermediazione
privata (assunzione di lavoratori da altri utilizzati) tra domanda-offerta di lavoro, la cui inosservanza era
punita con sanzioni a livello penale.
D.lgs. 469/97: tale divieto crollò a partire dal ’97, sia pure con un intervento legislativo molto
timoroso dei contraccolpi. Per questo si spiegano i limiti posti alla fornitura di lavoro temporaneo
e il vincolo di esclusività dell’attività di mediazione rispetto a quella di intermediazione.
Riforma Biagi (2003): col d.lgs. 276/2003 si è fatto un passo avanti per la liberalizzazione
dell’attività di intermediazione del mercato del lavoro, venendo meno:
 Molte limitazioni riguardanti la fornitura di lavoro temporaneo, ora somministrato.
 Il vincolo di esclusività, consentendo alle neo-costituite agenzie per il lavoro di svolgere
attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione di personale e
ricollocazione al lavoro.
Limiti mediazione privata: gli unici limiti all’attività di mediazione privata (che in realtà riguardano
anche quella pubblica) provengono da una serie di disposizioni definibili come statuto protettivo del
lavoratore nel mercato, le quali lo tutelano quando si pone alla ricerca di un’occupazione:
 Ambito di diffusione dei dati del lavoratore: compete al lavoratore definire l’ambito di
diffusione dei propri dati all’interno del sistema di circolazione degli stessi.
 Comunicazioni: le comunicazioni relative ad attività di ricerca e selezione del personale;
ricollocamento professionale; intermediazione/somministrazione attraverso stampa,
internet, televisione o altri mezzi informativi, deve avvenire su iniziativa di soggetti
autorizzati e nel rispetto delle modalità di legge.
 Legittimazione attività di intermediazione dei gestori di siti internet: i gestori di siti
internet possono svolgere attività di intermediazione a patto che lo facciano senza fini di
lucro e che rendano pubblici sul proprio sito i dati identificativi del legale rappresentante.
 Divieto di indagine su opinioni e divieto di trattamenti discriminatori nell’attività di
intermediazione.
 Gratuità dell’attività di mediazione per i lavoratori, non anche per i datori di lavoro.
Al servizio pubblico fu mantenuta la competenza in merito all’inserimento al lavoro dei disabili
e all’avviamento a selezione presso le PA.
Ci sono voluti altri 10 anni per devolvere totalmente al privato l’attività di mediazione, finanche
alle categorie più svantaggiate, compresi i disabili.

RICENTRALIZZAZIONE DELLE COMPETENZE (JOBS ACT 2)


Vista l’incapacità delle Regioni, specie quelle del Sud, di garantire su tutto il territorio nazionale
un uniforme livello essenziale di prestazione in tema di servizi per l’impiego e di politica attiva
del lavoro, nel 2014, con la riforma Renzi (Jobs Act 2), si è voluta modificare la disciplina del
mercato del lavoro attraverso vari decreti susseguitesi nel corso degli anni.
Obiettivi Jobs Act 2: tali interventi legislativi si sono focalizzati sulla:
 Ricentralizzazione delle competenze del mercato del lavoro: con il Jobs Act 2 si è voluto
decretare la fine del federalismo, re-attribuendo allo Stato le competenze in materia di
mercato del lavoro, precedentemente affidate alle Regioni.
 Informatizzazione della gestione del mercato del lavoro: tutti i dati relativi ai disoccupati
e alle imprese si trovano sulle banche dati digitali, in modo da garantire più velocemente e
adeguatamente la circolazione dei dati.
 Integrazione delle politiche attive e passive del lavoro: si è deciso di concedere un
sostegno al reddito dei disoccupati nell’attesa di una loro ricollocazione.
Riforma ammortizzatori sociali: parallelamente a questa riforma, nel 2015 vi è stata anche la
riforma degli ammortizzatori sociali, riguardante soprattutto la tutela della disoccupazione
involontaria e il sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro.
Questa riforma ha ridotto la durata dell’intervento di sostegno collegandolo, per la disoccupazione
involontaria, alla contribuzione versata nel 4 anni precedenti tale intervento, e decrementandone
l’entità col passare dei mesi (decalage), allo scopo di spingere il disoccupato a cercare di uscire più
rapidamente dallo stato di disoccupazione. L’attivazione del disoccupato viene affidata ad una
serie di misure di politica attiva che è suo diritto ricevere dai servizi per il lavoro, ma anche suo
obbligo accettare attraverso il meccanismo della “condizionalità”, caratterizzato da uno stringente
regime sanzionatorio.

Critiche riforma Renzi: alla riforma del Jobs Act 2 sono state mosse diverse critiche:
1) Il contrasto tra la ricentralizzazione delle competenze e l’art. 117 Cost.
2) Con riferimento all’integrazione tra politiche attive e passive, i tempi dell’operazione, dato
che la minore tutela “della” disoccupazione è già operativa, mentre la maggiore tutela
“contro” la disoccupazione è condizionata dalle concrete capacità dell’Agenzia
Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (ANPAL) su cui si regge l’intera riforma.
3) La configurazione assicurativa data agli ammortizzatori sociali (minore durata, collegamento
alla contribuzione versata, decalage), tale da aumentare il bisogno, ma diminuire la protezione,
quasi attribuendo la colpa al lavoratore del proprio stato di disoccupazione.

RIPARTO DELLE COMPETENZE NEL JOBS ACT 2


Il d.lgs. 150/2015 ha abrogato il precedente d.lgs. 469/1997, disponendo che per quanto riguarda
le competenze vengono divise tra Ministero del lavoro e le regioni + PATB, per le attività di
rispettiva competenza, i quali esercitano il ruolo di indirizzo politico, individuando strategie,
obiettivi e priorità; mentre la “cabina di regia” dell’intera politica attiva del lavoro è affidata alla
neo-costituita ANPAL.
ANPAL: innanzitutto, nello scegliere il nome, il legislatore ha preferito la locuzione “nazionale” a
“statale”, dando risalto alla partecipazione delle regioni e PATB all’interno di essa.
L’ANPAL svolge funzioni di coordinamento, regolazione di alcuni istituti, gestione del SIUPoL,
vigilanza e valutazione, e si sostituisce alle Regioni nel caso di loro inerzia.
Princìpi ANPAL: allo scopo di garantire i LEP, il Ministero del lavoro stipula con ogni regione e
PATB una convenzione che regola i relativi rapporti e obblighi, in relazione alla gestione dei servizi
per il lavoro e delle politiche attive del lavoro nel territorio della regione o provincia autonoma,
nel rispetto del d.lgs. 150/2015 e di alcuni principi, quali:
 Attribuzione delle funzioni e dei compiti amministrativi in materia di politiche attive del
lavoro alle Regioni e alle Province Autonome, che garantiscono l’esistenza e la funzionalità
dei Centri per l’impiego.
 Individuazione, da parte delle strutture regionali, di misure di attivazione dei beneficiari
di ammortizzatori sociali residenti nella Regione o provincia autonoma.
 Disponibilità dei servizi e delle misure di politica attiva del lavoro per tutti i residenti sul
territorio nazionale, a prescindere dalla regione o provincia autonoma.
 Attribuzione a Regioni e PATB delle funzioni e dei compiti riguardanti l’ausilio alla ricerca
di un’occupazione per i disoccupati, l’orientamento specialistico e individualizzato,
l’avviamento ad attività di formazione per la qualificazione/riqualificazione
professionale e altre misure di politica attiva (art. 18 d.lgs. 150/2015), nonché i servizi di
collocamento dei disabili e l’avviamento a selezione per l’assunzione presso le PA.
 Possibilità di attribuire all’ANPAL 1 o più funzioni del punto precedente.
Agenzie per il lavoro: con tale riforma cresce anche il concorso delle agenzie per il lavoro private
rispetto ai servizi di collocamento, con la domanda che sorge spontanea se venga privilegiata la
cooperazione o la supplenza rispetto alle Regioni. Dal d.lgs. 150/2015 emerge che:
 Le agenzie per il lavoro sono dentro la Rete.
 Ad esse sono delegabili, se previsto dalla convenzione Ministero del lavoro-Regioni, tutte le
misure di politica attiva del lavoro, ad eccezione del Patto di Servizio Personalizzato
(PSP→ patto siglato con il proprio Centro per L’impiego che è obbligatorio per chiunque riceva un assegno di
disoccupazione; il PSP permette al lavoratore disoccupato, da una parte, di accedere a sussidi come NASPI, ASDI e
Dis. Coll., ma dall’altra lo lega alla partecipazione ad attività di politiche attive, come la partecipazione a corsi di
formazione e di riqualificazione professionale, tendenti a favorire la ricollocazione sul mercato del lavoro) e
dell’Assegno Individuale di Ricollocazione (AIR→ consiste in un importo da utilizzare presso i soggetti
che forniscono servizi di assistenza personalizzata per la ricerca di occupazione (centri per l’impiego o enti accreditati ai
servizi per il lavoro).
 I costi standard delle attività delegate alle agenzie vengono fissati da ANPAL.
 Per l’utilizzatore dei servizi per il lavoro è data facoltà di scelta tra servizio pubblico o
privato, sotto il controllo di ANPAL.
Da ciò desumiamo, dunque, che è stata scelta la strada della cooperazione, ma non si esclude la
supplenza in alcuni casi.

SIUPoL: elemento essenziale per l’integrazione tra politiche attive e passive del lavoro è
sicuramente la raccolta e la circolazione dei dati relativi ai soggetti che concorrono alla gestione
del mercato del lavoro (INPS; Regioni; soggetti privati accreditati; disoccupati; datori di lavoro). Questa infinità di
dati e informazioni viene gestito dal SIUPoL, nel quale confluiscono tutti i dati registrati
dall’ANPAL, INPS, ISFOL (ora INAPP), Regioni + PATB e Ministero del Lavoro.

Fascicoli elettronici: i dati di ogni singolo utente sono consultabili attraverso 2 fascicoli
elettronici:
 Fascicolo elettronico del lavoratore (FEL): in sostituzione del libretto formativo del
cittadino, per i lavoratori si è creato il FEL, contenente informazioni relative a percorsi
educativi e formativi svolti, periodi lavorativi, fruizione di provvidenze pubbliche e
versamenti contributivi ai fini della fruizione degli ammortizzatori sociali.
 Fascicolo dell’azienda (FEA): per le aziende, invece, è stato creato il FEA, contenente tutte
le comunicazioni obbligatorie, all’interno della banca dati, relative alle politiche attive del
lavoro e agli incentivi erogati ai datori di lavoro.

STATO DI DISOCCUPAZIONE
Il d.lgs. 150/2015 ha modificato la disciplina relativa all’acquisizione, al mantenimento e alla
perdita dello stato di disoccupazione. Sul punto è intervenuto successivamente anche il d.l.
4/2019, il quale considera in stato di disoccupazione non solo i soggetti privi di impiego e che si
dichiarino immediatamente disponibili al lavoro (DID), o a partecipare a misure di politica attiva, ma
anche i lavoratori precari occupati che hanno un reddito annuo che ricada nella “no tax area”.

No tax area: secondo ANPAL, il lavoratore dipendente permane nella no tax area se ha redditi da
lavoro dipendente (o assimilati) non superiori a 8.145€ l’anno, indipendentemente dalla durata
del rapporto di lavoro e al netto dei contributi a carico del lavoratore (ai fini IRPEF). In caso di
lavoratore autonomo, la no tax area si abbassa fino a 4.800€ annui.

Dichiarazione immediata disponibilità (DID): l’acquisizione dello stato di disoccupazione è


condizione imprescindibile per la presa in carico del disoccupato da parte dei servizi per il
lavoro, nonché per l’erogazione dei trattamenti di sostegno al reddito (NASpI; DIS-COLL; RdC). Per
acquisire lo stato di disoccupazione, bisogna sottoscrivere la DID e inviarla telematicamente al
SIUPoL. Tuttavia, i percettori di trattamenti di disoccupazione sono esonerati dalla presentazione
della DID, poiché la richiesta del trattamento equivale a DID.
Una volta registratosi, il disoccupato riceverà dal sistema informatizzato la classe di profilazione di
riferimento, a seconda del proprio livello di occupabilità. I percettori di trattamenti di sostegno
al reddito hanno priorità sugli altri in caso di disoccupazione per cessazione del rapporto di lavoro.
In ogni caso, la profilazione è dinamica in quanto viene aggiornata ogni 90 gg.

Sospensione stato di disoccupazione: una volta acquisito lo stato di disoccupazione, può essere
sospeso in caso di rapporto di lavoro subordinato di durata non superiore a 6 mesi, fermo
restando che bisognerà considerare anche se il reddito, derivante dall’occupazione, rientri o meno
nella no tax area, in quanto:
 No tax area: se il reddito rientra nella no tax area, il soggetto sarà comunque considerato
disoccupato, anche qualora il rapporto di lavoro dovesse avere una durata superiore a 6
mesi.
 Tax area: se il reddito è superiore alla no tax area, lo stato di disoccupazione sarà sospeso
per massimo 6 mesi. A decorrere dal 181° gg, il soggetto non sarà più considerato
disoccupato.
La disciplina della sospensione dello stato di disoccupazione muta in relazione alle varie fattispecie:
1) Contratto di lavoro intermittente: se il disoccupato riceve un contratto di lavoro
intermittente, conserva lo stato di disoccupazione per tutta la durata del contratto, a
patto però che la retribuzione annua non superi la no tax area.
Invece, la situazione cambia se nel contratto è presente o meno dell’obbligo di risposta
da parte del lavoratore e, quindi, della correlata indennità di disponibilità per i periodi
non lavorativi:
 Assenza di obbligo di risposta e ricevimento di indennità: lo stato di
disoccupazione resta sospeso nei periodi di effettivo svolgimento dell’attività
lavorativa, mentre nei periodi di non lavoro, il soggetto è considerato disoccupato.
 Obbligo di risposta e ricevimento di indennità: lo stato di disoccupazione è
sospeso per tutta la durata del contratto se la retribuzione annua prospettica sia
superiore a 8.145€. Tuttavia, se il lavoratore svolge più di 180 gg continuativi di
lavoro effettivo, decade dallo stato di disoccupazione, se la retribuzione annua
prospettica superi 8.145€.
2) NASpI: la NASpI è una indennità mensile di disoccupazione che spetta ai lavoratori con
rapporto di lavoro subordinato che hanno perduto involontariamente l'occupazione. In
merito alla sospensione dello stato di disoccupazione, si usa distinguere i lavoratori percettori
di NASpI in base a che instaurino un:
 Rapporto di lavoro subordinato: in questo caso:
 Se il reddito annuale derivante dalla nuova occupazione supera 8.145€, il
lavoratore decadrà dall’erogazione della NASpI, a meno che il rapporto di
lavoro non abbia durata superiore a 6 mesi, dove la prestazione verrà
sospesa d’ufficio per tutta la durata del rapporto lavorativo.
 Se il reddito annuale derivante dalla nuova occupazione è inferiore a 8.145€,
si avrà la conservazione del diritto alla prestazione, seppur in maniera
ridotta, a patto però che sia comunicato all’INPS il reddito annuo previsto,
entro 30 gg dall’inizio dell’attività lavorativa, e che il datore (o utilizzatore→
contratto di somministrazione) siano diversi dal datore (o utilizzatore) per i quali
il lavoratore prestava la propria attività quando è cessato il rapporto di
lavoro, determinando il diritto alla NASpI.
 Rapporto di lavoro autonomo: se il percettore di NASpI avvii un’attività lavorativa
autonoma o un’impresa individuale, il cui reddito annuo previsto rientri nella no
tax area, con obbligo di informare l’INPS entro 30 gg, egli continuerà a percepire la
NASpI, ma di un importo ridotto dell’80% del reddito previsto. Successivamente,
la riduzione è calcolata d’ufficio al momento della presentazione della
dichiarazione dei redditi.
3) DIS-COLL: il DIS-COLL è un’indennità di disoccupazione mensile per collaboratori
coordinati e continuativi, anche a progetto, assegnisti di ricerca e dottorandi di ricerca
con borsa di studio che hanno perso involontariamente la propria occupazione. La sua
erogazione è condizionata non solo dalla permanenza nello stato di disoccupazione, ma
anche dalla partecipazione ad iniziative di attivazione lavorativa e percorsi di
riqualificazione professionale proposti dai Servizi competenti.
Se il percettore di DIS-COLL instaura un nuovo:
 Rapporto di lavoro subordinato: se il nuovo rapporto di lavoro ha durata
superiore a 5 gg, decade la prestazione di DIS-COLL; viceversa, rimarrà sospesa se
il contratto ha durata inferiore.
 Rapporto di lavoro autonomo: se invece il percettore avvii un’attività di lavoro
autonomo o impresa individuale con un reddito annuo auspicabile non superiore
alla no tax area, deve comunicare all’INPS entro 30 gg dall’inizio dell’attività il
reddito annuo che prevede di trarne. In tal caso, avrà diritto al mantenimento della
DIS-COLL, ma con un importo ridotto dell’80%, fino alla presentazione della
dichiarazione dei redditi, in cui la riduzione verrà ricalcolata d’ufficio. In caso di
mancata comunicazione all’INPS, il lavoratore decadrà dal diritto alla DIS-COLL.

Decadenza dello stato di disoccupazione: oltre ai casi appena visti, vi sono altri casi in cui
concorre la decadenza dello stato di disoccupazione:
a) 3° mancata presentazione alle convocazioni/appuntamenti per la profilazione, la stipula
del PSP o la frequenza ordinaria di contatti col responsabile delle attività, senza
giustificato motivo.
b) Mancata partecipazione ad iniziative di orientamento, 2° mancata partecipazione alle
iniziative di carattere formativo, riqualificazione o altre forme di politica attiva, senza
giustificato motivo.
c) Mancata accettazione di un’offerta di lavoro congrua, senza giustificato motivo.

PATTO DI SERVIZIO PERSONALIZZATO (PSP)


Tra i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) il d.lgs. 150/2015 inserisce il PSP. Infatti, quest’ultimo
prevede iniziative di attivazione a favore del disoccupato e l’impegno di quest’ultimo a
parteciparvi, costituendo la base giuridica della condizionalità.

Sanzioni: il decreto prevede delle sanzioni sia per:


 Lavoratore: se non si presenta, il disoccupato non potrà godere dei trattamenti di
sostegno al reddito e all’assegno di ricollocazione (AIR).
 Centro per l’impiego: se non convoca entro 60 gg dalla registrazione del disoccupato,
quest’ultimo ha diritto di richiedere all’ANPAL le credenziali personalizzate per l’accesso
diretto alla procedura telematica di profilazione predisposta dall’ANPAL, per poter godere
dell’AIR. Dunque, una vera e propria sanzione per gli addetti dei centri per l’impiego non è
espressamente prevista.

Misure di attivazione dell’utenza: l’oggetto del PSP è l’attivazione di chi cerca lavoro
(disoccupato; mai occupato; beneficiario di ammortizzatori sociali ecc.), ma anche di lavoratori già occupati che
vogliono cercare un’altra occupazione (con priorità per i primi), attraverso percorsi personalizzati di
istruzione-formazione professionale-lavoro.
Le singole misure di attivazione sono rimesse ai centri per l’impiego e costituiscono LEP.
L’attivazione è estesa anche ai disabili.
L’attività dei centri per l’impiego può essere delegata anche a soggetti privati accreditati e
garantendo in ogni caso all’utente la possibilità di scegliere tra servizio pubblico e privato, ad
eccezione del PSP e del rilascio dell’AIR.
RIPERSONALIZZAZIONE DELLA CONDIZIONALITÀ
Meccanismo di attivazione e condizionalità: chi riceve un sostegno al reddito (politica
passiva), si deve impegnare a partecipare a misure di politica attiva del lavoro, o accettare offerte
di lavoro congrue, pena la riduzione/perdita del sostegno economico e dello stato di
disoccupazione. Infatti, il meccanismo di condizionalità prevede il principio di gradualità delle
sanzioni:
 Prima la decurtazione progressiva del sostegno al reddito (prima ¼ mensilità, poi intera)
attraverso il decalage (-3% dal 4°mese)
 Fino alla perdita completa della prestazione e dello stato di disoccupazione.
La riforma Renzi ha voluto ripersonalizzare il meccanismo di condizionalità, sanando la frattura
creatasi nel 2004 e accentuatasi nel 2012.

Excursus normativo:
 D.lgs. 181/2000: tale decreto definiva “congrua” la proposta di lavoro che tenesse conto
della professionalità posseduta dall’interessato.
 D.lgs. 297/2002: la stessa norma, modificata nel 2002, collegava la congruità alla durata
del rapporto offerto (differenziata tra giovani e non) e alla sua collocazione geografica.
Requisito della durata del rapporto che successivamente scomparve a seguito della 2°
modifica della riforma Fornero (2012).
 L. 291/2004: il legislatore ha adottato una nozione di offerta congrua, riferita ai percettori
di trattamenti di disoccupazione, totalmente sganciata dalla professionalità posseduta
dall’interessato, ma agganciata al dato retributivo (livello retributivo non inferiore al 20% rispetto
al livello delle mansioni di provenienza) e alla collocazione geografica.
 Legge Fornero (2012): la frattura viene ulteriormente accentuata in quanto viene preso
come livello retributivo di riferimento l’importo lordo dell’indennità di disoccupazione
cui l’interessato ha diritto, maggiorata di almeno il 20%, confermandosi in ogni caso il
requisito della collocazione geografica.
 Riforma Renzi (2015): la frattura viene in parte ricomposta dalla riforma Renzi, la quale
prevede che, dopo aver individuato le misure di politica attiva, è prevista la profilazione del
disoccupato da aggiornare periodicamente (ogni 90 gg) e la stipula del PSP che tiene conto
della profilazione. L’obiettivo di tale riforma è ridare importanza alla professionalità e alle
competenze possedute dal disoccupato, attraverso PSP e congrua offerta di lavoro.
Congruità dell’offerta: per quanto riguarda la “congruità” dell’offerta di lavoro, si tiene conto di
4 indici:
1) Coerenza con le esperienze maturate.
2) Durata della disoccupazione: la durata dello stato di disoccupazione viene considerata
secondo 3 intervalli temporali (0-6 mesi; 6-12 mesi; +12 mesi), ai quali viene agganciata la
rilevazione delle esperienze/competenze maturate.
3) Collocazione geografica: la durata della disoccupazione incide anche sulla congruità
dell’offerta di lavoro dal punto di vista della collocazione geografica.
 Primi 12 mesi disoccupazione: l’offerta è congrua quando il luogo di lavoro è a non
più di 50 km dal domicilio, o sia raggiungibile mediamente in 80 min con i trasporti
pubblici. In assenza di mezzi pubblici, vi è una riduzione del 30% delle distanze (35
km).
 Oltre 12 mesi disoccupazione: l’offerta è congrua se il luogo di lavoro dista non
più di 80 km o sia raggiungibile mediamente in 100 min coi trasporti pubblici. In
assenza di mezzi pubblici, vi è una riduzione del 30% delle distanze (56 km).
4) Retribuzione: per i soggetti beneficiari di NASpI e AIR, indipendentemente dalla durata
dello stato disoccupazionale, l’offerta di lavoro è congrua se la retribuzione è superiore
di almeno il 20% rispetto all’indennità percepita nell’ultimo mese precedente, o del 10%
per i beneficiari del RdC.
L’offerta di lavoro è congrua quando ricorrono contestualmente i seguenti requisiti:
a) Rapporto di lavoro a tempo indeterminato o determinato/di somministrazione non
inferiore a 3 mesi.
b) Rapporto di lavoro a tempo pieno o con un orario di lavoro non inferiore all’80%
dell’orario dell’ultimo contratto di lavoro.
c) Retribuzione non inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi.

Disabili: per quanto riguarda l’offerta di lavoro congrua relativa ai disabili, questa deve tener
conto delle condizioni psico-fisiche del soggetto, a cui non si possono richiedere prestazioni
lavorative incompatibili con le loro minorazioni.

Rifiuto proposta di lavoro: il lavoratore, a cui pervenga una proposta di lavoro, può rifiutarne
l’offerta, andando incontro a diverse conseguenza a seconda che vi sia:
 Rifiuto legittimo: rifiuto dell’offerta di lavoro che, seppur rispetti il criterio della
retribuzione (retribuzione superiore 20% NASpI/AIR/RdC ultimo mese), non rispetti il criterio della
coerenza con le esperienze maturate.
 Rifiuto illegittimo: il rifiuto da parte del disoccupato di un’offerta di lavoro congrua fa
decadere il diritto alla prestazione e dello stato di disoccupazione, fermo restando
comunque l’obbligo di comunicazione e documentazione del giustificato motivo di
rifiuto entro 2 gg lavorativi dalla proposta dell’offerta di lavoro congrua.

LAVORO NERO E CONDIZIONALITÀ


All’inefficacia dei sistemi di condizionalità, a carico del disoccupato percettore di sostegni al
reddito, concorrono 2 fattori:
a) Inefficacia dei servizi per l’impiego regionalizzati.
b) Lavoro nero (o sommerso), alimentato proprio dai percettori di sostegno al reddito.

Per contrastare questo fenomeno, il Jobs Act 2 ha adottato alcune misure:


 Ispettorato nazionale del lavoro: la riforma ha costituito l’Ispettorato Nazionale del
lavoro, i cui compiti sono quelli di:
 Controllare la legalità del rapporto di lavoro sia dal punto di vista contrattuale che
previdenziale;
 Intervenire in caso di accertata violazione delle 2 condizioni precedenti;
 Verificare la tutela di salute e sicurezza lavorative;
 Verificare le prestazioni da riconoscere in caso di infortuni e malattie per cause
lavorative.
 L’Ispettorato ha una stretta interconnessione informativa con INPS, INAIL e
Agenzia delle entrate.
 Revisione sanzioni: le misure più importanti sono 2:
1) Maxi-sanzione per lavoro nero: per i datori che utilizzino lavoratori irregolari,
possono subire una multa che può arrivare fino a 36.000€ se superano 60 gg di
effettivo utilizzo, incrementata del 20% per lavoratori stranieri e minori.
2) Ammissibilità della diffida: possibilità per il datore di mettere a contratto i
lavoratori irregolari con durata del rapporto anche part-time minima garantita
(possibilità prima esclusa).
Nella legge di stabilità per il 2019, inoltre, si sono aggiunti ulteriori inasprimenti:
3) Aumento del 20% degli importi delle sanzioni per lavoro nero.
4) Raddoppio delle maggiorazioni per i datori di lavoro che, nei 3 anni precedenti,
abbiano ricevuto sanzioni amministrative e penali per questi illeciti.

ASSEGNO INDIVIDUALE DI RICOLLOCAZIONE (AIR)


L’AIR è una somma di denaro spendibile presso i centri per l'impiego o servizi accreditati, al fine
di ottenere un servizio di assistenza intensiva nella ricerca di lavoro. L'importo dell'assegno
cambia a seconda del grado di complessità del percorso di affiancamento e dal tipo di contratto a
cui punta l'eventuale assunzione, e varia da un da un minimo di 250€ ad un massimo di 5000€. Il
contributo non viene versato al soggetto disoccupato, bensì all'ente prescelto, ma a patto che il
progetto raggiunga effettivamente l'obiettivo di una nuova occupazione.

Destinatari: il limite dell’AIR è la ristrettezza dei beneficiari. Infatti, i destinatari sono:


1) Percettori di NASpI, la cui durata della disoccupazione ecceda i 4 mesi: il disoccupato
deve chiedere il servizio entro 2 mesi dal rilascio dell’AIR, il quale ha una durata
semestrale, prorogabile di ulteriori 6 mesi ove non sia stato interamente consumato.
Qualora non lo richieda, invece, il disoccupato decade dallo stato di disoccupazione e
dalla prestazione di sostegno al reddito.
2) Lavoratori destinatari di accordi di ricollocazione e coinvolti in procedure di
riorganizzazione o di crisi aziendale (procedure di Cassa Integrazione): i lavoratori in
esubero possono richiedere all’ANPAL, entro 30 gg dalla sottoscrizione dell’AIR,
l’erogazione anticipata di quest’ultima, ma a determinate condizioni, con la possibilità di
spenderlo durante la CIGS, per ottenere un servizio intensivo di assistenza nella ricerca di
un altro lavoro, di durata corrispondente a quella della CIGS o comunque non inferiore a
6 mesi, prorogabili di ulteriori 12 mesi nel caso di mancato utilizzo dell’intero ammontare
dell’AIR.
Inoltre, per i lavoratori in esubero è prevista l’esenzione del reddito imponibile ai fini
IRPEF delle somme percepite in dipendenza della cessazione del rapporto lavorativo per
un massimo di 9 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, cui si
aggiunge il diritto all’erogazione di un contributo mensile del 50% del trattamento CIGS
che sarebbe stato altrimenti corrisposto.
Per contro, al datore che assume il lavoratore in esubero, è riconosciuto uno sgravio dei
contributi previdenziali a suo carico pari al 50% (ad eccezione dei premi INAIL con massimale annuale
pari a 4.030€), per una durata:
 Non superiore a 18 mesi in caso di assunzione con contratto a tempo
indeterminato.
 Non superiore a 12 mesi per assunzione con contratto a tempo determinato,
prorogabili di altri 6 mesi in caso di trasformazione.

LAVORATORI SOCIALMENTE UTILI (LSU)


Il Jobs Act 2 ha previsto anche che, allo scopo di mantenere e sviluppare le competenze acquisite,
alcune categorie di lavoratori (LSU), possono essere chiamati a svolgere attività a fini di pubblica
utilità, a beneficio della comunità territoriale di appartenenza, sotto la direzione e il coordinamento
di amministrazioni pubbliche nel territorio del comune ove siano residenti. Le Regioni e PATB
stipulano, con le amministrazioni operanti sul territorio, specifiche convenzioni, sulla base della
convenzione quadro predisposta dall'ANPAL.
Destinatari: i destinatari di queste attività socialmente utili sono:
 Disoccupati fruitori di CIG o di altri strumenti di sostegno al reddito.
 Disoccupati ultra-60enni che non abbiano ancora maturato il diritto alla pensione
anticipata o di vecchiaia.
L’utilizzazione di questi soggetti, tuttavia, non determina l’instaurazione di un rapporto di lavoro,
ma questi vengono comunque assicurati contro gli infortuni presso l’INAIL dagli enti utilizzatori.

REDDITO DI CITTADINANZA (RdC)


La presa d’atto della dilagante condizione di povertà in cui versano milioni di italiani è la ragione per
cui è nato il RdC (d.l. 4/2019), misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del
diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla diseguaglianza, all’esclusione sociale e diretta a
favorire l’inserimento del beneficiario, a rischio di emarginazione, nella società e nel mondo del
lavoro.
Il RdC consiste in un sostegno economico ad integrazione dei redditi familiari, la cui erogazione
però è condizionata dalla:
 Dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro (DID).
 Adesione a un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo
e all’inclusione sociale, attraverso attività di servizio della comunità, riqualificazione
professionale, completamento degli studi ecc.
Destinatari: il RdC è riconosciuto a:
 Nuclei familiari in possesso cumulativamente, al momento della presentazione della
domanda e per tutta la durata dell’erogazione del RdC:
 Specifici requisiti di cittadinanza, residenza e soggiorno: cittadinanza italiana; permesso
di soggiorno ecc.
 Specifici requisiti reddituali e patrimoniali: ISEE < 9.360€; valore immobiliare (no casa
abitativa) < 30.000€; valore mobiliare < 6000€ (aumentato di 2000€ x ogni figlio; 5000€ se disabile; 7500€
se disabile grave);
 Nessun componente del nucleo familiare deve essere intestatario di taluni beni
durevoli o averne la piena disponibilità: auto; moto; barche ecc.
 Sono esclusi i soggetti sottoposti a misura cautelare personale o sottoposti a
condanna definitiva, per determinati reati, nei 10 anni precedenti la richiesta.

Convocazione: una volta riconosciuto il diritto al RdC, il beneficiario viene convocato entro 30
gg presso:
 Centri per l’impiego: il beneficiario di RdC viene convocato dal Centro per l’impiego per
siglare il Patto per il lavoro, a patto che nella famiglia almeno un componente sia in 1 delle
seguenti condizioni:
a) Disoccupato da non più di 2 anni.
b) Beneficiario di NASpI o di altro strumento di sostegno al reddito.
c) Sottoscrittore di un Patto di servizio presso i Centri per l’impiego negli ultimi 2
anni.
d) Non abbia sottoscritto un progetto personalizzato per il Reddito di inclusione
(REI).
Il beneficiario convocato deve rispettare gli impegni assunti alla firma del Patto per il
lavoro, tra cui quello di accettare almeno 1 di 3 offerte di lavoro congrue in base a
parametri quali:
 Coerenza tra lavoro-esperienza/competenza;
 Durata stato di disoccupazione;
 Distanza dal domicilio: è congrua l’offerta di lavoro che
 Primi 12 mesi di RdC: sia collocata, dalla residenza del beneficiario, a:
1. 1°offerta: 100 km distanza; raggiungibile in 100 min con mezzi
pubblici.
2. 2° offerta: 250 km distanza.
3. 3° offerta: ovunque in Italia.
 Dopo 12 mesi di RdC: sia collocata, dalla residenza del beneficiario, a:
1. 1°-2° offerta: 250 km distanza
2. 3° offerta: ovunque in Italia.
 Rinnovo del beneficio: offerta congrua ovunque in ITA anche a 1° offerta.
 Servizi dei comuni competenti: in tutti gli altri casi, la convocazione avviene ad opera dei
servizi dei comuni competenti per il contrasto alla povertà, affinché sia stipulato il Patto
per l’inclusione sociale.

Sospensione/decadenza RdC: la violazione degli impegni assunti dal nucleo familiare dopo la
sottoscrizione del Patto per l’inclusione sociale può essere sanzionata con la
sospensione/decadenza dal RdC (in caso di mancata presentazione alle convocazioni/appuntamenti; mancato
rispetto di altri impegni previsti nel Patto ecc.)
Indebita percezione RdC: sono previste sanzioni più gravi, anche penali, in caso di indebita
percezione del RdC, per effetto di documenti falsi e dichiarazioni mendaci o attestanti cose non
vere, omissione di informazioni dovute, per cui è prevista la reclusione da 2-6 anni. Mentre, la
mancata comunicazione delle variazioni reddituali o patrimoniali o di altre informazioni rilevanti
ai fini della revoca/riduzione del RdC è punita con la reclusione da 1-3 anni.

Incentivi: il RdC è sostenuto da incentivi che possono essere erogati a:


1) Imprese: se le imprese assumono i beneficiari di RdC con contratti a tempo
indeterminato, esse hanno diritto ad alcuni sgravi contributivi. Innanzitutto, le imprese
devono comunicare telematicamente all’ANPAL la disponibilità di posti vacanti.
In caso di assunzione, il datore di lavoro avrà diritto ad un esonero contributivo pari
all’importo mensile del RdC percepito dal lavoratore, comunque non superiore a 780€ e
non inferiore a 5 mensilità. L’esonero contributivo avrà durata pari alla differenza tra 18
mensilità e le mensilità già godute del RdC da parte del beneficiario.
2) Beneficiari di RdC con attività autonome/imprese individuali: gli incentivi sono erogati
anche al beneficiario di RdC che avvii un’attività lavorativa, un’impresa individuale o una
società cooperativa entro i primi 12 mesi di fruizione del beneficio.
In tal caso, al lavoratore vengono riconosciute delle somme pari a 6 mensilità di RdC (nei
limiti di 780€ mensili) erogate in un’unica soluzione.
Sistema informativo RdC: ai fini dell’erogazione dei benefici, si è istituito presso il Ministero del
lavoro e delle politiche sociali il Sistema informativo del RdC, al cui interno operano 2
piattaforme digitali dedicate al RdC presso:
 ANPAL: per il coordinamento dei centri per l’impiego.
 Ministero del lavoro e delle politiche sociali: per il coordinamento dei comuni.

VECCHIO SISTEMA DI COLLOCAMENTO


Del vecchio sistema di collocamento sono sopravvissuti solo 2 istituti:
1) Intermediazione pubblica per l’inserimento lavorativo dei disabili e l’avviamento a
selezione presso le PA: la regolamentazione delle liste di collocamento relative
all’avviamento a selezione presso le PA è ora rimessa alle Regioni, che hanno fissato dei
criteri di priorità per disciplinarne l’avviamento.
2) Obblighi informativi dei datori di lavoro: i datori di lavoro devono adempiere ad una serie
di obblighi informativi previsti dalla legge da comunicare telematicamente all’ANPAL, e
altri da comunicare ai lavoratori. La violazione di tali obblighi comporta una sanzione
amministrativa, aggravata nel caso di lavoro irregolare. I punti essenziali di tale normativa
riguardano:
a) Comunicazione di assunzione: si è passato dalla comunicazione dell’assunzione
successiva (entro 5 gg) a quella preventiva, dato che la prima veniva utilizzata per
mascherare rapporti di lavoro irregolare.
Anche la consegna della copia della comunicazione di instaurazione del rapporto
di lavoro o del contratto individuale di lavoro ai lavoratori è preventiva, in modo
che questi sappiano a priori le condizioni del proprio rapporto di lavoro.
La comunicazione di instaurazione del rapporto lavorativo deve contenere tutti i
dati anagrafici del lavoratore, la data di assunzione, la data di cessazione (se a
tempo determinato), la tipologia contrattuale, la qualifica professionale, il
trattamento economico e normativo applicato. Ciò avviene anche in caso di
tirocini di formazione e di orientamento.
Urgenza per esigenze produttive: in caso di urgenza per esigenze produttive, la
comunicazione di assunzione può avvenire entro 5 gg dall’instaurazione del
rapporto, a patto che almeno 1 gg prima si comunichi al Servizio competente la data
di inizio della prestazione e le generalità del lavoratore e del datore.
b) Comunicazione di trasformazione del rapporto: le trasformazioni del rapporto
di lavoro (da tempo determinato a indeterminato; proroga del termine inizialmente fissato; da tempo
parziale a tempo pieno; da apprendistato a indeterminato; trasferimento del lavoratore; modifica della
ragione sociale del datore; trasferimento d’azienda/ramo d’azienda)
vanno comunicate
telematicamente entro 5 gg al Servizio competente del territorio. In caso di
inoltro tardivo delle comunicazioni obbligatorie, è prevista la perdita totale degli
incentivi all’occupazione.
c) Comunicazione di cessazione del rapporto.
d) Maxi-sanzione per il lavoro nero: oltre le sanzioni previste per le violazioni agli
obblighi di comunicazione del datore, il d.lgs. 150/2015 ha introdotto anche una
maxi-sanzione per contrastare il diffuso fenomeno del lavoro nero. Infatti, gli
organi di vigilanza, qualora accertino l’utilizzo di lavoratori senza regolare
contratto di lavoro da parte del datore di lavoro, inviano un rapporto alla Direzione
territoriale del lavoro competente, la quale può comminare una maxi-sanzione in
base al n° di giorni di effettivo lavoro:
 Minimo di 1500€ (fino a 30 gg) aumentato del 20% nella legge di stabilità
del 2019 (1800€).
 Massimo di 36.000€ (oltre 60 gg) aumentato del 20% nella legge di stabilità
del 2019 (43.200€).
 Tali importi vengono raddoppiati se il datore di lavoro, nei 3 anni
precedenti, è stato sanzionato per i medesimi illeciti.

COLLOCAMENTI SPECIALI
A fronte della totale eliminazione del collocamento ordinario, sono sopravvissuti alcuni
collocamenti speciali, oltre a quello dei lavoratori disabili:

1) Collocamento agricolo: il collocamento in agricoltura ha visto 4 fasi:


 D.l. 7/1970: si utilizzavano gli elenchi nominativi principali e suppletivi, compilati
dalla Commissione locale per la manodopera agricola.
 D.lgs. 375/1993: in questa fase si è tentato di razionalizzare l’accertamento dei
lavoratori agricoli e dei contributi, anticipando i controlli sul fabbisogno
aziendale per eliminare fenomeni di lavoratori fittizi (ossia inesistenti perché in eccesso
rispetto al fabbisogno). Per far ciò, si introdusse il registro d’impresa, nel quale ogni
datore doveva annotare i dati anagrafici e relativi al contratto (categoria; qualifica;
giornate di lavoro svolte; retribuzione; ritenute fiscali operate ai fini IRPEF) di ciascun lavoratore di
cui si serviva.
Inoltre, i datori di lavoro agricolo dovevano presentare entro 30 gg dall’inizio
dell’attività:
 Denuncia aziendale: contenente l’ubicazione, la denominazione, l’estensione
dei terreni, le singole colture praticate ecc. di modo che gli uffici competenti
dell’INPS valutassero il fabbisogno aziendale al fine di accertare l’obbligo
assicurativo e contributivo in agricoltura.
 Denuncia trimestrale: dichiarazione degli operai agricoli occupati, al fine
di verificare le giornate denunciate per ogni lavoratore occupato.
 Piano colturale: la previsione annuale del fabbisogno quali-quantitativo
di manodopera da parte del datore di lavoro.
In pratica, viene potenziata la fase ispettiva di accertamento delle giornate
effettive riportate negli elenchi dei lavoratori occupati.
 D.l. 510/1996: è stato modificato il sistema di accertamento degli operai agricoli
a tempo determinato. In particolare, è stato subordinato il rilascio del registro
dell’impresa alla presentazione della denunzia aziendale. Tuttavia, vi è stato un
drastico ridimensionamento del potere dell’INPS di disconoscere le prestazioni di
lavoro.
 D.l. 269/2003: nella fase attuale, partita dal 30/04/2004, sono stati ripristinati i
poteri sanzionatori in sede ispettiva dell’INPS di disconoscere le prestazioni di
lavoro.
2) Collocamento marittimo: nella riforma del mercato del lavoro tra il ’97-2003 è stata istituita
l’anagrafe della gente di mare, nella quale sono registrati i lavoratori marittimi in possesso
dei requisiti di legge per poter prestare servizio di navigazione. Contrariamente al passato,
ora vige il principio di assunzione diretta con obbligo di comunicazione agli uffici di
collocamento della gente di mare nel cui territorio avviene l’imbarco.
Gli uffici di collocamento marittimo si occupano della:
 Gestione degli elenchi anagrafici dei lavoratori marittimi disponibili
all’arruolamento;
 Accertamento e verifica dello stato di disoccupazione e disponibilità al lavoro
marittimo.
 Incontro tra domanda-offerta di lavoro ecc.
3) Collocamento extra-comunitari: la normativa vigente, frutto di diversi scontri politici,
prevede anzitutto un controllo dei flussi migratori dai paesi extra-UE. Il Governo, ogni
anno, vara le quote massimali di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato, per
lavoro subordinato (anche stagionale) e per lavoro autonomo.
La responsabilità della procedura di assunzione è affidata allo Sportello Unico per
l’Immigrazione della Provincia dove avverrà la prestazione lavorativa, con un iter
procedurale che muta a seconda che:
 Datore conosce il lavoratore: il lavoratore deve presentare al Centro per
l’impiego una serie di documenti specifici (richiesta nominativa di nulla osta al lavoro;
documentazione sull’alloggio del lavoratore straniero; proposta di contratto di soggiorno, comprese di spese
a carico del datore per il ritorno in patria; dichiarazione di impegno a comunicare ogni variazione del
rapporto lavorativo), a condizione di aver accertato l’indisponibilità di altri lavoratori
italiani o dell’UE presenti in Italia.
 Datore non conosce il lavoratore: il datore può richiedere allo Sportello Unico di
rilasciare il nulla osta al lavoro di 1 o più persone iscritte nella lista dei lavoratori
stranieri, presentando solo parte della documentazione della 1° ipotesi (sistemazione
alloggiativa e proposta di contratto di soggiorno).
Permesso di soggiorno: le questure hanno l’obbligo di fornire telematicamente all’INPS
le informazioni anagrafiche relative ai lavoratori extracomunitari ai quali è concesso il
permesso di soggiorno per motivi di lavoro. L’INPS, dal suo, ha il compito di costituire un
archivio anagrafico dei lavoratori extra-comunitari, al fine di condividerlo con le altre PA.
L’accesso al lavoro, in ITA, è concesso solo in presenza di un “contratto di soggiorno” per
lavoro subordinato, il quale ha durata variabile a seconda che si tratti di contratto a tempo
determinato, indeterminato o stagionale.
Obblighi del datore: nel contratto di soggiorno sono previsti alcuni obblighi a carico del
datore:
 Disponibilità di un alloggio per il lavoratore.
 Sostentamento delle spese per il ritorno del lavoratore nel Paese di provenienza.
Perdita posto di lavoro: la perdita del posto di lavoro dell’extra-comunitario non
comporta la revoca del permesso di soggiorno. Infatti, una volta dimessosi o licenziato, lo
straniero può usufruire dei servizi per l’impiego per il periodo di residua validità del
permesso, e comunque per un periodo non inferiore ad 1 anno (salvo che non sia un permesso
stagionale).
2)COLLOCAMENTO DISABILI

NORME PER IL DIRITTO AL LAVORO DEI DISABILI (L. 68/1999)

L. 482/1968: per quanto riguarda il collocamento dei disabili, prima della l. 68/1999 vigeva la l.
482/1968, la quale però aveva un meccanismo meramente impositivo nei confronti dei datori di
lavoro, i quali avevano l’obbligo di assunzione dei lavoratori disabili, senza alcun incentivo.

La disciplina, perciò, è stata profondamente modificata prima dalla l. 68/1999 e in seguito dal Jobs
Act 2.

Ratio e finalità l. 68/1999: l’obiettivo della riforma del ’99 è quello di garantire il diritto al lavoro
dei disabili, sempre prevedendo il collocamento obbligatorio, ma strutturalmente diverso.
Infatti, la legge prevede degli incentivi all’inserimento del disabile nell’organizzazione lavorativa,
in modo da non disciplinare il solo inserimento del disabile nel mondo del lavoro, ma puntando su
una sua vera e propria integrazione.
Questo meccanismo prende il nome di “collocamento mirato”, inteso come insieme di strumenti
tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle
loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, analizzando i vari posti di lavoro, le forme
di sostegno ecc. In sostanza, il datore di lavoro non viene obbligato ad assumere un soggetto
appartenente alle categorie protette per poi essere abbandonato, ma viene incentivato
all’adempimento del collocamento attraverso una serie di misure, anche economiche.

Tuttavia, non in tutte le Regioni l’inserimento dei disabili è stato uguale; infatti, specie nelle regioni
del Sud, l’inserimento dei disabili ha avuto delle percentuali bassissime rispetto a quelle del Nord.
Difatti, l’inserimento non ha funzionato nelle Regioni in cui non hanno funzionato anche i servizi
per l’impiego. Ed è proprio per questo motivo che il riaccentramento delle competenze operato
dal Jobs Act 2 ha coinvolto anche il collocamento dei disabili.

SOGGETTI PROTETTI
La 1° differenza con la vecchia disciplina è l’individuazione dei soggetti protetti, ora chiamati
“disabili” e non più “invalidi”.
Altra novità è stato l’abbandono del calcolo percentuale dei posti riservati alle categorie di
soggetti protetti, attraverso la previsione di un unico elenco, creato secondo determinati criteri, in
cui rientrano i portatori di disabilità, qualunque sia la causa che l’ha determinata, e dai quali si può
attingere per l’avviamento al lavoro.

Categorie: i soggetti protetti sono sia persone con disabilità che normodotati:
1) Invalidi civili (riduzione capacità lavorativa +45%): soggetti le cui capacità di lavoro,
attinenti alle loro attitudini, siano ridotte in modo permanente a causa di infermità, difetti
fisici o mentali a meno di ⅓ (minorati fisici, psichici, sensoriali; portatori di handicap intellettivo; invalidi
civili). L’accertamento della disabilità avviene a cura delle Commissioni ASL.
A differenza della previgente normativa, la l. 68/1999 non fa distinzione tra handicap fisico
e mentale, la quale aveva provocato in passato l’esclusione della tutela degli invalidi psichici,
ma anzi vi destina una tutela particolarmente pregnante.
2) Invalidi da lavoro (invalidità +33%): in questo caso l’invalidità viene accertata dall’INAIL.
La materia è stata significativamente modificata dalla riforma del 2015, salvo che per le
persone non vedenti o sordomute per le quali restano vigenti le norme preesistenti alla l.
68/1999.
3) Invalidi di guerra: rientrano nella tutela sia i civili di guerra che per servizio.
L’accertamento della disabilità, in tal caso, avviene ad opera delle commissioni mediche
militari.
Come si può notare, la riforma del 1999 non ha risolto il problema della competenza
all’accertamento della disabilità poiché, in base alla causa determinante, intervengono diversi
enti (commissioni mediche ASL; INAIL; militari).
4) Orfani; coniugi superstiti di lavoratori deceduti/divenuti grandi invalidi per cause di
lavoro/guerra/servizio; profughi italiani rimpatriati (cittadini italiani residenti all’estero e da questi
paesi cacciati/scappati): per queste categorie di soggetti normodotati, che tuttavia vivono in una
situazione di disagio, la l. 68/1999 prevede una quota di riserva sul n° di dipendenti pari
all’1% aggiuntiva rispetto a quella prevista per i disabili, e posta a carico per i soli datori di
lavoro che occupino + di 50 dipendenti.
5) Superstiti di mafia/terrorismo: dopo gli eventi drammatici di mafia e terrorismo, si è voluta
allargare la tutela anche al coniuge, figli superstiti, fratelli conviventi e a carico che siano
gli unici superstiti di vittime o soggetti resi permanentemente invalidi per atti di
terrorismo o per fatti delittuosi di matrice mafiosa.
6) Testimoni di giustizia.
Queste ultime categorie, oltre alle tutele previste, hanno diritto al collocamento obbligatorio
presso le PA, con precedenza rispetto ad ogni altra categoria, e con preferenza a parità di titoli.

SOGGETTI OBBLIGATI
Area dell’obbligo: rispetto alla disciplina previgente, la riforma del ’99 ha apportato un
ampliamento dell’area dell’obbligo, compensata da una riduzione della percentuale dei posti da
riservare ai disabili. Infatti, ora sono obbligati ad assumere disabili tutti i datori di lavoro, pubblici
e privati, che occupino almeno 15 dipendenti:
 Datori con 15-35 dipendenti: obbligo ad assumere 1 disabile. È una novità rispetto al
passato, in quanto questa categoria era prima esclusa.
Tuttavia, l’obbligo di assunzione scatta solo in caso di nuove assunzioni (infatti, se il datore
effettua una nuova assunzione, aggiuntiva rispetto ai dipendenti in servizio, è obbligato ad assumere entro 12 mesi
un disabile. Se nello stesso termine il datore effettua una 2° nuova assunzione, l’obbligo di assunzione del disabile
andava adempiuto immediatamente).
 Datori con 36-50 dipendenti: obbligo ad assumere 2 disabili.
 Datori con + di 50 dipendenti: obbligo ad assumere il 7% di lavoratori disabili + 1% di
normodotati “svantaggiati” (n°4-5-6).
Invalidi interni: la l. 68/1999 ha ridisciplinato il fenomeno degli “invalidi interni”, cioè
dell’eventuale computo, nella quota d’obbligo, dei lavoratori invalidatisi nel corso del rapporto di
lavoro. Si è previsto che possono essere conteggiati solo:
a) Soggetti divenuti invalidi per infortunio/malattia sul lavoro che abbiano subito una
riduzione della capacità lavorativa + del 60%.
b) Soggetti divenuti inabili non per inadempimento del datore di lavoro in merito le
norme per la sicurezza e l’igiene del lavoro (accertato giudizialmente).
Lavoratori già disabili: infine, la l. 68/1999 ha previsto il computo dei lavoratori già disabili,
prima della costituzione del rapporto di lavoro, anche se non assunti tramite collocamento
obbligatorio, nel caso in cui abbiano una riduzione della capacità lavorativa + 60%, o una
disabilità intellettiva/psichica con conseguente riduzione della capacità lavorativa + 45%,
accertata dagli organi competenti.
Computo n° dipendenti: per capire in quale classe d’obbligo rientri il singolo datore di lavoro,
o se ne sia totalmente escluso, la legge prevede alcune categorie da escludere nel computo del
n° di dipendenti:
 Lavoratori occupati ai sensi della l. 68/1999.
 Soci di cooperative di produzione e lavoro.
 Dirigenti.
 Lavoratori occupati con contratto di somministrazione presso l’utilizzatore.
 Lavoratori assunti per attività da svolgersi all’estero, per tutta la sua durata.
 Soggetti impegnati in lavori socialmente utili.
 Lavoratori a domicilio.
 Lavoratori che aderiscono al programma di emersione.
Sono da computare invece:
o Lavoratori con contratto di apprendistato (prima esclusi).
o Lavoratori a tempo parziale: computati in proporzione a orario svolto/orario totale.
o Lavoratori intermittenti: computati in proporzione all’orario effettivamente svolto
nell’arco di ogni semestre.
o Lavoratori a tempo determinato: se il contratto ha durata + 6 mesi.

ESCLUSIONI, SOSPENSIONI, ESONERI E COMPENSAZIONE TERRITORIALE


La l. 68/1999 prevede anche una serie di istituti che derogano parzialmente la disciplina generale, al
fine di evitare gli abusi venutisi a creare con la vecchia disciplina:
 Esclusione: sono esclusi dall’assunzione di lavoratori disabili determinati datori di lavoro
(partiti politici; organizzazioni sindacali; organizzazioni senza scopo di lucro che operano per la solidarietà sociale,
assistenza o riabilitazione; servizi di polizia e protezione civile) e particolari attività (trasporto aereo,
marittimo e terrestre; settore edile; personale di cantiere; addetti del settore dei montaggi industriali e impiantistici;
settore dell’autotrasporto).
 Sospensione: per le imprese che fanno ricorso alla CIGS è prevista la sospensione degli
obblighi di assunzione per tutta la durata dell’intervento. Inoltre, è prevista la
sospensione anche per tutta la durata della procedura di licenziamento collettivo per
riduzione del personale, a patto che la procedura si concluda con almeno 5 licenziamenti.
 Esonero parziale: quest’istituto è stato notevolmente ristretto per evitare gli abusi visti nella
precedente disciplina, la quale consentiva di eludere l’obbligo attraverso l’assunzione di
soggetti normodotati appartenenti alle categorie protette (superstiti, profughi...) al posto degli
invalidi.
Attualmente, l’esonero prevede che:
 Il datore versi un “contributo esonerativo” di discreta entità (30,64€), calcolato su base
giornaliera.
 Si deve accertare la sussistenza delle ragioni che giustificano l’esonero attraverso
un provvedimento.
 L’esonero ha una durata temporanea.
 Il datore è sottoposto a controlli per evitare gli abusi.
 Compensazione territoriale: è un istituto che non incide sulla quota d’obbligo, ma sulla sua
distribuzione geografica, in quanto si consente ai datori che abbiano diverse unità
produttive situate in diverse zone del territorio di assumere, in una di esse, un n° maggiore
di disabili rispetto a quanto previsto, compensando con un n° minore in un’altra sede. Di
recente, tale facoltà è stata accordata anche ai datori di lavoro pubblici (ma nel solo ambito
regionale).

COMPETENZA COLLOCAMENTO DEI DISABILI


Per quanto riguarda la gestione del collocamento dei disabili, secondo la l. 68/1999 e il d.lgs.
469/1997 la competenza spettava ai centri per l’impiego di ogni provincia.
Centri per l’impiego: il d.lgs. 150/2015 tuttavia, abrogando totalmente il d.lgs. 469/1997, ha
previsto che le Regioni e PATB costituiscano degli uffici territoriali (Centri per l’impiego) che
aggiungano alle loro competenze anche quelle dei servizi per il collocamento dei disabili.
INAIL: una competenza speciale è attribuita all’INAIL, il quale stipula delle convenzioni a titolo
gratuito con l’ANPAL al fine di raccordare le attività in materia di collocamento e reinserimento
lavorativo delle persone con disabilità da lavoro.
ANPAL & ISFOL (ISAPP): sono attribuite delle competenze generali anche ad ANPAL
(coordinamento del collocamento dei disabili) e all’ISAPP (studio, ricerca, monitoraggio e valutazione delle politiche statali
e regionali in materia di integrazione dei disabili).
Servizi per il collocamento mirato: il d.lgs. 151/2015 prevede poi un sistema di “collocamento
mirato” per i disabili, separato dai servizi per l’impiego. Il compito di gestire gli elenchi dei disabili
aspiranti al collocamento obbligatorio viene attribuito ai “servizi per il collocamento mirato” di
ogni regione in cui il disabile è residente.
CONDIZIONI PER GODERE DELLA TUTELA
Per poter godere della tutela, una volta ottenuto il riconoscimento dell’invalidità nella percentuale
prevista dalla legge (a seconda della causa scatenante), il disabile disoccupato deve iscriversi
nell’apposito elenco tenuto dai servizi per il collocamento mirato nel cui ambito territoriale ha la
residenza. Nonostante quella dei disabili sia praticamente l’unica lista sopravvissuta alla riforma del
mercato del lavoro, spetta comunque alle Regioni la definizione dei criteri per la collocazione
all’interno della stessa.
Comitato tecnico: ruolo decisivo per l’inserimento lavorativo dei disabili è affidato al comitato
tecnico, operante presso i servizi per il collocamento mirato, il quale è composto da funzionari
degli stessi servizi e da esperti del settore medico-legale e sociale, soprattutto in relazione alle
disabilità. Il comitato ha una serie di compiti:
 Compilazione di una scheda recante le capacità lavorative, abilità, competenze, nonché
la natura e il grado di minorazione del disabile.
 Valutazione delle capacità lavorative del disabile.
 Analisi delle caratteristiche dei posti vacanti da assegnare ai lavoratori disabili, favorendo
l’incontro tra domanda-offerta.
 Controllo periodico sulla permanenza delle condizioni di disabilità.

Riqualificazione professionale e inserimento lavorativo: la l. 68/1999 prevede per il disabile dei


percorsi di riqualificazione professionale, gestiti dalle Regioni, che possono svolgersi anche
presso il datore di lavoro che dovrà assumere il disabile, o in ogni caso presso strutture esterne
con adeguate competenze tecniche.

Disabili licenziati: per agevolare il reinserimento dei disabili licenziati per riduzione del
personale o per gmo, gli stessi mantengono la posizione in graduatoria acquisita all’atto
dell’inserimento nell’azienda che li ha poi licenziati.

Decadenza del trattamento di disoccupazione (NASpI): il disabile che rifiuti per 2 volte
consecutive, senza giustificato motivo, un posto di lavoro idoneo alle competenze possedute e alle
proprie minorazioni, decade dal diritto alla NASpI e viene cancellato per 6 mesi dalla lista di
collocamento.

ASSUNZIONI OBBLIGATORIE
Richiesta di avviamento (nominativa): il datore di lavoro obbligato deve fare richiesta di
avviamento, ove non stipuli una convenzione di inserimento lavorativo, agli uffici competenti. Tale
richiesta, a differenza del passato, ora è totalmente nominativa (non più numerica), il che permette al
datore di scegliere nominativamente il soggetto, anche attraverso una pre-selezione, tra i disabili
disoccupati iscritti nell’elenco.
Avviamento per graduatoria: se il datore non assume secondo queste modalità, entro 60 gg dal
giorno in cui sorge l’obbligo di assunzione dei lavoratori disabili, gli uffici competenti avviano i
lavoratori disabili secondo l’ordine di graduatoria, in base alla qualifica richiesta o a qualifiche
simili. Gli uffici possono procedere anche previa chiamata con avviso pubblico, e con graduatoria
limitata a coloro che aderiscono alla specifica occasione di lavoro. Il Ministero del lavoro ha il
compito di monitorare gli effetti di questa modalità di avviamento.
Avviamento per convenzione: se l’assunzione riguarda una disabile psichico, la richiesta è
sempre nominativa, ma dev’essere attuata col meccanismo della convenzione.

Banca dati collocamento mirato: ogni anno il datore deve inviare alla Banca dati del
collocamento mirato un prospetto informativo nella quale vanno indicati:
 Consistenza dell’organico.
 Lavoratori da non computare nella quota d’obbligo.
 Entità della quota d’obbligo.
 Eventuali scoperture.
La legge riconosce al prospetto informativo valore di richiesta, la quale dev’essere comunque
effettuata entro 60 gg dall’insorgenza dell’obbligo; se nell’anno precedente non ci sono state
variazioni di organico, non vi è obbligo di invio del prospetto informativo.
La Banca dati del collocamento mirato, nata con la l. 68/1999 come sezione della Banca dati
politiche attive e passive, ha come scopo quello di razionalizzare la raccolta sistematica dei dati
sul collocamento mirato, di semplificare gli adempimenti, di rafforzare i controlli e di migliorare
il monitoraggio e la valutazione degli interventi in materia di collocamento mirato.

La Banca dati del collocamento mirato raccoglie informazioni sui datori di lavoro pubblici e
privati obbligati e sui lavoratori interessati. Perciò viene alimentata dai dati che le vengono
trasmessi da:
 Datori di lavoro: i quali trasmettono alla Banca dati:
 Prospetti informativi.
 Comunicazioni obbligatorie e le informazioni relative al lavoratore disabile
assunto.
 Info su sospensioni degli obblighi, esoneri autorizzati e convenzioni.
 Info sui soggetti iscritti negli elenchi del collocamento obbligatorio.
 INPS: trasmette info relative agli incentivi di cui beneficia il datore di lavoro.
 INAIL: trasmette info relative agli interventi di reinserimento e di integrazione lavorativa
delle persone con disabilità da lavoro.
 Regioni e PATB: trasmettono info relative agli incentivi e alle agevolazioni erogate sulla
base di disposizioni regionali e dal Fondo Regionale per l’occupazione dei disabili, per il
collocamento delle persone con disabilità.

Utilizzo informazioni Banca dati: la Banca dati del collocamento mirato mette poi a
disposizione le informazioni raccolte alle Regioni + PATB, agli enti pubblici responsabili del
collocamento mirato, all’INAIL e infine a enti di ricerca e di studio per elaborazioni a fini
statistici.

CONVENZIONI
Altra novità introdotta dalla l. 68/1999 è quella dell’assunzione e/o distacco tramite convenzione.
1) Convenzione per assunzione: la legge prevede che il datore possa stipulare una
convenzione con gli uffici competenti, specie per i disabili caratterizzati da forti difficoltà
all’inserimento nel mondo del lavoro, nella quale concordi tempi e modalità di
assunzione, tirocini di inserimento, assunzioni a termine o in prova. L’assunzione di
disabili psichici può avvenire solo mediante questa tipologia di convenzione.
2) Convenzione per assunzione con temporaneo distacco: una variante della 1° convenzione
è quella che prevede l’assunzione del disabile da parte del datore di lavoro obbligato, ma
con temporaneo distacco del lavoratore presso cooperative sociali, imprese sociali, liberi
professionisti disabili o altri datori di lavoro non soggetti ad obbligo di assunzione. Si
tratta dunque di un distacco temporaneo, con conseguente ritorno del disabile in azienda
al termine della convenzione. Affinché si scelga questa strada, la legge prevede una serie
di condizioni che devono sussistere per la stipula della convenzione, la quale ha durata
massima di 12 mesi, prorogabile 1 sola volta per ulteriori 12 mesi.
3) Convenzione per assunzione presso ente convenzionato: ultima fattispecie prevede
l’assunzione del disabile direttamente presso l’ente ospitante (cooperative sociali, imprese sociali
o altri datori di lavoro non soggetti ad obbligo di assunzione), e quindi non presso il datore di lavoro
legalmente obbligato, il quale assumerà il disabile solo alla scadenza della convenzione
di durata non inferiore a 3 anni, prorogabile per un periodo non inferiore a 2 anni.
Questa convenzione può essere stipulata se ci si trovi difronte a disabili con particolari
caratteristiche e difficoltà di inserimento nel ciclo lavorativo, e in ogni caso a non più
del 10% della quota d’obbligo per i datori di lavoro con + 50 dipendenti.
INCENTIVI
La disciplina degli incentivi accordati ai datori di lavoro obbligati all’assunzione dei disabili (ma
anche quelli non obbligati possono accedervi), introdotta con la l.68/1999 è stata più volte oggetto di
dibattito e di modifiche, tanto che sia nel 2007, che nel 2015, l’art. 13 è stato sostituito quasi per
intero.
D.lgs. 151/2015: la novella del 2015 reintroduce un incentivo, economico, calcolato e concesso
su base mensile, al posto del contributo all’assunzione una tantum introdotto nel 2007, garantendo
così una stabilità del rapporto maggiore.
Durata incentivo: l’incentivo ha durata variabile a seconda del tipo di disabilità del lavoratore
assunto. Ha una durata standard di 36 mesi, incrementata a 60 mesi per i disabili psichici e
intellettivi.
Misura incentivo: anche l’entità dell’incentivo varia a seconda della percentuale di riduzione
della capacità lavorativa:
1) 70% retribuzione mensile lorda: disabile con riduzione della capacità lavorativa +79%.
2) 70% retribuzione mensile lorda: disabile psichico/intellettivo con riduzione della
capacità lavorativa +45%.
3) 35% retribuzione mensile lorda: disabile con riduzione della capacità lavorativa tra 67%-
79%.
Condizioni per godimento incentivo: la condizione fondamentale per il godimento dell’incentivo
resta l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con l’unica eccezione per i
disabili psichici/intellettivi per i quali è consentita anche l’assunzione a termine di durata non
inferiore a 12 mesi (ovviamente, l’incentivo verrà erogato fino al termine del contratto).
Procedura d’accesso agli incentivi:
 La fruizione avviene mediante conguaglio nelle denunzie contributive mensili.
 L’INPS è obbligato a comunicare, entro 5 gg dalla trasmissione della domanda, se c’è
capienza di risorse, con riserva della somma necessaria a finanziare l’incentivo.
 Il datore deve stipulare il contratto di lavoro entro 7 gg dalla comunicazione, e nei
successivi 7 gg darne comunicazione all’INPS. Si tratta di termini perentori, la cui
inosservanza comporta la perdita del beneficio.
 Le domande di incentivo vengono valutate dall’INPS in base all’ordine cronologico di
presentazione, con comunicazione sul sito internet istituzionale dell’esaurimento delle
risorse.
Fondo Nazionale disabili: per il finanziamento degli incentivi la legge ha istituito il Fondo
Nazionale disabili presso il Ministero del lavoro. Il Fondo si articola in più Fondi a livello regionale,
istituiti dalle Regioni, i quali erogano i contributi aggiuntivi o altre provvidenze. Ai Fondi regionali
confluiscono varie risorse, tra cui le sanzioni per inadempimento dell’obbligo di assunzione,
nonché i contributi esonerativi.
I Fondi regionali erogano:
 Contributi agli enti che svolgono attività di sostegno e integrazione lavorativa dei
disabili.
 Contributi per il rimborso spese necessarie agli “accomodamenti ragionevoli” per i
lavoratori con riduzione della capacità lavorativa +50% (utilizzo di tecnologie di telelavoro;
rimozione di barriere architettoniche che limitano l’integrazione lavorativa del disabile; istituzione del disability
manager (responsabile dell’inserimento lavorativo dei disabili) ecc.).
 Ogni altra provvidenza in finalità dell’integrazione dei disabili.

Fondo per il diritto al lavoro dei disabili: la riforma del 2015 ha modificato anche l’utilizzo delle
risorse del Fondo per il diritto al lavoro dei disabili:
 Pre-riforma 2015: la ripartizione delle risorse avveniva annualmente tra Regioni e PATB
in proporzione alle richieste presentate e ritenute ammissibili.
 Post-riforma 2015: le Regioni sono quasi del tutto estromesse dalla gestione delle risorse
del Fondo, prevedendosi che il 95% di tali risorse vengano trasferite all’INPS, il quale poi
provvede alla corresponsione dell’incentivo. Il rimanente 5% è destinato a Regioni e PATB,
ma sulla base di linee guida previste dal Ministero del lavoro.

DISCIPLINA DEL RAPPORTO DI LAVORO DEI DISABILI


Il principio base della disciplina del rapporto di lavoro dei disabili è la parità di trattamento
rispetto ai lavoratori normodotati, insieme al divieto di discriminazione in ragione
dell’handicap e al divieto di richiedere al disabile una prestazione incompatibile con le sue
minorazioni.
Tipologie contrattuali: la legge prevede che, per l’assunzione dei lavoratori disabili, possono
utilizzarsi tutte le tipologie contrattuali diverse da quella a tempo indeterminato (contratto a
termine; part-time; lavoro a domicilio; telelavoro; apprendistato).
Sopravvenuta incompatibilità tra invalidità-mansioni: il principio generale nella ricerca di un
occupazione per i disabili è quello della ricerca di un’occupazione compatibile con l’invalidità,
con la possibilità di licenziamento del disabile solo nel caso di totale e definitiva inutilizzabilità
dello stesso. Per cui, in caso di aggravamento delle condizioni di salute, o di modifiche
dell’organizzazione di lavoro:
 il disabile può richiedere l’accertamento della compatibilità del suo stato di salute con le
mansioni affidate.
 Il datore di lavoro può richiedere la verifica della possibilità di continuare ad occupare il
disabile nell’azienda.
Ove gli organi competenti riscontrino l’incompatibilità alla prosecuzione dell’attività lavorativa,
il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto fino a che l’incompatibilità
persista. Se, invece, si accerti la definitiva impossibilità di reinserimento del disabile in azienda,
nonostante tutti gli adattamenti possibili, il datore può recedere dal contratto di lavoro, in quanto
la legge prevede espressamente che la sopravvenuta impossibilità di lavorare del disabile è una
causa giustificatrice del recesso del datore di lavoro (ipotesi di gmo).
Licenziamento disabile: il disabile, oltre che per giusta causa e gms, può essere licenziato anche
per gmo o per riduzione del personale, purché sia rispettata la quota d’obbligo calcolata in base
all’organico ridotto e nel cui computo rientrino anche i lavoratori assunti con contratto di
apprendistato. Ogni licenziamento in eccedenza è annullabile.

SANZIONI
L’apparato sanzionatorio della l. 68/1999 prevede sanzioni per:
 Ritardo nell’invio del prospetto informativo: è prevista una sanzione amministrativa
pecuniaria di 635,11€ + 30,76€ per ogni giorno di ulteriore ritardo.
Se è una PA ad essere inadempiente, si applicano le sanzioni penali, amministrative e
disciplinari previste dalle norme sul pubblico impiego.
 Inadempimento dell’obbligo di assunzione dei disabili: per ogni giorno di ritardo per
l’assunzione dei disabili, il datore è obbligato al versamento di una sanzione
amministrativa pari a 5 volte la misura del contributo esonerativo (153,20€), che va al
Fondo regionale per l’occupazione dei disabili.
Diffida: il Jobs Act 2 ha introdotto, per l’obbligo di assunzione, la possibilità di applicazione
della diffida, ossia di ovviare all’inadempimento dell’obbligo presentando agli uffici
competenti la richiesta di assunzione o la stipulazione del contratto di lavoro del disabile
avviato dagli uffici stessi.
3)FORMAZIONE PROFESSIONALE

FORMAZIONE PROFESSIONALE
Per formazione personale si intendono l’insieme delle iniziative finalizzate ad accrescere e
migliorare le conoscenze e le competenze dei lavoratori, al fine di facilitarne l’ingresso,
reingresso o la permanenza nel mercato del lavoro. Il legislatore ha dato talmente importanza a
questo strumento di politica attiva da annoverarlo nella Costituzione (cura della formazione e della
elevazione professionale dei lavoratori – art. 35 Cost.).

Legge quadro (1978): la legge fondamentale in materia è l. quadro 845/1978 che recepisce e
ribadisce il sistema duale, previsto anche dalla Costituzione, tra istruzione scolastica e formazione
professionale, mantenendoli separati e non in un sistema unico. Secondo il sistema duale, ogni
persona entra prima a far parte del sistema di istruzione scolastica per un certo periodo di vita, che
si conclude una volta adempiuto l’obbligo scolastico; dopodiché, esaurito il ciclo di studi, si prevede
una fase autonoma e successiva di formazione professionale come percorso che precede
l’accesso al mercato del lavoro (sistema sequenziale).

L.196/1997: a partire dagli anni ’90, per effetto delle indicazioni della Comunità Europea, si è messo
in discussione il sistema sequenziale “istruzione-formazione professionale-lavoro”, in favore del
“sistema circolare” in cui ogni lavoratore poteva muoversi liberamente all’interno dei 3 sistemi,
spendendo in ognuno le competenze e le abilità conseguite negli altri. Lo strumento per realizzare
questa “circolarità” è quello dei crediti certificati, ossia l’insieme delle competenze e dei saperi
acquisiti in uno dei sistemi, spendibili negli altri 2 purché certificati.
A tal fine, la l. 196/1997 ha operato un riordino della materia, prevedendo la:
 Valorizzazione della formazione professionale in prospettiva dell’occupabilità, per
incrementare l’occupazione.
 Realizzazione di un legame tra formazione e lavoro.
 Diversa configurazione degli strumenti di finanziamento della formazione professionale,
riducendo il ruolo del Fondo di rotazione per la formazione continua (introdotto nel 1978 e
rivisitato nel ’93), in favore di Fondi di tipo privatistico.
 Incremento degli strumenti formativi sia per i primi destinatari (disoccupati), che per i
lavoratori in costanza di rapporto di lavoro, in funzione accrescitiva o manutentiva delle
competenze.

Fallimento sistema di formazione professionale: in realtà la classe politica, a fronte della


conclamata importanza che le attribuivano, non ha mai puntato sul sistema di formazione
professionale, ma anzi attraverso una serie di interventi legislativi l’ha addirittura depotenziato,
sottraendone le risorse ad esso destinate per altri scopi.
Cronologicamente, gli interventi (parziali) realizzati a favore della formazione professionale sono:
 Disciplina dei tirocini formativi e di orientamento (1997).
 Congedi formativi (2000).
 Creazione di Fondi interprofessionali per la formazione continua (2000).

L’insufficienza e l’inadeguatezza del sistema di formazione professionale si può spiegare per


almeno 3 ragioni:
1) Difficoltà della riforma del sistema d’istruzione e formazione professionale: la riforma
del sistema scolastico è stata condizionata dagli esiti delle varie tornate elettorali. Infatti,
partendo dal 1999 sono state tentate ben 5 riforme (riforma Berlinguer 1999; Moratti 2003; Fioroni
2006; Gelmini 2010; Giannini 2015).
2) Ruolo centrale delle Regioni: alle Regioni è stata affidata la competenza legislativa in
materia di formazione professionale. Tuttavia, lo scarso spessore dei provvedimenti
legislativi regionali e la rivendicazione e competenza dello Stato in alcuni provvedimenti
ha portato ad un totale fallimento.
Apprendimento permanente: un tentativo di porre fine a questo quadro normativo si è
intravisto con la l. 92/2012, dove si è previsto “l’apprendimento permanente”, ossia
qualsiasi attività intrapresa dalle persone in modo formale, non formale e informale nel
corso della vita, al fine di migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze, in una
prospettiva personale, civica, sociale e occupazionale.
 Apprendimento formale: attuato nel sistema di istruzione e formazione scolastico e nelle università, che
si conclude con il conseguimento di un titolo di studio/diploma professionale/qualifica/certificazione
riconosciuta.
 Apprendimento non formale: apprendimento frutto di una scelta intenzionale della persona e che si
realizza al di fuori del sistema di istruzione classico, ma in qualsiasi organismo che persegua scopi
educativi/formativi, volontariato, servizio civile nazionale, imprese ecc.
 Apprendimento informale: quello che si realizza, a prescindere da una scelta intenzionale, nello
svolgimento di attività di vita quotidiana nel contesto lavorativo, familiare o del tempo libero.
Per l’apprendimento permanente si prevede:
 Creazione di reti territoriali comprendenti l’insieme di servizi d’istruzione,
formazione e lavoro.
 Al Governo si affida la delega per l’individuazione e la validazione degli
apprendimenti non formali e informali.
 L’istituzione di un sistema pubblico nazionale di certificazione delle competenze,
fondato su standard minimi di servizio omogenei su tutto il territorio nazionale.
3) Nanismo finanziario: la riforma della formazione professionale ha incontrato molte
difficoltà anche a livello economico, dato che spesso e volentieri le risorse ad essa destinate
venivano dirottate verso gli ammortizzatori sociali.

RILANCIO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE (JOBS ACT 2)


Con la riforma Renzi (2015) si è provato a cambiare qualcosa sotto il punto di vista della formazione
professionale, provando a risolvere perlomeno il problema del nanismo finanziario. Il d.lgs.
150/2015 ha emanato diverse disposizioni, sostanzialmente su 5 profili diversi:
1) Competenza: le competenze in tema di formazione professionale vengono distribuite tra:
a) Ministero del lavoro: ha competenza sull’indirizzo del sistema della formazione
professionale continua (anche se finanziata da fondi interprofessionali o bilaterali). Inoltre,
definisce le linee guida per l’accreditamento degli enti di formazione in
Conferenza Permanente.
Infine, compete al Ministero anche l’attivazione dei fondi interprofessionali per la
formazione continua, il quale deve rilasciare un’autorizzazione prima, con il ruolo
di vigilanza svolto dall’ANPAL.
b) ANPAL: controlla e vigila sui fondi interprofessionali o su quelli bilaterali.
c) INAPP (ex ISFOL): si occupa dello studio, ricerca, monitoraggio e valutazione degli
esiti delle politiche statali e regionali in materia di istruzione e formazione.
d) Regioni + PATB: hanno la competenza in materia di accreditamento degli enti di
formazione, ma sempre seguendo i criteri definiti in Conferenza Permanente dal
Ministero del lavoro.
e) Servizi per l’impiego privati: hanno l’obbligo di raccordarsi col sistema regionale
di accreditamento degli enti di formazione.
2) Strumenti: il Jobs Act 2 ha voluto inserire il Sistema Informativo della Formazione
Professionale (SIFoP) all’interno del SIUPoL, al fine di raccordare il sistema di formazione
professionale con quello delle politiche del lavoro. Il SIFoP è stato realizzato dall’ANPAL,
con l’aiuto del Ministero del lavoro, Ministero dell’Università e della Ricerca (MIUR), Regioni,
INAPP e dei Fondi interprofessionali. Al suo interno sono registrati tutti i percorsi formativi
svolti dai residenti in Italia, finanziati (in tutto o in parte) con risorse pubbliche. Il
conferimento dei dati dei partecipanti al SIFoP sono regolati dall’ANPAL, e messi a
disposizione delle Regioni e PATB.
3) Destinatari: i destinatari della formazione professionale sono i disoccupati totali e
parziali, ma anche i soggetti a rischio disoccupazione.
4) Misure e azioni: i Centri per l’impiego di ogni regione svolgono:
 L’avviamento ad attività di formazione ai fini della qualificazione e
riqualificazione professionale, dell'autoimpiego e dell'immediato inserimento
lavorativo per tutti i soggetti che ne facciano richiesta.
 La promozione di esperienze lavorative ai fini di un incremento delle competenze,
anche mediante lo strumento del tirocinio formativo e di orientamento.
5) Finanziamento: anche per il d.lgs. 150/2015 non arrivano segnali molto incoraggianti dal
punto di vista del finanziamento della formazione professionale. Infatti, a concorrere con le
risorse destinate all’ANPAL c’è anche il Fondo di rotazione per la formazione continua.
In sostanza, il contributo integrativo versato dai datori di lavoro che non aderiscono ai
fondi interprofessionali viene attribuito:
 50% al fondo sociale.
 50% al fondo di rotazione. Tuttavia, solo una quota non +20% delle entrate annue
del fondo di rotazione è destinata all’ANPAL.

TIROCINI FORMATIVI E DI ORIENTAMENTO


Tra le misure di politica attiva del lavoro, il d.lgs. 15/2015 annovera le iniziative di inserimento
lavorativo, di formazione o di riqualificazione professionale. Queste 3 misure si accomunano
tutte nello strumento del tirocinio di formazione e di orientamento, in cui si accompagna il
momento formativo ad una esperienza di lavoro.
L. quadro 845/1978: i tirocini sono stati disciplinati per la 1° volta nella legge quadro (1978),
dove si prevedeva la possibilità di stipulare delle convenzioni tra istituzioni formative (scuole,
università...) e imprese, per l’effettuazione presso quest’ultime di periodi di tirocinio pratico e di
esperienza, o di alternanza tra studi ed esperienze di lavoro. Inoltre, la legge quadro precisava
che il tirocinio era finalizzato all’apprendimento, e non a scopo di produttività aziendale.
La competenza in materia era attribuita alle Regioni, mentre gli oneri connessi ai tirocini (tra cui la
copertura assicurativa contro gli infortuni) era a carico dell’istituzione formativa.

D.l. 148/1993: il legislatore è ritornato sull’istituto nel ’93, individuando i soggetti che potevano
essere coinvolti nei tirocini formativi, e la durata degli stessi. In più, la legge precisava che il
rapporto che si instaurava tra ospitato-ospitante non costituiva rapporto di lavoro.

L. 196/1997: nel ’97 col “pacchetto Treu” si è avuto un grosso riordino della formazione
professionale, il quale dedicava una norma specifica ai tirocini formativi e di orientamento,
fissandone i princìpi generali, abrogando tutte le disposizioni previgenti in merito (il problema di
incostituzionalità di tale abrogazione non fu mai sollevato, seppur sussistente, poiché le Regioni hanno continuato ad
occuparsene anche dopo il 1997).
Secondo la l. 196/1997, il tirocinio è un rapporto formativo che non costituisce rapporto di
lavoro subordinato. In forza di questo rapporto, il datore di lavoro ospitante si obbliga ad
impartire la formazione dedotta in convenzione, col corrispondente obbligo del tirocinante a
garantire le presenze in azienda e rispettare le direttive impartitegli per lo svolgimento del
percorso formativo. Per cui, il tirocinio si caratterizzava per l’obbligo formativo, in assenza di quello
retributivo (salvo che non venissero previsti rimborsi spese per vitto e alloggio).
Alla fine del tirocinio formativo, viene riconosciuto al tirocinante un credito formativo e, ove
certificato, può inserirlo nel proprio curriculum.
Convenzione: al fine dello svolgimento del tirocinio, occorre la stipula di una convenzione tra i
soggetti promotori (centri territoriali per l’impiego; strutture scolastiche e universitarie; centri di formazione
professionale; comunità terapeutiche; servizi di inserimento per i disabili ecc.) e i soggetti ospitanti (datori di lavoro
pubblici e privati).
Tutor: ruolo importante è attribuito al tutore, ossia il soggetto messo a disposizione da parte del
soggetto ospitante, il quale dev’essere in possesso di competenze idonee all’affiancamento del
tirocinante.
Assicurazione: anche in questa legge il soggetto ospitato è assicurato, contro infortuni e
responsabilità civile verso terzi, a carico del soggetto promotore.

D.l. 138/2011: la disciplina del ’97 tuttavia è stata spesso oggetto di un uso distorto dei
tirocinanti, i quali venivano usati come forza lavoro a costo zero, vanificando la finalità formativa.
Per fronteggiare ciò, il legislatore nel 2011 ha operato un nuovo riordino della materia, introducendo
una serie di limitazioni:
 Legittimazione a promuovere l’avvio del tirocinio solo da parte di soggetti in possesso
dei requisiti definiti dalle Regioni.
 Riduzione della durata massima del tirocinio.
 Destinazione del tirocinio solo a neodiplomati/neolaureati entro 12 mesi dal
conseguimento del titolo. Unica eccezione a favore di soggetti svantaggiati e disabili.
Dove vi era un vuoto nella disciplina, si continuava ad applicare la disciplina del ’97.
L’eccezione di illegittimità costituzionale, che in passato non era stata sollevata, invece per il d.l.
138/2011 è stata sollevata, accusata di aver invaso l’area di competenza delle Regioni, ed è stata
accolta da parte della Corte costituzionale.

L. 92/2012: conscio del probabile esito dell’eccezione di illegittimità costituzionale, il legislatore,


prima che la stessa fosse dichiarata, ha emanato una nuova legge in materia (l. 92/2012) che, per
evitare di invadere nuovamente le competenze delle Regioni, ha utilizzato la tecnica della fissazione
dei criteri di carattere generale, rimettendo la disciplina di dettaglio ad un accordo in Conferenza
Permanente tra Stato e Regioni+PATB.
I princìpi guida della nuova disciplina sono:
1) Revisione della disciplina dei tirocini.
2) Adozione di misure che ne contrastino l’uso distorto.
3) Individuazione degli elementi qualificanti del tirocinio, e delle conseguenze alla loro
assenza.
4) Riconoscimento di una congrua indennità in relazione alla prestazione svolta,
sanzionando la mancata corresponsione della stessa con una sanzione amministrativa
pecuniaria tra 1.000€-6.000€.

Accordo in Conferenza permanente (2013): alla scadenza del termine di 6 mesi è stato adottato
nel 2013 l’Accordo in Conferenza permanente, il quale ha enunciato le linee guida, seguendo i
criteri previsti dalla nuova legge, e prevedendo che Regioni+PATB le recepissero nelle proprie
normative entro 6 mesi dalla sottoscrizione dell’Accordo.

Accordo in Conferenza permanente (2017): dopo l’emanazione delle nuove politiche


comunitarie di promozione dei tirocini di qualità, si sono dovute rivedere le linee guida
dell’Accordo del 2013. Ciò ha portato all’Accordo in Conferenza permanente nel 2017, il quale ha
apportato delle novità rispetto al 2013:
 Definizione tirocinio: il tirocinio extracurriculare (formativo, di orientamento, di
inserimento/reinserimento lavorativo) viene definito come un periodo di orientamento al lavoro e
di formazione, il quale non si configura come un rapporto di lavoro.
Non viene definito, invece, il tirocinio curriculare (inseriti cioè in percorsi scolastici).
 Durata: max 12 mesi (24 per i disabili); si è introdotta anche la misura minima non inferiore
a 2 mesi (1 mese per operatori stagionali).
 Soggetti promotori: la platea di promotori è ampia, tra cui vi rientra anche l’ANPAL che,
insieme al Ministero del lavoro e in accordo con le Regioni, promuove programmi di
rilevanza nazionale per l’attivazione dei tirocini.
 Soggetti ospitanti: sono tenuti al rispetto delle procedure di sicurezza sul lavoro e non
possono ospitare tirocinanti che abbiano in corso procedure concorsuali a loro carico, di
CIGS o siano stati licenziati per gmo o collettivi nelle stesse unità operative nei precedenti
12 mesi.
 Tirocinante: finalità antifraudolenta assume, la disposizione che vieta l’attivazione del
tirocinio se il tirocinante abbia avuto un rapporto di lavoro, una collaborazione o un
incarico presso l’ospitante nei 2 anni precedenti.
Inoltre, il tirocinante non può ricoprire ruoli all’interno dell’azienda o sostituire il
personale in organico.
Sono previste delle quote di contingentamento dei tirocinanti in proporzione al n° di
dipendenti presenti.
 Progetto formativo individuale (PFI): la valenza formativa del tirocinio viene valorizzata
dalla presenza del PFI, il quale va allegato alle convenzioni stipulate tra promotori e ospitanti.
Il PFI deve indicare gli obiettivi formativi, la durata del tirocinio, l’entità dell’indennità
di partecipazione e le garanzie assicurative (copertura contro infortuni e responsabilità civile verso
terzi).
 Tutor: ruolo strategico è attribuito al tutor, ovvero il soggetto messo a disposizione da parte
del soggetto ospitante, il quale dev’essere in possesso di competenze idonee
all’affiancamento del tirocinante.
 Indennità di partecipazione: quest’indennità, istituita per finalità antifraudolente, è
prevista nella misura minima di 300€ lordi mensili, e viene erogata per intero a fronte di
una partecipazione minima al tirocinio dell’almeno 70% su base mensile. L’indennità non
è dovuta in caso di sospensione del tirocinio o in favore di beneficiari di trattamenti di
sostegno al reddito.
4)CONTRATTO DI APPRENDISTATO

CONTRATTO DI APPRENDISTATO
La combinazione tra esperienza formativa e prestazione lavorativa ha dato vita anche ai contratti
di lavoro con finalità formativa (apprendistato), che si differenziano dai rapporti formativi in
assenza di contratto di lavoro (tirocini formativi e di orientamento) nei quali la prestazione
lavorativa ha una valenza meramente formativa, essendo vietata la sua finalizzazione a fini
produttivi.
Nei contratti di lavoro con finalità formativa sono posti a carico del datore di lavoro 2 specifici
obblighi: quello retributivo e quello di impartire una formazione, specializzando così la causa
contrattuale.
La disciplina dei contratti formativi è poi caratterizzata dal concorso di più fonti regolative (leggi
statali; regolamentazioni regionali; disciplina collettiva), che hanno dato vita a rapporti di convivenza piuttosto
tribolati.
Competenze regionali: le competenze regionali sui contratti di apprendistato sono state
oggetto di 2 riforme nel corso degli ultimi anni:
 Riforma 2011: le competenze delle Regioni sono state fortemente compromesse con
riferimento ai contratti di apprendistato, a vantaggio dell’autonomia collettiva a cui si erano
attribuite quasi tutte le competenze in materia, da esercitarsi nel rispetto dei criteri direttivi
fissati dal Testo Unico del 2011.
 Riforma 2015: le competenze regionali sono riemerse con prepotenza, specie per quanto
riguarda l’apprendistato di 1° e 3° tipo, nei quali è più marcata la componente formativa.

L'apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e


all'occupazione giovanile. Il d.lgs. 276/2003 ha previsto la sua articolazione in 3 tipologie, in base
al segmento di mercato del lavoro di riferimento:
1) Apprendistato 1° tipo (qualificante): apprendistato per la qualifica e il diploma
professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di
specializzazione tecnica superiore, per i giovani dai 15-25 anni, finalizzato a conseguire
una delle qualificazioni in ambiente di lavoro;
2) Apprendistato 2° tipo (professionalizzante): apprendistato professionalizzante, per i
giovani dai 18-29 anni, finalizzato ad apprendere un mestiere o a conseguire una qualifica
professionale;
3) Apprendistato 3° tipo (specializzante): apprendistato di alta formazione e ricerca, per i
giovani dai 18-29 anni, finalizzato al conseguimento di titoli di studio universitari o di alta
formazione (compresi i dottorati di ricerca; diplomi relativi ai percorsi degli istituti tecnici superiori; per attività
di ricerca), nonché per il praticantato per l'accesso alle professioni ordinistiche.
Dunque, il contratto formativo è unico, ma è articolato in 3 sottotipi.

Tuttavia, l’introduzione dell’apprendistato articolato in più sottotipi ha registrato la mancata


attuazione del 1° tipo e lo scarso utilizzo del 3° tipo, tra l’altro mal strutturato. Perciò, si è voluto
rimediare introducendo dapprima il Testo Unico del 2011 (inidoneo però al superamento di tale criticità), e
poi attraverso la riforma del 2015 che ha profondamente modificato l’apprendistato di 1° e 3°
tipo per renderli più operativi e fruibili, lasciando invariato il 2° tipo.

EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA DEL CONTRATTO DI APPRENDISTATO


Il contratto di apprendistato, la cui disciplina è stata introdotta con il d.lgs. 276/2003 (riforma
Biagi), è stato in seguito ridisciplinato ex novo nel 2011 e, da ultimo, nel 2015.
TU apprendistato (2011): col d.lgs. 167/2011 fu emanato il Testo Unico dell’apprendistato, il
quale ha riscritto 7 articoli della vecchia disciplina e contestualmente ha disposto l’abrogazione
della vecchia regolamentazione, applicabile solo ai contatti di apprendistato già in essere.

Riforma Fornero (2012): dopodiché la riforma Fornero del mercato del lavoro (2012) ha
modificato parzialmente il TU del 2011 e ha abrogato il contratto d’inserimento.
Legge di stabilità (2012): a ridosso della l. 92/2012, per incentivare il ricorso al contratto di
apprendistato, la legge di stabilità ha previsto uno sgravio contributivo totale per i periodi
contributivi maturati nei primi 3 anni di contratto per gli apprendisti assunti dal 01/01/2012 al
31/12/2016, in favore dei datori di lavoro che abbiano ≤ 9 dipendenti.

Jobs Act 2 (2015): infine, con l’entrata in vigore della riforma del 2015, si è disposta l’abrogazione
di tutta la disciplina previgente. La nuova disciplina si struttura in 2 nuclei:
1) Disciplina generale: valida per tutte le tipologie di apprendistato.
2) Disciplina specifica: contiene la disciplina specifica per ognuna delle tipologie.

DISCIPLINA GENERALE: PROFILO TIPOLOGICO-QUALIFICATORIO


Nel d.lgs. 150/2015 l’apprendistato viene qualificato come contratto di lavoro determinato
finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani, ponendo fine al dubbio se il contratto
di apprendistato fosse un contratto a termine; a termine è solo il periodo di formazione, inserito
nella fase iniziale di un contratto a tempo indeterminato, che ne costituisce la causa contrattuale
(finalizzato alla formazione).
Inoltre, risolve anche un’altra questione, ossia se l’apprendistato debba puntare più sulla
formazione dei giovani o sulla loro occupazione. Infatti, il contratto di apprendistato prevede
entrambe le finalità, concentrandosi più sulla formazione del giovane nel 1°-3° tipo, mentre nel
2° tipo più sulla sua occupazione.

DISCIPLINA GENERALE DEL RAPPORTO


TU 2011: il TU del 2011 aveva confermato l’impianto complessivo della riforma Biagi (2003), seppur
con una grossa novità costituita dalla valorizzazione del ruolo della contrattazione collettiva nella
disciplina dell’istituto. Infatti, il TU prevedeva solo una disciplina generale per l’apprendistato,
rimettendo la disciplina di dettaglio alla contrattazione collettiva, concedendo una residuale
competenza alle Regioni sul profilo formativo.
Riforma 2015: tale riforma ha attribuito alle Regioni più competenze in merito, sottraendole alla
contrattazione collettiva, la quale non potevano intervenire più per alcuni profili del rapporto
di lavoro, per esigenze di unitarietà e uniformità di disciplina.
Alla luce di questa scelta legislativa, la disciplina generale dell’apprendistato valida per tutte le
tipologie, si divide in una:
 Disciplina di fonte legale.
 Disciplina di fonte contrattuale: adottata nel rispetto dei criteri direttivi fissati dalla prima.

DISCIPLINA DI FONTE LEGALE


Formalità: il contratto di apprendistato va stipulato in forma scritta, a cui va allegato anche il
PFI, con una differenziazione tra le 3 tipologie:
 2° tipo: le parti possono liberamente definire il PFI, utilizzando anche moduli contenuti
nella contrattazione collettiva.
 1°-3° tipo: il PFI è predisposto dall’istituzione formativa, con il coinvolgimento
dell’impresa.
Durata: l’apprendistato ha durata variabile a seconda della tipologia, ma non può avere durata
inferiore a 6 mesi (salvo diversa previsione della contrattazione collettiva o per operatori stagionali).
Licenziamento: anche agli apprendisti si applica la disciplina dei licenziamenti sia individuali
che collettivi. Per il 1°tipo costituisce giustificato motivo di licenziamento (verosimilmente gms) il
mancato raggiungimento degli obiettivi formativi previsti dall’istituzione formativa.
Recesso: la legge consente alle parti di recedere liberamente al termine del periodo formativo,
dandone giusto preavviso. In mancanza, il rapporto prosegue a tempo indeterminato.
Tutela previdenziale: gli apprendisti hanno stessa tutela previdenziale dei lavoratori
subordinati standard (non è prevista più alcuna esclusione come in passato).
Quota di contingentamento: il datore, nell’assumere un apprendista, deve rispettare il
rapporto di 3/2 con riferimento alle maestranze specializzate e qualificate. Questo rapporto non
può superare il 100% per i datori di lavoro che abbiano meno di 10 dipendenti.
Onere di stabilizzazione: per i datori di lavoro con +50 dipendenti è posto un onere di
stabilizzazione, il quale prevede che l’assunzione di nuovi apprendisti del 2°tipo dev’essere
subordinata alla stabilizzazione in azienda di almeno 20% degli apprendisti il cui percorso
formativo sia terminato nei 3 anni precedenti, esclusi dal computo quelli che si sono dimessi o
sono stati licenziati per giusta causa.
Qualora venga violato l’onere di stabilizzazione, gli apprendisti assunti sono considerati
lavoratori subordinati a tempo indeterminato dalla data di costituzione del rapporto.
Esigenze Ministero del lavoro: essendo l’apprendistato uno strumento legato al sistema
d’istruzione e di accesso dei giovani al mondo del lavoro, si pongono 3 esigenze al Ministero del
lavoro:
1) Garantire gli standard formativi dell’apprendistato: gli standard formativi, di
competenza del Ministero del lavoro, previa concertazione delle Regioni+PATB devono
essere elevati a LEP e, in quanto tali, non derogabili in peius.
2) Tracciabilità della formazione dell’apprendista: l’apprendista viene registrato nel FEL:
 Apprendistato di 2°tipo: a cura del datore di lavoro.
 Apprendistato 1°-3° tipo: a cura dell’istituzione formativa o di ricerca.
All’istituzione formativa compete inoltre la certificazione delle competenze
ottenute dall’apprendista.
3) Armonizzazione delle diverse qualificazioni professionali acquisite: per consentire una
correlazione tra standard formativi e professionali è stato istituito, presso il Ministero del
lavoro, il “repertorio delle professioni”, dove vengono collezionate le qualificazioni
professionali ottenute dal singolo apprendista.

Incentivi: per incentivare l’assunzione degli apprendisti, il decreto ha previsto una serie di
agevolazioni nei confronti dei datori di lavoro:
1) Retribuzione inferiore: per l’apprendista è prevista una retribuzione inferiore rispetto al
lavoratore standard occupato nella posizione a cui ambisce l’apprendista.
2) Esclusione dal computo dei limiti numerici: gli apprendisti vengono esclusi dal computo
delle quote d’obbligo di lavoratori, previste da leggi e contratti collettivi, per l’applicazione
di particolari normative o istituti (collocamento disabili...), salvo diversa previsione della
legge/contratto collettivo.
3) Regime contributivo: per gli apprendisti l’aliquota contributiva è ridotta rispetto a quella
standard, ed è pari al 10%, a cui si aggiunge l’aliquota per l’assicurazione contro la
disoccupazione involontaria (1,31% della retribuzione imponibile). Quest’agevolazione
rimane in vigore per altri 12 mesi qualora il rapporto prosegua al termine del periodo
formativo (tranne se l’apprendista è percettore di un trattamento di disoccupazione).
4) Deducibilità del costo salariale e contributivo: il costo salariale e contributivo degli
apprendisti è interamente deducibile dalla base imponibile ai fini IRAP.
Sanzioni: per quanto riguarda l’apparato sanzionatorio, la violazione degli obblighi formativi a
carico del datore, ove impedisca il conseguimento della finalità dell’apprendistato di qualsiasi tipo,
comporta l’obbligo di corrispondere la differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta
(ragguagliata al livello di inquadramento contrattuale finale).
Se, invece, la violazione riguardi:
 La predisposizione del PFI da parte del datore;
 Divieto di retribuzione a cottimo;
 Norma sul trattamento retributivo dell’apprendista;
 Previsione di un tutor o referente aziendale
scatta una sanzione amministrativa pecuniaria da 100€-600€, maggiorata in caso di recidiva del
datore da 300€-1500€. La violazione è diffidabile da parte del personale ispettivo.
DISCIPLINA DI FONTE CONTRATTUALE
La libera iniziativa di intervento da parte della contrattazione collettiva, in merito ai contratti di
apprendistato, deve attenersi a diversi princìpi direttivi fissati dalla legge:
 Divieto di retribuzione a cottimo.
 Possibilità di inquadrare l’apprendista fino a 2 livelli inferiori rispetto alla categoria
spettante, nell’applicazione del contratto collettivo nazionale o, in alternativa, di stabilirne
la retribuzione in misura percentuale e in proporzione all’anzianità di servizio.
 Presenza di un tutor/referente aziendale.
 Possibilità di finanziamento dei percorsi formativi aziendali attraverso fondi paritetici
interprofessionali, anche mediante accordi con le Regioni.
 Possibilità di riconoscimento della qualificazione professionale ai fini contrattuali e delle
competenze acquisite al termine del contratto.
 Registrazione della formazione effettuata e della qualificazione professionale ai fini
contrattuali nel FEL.
 Possibilità di prolungare ulteriormente il periodo di apprendistato in caso di malattia,
infortunio o altra causa di sospensione involontaria del rapporto superiore a 30 gg.

APPRENDISTATO 1° TIPO
Introdotto nel 2003 con la legge Biagi, l’apprendistato 1° tipo è rimasto inapplicato fino alla
riforma del 2015. Innanzitutto, è stata eliminata la scelta fatta nel 2003 di separare i percorsi
scolastici primari (apprendistato 1° tipo) da quelli secondari superiori (3° tipo), riunendoli entrambi
nell’apprendistato di 1° tipo.
L’apprendistato di 1° tipo tende al conseguimento della qualifica, del diploma professionale,
diploma di istruzione superiore secondarie e, infine, del certificato di specializzazione tecnica
superiore. La competenza di tale disciplina è affidata alle Regioni+PATB, con un potere
sostitutivo del Ministero del lavoro in caso di inerzia.
Età: i giovani che possono essere assunti col contratto di apprendistato di 1° tipo sono ricompresi
tra 15-25 anni.
Durata: la durata dell’apprendistato è determinata in base al titolo da conseguire, ma non può
essere superiore a 3 anni, elevati a 4 per il conseguimento del diploma professionale
quadriennale. È comunque possibile una proroga fino ad 1 anno per i giovani qualificati e
diplomati, ai fini dell’acquisizione o consolidamento di ulteriori competenze tecnico-professionali e
specialistiche, utili al conseguimento del Certificato Specializzante Tecnica Superiore (CSTS) o del
diploma di maturità professionale.
Per non pregiudicare il percorso scolastico, la legge fissa anche un tetto massimo delle ore di
formazione esterna all’azienda (impartita nell’istituzione formativa) nella misura del 60% dell’orario
ordinamentale del 2° anno, 50% per gli anni successivi.
Retribuzione: per incentivarne l’utilizzo, non è previsto alcun obbligo retributivo a carico del
datore di lavoro per l’apprendistato di 1° tipo per le ore di formazione svolte nell’istituzione
formativa, mentre vi è una riduzione del 10% della retribuzione per le ore di formazione a carico
del datore di lavoro (salvo diversa previsione dei contratti collettivi).
Trasformazione 1°→2° tipo: è possibile trasformare l’apprendistato di 1° tipo in 2° tipo entro
il limite di durata massima dei 2 periodi, individuato dalla contrattazione collettiva.
Assicurazione: per quanto riguarda l’alternanza scuola-lavoro, l’assicurazione contro infortuni
sul lavoro e malattie professionali è obbligatoria, e a carico dell’istituzione formativa.

APPRENDISTATO 2° TIPO
L’apprendistato professionalizzante è utilizzabile da tutti i datori di lavoro (pubblici/privati) per il
conseguimento di una qualificazione professionale.
Età: è destinato ai giovani tra i 18-29 anni, con possibilità di abbassare la quota minima di età a 17
anni se il giovane è in possesso di una qualificazione professionale.
Durata: la durata e la modalità di erogazione dell’apprendistato sono rimesse alla
contrattazione collettiva nazionale in base alla qualificazione da conseguire. In ogni caso, la durata
non può essere superiore a 3 anni, elevata a 5 anni per la figura professionale dell’artigiano.
Altri destinatari: con l’apprendistato di 2° tipo si possono assumere, senza limiti di età, anche i
lavoratori iscritti nelle liste di mobilità (ormai soppresse) e tutti i percettori di trattamenti di
disoccupazione, per cui però non operano i benefici contributivi in favore del datore di lavoro
in proroga per 1 anno in caso di mantenimento in servizio dell’apprendista alla fine del contratto,
non essendo consentita al datore la disdetta dello stesso.

APPRENDISTATO 3° TIPO
L’apprendistato specializzante riguarda tutti i percorsi di alta formazione, con una stringente
interazione tra alta formazione (anche universitaria) e apprendistato. È utilizzato per:
 Conseguimento di un titolo di studi universitario o di alta formazione (tra cui dottorato di
ricerca).
 Conseguimento di diplomi dei percorsi ITS.
 Attività di ricerca.
 Praticantato per l’accesso a professioni ordinistiche.
Età: l’apprendistato di 3° tipo è dedicato ai giovani tra 18-29 anni, che abbiano il diploma di
istruzione secondaria superiore o professionale.
Competenza: compete alle Regioni+PATB la disciplina dei profili formativi dell’apprendistato
3° tipo, sentite le associazioni territoriali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente
più rappresentative sul piano nazionale, le Università, gli ITS e le altre istituzioni di ricerca e
formative.
PFI: il PFI dev’essere predisposto dall’istituzione formativa col coinvolgimento dell’impresa.
Durata: il rapporto tra orario ordinamentale/formazione esterna all’azienda svolta
nell’istituzione formativa non può superare il 60% (anche se tale percentuale è derogabile).
Retribuzione: non è previsto alcun obbligo retributivo a carico del datore di lavoro per
l’apprendistato di 1° tipo per le ore di formazione svolte nell’istituzione formativa, mentre vi è
una riduzione del 10% della retribuzione per le ore di formazione a carico del datore di lavoro
(salvo diversa previsione dei contratti collettivi).
Trasformazione 3°→2° tipo: è possibile trasformare l’apprendistato di 3° tipo in 2° tipo entro
il limite di durata massima dei 2 periodi, individuato dalla contrattazione collettiva.
INPS= istituto nazionale della previdenza sociale

DID= dichiarazione di immediata disponibilità

ANPAL= Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro

Rete= Rete Nazionale dei Servizi per le politiche del lavoro

PATB= province autonome Trento e Bolzano

SIUPoL= Sistema Informativo Unitario delle Politiche del Lavoro

LEP= livelli essenziali delle prestazioni

PSP= Patto di Servizio Personalizzato

AIR= Assegno Individuale di Ricollocazione

NASpI= Nuova Prestazione di Assicurazione Sociale per L’impiego

RdC= Reddito di Cittadinanza

DIS-COLL= indennità di disoccupazione mensile per collaboratori coordinati e continuativi

ISFOL= Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori

INAPP= Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche

FEL= fascicolo elettronico del lavoratore

FEA= fascicolo elettronico dell’azienda

IRPEF= Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche

INAIL= Istituto nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro

CIG= Cassa Integrazione Guadagni

CIGS= Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria

LSU= Lavoratori Socialmente Utili

REI= Reddito di inclusione

SIFoP= Sistema Informativo della Formazione Professionale

MIUR= Ministero dell’Università e della Ricerca

IRAP= imposta regionale sulle attività produttive

CSTS= Certificato Specializzante Tecnica Superiore

ITS= istituto tecnico superiore


DISCIPLINA LAVORO FLESSIBILE

INTRODUZIONE
Nella tutela del prestatore di lavoro all’interno del mercato del lavoro rientra anche la disciplina
relativa alla domanda flessibile della forza-lavoro.
Flessibilità del lavoro:
 Legislazione antifraudolenta (1960): per lungo tempo la legge ha voluto tutelare il
lavoratore dalla domanda di prestazioni di lavoro temporaneo o discontinuo (flessibile),
dettando una disciplina che, restringendo l’autonomia negoziale delle parti nella
formazione/esecuzione di questi contratti, perseguisse l’obiettivo di dare continuità e
stabilità dell’occupazione al prestatore di lavoro (legislazione antifraudolenta→
disciplina contratto a tempo determinato-1962; divieto di intermediazione e interposizione nell’impiego dei
lavoratori nell’appalto di manodopera-1960).
 Flessibilità contratta (’80-’90): intorno agli anni ’80-’90 si è assistito ad un progressivo
allentamento dei limiti legali per il ricorso a forme di lavoro flessibile, in ragione delle
crescenti esigenze di flessibilizzazione nell’utilizzo di forza-lavoro da parte delle imprese.
Ciò si è realizzato attraverso il conferimento alla contrattazione collettiva della facoltà di
temperare tali limiti legali (flessibilità contratta) e, in tempi più recenti, attraverso la
soppressione di quest’ultimi.
Lavoro a tempo determinato:
 Ipotesi contrattuali (’70): la disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato
nacque nel 1960, il quale prevedeva il suo ricorso solo per determinate ipotesi
tassativamente previste dalla legge. Intorno agli anni ’70 c’è stato un ampliamento dei
casi in cui era possibile il ricorso al lavoro a tempo determinato, con l’attribuzione alla
contrattazione collettiva della competenza di individuare le ipotesi di ricorso ad esso,
ulteriori rispetto alle ipotesi legali.
 D.lgs. 368/2001: il percorso di ampliamento è proseguito fin al 2001, quando è stato
emanato un decreto che ha previsto le assunzioni a tempo determinato per ragioni
oggettive (al di fuori delle ipotesi legali, ed entro eventuali limiti della contrattazione collettiva).
Lavoro temporaneo:
 Lavoro temporaneo (interinale-1997): nel ’97 è stata emanata una legge che consentiva
la disciplina del lavoro temporaneo (interinale), che derogava il generale divieto di
intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro del 1960, consentendo alla
contrattazione collettiva di prevedere ulteriori ipotesi di lavoro temporaneo rispetto a
quelle legali.
 D.lgs. 276/2003: l’istituto è stato riformato con la legge Biagi, che lo ha ridenominato
“somministrazione di lavoro”, con l’obiettivo di rendere la disciplina meno vincolante
per le imprese.
Rapporti di lavoro “atipici”: nel corso degli anni, dunque, si è assistito ad un aumento dei
contratti di lavoro flessibili che si discostano dal modello tipico del lavoratore a tempo pieno
e indeterminato. Tra i rapporti di lavoro “atipici”, oltre al lavoro a termine e lavoro
somministrato, rinveniamo: contratto di lavoro a tempo parziale; di lavoro ripartito; lavoro
intermittente; contratto di lavoro parasubordinato.
Negli anni più recenti, tuttavia, queste forme di lavoro sono state oggetti di diversi dibattiti
politici in quanto, seppur la loro diffusione ha favorito la flessibilità organizzativa delle imprese,
ha al contrario causato la diffusione di una grave precarietà occupazionale. Per cui i diversi
interventi legislativi in merito, talvolta, sono in contrasto tra loro (per cui alcuni aumentano la flessibilità,
altri la restringono ecc.).

Jobs Act (2014-15): la linea di apertura verso la flessibilità tipologica ha infine prevalso con
l’emanazione dei provvedimenti legislativi da parte del Governo Renzi (Jobs Act 2014-15),
dapprima eliminando i vincoli causali al contratto di lavoro a tempo determinato e alla
somministrazione, e poi riordinando le diverse fattispecie attraverso la redazione di un testo
organico semplificato (d.lgs. 81/2015).
D.lgs. 81/2015: il decreto in realtà ha avuto dei risultati inferiori alle aspettative, poiché,
sostanzialmente, ha eliminato il contratto di lavoro ripartito, mentre le altre tipologie di lavoro
flessibile (a tempo parziale; intermittente; a tempo determinato; somministrazione di lavoro; apprendistato) sono
state solo modificate dalla disciplina preesistente.

Decreto dignità (2018): una parziale inversione di tendenza, poi, la si è vista con l’introduzione
del decreto dignità (d.l. 87/2018), la quale ha irrigidito nuovamente la disciplina reintroducendo il
vincolo causale del lavoro a termine e della somministrazione a tempo determinato. Tuttavia,
questo provvedimento ha scoraggiato i datori di lavoro ad assumere lavoratori a tempo
determinato, incrementando le assunzioni a tempo indeterminato.
1) CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO

EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA LEGISLATIVA


Il contratto di lavoro a tempo determinato è il contratto di lavoro che prevede l’apposizione di
un termine finale alla durata dello stesso. Può essere concluso tra un datore di lavoro e un
lavoratore, per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, ed il rapporto cessa alla scadenza
del termine, senza necessità di alcuna dichiarazione del recesso unilaterale.
La clausola di apposizione del termine è diversa dalla clausola di durata minima del contratto,
la quale garantisce al lavoratore la conservazione del posto di lavoro per un dato periodo di
tempo, poiché obbliga il datore a non esercitare il potere di recesso. La durata minima talvolta
è garantita anche dalla legge (operatori agricoli il cui rapporto deve durare almeno 2 anni).

Art. 2097 cc: inizialmente, il legislatore ha dedicato al contratto a termine un articolo del
Codice che limitasse l’uso incondizionato dello stesso, in quanto pensava fosse in contrasto con
l’interesse alla continuità dell’occupazione del lavoratore. Perciò l’art. 2097 cc disponeva che “il
contratto di lavoro si deve reputare a tempo indeterminato se il termine non risulta da atto
scritto o dalla specialità del rapporto”, e sanciva l’inefficacia dell’apposizione del termine per
atto scritto quando questa serviva “per eludere le disposizioni che riguardano il contratto a
tempo indeterminato”. Infine, disponeva che “se la prestazione lavorativa continuava dopo la
scadenza del termine, e non risultava una contraria volontà delle parti, il contratto si considerava a
tempo indeterminato”.

L. 230/1962: la scarsa efficacia pratica della norma codicistica ha portato, con la l.230/1962,
alla sua abrogazione. In più, essa ha disposto che i casi di apposizione del termine andavano visti
come eccezioni alla regola generale della durata a tempo indeterminato dei contratti di lavoro,
ammessi solo in certi casi tassativamente previsti dalla legge, relativi a:
 Situazioni occasionali e straordinarie nell’attività dell’impresa.
 Specifici settori produttivi: spettacoli, programmi radiotelevisivi, trasporto aereo, servizi aeroportuali.
 Autorizzazione dell’autorità amministrativa: per la periodica intensificazione di
determinate attività (punte stagionali).
 Autorizzazione della contrattazione collettiva.
 Dirigenti: la legge dettava la libera utilizzazione del contratto a termine per la loro
assunzione.
Al di fuori di queste ipotesi, il termine doveva considerarsi come non apposto e, dunque, il
contratto era da considerarsi a tempo indeterminato.

D.lgs. 368/2001 (liberalizzazione controllata): la legge del ’62 rimase in vigore fino al 2001,
quando la l. n°368 ne ha disposto l’abrogazione. Tale legge introduceva delle causali per il
ricorso al contratto a termine, disponendo che il contratto a tempo determinato poteva essere
utilizzato in presenza di ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo e sostitutivo.

L. 92/2012 (legge Fornero): ulteriore passo verso la liberalizzazione del contratto a termine si è
avuto con la legge Fornero che, in deroga al principio della necessaria giustificazione,
ammetteva la possibilità di stipulare un contratto a tempo determinato “acausale” della durata
massima di 12 mesi, non prorogabili.

D.lgs. 81/2015 (Jobs Act): con la riforma Renzi, la disciplina del contratto a tempo
determinato è stata completamente riscritta, attuando la totale liberalizzazione dell’istituto
rimuovendo le previgenti causali per il suo utilizzo.

D.l. 87/2018 (decreto dignità): un piccolo passo indietro è stato fatto con il decreto dignità del
2018, che ha disposto innanzitutto la riduzione della durata complessiva del rapporto a tempo
determinato e delle proroghe legate ad esso, ma anche la reintroduzione delle causali per le
proroghe oltre 1 anno, rinnovi o per il contratto con durata iniziale superiore a 12 mesi.
DAL D.LGS. 368/2001 AL D.LGS. 81/2015
D.lgs. 368/2001: Il d.lgs. 368/2001 nasce dal recepimento della direttiva comunitaria 99/70
volta alla promozione, e non più alla restrizione, della domanda di lavoro a tempo determinato.
Il d.lgs. 368/2001 ha abrogato anzitutto la previgente legge in merito (l. 230/1962) ed è stata, fino
al Jobs Act, la fonte esclusiva di disciplina dell’intera materia, oggetto tuttavia di periodici
rimaneggiamenti nel corso degli anni e del susseguirsi dei Governi (2005/07/08/12/13/14).
Apposizione del termine: la principale novità apportata è stato l’abbandono del principio di
tassatività delle fattispecie giustificatrici in cui si poteva apporre il termine finale (causali).
Infatti, il decreto stabiliva che l’apposizione del termine era consentita per ragioni di carattere
tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo (causalone) (sostituzione di lavoratori in ferie, distaccati o
in trasferta; assunzione di lavoratori specializzati per determinati tipi di lavorazione o fasi di produzione; assunzioni di
lavoratori per variazioni quantitative di attività dovute a fattori stagionali o indotte dal mercato ecc.).

L. 92/2012: la riforma Fornero ha introdotto una deroga alla regola della necessaria
giustificazione causale nella stipula del contratto a tempo indeterminato. La legge ammetteva
che, per lo svolgimento di qualsiasi mansione, le parti (datore/utilizzatore; lavoratore) potessero
stipulare un primo contratto a tempo determinato per una durata complessiva non superiore
a 12 mesi, senza che ricorresse il “causalone”. Di fatto, dunque, la nuova disciplina allargava
considerevolmente la platea di lavoratori assumibili con contratto a tempo determinato, anche se
l’apposizione del termine rimaneva comunque vincolata all’esistenza obiettiva di una causa
giustificatrice della temporaneità del rapporto, la cui individuazione era rimessa alla scelta
delle parti, e sul datore di lavoro incombeva l’onere della prova di tale causa o ragione
giustificatrice.

D.lgs. 81/2015: la riforma Renzi ha poi abrogato totalmente la previgente disciplina del 2001,
ponendosi come fonte esclusiva del lavoro a tempo determinato. La principale novità da esso
apportata è stata l’eliminazione del “causalone” per l’assunzione a tempo determinato. In più, il
d.lgs. 81/2015 prevedeva anche che la durata massima del contratto a termine fosse di 36 mesi,
prorogabile per un massimo di 5 volte.

CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO OGGI (L. 87/2018)


L. 87/2018: il decreto dignità ha rivisitato la disciplina del contratto a tempo determinato,
con il dichiarato obiettivo di contrastare la precarietà. 3 sono stati gli interventi apportati dal
decreto del 2018:
1) Ritorno parziale al principio di giustificazione causale: il contratto a termine con
durata non superiore a 12 mesi è esente dall’obbligo di giustificazione causale.
Se, invece, il rapporto a tempo determinato durasse più di 12 mesi, anche in caso di
proroghe dopo i primi 12 mesi o di rinnovi, il datore dovrà esplicitare nel contratto la causa
giustificatrice che rientri in queste categorie:
 Esigenze temporanee e oggettive estranee al normale processo produttivo:
lancio di un nuovo prodotto; sperimentazione di nuove tecniche di lavorazione ecc.
 Esigenze di sostituzione di lavoratori: perché in malattia, in maternità ecc.
 Esigenze dovute ad un incremento temporaneo, significativo e non
programmabile dell’attività ordinaria: commesse o richieste di fornitura di servizi, da
realizzare in un dato periodo temporale, non ragionevolmente programmabili. Per cui sono escluse
le commesse cicliche prevedibili (punte stagionali).
2) Riduzione della durata massima del rapporto: il rapporto ha una durata massima di 24
mesi, e non più di 36 mesi.
3) Diminuzione del numero di proroghe ammissibili: la proroga non richiede l’obbligo di
giustificazione causale se la durata iniziale del contratto sia inferiore a 12 mesi; al
contrario, essa è ammissibile solo in presenza delle causali, per la durata massima del
contratto di 24 mesi. Infine, la proroga è ammessa per 4 volte nell’arco del biennio di
riferimento.
Prescrizioni formali: ad eccezione dei rapporti non superiori ai 12 gg, il novellato d.lgs.
81/2015 prevede che si ha prescrizione formale dei contratti a tempo determinato per:
 Apposizione del termine: è priva di effetto se non risulta da atto scritto. Inoltre, una
copia dell’atto va consegnata al lavoratore entro 5 gg lavorativi dall’inizio della
prestazione.
 Causali: esse vanno sempre obbligatoriamente indicate per iscritto in caso di rinnovo,
mentre in caso di proroghe solo se il termine complessivo supera i 12 mesi.

DIVIETI, ESCLUSIONI E DISCIPLINE SPECIALI


Divieto di lavoro a tempo determinato: l’apposizione del termine è vietata in alcuni casi
previsti da legge, nei quali il contratto si considera sempre a tempo indeterminato:
1) Sostituzione dei lavoratori in sciopero.
2) Nelle unità produttiva in cui, nei 6 mesi precedenti, siano state effettuate procedure
di licenziamento collettivo, che abbiano interessato lavoratori adibiti alle stesse mansioni.
3) Nelle unità produttive in cui siano previste riduzioni di orario o sospensioni di lavoro
con diritto al trattamento d’integrazione salariale (CIGS), per i lavoratori adibiti alle stesse
mansioni cui si riferisce il contratto a termine.
4) Nelle imprese inadempienti per gli obblighi relativi alla valutazione dei rischi per la
sicurezza e la salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro.
Esclusione: vengono esclusi dal campo di applicazione del contratto a termine particolari
rapporti o settori produttivi, in quanto destinatari di una disciplina speciale (lavoratori in mobilità,
la cui durata non può eccedere i 12 mesi; operai a tempo determinato nell’agricoltura; lavoratori portuali; personale
volontario del Corpo nazionale dei vigili del fuoco; lavoratori nell’ambito turistico e pubblico nei casi individuati dalla
contrattazione collettiva; ricercatori universitari; personale docente ed ATA per il conferimento delle supplenze; personale
sanitario del SSN).
Disciplina speciale: tra le discipline speciali, meritano di essere ricordate quelle relative ai:
 Dirigenti: in deroga alla generalità di tutti i lavoratori, i dirigenti possono stipulare
contratti a tempo determinato di durata non superiore a 5 anni, con facoltà di recesso,
previo giusto preavviso, dopo 3 anni. La ratio di questa scelta è rinvenibile nella
considerazione del legislatore che i dirigenti hanno più facile accesso alle opportunità di
nuova occupazione, oltre che all’interesse delle imprese alla flessibilità delle prestazioni
dirigenziali.
 Musicisti/artisti: al personale artistico e tecnico delle fondazioni musicali non si
applicano le disposizioni in materia di durata massima del rapporto, di proroghe e di
rinnovi.

PROROGA DEL TERMINE


Il termine di proroga può essere liberamente prefissato, senza necessità di forma scritta, solo se
la durata iniziale del contratto non sia superiore a 12 mesi. Superati questi, la proroga è
ammissibile solo in presenza delle causali (esigenze temporanee e oggettive estranee al normale processo
produttivo: lancio di un nuovo prodotto; sperimentazione di nuove tecniche di lavorazione ecc.; esigenze di sostituzione di
lavoratori: perché in malattia, in maternità ecc.; esigenze dovute ad un incremento temporaneo, significativo e non
programmabile dell’attività ordinaria)
per l’instaurazione di contratti a termine di durata massima di 24
mesi. Inoltre, la proroga è ammessa solo per 4 volte nell’arco del biennio di riferimento, a
prescindere dal numero dei contratti. “A prescindere dal numero dei contratti” si può intendere
in 2 modi:
a) Inclusivo di proroghe e rinnovi: per cui il n° massimo di proroghe dovrà essere calcolato
complessivamente, senza distinguere tra unico contratto a termine prorogato e quello di
una successione di contratti nel rispetto delle interruzioni previste dalla legge.
b) Proroghe e rinnovi conteggiati separatamente: per cui il n° massimo di proroghe potrà
essere variabile a seconda del n° di rinnovi (fino a 4 proroghe per ogni rinnovo).
La 1° opzione sembra quella preferita, poiché evita al datore la possibilità di eludere il limite al n°
massimo di proroghe, ricorrendo ad interruzioni brevi.
Violazione della proroga: l’apparato sanzionatorio che riguarda la violazione delle proroghe
opera diversamente a seconda della casistica:
 N° di proroghe superiore a 4: la conversione da contratto a tempo determinato in
contratto a tempo indeterminato opera ex nunc (dalla 5° proroga).
 Difetto di indicazione delle causali: la conversione da contratto a tempo determinato
in contratto a tempo indeterminato opera ex tunc (fin dalla stipulazione).

CONTINUAZIONE DEL RAPPORTO DOPO LA SCADENZA E SUCCESSIONI DI CONTRATTI A TERMINE


Continuazione oltre la scadenza: La continuazione del rapporto oltre la scadenza inizialmente
fissata, o prorogata successivamente, non è di per sé illecita, ma dev’essere accompagnata
dall’obbligo di corrispondere al lavoratore, in proporzione alle giornate di prosecuzione del
rapporto, una maggiorazione della retribuzione:
 Del 20% fino al 10° gg successivo alla scadenza.
 Del 40% per ogni ulteriore gg entro il limite massimo di 30 gg (contratti di durata minore di
6 mesi) o 50 gg (contratti di durata superiore a 6 mesi).

Periodo di tolleranza: questo periodo di tolleranza, in cui la validità del contratto a termine
rimane intatta per un determinato periodo di tempo, è equiparabile ad una breve proroga
tacita, giustificata dall’immediata esigenza di continuazione dell’attività lavorativa. La
maggiorazione retributiva (su cui gravano contributi previdenziali e ritenute fiscali), invece, vale come una
sorta di penale o sanzione economica volta a disincentivare la prosecuzione del rapporto a
termine oltre la scadenza, pur rimanendo comunque un comportamento legittimo e lecito.

Sanzioni: se il rapporto a tempo determinato continui anche oltre il “periodo di tolleranza”,


il d.lgs. 81/2015 prevede la conversione/trasformazione del contratto a termine, che viene
considerato alla stregua di un contratto a tempo indeterminato dalla data di scadenza del
periodo di tolleranza.

Successione dei contratti a tempo determinato: la legge ha previsto degli intervalli temporali
tra contratti a termine successivi (stop and go) che devono essere rispettati per evitare la
conversione dell’ultimo contratto a termine in uno a tempo indeterminato:
 Se il lavoratore viene riassunto entro 10 gg dalla scadenza del contratto a tempo
determinato di durata fino a 6 mesi, il 2° contratto verrà considerato a tempo
indeterminato.
 Se il lavoratore viene riassunto entro 20 gg dalla scadenza del contratto a tempo
determinato di durata superiore a 6 mesi, il 2° contratto verrà considerato a tempo
indeterminato.
Esclusioni: questa disciplina non si applica ai lavoratori stagionali e a tutte le altre ipotesi
previste espressamente dai contratti collettivi.

Sanzioni: anche in questo caso è prevista la sanzione della conversione qualora le parti non
rispettino gli intervalli temporali tra un’assunzione e quella successiva.

Limite alle successioni: successivamente la legge ha previsto ulteriori limiti alla successione dei
contratti a termine, disponendo che la successione di contratti a termine tra lavoratore e
stesso datore di lavoro, per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale, non
possa eccedere i 24 mesi, calcolati sommando tutti i periodi del rapporto indipendentemente dalla
durata e dal n° di interruzioni del rapporto.

Deroga successione “in sede protetta”: il legislatore ha poi riconosciuto un’ulteriore deroga
alla possibilità di stipulare un contratto a termine oltre il limite dei 24 mesi. Questa possibilità è
concessa, per 1 sola volta, con una procedura “in sede protetta”, ossia le stesse parti possono
stipulare un nuovo contratto a termine, di durata max di 12 mesi, a condizione che ciò avvenga
presso la Direzione territoriale del lavoro competente per territorio.
Computo del limite di 24 mesi: per il computo del limite massimo dei 24 mesi, si tiene conto
anche dei periodi di missione nell’ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato,
svolti dal lavoratore presso l’impresa utilizzatrice, con riferimento a mansioni dello stesso
livello e categoria legale. La ratio di questa norma è quella di evitare che, attraverso le
somministrazioni di lavoro, i datori possano aggirare i limiti di durata all’impiego dello stesso
lavoratore, ma con riferimento a mansioni di pari livello e categoria legale (modificando invece questi 2
parametri, le missioni non vengono computate nel calcolo).

DISCIPLINA DEL RAPPORTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO


Principio di non discriminazione: il d.lgs. 81/2015 enuncia il principio di parità di
trattamento economico e normativo tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo
indeterminato comparabili (inquadrati nello stesso livello e con le stesse mansioni). Ovviamente, il
trattamento normativo ed economico riservato ai lavoratori a tempo determinato sarà in
proporzione al periodo lavorativo prestato.

Sanzioni: l’inosservanza del principio di non discriminazione determina la responsabilità


contrattuale del datore di lavoro per inadempimento degli obblighi a suo carico, oltre che ad
una sanzione amministrativa pecuniaria variabile da 25,82€-154,94€ (da 154,94€-1.032,91€ in caso di
inosservanza a +5 lavoratori).

Criteri di computo: per l’applicazione di qualsiasi disciplina legale o contrattuale legata al


computo dei dipendenti del datore di lavoro, si deve tener contro del numero medio mensile di
lavoratori a tempo determinato impiegati negli ultimi 2 anni (compresi i dirigenti), sulla base
dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro.

Scioglimento del rapporto “ante tempus”: nel Jobs Act non v’è alcun riferimento allo
scioglimento del rapporto a tempo determinato prima della scadenza. Escluso il ricorso al
recesso unilaterale, contrario alla natura stessa del contratto a termine, è possibile recedere prima
della scadenza qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione (anche temporanea)
del rapporto. Non è invece applicabile la previsione del giustificato motivo, in quanto la legge
delimita la sfera di applicabilità al rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Dunque, oltre alla sussistenza di una giusta causa, la legge assicura alle parti (specie al lavoratore)
una stabilità relativa al vincolo contrattuale, il quale dovrà proseguire fino alla scadenza
concordata.

LIMITAZIONI QUANTITATIVE APPOSIZIONE DEL TERMINE; ESENZIONI; DIRITTO DI PRECEDENZA


Quota di contingentamento: oltre alla giustificazione causale, il datore di lavoro,
nell’assunzione di lavoratori a tempo determinato, dovrà tener conto anche di un limite
quantitativo fissato dalla legge o contrattazione collettiva (quota di contingentamento):
𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨
  𝟐𝟎%: il datore di lavoro non può assumere lavoratori a
𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐢𝐧𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨
termine in misura superiore al 20% dei dipendenti a tempo indeterminato, in forza dal
1° gennaio dell’anno di assunzione. Se la soglia percentuale è  0,5, si effettua un
arrotondamento del decimale all’unità superiore. Inoltre, per i datori che abbiano un max
di 5 dipendenti, è sempre possibile assumere un lavoratore con contratto a tempo
determinato.
𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐢𝐧 𝐬𝐨𝐦𝐦𝐢𝐧𝐢𝐬𝐭𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨
  𝟑𝟎%: infine, il
𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐢𝐧𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨
limite del 20% si accompagna al limite complessivo del 30% rispetto ai lavoratori a
tempo indeterminato, della somma tra lavoratori a termine + lavoratori in
somministrazione a tempo determinato.
Tuttavia, questa previsione è derogabile dai contratti collettivi, che possono prevedere anche
che l’intera forza lavoro dell’impresa sia assunta con contratto di lavoro a tempo
determinato.
Sanzioni: il Jobs Act, in caso di violazione delle quote di contingentamento, esclude
espressamente la trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato.
La sanzione per il datore consiste in una mera sanzione amministrativa, il cui ammontare è pari,
per ciascun lavoratore:
 20% della retribuzione: per ogni mese/frazione di mese superiore a 15 gg di durata del
rapporto, se il n° dei lavoratori assunti in violazione del requisito percentuale non è
superiore a 1.
 50% della retribuzione: per ogni mese/frazione di mese superiore a 15 gg di durata del
rapporto, se il n° dei lavoratori assunti in violazione del requisito percentuale è
superiore a 1.

Esenzioni alla soglia del 20%: le fattispecie esenti dalla soglia del 20%, previste dalla legge,
sono:
1) Avvio di nuove attività: i datori di lavoro che avviino una nuova attività (limitatamente a
periodi definiti, in misura non uniforme per aree geografiche e/o settori merceologici
previsti dai contratti collettivi) possono assumere lavoratori superando il limite del 20%.
2) Start-up innovative: per un periodo di 4 anni dalla costituzione.
3) Attività stagionali: appositamente individuate dal Ministero del lavoro.
4) Realizzatori di specifici spettacoli o specifici programmi radiofonici, televisivi, teatrali
ecc.
5) Assunzione di lavoratori in fascia debole: sono contratti giustificati da una causale
“soggettiva” volta a promuovere l’occupazione di lavoratori con più di 50 anni.

Diritto di precedenza: il legislatore ha previsto, con disposizione tuttavia derogabile dai


contratti collettivi, un diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato, effettuate
dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi per:
 Lavoratori a tempo determinato per + di 6 mesi: i lavoratori che abbiano avuto 1 o +
contratti a tempo determinato nella stessa azienda per un totale superiore a 6 mesi
hanno diritto di prelazione rispetto ad altri soggetti. Tuttavia, il diritto di prelazione deve
risultare nell’atto scritto in cui vi è stata l’apposizione del termine. Perciò non è
necessario stipulare un documento apposito. Inoltre, non è prevista alcuna sanzione per il
datore in caso di difetto di forma scritta.
La volontà di esercitare il diritto di prelazione va manifestata entro 6 mesi dalla
cessazione del rapporto a termine (3 mesi per lavoro stagionale), ma si estingue ugualmente
entro 1 anno dalla cessazione.
 Maternità: il congedo di maternità fa scattare il periodo di decorrenza di 12 mesi entro
cui possono essere effettuate nuove assunzioni a tempo indeterminato, e nelle quali la
madre ha diritto di precedenza.

DECADENZE E TUTELE
Impugnazione: il contratto a tempo determinato dev’essere impugnato, a pena di decadenza,
entro 180 gg dalla cessazione del singolo contratto. Esso può essere impugnato con qualsiasi
atto scritto (anche extragiudiziale) idoneo a manifestare l’intento del lavoratore. Inoltre,
l’impugnazione è inefficace se nei successivi 180 gg non è seguita dal deposito del ricorso al
giudice del lavoro.
Conversione contratto a termine illegittimo: in tutte le ipotesi in cui avviene la conversione del
contratto a termine illegittimo in contratto a tempo indeterminato, il giudice condannerà il
datore ad un’indennità risarcitoria onnicomprensiva tra le 2,5-12 mensilità dell’ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, in base a parametri quali:
 N° dipendenti occupati.
 Dimensioni dell’impresa.
 Anzianità di servizio del prestatore di lavoro.
 Comportamento complessivo delle parti.
2) SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO

INTERMEDIAZIONE E INTERPOSIZIONE NEL RAPPORTO DI LAVORO


Intermediazione: l’intermediazione e interposizione nel rapporto di lavoro si manifestano
sotto diverse forme giuridiche: somministrazione del lavoro; interposizione a cottimo; appalto e subappalto di
manodopera. La cosa che accomuna queste figure è la presenza di un soggetto terzo (datore
somministratore), intermediario tra prestatore di lavoro e imprese utilizzatrici.
L’obiettivo che si vuole perseguire ricorrendo a questi istituti è quello di utilizzare la manodopera,
formalmente assunta da terzi, comprimendo così i costi del lavoro ed evitando di assumere
direttamente il personale, scaricando così su altri soggetti il rischio di contrazione dell’attività. Per
cui, l’attività degli intermediari è più volta a soddisfare la domanda di lavoro delle imprese,
piuttosto che il bisogno di lavoro dei prestatori di lavoro.
Il profitto dell’intermediario si rinviene nel margine di lucro ottenuto dalla differenza tra il
monte salari dei lavoratori occupati e il costo sopportato dall’impresa utilizzatrice.

Esternalizzazione: ai fenomeni di interposizione si collegano altre fattispecie che vanno al di là


della semplice intermediazione, costituendo fenomeni di decentramento produttivo.
L’esternalizzazione (o outsourcing) consiste nella dislocazione all’esterno dell’azienda di
determinati segmenti del processo produttivo, e può riguardare sia contratti commerciali
(appalto; franchising; sub-fornitura; cessione di contratti) che di lavoro (lavoro autonomo; parasubordinato; lavoro a
domicilio; tele-lavoro ecc.).

Sindacati: tutte le forme di intermediazione ed esternalizzazione, storicamente, non sono mai


state viste di buon occhio dai sindacati, proprio per le loro caratteristiche e perché diminuiscono
l’effettiva tutela del lavoratore sotto il punto di vista salariale e di condizioni di lavoro (ambiente,
sicurezza, orario, qualifiche).

DAL DIVIETO DI INTERMEDIAZIONE/INTERPOSIZIONE AL LAVORO TEMPORANEO


L. 1369/1960: la legge del 1960 aveva vietato espressamente qualsiasi forma di
intermediazione ed interposizione nel contratto di lavoro. Infatti, essa disponeva che “era
vietato all’imprenditore affidare in appalto, subappalto o in qualsiasi altra forma l’esecuzione
di mere prestazioni di lavoro mediante l’impiego di manodopera assunta e retribuita
dell’appaltatore o dall’intermediario, qualsiasi opera o servizio si tratti”.
Dunque, la norma vietava sia la fornitura di manodopera (somministrazione di lavoro altrui),
in cui i lavoratori vengono mandati all’utilizzatore, ma sotto la direzione dell’intermediario, sia
l’appalto di manodopera, in cui i lavoratori vengono sempre inviati all’appaltatore, il quale però
utilizza mezzi e organizzazione propri.

Sanzioni: le sanzioni prevista dalla legge in violazione di quest’obbligo erano 2:


 I lavoratori assunti in violazione degli obblighi di legge erano considerati alle
dipendenze dell’utilizzatore.
 Sanzione penale sia per l’utilizzatore, sia per l’appaltatore o altro intermediario.

Appalti leciti: tuttavia, la legge del ’60 prevedeva anche una disciplina degli appalti leciti,
distinguendo tra:
 Appalti esterni: estranei all’impresa e al suo normale ciclo produttivo, regolati dal
diritto comune.
 Appalti interni: inerenti al normale ciclo produttivo dell’impresa committente. Per
questi, la legge disponeva la responsabilità in solido tra appaltante e appaltatore nei
confronti dei lavoratori dipendenti di quest’ultimo, sia per l’applicazione di un
trattamento normativo ed economico non inferiore rispetto ai lavoratori dipendenti
dell’appaltante, sia per l’adempimento degli obblighi assistenziali e previdenziali
(uniformità di trattamento).
L. 196/1997: nel corso degli anni ’90 il divieto di intermediazione posto dalla legge del ’60 è stato
valutato come troppo rigido e, in più, in quasi tutti i Paesi comunitari era stata ammessa da lungo
tempo la somministrazione di manodopera, direttamente assunta da agenzie specializzate e inviata
a lavorare presso imprese utilizzatrici, dietro corrispettivo.
Fu così che nacque la l. 196/1997, che introdusse in ITA l’istituto del lavoro interinale (fornitura
di lavoro temporaneo), consistente in una relazione trilaterale in cui un’agenzia intermediatrice
(impresa fornitrice) inviava temporaneamente un lavoratore, da essa stessa assunto, per
effettuare una prestazione di lavoro presso un terzo (utilizzatore). Questa relazione trilaterale si
reggeva su 2 distinti rapporti contrattuali:
1) Contratto commerciale di fornitura: agenzia fornitrice – utilizzatore.
2) Contratto di lavoro: agenzia fornitrice – lavoratore.
AGENZIA  la disciplina del 1997, poi, prevedeva una rigida
FORNITRICE
disciplina per l’esercizio della:
 Attività di fornitura: era consentita solo a
contratto di  contratto di  soggetti autorizzati dal Ministero del lavoro.
lavoro fornitura
 Ricorso al lavoro temporaneo: era permesso
solo per il soddisfacimento di esigenze temporanee
dell’utilizzatore, la cui determinazione era di
lavora 
LAVORATORE presso UTILIZZATORE competenza della contrattazione collettiva (oltre alle 2
ipotesi già previste dalla legge della sostituzione dei lavoratori
assenti, e della temporanea utilizzazione in qualifiche non
previste da normali assetti produttivi aziendali).

SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO (RICORSO E DIVIETI)


D.lgs. 276/2003 (riforma Biagi): nel 2003, con la riforma Biagi, è stata abrogata la legge del
’60; inoltre, il decreto prevedeva altre 2 novità rispetto al passato:
 Agenzie autorizzate: il d.lgs. 276/2003 ha consentito alle agenzie autorizzate, oltre che lo
svolgimento di tutte le attività di somministrazione (la quale può essere svolta solo da soggetti
autorizzati in possesso di determinati requisiti di professionalità e affidabilità), anche quelle
d’intermediazione, ricerca e selezione personale, ricollocazione professionale (prima di
competenza esclusiva di imprese di fornitura e altri soggetti privati autorizzati a svolgere attività di
collocamento).
 Somministrazione a tempo indeterminato: accanto alla somministrazione a tempo
determinato, si è ammessa la possibilità della somministrazione a tempo indeterminato
(staff leasing) per alcune causali specificatamente individuate.

D.lgs. 81/2015 (riforma Renzi): dopo vari interventi, l’emanazione del Jobs Act nel 2015 ha
abrogato la disciplina previgente e ha operato un organico riordino della materia, salvo che per
i soggetti autorizzati per cui rimaneva in vigore la disposizione del 2003.

D.lg. 87/2018 (decreto dignità): infine, nel 2018 si è novellato il d.lgs. 81/2015 col decreto
dignità, il quale oggi prevede, per quanto riguarda la somministrazione di manodopera, 2
tipologie in base alla durata del contratto commerciale tra agenzia e utilizzatore:
1) Somministrazione a tempo indeterminato: è prevista una clausola legale di
𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐬𝐨𝐦𝐦𝐢𝐧𝐢𝐬𝐭𝐫𝐚𝐭𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐢𝐧𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨
contingentamento, che prevede che  𝟐𝟎% al 1°
𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐢𝐧𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨
gennaio dell’anno di stipula del contratto (con arrotondamento del decimale all’unità superiore se 0,5 o
superiore). Inoltre, la legge prevede che solo i lavoratori assunti a tempo indeterminato
possano essere somministrati a tempo indeterminato.
Infine, le PA non possono ricorrere alla somministrazione a tempo indeterminato.
2) Somministrazione a tempo determinato: vi sono 2 limiti all’assunzione di lavoratori
somministrati a tempo determinato:
𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨
a)  𝟐𝟎%.
𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐢𝐧𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐮𝐭𝐢𝐥𝐢𝐳𝐳𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞
𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐢𝐧 𝐬𝐨𝐦𝐦𝐢𝐧𝐢𝐬𝐭𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨
b)  𝟑𝟎%.
𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐚 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐢𝐧𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐮𝐭𝐢𝐥𝐢𝐳𝐳𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞
Esenzione: la legge, tuttavia, prevede l’esenzione di dette soglie percentuali se la
somministrazione a tempo determinato riguardi percettori di trattamenti di
disoccupazione o di ammortizzatori sociali (lavoratori svantaggiati), al pro di favorirne
il reinserimento lavorativo.
Deroga: i limiti per la somministrazione di manodopera sono derogabili, sia in peggio che in
meglio, dalla contrattazione collettiva.

Divieti contratti di somministrazione: il decreto individua anche dei casi in cui sia vietato il
ricorso al contratto di somministrazione (sia a tempo indeterminato che determinato):
1) Per sostituire lavoratori in sciopero.
2) Per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi.
3) Nelle unità produttive in cui, nei 6 mesi precedenti, siano state effettuate procedure di
licenziamento collettivo, che abbiano interessato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui
si riferisce il contratto di somministrazione.
4) Nelle unità produttive in cui siano previste riduzioni di orario o sospensioni di lavoro
con diritto al trattamento d’integrazione salariale (CIGS), per i lavoratori adibiti alle
stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione.

DISCIPLINA CONTRATTO COMMERCIALE E DI LAVORO NELLA SOMMINISTRAZIONE


Il contratto commerciale di somministrazione si caratterizza:
 Coinvolgimento di 3 parti: somministratore; lavoratore; utilizzatore
 Presenza di 2 contratti:
1) Contratto di somministrazione (agenzia–utilizzatore): contratto a tempo
indeterminato o determinato, con il quale un somministratore autorizzato mette
a disposizione di un utilizzatore 1 o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per
tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell’interesse, sotto la
direzione e il controllo dell’utilizzatore.
Forma: il contratto di somministrazione dev’essere stipulato per iscritto ad
substantiam, e deve contenere:
 Autorizzazione rilasciata al somministratore.
 N° di lavoratori da somministrare.
 Presenza di eventuali rischi per la salute del lavoratore.
 Data inizio e durata prevista del contratto di somministrazione.
 Mansioni alle quali saranno adibiti i lavoratori e loro inquadramento.
 Luogo, orario e trattamento economico/normativo dei lavoratori.
La mancanza della forma scritta provoca la nullità del contratto di
somministrazione, per cui i lavoratori verranno considerati alle dipendenze
dell’utilizzatore.
Obblighi utilizzatore: l’utilizzatore avrà l’obbligo di comunicare al
somministratore il trattamento economico e normativo che egli di solito applica
ai suoi dipendenti (per le stesse mansioni dei somministrati), e a rimborsargli gli oneri
retributivi e previdenziali sostenuti in favore dei lavoratori.
2) Contratto di lavoro subordinato (agenzia–lavoratore): l’agenzia fornitrice può
assumere il lavoratore con:
 Contratto a tempo indeterminato: il rapporto di lavoro sarà soggetto alle
regole previste per il contratto a tempo indeterminato. Il lavoratore avrà
diritto, per i periodi di attesa della missione, ad un’indennità mensile di
disponibilità, il cui importo è stabilito dai contratti collettivi (importo non può
comunque essere inferiore alla misura minima prevista con decreto dal Ministero del lavoro).
 Contratto a tempo determinato: il rapporto di lavoro sarà soggetto alle
regole previste per il contratto a tempo determinato per quanto compatibile.
Infatti, vengono espressamente escluse le disposizioni riguardanti:
 Intervalli temporali tra contratti successivi.
 Fissazione del n° complessivo di contratti stipulabili dal datore.
 Diritto di precedenza per il lavoratore a termine per +6 mesi.
Causali: il d.lgs. 81/2015 ha previsto inoltre l’applicabilità delle causali
giustificatrici del contratto a termine esclusivamente all’utilizzatore, e
non al rapporto tra agenzia–lavoratore. Dunque, l’agenzia di
somministrazione, quando assume un lavoratore a tempo determinato,
dovrà rispettare il vincolo causale (se supera i 12 mesi o in caso di rinnovo) in base
alle esigenze organizzative-produttive dell’utilizzatore.
Sanzioni: in caso di mancata/erronea indicazione delle causali, la
conversione del contratto a termine a tempo indeterminato si produrrà
in capo all’agenzia (il vizio incide sulla validità del termine, e non rientra nelle ipotesi di
somministrazione irregolare che giustificano la costituzione di un rapporto alle dipendenze
dell’utilizzatore).

Proroghe: il termine inizialmente posto alla durata del contratto di somministrazione può
essere prorogato, col consenso del lavoratore somministrato, per atto scritto (nei casi e per la
durata prevista dai contratti collettivi).

Computo del lavoratore somministrato: per quanto riguarda il rapporto di utilizzazione


(lavoratore–utilizzatore) la legge prevede che il lavoratore somministrato non dev’essere
computato ai fini dell’applicazione di norme di legge o di contratto collettivo che lo richiedano, ad
eccezione:
 Normative in materia di igiene e sicurezza sul lavoro.
 Possibilità di computare i lavoratori disabili con almeno 12 mesi di lavoro in
somministrazione, al fine degli incentivi relativi ai disabili.

Scissione potere disciplinare vs potere direttivo: nel contratto di somministrazione avviene il


distacco tra la titolarità del contratto (spettante all’agenzia) e l’esercizio dei poteri di direzione e
controllo (spettante all’utilizzatore). Per cui, il potere direttivo e di controllo, durante tutto il
contratto di somministrazione, spetta all’utilizzatore, mentre il potere disciplinare nei confronti
dei lavoratori somministrati rimane all’agenzia di somministrazione, a patto che l’utilizzatore
comunichi gli elementi oggetto di eventuale contestazione.

Parità di trattamento: il decreto sancisce anche il principio di non discriminazione dei


lavoratori somministrati rispetto a quelli dipendenti dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte.
Qualora l’utilizzatore adibisca il lavoratore somministrato a mansioni di livello
superiore/inferiore, deve darne immediata comunicazione all’agenzia fornitrice e al
lavoratore, pena la corresponsione in via esclusiva della differenza retributiva e dell’eventuale
risarcimento del danno per l’assegnazione a mansioni inferiori.

Responsabilità: per quanto riguarda:


 Responsabilità per danni verso i terzi arrecati dal lavoratore somministrato, essa grava
sull’utilizzatore.
 Trattamenti retributivi e contributi previdenziali, l’utilizzatore è obbligato in solido
con il somministratore, salvo poi far valere il proprio diritto di rivalsa verso quest’ultimo
(diversamente dal passato, in cui obbligato principale era il somministratore, e l’obbligazione solidale
dell’utilizzatore scattava solo in caso di inadempimento del primo).
SANZIONI
Il d.lgs. 81/2015 sancisce che, in caso di somministrazione irregolare, sono previste 2 sanzioni:
 Sanzione civile: ricorrono varie ipotesi:
a) Mancanza forma scritta: in mancanza di forma scritta, il contratto di
somministrazione è nullo, e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle
dipendenze dell’utilizzatore.
b) Violazione limiti contrattuali: qualora non si rispettino le clausole di
contingentamento; non si indichino nel contratto gli estremi dell’autorizzazione
rilasciata dal somministratore, del n° di lavoratori da somministrare e dei rischi per
l’integrità e la salute a cui vanno incontro, il lavoratore può chiedere (anche solo
all’utilizzatore) la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze
dell’utilizzatore, con effetto dalla stipulazione del contratto di somministrazione.
 Sanzione amministrativa: in aggiunta alla sanzione civile, la legge prevede anche una
sanzione pecuniaria da 250€-1250€ (anche nei casi di violazione del principio di parità di trattamento
e, solo per l’utilizzatore, in violazione del diritto del lavoratore di fruire dei servizi sociali e assistenziali di cui
godono i suoi dipendenti o in violazione degli obblighi di comunicazione ai sindacati).

Somministrazione fraudolenta: è quella posta in essere col solo fine di eludere le norme
inderogabili di legge o di contratti collettivi. Prevede un reato contravvenzionale punito con
l’ammenda di 20€ per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione.
Sanzioni penali: sono inoltre previste sanzioni penali a carico di chi esercita illegittimamente
l’attività di somministrazione e di chi utilizza prestatori di lavoro somministrati da soggetti
non autorizzati (con aggravio in caso di sfruttamento di minori).

Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: per frenare fenomeni di sfruttamento e


caporalato, è stato introdotto nel Codice penale il delitto contro la persona di “intermediazione
illecita e sfruttamento del lavoro”. La fattispecie di reato è stata introdotta nel 2011 e
successivamente modificata nel 2016:
 D.l. 138/2011: l’intermediazione illecita era sanzionata solo se subordinata al requisito
dello svolgimento di un’attività organizzata di intermediazione. Si rivolgeva, infatti, alla
fattispecie più ampia di chi recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso
terzi in condizioni di sfruttamento o approfittando del loro stato di bisogno.
 L. 199/2016: la nuova disciplina si applica anche all’intermediario che abbia una
condotta non violenta, che non usi minacce e intimidazioni. La pena viene aggravata se
si rileva sfruttamento di minori. Il reato viene delineato da alcuni “indici di sfruttamento”
(sotto-salario; violazione di norme su orari, riposi, aspettativa, ferie; violazioni delle norme sull’igiene e sicurezza
nei luoghi di lavoro).
Si prevede, inoltre, la confisca obbligatoria dei beni o del profitto derivante dalla
fattispecie di reato, i quali vengono assegnati al Fondo antitratta, dopo la sentenza di
condanna o patteggiamento, il quale a sua volta estende le proprie finalità anche alle
vittime di tale reato.

APPALTO
Outsourcing o esternalizzazione sono termini equivalenti e indicano la prassi, molto diffusa nelle
aziende attuali, di affidare tutta una serie di attività ritenute non centrali per l’azienda a soggetti
terzi che le svolgono per conto della società come fornitori di servizi esterni. La pratica
dell’esternalizzazione avviene soprattutto con lo strumento dell’appalto.

Art. 1655 cc: il Codice civile definisce l’appalto come il contratto con il quale una parte assume,
con organizzazione di mezzi necessari e gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera
o di un servizio dietro un corrispettivo in denaro.

L. 1369/1960: la legge del ’60 offriva ai lavoratori una tutela antifraudolenta per i casi di
pseudo-appalto, che si realizzava qualora l’impresa appaltatrice si obbligasse a fornire un
servizio con gestione a proprio rischio ma, di fatto, utilizzava la manodopera assunta dal
committente, costituendo così un’ipotesi di interposizione vietata.

D.lgs. 276/2003: la riforma Biagi ha disposto l’abrogazione della legge del ’60, eliminando
questa forma di tutela, e stabilendo che il contratto di appalto si distingue dalla
somministrazione di lavoro per l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore,
che può anche risultare dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei
lavoratori utilizzati nell'appalto, nonché per l’assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del
rischio d'impresa.
Appalto di manodopera: oggi, in realtà, sono da ritenersi lecite quelle fattispecie (in passato di
dubbia liceità) in cui, in relazione alla particolare natura e modalità dell’opera o del servizio oggetto di
appalto, l’organizzazione di mezzi dell’appaltatore consiste nella semplice organizzazione delle
prestazioni dei lavoratori utilizzati (appalto di manodopera).
Pseudo-appalto: qualora, invece, questa “semplificazione” del profilo organizzativo
dell’appaltatore non si possa operare, ricorre l’ipotesi di pseudo-appalto, vietata dalla legge. Il
d.lgs. 276/2003 dispone che qualora il contratto d’appalto sia stipulato in violazione di legge, il
lavoratore interessato può chiedere, mediante ricorso giudiziale, la costituzione di un rapporto
di lavoro alle dipendenze dell’appaltatore.

Divieto di licenziamento collettivo: la legge ha previsto un ulteriore tutela a favore dei


lavoratori impiegati da imprese che svolgono servizi in appalto. Il legislatore ha disposto che per
questi soggetti, seppur ricorrano i requisiti numerici, dimensionali e temporali previsti dalla legge,
ai licenziamenti derivanti da una cessazione dell’appalto non si applica la procedura prevista
per i licenziamenti collettivi, a patto che il datore di lavoro subentrante garantisca la
riassunzione dei lavoratori occupati nel medesimo appalto e applichi loro le condizioni
economico-normative previste dai contratti collettivi nazionali di settore.

DISTACCO
Il distacco (o comando) si ha quando il dipendente viene comandato dal datore di lavoro a
prestare servizio, per un certo lasso di tempo, presso un terzo (di solito titolare di un’altra impresa). Il
beneficiario della prestazione di lavoro è legittimato ad esercitare alcuni poteri disciplinari e
di controllo sul prestatore, ma anche ad adempiere a taluni obblighi nei suoi confronti
(pagamento della retribuzione ecc.). In ogni caso, il rapporto di lavoro resta nella titolarità del datore
assuntore, anche se il lavoratore presta servizio presso il beneficiario (si parla, infatti, anche di “prestito
di dipendente”).
L. 1369/1960: la legge del ’60 riteneva essenziale, affinché ricorresse il distacco, la sussistenza
di un concreto interesse dell’assuntore, il cui difetto originario o sopravvenuto qualificava la
fattispecie come interposizione vietata, con la conseguenza che si instaurava un rapporto
diretto tra prestatore e il terzo beneficiario.
D.lgs. 276/2003: abrogando la previgente disciplina, la riforma Biagi introduce la definizione di
“distacco” riprendendola, senza modifiche, dalla giurisprudenza. Il distacco si configura quando un
datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente 1 o più
lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa.
Requisiti: per cui i requisiti di legge richiesti sono 2:
1) Temporaneità del distacco.
2) Interesse del datore di lavoro che dispone il distacco.
Rete d’impresa: con una disposizione del 2013 si è precisato che, se tra 2 o più imprese vi sia un
contratto di rete d’impresa, e avvenga il distacco di personale da una all’altra, l’interesse del
distaccante sorge automaticamente in forza al contratto di rete.

Obblighi datore: il datore rimane responsabile del trattamento economico e normativo del
lavoratore. Inoltre, il distacco deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato qualora
comporti un mutamento di mansioni.
Trasferimento: se il distacco implica un trasferimento ad un’unità produttiva distante +50km
da quella in cui è adibito, esso può avvenire solo dietro comprovate ragioni tecniche,
organizzative, produttive e sostitutive.
Alternativa all’espulsione: la normativa speciale, tra le soluzioni alternative all’espulsione di
personale, individua espressamente il distacco di 1 o più lavoratori presso un’altra impresa, per
una durata temporanea.
Sicurezza sul lavoro: sono a carico del terzo beneficiario tutti gli obblighi di prevenzione e
protezione, mentre sono a carico del datore distaccante gli obblighi informativi e di
formazione del lavoratore attinenti ai rischi tipici legati allo svolgimento delle mansioni a cui è
adibito.
Libro unico: da ultimo, i dati relativi ai lavoratori distaccati devono essere conservati nel libro
unico del datore distaccante; tuttavia, è plausibile che anche l’azienda beneficiaria debba tenere
un libro unico in cui inscrivere i dati del lavoratore.
3) CONTRATTO DI LAVORO A ORARIO RIDOTTO E FLESSIBILE

LAVORO A TEMPO PARZIALE


Part-time: tra gli strumenti di flessibilità dell’impiego della manodopera, con riferimento al tempo
di lavoro, sono da ricordare il rapporto di lavoro a tempo parziale (part-time) e il lavoro
intermittente (job on call).
Il contratto di lavoro a tempo parziale consiste nella prestazione dell’attività lavorativa con un
orario ridotto rispetto a quello normale. È molto utilizzato per l’inserimento nel mondo del
lavoro di soggetti che altrimenti ne rimarrebbero esclusi (giovani e donne), ma anche come forma di
conciliazione tra tempo di lavoro e tempo di vita per tutti quei soggetti che, oltre al lavoro,
hanno altri impegni (cura familiare, studio ecc.).

D.lgs. 61/2000: nel 1997 l’UE aveva emanato una direttiva, attuando l’Accordo-quadro sul
lavoro a tempo parziale, volto a eliminare le discriminazioni poste nei confronti dei lavoratori
part-time e, anzi, a promuovere questa forma occupazionale.
Tale direttiva è stata recepita in ITA con il d.lgs. 61/2000, il quale ha dettato una nuova disciplina
del rapporto di lavoro part-time.
D.lgs. 276/2003: con la riforma Biagi il legislatore è intervenuto nuovamente a riguardo per
incentivare il ricorso al part-time, abolendo alcuni vincoli dettati a maggior tutela dei
lavoratori.
L. 247/2007: con la riforma del 2007, tuttavia, il legislatore ha reintrodotto alcune garanzie a
favore dei lavoratori, riducendo gli spazi di flessibilità gestionale per i datori di lavoro.
L. 148/2011: tale legge ha consentito ai contratti collettivi “di prossimità” (offrono alle imprese la
possibilità di adeguare alcuni istituti normativi e contrattuali alle condizioni e alle specifiche esigenze delle diverse realtà
aziendali) di derogare alcune disposizioni di legge riguardanti contratti a orario ridotto,
modulato o flessibile e alle regolamentazioni dei contratti collettivi nazionali.
Legge di stabilità (2012): la legge restituisce alle parti individuali una maggiore autonomia
nella gestione della durata e della collocazione temporale della prestazione a tempo parziale.
L. 92/2012: in controtendenza con la legge di stabilità, il governo Monti ha di nuovo
reintrodotto i margini di flessibilità collegati al tempo parziale.
D.lgs. 81/2015: la riforma Renzi ha abrogato completamente la previgente disciplina (d.lgs.
61/2000), apportando alcune modifiche all’istituto del part-time che, per il resto, è rimasto
invariato. In particolare:
 Semplificazione della definizione: vengono abolite le distinzioni tra part-time orizzontale,
verticale e misto, creando una definizione di part-time generale.
 Generalizzazione del lavoro supplementare: il lavoro supplementare non è più adattabile
alla sola ipotesi di part-time orizzontale.
 Compatibilità col lavoro a turni.
 Unificazione concettuale delle clausole elastiche e flessibili sotto l’unica espressione di
elastiche, le quali oggi possono essere pattuite anche individualmente, se convalidate dalla
commissione di certificazione.
 Applicabilità del rapporto di lavoro parziale anche alle PA, salvo alcune eccezioni
previste dalla legge.

DISCIPLINA RAPPORTO DI LAVORO PARZIALE


Lavoro a tempo parziale: il d.lgs. 81/2015 dispone che nel rapporto di lavoro subordinato, il
lavoratore può essere assunto sia a tempo pieno, sia a tempo parziale. Per orario di lavoro a
tempo parziale si intende quell’orario fissato in maniera ridotta rispetto alle 40 ore settimanali
(o alle ore in misura inferiore previste dalla contrattazione collettiva).

Forma: per la stipulazione del rapporto a tempo parziale, la legge richiede la forma scritta ad
substantiam, con la “puntuale” indicazione della durata della prestazione lavorativa e della sua
collocazione temporale (giornaliera; settimanale; mensile; annuale).
Qualora l’organizzazione produttiva sia articolata in turni, è previsto che l’indicazione della
collocazione oraria della prestazione possa avvenire anche mediante il rinvio ai turni di lavoro
programmati su fasce orarie prestabilite.
Principio di non discriminazione: vige il divieto per il datore di lavoro di riservare al
lavoratore part-time, per il solo motivo di lavorare a tempo parziale, un trattamento meno
favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno di pari inquadramento.
Trattamento economico-normativo: ovviamente, il trattamento economico e normativo
riservato al lavoratore part-time sarà riproporzionato in base alle ore di lavoro effettivamente
svolte, soprattutto per alcuni istituti (importo della retribuzione globale; retribuzione delle ferie). Per garantire
l’applicazione del principio di proporzionalità, la legge rinvia alla contrattazione collettiva il
compito di modulare, in relazione all’orario di lavoro, anche la durata del periodo di prova, del
periodo di preavviso in caso di licenziamento/dimissioni e del periodo di conservazione del
posto in caso di malattia/infortunio.

Facoltà di scelta: è attribuita dal decreto la possibilità, per il lavoratore, di scegliere tra lavoro
a tempo pieno e lavoro a tempo parziale, nonché la possibilità di modificare tale scelta nel
corso del rapporto.
Rifiuto di trasformazione: il rifiuto, da parte del lavoratore, di trasformare il proprio rapporto
da tempo pieno a tempo parziale (o viceversa) non costituisce, di per sé, giustificato motivo di
licenziamento (fermo restando comunque la possibilità di licenziare il lavoratore, qualora il suo comportamento
interferisca in concreto con l’attività produttiva, con l’organizzazione del lavoro o col suo regolare funzionamento,
costituendo un’ipotesi di gmo).
Oggi, il legislatore prevede che la trasformazione del rapporto da pieno a parziale possa
avvenire grazie ad un accordo tra le parti, che risulti da atto scritto, senza la necessità di nessuna
convalida da parte del lavoratore.

Diritto di precedenza: la legge sancisce anche un diritto di precedenza, nelle assunzioni con
contratto a tempo pieno, per i lavoratori part-time che svolgano le stesse mansioni. Tale
previsione, tuttavia, non è assistita da alcuna sanzione nel caso di sua violazione da parte del
datore (prima era previsto il risarcimento del danno, eliminato dalla riforma del 2015).

Obbligo di comunicazione: il datore di lavoro che intenda effettuare assunzioni a tempo


parziale deve prima darne tempestiva comunicazione ai lavoratori già suoi dipendenti con
rapporto a tempo pieno occupate nell’unità produttiva interessata. La comunicazione può
avvenire anche mediante avviso scritto in un luogo accessibile a tutti nei locali dell’impresa.
Adempiuto tale obbligo, il datore è tenuto a considerare tutte le eventuali domande di
trasformazione a tempo parziale pervenute dai dipendenti a tempo pieno.

DISCIPLINA DEL TEMPO DI LAVORO (CLAUSOLE ELASTICHE; LAVORO SUPPLEMENTARE E


STRAORDINARIO)
Per ciò che concerne la collocazione e l’articolazione dell’orario di lavoro nel contratto a
tempo parziale, il d.lgs. 81/2015 disciplina 3 diversi istituti:
1) Lavoro supplementare: lavoro svolto oltre l’orario concordato originariamente dalle
parti (anche in relazione alle giornate, settimane, mesi) ma pur sempre entro i limiti dell’orario
normale di lavoro (40 ore settimanali o orario minore stabilito dai contratti collettivi). Peraltro, è ormai
archiviata la preesistente limitazione che consentiva l’utilizzo del lavoro supplementare nel
solo part-time orizzontale, per cui è consentito il suo utilizzo in via generale.
Il legislatore prevede, inoltre, 2 casi a seconda che vi sia:
 Presenza regolamentazione nel contratto collettivo: il datore di lavoro può
richiedere al lavoratore prestazioni supplementari nel rispetto di quanto previsto
dai contratti collettivi, ai quali è affidata la regolamentazione del:
 N° massimo di ore di lavoro supplementare richieste al lavoratore.
 Obbligo di corresponsione della maggiorazione retributiva.
 Determinazione della percentuale di maggiorazione sull’importo della
retribuzione oraria globale di fatto.
 Individuazione delle causali per il ricorso al lavoro supplementare.
 Assenza regolamentazione nel contratto collettivo: se il contratto collettivo
non disciplina la regolamentazione del lavoro supplementare, subentrano le
previsioni legislative in merito, le quali operano però solo nel settore privato
(perciò è escluso il settore pubblico):
 Datore di lavoro ha diritto di richiedere al lavoratore lo svolgimento di
prestazioni di lavoro supplementare in misura non superiore al 25%
delle ore di lavoro settimanali concordate.
 Al lavoratore spetta una maggiorazione della retribuzione oraria globale
di fatto del 15%.
Diritto rifiuto motivato: in quest’ipotesi suppletiva della disciplina collettiva, la
legge garantisce al lavoratore il diritto di rifiuto di svolgere prestazioni di lavoro
supplementari, nel caso in cui ricorrano comprovate esigenze lavorative, di
salute, familiari o di formazione professionale.
2) Lavoro straordinario: lavoro svolto oltre il normale orario di lavoro (quindi oltre le 40 ore
settimanali).
3) Clausole elastiche: le clausole elastiche devono essere pattuite per iscritto. Anche in
questo caso il legislatore distingue 2 ipotesi in base alla:
 Presenza regolamentazione nel contratto collettivo: il lavoratore ha diritto di
preavviso di 2 gg lavorativi, ma è ammesso che siano fatte salve le diverse
intese tra le parti.
 Assenza regolamentazione nel contratto collettivo: il lavoratore ha diritto di
preavviso di 2 gg lavorativi, ma è rimessa all’autonomia individuale le facoltà di
prevedere le clausole elastiche o meno, nel rispetto dei rigorosi limiti sostanziali
e formali della legge. Anche in questo caso sono escluse le PA.
Limiti formali: la stipulazione del contratto parziale con clausole elastiche deve
avvenire per iscritto davanti alle commissioni di certificazione (il lavoratore può farsi
assistere dall’avvocato, dall’associazione sindacale o consulente del lavoro).
A pena di nullità, poi, tali clausole devono prevedere condizioni e modalità con
cui il datore, con preavviso di 2 gg, possa modificare la collocazione temporale
della prestazione e variarne in aumento la durata (aumento col limite massimo del
25% della normale prestazione annua a tempo parziale)
Limiti sostanziali: le modifiche all’orario lavorativo comportano una
maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale di fatto del lavoratore.
Diritto di rifiuto legittimo: il rifiuto di stipulare un patto contente clausole elastiche
non costituisce un giustificato motivo di licenziamento. Tuttavia, una volta che il
lavoratore lo abbia accettato, non ha più diritto al ripensamento.
Diritto di ripensamento: esso è ammesso solo in alcuni casi tassativamente previsti
dalla legge, ma non vengono stabiliti né i termini, né le modalità di esercizio:
 Giovani studenti.
 Lavoratori con malattie oncologiche.
 Lavoratori che assistono familiari affetti da malattie oncologiche o altre
patologie gravi.

INCENTIVI E SANZIONI
Trasformazione da rapporto a tempo pieno-tempo parziale: con riferimento all’incentivazione
del lavoro part-time, sono da menzionare sicuramente le disposizioni attinenti alla trasformazione
del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. La trasformazione può avvenire:
1) Accordo tra le parti: è ammessa la trasformazione del rapporto da pieno a part-time su
accordo delle parti da atto scritto.
2) Legge: il diritto di trasformazione del rapporto da tempo pieno a part-time (e viceversa) è
garantito, invece, solo in 1 ipotesi legale, ossia quella riguardante i lavoratori, del settore
pubblico/privato, affetti da patologie oncologiche, nonché da gravi patologie cronico-
degenerative da cui risulti una ridotta capacità lavorativa.
Diritto di priorità: nelle altre ipotesi di legge, piuttosto, è previsto il diritto di priorità
nella trasformazione in part-time del rapporto lavorativo. È il caso di:
 Lavoratori con familiari aventi gravi patologie cronico-degenerative ed
oncologiche.
 Lavoratori che assistono un familiare con totale e permanente inabilità
lavorativa.
 Lavoratori che assistono il figlio convivente con meno di 13 anni o disabile.
Computo lavoratori part-time: funzione per certi versi promozionale ha la norma secondo cui,
per disposizioni di legge o contratto collettivo, si renda necessario il computo dei lavoratori
dipendenti. In tal caso, i lavoratori part-time sono computati nel n° complessivo dei
dipendenti in proporzione all’orario effettivamente svolto.
𝐨𝐫𝐞 𝐬𝐯𝐨𝐥𝐭𝐞 𝐝𝐚𝐥 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐩𝐚𝐫𝐭 𝐭𝐢𝐦𝐞
𝐧° 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐩𝐚𝐫𝐭 𝐭𝐢𝐦𝐞
𝐨𝐫𝐚𝐫𝐢𝐨 𝐝𝐢 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐨 𝐩𝐢𝐞𝐧𝐨
Richiesta temporanea di trasformazione in part-time: una novità introdotta nel 2015, è la
possibilità accordata al lavoratore di richiedere (1 sola volta), al posto del congedo parentale, la
trasformazione del rapporto in part-time, per un periodo corrispondente a quello
dell’aspettativa prevista dalla legge, e con un limite di riduzione dell’orario del 50%. In tal caso,
il datore di lavoro deve procedere alla trasformazione del rapporto entro 15 gg dalla richiesta.

Sanzioni: l’apparato sanzionatorio varia in relazione alle violazioni commesse:


1) Mancanza forma scritta: se il contratto a tempo parziale non è stipulato in forma
scritta ad probationem (per cui il datore non potrà dimostrare in giudizio che il rapporto è part-time), il
lavoratore può richiedere al giudice che venga dichiarata la sussistenza di un rapporto
di lavoro a tempo pieno tra le parti, la cui decorrenza è individuata dalla pronuncia
giudiziale. In ogni caso, il lavoratore avrà diritto alla retribuzione per le prestazioni rese
precedentemente.
2) Mancanza durata prestazione lavorativa e collocazione temporale: in questo caso viene
esclusa dalla legge la nullità dell’intero contratto, ma le conseguenze si differenziano in
base all’elemento mancante nel contratto:
 Mancanza durata della prestazione: il lavoratore può richiedere l’accertamento
giudiziale della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno, con effetto
dalla sentenza (ex nunc).
 Mancanza collocazione temporale: il giudice ha il compito di determinare in via
equitativa le modalità temporali di svolgimento della prestazione di lavoro a
tempo parziale (tenendo conto delle esigenze familiari e di integrazione del reddito del lavoratore,
ma anche delle esigenze del datore).
In entrambi casi, comunque, il lavoratore ha comunque diritto ad un risarcimento del
danno.
3) Violazione clausole elastiche: nel caso in cui il lavoratore svolga una prestazione in
esecuzione di clausole elastiche inserite nel contratto, ma senza il rispetto delle
condizioni, delle modalità e dei limiti previsti dalla legge o contratti collettivi, al
lavoratore spetterà, oltre che la maggiorazione retributiva, anche un’ulteriore somma a
titolo di risarcimento del danno.
LAVORO INTERMITTENTE
Il lavoro intermittente (o lavoro a chiamata→ jobs on call) è un contratto di lavoro
subordinato la cui peculiarità è data dall’utilizzazione, in modo discontinuo o intermittente,
della prestazione del dipendente da parte del datore di lavoro. Per cui, il lavoratore si rende
disponibile a svolgere la prestazione in attesa della richiesta del datore di lavoro.
Excursus normativo:
 D.lgs. 276/2003: il contratto a chiamata nasce con la riforma Biagi.
 L. 247/2007: tale legge ha soppresso l’istituto del lavoro intermittente (insieme a quello
della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato) perché accusato dai sindacati e dai partiti di
centro-sinistra di essere un contratto di lavoro flessibile dotato di eccessiva precarietà.
 D.l. 12/2008: il Governo di centro-destra lo ha reintrodotto nel 2008, abrogando la
precedente legge, e dichiarando che le disposizioni del d.lgs. 276/2003 erano
nuovamente applicabili.
 D.lgs. 81/2015: infine, dopo varie modifiche degli anni prima, il Governo Renzi ha
disposto l’abrogazione del d.lgs. 276/2003, e ha riscritto completamente la disciplina
del lavoro intermittente.
Disciplina: con il contratto di lavoro intermittente (stipulabile anche a tempo determinato), il
lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro, il quale ne può utilizzare la
prestazione in modo discontinuo o intermittente, secondo le esigenze individuate dai contratti
collettivi, anche con la possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco
della settimana, mese o anno.
Rinvio ai contratti collettivi: il Jobs Act rinvia la disciplina del lavoro intermittente ai
contratti collettivi di qualsiasi livello (nazionali, territoriali o aziendali).
In mancanza di una disciplina individuata dai contratti collettivi, le ipotesi di utilizzo del lavoro
intermittente saranno individuate con Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche
sociali.

Campo di applicazione soggettivo: il contratto di lavoro intermittente può essere stipulato


con:
 Soggetti fino a 24 anni.
 Soggetti con +55 anni.
La violazione del requisito anagrafico provoca la trasformazione del rapporto da intermittente
a tempo indeterminato.

Soglia di giornate lavorative: ad eccezione del settore turistico, dello spettacolo e dei pubblici
esercizi, il contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ogni lavoratore con lo stesso
datore di lavoro, per un periodo complessivo non superiore a 400 gg effettivi di lavoro
nell’arco di 3 anni. In caso di superamento, il rapporto si trasforma in rapporto di lavoro
indeterminato a tempo pieno.

Periodi di inutilizzabilità: il decreto stabilisce che, di norma, nei periodi in cui il lavoratore non
sia utilizzato non maturi alcun trattamento economico e normativo.
Tuttavia, in via del tutto eccezionale, la legge ammette che, nel caso in cui il lavoratore abbia
garantito al datore la piena disponibilità a rispondere alle chiamate, avrà conseguentemente
diritto alla maturazione dell’indennità di disponibilità.
Indennità di disponibilità: nei casi in cui sia prevista dai contratti collettivi, il lavoratore riceve
un’indennità mensile per mettere a servizio la propria disponibilità nei confronti del datore.
L’entità dell’indennità di disponibilità, divisibile in quote orarie, è stabilita dai contratti
collettivi, e in ogni caso non può essere inferiore all’importo fissato con decreto dal Ministero
del lavoro e delle politiche sociali, sentite le associazioni sindacali più rappresentative a livello
nazionale.
Il diritto all’indennità mensile resta escluso nei casi di malattia/infortunio o altro evento che
rendano il lavoratore temporaneamente indisponibile a rispondere alla chiamata. In questo
caso, il lavoratore deve preventivamente avvisare il proprio datore (specificando la durata
dell’impedimento durante il quale non matura il diritto all’indennità di disponibilità), pena la perdita del diritto
all’indennità per 15 gg, salvo diversa previsione dei contratti collettivi.
Rifiuto ingiustificato alla chiamata: invece, il rifiuto ingiustificato alla chiamata può costituire
un giustificato motivo di licenziamento, e comportare anche la restituzione della quota di
indennità di diponibilità del periodo successivo al rifiuto.

Esclusione contratto a chiamata: è vietato il ricorso al contratto di lavoro intermittente per:


1) Per sostituire lavoratori in sciopero.
2) Per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi.
3) Nelle unità produttive in cui, nei 6 mesi precedenti, siano state effettuate procedure di
licenziamento collettivo, che abbiano interessato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui
si riferisce il contratto di somministrazione.
4) Nelle unità produttive in cui siano previste riduzioni di orario o sospensioni di lavoro
con diritto al trattamento d’integrazione salariale (CIGS), per i lavoratori adibiti alle
stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione.

Forma: il contratto di lavoro intermittente dev’essere stipulato per atto scritto ad


probationem, e deve contenere:
 Durata del contratto.
 Ipotesi (soggettive/oggettive) che consentono la stipulazione.
 Luogo e modalità della disponibilità eventualmente garantita dal lavoratore.
 Preavviso di chiamata: non può essere inferiore ad 1 giorno lavorativo.
 Trattamento economico e normativo e indennità di disponibilità (ove dovuta).
 Forme e modalità con cui il datore può richiedere l’esecuzione della prestazione.
 Tempi e modalità di pagamento.
 Eventuali misure di sicurezza connesse all’attività.
Obblighi informativi: il datore di lavoro ha anche obblighi informativi nei confronti di:
a) RSA-RSU: il datore deve informare annualmente le rappresentanze sindacali aziendali
(RSA) o quella unitaria (RSU) sull’andamento del ricorso al lavoro intermittente.
b) Direzione territoriale del lavoro: il datore, per evitare fenomeni di elusione sulla chiamata
del lavoratore, ha l’obbligo di comunicare alla Direzione territoriale del lavoro
competente per territorio (mediante SMS o email) la durata del rapporto di lavoro, prima
dell’inizio della prestazione lavorativa.
Sanzioni: la violazione degli obblighi è punita con una sanzione amministrativa da 400€-
2400€, in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione, con esclusione
della procedura di diffida.

Computo lavoratori intermittenti: al fine dell’applicazioni di determinati istituti previsti da legge


o contratto collettivo, il lavoratore intermittente viene computato nell’organico dell’impresa in
proporzione dell’orario svolto nell’arco di ciascun semestre
𝐨𝐫𝐚𝐫𝐢𝐨 𝐬𝐯𝐨𝐥𝐭𝐨 𝐝𝐚𝐥 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐭𝐭𝐞𝐧𝐭𝐞
𝐧° 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐭𝐭𝐞𝐧𝐭𝐢
𝐭𝐨𝐭𝐚𝐥𝐞 𝐨𝐫𝐞 𝐝𝐢 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐨 𝟔 𝐦𝐞𝐬𝐢
Principio di non discriminazione: il lavoratore intermittente deve ricevere un trattamento
economico e normativo, in relazione alle mansioni svolte e ai periodi lavorati, ugualmente
favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno di pari livello.
Principio di proporzionalità: ovviamente, al lavoratore intermittente si garantisce un
trattamento economico, normativo e previdenziale riproporzionato in relazione alla
prestazione lavorativa effettivamente eseguita (specie per istituti quali importo della retribuzione globale;
ferie; trattamenti per malattia/infortunio/congedo di maternità/congedo parentale).
Per contro, per tutto il periodo in cui il lavoratore non viene chiamato, ma resta in disponibilità
del datore di lavoro, egli non è titolare di alcun diritto riconosciuto ai lavoratori subordinati, né
matura alcun trattamento economico-normativo (salvo l’indennità di disponibilità).
4) LAVORO AGILE

FLESSIBILITÀ ORGANIZZATIVA DEL TEMPO E LUOGO DI LAVORO


Nel corso dell’ultimo decennio, l’innovazione tecnologica ha fatto emergere un ulteriore
esigenza di flessibilizzazione nell’impiego della forza-lavoro, non solo per quanto riguarda il
tempo della prestazione, ma anche il luogo di quest’ultima. La tecnologia ha permesso di slegare
l’esecuzione del rapporto dal luogo di lavoro originariamente dedotte nel contratto.

Smart-working: il lavoro agile (smart-working) è uno dei modelli che più ha riscontrato
successo negli ultimi anni (sia nel privato che nel pubblico), in quanto offre indiscutibili vantaggi sia alle
aziende, in termini di risparmio dei costi organizzativi (risparmio sul costo del trasfertismo e delle relative
indennità previste dai contratti collettivi) realizzando così incrementi della produttività, sia al lavoratore,
il quale può conciliare meglio la vita lavorativa con quella quotidiana.
Tuttavia, la distanza dall’azienda comporta la predisposizione di regole ad hoc per quanto
riguarda i poteri tipici del datore di lavoro (potere direttivo; di controllo; disciplinare) e gli obblighi su di
lui incombenti (sicurezza ecc.).

REGOLAMENTAZIONE LAVORO AGILE


L. 81/2017: la norma in materia di lavoro agile è la l. 81/2017, la quale definisce il lavoro agile
come una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato senza precisi vincoli di
orario o luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento
dell’attività lavorativa.
Dunque, il lavoro agile non è un nuovo tipo di contratto, ma solo una possibile modalità di
lavoro flessibile, il quale si distingue da:
 Lavoro a domicilio: in cui si individua un posto di lavoro che, seppur diverso dall’impresa,
è fisso e predeterminato.
 Telelavoro: richiede l’uso prevalente di strumenti tecnologici per lo svolgimento del
lavoro, nonché la continuità della prestazione resa al di fuori della sede dell’impresa.
Il lavoro agile, invece, prevede che la prestazione sia svolta in parte all’interno dei locali
dell’azienda e in parte all’esterno senza una postazione fissa, ed entro i limiti di durata
massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale (stabiliti da legge o contratti collettivi).

Accordo datore-lavoratore: il legislatore non prevede alcun rinvio della disciplina alla
contrattazione collettiva, attribuendo questo compito direttamente al datore di lavoro e al
lavoratore. Questi, devono stipulare un accordo individuale in forma scritta ad substantiam (ai
fini dei controlli dell’Ispettorato del lavoro), e tale documento dev’essere obbligatoriamente
comunicato per via telematica ai servizi per l’impiego.
L’accordo deve regolare:
 Modalità di esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali
aziendali; quantità temporale dell’impegno lavorativo all’esterno; strumenti utilizzati
dal prestatore.
 Modalità con cui verrà esercitato il potere direttivo e di controllo al di fuori dei locali
aziendali.
 Condotte che danno vita a sanzioni disciplinari all’esterno dei locali aziendali.
 Tempi di riposo del lavoratore.
 Diritto alla disconnessione: le specifiche misure tecniche e organizzative necessarie per
assicurare al lavoratore la possibilità di disconnettersi dalle strumentazioni tecnologiche
usate per la prestazione lavorativa.

Recesso dall’accordo: lo smart-working può essere utilizzato sia a termine, sia a tempo
indeterminato. In quest’ultimo caso, viene garantito alle parti il diritto di recesso, che ciascuno
può usare con un preavviso non inferiore a 30 gg (90 gg qualora il datore voglia recedere e il lavoratore sia
disabile).
La presenza di un giustificato motivo (che può essere il venir meno dell’interesse del lavoratore a questo tipo di
contratto; l’inadempimento delle modalità previste dall’accordo ecc.) rende l’accordo immediatamente
revocabile, prima della scadenza (se a termine) o senza necessità di preavviso (se indeterminato).
L’effetto della revoca si manifesta, in ogni caso, esclusivamente sulla modalità della
prestazione lavorativa (cioè lo smart-working), e non anche sul contratto di lavoro subordinato,
ripristinando così un rapporto di lavoro svolto interamente all’interno dei locali aziendali.

Principio di non discriminazione: al lavoratore agile è riconosciuto il diritto di parità di


trattamento economico e normativo rispetto ai lavoratori compatibili non in smart-working.

Sicurezza: al datore compete anche la responsabilità della sicurezza e del buon


funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività
lavorativa. In tal senso, il datore è obbligato ad inviare annualmente un’informativa scritta sui
rischi generali e specifici che il lavoratore può correre ricorrendo al lavoro agile.
In ogni caso, il lavoratore deve collaborare all’attuazione delle misure di prevenzione
predisposte dal datore.

Lavoro agile nelle PA: il lavoro agile può essere utilizzato anche nelle PA e anzi, il
provvedimento prevede di portare, entro 3 anni, il 10% di lavoratori pubblici in smart-working,
senza pregiudizio per la loro professionalità e carriera.
ECCEDENZE DI PERSONALE E TUTELA DELL’OCCUPAZIONE

INTRODUZIONE
Tra gli strumenti di governo del marcato del lavoro, ritroviamo le eccedenze di personale, le quali
cercano di bilanciare la fuoriuscita di forza lavoro con meccanismi finalizzati all’agevolazione e
alla promozione del loro reingresso nel mercato.
Surplus forza lavoro: le eccedenze di forza lavoro possono essere temporanee o definitive,
(anche se nella pratica questa distinzione è parecchio labile, poiché spesso lavoratori considerati in eccedenza temporanea
rimangono, di fatto, per anni al di fuori del contesto aziendale) in base alla modalità di fronteggiarle:
1) Surplus temporaneo: occorre un sostegno alle imprese e ai lavoratori per superare il
temporaneo momento di difficoltà.
2) Surplus definitivo: occorrono strumenti di sostegno esclusivamente per i lavoratori
espulsi.
Ammortizzatori sociali: l’insieme di tali misure vanno a contraddistinguere il fenomeno degli
ammortizzatori sociali, i quali furono introdotti per la prima volta nell’immediato dopoguerra e
da lì ha avuto un “andamento fasico” in base al succedersi dei vari governi (alcuni che li hanno utilizzati
come strumenti di sostegno al reddito; altri che hanno al contrario dato risalto alla loro funzione di sostegno all’occupazione).

Eccedenze definitive: i tratti caratterizzanti della disciplina delle eccedenze definitive di


personale sono essenzialmente 2:
 Criteri di scelta: il datore di lavoro ha la facoltà di ridurre il personale, ma rispettando
vincoli procedurali e sostanziali fissati dalla legge o dai contratti collettivi.
 Adozione di misure al sostegno del reddito e della ricollocazione dei lavoratori: queste
misure si sintetizzavano inizialmente nella previsione dell’indennità di mobilità e di tutti gli
incentivi per la ricollocazione ad essa legati, poi soppressa dalla legge Fornero la quale ha
istituito l’ASpI (poi convertito dal Jobs Act in NASpI), ossia una prestazione previdenziale di
disoccupazione unica ed universale per tutti i lavoratori licenziati involontariamente
(senza distinzione se da licenziamento individuale o collettivo, per il quale si godeva di un trattamento di mobilità
più generoso).

EVOLUZIONE NORMATIVA DELLA DISCIPLINA DELLE ECCEDENZE DI PERSONALE


Fasi della disciplina delle eccedenze di personale:
 1 fase (d.lgs. 788/1945): nel’45 avviene la soppressione del blocco dei licenziamenti e
l’istituzione della CIG per gli operai dell’industria. In questa fase è la contrattazione
collettiva a disciplinare sia i licenziamenti individuali, sia i licenziamenti collettivi per
riduzione del personale (accordi interconfederali). Successivamente, la CIG è stata estesa anche
agli impiegati dell’industria.
In questa fase, durata fino al ’67, il legislatore non è intervenuto a disciplinare i
licenziamenti collettivi, ma ha previsto solo la non applicabilità agli stessi della disciplina
dei licenziamenti individuali.
 2 fase (l. 115/1968): fu introdotta la CIGS, ossia un intervento straordinario, previsto
inizialmente per le ristrutturazione industriali, allargato poi alle riconversioni e
riorganizzazioni industriali, alle crisi aziendali di particolare rilevanza sociale e alle imprese
fallite.
Mobilità intraziendale: insieme alla CIGS si sviluppa un istituto complementare (mobilità
intraziendale) che avrebbe dovuto determinare il passaggio dei lavoratori in esubero alle
dipendenze di aziende con carenza di organico, con l’accompagnamento della CIGS.
 3 fase (1977-1991): dopo esser stato completato il quadro normativo della CIGS, in questa
fase essa ha subìto una mutazione genetica, passando da uno strumento di sostegno al
reddito alla funzione di sostegno dell’occupazione. In questa fase vengono a delinearsi i
“licenziamenti impossibili”, potendo ovviare a quest’ultimi grazie al prolungato e reiterato
ricorso alla CIGS.
 4 fase (l. 223/1991): nel ’91 vi è stato un tentativo di riformare la CIGS, ridandogli
l’originaria funzione di sostegno temporaneo al reddito del lavoratore, e di governare le
eccedenze definitive con il neo-strumento della mobilità che porta alla cessazione del
rapporto di lavoro (a differenza della norma del 1977).
Inoltre, si procede in questa fase alla legificazione dei licenziamenti collettivi (in ottemperanza
agli obblighi europei), nella doppia versione a seconda che siano preceduti o meno
dall’intervento della CIGS.
 5 fase (1993): nel ’93 si sono apportate varie modifiche all’intervento legislativo del 1991,
soprattutto riguardo:
a) Accesso alla CIG anche a categorie di soggetti esclusi dall’ambito di applicazione
della disciplina del ’91.
b) È saltato l’obiettivo primario della l. 223/1991 di contingentare sotto il profilo
temporale il ricorso alla CIGS, in quanto si è presto ritornati alle proroghe per
decreto ministeriale che hanno caratterizzato le fasi precedenti al 1991.
c) A fronte della difficoltà e dell’insufficienza delle risorse finanziarie pubbliche per
il finanziamento degli strumenti di sostegno al reddito, con la l. 662/1996 ha
preso quota l’idea di ricorrere a forme di ammortizzatori sociali regolate
direttamente dalla contrattazione collettiva e gestite da enti bilaterali.
d) Infine, a seguito della doppia riforma in senso federalista (1997-2001), le Regioni
hanno dovuto occuparsi della gestione delle eccedenze di personale.
 6 fase (crisi 2008): la crisi economico-produttiva iniziata nel 2008 ha accentuato il
diffondersi del fenomeno degli ammortizzatori sociali in deroga. Deroga che riguarda sia
la durata che l’ambito dell’intervento, ammettendosi a fruire degli ammortizzatori sociali
anche i datori di lavoro.
 7 fase (l. 92/2012 e Jobs Act 2): con la legge Fornero e il Jobs Act si mette fine
all’ammissione degli ammortizzatori sociali in deroga e si prevedono 2 decisi interventi:
a) Forte limitazione del ricorso alla CIG e il sostegno al reddito dei lavoratori
disoccupati è subordinato alla contribuzione versata nei 4 anni prima della
disoccupazione.
b) Il sostegno delle eccedenze temporanee, per i soggetti che non rientrano
nell’applicazione della CIG, viene attribuito interamente al bilateralismo, con oneri
economici a carico sia dei lavoratori, ma soprattutto dei datori.
1) CASSA INTEGRAZIONE GUADAGNI (CIG)

PREMESSA
La disciplina dettata dalla l. 223/1991, la quale attribuiva allo strumento della CIG una funzione di
sostegno al reddito dei lavoratori (e non più di sostegno all’occupazione, come era diventata) nel caso di
riduzione/sospensione dell’attività lavorativa, fissandone dei limiti all’utilizzo, non è mai stata in
grado di raggiungere gli obiettivi prefissati. Questo per via delle ricorrenti crisi economiche degli
anni successivi (specie nel ’93) che hanno reso di fatto inattuabile la riforma, riconducendo ben presto
la CIG alla funzione di sostegno all’occupazione.
CIG in deroga: l’emblema del ritorno a tale funzione è rappresentata dalla CIG in deroga, intesa
quella:
 Accordata ad aziende non ricomprese nel campo di applicazione della CIG.
 In deroga ai limiti di durata previsti dalla l. 223/1991.
La crisi nazionale e mondiale del 2008 ha portato all’exploit di questo strumento anomalo di
integrazione salariale.

L. 92/2012: la legge Fornero ha cambiato questo trend, avviando la riforma degli ammortizzatori
sociali (sia gli strumenti a sostegno del reddito in costanza di rapporto lavorativo, sia trattamenti di disoccupazione
involontaria).
Jobs Act 2: la riforma è stata poi portata a termine grazie alla riforma della CIG (d.lgs. 148/2015) e
dei trattamenti di disoccupazione (d.lgs. 22/2015) durante il governo Renzi.

Obiettivi riforme: sia la legge Fornero che il Jobs Act 2 hanno voluto realizzare 3 obiettivi:
1) Semplificare l’apparato normativo in materia.
2) Razionalizzare il ricorso agli ammortizzatori sociali: le riforme hanno voluto collegare
l’utilizzo degli ammortizzatori sociali alla vita lavorativa e contributiva del lavoratore
(prima non inclusa, per cui si garantivano trattamenti di lungo periodo a soggetti con modesta anzianità lavorativa
e contributiva).
3) Condizionalità: le riforme hanno ideato un sistema per far interagire politica passiva e attiva
del lavoro, concedendo gli ammortizzatori sociali solo a patto che i soggetti percettori si
attivino per uscire il più velocemente possibile dallo stato di disoccupazione.

D.lgs. 148/2015: questo decreto ha centrato perlomeno il 1° obiettivo, in quanto ha abrogato


tutta la previgente disciplina in materia di CIG (salvo quanto previsto per il settore agricolo), e ha
disciplinato per intero la normativa, che oggi rappresenta, quindi, una sorta di testo unico. Esso si
articola in 5 parti:
1) Disposizioni generali valide sia per la CIGO, sia per la CIGS.
2) Norme relative all’intervento ordinario (CIGO).
3) Norme relative all’intervento straordinario (CIGS).
4) Fondi bilaterali di sostegno al reddito (che ha abrogato la disciplina della legge Fornero).
5) Disposizioni transitorie e finali e disciplina del contratto di solidarietà espansiva.
D.lgs. 185/2016 (correttivo Jobs Act 2): dopo 1 anno, è stato emanato il correttivo del Jobs Act
2, che ha apportato alcune novità in materia di CIG (alcune di tipo strutturale, altre transitorie).

DISCIPLINA GENERALE CIG


L’intervento della CIGO e della CIGS è previsto in favore di tutti i lavoratori subordinati, compresi
quelli con contratto di apprendistato professionalizzante (2° tipo), esclusi i dirigenti e i lavoratori
a domicilio.
Apprendisti: l’inclusione degli apprendisti rappresenta una novità, in quanto in passato non
rientravano nel campo di applicazione della CIG. L’integrazione, tuttavia, riguarda solo
l’apprendistato professionalizzante, poiché gli altri 2 interagiscono direttamente col sistema
istruttivo e formativo professionale, non rientrando perciò nelle situazioni di crisi occupazionale, e in
più l’apprendista è ricompreso nell’intervento della CIGS solo nel caso di crisi aziendale, altrimenti
è ricompreso nel solo intervento ordinario (CIGO).
Ovviamente, il periodo di sospensione dal lavoro coperto dalla CIG determina una proroga del
contratto di apprendistato di pari misura.

Requisiti: condizione generale per l’accesso alla CIG è il possesso di un’anzianità di almeno 90
gg di effettivo lavoro svolto presso l’unità produttiva interessata dall’intervento (in caso di appalti,
l’anzianità viene calcolata con quella maturata nell’attività appaltata).
Misura dell’integrazione salariale: al prestatore di lavoro in CIG spetta un’integrazione
salariale pari all’80% della retribuzione persa a causa della riduzione/sospensione lavorativa,
entro un tetto massimo differenziato in base alla retribuzione percepita dal lavoratore. L’importo
sia della retribuzione soglia, sia del tetto massimo, vengono aggiornati annualmente in misura
del 100% dell’indice Istat maturato rispetto all’anno precedente.
Malattia: in caso di malattia durante la CIG, al trattamento previdenziale e contrattuale per tale
evento si sostituisce l’integrazione salariale della CIG.
Durata: il d.lgs. 148/2015 prevede che sia la CIGO che la CIGS hanno una durata massima di 24
mesi all’interno di un quinquennio mobile. Unica eccezione si ha per la CIGS prevista per
solidarietà difensiva, per la quale è previsto un allungamento a 36 mesi dell’intervento.
Unità produttiva: i limiti e le condizioni di accesso alla CIG hanno come riferimento non più
l’azienda nel suo complesso (come prima), ma l’unità produttiva intesa come ogni articolazione
dell’impresa con una sua autonomia organizzativa, amministrativa e finanziaria.

Anticipazione CIG: per garantire la sopravvivenza nelle more dell’autorizzazione all’integrazione


salariale, si conferma rispetto al passato l’obbligo, per il datore di lavoro, di anticipare
l’integrazione salariale ai lavoratori, recuperandola a carico dell’INPS attraverso il conguaglio
con i contribuiti previdenziali previsti o, in mancanza, attraverso la richiesta di rimborso.
In caso di difficoltà finanziarie serie ed accertate, l’impresa può essere esonerata dall’obbligo di
anticipazione nei confronti dei lavoratori.
Partecipazione finanziaria alla CIG: la riforma ha previsto che anche l’azienda partecipi al
finanziamento della CIG in caso di suo futuro utilizzo, prevedendo a suo carico una contribuzione
riferita alla retribuzione persa per effetto della sospensione/riduzione di lavoro. Essa può essere:
 Contribuzione ordinaria: è connessa all’astratta possibilità che si ricorra all’utilizzo della
CIG. La contribuzione varia a seconda che l’intervento sia ordinario o straordinario.
 Contribuzione addizionale (contributo d’uso): è connessa al concreto utilizzo della CIG.
Il decreto non prevede una differenziazione in relazione al ricorso alla CIGO o CIGS, ma la
gradua in base alla durata dell’intervento:
 Prime 52 settimane (1 anno): 9% di contribuzione.
 Fino a 104 settimane (2 anni): 12% di contribuzione.
 Oltre 2 anni: 15% di contribuzione.

Condizionalità: a carico del lavoratore sono posti obblighi di attivazione (condizionalità), la cui
violazione comporta inizialmente la perdita parziale del trattamento e, in caso di persistenza, la
decadenza dallo stesso.
Omessa comunicazione: altra ipotesi di decadenza dal trattamento integrativo è l’omessa
comunicazione all’INPS dello svolgimento di un’altra attività di lavoro autonomo o
subordinato, durante il percepimento della CIG, che comporta la non corresponsione dello stesso.

DISCIPLINA SPECIFICA CIGO


CIGO: l’intervento ordinario è riservato solo a imprese, appartenenti a determinati settori
produttivi, che effettuino una sospensione/riduzione dell’orario di lavoro per:
 Eventi transitori e non imputabili all’impresa o ai dipendenti (incluse le intemperie stagionali,
tipiche del settore edile).
 Situazioni temporanee del mercato.
Requisiti: la CIGO interviene, dunque, a sostegno di situazioni aziendali:
 Imprevedibili.  Non imputabili.  Temporanee.
Al di fuori di queste ipotesi, la CIGO non può essere accordata.
Limiti: la CIGO prevede 2 limiti:
1) Durata: la CIGO può essere accordata per un periodo massimo di 13 settimane
consecutive, prorogabili fino ad un massimo di 52 settimane (1 anno) nell’arco del “biennio
mobile” prima del ricorso all’intervento.
2) Ore integrabili: il massimo di ore integrabili delle ore lavorabili nel biennio mobile è di
⅓, con riferimento a tutti i lavoratori mediamente occupati nell’unità produttiva nei 6 mesi
precedenti la CIGO, con l’obbligo per l’impresa di indicare tale dato nella domanda di
concessione.
Il superamento di entrambe i limiti comporta l’impossibilità di ottenere l’intervento della CIGO.

Informazione e consultazione sindacale: sia l’intervento della CIGO che della CIGS è preceduto
da una procedura che prevede l’obbligo di informazione e consultazione con la rappresentanza
sindacale di base (RSA/RSU) o con le organizzazioni di categoria. Nel corso della consultazione
sindacale, devono emergere:
 Cause della sospensione/riduzione dell’orario di lavoro.
 Entità e durata prevedibile dell’intervento.
 N° di lavoratori interessati dalla CIG.
Del termine della procedura di consultazione sindacale va dato atto nella domanda di intervento.

Domanda di concessione CIGO: altra novità introdotta dal Jobs Act 2 è la previsione secondo cui,
nella domanda di intervento, vanno identificati i lavoratori interessati alla sospensione/riduzione
dell’orario lavorativo, anche al fine di attivare i meccanismi di condizionalità. La domanda va
presentata entro 15 gg dall’inizio della sospensione/riduzione e, in caso di presentazione tardiva
o omessa, spetterà al datore corrispondere ai lavoratori una somma pari all’integrazione non
percepita.

EONE: la riforma prevede degli esoneri ai vincoli e ai limiti delle disposizioni in tema di CIGO,
relativamente agli eventi oggettivamente non evitabili (EONE). Infatti, al verificarsi di un EONE:
 Viene erogata la CIGO anche in favore dei lavoratori che abbiano un’anzianità inferiore a
quella prevista dalla legge (90 gg di effettivo lavoro presso l’unità produttiva).
 Non opera il limite delle 52 settimane nel biennio mobile, ove la CIGO sia stata accordata
in più periodi non consecutivi.
 Non è dovuto il contributo addizionale.
 L’impresa è esonerata dall’obbligo di informazione e consultazione sindacale, ed ha il
solo obbligo di comunicazione alle RSA o RSU della prevedibile durata della
sospensione/riduzione.
 Il termine di presentazione della domanda decorre dalla fine del mese successivo a quello
in cui si è verificato l’EONE (deroga introdotta con il decreto correttivo del Jobs Act 2).
Concessione CIGO: la competenza in merito alla concessione dell’integrazione salariale spetta
all’INPS.

DISCIPLINA SPECIFICA CIGS


CIGS: per la concessione dell’intervento straordinario, oltre al settore produttivo di
appartenenza, importa anche il limite dimensionale dell’impresa:
 Settore produttivo: la CIGS è accordata alle imprese edili ed affini e, ultimamente, alle
imprese riconducibili all’indotto della grande impresa in crisi, ossia le imprese che,
operando prevalentemente per quest’ultime, ne risentono e subiscono la crisi a loro volta
(imprese artigiane con influsso gestionale prevalente; imprese appaltatrici di servizi di mensa, ristorazione o di
pulizia; imprese di vigilanza; imprese ausiliari nel settore ferroviario; cooperative di trasformazione di prodotti
agricoli e loro consorzi).
Nel 2018 sono state inserite anche le imprese dell’editoria e quelle
assoggettate alla procedura di amministrazione straordinaria.
 Limite dimensionale: accedono alla CIGS le imprese che, nei 6 mesi precedenti la
domanda di intervento:
a) Occupino mediamente +15 dipendenti (inclusi dirigenti e apprendisti).
b) Imprese commerciali che occupino +50 dipendenti (incluse quelle della logistica
e le agenzie di viaggio e turismo).
c) Esenzione limite dimensionale: non si applica il limite dimensionale per le imprese
del trasporto aereo e di gestione aeroportuale, nonché per i partiti e movimenti
politici.

Causali CIGS: le causali di intervento straordinario, grazie al Jobs Act, si sono ridotte a 3:
1) Riorganizzazione aziendale (in cui sembrano rientrare anche ristrutturazioni e riconversioni aziendali).
2) Crisi aziendale.
3) Contratto di solidarietà: nato per tutelare i lavoratori, il contratto di solidarietà prevede
un accordo tra il datore di lavoro, il sindacato e il dipendente per una riduzione delle ore
di lavoro e della retribuzione in caso di crisi. Tramite il contratto di solidarietà, si consente
all’azienda in crisi di rientrare con i costi, garantendo comunque uno stipendio ai
lavoratori.
La l. 863/1984 prevede i cosiddetti contratti di solidarietà difensiva (che servono ad evitare il
licenziamento dei dipendenti) e espansiva (per favorire nuove assunzioni).
Decreto Sostegni Bis: di recente il contratto di solidarietà è stato sottoposto ad una serie
di modifiche attraverso il Decreto Sostegni Bis (2021) per far fronte alle conseguenze
derivanti dall’emergenza pandemica.
La nuova normativa prevede che, nel 1° semestre del 2021, le imprese che hanno avuto una
riduzione del fatturato pari al 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno 2019 hanno
diritto a richiedere la CIGS per un periodo di 26 settimane. Tale richiesta è subordinata
alla stipulazione dell’accordo del contratto di solidarietà.

Limiti: la CIGS prevede 2 limiti:


1) Durata: la CIGS ha una durata massima variabile a seconda della causale ricorrente:
 Riorganizzazione: 24 mesi nel quinquennio mobile.
 Crisi aziendale: 12 mesi nel quinquennio mobile.
 Solidarietà: 36 mesi nel quinquennio mobile.
2) Ore integrabili: anche in questo caso il n° massimo di ore integrabili è variabile in base
alla causale:
 Riorganizzazione/crisi aziendale: 80% delle ore lavorabili nell’unità produttiva,
nell’arco di tempo del programma autorizzato.
 Solidarietà: la riduzione dell’orario di lavoro non può superare:
 60% (80% dal 2021) dell’orario giornaliero, settimanale o mensile
originariamente fissato.
 70% (90% dal 2021) dell’orario dell’intera durata del contratto per ciascun
lavoratore.
Informazione e consultazione sindacale: anche nella CIGS si prevede la procedura di
consultazione sindacale per l’accesso all’intervento, che si differenzia per alcuni aspetti dalla CIGO.
Domanda concessione CIGS: la domanda di intervento straordinario, a cui va allegato l’elenco
nominativo dei lavoratori da sospendere, deve essere presentata entro 7 gg dalla conclusione
della procedura di consultazione, in ogni caso entro 30 gg dalla sospensione/riduzione
dell’orario di lavoro.
Concessione CIGS: la CIGS è concessa dietro decreto ministeriale, che va emanato entro 90 gg
dalla presentazione della domanda (salvo proroghe per necessità istruttorie).

FONDI DI SOLIDARIETÀ
L’aumento dei casi di ricorso alla CIG e la progressiva insufficienza delle finanze pubbliche volte
al sostegno al reddito dei lavoratori hanno indotto il legislatore a valorizzare il welfare privato (o
“fai da te”), affidato all’intervento del bilateralismo.
Enti bilaterali: gli enti bilaterali sono degli organismi a gestione paritaria composti da
rappresentanti delle associazioni sindacali dei datori di lavoro e dai rappresentanti dei
lavoratori che, mediante finanziamento a totale carico degli iscritti a queste associazioni,
provvedono ad erogare le provvidenze sostitutive di quelle pubbliche non accessibili o
integrative delle stesse (nei limiti di quanto raccolgono).
Bilateralismo consolidato: ci sono settori in cui il bilateralismo è utilizzato da lungo tempo,
ossia l’artigianato, edilizia e settore terziario.
Volontarietà: la caratteristica fondamentale degli enti bilaterali è la volontarietà dell’adesione da
parte dei datori di lavoro, e della limitazione delle prestazioni erogabili in base alla provvista
finanziaria raccolta attraverso la contribuzione.

L. 92/2012: la legge Fornero ha utilizzato questi strumenti per far fronte alle esigenze della crisi,
prevedendo per la prima volta la costituzione di fondi bilaterali di sostegno al reddito ad
adesione obbligatoria, con connessa contribuzione obbligatoria, da parte dei datori di lavoro
con +15 dipendenti esclusi dal campo applicativo della CIG.
Tuttavia, la riforma Fornero ha anche confermato il vincolo di bilancio, ossia l’obbligo di non
corrispondere alcuna prestazione in assenza di risorse disponibili.
Infine, in caso di mancata costituzione di fondi bilaterali privati, la l. 92/2012 ha previsto la
costituzione di un fondo residuale da parte dell’INPS. Di fatto, però, nel triennio fino
all’emanazione del Jobs Act, questa legge ha avuto scarsa applicazione.

D.lgs. 148/2015: per questo il Jobs Act 2 ha ridisciplinato completamente i fondi di solidarietà,
abrogando l’intera disciplina previgente, e prevedendo che:
 Non è previsto un termine per l’istituzione del fondo bilaterale.
 Il fondo residuale dell’INPS viene rinominato “Fondo di integrazione salariale”.
 La soglia dimensionale oltre la quale scatta l’obbligo del versamento della contribuzione
scende da 15 a 5 dipendenti.
 Dai fondi bilaterali può essere erogato un assegno di solidarietà (al posto della provvidenza
erogata tramite i contratti di solidarietà senza CIGS).
 Si prevede un aggravamento della contribuzione dovuta ai fondi.
 Si prevede un’integrazione tra di essi.

DAL CONTRATTO DI SOLIDARIETÀ ESPANSIVA AL CONTRATTO DI ESPANSIONE


L’ultima parte del d.lgs. 148/2015 era originariamente dedicata ai contratti di solidarietà espansivi,
poi tramutati nel contratto di espansione.
Contratto di solidarietà espansiva: questo contratto nasce nel 1984, al pari del contratto di
solidarietà difensivo, ma ha sempre avuto scarsa applicazione nella pratica poiché, pur
prevedendosi una riduzione dell’orario di lavoro e conseguentemente del salario, non era
accompagnato da un’integrazione della retribuzione persa (come la CIG).
Il d.lgs. 148/2015 lo ha riproposto prendendo spunto dalla disciplina del ’84, ma prevedendo un
beneficio concesso ai datori di lavoro che avessero assunto, per via della riduzione dell’orario,
nuovi lavoratori. Tuttavia, anche in questo caso il non fu utilizzato poiché non si capiva come si
facesse a passare da un eccedenza di personale a nuove assunzioni.

Contratto di espansione: le suddette criticità hanno portato il legislatore, perciò, a rivedere


l’istituto e a sostituirlo con il contratto di espansione. Il contratto di espansione è una misura
sperimentale introdotta per gli anni 2019-20, per le imprese con +1000 dipendenti, interessate a
processi di riorganizzazione mirati al progresso tecnologico dell’attività e che, dunque, ricerchino
figure professionali con le competenze adatte, o vogliano riqualificare il personale già presente.
Per attivare il contratto di espansione, l’impresa deve avviare innanzitutto la procedura di
consultazione sindacale (uguale alla CIGS), seppur l’accordo dev’essere sottoscritto in sede
governativa. Il contratto di espansione prevede una disciplina diversa a seconda dell’anzianità
del lavoratore:
 Lavoratori prossimi alla pensione: il contratto di espansione deve indicare il numero, il
profilo professionale e la cadenza temporale delle nuove unità da assumere, che
andranno a rimpiazzare i lavoratori che si trovano a meno di 60 mesi dalla maturazione
dei requisiti per la pensione anticipata o di vecchiaia.
Tuttavia, l’elevata onerosità rischia di renderla poco sfruttata dalle aziende. Infatti, i
lavoratori da sostituire (il cui rapporto di lavoro può cessare comunque solo previo consenso esplicito)
hanno diritto ad un’indennità mensile, a carico del datore, pari al trattamento
pensionistico lordo maturato dal lavoratore fino a quel momento, e l’indennità dura fino al
conseguimento del 1° tra diritto di pensione di vecchiaia o a quella anticipata.
 Lavoratori non prossimi alla pensione: i lavoratori che si trovano a più di 60 mesi dal
pensionamento, invece, saranno oggetto di un piano formativo per l’adeguamento delle
competenze. In tal caso, può prevedersi una riduzione dell’orario giornaliero, settimanale
o mensile non superiore al 30%, con intervento della CIG per un periodo massimo di 18
mesi.

DISPOSIZIONI TRANSITORIE E FINALI


Nelle disposizioni transitorie e finali meritano menzione quelle riguardanti:
 Risorse finanziarie: il d.lgs. 148/2015 prevede un aumento cospicuo del fondo per
finanziare le misure di conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro e dei
trattamenti di disoccupazione.
 Ammortizzatori sociali in deroga: vengono previste alcune ipotesi di ammortizzatori
sociali in deroga, che sembravano invece definitivamente superati, e che invece sono stati
reinseriti con un’apposita disposizione della legge di bilancio per il 2018. Le ipotesi sono:
1) Imprese in CIGS che all’esito del programma di crisi aziendale cessi l’attività
produttiva, ma a patto che sussistano concrete possibilità di rapida cessione
dell’azienda e di un conseguente riassorbimento occupazionale.
2) Lavoratori dei call-center a certe condizioni: (imprese con +50 dipendenti nei 6 mesi prima
della presentazione della domanda; unità produttive in diverse regioni o PATB...). Il trattamento è
concesso a tutti i lavoratori appartenenti all’azienda, per sospensione/riduzione
dell’orario per crisi aziendale o per cessione dell’attività. Il trattamento, inoltre,
viene erogato per periodi non superiori a 12 mesi in un'unica soluzione, con
obbligo per le imprese di versare il contributo addizionale.
3) Settore della pesca: è previsto il finanziamento di CIG a carico del Fondo di
integrazione salariale.
4) CIGS finanziata al 50% dalle Regioni+PATB o, in eccedenza a tale quota, con
copertura degli oneri connessi a carico delle finanze regionali, con una preferenza per
la destinazione delle risorse verso le imprese operanti nelle aree di crisi
industriale complessa o, in alternativa, alle misure di politica attiva del lavoro.
5) CIGS finanziata dallo Stato per imprese operanti in un’area di crisi industriale
complessa, sempre a determinate condizioni (è necessario: il previo accordo stipulato in sede
governativa; la presentazione di un piano di recupero occupazionale da parte dell’impresa, con appositi
percorsi di politiche attive del lavoro accordati con le regioni; l’impossibilità di ricorrere alla CIGS).

CIG IN AGRICOLTURA
L. 457/1972: Per quanto riguarda l’integrazione salariale per le imprese del settore agricolo, la
principale fonte normativa è la l. 457/1972 (non è stata abrogata dal d.lgs. 148/2015, in quanto le norme della
legge sono compatibili col decreto).
Campo di applicazione soggettivo: possono usufruire dell’integrazione salariale prevista dalla l.
457/1972 gli operai agricoli con contratto a tempo indeterminato che siano sospesi
temporaneamente dal lavoro per intemperie stagionali o per altre cause non imputabili al
datore di lavoro o ai lavoratori.
Misura del trattamento: in favore degli operai agricoli viene erogato un trattamento sostitutivo
della retribuzione, per le giornate di lavoro non prestate, pari a ⅔ della retribuzione.
Durata: il trattamento può essere concesso per un massimo di 90 gg all’anno, cui si aggiungono
gli assegni familiari (ove spettanti).
Procedura d’ammissione: per essere ammessi al trattamento, il datore di lavoro deve
presentare domanda alla sede provinciale dell’INPS (tramite i Centri per l’impiego) entro 15 gg dalla
sospensione del lavoro. Nella domanda deve indicare:
 Nominativo dei lavoratori sospesi.
 N° di giornate di sospensione.
 Causa della sospensione dell’attività lavorativa.
L’INPS decide se concedere o meno il trattamento entro 20 gg, trascorsi i quali la domanda si
intende accolta. È poi l’INPS stesso a corrispondere al datore il trattamento sostitutivo.

L. 223/1991: nel ’91 sono poi state apportate alcune modifiche all’istituto:
 Il trattamento ordinario per il settore agricolo è stato esteso anche a impiegati e quadri.
 La fruizione del trattamento di integrazione salariale (sempre di 90 gg), per operai e
impiegati agricoli con contratto indeterminato, è concessa anche nei casi di sospensione
lavorativa per esigenze di riconversione/ristrutturazione aziendale da imprese che:
1. Occupino almeno 6 lavoratori con contratto a tempo indeterminato; o
2. Occupino 4 lavoratori a tempo indeterminato, e nell’anno precedente abbiano
impiegato manodopera agricola per un n° di giornate non inferiore a 1080.
2) LICENZIAMENTI COLLETTIVI

LICENZIAMENTI COLLETTIVI PER RIDUZIONE DEL PERSONALE


Accordi interconfederali (1947-50-65): la nozione di licenziamenti collettivi per riduzione di
personale era stata introdotta dall’Accordo Interconfederale del 1947, che faceva un distinguo tra
le 2 fattispecie:
 Licenziamento individuale: si fondava sul vincolo di giustificare il licenziamento, posto a
carico del datore. Nell’Accordo del 1965, poi, questo vincolo si è trasformato in un obbligo
per il datore di motivare il licenziamento con una giusta causa o giustificato motivo.
 Licenziamento collettivo: il licenziamento collettivo veniva identificato quasi sempre da
esigenze di riduzione o trasformazione di attività/lavoro, per cui si escludeva a
prescindere la necessità di giustificare i singoli licenziamenti collettivi. Questa disciplina
è stata mantenuta intatta sia nell’Accordo Interconfederale sui licenziamenti collettivi per
riduzione del personale del 1950, sia in quello del 1965.
La ragione di questa differenza si ravvisa nella considerazione generale per cui i licenziamenti
collettivi rappresentano una delle manifestazioni del potere di organizzazione e della libertà di
iniziativa economica del datore di lavoro, per cui anche l’autonomia collettiva ha riconosciuto
tale diritto come meritevole di tutela, in quanto sancito dalla Costituzione.

L. 604/1966: il legislatore del ’66 ha introdotto dei limiti al potere di recesso del datore di lavoro
nei licenziamenti individuali, prevedendo il principio del giustificato motivo come limite al
diritto potestativo di licenziamento. Tuttavia, ha espressamente previsto l’esclusione di tale
disposizione per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale.
Di conseguenza, per lungo tempo non si è potuto applicare la disciplina protettiva dei licenziamenti
individuali anche a quelli collettivi, per cui i licenziamenti collettivi illegittimi venivano sanzionati,
secondo la tutela del diritto comune, col solo risarcimento del danno; ma ciò avveniva solo se il
datore di lavoro:
 avviava le procedure di consultazione sindacale (previste dagli Accordi interconfederali), che
diventava così un requisito formale essenziale del licenziamento collettivo; oppure
 nell’ipotesi di insussistenza dell’elemento sostanziale della riduzione o trasformazione
di attività o lavoro.
In mancanza di queste 2 circostanze, il licenziamento collettivo si trasformava in una somma di
licenziamenti individuali (licenziamenti individuali plurimi).

Direttiva CE 75/129: alla necessità di escogitare un’idonea normativa che regolamentasse i


licenziamenti collettivi si è aggiunta, inoltre, la direttiva comunitaria 75/129 del 1975 che
impegnava gli Stati dell’UE a regolamentare i licenziamenti collettivi. Tuttavia, in Italia questa
direttiva non ha subito trovato attuazione, tant’è che la Corte di Giustizia delle Comunità Europee
(CGCE) nel 1985 ha dichiarato l’Italia inadempiente sotto questo punto di vista.

L. 223/1991: solo nel ’91 si è colmato questo vuoto legislativo, con l’emanazione della l.
223/1991 che ha dato attuazione alla direttiva CE 75/129.

Direttiva CE 98/59: dopo l’emanazione della legge del ’91, l’UE ha previsto nuove norme
comunitarie, fino all’emanazione della direttiva 98/59 che ha abrogato tutte le direttive
precedenti. Questa direttiva ha riprodotto quasi alla lettera la vecchia direttiva del ’75, per cui in
Italia non si è resa necessaria inizialmente l’integrazione della nuova direttiva.
Successivamente, la CGCE ha condannato l’Italia per non aver dato attuazione alla nuova
direttiva, perché all’interno della l. 223/1991 erano esclusi dalla disciplina dei licenziamenti
collettivi i datori di lavoro non imprenditori (inclusi nella direttiva del ’98). Perciò il legislatore è
intervenuto per inserirli nel 2004.
Infine, nel 2014 la CGCE ha ulteriormente sanzionato l’Italia per non aver incluso nella disciplina
dei licenziamenti collettivi i dirigenti (inseriti nel 2014 mediante la legge europea 2013 bis).
RIDUZIONI DEL PERSONALE (L. 223/1991)
L. 223/1991: con la l. 223/1991 il legislatore ha voluto disciplinare tutte le situazioni di
eccedenza di personale, prevedendo gli interventi della CIG e le norme in materia di licenziamenti
collettivi. Il legislatore, accanto alle ipotesi in cui ricorreva la CIG, ha previsto 2 ipotesi di
trattamento delle eccedenze definitive di personale:
 Collocamento in mobilità: l’eccedenza di personale si manifesta durante una crisi
aziendale per la quale è stato concesso l’intervento della CIGS.
 Licenziamento collettivo per riduzione del personale: il datore decide di procedere ai
licenziamenti delle eccedenze di personale, prescindendo dal ricorso alla CIGS (anche se
legittimato a richiederla).

L. 92/2012: la legge Fornero, nella riforma degli ammortizzatori sociali, ha eliminato le liste di
mobilità, sostituendo l’indennità di mobilità con l’ASpI (assicurazione sociale per l’impiego) come unico
ed universale strumento di tutela contro la disoccupazione, eliminando dunque la distinzione tra
le 2 fattispecie e riunendo tutta la disciplina sotto la dicitura “procedura per i licenziamenti
collettivi per riduzione del personale”.
Licenziamento collettivo per riduzione del personale: questa disciplina ha una portata generale:
 Campo di applicazione: riguarda anche le imprese non rientranti nella disciplina della
CIGS, ma che effettuino licenziamenti collettivi. Inoltre, dopo le modifiche apportate nel
2004-2014 essa si applica anche ai datori di lavoro non imprenditori e ai dirigenti (con
alcune varianti).
 Limite dimensionale: sia per la riduzione di personale operata durante l’intervento della
CIGS, sia nel caso in cui il datore intenda procedere direttamente, si applica il limite
dimensionale di 15 dipendenti (stessi criteri di calcolo utilizzati per la CIGS).
 Rinvio disciplina alla CIGS: la disciplina dei licenziamenti collettivi per riduzione di
personale viene rinviata in buona parte alla procedura di licenziamento nel corso della
CIGS, per uniformità di trattamento delle riduzioni di personale.

PROCEDURA DI LICENZIAMENTO DURANTE LA CIGS


Si ha eccedenza definitiva di personale qualora un’impresa, ammessa al trattamento di CIGS, nel
corso di attuazione del programma ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego di
tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere ad altre misure se non quella della procedura
di licenziamento collettivo (prima della l. 92/2012 detta “procedura di mobilità”).
Procedura di mobilità: per attivare la procedura di mobilità, l’impresa ha l’obbligo di fornire
immediate ed analitiche informazioni ai sindacati e alla pubblica autorità competente, in modo
da procedere con una consultazione sindacale e successivamente ad un’azione di mediazione
svolta dai pubblici poteri. In particolare:
1) Comunicazione RSA: il 1° atto della procedura consiste nella comunicazione alle RSA e ai
sindacati di categoria della situazione di difficoltà in cui versa l’azienda, indicando:
 Motivi dell’eccedenza di personale.
 Motivi che impediscono il ricorso a soluzioni alternative al licenziamento.
 N° di lavoratori in eccesso, loro collocazione aziendale e profilo professionale.
Entro 7 gg le RSA possono richiedere un esame congiunto con l’Ufficio del lavoro per
trovare una soluzione alternativa.
2) Comunicazione Uffici del lavoro: una copia della comunicazione va inviata anche agli
Uffici del lavoro competenti. Se entro 45 gg non si riesca a trovare un accordo con le
RSA, il responsabile dell’Ufficio tenta una mediazione tra le parti, che ha durata massima
di 30 gg.
Soluzioni alternative: la legge sollecita le parti a ricercare soluzioni alternative all’espulsione di
personale (contratti di solidarietà; forme flessibili di lavoro ecc.), al fine di agevolare il raggiungimento di
accordi per il riassorbimento, anche parziale, dei lavoratori eccedenti. Addirittura, gli accordi
sindacali possono prevedere l’adibizione del lavoratore a mansioni non equivalenti (in deroga alla
legge), o a disporre il distacco temporaneo di 1 o più lavoratori presso altra impresa.
Piani sociali: se non è possibile ricorrere a nessuna di queste soluzioni, la consultazione sindacale
deve vagliare la possibilità di ricorrere a misure sociali di accompagnamento, riqualificazione e
riconversione dei lavoratori in eccesso, predisponendo dei veri e propri piani sociali.

LICENZIAMENTO DEI LAVORATORI ECCEDENTI


Una volta esaurita la procedura di mobilità, anche in assenza di accordo collettivo, l’imprenditore
può procedere al licenziamento dei lavoratori in eccesso.
Criteri di scelta: data la problematicità della materia, il legislatore ha imposto al datore dei criteri
di scelta del personale da licenziare, che valgono in mancanza di accordo sindacale. Infatti,
l’individuazione dei lavoratori da licenziare deve tener conto:
 Esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale.
 Criteri fissati dai contratti collettivi. In mancanza, oltre che delle esigenze tecnico-
produttive, anche dei:
o Carichi di famiglia.
o Anzianità.
Problemi interpretativi: la disposizione in tema di criteri di scelta ha però mostrato non pochi
problemi di interpretazione per dottrina e giurisprudenza. Tra tutti, quelli relativi a:
 Determinazione dell’ambito di selezione: se la selezione va effettuata con riferimento ai
reparti/settori dell’impresa direttamente interessati dall’eccedenza, o all’impresa nel suo
complesso.
 Significato dei criteri legali: se l’anzianità vada intesa come anzianità di servizio, o come
età anagrafica.
 Modalità di concorso tra i criteri legali: la cui determinazione spetta all’imprenditore,
ma secondo i criteri della buona fede e correttezza.
 Individuazione dei vincoli previsti per gli accordi sindacali: nel determinare i criteri di
scelta, i contratti collettivi devono rispettare il principio di non discriminazione, della
razionalità e della ragionevolezza (per esempio, i contratti collettivi possono adottare il criterio di
prossimità al pensionamento, purché permetta di formare una graduatoria rigida e applicabile senza margini di
discrezionalità).
Limiti insuperabili: il legislatore ha comunque previsto dei limiti insuperabili nel processo
selettivo, a tutela della particolare situazione in cui versano alcuni lavoratori:
1) Invalidi: il n° di invalidi non può in ogni caso superare le percentuali previste per le
assunzioni obbligatorie rispetto al totale dei lavoratori licenziati.
𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐢𝐧𝐚𝐥𝐢𝐝𝐢 𝐥𝐢𝐜𝐞𝐧𝐳𝐢𝐚𝐭𝐢
𝐩𝐞𝐫𝐜𝐞𝐧𝐭𝐮𝐚𝐥𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐥𝐞 𝐚𝐬𝐬𝐮𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐨𝐛𝐛𝐥𝐢𝐠𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢𝐞.
𝐭𝐨𝐭. 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐥𝐢𝐜𝐞𝐧𝐳𝐢𝐚𝐭𝐢
𝐅𝐞𝐦𝐦𝐢𝐧𝐞
2) : il rapporto percentuale tra manodopera femminile e maschile deve rimanere
𝐦𝐚𝐬𝐜𝐡𝐢
invariato, con riferimento alle mansioni oggetto di eccedenza. Per cui è fatto espressamente
divieto di discriminazione per sesso nella procedura di licenziamento collettivo.

Comunicazione scritta licenziamento: una volta scelti i lavoratori da licenziare, il datore di lavoro
ha l’obbligo di comunicare individualmente a ciascuno di loro il provvedimento di licenziamento
in forma scritta, il quale deve rispettare l’obbligo del preavviso.
Entro 7 gg dal licenziamento, inoltre, il datore deve comunicare agli Uffici del lavoro competenti
un elenco contente i dati anagrafici e professionali dei lavoratori espulsi, nonché l’indicazione
delle modalità di applicazione dei criteri di scelta.
Vincoli formali: per quanto riguarda i vincoli formali del provvedimento di licenziamento, sono
cambiati col passare delle disposizioni:
1) L. 223/1991: la legge del ’91 disponeva:
 Inefficacia: licenziamenti senza forma scritta, o in violazione della procedura
prevista dalla legge. Veniva applicato, in questo caso, il vecchio art. 18 St. lav., e
dunque la reintegrazione nel posto di lavoro.
 Annullabilità: licenziamenti in violazione dei criteri di scelta. Anche in questo caso
si applicava la reintegrazione piena.
2) L. 92/2012: la legge Fornero ha modificato l’apparato sanzionatorio, prevendo:
 Reintegrazione piena: inosservanza forma scritta.
 Indennità risarcitoria piena: violazione delle procedure di licenziamento.
 Indennità risarcitoria ridotta: violazione dei criteri di scelta.
3) D.lgs. 23/2015: sono esclusi dal regime sanzionatorio della legge Fornero i lavoratori
assunti dal 7 marzo 2015 in poi, ai quali si applica:
 Reintegrazione piena: inosservanza forma scritta.
 Tutela risarcitoria piena: violazione delle procedure e criteri di scelta (il datore deve
pagare un’indennità pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni
anno di servizio, comunque non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità).
Impugnazione: salva l’ipotesi di assenza di forma scritta, il licenziamento dev’essere impugnato,
e il ricorso depositato al giudice, entro il termine e le forme previste per i licenziamenti
individuali (60 gg), pena decadenza del diritto di impugnazione.

LICENZIAMENTO COLLETTIVO SENZA RICORSO ALLA CIGS


L’altra ipotesi di licenziamento collettivo si ha quando l’imprenditore (anche avendo la possibilità di
richiedere l’intervento della CIGS) decida di procedere subito alla riduzione del personale; ovviamente,
quest’ipotesi può riguardare anche imprese che, invece, non abbiano i requisiti per richiedere
l’intervento della CIGS.
Requisiti: la l. 223/1991 art. 24 fa riferimento all’imprenditore che abbia +15 dipendenti e che,
in conseguenza della riduzione/trasformazione di attività o di lavoro, intenda procedere ad
almeno 5 licenziamenti, in un arco di 120 gg, in un’unica unità produttiva, o in più unità
produttive nella stessa provincia.
Cessazione definitiva attività: nell’ambito del licenziamento collettivo per riduzione del
personale viene compreso anche quello intimato dall’imprenditore che poi intenda procedere alla
totale e definitiva cessazione dell’attività.
Presupposti causali: la giustificazione causale dietro il licenziamento collettivo per riduzione
di personale è una “riduzione o trasformazione di attività o di lavoro”, a cui la l. 223/1991
aggiunge dei requisiti numerici, temporali e spaziali di cui sopra.
Rinvio alla disciplina del licenziamento con CIGS: l’art. 24 dispone espressamente che per il
licenziamento collettivo si applicano tutte le disposizioni procedurali previste per il
licenziamento connesso con la CIGS, salvo alcune eccezioni:
 Cose in comune: comuni a entrambe le ipotesi di licenziamento collettivo sono, dunque:
 Procedure e gli adempimenti amministrativi (consultazione sindacale, mediazione...)
 Rispetto dei criteri di scelta, dell’obbligo di preavviso e dei vincoli formali.
 Effetto sanante dei vizi procedurali da parte dell’accordo collettivo.
 Regime sanzionatorio del licenziamento con l’applicazione delle diverse tutele,
previste dall’art. 18 St. lav. e d.lgs. 23/2015, a seconda della data di assunzione.
 Termine di impugnazione del licenziamento e del deposito del ricorso al giudice.
 Eccezioni: per tutti i lavoratori in procedura di mobilità, il licenziamento deve avvenire
entro 120 gg dalla conclusione della procedura, salvo diversa previsione dell’accordo
sindacale.
Licenziamento collettivo per liquidazione giudiziale: è prevista, per l’ipotesi in cui il
licenziamento collettivo sia avviato dal curatore nel corso della liquidazione giudiziale, una
regolamentazione speciale. Rimangono invariati i presupposti causali previsti per la riduzione
del personale, ma variano alcuni soggetti del procedimento.
Infatti, la comunicazione preventiva, a cura del curatore, dev’essere trasmessa, oltre che ai
sindacati, anche all’Ispettorato del lavoro (e non alla Direzione territoriale del lavoro). In tal caso, si
prevede:
 La procedura di consultazione si esaurisce trascorsi 40 gg dalla comunicazione
preventiva ai sindacati, se quest’ultimi non abbiano richiesto l’esame congiunto o se la
data dello stesso non sia stata fissata dall’Ispettorato entro 40 gg.
 Se la procedura di consultazione, invece, si svolge, essa si intende esaurita qualora non si
sia raggiunto l’accordo entro 10 gg dal suo inizio, salvo proroga per giusti motivi di ulteriori
10 gg disposta dal giudice.

DATORI DI LAVORO NON IMPRENDITORI E DIRIGENTI


D.lgs. 110/2004: dopo aver subìto una condanna dalla CGCE per aver escluso i datori di lavoro
non imprenditori dalla disciplina dei licenziamenti collettivi, nel 2004 il legislatore italiano ha
integrato e modificato la disciplina della l. 223/1991, al fine di includere anche i datori di lavoro
non imprenditori.
Estensione: l’estensione ai datori non imprenditori ha riguardato:
 Disciplina licenziamento collettivo per riduzione di personale: la disciplina dell’art. 24 l.
223/91 è stata estesa alle stesse condizioni ai datori non imprenditori, ad esclusione delle
norme relative al contributo di mobilità e all’anticipazione in sede di avvio della
procedura. Questo perché i datori non imprenditori non rientrano nel campo applicativo
della CIGS, e dunque i loro dipendenti licenziati collettivamente non godranno
dell’indennità di mobilità, ma hanno solo il diritto di essere iscritti nelle liste di mobilità.
 Cessazione dell’attività: i datori non imprenditori sono inclusi anche nella disciplina
attinente ai licenziamenti collettivi nel caso di cessazione dell’attività.
 Sanzioni licenziamento illegittimo: è applicabile anche lo stesso regime sanzionatorio
previsto per gli imprenditori.

L. 161/2014: successivamente, a seguito di un’altra condanna della CGCE per aver escluso dalla
disciplina dei licenziamenti collettivi illegittimi anche i dirigenti, quest’ultimi sono stati inclusi
dalla l. 161/2014 nel OG italiano.
Anche in questo caso ai dirigenti si applicano tutte le procedure previste dalla legge, con la
precisazione che nella consultazione sindacale devono essere previsti “appositi incontri” dedicati
alla categoria. Vengono escluse, invece, le disposizioni relative alla CIGS e all’indennità di mobilità
(in quanto non rientrano nel suo campo applicativo).
Regime sanzionatorio: delle eccezioni sono previste per l’apparato sanzionatorio applicabile ai
dirigenti:
 Reintegrazione piena: inosservanza forma scritta.
 Indennità risarcitoria piena: violazione della procedura e violazione dei criteri di scelta
(a differenza della regola generale che prevedeva la reintegrazione in misura ridotta per quest’ultima).
Questo regime è applicabile anche per i dirigenti assunti dopo il 7 marzo 2015, poiché i dirigenti
sono stati espressamente esclusi dalla disciplina del d.lgs. 23/2015 (mantenendo così, forse ad insaputa del
legislatore, un trattamento più favorevole per i dirigenti rispetto alle altre categorie di lavoratori, per le quali è prevista una
tutela inferiore).

INCENTIVI ALLA RICOLLOCAZIONE DEGLI ESUBERI


Eliminazione indennità e liste di mobilità: una delle grosse novità apportate dalla legge Fornero
è l’eliminazione, a partire dal 2017, dell’indennità di mobilità e della procedura di accesso ad
essa, nonché la soppressione delle liste di mobilità e di tutti i benefici previsti per la rapida
ricollocazione dei lavoratori espulsi nel mercato del lavoro.
NASpI (ex ASpI): al posto dell’indennità di mobilità, la legge Fornero ha introdotto l’ASpI (poi
denominata NASpI col Jobs Act 2), ossia un trattamento di disoccupazione per tutti i disoccupati
involontari.
A partire dal 1° maggio 2015, tutti i disoccupati involontari hanno diritto a percepire il
trattamento di NASpI, la cui durata è del 50% delle settimane contribuite nel quadriennio
mobile prima della disoccupazione, con una durata massima, perciò, di 24 mensilità.
Liquidazione anticipata NASpI: ai percettori di NASpI la legge consente di ottenere una
liquidazione anticipata una tantum dell’indennità spettantegli e non ancora erogata, a titolo di
incentivo per l’avvio di un’attività lavorativa autonoma, un’impresa individuale o per aderire ad
una cooperativa di produzione.
Diritto di precedenza: i lavoratori licenziati per riduzione di personale hanno un diritto di
precedenza rispetto alle assunzioni effettuate dalla stessa azienda che li ha licenziati, entro 6 mesi
dal licenziamento.
Incentivi al datore: al datore di lavoro che, senza esservi tenuto, assuma con contratto a tempo
pieno ed indeterminato un percettore di NASpI, è concesso un contributo mensile del 50%
dell’indennità mensile residua che sarebbe stata corrisposta al lavoratore, per ogni mensilità di
retribuzione corrisposta al lavoratore.
Tale incentivo, tuttavia, è stato depotenziato nel 2015, in quanto è stato ridotto al 20%, affinché il
restante 30% venga destinato al finanziamento dell’ANPAL (per cui è palese l’intento del legislatore di
portare ad esaurimento questa tipologia di incentivo alle assunzioni).

ONERI ECONOMICI PER LE IMPRESE CHE LICENZIANO


Gli incentivi legati agli esuberi (NASpI e incentivi finalizzati alla ricollocazione) richiedono cospicue risorse
finanziarie, a cui sono chiamati a contribuire i datori di lavoro che abbiano proceduto a riduzioni
del personale.
Contributo addizionale: la forma con cui i datori partecipano al finanziamento è il contributo
addizionale (contributo d’uso), il quale inizialmente era previsto solo per la CIG. Successivamente,
la riforma Fornero lo ha esteso a tutte le ipotesi di licenziamento a prescindere dalla fattispecie,
con un aggravamento dei costi posti a carico del datore di lavoro che procede a riduzioni di
personale.

Ticket licenziamento: la normativa introdotta con la legge Fornero, e confermata nel 2015, ha
previsto il “ticket licenziamento” pari al 41% del massimale mensile di NASpI per ogni anno di
anzianità aziendale, fino a un massimo di 3 anni, in ogni caso di cessazione del rapporto per
licenziamento che darebbe diritto al trattamento di disoccupazione.
Tuttavia, il ticket licenziamento è stato modificato dopo qualche anno:
 2018: in caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale, il contributo è
raddoppiato (82% massimale NASpI per ogni anno di anzianità). In caso di mancato accordo
sindacale, è triplicato (123% massimale NASpI).
 2019: in caso di mancato accordo sindacale, per un lavoratore con almeno 3 anni di
anzianità aziendale il contributo dovuto è pari a 9.012,78€.

Esclusioni: il contributo non è dovuto per:


 Licenziamenti conseguenti a cambi d’appalto con riassunzione dei lavoratori da parte del
nuovo appaltatore.
 Licenziamenti successivi al completamento di attività e a chiusura del cantiere, nel
settore delle costruzioni edili.
3) GARANZIE DEL CREDITO E DEI DIRITTI DEI LAVORATORI/TRASFERIMENTO D’AZIENDA

GARANZIA PATRIMONIALE GENERALE E CAUSE LEGITTIME DI PRELAZIONE; AZIONE DI RIVALSA;


PRIVILEGIO SUI MOBILI
Per quanto riguarda le garanzie dei diritti del lavoratore, un primo gruppo è rappresentato dalle
garanzie del credito, per cui il lavoratore ha una posizione di preferenza sui beni del datore di
lavoro nel soddisfacimento del proprio credito.
Cause legittime di prelazione: l’art. 2751 bis cc, a garanzia dei crediti del lavoratore vantati sui
beni del datore di lavoro, riconosce un privilegio generale sui mobili del debitore (datore) per le
retribuzioni dovute, sotto qualsiasi forma, ai prestatori di lavoro subordinato e tutte le indennità
dovute per effetto della cessazione del rapporto di lavoro, nonché il credito del lavoratore per i
danni conseguenti alla mancata corresponsione dei contributi previdenziali e assicurativi
obbligatori da parte del datore, e il credito per il risarcimento del danno subìto per effetto di un
licenziamento inefficace, nullo o annullabile.

Azione di rivalsa: l’art. 1676 cc prevede, nel contratto di appalto, che il prestatore di lavoro
dipendente dall’appaltatore possa rivalersi per i propri crediti nei confronti del committente,
fino alla concorrenza del debito che costui vanta verso l’appaltatore. L’azione di rivalsa va
coordinata con il d.lgs. 276/2003, il quale prevede espressamente una responsabilità solidale tra
committente e appaltatore (da far valere entro 2 anni dalla cessazione dell’appalto) per i trattamenti
retributivi, comprese le quote di TFR, i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in
relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.

Eliminazione beneficio di preventiva escussione: il d.lgs. 276/2003, modificato da ultimo con


un decreto del 2017, ha eliminato il beneficio di escussione preventivo opponibile dal
committente rispetto al patrimonio dell’appaltatore. In sostanza, i lavoratori impiegati
nell’appalto potranno agire direttamente e anche esclusivamente nei confronti del committente,
per il recupero dei propri crediti, senza chiamare in causa l’appaltatore. Ovviamente, il
committente avrà il diritto di regresso nei confronti dell’appaltatore nella misura di quanto
pagato.
Il committente è obbligato a soddisfare i crediti dei lavoratori che lo chiamino a pagare anche nel
caso in cui si succedano 2 diversi appaltatori, ma a patto che nell’atto di trasferimento del
personale i crediti del lavoratore siano stati interamente ceduti alla società subentrante.
Queste disposizioni non trovano applicazione per i contratti d’appalto stipulati dalle PA, in forza
della regola generale, prevista dalla legge Biagi, che esclude qualsiasi applicazione delle proprie
disposizioni al settore pubblico.

TUTELA DEI CREDITI DI LAVORO NELLE PROCEDURE CONCORSUALI


Riguardo la tutela dei crediti di lavoro in tutte le ipotesi di insolvenza del datore di lavoro, che
comportino l’apertura di una procedura concorsuale (di tipo giudiziario o amministrativo), il Consiglio
della Comunità Europea ha emanato una direttiva 80/987, la quale è stata recepita in ITA in 2
momenti diversi (1982-1992).
Stato d’insolvenza: inoltre, con la direttiva comunitaria 2008/94/CE, si è voluto dare una
definizione di quando un datore di lavoro si considera in stato di insolvenza, ossia qualora venga
chiesta l’apertura di una procedura concorsuale fondata sull’insolvenza del datore di lavoro,
prevista dalle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative di uno Stato membro, che
comporta lo spossessamento (parziale/totale) del datore stesso, e la designazione di un curatore.

Quanto all’attuazione della direttiva europea in ITA, essa è avvenuta in 2 tempi:


1) Fondo di garanzia (l. 297/1982): in un primo momento si è provveduto all’istituzione di un
fondo presso l’INPS (Fondo di garanzia) volto alla garanzia del TFR. Esso è alimentato
grazie ai contributi a carico delle aziende, e ha il compito di sostituirsi al datore di lavoro
non solo nel caso di sua insolvenza, ma anche di inadempienza nel pagamento del TFR. Il
legislatore ha distinto 2 ipotesi, ossia l’insolvenza (accertata in sede di procedura concorsuale) e
inadempienza dei datori (non assoggettabili alle procedure concorsuali):
 Insolvenza: il lavoratore ha il diritto di presentare, decorsi 15 gg dal deposito dello
stato passivo o della sentenza di omologazione del concordato preventivo, domanda
per il pagamento del TFR al Fondo di garanzia.
 Inadempienza: se il datore non adempia totalmente o parzialmente alla
corresponsione del TFR, e non sia assoggettabile alla procedura concorsuale per
mancanza dei requisiti soggettivi, il lavoratore può presentare domanda di
pagamento del TFR al Fondo solo dopo che l’esecuzione forzata dei beni del datore
sia risultata insufficiente a soddisfare il proprio credito.
In entrambi i casi, comunque, il Fondo di garanzia deve eseguire il pagamento del
trattamento insoluto entro 60 gg dalla richiesta.
2) Garanzia dei crediti ≠ TFR (d.lgs. 80/1992): dopo una condanna allo Stato per mancata
attuazione della direttiva comunitaria, il legislatore ha emanato il d.lgs. 80/1992 con il quale
ha addossato al Fondo la garanzia dei crediti del lavoratore diversi dal TFR (oneri retributivi
e previdenziali).
Tuttavia, in questo caso la garanzia del Fondo è solo parziale, in quanto essa copre solo i
crediti relativi agli ultimi 3 mesi di rapporto di lavoro, e comunque entro un tetto
massimo predeterminato (3 volte il trattamento massimo mensile di integrazione salariale).
Per questi crediti retributivi, il lavoratore può chiedere l’intervento del Fondo in tutti i
casi di apertura di una procedura concorsuale. Se, però, il datore non sia assoggettabile
alla procedura, l’intervento del Fondo può essere richiesto solo dopo l’insoddisfacente
esecuzione forzata sul patrimonio del datore di lavoro.

EVOLUZIONE NORMATIVA TRASFERIMENTO D’AZIENDA


Altra particolare forma di garanzia dei crediti e dei diritti del lavoratore è prevista dall’art. 2112 cc, il
quale disciplina gli effetti del trasferimento d’azienda sui rapporti di lavoro, e in particolare sulle
posizioni soggettive del lavoratore (diritto di credito; conservazione del posto).
Disciplina comunitaria: il trasferimento d’azienda è stato spesso oggetto di una specifica
direttiva comunitaria (direttiva 77/187; direttiva 98/50; direttiva 2001/23).
Disciplina italiana: l’ITA è stata per lungo tempo inadempiente all’obbligo di dare attuazione
alla direttiva comunitaria del ’77. Infatti, il 2112 cc originariamente disponeva alcuni effetti del
trasferimento d’azienda, tralasciando completamente la disciplina relativa alla conservazione
dell’occupazione e della consultazione sindacale.
 L. 428/1990: una prima svolta si è avuta nel ’90, attraverso il recepimento della disciplina
comunitaria del ’77 con l’emanazione della l. 428/90, la quale disponeva una nuova
regolamentazione in materia di trasferimento d’azienda, prevedendo anche una specifica
disciplina di trasferimento in corso di procedura concorsuale o in presenza di crisi
aziendale.
 D.lgs. 18/2001: con l’uscita della direttiva del ’98, il legislatore ha dovuto adeguare la
previgente disciplina emanando il d.lgs. 18/2001, che ha novellato l’intero art. 2112 cc.
 D.lgs. 276/2003: con la riforma Biagi, infine, l’art. 2112 è stato ulteriormente modificato,
intervenendo sulla nozione giuridica di trasferimento d’azienda e di ramo d’azienda.

TRASFERIMENTO D’AZIENDA
L’art. 2112 cc definisce trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione
contrattuale o a fusione, comporti il mutamento della titolarità di un’attività economica
organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento, e che conserva nel
trasferimento la propria identità (a prescindere dalla tipologia negoziale usata per il trasferimento, inclusi anche
usufrutto o affitto d’azienda).
Attività economica organizzata: nella definizione, emerge il concetto di “attività economica
organizzata”, ossia una parte dell’azienda che, al momento dello scorporo, sia già in grado di
provvedere coi propri mezzi ad uno scopo produttivo definito e predeterminato.
Al riguardo la CGCE ha ammesso, in passato, che possa avvenire trasferimento d’azienda nel caso
in cui si trasferiscano all’esterno anche solo lavoratori nello svolgimento di un’attività (successione
di 2 operatori economici nello svolgimento di opere o servizi d’appalto), e al tempo stesso risulti minimale o
addirittura assente il trasferimento di elementi patrimoniali materiali e/o immateriali. Per cui, la
Corte ha ritenuto non necessario anche il trasferimento di elementi patrimoniali al fine di
delineare la fattispecie di trasferimento d’azienda, occorrendo piuttosto una valutazione nel caso
concreto dell’operazione economica in atto.
Perciò, il legislatore comunitario nel ’98 ha dovuto correggere la precedente direttiva del ’77,
stabilendo che è considerato trasferimento quello di un’entità economica che conserva la propria
identità (intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica), sia essa essenziale
o accessoria.
Alla luce di questo cambiamento interpretativo comunitario, si capisce che all’espressione “attività
economica organizzata” vadano ricondotte anche le ipotesi nelle quali, tenuto conto dell’attività
svolta, oggetto del trasferimento sia un’entità caratterizzata dalla presenza estremamente
ridotta o assente di elementi materiali e/o immateriali (successione nell’appalto di un servizio di pulizia
locali, dove c’è l’assenza di beni materiali/immateriali da trasferire; c’è trasferimento d’azienda nella cessione di un gruppo di
dipendenti, dotati di un particolare “know-how” stabilmente coordinati e organizzati tra loro; c’è trasferimento anche quando
si trasferisce un “ramo dematerializzato” dell’impresa, nel quale il fattore personale sia preponderante rispetto ai beni
materiali, a patto che il ramo sia funzionale alla realizzazione di un risultato produttivo definito e predeterminato).

Trasferimento d’azienda vs cessione del contratto di lavoro: per avere trasferimento d’azienda,
dunque, l’elemento determinante è l’organizzazione, ossia il legame funzionale che rende l’attività
dei dipendenti appartenenti ad uno stesso gruppo in grado di realizzare un determinato
risultato produttivo; altrimenti, si configura un’altra vicenda traslativa, ossia la cessione del
contratto di lavoro, il cui perfezionamento è subordinato al consenso del contraente ceduto (a
differenza di quanto accade nel trasferimento d’azienda).
Acquisizione lavoratori in appalto: l’art. 29 d.lgs. 276/2003, originariamente, escludeva che
l’acquisizione di personale già occupato nell’appalto, a seguito del subentro di un nuovo
appaltatore, costituisse fattispecie di trasferimento d’azienda (o di parte di essa).
Tuttavia, al fine di non entrare in conflitto con la disciplina comunitaria, la giurisprudenza ha usato
interpretare il d.lgs. 276/2003 in termini limitativi, ossia:
 Escludendo l’applicabilità del 2112 cc nelle sole ipotesi in cui il personale
precedentemente impiegato nell’appalto non potesse essere considerato come
un’attività economica organizzata (cioè un’azienda o un ramo di essa).
 Riconoscendo l’applicazione del 2112 cc ogni qualvolta la vicenda circolatoria assumesse
in concreto le caratteristiche del trasferimento di un’attività economica organizzata.
Legge europea (2015-16): sul punto ha provato a far chiarezza la legge europea 2015-16, che
ha novellato il d.lgs. 276/2003, stabilendo che l’acquisizione del personale già impiegato
nell’appalto, a seguito del subentro di un nuovo appaltatore dotato di propria struttura
organizzativa e operativa, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una
specifica identità d’impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte di essa. Perciò,
per capire se ci si trovi di fronte alla fattispecie di cambio d’appalto o di trasferimento d’azienda,
bisogna capire se l’appaltatore subentrante sia in possesso di una struttura organizzativa
autonoma e preesistente, e se ci siano elementi che escludano la piena sovrapponibilità delle
attività imprenditoriali.
Tuttavia, la norma pone parecchi dubbi interpretativi, soprattutto sui concetti di discontinuità e di
identità d’impresa (è sufficiente che l’appaltatore subentrante svolga attività ulteriori, o un servizio più esteso e
diversificato rispetto al precedente per escludere l’applicazione del 2112 cc?), tuttora affidati alla discrezionalità dei
giudici.
Ramo d’azienda: le norme del trasferimento d’azienda si applicano anche al trasferimento di
parte di essa, quando questa sia intesa come un “articolazione funzionalmente autonoma” di
un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al
momento del trasferimento.
Questa norma è volta a rendere più agevoli le operazioni di esternalizzazione di fasi o parti
dell’attività, favorendo anche la cessione di rami d’azienda prive di autonomia funzionale fino
al momento del trasferimento, poiché nella formulazione precedente la legge disponeva che per
trasferire un ramo d’azienda era necessario che quest’ultimo conservasse in esso l’identità
dell’azienda.

CONTINUITÀ DEL RAPPORTO DI LAVORO


Per quanto riguarda la tutela delle posizioni individuali dei lavoratori trasferiti, è sancito dall’art.
2112 cc il principio di automatica continuità dei rapporti di lavoro con il cessionario e della
conservazione dei diritti maturati dal lavoratore. Principio, inoltre, confermato dal co. 4 della
norma stessa, il quale dispone che il trasferimento non costituisce di per sé valido motivo di
licenziamento.
Successione inderogabile: a differenza della disciplina in materia di successione nei contratti in
caso di cessione d’azienda (art. 2558 cc), nella quale l’acquirente dell’azienda subentra in tutti i
contratti relativi all’esercizio d’impresa, salvo patto contrario con l’alienante (norma dispositiva), nel
trasferimento d’azienda (art. 2112 cc) la successione nel contratto di lavoro è un effetto
necessario (norma inderogabile), anche se è prevista comunque la possibilità di recesso
giustificato del cedente.
No consenso lavoratore: per quanto riguarda l’automatico trasferimento al cessionario dei
contratti di lavoro dei lavoratori, ai fini dell’effetto traslativo, non è richiesto il consenso del
lavoratore. Dunque, quest’ultimo non ha la facoltà di opporsi al trasferimento del proprio
contratto, salvo che non presenti le dimissioni con preavviso.
Dimissioni per giusta causa: l’art. 2112 cc prevede poi la possibilità per il lavoratore trasferito di
rassegnare le proprie dimissioni per giusta causa (con diritto all’indennità di mancato preavviso) qualora,
nei 3 mesi successivi al trasferimento, subisca una sostanziale modifica delle condizioni di
lavoro.
Trasferimento di articolazione funzionalmente autonoma: se la tutela del lavoratore, nel caso
di trasferimento d’azienda nel suo complesso, può dirsi vantaggiosa per quest’ultimo, lo stesso
non può sempre dirsi nel caso in cui venga trasferita solo una parte d’azienda (articolazione
funzionalmente autonoma), poiché il trasferimento potrebbe esporre i lavoratori trasferiti ad un
peggioramento del trattamento economico/normativo e del regime di tutela del posto di
lavoro (applicazione di un contratto collettivo meno favorevole o modifica del livello di protezione contro i licenziamenti
illegittimi, in caso di passaggio da un datore di lavoro che non raggiunga le soglie dimensionali dell’art. 18 St. lav.;
trasferimento fraudolento, attuato verso un’impresa priva di solidità finanziaria, col solo fine di dismettere i lavoratori sgraditi
aggirando la disciplina sui licenziamenti collettivi).

TUTELA INDIVIDUALE E COLLETTIVA DEL LAVORATORE NEL TRASFERIMENTO


Solidarietà crediti pregressi: oltre alla continuità dei rapporti di lavoro e la conservazione dei diritti
maturati dal lavoratore, l’art. 2112 cc sancisce anche il principio di solidarietà, tra cedente e
cessionario, per i crediti vantati dal lavoratore al momento del trasferimento,
indipendentemente dalla loro conoscenza o conoscibilità da parte del cessionario.
Solidarietà contratti d’appalto: inoltre, qualora tra cedente e cessionario sia concluso un
contratto d’appalto, a seguito del trasferimento di un ramo d’azienda, con utilizzazione
dell’entità trasferita, si applica la regola (art. 29 d.lgs. 276/2003) della responsabilità solidale
dell’appaltante con l’appaltatore, in relazione ai trattamenti retributivi e contributivi
previdenziali dovuti dall’appaltatore ai propri dipendenti, entro il limite di 2 anni dalla
cessazione dell’appalto.
Conservazione trattamenti economici/normativi: ai lavoratori trasferiti si garantisce anche lo
stesso trattamento economico/normativo (tra cui la conservazione dell’anzianità di servizio maturata
presso il cedente) previsto dai contratti collettivi nazionali, aziendali e territoriali goduti al momento
del trasferimento. Tale garanzia dura fino alla scadenza del contratto, salvo che quest’ultimo venga
sostituito da un altro contratto collettivo, del medesimo livello, applicabile all’impresa del
cessionario.
Vincolo consultazione sindacale: se il trasferimento riguarda un’azienda (o parte di essa) con +15
dipendenti, sia il cedente che il cessionario devono dare comunicazione preventiva alle RSU o
RSA o, in mancanza di quest’ultime, ai sindacati di categoria comparativamente più
rappresentativi. Tale comunicazione va effettuata in forma scritta almeno 25 gg prima della data
del trasferimento.
INCENTIVI ALL’OCCUPAZIONE

PREMESSA
L’accesso al mercato del lavoro non può essere agevolato solo da misure di politica attiva del
lavoro, ma bisogna operare anche delle misure politiche per l’occupazione. In questa categoria
rientrano tutte quelle misure o interventi idonei a sollecitare la domanda di lavoro:
 Creando nuova domanda di lavoro: incentivi per sostenere nuovi investimenti e per
creare nuove attività produttive.
 Facendo emergere domanda di lavoro latente: misure finalizzate a incentivare
l’assunzione di categorie di soggetti considerati “svantaggiati” nel mercato di lavoro,
dall’ordinamento europeo e nazionale.

NATURA GIURIDICA DELLA NORMA INCENTIVO


Norma incentivo: il sistema degli incentivi all’occupazione si regge sull’utilizzo esclusivo della
“norma incentivante”, ossia quella che realizza il proprio scopo normativo non attraverso il
classico strumento sanzionatorio (norma-sanzione), ma con lo strumento dell’incentivo (norma-
incentivo).
Infatti, se per le norme inderogabili il legislatore considera gli interessi dei lavoratori superiori e
prevalenti, tali da limitare la volontà individuale dell’impresa nel compimento di comportamenti non
desiderati attraverso lo strumento della sanzione, per il diritto promozionale il legislatore cerca di
alterare l’interesse delle imprese, orientando il loro comportamento verso quello che la legge
desidera, ma non attraverso il meccanismo dell’imposizione, bensì mediante quello
dell’incoraggiamento.
Incentivo all’occupazione: nel caso specifico dell’incentivo all’occupazione, il comportamento
desiderato dalla legge è l’assunzione di determinate categorie di soggetti “svantaggiati”. Non
potendo utilizzare mezzi coercitivi per ottenere tale risultato, l’OG prevede delle misure incentivanti
affinché i datori di lavoro li assumano. Tuttavia, per i datori non incombe alcun obbligo di legge,
per cui rimangono liberi di scegliere se assumere un lavoratore di questa categoria o meno; ma
qualora voglia fruire degli incentivi statali, ha l’onere di assumere soggetti svantaggiati.

QUADRO EUROPEO
Il sistema degli incentivi all’occupazione è fortemente condizionato dalla normativa europea. In
particolare, sono previsti dei divieti di Aiuti di Stato, posti dal Trattato per il Funzionamento
dell’Unione Europea (TFUE), a tutela della libera concorrenza tra gli Stati membri.
Nel corso degli anni, il legislatore europeo ha definito e circoscritto i componenti della categoria
dei soggetti svantaggiati nel mercato del lavoro, nei cui confronti gli Stati membri possono
concedere aiuti di Stato, esentandoli dall’obbligo di notifica alla Commissione.

DIVIETO DI AIUTI DI STATO (TFUE)


La normativa europea in tema di Aiuti di Stato alle imprese è contenuta negli art. 107-08-09 del
TFUE. Innanzitutto, l’art. 107 stabilisce che “salvo deroghe contemplate dai trattati, sono
incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri,
gli aiuti concessi dagli Stati o mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo alcune
imprese o produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.
Requisiti: dunque, gli elementi caratterizzanti il divieto di aiuti di Stato sono:
 Le misure qualificabili come aiuti.
 Tali aiuti siano concessi dagli Stati o mediante risorse statali.
 Le misure siano selettive (cioè si riferiscano ad alcune imprese o alcune produzioni).
 Gli aiuti incidano negli scambi tra Stati membri.
 Gli aiuti siano in grado di falsare la concorrenza.

Affinché operi l’incompatibilità degli aiuti con il mercato interno, è necessario il concorso di tutti
questi elementi e, inoltre, non deve ricorrere nessuna eccezione prevista dal TFUE o
l’autorizzazione da parte della Commissione.
Nozione Aiuti di Stato: la nozione di Aiuti di Stato non è definita nel TFUE; perciò tale vuoto
normativo è stato colmato da 2 nozioni elaborate da soggetti diversi:
1) Dottrina: sono diverse le definizioni dottrinali, ma tutte con un unico punto in comune, ossia
il vantaggio economicamente apprezzabile concesso ad un’impresa attraverso
l’intervento pubblico (anche se non direttamente proveniente dallo Stato).
2) Commissione e Corte di Giustizia: la prassi della Commissione e la giurisprudenza della
CGCE hanno invece enucleato 3 criteri di definizione degli aiuti di Stato:
 Criterio dell’effetto: l’elemento essenziale è la produzione di un effetto favorevole
sui bilanci dell’impresa beneficiaria. Nella nozione di sovvenzione rientrano, oltre
che le prestazioni positive, qualsiasi misura volta a ridurre gli oneri che un’impresa
deve sostenere in condizioni normali.
 Criterio di selettività: è previsto direttamente nella dall’art. 107 (“l’aiuto è
incompatibile col mercato interno qualora favorisca talune imprese o produzioni”).
“De minimis”: la Commissione ha previsto, tuttavia, una deroga al criterio di
selettività, escludendo l’effetto distorsivo sulla concorrenza qualora l’aiuto sia di
modesta entità (regola del de minimis).
 Onere economico dello Stato: deve sussistere un sacrificio economico (o un mancato
guadagno) da parte dello Stato.
Obbligo di notifica: i finanziamenti che soddisfano i requisiti previsti dall’art. 107 del TFUE
costituiscono aiuti di Stato, e in quanto tali, sono soggetti a notifica alla Commissione.
Esenzione obbligo notifica: tuttavia, lo stesso TFUE (art. 109) dispone che il Consiglio può stabilire
delle categorie di aiuti che sono esentate dall’obbligo di notifica (in quanto compatibili col mercato
interno). Questi aiuti sono:
 Aiuti a favore di piccole-medie imprese (PMI).
 Aiuti alla ricerca e sviluppo.
 Aiuti per la tutela dell’ambiente.
 Aiuti all’occupazione e alla formazione.
 Aiuti a finalità regionale, conformi alla carta approvata dalla Commissione per ogni Stato
membro.

EVOLUZIONE NORMATIVA EUROPEA “SOGGETTI SVANTAGGIATI”


Regolamento (CE) 2204/2002: questa normativa comunitaria indicava i soggetti svantaggiati
per cui era prevista l’esenzione dell’obbligo di notifica. Si trattava di soggetti che, in un modo o
nell’altro, avevano difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro. Oltre ai disabili, per cui vigeva una
previsione ad hoc, i soggetti svantaggiati individuati dal Reg. 2002 erano:
1) Giovani con meno di 25 anni, o che avessero completato la formazione da non più di 2
anni, e non avessero ancora ottenuto il 1° impiego regolarmente retribuito.
2) Ultra 50enni privi di un posto di lavoro o in procinto di perderlo.
3) Soggetti inattivi da almeno 2 anni (per difficoltà di conciliazione della vita privata con quella
lavorativa) che vogliano riprendere un’attività lavorativa.
4) Disoccupati di lungo periodo: si intendono i lavoratori:
 Privi di impiego per 12 dei 16 mesi precedenti.
 Giovani -25 anni privi di impiego per 6 degli 8 mesi precedenti.
5) Donne residenti in aree geografiche in cui il tasso di disoccupazione sia superiore alla
media comunitaria e nazionale.
6) Lavoratori migranti all’interno di una Comunità.
7) Appartenenti a una minoranza etnica, che dovevano migliorare le proprie conoscenze
linguistiche o il proprio bagaglio formativo o esperienziale, per aumentare le possibilità di
ottenere un’occupazione stabile.
8) Adulti che vivevano soli con 1 o più figli a carico.
9) Soggetti privi di diploma di scuola media e disoccupati (o in procinto di esserlo).
10) Affetti da dipendenze (droga e alcool).
11) Pregiudicati penali.

Regolamento (CE) 800/2008: il Reg. 2002 scadeva nel 2006, per cui la Commissione lo sostituì con
il Reg. (CE) 800/2008 in cui si sono registrate numerose novità. Su tutte la drastica riduzione dei
soggetti svantaggiati, passati a 8:
1) Soggetti senza un impiego regolare da almeno 6 mesi.
2) Soggetti privi di diploma di scuola media superiore o professionale.
3) Ultra 50enni.
4) Adulti che vivono da soli con più persone a carico.
5) Appartenenti a minoranza etnica.
6) Disparità uomo-donna > 25%: svantaggiati erano considerati i lavoratori occupati in
professioni/settori in cui era presente un tasso di disparità uomo-donna superiore al 25%
rispetto alla disparità media uomo-donna in tutti i settori economici dello Stato membro
interessato. Rispetto al 2002, dunque, non venivano più considerate svantaggiate le donne,
ma il criterio utilizzato nel 2008 era neutro (non discriminatorio), in quanto poteva riferirsi a
uno o l’altro sesso in relazione al settore di riferimento.
7) Lavoratore molto svantaggiato: lavoratore senza lavoro da almeno 24 mesi. Questa
previsione strideva un po’ all’obiettivo dichiarato del regolamento di aiutare la fuoriuscita
dallo stato di disoccupazione nel minor tempo possibile, poiché si passava, rispetto al 2002,
da un periodo di disoccupazione di 12 mesi, che dava titolo all’incentivo, a 24 mesi.
8) Disabili: non si riscontravano novità rispetto al 2002.
Categorie escluse: il legislatore europeo del 2008, perciò, ha lasciato fuori dalla categoria dei
soggetti svantaggiati i giovani, gli affetti da dipendenze, i pregiudicati e tutte le altre categorie
individuate, a livello nazionale, dalla l. 381/1991. Per questi soggetti, dunque, l’ammissibilità degli
aiuti di Stato in loro favore era subordinata alla preventiva notifica alla Commissione.

Regolamento (UE) 651/2014: con l’introduzione del Reg. (UE) 651/2014 si assiste ad una sorta
di ritorno al passato, per cui vengono reinserite nei soggetti svantaggiati categorie che erano
previste nel Reg. del 2002, successivamente rimosse nel 2008, su tutti i giovani. Il motivo del
reinserimento dei giovani è rinvenibile nella constatazione di una dilagante e strutturale
disoccupazione di questa categoria, colpita maggiormente dalla crisi economica e finanziaria.
I soggetti svantaggiati nel Reg. del 2014, per cui non è previsto l’obbligo di notifica, sono:
1) Soggetti senza un impiego regolare da almeno 6 mesi.
2) Giovani tra 15-24 anni.
3) Soggetti che non hanno un diploma di scuola media superiore o professionale, o hanno
completato la formazione da non più di 2 anni e non hanno ancora ottenuto il 1° impiego
regolarmente retribuito (Not in Education, Employment or Training→ NEET).
4) Ultra 50enni.
5) Adulti che vivono soli con 1 o più persone a carico.
6) Disparità uomo-donna > 25%.
7) Appartenenti a minoranza etnica.
8) Lavoratore molto svantaggiato: in questa categoria rientrano:
 Lavoratore privo di impiego da almeno 24 mesi.
 Giovani o appartenenti a minoranza etnica disoccupati da almeno 12 mesi.
9) Disabili.

Garanzia giovani: in risposta alla crisi occupazionale giovanile, i NEET sono stati oggetto
dell’avvio di un programma a loro dedicato, ossia “European Youth Guarantee” (nel nostro OG
“Garanzia Giovani”), che prevedeva l’impegno degli Stati membri a garantire a tutti i giovani
con meno di 25 anni di ricevere un’offerta qualitativamente valida di lavoro, di proseguimento
degli studi, di apprendistato o tirocinio entro un periodo di 4 mesi dall’inizio della
disoccupazione o dall’uscita dal sistema d’istruzione formale.

Limiti di aiuto di Stato: il Reg. prevede poi alcuni limiti relativi agli aiuti di Stato:
 Misura dell’aiuto: l’intensità dell’aiuto non deve superare il 50% dei costi ammissibili
(corrispondenti al salario per un periodo massimo di 12 mesi, o 24 mesi per i lavoratori molto svantaggiati).
 Incremento occupazionale: deve realizzarsi l’effetto incrementale del livello medio
occupazionale rispetto ai 12 mesi precedenti l’assunzione.
Per il calcolo dell’organico medio, si utilizza una nuova unità di misura (ULA→ unità di
lavoro-anno), conteggiando il lavoro a tempo parziale e quello a termine come frazioni
di ULA. L’effetto incrementale non viene meno se i posti coperti dalle nuove assunzioni
diventano vacanti in seguito a:
 Dimissioni volontarie. Mentre l’incremento
 Invalidità. occupazionale non si realizza
 Pensionamento per sopraggiunti limiti di qualora vi sia licenziamento per
età. riduzione del personale (poiché la
 Riduzione volontaria dell’orario di lavoro. riduzione dell’organico è una libera iniziativa
 Licenziamento per giusta causa. del datore di lavoro).

 Continuità dell’impiego: dev’essere garantita la continuità dell’impiego per un periodo


minimo coerente con la legislazione nazionale o con la contrattazione collettiva, fatto
salvo il caso di licenziamento per giusta causa. In ogni caso, se il periodo di occupazione è
minore di 12 mesi (24 per soggetti molto svantaggiati), l’aiuto sarà ridotto pro rata.

Disabili: per l’assunzione dei disabili sono previste delle condizioni più favorevoli, al fine di
consentire all’impresa di sopportare la minore produttività legata all’handicap, i costi per
l’adattamento dei locali, delle apparecchiature utilizzate dal disabile e delle persone che lo
assistono. Per cui, per i disabili sono previste le stesse condizioni dei lavoratori normali, ma con
elevazione dell’intensità dell’aiuto statale al 75%, e con la possibilità di compensare i sovraccosti
connessi alla loro occupazione.

Obbligo di notifica: se gli aiuti soddisfano tutti questi criteri, non è previsto l’obbligo di
notifica. Questo permane, invece, per l’assunzione di soggetti non svantaggiati.
“De minimis”: continuano ad essere esentati dall’obbligo di notifica gli aiuti di entità modesta
(“de minimis”) che, per la loro scarsa entità, non incidono sulla concorrenza tra imprese,
falsandola. Il reg. (UE) 651/2014 ha fissato l’entità massima per rientrare nel “de minimis”:
 200.000€ limite massimo di incentivi che un’impresa può ricevere nell’arco di 3 esercizi
finanziari (periodo di riferimento a fini fiscali).
 100.000€ per le imprese di trasporto merci su strada per conto terzi.
Ulteriore novità introdotta, per l’applicazione della disciplina degli aiuti minori “de minimis”, è:
 Inclusione delle imprese in difficoltà.
 Introduzione del criterio di “impresa unica”: ossia nel caso in cui tra 2 imprese vi sia un
rapporto di collegamento o di controllo, o una eserciti un’influenza dominante sull’altra.

QUADRO NAZIONALE
Il quadro nazionale legato agli incentivi statali per incrementare il tasso di occupazione ha visto
3 fasi:
1) Anni ‘60-primi ’90: si caratterizza per la presenza di agevolazioni concesse sotto forma di
sgravi contributivi (riduzione degli oneri previdenziali) e di fiscalizzazione degli oneri sociali di
lunga durata (finanziamento dello Stato di una parte dei contributi (specie quelli per l’assistenza di malattia)
obbligatori a carico delle imprese), accessibili in base alla collocazione geografica delle imprese
in “aree depresse” (in ritardo di sviluppo). Questi interventi avevano l’obiettivo di ridurre il costo
del lavoro gravante sulle imprese attraverso il trasferimento dello stesso a carico della
fiscalità generale e, dunque, dell’intera collettività.
2) Secondi ’90-d.lgs. 276/2003: caratterizzata dalla presenza di sgravi contributivi o di crediti
d’imposta accessibili, per un verso, in ragione del criterio geografico e, per altro,
dell’assunzione di determinate categorie di soggetti svantaggiati.
3) D.lgs. 276/2003-oggi: caratterizzata per le agevolazioni interamente orientate a creare
occupazione in favore dei soggetti svantaggiati (previsti dal Reg. comunitario).

CONDIZIONE D’ACCESSO AGLI INCENTIVI


L’ammissione agli incentivi per l’occupazione è subordinata ad una serie di condizioni d’accesso
o ostative, che servono a contrastare l’uso fraudolento degli incentivi. Al riguardo, il legislatore
per lungo tempo ha legiferato per singole tipologie di incentivi, creando così una disciplina
differenziata e del tutto priva di sistematicità.
A quest’andazzo hanno provato a rimediare la l. 296/2006 e alcune norme della l. 92/2012, poi
riproposte nel d.lgs. 150/2015 il quale ha abrogato tutta la disciplina previgente, che hanno
individuato le condizioni di accesso per la fruizione degli incentivi e hanno disciplinato le cause
ostative, generalizzando alcune regole prima previste solo per singole tipologie di incentivi.

APPLICAZIONE DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA


La prima condizione per l’accesso agli incentivi da parte delle imprese è la tutela dei lavoratori
dipendenti, mediante clausole che obbligano il datore di lavoro ad applicare la contrattazione
collettiva di settore.
La tutela dei dipendenti ha avuto una progressiva espansione nel corso degli anni, sia per quanto
riguarda l’entità della tutela del lavoratore, sia l’ambito soggettivo di riferimento. Si possono
individuare 4 fasi storiche a riguardo:
1) Statuto lavoratori (l. 300/1970): lo Statuto dei lavoratori prevede che i beneficiari di aiuti
di Stato e gli appaltatori di opere pubbliche sono obbligati ad applicare o far applicare,
nei confronti dei dipendenti, condizioni non inferiori a quelle previste dai contratti
collettivi di lavoro della categoria e della zona (il rinvio generico ai contratti di lavoro di
categoria/zona, senza alcuna specificazione del criterio selettivo tra più contratti collettivi, è figlio dell’epoca storica
di riferimento. Infatti, solo dopo molti anni, a fronte dell’avvenimento del pluralismo sindacale e dell’aumento dei
contratti collettivi aventi lo stesso ambito di applicazione, si è avvertita l’esigenza di prevedere un criterio selettivo).
L’obbligo è previsto per l’intera durata del beneficio o dell’appalto.
La violazione della clausola comporta la revoca del beneficio o dell’appalto.
2) D.l. 71/1993: con l’emanazione del d.l. 71/1993 si subordinava la concessione degli sgravi
contributivi per il Mezzogiorno e della fiscalizzazione degli oneri sociali alle imprese
artigiane all’integrale rispetto degli istituti economici e normativi stabiliti dai contratti
collettivi. La disposizione poneva, quindi, 2 limitazioni al campo di applicazione:
 Incentivi per le sole imprese artigiane.
 Incentivi riguardavano sgravi per il Mezzogiorno e fiscalizzazione degli oneri
sociali.
3) L. 30/2003: ha ampliato l’ambito applicativo del d.l. 71/1993 sotto 2 ambiti:
 Campo di applicazione: la norma è stata estesa alle imprese commerciali e del
turismo (ciò ha portato a problemi interpretativi per la giurisprudenza, dato che nell’OG manca una
nozione legale di impresa commerciale e turistica. Per ragioni di chiarezza del diritto, bisogna attingere a
criteri oggettivi e predeterminati, che non lascino spazio a discrezionalità; si fa riferimento perciò all’art.
2195 cc, tenendo comunque conto dell’attività effettivamente svolta).
 Portata dell’obbligo: la norma utilizza l’espressione generale “benefici normativi e
contributivi”, con riferimento ai benefici in relazione ai quali opera l’obbligo per i
datori, che amplia drasticamente l’operatività della condizione.
Pluralismo sindacale: viene ampliata anche la disposizione relativa al rispetto dei
contratti collettivi che, a seguito del pluralismo sindacale, possono essere nazionali,
regionali, territoriali o aziendali, richiedendosi l’applicazione del contratto collettivo di
qualsiasi livello stipulato dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori
“comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”, attuando così un criterio
selettivo.
4) L. 296/2006: infine, la quarta fase attuata dalla l. 296/2006, subordina il godimento dei
benefici normativi e contributivi al:
 Rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali, territoriali o
aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
L’accertamento è svolto dall’Ispettorato nazionale del lavoro (INL), che controlla il
concreto rispetto del trattamento economico e normativo previsto dal contratto
collettivo di riferimento.
 Regolarità contributiva: essa viene attestata dal DURC (Documento Unico di Regolarità
Contributiva), con lo scopo di combattere l’evasione contributiva, obbligando le
imprese che vogliano accedere agli incentivi o agli appalti pubblici al regolare
versamento dei contributi.
La violazione di una di queste condizioni comporta la perdita degli eventuali benefici
normativi e contributivi fruiti.
Benefici normativi e contributivi: con l’introduzione dell’espressione “benefici normativi e
contributivi” ci si è chiesti quale fosse il significato. Perciò una circolare del Ministero del lavoro ha
specificato che per:
 Benefici normativi: si intendono benefici comunque di natura patrimoniale, come
agevolazioni fiscali, contributi erogati dallo Stato o da altri enti pubblici, per incentivare la
costituzione di nuovi rapporti lavorativi (credito di imposta→ credito verso lo Stato che riduce
l'ammontare di debiti o imposte dovute e in alcuni casi viene restituito attraverso la dichiarazione dei redditi).
 Benefici contributivi: si intendono i benefici che determinano un’eccezione alla regola,
spesso consistenti in una minore contribuzione dovuta dal datore di lavoro.
Non rientrano in questa categoria i regimi di “sotto contribuzione” che caratterizzano
interi settori (agricoltura; navigazione marittima), territori (zone montane; zone a declino industriale), o
specifiche tipologie contrattuali (apprendistato), per cui è già prevista dalla legge una
speciale aliquota contributiva e perciò rappresentano un’ipotesi ordinaria.

RISPETTO DEGLI “ALTRI OBBLIGHI DI LEGGE”


Disposizioni di legge ostative agli incentivi: sono previste, poi, diverse disposizioni la cui
applicazione rende inammissibile la concessione di incentivi all’impresa:
 Violazioni di legge: gli incentivi non vengono concessi nel casi si accerti:
 Violazione non formale alla normativa fiscale e/o contributiva in materia di lavoro
dipendente, per le quali il datore abbia subìto delle sanzioni non inferiori a 5.000€.
 Violazione di norme sulla sicurezza dei lavoratori.
 Emanazione di provvedimenti giudiziari definitivi per condotta anti-sindacale.
 Violazione divieti d.lgs. 196/2006: il datore non può accedere agli incentivi nel caso in
cui attui dei comportamenti discriminatori in violazione di specifici divieti posti dal d.lgs.
196/2006, in materia di:
 Accesso al lavoro.
 Promozione e formazione.
 Condizioni di lavoro (compresa retribuzione).
 Forme pensionistiche complementari collettive.

CONDIZIONI OSTATIVE
Con la legge Fornero sono state previste per la 1° volta, in maniera generalizzata, delle condizioni
ostative all’accesso ai benefici statali. La l. 92/2012 ne prevedeva 4; con il Jobs Act, nel 2015,
queste disposizioni sono state abrogate e riscritte nel d.lgs. 150/2015 il quale, oltre a queste, ne
ha previste altre 4, per un totale di 8 condizioni ostative agli incentivi, finalizzate a contrastare
l’uso illegittimo degli incentivi attraverso la fittizia creazione di nuovi posti di lavoro a cui, però,
non corrisponde un effettivo incremento occupazionale (condizione inderogabile per accedere ai
benefici).
Condizioni ostative ai benefici: le condizioni ostative non sono altro che una generalizzazione
di condizioni già previste per singole tipologie di incentivi, e le ritroviamo nell’art. 31
d.lgs.150/2015:
1) Assunzioni in attuazione di un obbligo preesistente: l’incentivo non spetta al datore in
caso di assunzioni effettuate in attuazione di un obbligo preesistente (stabilito da legge o
contratto collettivo). La previsione si riferisce, sostanzialmente, al caso in cui il datore di lavoro
richieda l’accesso ai benefici per assumere o utilizzare in somministrazione un
lavoratore, che però già vanti nei suoi confronti un diritto di precedenza nell’assunzione
presso la sua azienda.
Diritto di precedenza (legge): la legge prevede 4 ipotesi in cui ricorre il diritto di
precedenza, la cui violazione osta alla concessione dell’incentivo:
a) Lavoratori a tempo indeterminato: la 1° ipotesi riguarda il diritto di precedenza
dell’ex dipendente a tempo indeterminato, licenziato per riduzione del
personale nei 6 mesi precedenti all’assunzione. Questo diritto è oggi concesso
anche ai lavoratori collocati in mobilità (licenziamenti collegati con la CIGS) e al
lavoratore licenziato per gmo (ragioni inerenti all’attività produttiva, organizzazione del lavoro
e regolare funzionamento dell’impresa).
b) Lavoratore a tempo determinato: il Jobs Act prevede il diritto di precedenza al
lavoratore a termine che, nell’esecuzione di 1 o più contratti a termine presso la
stessa azienda, ha lavorato per un periodo superiore a 6 mesi. Il diritto di
precedenza vale per le assunzioni a tempo indeterminato eventualmente
effettuate dal datore nei 12 mesi successivi, in riferimento alle stesse mansioni già
svolte.
Affinché operi il diritto di precedenza, questo dev’essere richiamato nell’atto
scritto dove si è apposto il termine al contratto, e che il lavoratore esprima per
iscritto la volontà di avvalersene, entro i termini di decadenza.
c) Lavoratore stagionale: il diritto di precedenza è accordato anche al lavoratore
assunto a tempo determinato per lo svolgimento di attività stagionali, rispetto
alle nuove assunzioni, sempre a tempo determinato, da parte dello stesso datore
di lavoro per le medesime attività stagionali.
d) Trasferimento d’azienda: nei casi di crisi aziendale o di apertura di procedura
concorsuale, la legge riconosce il diritto di precedenza nell’assunzione (a tempo
indeterminato o determinato) ai lavoratori che non siano stati riassunti dall’acquirente
subentrante nell’operazione di trasferimento d’azienda, e che quindi siano rimasti
alle dipendenze del cedente, a patto che sia stato raggiunto un accordo tra le parti
circa il mantenimento (anche parziale) dell’occupazione. Il diritto di precedenza, in
caso di nuove assunzioni da parte dell’acquirente, può esser fatto valere entro 1
anno dalla data del trasferimento d’azienda (o nel più ampio periodo previsto dai contratti
collettivi).
Diritto di precedenza (contratti collettivi): oltre ai diritti di precedenza legali, sono
previste anche ipotesi stabilite dalla contrattazione collettiva, soprattutto nei settori
produttivi dove è previsto un forte fenomeno di esternalizzazione (cambio d’appalto).
Infatti, per il cambio d’appalto sono previste delle “clausole di protezione” (o clausole sociali
oppure clausole di assorbimento di manodopera) che determinano un obbligo di assunzione in capo
all’impresa subentrante del personale precedentemente occupato dall’appaltatore
cedente.
In tal caso, dunque, l’impresa subentrante non potrà beneficiare degli incentivi per
l’assunzione dei lavoratori, i quali vantano un diritto di precedenza riconosciuto loro dalle
clausole contrattuali.
Queste disposizioni non si applicano in caso di assunzioni di disabili.
2) Assunzioni in violazione del diritto di precedenza: nel caso di violazione del diritto di
precedenza (di legge o contratto collettivo) nell’assunzione di nuovi lavoratori, il datore di
lavoro non potrà beneficiare di alcun incentivo statale (salvo che dimostri di aver preventivamente
offerto l’assunzione al lavoratore riservatario, e che questi l’abbia rifiutata).
3) Crisi e riorganizzazione aziendale: nel caso di sospensione di lavoro connessa a una crisi
aziendale o ad una riorganizzazione, il d.lgs. 150/2015 esclude l’accesso ai benefici per il
datore di lavoro o l’utilizzatore. L’espressione “crisi o riorganizzazione aziendale” va
intesa in senso espansivo ricomprendendo tutti i casi di sospensione dal lavoro in cui vi sia
l’intervento di un ammortizzatore sociale (tranne per la CIGO poiché è un intervento di breve durata
ed è determinato da motivi contingenti).
4) Assunzione di dipendenti da imprese controllate/collegate: il datore di lavoro non può
beneficiare degli incentivi all’assunzione qualora questa riguardi lavoratori licenziati nei 6
mesi precedenti al licenziamento, e abbia elementi di relazione con il datore che li ha
licenziati. In sostanza, non deve intercorrere alcuna coincidenza degli assetti proprietari
(ossia una relazione che faccia presumere un comune nucleo proprietario) o la sussistenza di rapporti di
controllo o collegamento tra le 2 imprese.
La norma ha un generale scopo antielusivo, volta a garantire effettivi incrementi
occupazionali delle aziende, ed evitare licenziamenti fittizi da parte di un’impresa
controllata o collegata e la riassunzione degli stessi lavoratori da parte dell’altra impresa,
al fine di eludere la normativa e beneficiare indebitamente degli incentivi.
5) Somministrazione di lavoratore assunto con incentivi: il d.lgs. 150/2015 fissa il principio
secondo cui se un lavoratore, assunto con fruizione dei benefici economici, venga
somministrato presso altra azienda, di quei benefici godrà l’utilizzatore e non il
somministratore. Anche in caso di incentivo in regime di “de minimis” il beneficio viene
computato in capo all’utilizzatore, a cui compete però la relativa comunicazione all’Ente
erogatore.
6) Incremento occupazionale: una delle regole più importanti subordina il godimento degli
incentivi alla realizzazione dell’incremento occupazionale netto della forza lavoro
mediamente occupata. Per verificare l’incremento occupazionale netto, bisogna fare:
 Calcolo dei dipendenti: prima di tutto bisogna calcolare il n° di dipendenti
occupati nell'impresa che richieda l’incentivo. Questo calcolo viene effettuato
mediante l’unità di misura ULA (unità di lavoro-anno), pari al n° di dipendenti a tempo
pieno durante l’anno + lavoratori a tempo parziale o a tempo
determinato/stagionale, calcolati come frazioni di ULA.
Il calcolo deve considerare l’effettiva forza occupazionale media al termine dei 12
mesi, e non la forza lavoro “stimata” al momento dell’assunzione (poiché possono
intercorrere dimissioni, licenziamenti ecc.).
 Verifica dell’aumento occupazionale: dopodiché bisogna verificare la sussistenza
effettiva di un aumento del n° di posti di lavoro, mettendo a confronto il n° medio
di ULA dell’anno precedente all’assunzione (per cui si richiede l’incentivo), col n° medio
di ULA dell’anno successivo all’assunzione (incentivato).
Questo calcolo viene svolto ogni mese.
Se al termine del calcolo, nell’anno successivo all’assunzione, si riscontri un incremento
occupazionale netto, in termini di ULA, l’incentivo va riconosciuto per l’intero periodo
previsto, e le quote mensili eventualmente già godute si consolidano.
In caso contrario, l’incentivo non può essere riconosciuto e occorre procedere al recupero
di tutte le quote eventualmente già godute.
Esclusioni: ai fini del computo dei lavoratori nell’impresa, vengono esclusi quelli che
hanno abbandonato il posto di lavoro per dimissioni volontarie, invalidità,
pensionamento per sopraggiunti limiti di età, riduzione volontaria dell’orario di lavoro,
licenziamento per giusta causa. Per cui, anche qualora l’incremento occupazionale non si
realizzasse, l’incentivo verrebbe riconosciuto ugualmente al datore.
7) Cumulo dei periodi di lavoro: Ai fini della determinazione del diritto agli incentivi e della
loro durata, si cumulano i periodi in cui il lavoratore ha prestato l'attività in favore dello
stesso soggetto, a titolo di lavoro subordinato o somministrato; non si cumulano, invece,
le prestazioni in somministrazione effettuate dallo stesso lavoratore nei confronti di
diversi utilizzatori, anche se fornite dalla medesima agenzia di somministrazione (salvo che tra
gli utilizzatori ricorrano assetti proprietari sostanzialmente coincidenti o intercorrano rapporti di collegamento o
controllo).
Con questa disposizione, il legislatore ha voluto impedire che uno stesso lavoratore venisse
impiegato alternativamente come dipendente o come somministrato, al fine di eludere
la legge e godere oltre il limite fissato del beneficio.
8) Inoltro tardivo comunicazioni obbligatorie: l’inoltro tardivo delle comunicazioni
telematiche obbligatorie inerenti l’instaurazione o la modifica di un rapporto di lavoro
o di somministrazione producono la perdita dell'incentivo, per la parte relativa al periodo
compreso tra la decorrenza del rapporto agevolato e la data della tardiva
comunicazione.

ALTRE NOVITÀ DEL D.LGS. 150/2015


Il Jobs Act ha introdotto ulteriori novità, oltre alle condizioni ostative, finalizzate alla
“razionalizzazione degli incentivi all’assunzione”.

Repertorio nazionale degli incentivi all’occupazione: col Jobs Act è stato introdotto il
Repertorio nazionale degli incentivi all’occupazione, istituito presso ANPAL, al fine di garantire
trasparenza e coordinamento nella fruizione degli incentivi all’occupazione. Il Repertorio deve
indicare, per ogni schema incentivante:
 Categorie di lavoratori interessati.
 Categorie di datori di lavoro interessati.
 Modalità di corresponsione dell’incentivo.
 Importo e durata dell’incentivo.
 Ambito territoriale interessato.
 Conformità alla normativa in materia di aiuti di Stato.

Definizione legale incentivo: inoltre, l’art. 30 del d.lgs. 150/2015 fornisce una definizione legale
di incentivi all’occupazione, i quali si intendono “benefici normativi o economici riconosciuti ai
datori di lavoro in relazione all'assunzione di specifiche categorie di lavoratori”. Quindi, i 3
requisiti fondamentali sono:
a) Benefici economici: si intendono tutte le agevolazioni che comportino un vantaggio
patrimoniale diretto all’impresa (sgravi o esoneri contributivi; agevolazioni e bonus fiscali; premi o
sovvenzioni erogati in caso di assunzione di determinate categorie di lavoratori). Di regola, l’incentivo
economico viene erogato mediante conguaglio con il versamento dei contributi
previdenziali. Questo perché la maggior parte degli incentivi economici nazionali vengono
gestiti dall’INPS, il quale procede con il conguaglio/compensazione del proprio credito
vantato nei confronti dei datori di lavoro.
b) Beneficio normativo: consiste in una deroga o esenzione dall’applicazione di una
determinata disciplina, che comporta un beneficio solo indirettamente patrimoniale
(beneficio del non computo di alcune categorie di lavoratori per determinare l’organico aziendale, al fine
dell’applicazione di alcune norme).
c) Criterio di selettività: opera il requisito di selettività, in quanto l’incentivo viene erogato
solo in seguito all’assunzione di determinate categorie di lavoratori.

Incentivi apprendistato: per le assunzioni con contratto di apprendistato (di qualsiasi tipo), sono
previsti degli incentivi aggiuntivi a quelli previsti in generale, introdotti inizialmente in via
sperimentale e successivamente stabilizzati con la Legge di Bilancio per il 2019, la quale vi ha
destinato risorse finanziarie (progressivamente ridotte nel 2019 e 2020). Gli incentivi aggiuntivi sono:
 Non applicazione del contributo di licenziamento: sia in caso di interruzione del rapporto
in corso, sia di recesso al termine del contratto.
 Riduzione aliquota contributiva obbligatoria dal 10% al 5%.
 Sgravio totale dei contributi per il finanziamento della NASpI, a carico del datore.
 Sgravio totale del contributo integrativo per l’assicurazione obbligatoria contro la
disoccupazione involontaria (oggi destinabile al finanziamento dei fondi interprofessionali per la
formazione continua).

INCENTIVI NAZIONALI PER SINGOLE CATEGORIE


Oltre alla disciplina generale degli incentivi all’occupazione, la quale ha delineato sia ai soggetti
cui sono rivolti (soggetti svantaggiati), sia le regole generali che i datori devono rispettare per
usufruirne (regole di accesso o ostative), il sistema nazionale ha previsto degli incentivi previsti
solo per una categoria specifica.
Analizzando il trend degli ultimi anni, il legislatore si è concentrato più sugli incentivi volti ad
assumere i giovani e i disoccupati (o quelli in procinto di esserlo), a discapito di altre categorie, tra cui
donne e over 50.

Incentivi donne-over 50: la riforma Fornero ha previsto un incentivo strutturale per i disoccupati
over 50 da oltre 12 mesi o donne disoccupate (di qualsiasi età) da almeno 6 mesi, consistente in una
riduzione del 50% dei contributi a carico del datore di lavoro per 18 mesi (assunzione a tempo
indeterminato) o per 12 mesi (assunzione a tempo determinato, prolungabile di altri 6 mesi in caso di trasformazione
del rapporto).

Incentivi giovani: per i giovani sono previsti diversi incentivi strutturali o introdotti a cadenza
annuale, in base alle risorse disponibili:
1) Bonus under 30: incentivo, introdotto nella legge di bilancio 2018, originariamente previsto
per incentivare le assunzioni a tempo indeterminato per gli under 35 (solo per il 2018), o per
gli under 30 (per le assunzioni dal 2019) che, nell’intero arco della loro vita, non abbiano mai
avuto rapporti di lavoro a tempo indeterminato (anche con altri datori).
L’incentivo consiste nella riduzione del 50% dei contributi previdenziali a carico del datore
di lavoro (con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL) per 36 mesi, e per una misura
massima di 3.000€ annui.
La riduzione è prevista al 100% per le assunzioni di studenti che abbiano svolto presso
l’azienda l’alternanza scuola-lavoro o periodi di apprendistato, entro 6 mesi
dall’acquisizione del titolo di studio.
2) Bonus under 30 Sud: collegato al bonus under 30 è l’incentivo, previsto dalla Legge di
Bilancio 2020, che eleva il beneficio fino al 100% per le assunzioni con contratto a tempo
indeterminato dei giovani under 35, privi di un impiego regolarmente retribuito da
almeno 6 mesi, nelle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia,
Sardegna e Sicilia. Il beneficio non può superare il tetto massimo di 8.060€ su base
annua.
3) Incentivo NEET: incentivo per le assunzioni a tempo indeterminato (anche in
somministrazione) o in apprendistato, o a tempo determinato (anche in somministrazione) di
durata almeno di 6 mesi, di giovani tra i 16-29 anni registrati al Programma operativo
nazionale “Iniziativa Occupazione Giovani” e che siano NEET, ossia non siano inseriti in
alcun percorso di studio o formazione, e che siano disoccupati.
L’incentivo è del 100% degli sgravi contributivi (tranne INAIL), per un massimo di 8.060€,
per le assunzioni a tempo indeterminato; del 50% (e limite massimo 4.030€) per
assunzioni a tempo determinato.
4) Bonus occupazionale giovani eccellenze: incentivo per l’assunzione a tempo
indeterminato di giovani under 30 con laurea magistrale o dottorato di ricerca, a
determinate condizioni (voto di laurea, età ecc.). L’incentivo prevede l’esonero totale dei
contributi previdenziali (tranne INAIL) per 12 mesi dall’assunzione, col limite massimo di
8000€ (per ogni rapporto di lavoro).
Incentivi disoccupati: anche per i disoccupati sono previsti diversi incentivi, in alcuni casi
cumulabili tra loro:
1) Disoccupati Sud: la legge di bilancio 2018 ha previsto un esonero contributivo del 100%
(nel limite massimo di 8.060€ annui per lavoratore) per le assunzioni a tempo indeterminato o
con contratto di apprendistato di 2° tipo, di lavoratori disoccupati tra i 16-34 anni o con
almeno 35 anni (in tal caso, privi di impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi) nelle regioni
Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia.
2) Reddito di Cittadinanza: il d.l. 4/2019 ha previsto degli incentivi per chi assuma i percettori
del RdC. La norma prevede 3 tipi di incentivo:
 Incentivo riconosciuto al datore di lavoro per l’assunzione dei percettori di RdC:
è previsto l’esonero dei contributi previdenziali ed assistenziali a carico suo e del
lavoratore (tranne INAIL), nel limite dell’importo mensile del RdC percepito dal
lavoratore, in ogni caso fino ad un massimo di 780€ mensili, per un periodo non
inferiore a 5 mensilità e pari alla differenza tra 18 mensilità – mensilità godute.
In caso di rinnovo del RdC, l’esonero contributivo è pari alla misura fissa di 5
mensilità.
 Incentivo riconosciuto al datore di lavoro e all’Ente di formazione, se
l’assunzione avviene a seguito di un percorso formativo e di riqualificazione
professionale: l’incentivo al datore di lavoro viene riconosciuto a metà (con unica
eccezione che il n° minimo di mensilità e il n° fisso in caso di rinnovo passa da 5 a 6), poiché la
restante parte va all’Ente di formazione.
 Incentivo riconosciuto al lavoratore percettore di RdC che avvii un’attività
autonoma, un’impresa individuale o partecipi ad una cooperativa di lavoro: se il
lavoratore avvii un’attività lavorativa autonoma entro i primi 12 mesi di fruizione
del RdC, può richiedere l’erogazione una tantum pari a 6 mensilità del RdC, sempre
nel limite massimo di 780€ mensili.
3) NASpI: incentivi per l’assunzione a tempo indeterminato di percettori di NASpI.
L’incentivo consiste nel riconoscimento al datore di lavoro di un contributo mensile pari
al 20% dell’indennità mensile residua che sarebbe stata corrisposta al lavoratore.
Il lavoratore, in alternativa, può richiedere la liquidazione anticipata una tantum
dell’importo complessivo del trattamento ancora non erogato, a titolo di incentivo per
l’avviamento di un’attività lavorativa autonoma, un’impresa individuale o la
sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa di lavoro.

Incentivi per altre categorie: sono, infine, previsti svariati incentivi per altre categorie di soggetti
svantaggiati (lavoratori in CIGS da almeno 3 mesi; detenuti o internati; ex degenti di ospedali psichiatrici; lavoratori
disabili; vittime di violenza di genere; lavoratori assunti in sostituzione; giovani genitori ecc.).
VIGILANZA SUL LAVORO

ORIGINI DELLA FUNZIONE DI VIGILANZA


Anche nel mercato del lavoro si riscontra la necessità di verificare l’osservanza delle disposizioni
che ne regolano i rapporti. Perciò, a quest’esigenza trova risposta lo svolgimento delle funzioni
amministrative di vigilanza dello Stato.
Attraverso queste funzioni, lo Stato persegue 2 obiettivi:
 Garantire l’applicazione delle norme poste a tutela dei lavoratori, specie in relazione ai
fenomeni di contrasto al lavoro sommerso e altre forme di svolgimento “irregolare” dei
rapporti di lavoro.
 Favorire la libera concorrenza tra le imprese.
Fonti: oggi le principali fonti legislative, in materia di vigilanza in materia di lavoro e legislazione
sociale, provengono dal:
 D.lgs. 124/2004: contiene la maggior parte delle norme disciplinanti le competenze e i
poteri degli ispettori del lavoro.
 D.lgs. 149/2015: ha ridefinito ex novo i profili organizzativi relativi alla funzione di
vigilanza, istituendo un’agenzia autonoma controllata dal Ministero del lavoro
(Ispettorato nazionale del lavoro- INL), a cui è attribuita la principale competenza di
vigilanza sul lavoro.

EXCURSUS LEGISLATIVO MERCATO DEL LAVORO (dal 2004 all’INL)


D.lgs. 124/2004: rispetto alla disciplina previgente, il decreto del 2004 ha ridefinito e innovato i
poteri e gli strumenti a disposizione degli ispettori, ma ha anche ridisegnato l’organizzazione
interna del Ministero del lavoro, istituendo al proprio interno una Direzione generale per
l’attività ispettiva (DGAI), e creando organismi di coordinamento a livello statale (Commissione
centrale di coordinamento dell’attività di vigilanza) e periferico (Commissione regionale/provinciale di
coordinamento dell’attività di vigilanza).
Commissione centrale di coordinamento dell’attività di vigilanza: la Commissione centrale
aveva il compito di individuare l’indirizzo e l’obiettivo strategico dell’attività di vigilanza in
materia di lavoro, al fine di rendere più efficace ed efficiente l’attività ispettiva. Essa era
presieduta dal ministro del lavoro, e vi partecipavano il direttore del DGAI, i direttori generali di
INPS, INAIL e Agenzia delle entrate, il comandante generale della Guardia di Finanza, il coordinatore
nazionale delle ASL, il Presidente del Comitato nazionale per l’emersione del lavoro non regolare e
4 rappresentanti sindacali per parte dei lavoratori e dei datori.
DRL/DPL: a livello periferico, invece, a seguito delle riforme in senso federalista e quindi del
decentramento amministrativo, operavano le:
 Direzioni Regionali del lavoro (DRL): avevano funzioni di indirizzo, coordinamento e
verifica delle attività delle DPL, al fine di monitorarne e valutarne i risultati.
 Direzioni Provinciali del lavoro (DPL): erano preposte all’esercizio di attività
direttamente rivolte all’utenza, in particolare svolgevano attività ispettiva e di
conciliazione delle controversie di lavoro, sia nel settore privato che nel pubblico.
Istituti previdenziali e assicurativi: oltre agli ispettori del lavoro ministeriali, dotati di una
competenza generale in materia di lavoro, previdenza e assicurazioni sociali, operava anche il
personale di vigilanza degli istituti previdenziali e assicurativi (INPS, INAIL principalmente),
relativamente a controlli e verifiche dell’osservanza delle disposizioni dei rispettivi enti di
appartenenza.
Vigilanza Carabinieri: inoltre, fin dagli anni ’30 fu istituito il Nucleo Carabinieri Ispettorato del
lavoro (NIL), al fine di rafforzare l’attività di vigilanza sull’applicazione della legislazione del lavoro.
In seguito, vi fu l’accorpamento di questo nucleo all’interno del Ministero del lavoro, con
l’istituzione del Comando Carabinieri Ispettorato del lavoro (oggi Comando Carabinieri per la tutela del
lavoro), i quali hanno gli stessi poteri e competenze del personale ispettivo, e dipendono
funzionalmente dal dirigente della sede territoriale della Direzione del lavoro (oggi Ispettorato
territoriale del lavoro- ITL) a cui sono assegnati.

D.p.r. 144/2011: tale decreto ha modificato la denominazione del DPL in Direzioni Territoriali
del lavoro (DTL).

D.m. 815/2014: ha soppresso le DRL e, al contempo, ha istituito le Direzioni Interregionali del


Lavoro, con sede a Roma, Milano, Venezia e Napoli, le quali coordinavano i compiti dell’attività
delle DTL (a loro volta ridotte con l’accorpamento di alcune sedi territoriali).

D.lgs. 149/2015: infine, i risultati sotto le aspettative hanno indotto il legislatore del 2014 a
razionalizzare e semplificare l’attività ispettiva, attraverso l’emanazione del d.lgs. 149/2015, con il
quale si è istituita un’agenzia unica per le ispezioni del lavoro, l’Ispettorato Nazionale del lavoro
(INL).

ISPETTORATO NAZIONALE DEL LAVORO (INL)


Con l’istituzione dell’INL il legislatore ha compiuto una scelta radicale, sotto 2 punti di vista:
 INL separato dal Ministero del lavoro: analogamente per quanto successo con l’ANPAL,
l’INL ha natura di agenzia tecnica dotata di personalità giuridica di diritto pubblico e di
autonomia organizzativa e contabile, pur restando sottoposta al monitoraggio del
Ministero del lavoro per quanto attiene i risultati dell’attività svolta e gestione delle
risorse finanziarie.
La separazione tra INL e il Ministero si sostanzia nell’attribuzione a quest’ultimo del
potere di indirizzo, esercitato mediante direttive sull’attività di vigilanza che l’INL deve
attuare, essendo l’unico ente di coordinamento della funzione. Gli obiettivi vengono
stabiliti in un’apposita convenzione stipulata tra ministro del lavoro e dirigente generale
dell’INL.
 Maggiore efficienza ed efficacia: la maggiore efficienza ed efficacia del coordinamento
dell’attività ispettiva è stata realizzata col trasferimento delle competenze ispettive
proprie del Ministero del lavoro, dell’INPS e dell’INAIL in capo ad un unico soggetto, ossia
l’INL. Infatti, l’Ispettorato coordina la vigilanza in materia di lavoro, contribuzione e
assicurazione obbligatoria, compresa quella in materia di tutela della salute e della
sicurezza nei luoghi di lavoro, a cui si aggiungono i compiti tipici svolti dall’INAIL
(accertamento di: infortuni sul lavoro, malattie professionali, esposizione al rischio di malattie sul lavoro ecc.).
Dunque, il trasferimento dell’attività ispettiva al di fuori del Ministero del lavoro può essere visto
come una sorta di scorporo di ramo di attività (vigilanza in questo caso), come dimostra anche il
passaggio di tutte le risorse (umane e strumentali) precedentemente impiegate nel Ministero presso
l’INL.
Va detto, tuttavia, che il personale di vigilanza già in forza presso l’INPS e l’INAIL rimane
organicamente ancorato ai rispettivi enti di appartenenza, e solo sul piano funzionale transita alle
dipendenze dell’Ispettorato.
IIL E ITL: l’Ispettorato è poi strutturato in:
 Ispettorato interregionale del lavoro (IIL): con sede a Roma, Milano, Venezia e Napoli.
 Ispettorato Territoriale del lavoro (ITL): presente a livello provinciale.

VIGILANZA IN MATERIA DI LAVORO


Se dal punto di vista organizzativo si sono avvicendate grosse modifiche nel corso degli anni, sotto
il punto di vista prettamente pratico dello svolgimento dell’attività, la normativa resta ancorata
ai princìpi e alle disposizioni della riforma del 2004.
D.lgs. 124/2004: il modello di vigilanza delineato con la riforma del 2004 si muove lungo 3
direttrici:
1) Misure di carattere preventivo-promozionale (attività formativo-informative; diritto di appello).
2) Misure di natura conciliativa (conciliazione monocratica).
3) Misure repressive.
MISURE A CARATTERE PREVENTIVO-PROMOZIONALE
Attività formativo-informative: l’art. 8 d.lgs. 124/2004 prevede che gli IIL e ITL organizzino,
presso enti, datori di lavoro e associazioni di categoria, attività formativo-informative al fine di
divulgare la corretta interpretazione e applicazione della normativa lavorativa e previdenziale,
anche in riferimento alle novità legislative ed interpretative.
Al fine dello svolgimento di quest’attività, è prevista la possibilità di stipulare una convenzione con
l’INL o IIL e ITL, a spese delle imprese che beneficino di tale iniziativa.
In ogni caso, l’art. 8 prevede che anche nella normale attività ispettiva dell’ITL, qualora emergano
inosservanze della disciplina lavoristica non sanzionabili, l’ispettore del lavoro debba fornire
indicazioni circa la corretta applicazione delle norme.

DIRITTO DI INTERPELLO
Diritto di appello: altra misura preventivo-promozionale è il diritto d’interpello, disciplinato
all’art. 9 d.lgs. 124/2004, il quale attribuisce solo a soggetti qualificati (organismi associativi di rilevanza
nazionale di enti territoriali; enti pubblici nazionali) e, di propria iniziativa o su segnalazione dei propri iscritti,
alle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, il “diritto” di sottoporre al
Ministro del lavoro quesiti, di carattere generale, sull’applicazione delle normative di
competenza del Ministero del lavoro.
Divieto di interpello ai singoli: il diritto di interpello è escluso ai singoli (cittadini; datori di lavoro;
lavoratori), se non tramite le organizzazioni sindacali o associazioni di categoria cui appartengono.
La ratio di tale divieto sta nello scongiurare l’uso personalistico dell’istituto che, perciò, conserva
quel carattere di generalità richiesto dalla norma.
Oggetto dell’interpello: l’istanza può riguardare l’applicazione di normative statali, anche
secondarie (regolamenti), o di normative regionali integrative di quelle nazionali (norme
sull’apprendistato). È da escludersi, invece, la prassi amministrativa (circolari esplicative ed interpretative del
Ministero del lavoro).
Competenza a rispondere: la competenza a rispondere ai quesiti è del Ministero del lavoro.
Inoltre, l’adeguamento alle indicazioni, contenute nella risposta all’interpello, mettono al riparo il
datore di lavoro dall’applicazione di eventuali sanzioni penali, amministrative e civili. Ciò avviene
per 2 motivi:
 I quesiti trattano di argomenti di ordine generale, non su casi specifici.
 La risposta del Ministero assume carattere di “ufficialità”.
Interpello per sicurezza e salute sul lavoro (d.lgs. 81/2008): anche in materia di salute e
sicurezza nei luoghi di lavoro è stato ripreso il modello di interpello, con l’unica differenza che
le indicazioni contenute nella risposta costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio
dell’attività di vigilanza, non rendendo così immune il datore di lavoro che vi si adegui da
eventuali responsabilità penali, amministrative o civili.

PROCEDIMENTO ISPETTIVO
La principale modalità di svolgimento della funzione di vigilanza è costituita dall’attività ispettiva.
Avvio azione ispettiva: in generale, l’azione ispettiva prende avvio a seguito di:
 Programmazione effettuata dai singoli uffici a livello territoriale: la programmazione
può riguardare un territorio specifico e, al proprio interno, un determinato settore di
attività. La scelta dei soggetti da sottoporre a verifica è a discrezione degli ispettori, su
indicazione dei vertici.
 Richiesta di intervento da parte di 1 o più lavoratori (direttamente o per tramite
dell’organizzazione sindacale a cui sia stato conferito mandato): la presentazione di una richiesta
di intervento, sia da parte dei lavoratori che dei sindacati, non comporta un obbligo, in
capo all’Ispettorato, di dare necessariamente corso alla verifica ispettiva (salvo che i fatti
denunciati non abbiano carattere penale). Tuttavia, all’Ispettorato grava comunque un dovere di
informativa alla parte istante sull’esito del procedimento (anche nel caso in cui la richiesta sia
improcedibile).
Caratteristiche richiesta: ai fini della procedibilità dell’accertamento ispettivo, la
richiesta:
 Non dev’essere palesemente pretestuosa.
 Non dev’essere priva di fondamento.
 Non dev’essere oggettivamente non attendibile.
 Non può essere anonima (poiché contraria ai principi di correttezza e trasparenza).
 Su iniziativa delle organizzazioni sindacali: qualora queste abbiano un interesse diretto,
e si trovino in una posizione giuridicamente tutelata (inottemperanza al decreto dell’Autorità
giudiziaria col quale è stato ordinato al datore di lavoro di porre fine alla condotta antisindacale).

Una volta accolta la domanda da parte dell’ITL, e qualora si rinvengano nel caso concreto i margini
per trovare una soluzione conciliativa tra le parti, gli Uffici territoriali avviano la procedura di
conciliazione monocratica (introdotta ex novo nel 2004), prima ed in alternativa all’avvio del
procedimento di accertamento ispettivo.

CONCILIAZIONE MONOCRATICA
La conciliazione monocratica è un istituto che potenzialmente può soddisfare una pluralità di
interessi nelle controversie tra le parti (datore-lavoratore). Infatti:
 Punto di vista rapporto tra le parti: lo strumento conciliativo, nel rapporto datore di
lavoro-lavoratore, permette la risoluzione rapida della controversia e soddisfacente per
entrambi:
 Datore di lavoro: non subirà alcun accertamento ispettivo dall’ITL, né
l’irrogazione di qualche sanzione.
 Lavoratore: soddisferà i crediti vantati col datore, in tempi sicuramente più rapidi
di quelli necessari all’avviamento delle pratiche giudiziarie.
La conciliazione monocratica deve svolgersi con la garanzia da parte di un terzo super
partes (funzionario pubblico), che è il promotore del tentativo di conciliazione tra le parti.
 Punto di vista della PA: il buon esito della conciliazione monocratica soddisfa l’interesse
all’economicità dell’azione della PA, perché:
 Estingue il procedimento senza dar corso all’attività ispettiva e a tutto ciò che ne
consegue sia in termine di costi diretti (per gli ITL), sia potenziali e indiretti (possibile
contenzioso).
 Previene la lite giudiziaria tra le parti, riducendo di gran lunga i contenziosi
gravanti sui Tribunali.

Dir. Min. lav. 2008: nei primi anni dall’istituzione, la conciliazione monocratica è stata poco
utilizzata. Ciò ha indotto il Ministro del lavoro ad emanare una direttiva (2008) affinché tale
strumento diventasse la prassi (e infatti, ad oggi il 25% delle richieste di intervento viene gestito mediante procedura
conciliativa).

Divieto conciliazione monocratica: ci sono casi in cui la conciliazione non è possibile (e dunque
si procederà direttamente all’avvio degli accertamenti ispettivi). Ciò avviene quando la denuncia riguardi:
 Fatti di rilevanza penale.
 Coinvolga più di 1 lavoratore.
 Riguardi fenomeni di illegalità particolarmente diffusi nel territorio di riferimento.
 Abbia ad oggetto esclusivamente questioni di carattere contributivo, previdenziale o
assicurativo.

Procedimento di conciliazione: il tentativo di conciliazione è svolto da un funzionario dell’ITL


competente, eventualmente anche in presenza di rappresentanti sindacali o delle associazioni di
categoria appositamente delegati dalle parti.
A conclusione della procedura, e a prescindere dall’esito (positivo o negativo), viene redatto un
apposito verbale.
 Mancato accordo o assenza ingiustificata: se non viene raggiunto l’accordo o 1 (o
entrambe) delle parti manca senza giustificazione:
 Si dà sempre avvio degli accertamenti se il mancato accordo deriva dal
comportamento del datore di lavoro.
 L’avvio degli accertamenti è a discrezione dell’Ufficio territoriale se l’esito
negativo deriva dalla condotta del lavoratore.
 Raggiungimento accordo: se le parti raggiungono un accordo conciliativo:
 Non trovano applicazione le norme relative all’invalidità delle rinunce e delle
transazioni.
 L’accordo acquisisce efficacia di titolo esecutivo, con decreto del giudice.
 Si estingue il procedimento ispettivo che consegue. Gli effetti dell’accordo si
producono anche nei confronti degli ITL e degli enti previdenziali, i quali quindi
non potranno comminare alcuna sanzione.

Conciliazione monocratica “contestuale”: si attiva quando, durante l’attività di vigilanza,


ricorrano i presupposti per la conciliazione tra le parti. Tuttavia, questo strumento ha uno
scarsissimo utilizzo, in quanto non è chiaro quando sussistano i requisiti di legittimo utilizzo.
Conciliazione post-diffida accertativa: infine, un’altra ipotesi di conciliazione è attivabile dal
datore di lavoro dopo che nei suoi confronti sia stato adottato un provvedimento di diffida
accertativa.

ACCERTAMENTI ISPETTIVI
La principale modalità di svolgimento dell’attività di accertamento è l’accesso nel luogo di lavoro
(salvo rari casi in cui l’avvio delle verifiche può avvenire d’ufficio). L’art. 13 del d.lgs. 124/2004 stabilisce che
l’ispettore del lavoro ha il potere di accedere presso i luoghi di lavoro nei modi e nei tempi
stabiliti dalla legge; a tal proposito dispongono leggi previgenti:
a) Potere di visita (d.p.r. 520/1955): il decreto presidenziale attribuisce all’ispettore del
lavoro il potere di visitare in ogni parte, e a qualunque ora del giorno/notte, i laboratori,
gli opifici, cantieri e i lavori, nonché i dormitori e i refettori annessi allo stabilimento.
b) Potere di interrogare (dir.d. 1422/1924): all’ispettore di lavoro è riconosciuto il potere di
interrogare il personale (direttivo, amministrativo e operaio) presente nell’impresa, ma anche tutti
coloro che l’ispettore ritenga in grado di fornire informazioni utili.
Sanzioni: l’eventuale impedimento all’esercizio dei poteri di vigilanza costituisce illecito
amministrativo, da cui scaturisce una sanzione pecuniaria (ostacolo materiale all’accesso nel luogo di lavoro;
atteggiamento ostruzionistico per impedire l’acquisizione di informazioni ecc.).

VERBALE DI PRIMO ACCESSO ISPETTIVO


Verbale di primo accesso ispettivo: alla conclusione dell’accesso ispettivo, il personale di
vigilanza deve rilasciare al datore di lavoro (se presente, altrimenti ad altra persona sua interposta che ha
l’obbligo di consegnarglielo) il “verbale di primo accesso ispettivo”, ossia un verbale in cui si dà atto
dell’avvio del procedimento accertativo e della conclusione della 1° fase di indagine.
Contenuto del verbale: il verbale di 1° accesso deve contenere:
 Identificazione dei lavoratori presenti in azienda: con la descrizione delle mansioni a cui
erano adibiti, delle attività concretamente prestate e le modalità del loro impiego.
 Descrizione dell’attività compiuta dal personale ispettivo sul luogo di lavoro nel corso
del 1° accesso.
 Eventuali dichiarazioni rese dal datore di lavoro, o da suoi interposti in caso di sua
assenza, e dai dipendenti.
 Elencazione di ogni documento utile al proseguimento delle indagini, finalizzate
all’accertamento di eventuali illeciti.
L’accuratezza delle informazioni riportate nel verbale di 1° accesso ispettivo assume rilevanza sia
per l’Ispettorato (ai fini della valutazione delle prove su cui eventualmente si fondi la contestazione delle violazioni), sia
per il diritto di difesa del soggetto ispezionato.
Ciò scaturisce dal fatto che il verbale ispettivo costituisce atto pubblico (anche se endoprocedimentale,
ossia non idoneo a incidere negativamente sulla sfera giuridica di terzi e, perciò, non impugnabile) basato sulle
dichiarazioni rese dalle parti e su ogni altro fatto attestato dal personale di vigilanza sul luogo
di lavoro.
Verbale interlocutorio: se durante le indagini si renda necessaria l’acquisizione di ulteriori
informazioni e documentazioni rispetto a quelle attestate nel verbale di 1° accesso ispettivo, gli
ispettori possono formalizzare la richiesta integrativa mediante un atto (verbale interlocutorio),
nel quale vengono descritte le attività istruttorie già effettuate e quelle che servono al
completamento degli accertamenti.

PROCEDIMENTO SANZIONATORIO
Lo scopo principale dell’accertamento ispettivo è quello di verificare la conformità dei rapporti
di lavoro alle previsioni di legge o contratto collettivo, qualsiasi natura essi siano e a prescindere
dallo schema contrattuale utilizzato.
Violazione obblighi datore: la violazione degli obblighi e dei doveri in capo al datore di lavoro,
dalla fase di instaurazione fino alla cessazione del rapporto di lavoro, può essere punita con sanzioni
amministrative, penali o civili, a seconda dell’illecito commesso.
Generalmente, l’attività ispettiva rileva gli illeciti di natura amministrativa e penale.
Omissione/evasione contributiva: tuttavia, in materia di omissione (quando il mancato versamento dei
contributi è rilevabile dalle denunce periodiche obbligatorie del monte retribuzioni o da altre registrazioni contabili (rilevazioni
degli orari di lavoro e delle retribuzioni nel libro unico)) o evasione contributiva (quando il datore ometta di effettuare
rilevazioni contabili o le denunce periodiche delle retribuzioni; oppure quando queste risultino false o infedeli (siano effettuate
in misura minore a quella reale, al fine di occultare rapporti di lavoro o l’effettivo ammontare delle retribuzioni))
sono previste
sanzioni civilistiche, consistenti in maggiorazioni percentuali sui contributi e/o premi assicurativi
dovuti e non versati, irrogate esclusivamente dagli enti previdenziali interessati (INPS; INAIL...),
limitandosi, gli ispettori, alla mera quantificazione delle somme imponibili.
Depenalizzazione: con alcune eccezioni (tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; reati penali ecc.), la
maggioranza delle violazioni nei rapporti di lavoro sono punite attraverso sanzioni
amministrative pecuniarie. Tale assetto, è il risultato di 2 provvedimenti intervenuti a distanza di
35 anni, mirati a “depenalizzare” i reati contravvenzionati (in passato sanzionati con la pena alternativa tra
ammenda o arresto), trasformandoli in illeciti amministrativi, e quindi reati di minore gravità:
1) L. 681/1981: è la principale fonte relativa alla punibilità degli illeciti amministrativi e ai
suoi aspetti procedurali.
2) D.lgs. 8/2016: il legislatore ha inserito nell’area degli illeciti amministrativi tutti i reati
puniti con sanzione pecuniaria, sia che si tratti di delitti (puniti con la multa), sia che si tratti di
contravvenzioni (puntiti con l’ammenda).
Fanno eccezione, nell’ambito dei rapporti lavorativi:
 Violazioni delle norme a tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
 Reati relativi all’occupazione di lavoratori in violazione del TU
sull’immigrazione.
 Fattispecie regolate dal Codice penale.

CONTESTAZIONE ILLECITI AMMINISTRATIVI E POTERE DI DIFFIDA


Contestazione illeciti (l. 681/1981): prima della riforma del 2004, la contestazione degli illeciti
amministrativi, anche in ambito lavoristico, avveniva secondo le norme della l. 681/1981. Essa
prevedeva 2 metodi di contestazione:
 Contestazione effettuata immediatamente al trasgressore (e all’eventuale obbligato in solido).
Nella pratica, però, questa procedura è poco utilizzata.
 Notifica degli estremi dell’illecito entro 90 gg (360 gg per i residenti all’estero): il termine di
decorrenza parte dal completamento degli accertamenti, pena l’estinzione
dell’obbligazione di pagare la somma dovuta a titolo di sanzione. In quest’ipotesi, al
trasgressore e all’obbligato in solido viene riconosciuta la possibilità di pagare, entro 60
gg dalla notifica dell’illecito, un importo inferiore:
 Se la sanzione è stabilita in misura fissa, pari a ⅓ della sanzione originaria.
 Se la sanzione prevede un importo IMP. MIN. 100€ •100 X 2= 200€
minimo e uno massimo, pari al minor IMP .  MAX. 1000€ •1000:3= 333,33€
IMP. MIN 50€
valore tra ⅓ del massimo e il doppio del •50 x 2= 100€
IMP. MAX. 200€ •200:3= 66,6€
minimo.

D.lgs. 124/2004: con la riforma del 2004, il procedimento sanzionatorio è stato profondamente
innovato e semplificato, grazie all’introduzione del potere di diffida e del verbale unico di
accertamento e notificazione (verbale unico).
Diffida obbligatoria: l’art. 13 d.lgs. 124/2004 prevede che, in caso di accertamento di violazioni
amministrative, si proceda a diffidare il datore di lavoro a regolarizzare le inosservanze entro
un termine di 30 gg dalla notifica del verbale unico. Trascorsi questi 30 gg:
1) Pagamento sanzione pecuniaria ridotta: se il datore di lavoro adempia alla diffida
obbligatoria, ossia compia tutti gli adempimenti per ripristinare la situazione di legalità,
al datore viene assegnato un ulteriore termine di 15 gg per pagare la sanzione, nella
misura pari al minimo dell’importo (se è previsto importo min. e max.), o a ¼ dell’importo (se
stabilito in misura fissa).
Il rispetto delle 2 condizioni (adempimento diffida e pagamento sanzione) estingue il
procedimento sanzionatorio.
2) Applicazione della l. 681/1981: se il datore non adempie alla diffida entro i 30 gg
assegnatigli, cominciano a decorrere i 60 gg per il pagamento in misura ridotta previsto
dalla l. 681/1981.
La diffida obbligatoria ha introdotto un forte incentivo alla regolarizzazione delle violazioni,
poiché concede la possibilità di estinguere il procedimento sanzionatorio col pagamento di una
sanzione molto più agevolata rispetto a quella della l. 681/1981.
Insanabilità della violazione: ovviamente, il potere di diffida è subordinato alla materiale
sanabilità dell’inadempimento, ossia il ripristino della legalità dev’essere materialmente
realizzabile e le inosservanze non devono riguardare norme poste a tutela dell’integrità
psicofisica del lavoratore (il mancato godimento del riposo giornaliero o settimanale è una violazione non sanabile,
poiché la disciplina legale sull’orario di lavoro è posta a tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore e, inoltre, il riposo non
goduto non è ripetibile).
L’impossibilità di sanare la violazione successivamente comporta che la contestazione
dell’illecito avvenga direttamente secondo la procedura prevista dalla l. 681/1981, senza
procedere preventivamente alla diffida obbligatoria.
Titolari del potere di diffida: i soggetti legittimati a diffidare i trasgressori sono:
 Ispettori del lavoro.
 Personale di vigilanza e amministrativo degli enti e istituti previdenziali: essi sono stati
inseriti nel 2010, che ha novellato l’art. 13 d.lgs. 124/2004. Tuttavia, per effetto
dell’integrazione nell’INL dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro, dell’INPS e INAIL, la
disposizione perde di significato.
 Agenti e ufficiali di polizia giudiziaria: legittimati ad accertare violazioni amministrative
punite con sanzione pecuniaria.

VERBALE UNICO DI ACCERTAMENTO E NOTIFICAZIONE


Pre-verbale unico: prima dell’introduzione del verbale unico, il provvedimento di diffida e, in
caso di suo inadempimento, il provvedimento di notificazione di illecito amministrativo
formavano 2 atti separati.
Verbale unico di accertamento e notificazione: con la quasi integrale riscrittura dell’ art. 13
d.lgs. 124/2004, si è previsto che al termine degli accertamenti ispettivi, da cui risultino violazioni
di natura amministrativa in materia di lavoro, si provvede alla redazione di un unico atto (verbale
unico di accertamento e notificazione), al cui interno sono contenute la diffida obbligatoria e la
notificazione di illecito amministrativo.
Per cui, qualora il trasgressore dovesse far decorrere i 30 gg per la diffida e/o non pagare la
sanzione ridotta entro i 15 gg, il verbale unico produrrà gli effetti della notificazione previsti dalla
l. 681/1981, per cui inizieranno a decorrere i 60 gg per il pagamento in misura ridotta, senza la
necessità di redigere un nuovo documento ad hoc.
Contenuto verbale unico: il verbale unico deve avere un contenuto minimo obbligatorio, vista
la sua duplice funzione:
 Modalità di adempimento della diffida e di estinzione del procedimento.
 Misura delle sanzioni irrogate.
 Descrizione dettagliata degli esiti degli accertamenti.
 Indicazione degli strumenti di difesa e degli organi a cui poter proporre ricorso per il
datore, nonché i relativi termini di impugnazione.
Assenza violazioni: qualora, completate le verifiche, non emergano violazioni, ai soggetti
sottoposti all’ispezione dev’essere formalmente comunicata la conclusione degli accertamenti,
con la precisazione che l’Amministrazione non ha adottato alcun provvedimento.

RAPPORTO DELL’AUTORITÀ COMPETENTE E ORDINANZA-INGIUNZIONE


Qualora il trasgressore faccia decorrere sia i termini per la diffida obbligatoria, sia i termini per
il pagamento in misura ridotta, anche di 1 sola delle sanzioni irrogate, il procedimento
sanzionatorio prosegue.
Rapporto dell’autorità competente: l’art. 17 l. 681/1981, a tal proposito, pone a carico di
chiunque proceda alla contestazione delle violazioni amministrative (sia ispettore appartenente all’ITL,
che appartenenti ad altri enti o corpi dello Stato) il compito di redigere un rapporto, da trasmettere al
dirigente dell’ITL del territorio di competenza.
Nel rapporto vanno indicati tutti gli elementi di prova (documenti; dichiarazioni rese dai lavoratori, dal datore
ecc.) posti a fondamento della contestazione delle violazioni e dell’irrogazione delle sanzioni.

La redazione del rapporto dà luogo ad una serie di fasi del procedimento sanzionatorio:
1) Fase valutativa: innanzitutto, si apre la fase di valutazione degli accertamenti, finalizzata a
verificare l’effettiva regolarità formale e sostanziale dell’intero procedimento
sanzionatorio.
2) Provvedimento ordinanza-ingiunzione: al termine delle valutazioni, qualora il dirigente
dell’ITL ritenga fondate le violazioni commesse, egli procede all’adozione del
provvedimento di ordinanza-ingiunzione, con il quale viene determinata la somma
definitiva delle sanzioni e se ne ingiunge (ordina) il pagamento al trasgressore e
all’eventuale obbligato in solido.
2.1) Ordinanza archiviazione: qualora, invece, il dirigente dell’ITL ritenga che non sussistano
sufficienti elementi di prova, o che i procedimenti di contestazione degli illeciti non siano
stati rispettati dal personale di vigilanza, egli adotta un’ordinanza di archiviazione del
procedimento sanzionatorio (che può riguardare anche solo parte delle violazioni contestate).
3) Quantificazione della somma: la quantificazione della somma avviene sulla base di alcuni
parametri dettati dalla stessa l- 681/1981, quali:
 Gravità della violazione.
 Condotta tenuta dal responsabile (nel corso dell’intero procedimento e anche delle azioni poste
in essere per eliminare/attenuare le violazioni).
 Condizione economica del trasgressore.
Il versamento della somma dev’essere effettuato entro 30 gg (60 gg se il trasgressore risiede
all’estero) dalla notifica dell’ordinanza.

CONTRASTO AL LAVORO SOMMERSO (MAXI-SANZIONE PER “LAVORO NERO”)


Uno dei principali compiti dell’INL è il contrasto al lavoro sommerso.
Lavoro nero: bisogna premettere che nel nostro OG non esiste una definizione legale di “lavoro
nero”; tuttavia, oggi si può affermare che si ha lavoro nero quando si ha “impiego di lavoratori
subordinati senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro”.
D.l. 12/2002: questo decreto legge, dopo opportune modifiche, ha previsto una pesante sanzione
amministrativa (maxi-sanzione) per i casi di occupazione di lavoratori non risultanti dalle
scritture o da altre documentazioni obbligatorie.
Requisiti maxi-sanzione: dopo varie modifiche accorse anche negli anni successivi, l’attuale
formulazione del d.l. 12/2002 prevede che i presupposti per la violazione della norma
sull’occupazione di lavoratori subordinati siano:
1) Mancata comunicazione preventiva obbligatoria di instaurazione del rapporto
lavorativo al lavoratore: non basta solo questo requisito, poiché la comunicazione
preventiva dev’essere trasmessa anche per l’instaurazione regolare di rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa (CO.CO.CO).
2) Rapporto di lavoro abbia natura subordinata.

Importo maxi-sanzione: l’importo della maxi-sanzione è graduato per fasce di durata del
periodo di irregolare occupazione del lavoratore:
 1.800-10.800€ per ciascun lavoratore irregolare impiegato fino a 30 gg di effettivo lavoro.
 3.600-21.600€ per ciascun lavoratore irregolare impiegato dal 31°-60° gg di effettivo lavoro.
 7.200-43.200€ per ciascun lavoratore irregolare impiegato oltre 60 gg di effettivo lavoro.
Questi importi sono maggiorati del 20% qualora il lavoratore in nero sia:
 Immigrato privo di regolare permesso di soggiorno.
 Minore in età non lavorativa.
 Soggetti percettori del RdC.

Diffida per lavoro nero: il d.l. 12/2002 prevede poi, ad eccezione delle ipotesi aggravate appena
sopra, che la violazione per lavoro sommerso dev’essere comunque contestata con la procedura
di diffida. In questo caso, l’adempimento della diffida prevede:
 Assunzione del lavoratore:
 A tempo indeterminato (anche part-time fino ad un massimo di 50% dell’orario a tempo pieno);
oppure
 A tempo determinato e pieno: per un periodo non inferiore a 3 mesi, con
decorrenza dal giorno dell’accesso ispettivo.
 Adempimento degli obblighi previdenziali e assicurativi (anche dei periodi precedenti).
 Pagamento della sanzione (nella misura minima per ogni fascia).
Il termine di dimostrazione dell’avvenuta regolarizzazione è maggiore rispetto alla norma
generale, cioè di 120 gg (anziché 30 gg) dalla notifica del verbale unico.
La mancata ottemperanza alla diffida fa proseguire il procedimento sanzionatorio come previsto
dalla l. 681/1981.

PROVVEDIMENTO DI SOSPENSIONE DELL’ATTIVITÀ


Sospensione attività (d.lgs. 81/2008): il decreto del 2008 ha previsto un ulteriore misura al
contrasto del lavoro sommerso, stabilendo che, qualora gli ispettori del lavoro riscontrino l’impiego
di lavoratori non risultanti da alcuna documentazione obbligatoria in misura non inferiore al
20% del tot. dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro, possono adottare un provvedimento di
sospensione dell’attività imprenditoriale.
Soggetti legittimati: i soggetti legittimati a disporre la sospensione dell’attività originariamente
erano esclusivamente il personale ispettivo del Ministero del lavoro. Oggi, deve ritenersi anche
quello dell’INPS e INAIL, dato che vi è stato l’accorpamento di tutti i poteri in capo all’INL.
Qualora, invece, l’accertamento ispettivo, da cui risulti lavoro in nero al momento dell’ispezione
superiore al 20%, sia svolto dagli organi di vigilanza di altro ente o corpo di Stato, questi potranno
adottare solo i provvedimenti per l’applicazione della maxi-sanzione, ma non anche il
provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale.
Criteri di applicazione: l’applicazione della sospensione dell’attività non è rimessa alla
discrezionalità degli Ispettori del lavoro, poiché il provvedimento dovrà essere adottato in
presenza dei presupposti previsti dal d.lgs. 81/2008, ad eccezione di alcuni casi particolari:
 Sospensione porta a maggiori rischi per la salute e la sicurezza o un potenziale danno
all’organizzazione aziendale (fermo degli impianti o attrezzature a ciclo continuo; deperimento dei frutti
giunti a maturazione).
 Unico dipendente d’impresa: la sospensione non si applica qualora il lavoratore
irregolare sia l’unico dipendente dell’impresa (non della singola unità produttiva in cui si accede per
l’ispezione), salvo non si riscontrino gravi rischi per la sua salute.
Computo lavoratori: innanzitutto il Min. del lavoro ha chiarito che “in nero” devono ritenersi tutti
i lavoratori per i quali non è stata effettuata la comunicazione obbligatoria di instaurazione del
rapporto di lavoro prevista dalla legge (a prescindere dalla natura subordinata o autonoma).
Quanto ai soggetti da considerare nel computo della quota limite del 20%, invece, devono
includersi tutti i lavoratori presenti, regolari o irregolari (se sul luogo di lavoro ci sono 10 lavoratori, di cui
4 in nero, la percentuale sarà del 40% e, dunque, scatterà il provvedimento di sospensione).
Revoca sospensione: il decreto del 2008 prevede la possibilità di revocare la sospensione
attraverso la regolarizzazione delle posizioni lavorative dei soggetti impiegati in nero (come
previsto per la maxi-sanzione), e il pagamento di una sanzione pari a 2.000€ (eventualmente rateizzabile
versando subito il 25% (500€) e il resto entro 6 mesi, con maggiorazione del 5%), aggiuntiva a quelle irrogate con
il verbale unico.

PRESCRIZIONE OBBLIGATORIA
Prescrizione obbligatoria: l’art. 15 d.lgs. 124/2004 disciplina l’istituto della prescrizione
obbligatoria, il cui utilizzo è concesso solo agli ispettori del lavoro in merito a ipotesi residue di
reati contravvenzionali nelle materie di competenza (richiedere di fornire notizie, documenti o risultanze).
Procedura: qualora il datore abbia commesso un reato contravvenzionale, per i quali è prevista
la pena alternativa tra arresto o ammenda, o solo ammenda, i funzionari ispettivi procedono ad
impartire apposita prescrizione, con la quale viene assegnato un termine per la cessazione della
condotta illecita e per la rimozione delle relative conseguenze. Della prescrizione gli ispettori
devono darne comunicazione all’Autorità giudiziaria competente per l’azione penale, la quale
resta sospesa fino al termine della scadenza assegnata.
Estinzione in via amministrativa: qualora il trasgressore adempia tutte le indicazioni contenute
nel provvedimento, viene ammessa una procedura di “estinzione in via amministrativa”, la quale
prevede il pagamento di una sanzione pecuniaria pari al minimo previsto o a ¼ della sanzione
fissa (ha la stessa ratio della diffida).

DIFFIDA ACCERTATIVA
Altro istituto nato nel 2004 è la diffida accertativa, con la quale gli ispettori, accertato che
dall’inosservanza della disciplina contrattuale del rapporto di lavoro derivino crediti
patrimoniali in favore del lavoratore, diffidano il datore di lavoro al loro soddisfacimento. In
questo caso, al datore di lavoro viene concesso un termine di 30 gg entro cui può, in alternativa:
 Pagare la somma indicata nel provvedimento: il procedimento si estingue.
 Promuovere un tentativo di conciliazione: anche in questo caso il procedimento si
estingue, se il datore trova un accordo con il lavoratore titolare del credito, mediante
sottoscrizione di un verbale di accordo.
 Non adempiere all’atto di diffida: se non si trova un accordo o trascorrono i 30 gg, senza
che il datore presenti alcuna istanza di conciliazione o non paghi la somma prevista nel
provvedimento, la diffida acquista valore di accertamento tecnico ed efficacia di titolo
esecutivo, con provvedimento del dirigente dell’ITL.
 Prestare ricorso.

Dubbi interpretativi: La novità della diffida accertativa risiede nel fatto che per la 1° volta
nell’ordinamento giuridico italiano rivolto al lavoro si introduce un titolo esecutivo di formazione
amministrativa per la soddisfazione di un diritto soggettivo privato.
Tuttavia, proprio questa sua caratteristica ha mosso alcuni dubbi di interpretazione:
1) Natura dei rapporti di lavoro: la 1° questione ha riguardato la natura dei rapporti in merito
ai quali può essere adottata la diffida accertativa. Il Ministero del lavoro ha chiarito che la
diffida accertativa può essere utilizzata in tutti quei rapporti di lavoro, anche di lavoro
autonomo (CO.CO.CO), “in cui l’erogazione dei compensi sia legata a presupposti oggettivi
e predeterminati, che non richiedano complessi approfondimenti in merito alla verifica
dell’effettivo raggiungimento o meno dei risultati dell’attività”.
2) Crediti oggetto del provvedimento: il 2° dubbio invece riguardava quali crediti fossero
oggetto del provvedimento di diffida accertativa. Sempre il Ministero del lavoro ha chiarito
che vi rientrano indifferentemente crediti scaturenti dalla contrattazione collettiva o dal
contratto individuale di lavoro.
Requisiti credito: il credito oggetto di diffida accertativa deve avere determinati requisiti:
 Certezza: il credito è determinato nei suoi elementi oggettivi e soggettivi.
 Liquidità: il credito è determinato/determinabile nel suo ammontare.
 Esigibilità: il credito non dev’essere sottoposto a termini o a condizioni.
Categorie di credito: inoltre, il Ministero ha indicato una serie di categorie di credito di lavoro
per il quale si applica la diffida accertativa nei confronti del datore di lavoro:
a) Crediti nascenti dalla mancata corresponsione delle retribuzioni previste da contratto.
b) Somme dovute a titolo di lavoro straordinario.
c) TFR.
d) Crediti nascenti da demansionamento o da lavoro sommerso.
Sono esclusi invece i crediti derivanti dalla riqualificazione del rapporto di lavoro o da scelte
discrezionali del datore di lavoro (attribuzione di premi di produzione ecc.).

MEZZI DIFENSIVI DEL DATORE DI LAVORO


Anzitutto va premesso che tutti gli atti adottati dagli ispettori del lavoro, prima dell’ordinanza-
ingiunzione, hanno natura endoprocedimentale e, dunque, non sono suscettibili di
impugnazione in sede giudiziale.
Mezzi difensivi del datore: gli strumenti difensivi per il datore di lavoro sono:
1) Scritti difensivi o audizione: i primi 2 sono previsti dalla l. 681/1981, la quale prevede la
possibilità per il datore di presentare scritti difensivi o di richiedere l’audizione presso la
sede dell’ITL a cui compete l’adozione dell’ordinanza-ingiunzione.
La presentazione di memorie difensive e l’audizione attribuiscono al trasgressore la
possibilità di portare a conoscenza dell’Amministrazione elementi idonei (qualora ve ne
fossero) a ridimensionare o addirittura archiviare (mediante ordinanza del giudice) i provvedimenti
adottati dagli ispettori del lavoro.
2) Ricorso amministrativo: mezzo sicuramente più significativo è il ricorso amministrativo,
previsto dal d.lgs. 124/2004 e da ultimo revisionato dal d.lgs. 149/2015. Infatti,
originariamente la norma prevedeva che il datore potesse proporre ricorso amministrativo
avverso le ordinanze-ingiunzioni, in aggiunta al ricorso ordinario (l. 681/1981).
Oggi, invece, il ricorso amministrativo può proporsi anche per gli atti di accertamento
adottati dagli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria ai quali è esteso il potere di diffida. La
ratio di tale scelta si rinviene nell’intento di fornire uno strumento di difesa anche nei
confronti di atti di accertamento adottati da soggetti diversi dagli ispettori di lavoro ai
quali, prima della riforma del 2015, si potevano applicare come mezzi di difesa solo scritti
difensivi o audizione.
Comitato per i rapporti di lavoro: prima del 2015 il ricorso poteva essere proposto dal datore
al Comitato Regionale per i rapporti di lavoro (con sede nelle DRL), il quale era legittimato a decidere
dei ricorsi contro gli atti di accertamento e le ordinanze-ingiunzioni delle DTL, o i verbali di
accertamento dell’INPS e INAIL.
Dopo il 2015, sono state soppresse le DRL, ed è nato il Comitato per i rapporti di lavoro con sede
presso l’IIL. Gli atti di accertamento impugnabili sono quelli dell’INL e degli enti
previdenziali/assicurativi, ma anche dei ricorsi avverso le diffide accertative.

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