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Nome studentessa: Rossella Sarli

Esame: Management dei beni storico-artistici


Nome docente: Prof. Marino Cavallo
Corso di laurea in Arti Visive, a.a. 2020/2021

Le imprese culturali e creative: tipologie, caratteristiche, dati

1.1. Parte prima: tipologie di impresa culturale e creativa

Partendo da una descrizione delle varie tipologie in cui si suddividono IndC e ICr, dobbiamo
sempre confermare il loro aspetto umanistico ancor prima che “economicistico”, dunque
relativo alla qualità e alle caratteristiche che ricollegano queste industrie alla cultura, nel
senso più ampio del termine. Quindi, per classificare al meglio tutte le sfaccettature di
questi settori, dobbiamo risalire al “Rapporto sull’Economia della cultura in Europa” (KEA,
2006), una delle prime ricerche effettuate a livello internazionale sul concetto di impresa
culturale e sull’impatto che questa ha avuto ed ha sull’utenza che ne usufruisce,
concentrandosi nello specifico sulla statistica dei dati sul suolo europeo.
Il rapporto KEA ci consente di acquisire conoscenze e chiavi interpretative utili per
analizzare i fattori della Cultura e della Creatività, in un certo senso i pilastri dei legami che
questi “conglomerati” industriali hanno con i processi di sviluppo economico del territorio.
Diamo dunque una definizione di: “settore culturale” e “settore creativo”.
Spieghiamo il significato del primo:
1. Da una parte, il settore detto “culturale” comprende a sua volta settori qualificati
come non industriali e industriali. Per “non industriali” si intendono tutti i settori
delle Arti Visive, come pittura, artigianato, scultura, fotografia; ed infine quelli del
mercato dell’Arte e del Patrimonio (musei, siti patrimoniali e archeologici,
biblioteche e archivi), in breve le “attività che producono beni e servizi destinati a
essere consumati sul posto”, come ad esempio fiere, esposizioni, etc.
Il settore “industriale”, invece, sottintende l’esistenza di produzione di beni e servizi
destinati a essere riprodotti per una loro diffusione di massa (musica, cinema,
letteratura).
Veniamo adesso al “settore creativo”:
2. Dall’altra parte, possiamo definire tale settore come: “la cultura che diventa un input
creativo al processo di produzione di beni non culturali1”; con ciò intendiamo il
design, l’architettura e la pubblicità.
In poche parole, la progettazione di prodotti di massa, pur sempre legati all’arte.
L’introduzione dei concetti di ICC (industrie culturali e imprese creative) ha determinato un
netto passo in avanti nello studio del settore culturale, molto sottovalutato dal punto di
vista politico e sociale, ed ha consentito la comparsa di una serie di contributi volti alla
formazione di una più corretta valutazione del tema. Bisogna poi porre attenzione sulla
correlazione tra queste imprese e i settori considerati adiacenti, come quello delle nuove
tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Nel rapporto, si nota infatti che: “le
nuove tecnologie e la diffusione crescente e l’importanza acquisita da Internet, sono i vettori
1
(KEA, 2006, p.2;cfr. TAB. 1.1.)

1
principali della crescita delle attività di contenuto delle industrie che operano nel campo dei
media e di Internet2”.
A questo punto, crediamo possa essere molto utile dare una visione d’insieme di tutte le
teorie associate allo studio dei settori della cultura, cominciando col citare un documento di
grande interesse quale il “Libro bianco sulla Creatività”, curato dall’economista della cultura
Walter Santagata e pubblicato nel 2009:
“La cultura è la nostra ricchezza inesauribile, un bene che più si consuma, più cresce e fa
crescere gli italiani, la loro identità, la loro maestria. La cultura è un bene universale
consolidato che siamo così abituati a considerare nostro da sempre, da dimenticarci di
valorizzarlo e proteggerlo. In particolare, non la misuriamo, non ne conosciamo il valore in
termini di mercato e di produzione. Non è un fine in sé, ma un processo, un mezzo
straordinario per produrre nuove idee3.”
Da questa base possiamo ricavarne una classificazione delle attività proprie del patrimonio
artistico, delle attività relative alla produzione di contenuti e informazioni, e delle attività
infine comprese nella “cultura materiale”, ad esempio:
 Patrimonio storico e artistico: Patrimonio culturale, Musica e Spettacolo,
Architettura, Arte contemporanea.
 Produzione di contenuti, informazione e comunicazioni: Software, Editoria, TV e
radio, Pubblicità e Cinema;
 Cultura materiale: Moda, Design industriale e artigianato, Industria del gusto;
Altra indagine e proposta interpretativa di particolare interesse per capire le varie
definizioni di Cultura e Creatività, è quella più recente, formulata da Valentino nel 2013, in
cui, riprendendo l’uso dei cerchi concentrici di Throsby, si propone una rappresentazione
delle ICC in: cerchi, gruppi, criteri e attività, il tutto organizzato secondo una scaletta dalla
importanza crescente.
Dunque, possiamo osservare nel primo cerchio, quello più interno, le attività culturali che
sono considerate dall’autore “pre-capitalistiche”, ossia Beni Culturali e Arti Visive, e
rappresentano il fondamento dell’intero settore; nel secondo cerchio troviamo inserite le
attività post-rivoluzione industriale, quali editoria, radio, tv, e cinema, che si caratterizzano
per una forma di produzione a tutti gli effetti capitalistica, con costi di produzione alti e
bassi costi di riproduzione e distribuzione; e nel terzo ed ultimo cerchio sono collocate le
attività nate grazie alla “rivoluzione informatica”, con costi fissi di produzione bassi ma con
costi distributivi crescenti.
È stato infine calcolato come molto probabilmente il confine tra IC, IndC e ICr si possa
superare andando a prefigurare un sistema generale e complesso di relazioni, dove ciascun
elemento e ciascun soggetto diventa potenzialmente portatore di contenuti e creatori di
valori, sia economici sia socioculturali.
Gli studiosi del settore culturale, di stampo economico, si sono soffermati molte volte sul
tema del finanziamento del settore in questione e sull’opportunità dell’intervento pubblico:
in breve, sul valore economico legato all’investimento nella Cultura. Uno dei principali
contributi è quello di Baumol e Bowen del 1966, che può rappresentare uno dei primi studi
in ambito economico e prende in esame la problematica dell’intervento pubblico nel settore
culturale, andando a formulare la cosiddetta “legge della crescita sbilanciata”, nota anche
come “morbo dei costi”.

2
2 Ibid, p.7
3
(Santagata, 2009, p.6)

2
Secondo questa teoria, le organizzazioni che lavorano nel settore culturale sono
caratterizzate da una “funzione di produzione a coefficienti fissi, poiché il rapporto tra i
fattori (di produzione) è costante4”.
Baumol e Bowen sottolineano l’esistenza di due diversi settori: quello progressivo e quello
stagnante. Il primo si definisce progressivo poiché gli operatori che lo compongono sono
certamente in grado di avanzare nella produzione grazie all’utilizzo di mezzi che sono propri
al progresso scientifico e tecnologico, i quali aumentano il livello della produttività delle
risorse umane impiegate nel corso del processo produttivo.
Al contrario, il settore “stagnante” è tale perché non è capace né di stabilire né di creare
alcuna variazione della produttività; ma il fattore in cui culminano questi due settori, senza
dubbio più rilevante delle loro stesse caratteristiche, è il tasso della remunerazione delle
risorse umane, il quale cresce sempre di più in base al livello dell’andamento dei salari degli
altri settori dell’economia, connessi a loro volta a quelli di cui sopra. Come esempio
possiamo riportare lo stipendio di un musicista, parametrato all’effettivo costo della vita e
non alla produttività del lavoro in quanto tale.
Quindi, la premessa per un conseguente intervento pubblico da parte dello Stato risiede nel
crescente divario tra costi e ricavi; in altre parole, se la produzione artistica e culturale
continua a generare un fabbisogno di risorse finanziarie, si deve pensare a come ovviare a
tale necessità andando ad incidere sia sui costi che sui ricavi.
Il contenimento dei costi per le IC appare solo marginalmente possibile, dato che
comporterebbe anche una riduzione della qualità complessiva del servizio stesso, e
andrebbe ad impedire il pieno svolgimento della funzione culturale di queste attività.
Mentre per agire sui ricavi, si dovrebbe presupporre che la IC sia dotata di un’attrattiva a
pari unità di margine unitaria al guadagno, il che non appare sempre scontato.
L’espansione della domanda non è facilmente realizzabile a causa della relativa difficoltà a
stimolare lo sviluppo del consumo culturale, mentre il ricorso alla leva del prezzo è del tutto
inutilizzabile, perché anche se esiste la possibilità di ricorrere a una discriminazione sui
prezzi, questa può essere praticata solo se esistono acquirenti potenziali disposti a
sostenere un costo maggiore per avere, di conseguenza, un livello più alto di servizio.
Dunque, possiamo arrivare alla conclusione secondo cui il ricorso alla leva dei prezzi possa
essere l’unico rimedio per il “morbo dei costi”, il quale senza tale intervento interno
avrebbe bisogno dell’intervento esterno dello Stato (per il contenimento del deficit che si
crea nel settore stagnante).
Tuttavia, il ricorso alla leva dei prezzi entra in contrasto con la natura “meritoria” dei beni
culturali, secondo la definizione di Musgrave (1995), perché vi è la necessità da parte di
questi beni, collettivamente utili, che possa venire in ogni caso garantita la libera fruizione
da parte dei cittadini, indipendentemente dall’effettiva presenza di una domanda congrua
nel mercato, la quale giustificherebbe la giusta erogazione del servizio.
Inoltre, in merito alla già citata natura “meritoria” del bene culturale, va ricordato che esso
fa nascere l’esigenza di organizzare i servizi relativi, nel rispetto del principio di equità, in
modo da diffondere la fruizione a tutti, anche alle fasce di reddito più basse della società e
che in normali condizioni non sarebbero in grado di accedere al servizio.

Facciamo un breve esempio:


la politica di pricing della Galleria degli Uffizi ha consentito, a partire dal mese di settembre
del 2017, l’attivazione di una card annuale, che garantisce ingressi illimitati per ciascuno dei
complessi museali coinvolti nella convezione, ovvero: Galleria degli Uffizi, Giardino di Boboli
e Palazzo Pitti, questo per un costo complessivo di 70 euro. Poi, è stata anche prevista

4
Ludovico Solima, Management per l’impresa culturale, Roma, Carocci editore, 2020, p.44

3
l’attivazione di biglietti cumulativi, dalla durata di tre giorni, che consentono l’accesso a tre
complessi museali. Le parole del direttore Schmidt su queste strategie di mercato, volte a
preservare il patrimonio artistico e a garantire la libera fruizione da parte di tutte le classi
sociali, mettono in evidenza come il sistema possa privilegiare chi torna a far visita ai musei
di Firenze diverse volte all’anno, e di conseguenza si rivolge principalmente ai cittadini
fiorentini ma anche ai visitatori realmente interessati, andando a disincentivare il turismo
occasionale.
Dopo aver analizzato le diverse tipologie di IC e le loro principali caratteristiche, volgendo in
particolare lo sguardo alla situazione italiana, e dopo aver presentato le problematiche della
domanda e dell’offerta, e le diverse prospettive di approccio tra IC, varie istituzioni e
soggetti interconnessi, possiamo a questo punto entrare nel dettaglio, spiegando di cosa si
occupano in modo specifico queste industrie e quali sono i soggetti che le compongono,
dove agiscono e che ruolo hanno all’interno della società contemporanea.
Il quadro delle industrie culturali è così composto:
1.1. Teatri e fondazioni liriche
1.2. Biblioteche
1.3. Archivi
1.4. Musei e parchi archeologici
Ciascuna delle IC presentate eroga un servizio di tipo complesso, derivante dalla
sommatoria di altre tipologie di servizi che arricchiscono e completano a vicenda l’offerta,
integrando i servizi di base. Però, per avere una visione d’insieme, ben delineata e
completa, serve una solida struttura organizzativa preposta allo svolgimento dei compiti di
direzione e amministrazione delle risorse mobilitate per l’elaborazione delle differenti
attività. L’importanza di questa struttura direzionale fa sì che essa debba possedere
determinate qualità come, ad esempio, la permanenza nel tempo, per consentire la
valorizzazione delle competenze e delle professionalità che si formano all’interno dei vari
ambiti.
Ed è proprio il sapere che, accumulandosi con il passare del tempo, costituisce una delle
componenti fondamentali del patrimonio di queste istituzioni, in grado di definire, assieme
ad altri elementi che formano la loro “dotazione”, l’identità della struttura, ovvero del
sistema nella sua totalità.
Adesso, inquadriamo i soggetti che operano nei suddetti settori.
Analizzando il punto primo, riguardo il teatro e le fondazioni liriche, veniamo a conoscere
uno dei principali servizi offerti dall’IC, ciò che davvero distingue questo settore dagli altri:
parliamo di due fattori, ovvero l’immaterialità e la contestualità. La prima riguarda il
carattere spaziale e temporale dello spettacolo che ne impedisce qualsiasi tipo di modifica
proprio perché è un atto istantaneo, non trasferibile e non immagazzinabile. In poche
parole, nonostante la distribuzione e la riproduzione in forma analogica o digitale, lo
spettacolo teatrale mantiene il pregio dell’autenticità dovuta alla “improvvisazione”; ne
ricaviamo, quindi, un evento unico, in quanto connesso prettamente alle prestazioni delle
risorse umane coinvolte.
La seconda caratteristica riguarda la contestualità tra il momento della produzione e quello
della effettiva erogazione al pubblico, attraverso la sovrapposizione e la fusione durante lo
svolgimento della rappresentazione. Citando Sicca, la rappresentazione teatrale “assume
una fisionomia assolutamente unica, imprevedibile a priori, originale al momento
dell’erogazione, irripetibile a posteriori5”.
I teatri e le fondazioni liriche, al pari delle altre IC, poi, beneficiano dei rapporti con le IndC,
molto presenti quindi nelle produzioni televisive, radiofoniche, cinematografiche e così via,,

5
Sicca, 2000, p.56

4
e con le ICr, cioè con il complesso degli operatori che svolgono l’attività al di sopra e al di
sotto della scala gerarchica propria della filiera produttiva.
Un esempio pratico: il decreto emanato nel 2014 dal Ministero per i Beni e le Attività
culturali e del turismo (MiBACT), si prefiggeva le finalità di rendere più equi e meritocratici i
criteri di assegnazione dei contributi, di semplificare le procedure burocratiche, di
incentivare la partecipazione giovanile, di superare il vecchio sistema dei teatri stabili,
introducendo nuove tipologie di operatori et cetera. La riforma, quindi, individua come
soggetti beneficiari: teatri nazionali, teatri di rilevante interesse culturale, imprese di
produzione, centri di produzione.
I compiti, suddivisi all’interno della struttura organizzativa, riguardano diverse aree:
1. Area della comunicazione
2. Area amministrativa
3. Area della produzione
In base ai dati ISTAT, possiamo dire con certezza che la categoria dei bambini e dei ragazzi,
fino a 17 anni d’età, è quella che, rispetto alla porzione di popolazione nazionale
corrispondente, manifesta la maggiore propensione a frequentare i teatri, seguita da
individui compresi nella fascia d’età 35-64. Gli individui di età compresa tra i 15-34 anni,
(17?) invece, sono molto più attratti da altre tipologie di intrattenimento, come concerti di
musica leggera e discoteche. Poi, in base ai dati sulla scolarizzazione, il pubblico italiano
risulta essere abbastanza “colto”, a conferma del fatto che il livello culturale di un individuo
è sempre alla base della sua domanda di cultura. Per concludere il discorso sui dati relativi
la popolazione e il suolo italiano, dal punto di vista geografico emerge un interesse elevato
da parte della popolazione delle regioni dell’Italia centrale, insieme a quelle settentrionali,
che esprimono valori superiori al dato medio nazionale.
Passando ora al secondo settore, quello bibliotecario, diremo in breve che tale comparto è
composto da quelle istituzioni operanti nella conservazione, catalogazione e messa a
disposizione di libri, di solito in forma gratuita, al pubblico che può consultarli in loco o in
prestito. L’importanza di queste istituzioni è colta perfettamente dall’UNESCO, il quale, nel
manifesto del 1994, descrive la biblioteca pubblica, come “forza vitale per l’istituzione, la
cultura e l’informazione e come agente indispensabile per promuovere la pace e il benessere
spirituale delle menti di uomini e donne6”. Come per le altre IC, anche l’attività bibliotecaria
si compone dell’erogazione di un servizio complesso, attraverso lo svolgimento di differenti
funzioni:
1. La conservazione e il restauro del patrimonio documentario
2. Lo sviluppo della propria dotazione, attraverso acquisizioni periodiche da mettere a
disposizione del pubblico
3. La catalogazione e l’inventariazione dei volumi posseduti
Per quanto riguarda poi la biblioteca digitale, è non solo un punto d’accesso a risorse digitali
in rete, ma anche e soprattutto si caratterizza per la presenza di una chiara finalità di
servizio detta mission, di una politica dichiarata di sviluppo della collezione, un’adeguata
organizzazione dell’informazione digitale, e servizi nuovi e rinnovati di accesso, che
utilizzino le tecnologie per facilitare l’utenza di riferimento.
In quanto ad archivi, musei e parchi archeologici, possiamo sintetizzare in breve in cosa
consistono: il compito principale dell’archivio è quello di raccogliere, conservare, ordinare
ed offrire alla consultazione del pubblico, documenti prodotti da uno o più organismi,
formando e conservando così la “memoria storica” (del paese). Il MiBACT, nel caso italiano,
è l’organo competente sugli archivi di interesse storico, e con la Direzione generale per gli
archivi svolge, sul territorio nazionale, funzioni di vigilanza e tutela grazie alle
soprintendenze archivistiche, istituite presso i capoluoghi di regione.
6
(www.ifla.org)

5
Per museo si intende, invece, secondo la definizione data dall’ICOM (International Council
of Museum), “un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del
suo sviluppo, aperta al pubblico, e che compie ricerche riguardanti le testimonianze
materiali dell’uomo e del suo ambiente, le raccoglie, le conserva, le comunica, le espone ai
fini di studio, educazione e diletto7”. E questa stessa definizione può essere accolta con
profitto per compendiare il ruolo dei siti e dei monumenti naturali, archeologici ed
etnografici, a siti e monumenti quindi storici che abbiano natura di museo per le attività di
conservazione, acquisizione, e comunicazione di testimonianze di popoli e ambienti, come
ad esempio: orti botanici, acquari, giardini zoologici, centri scientifici e planetari, parchi
naturali.
Una struttura museale costituisce un sistema organizzato, destinato a svolgere diverse
tipologie di funzioni, accomunate dalla caratteristica di esprimersi nell’erogazione di attività
e servizi culturali di tipo eterogeneo. Il nucleo tradizionale dell’attività museale, quello
attinente alla conservazione, si è ampliato negli anni, accogliendo stimoli provenienti dal
campo della domanda la quale, come il museo, cambia in base diverse varie interazioni tra
scopi, contenuti, forme e contesti.
Adesso, l’insieme delle funzioni svolte dal museo sono raggruppabili idealmente in tre sub-
sistemi, che concorrono nel loro insieme a definire il sistema di offerta complessivo proprio
di queste istituzioni: la funzione conservativa (per la tutela), espositiva e di servizio (per la
valorizzazione).
Per comprendere al meglio questa suddivisione, andiamo a visionare la classica tassonomia
dei servizi museali: in ordine crescente di importanza, nel primo cerchio troviamo i servizi
accessori, che costituiscono la parte marginale, di completamento del servizio, ovvero:
guardaroba, caffetteria, ristorazione, punti vendita. Nel secondo cerchio abbiamo i servizi
complementari (alla conservazione e alla tutela), come: visite guidate, assistenza didattica,
servizio di fototeca e biblioteca. E nel terzo ed ultimo cerchio, il più rilevante: i servizi di
base, vale a dire la conservazione, catalogazione ed esposizione.
Invece, per conoscere nello specifico i dati principali tra quelli disponibili in relazione ai
caratteri dei servizi offerti dal sistema museale in Italia, e agli andamenti della domanda e
dell’offerta, dobbiamo necessariamente analizzare la variegata distribuzione delle strutture
museali sotto il profilo prettamente territoriale: secondo le recenti rilevazioni, i musei
comunali sono quelli maggiormente disponibili sul territorio (67% del totale), e risultano
anche come la categoria più rilevante tra quelle pubbliche, che nel complesso si attesta al
64.4%. Nonostante ciò, i musei privati sono quelli che, secondo i dati ISTAT, hanno
registrato, a partire dal 2014, il maggior incremento in assoluto in Italia. Poi, secondo
quanto riportato nel rapporto “Musei in Italia”, sempre ad opera dell’ISTAT, il patrimonio
culturale italiano vanta 4.976 musei e istituti affini, pubblici e privati, aperti al pubblico in
particolare nel 2015; di tali, 4.158 sono musei, gallerie, collezioni, 282 sono aree e parchi
archeologici e 536 sono monumenti e complessi monumentali.

Detto ciò, passiamo ora a descrivere una delle più particolari tipologie di musei, ovvero i
Musei d’Impresa.
Perché realizzare un museo cosiddetto d’impresa? Facendo riferimento a quello che scrive
in merito Monica Amari, le motivazioni possono essere diverse: si va dalla autocelebrazione
alla messa a punto di precise strategie di comunicazione. Esso è rivolto a platee molto
differenti fra loro, dal personale interno fino al contesto sociale di appartenenza, e
rappresenta l’evoluzione dell’archivio d’impresa (museo quindi che deriva a tutti gli effetti
dall’azienda e dalla sua produzione), vale a dire con compiti di raccolta e documentazione,
dunque svolge soprattutto la funzione di centro di documentazione aziendale, di una

7
Art. 2 dello Statuto; cfr. www.icom.museum.

6
collezione d’impresa, che ha a che fare il più delle volte con oggetti legati alle produzioni
realizzate, tuttavia conservati senza criteri specifici di tipo scientifico o storiografico. Nel
territorio italiano, a titolo di esempio possiamo citare: la Collezione Storica Lavazza e la Illy
Collection, che contengono una vasta gamma di oggetti d’epoca, legati alla produzione del
caffè, il Museo Salvatore Ferragamo che, invece, vede come fulcro la storia del fondatore
dell’industria di moda, e deve appunto il nome al famoso stilista.
Infine, ricordiamo che gli obiettivi di un museo di questo tipo sono:
 Di immagine, per far raggiungere grande visibilità al marchio aziendale;
 Sociali, per esprimere un forte legame con il proprio territorio nazionale
d’origine, agendo quindi come stabilizzatore delle relazioni tra pubblico e
“museo”;
 Di differenziazione rispetto alla concorrenza, per esaltare tutti i caratteri
dell’azienda, al fine di conferire sempre maggiore fama nei confronti di
quest’ultima.

Per concludere il discorso iniziato in questa parte, possiamo aggiungere che tutti gli
operatori del settore culturale generalmente intessono quasi sempre relazioni con
stakeholder (portatori di interessi), i quali possiedono un potere tale da condizionare
l’andamento di tali istituti. Gli stakeholder si possono distinguere in:
 Primari
 Secondari
In definitiva, il fattore primario per la realizzazione e l’amministrazione di queste industrie è
rappresentato dalla multidisciplinarietà, e questo in un contesto di approcci, man mano
rinnovati, rivolti al carattere tecnico, artistico e culturale dell’ambiente nel quale vengono a
svilupparsi.

1.2. Parte seconda: le industrie culturali nel XX secolo ovvero la


mercificazione della cultura

In questa parte faremo chiarezza sulla controversa posizione della produzione culturale
nell’economia e nella società contemporanea, legata indissolubilmente al fenomeno della
mercificazione venutosi a creare in vari contesti del mondo a partire dagli anni ottanta fino
ad arrivare ai giorni nostri; tutto questo, prestando particolare attenzione al lavoro e
all’organizzazione dell’industria culturale nella sua continua evoluzione professionale,
analizzandone le caratteristiche salienti.
Economisti, studiosi di economia politica ed esponenti di studi culturali, hanno studiato
attentamente il caso della “mercificazione dell’arte”, che va di pari passo con il concetto di
industrializzazione della cultura. Lacroix e Tremblay dicono che “i due termini
(industrializzazione e mercificazione) sono usati così spesso che altrettanto spesso gli autori
non si preoccupano di definirli”. Venendo al punto, la mercificazione si differenzia in
sostanza dall’industrializzazione perché è un processo di essa, i cui processi in ogni caso
sono comunicanti e complementari.

7
Per spiegare come avviene l’immissione dell’industrializzazione capitalistico-borghese nel
mercato dell’arte, ossia nella produzione culturale, dobbiamo basarci sulla problematica
della trasformazione in merce del “prodotto” artistico. Con lo sviluppo del capitalismo, si
passa in pratica alla produzione di oggetti, non più soltanto per l’uso, ma anche e
soprattutto per lo scambio: e quest’ultimo avviene tuttora in spazi e tempi sempre più
estesi; esso, inoltre, è strettamente legato ai sistemi di consumo e di produzione. Ed è
proprio il capitalismo, sistema economico-sociale che domina la nostra società, che implica
una continua, anche se irregolare, espansione della mercificazione. In quanto alla
mercificazione della cultura, tale processo non deve essere inteso come la perdita di
un’idilliaca cultura non-mercificata, bensì come un’operazione ambivalente ed espansiva.
Inoltre, si presenta in diverse forme ed in fasi differenziate, che John Frow distingue in:
 Mercificazione dell’oggetto materiale, ossia il libro, avvenuta nel XV secolo;
 Mercificazione dell’informazione contenuta nell’oggetto materiale, ossia l’opera,
mediante il diritto d’autore (copyright), a partire dal XVIII secolo;
 La mercificazione dell’accesso all’informazione contenuta nei testi a stampa, grazie
a database elettronici, nel tardo XX secolo.
Nel 1992, Bill Ryan si è occupato di affrontare il problema dell’organizzazione del lavoro
culturale e della sua gestione nel XX secolo: importante da sottolineare è che nella
cosiddetta epoca professionale complessa (la nostra) la produzione culturale è quasi
sempre portata a termine da un team di progetto, mentre nell’epoca professionale di
mercato (a partire dal XIX secolo) la creazione di prodotti culturali era svolta essenzialmente
da singoli soggetti.
Analizziamo quindi il team in questione, composto da differenti soggetti che a loro volta
svolgono funzioni diverse ma complementari:
 il personale creativo primario: musicisti, sceneggiatori, registi, autori e giornalisti di
periodici;
 il personale tecnico: porta a termine un insieme qualificato di compiti e può essere
composto da fonici, montatori, operatori di macchina, ispettori di produzione,
compositori tipografici, e così via; molti di questi lavori sono considerati “mestieri” in
quanto implicano qualifica e creatività;
 i manager creativi: operano da mediatori o intermediari fra gli interessi della
proprietà e della dirigenza, ossia guidano al profitto e gli interessi del personale
creativo;
 il personale del marketing: fa incontrare con il lavoro del personale creativo
primario, ricordiamo che i responsabili del marketing rispondono in definitiva
all’imperativo manageriale di massimizzare il profitto;
 proprietari e dirigenti: hanno il compito di assumere e licenziare il personale, e di
fissare la direzione strategica della società, con un ruolo però minore nell’ideazione
e nello sviluppo di specifiche attività;
 forza lavoro semi-qualificata e de-qualificata.
Le funzioni, che possiamo definire in poche parole come i ruoli, sono organizzate
gerarchicamente in termini di remunerazione e status, ma la gerarchia non deve essere
considerata statica, perché molti di questi soggetti, anche se si trovano in basso nella scala,
possono avere maggior successo e retribuzione di altri considerati più rilevanti per la filiera
organizzativa. Dunque, la suddivisione delle funzioni in scala gerarchica non è altro che un
espediente per la divisione dei ruoli nell’industria culturale, per fissare i compiti, a
prescindere dalla loro effettiva rilevanza, proprio perché in realtà sono intercambiabili tra
loro.
Le principali industrie culturali del XX secolo operano nella produzione e nella circolazione
industriale di testi, e per tale motivo sono da definirsi come industrie culturali dal ruolo
centrale. Sono le industrie del broadcasting, ovvero industrie radio-televisive, industrie

8
cinematografiche, industrie musicali, editoria e stampa elettronica, videogame e
videogiochi, pubblicità e marketing, ed infine il web design. I loro tratti distintivi, quindi
quelli che differenziano il loro lavoro da altri che comunque hanno a che fare col commercio
e il marketing, sono sintetizzabili in:
 Attività rischiose
 Creatività vs. commercio
 Alti costi di produzione e bassi costi di riproduzione
 Beni semi-pubblici: scarsità indotta artificialmente
Ma per un inquadramento più completo del contesto in cui opera l’industria culturale,
dobbiamo capire innanzitutto come si è formato tale contesto, durante il corso del tempo.
Dunque, è nostra intenzione offrire spiegazioni e analisi sul cambiamento sociopolitico che
ha portato all’evoluzione delle nozioni di cultura e di industria, che in questo caso assumono
quasi lo stesso significato, o perlomeno si sviluppano nello stesso ambito professionale:
Tra gli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta, le avanzate economie capitaliste di
Europa e Nord America spingono per una costante crescita economica, grazie anche
all’appoggio di un sistema relativamente stabile di governo democratico liberale: la
popolazione è caratterizzata da uno standard di vita più elevato, dovuto proprio
all’avanzamento di forti performance macroeconomiche delle economie capitaliste più
sviluppate. Marglin e Schor nel 1992, hanno appunto definito questo periodo come “l’età
d’oro del capitalismo”. E infatti stiamo parlando degli anni del boom economico, quelli
appena successivi alla fine della Seconda guerra mondiale; tuttavia, all’inizio degli anni
Settanta, dopo decenni di condizioni favorevoli, le economie capitaliste più avanzate
subiscono una lunga recessione che sarebbe durata sino agli anni Novanta. I periodi più bui
per il capitalismo sono senza dubbio ravvisabili negli anni compresi tra il 1974-75, 1979-82,
1991-95: basti pensare che nei paesi del G7, tra il 1970 e il 1990, i profitti diminuiscono in
maniera considerevole in tutti i settori, ma soprattutto in quello manifatturiero.
Cause di questa recessione sono state studiate da diversi economisti e sociologi, come
David Harvey e Robert Brenner, secondo i quali le motivazioni sono riscontrabili nei
movimenti finanziari internazionali che hanno iniziato a minare la stabilità del sistema
finanziario a partire dagli anni Sessanta, o nel sempre più crescente potere della classe
lavoratrice che ha potuto perciò disturbare l’equilibrio di capitale e lavoro. Altre risposte al
fenomeno, sono individuate nella tendenza dei capitalisti a competere tra di loro senza
prestare attenzione a ciò che stava accadendo all’interno del sistema nel suo complesso.
Invece, per quanto riguarda le conseguenze di questa crisi economica, i diversi stati
capitalisti risposero attaccando la forza istituzionale dei movimenti dei lavoratori e
allontanandosi dall’intervento statale nella vita economica del periodo post-bellico, durante
il quale le spese governative erano destinate ad integrare quelle dei consumatori quando si
dimostravano inadeguate a sostenere la crescita economica. A partire dal 1979 così, i
governi attuarono alcune strategie antinflazione, che erano state tentate anche tra il 1974 e
il 75.
Iniziò a farsi strada la convinzione che i bisogni umani fossero meglio soddisfatti da un
“libero mercato” privo di regolamentazioni: in questo modo, prese piede il cosiddetto
“neoliberismo”. Dunque, è così che nasce l’industria culturale, attraverso una
legittimazione delle strategie politiche ed economiche sulla cultura come su tutti gli altri
settori, ma in misura maggiore su quest’ultimo il quale rappresenta - come sappiamo - la
chiave interpretativa dell’idea di “società dell’informazione”. Secondo gli studiosi, questo
tipo di società (in cui, a partire dagli anni ’80, ci troviamo ancora a vivere) prevede una
visione secondo la quale l’informazione e la conoscenza sono centrali nel modo in cui la
società opera. Quindi se le industrie culturali sono basate, appunto, sulla conoscenza e
l’informazione, sono di conseguenza parte integrante della fiorente “economia della
conoscenza”, secondo il neologismo creato da Peter Drucker; la nostra società, successiva a

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quella industriale (XIX secolo), si fonda non più su manifattura, agricoltura (intesa qui come
base primaria dell’economia globale) e lavoro manuale, ma su relazioni, immagini e
percezioni, per cui il termine conoscenza assume un significato imprescindibile. Altra
definizione importante per capire l’epoca in cui viviamo è quella data da Daniel Bell nel
1974: egli descrive la società contemporanea con il termine “post-industriale”, in
riferimento alla sua natura tecnologica e scientifica, posteriore alla rivoluzione industriale
ma allo stesso tempo strettamente connessa ad essa.
Altre matrici dell’evoluzione dell’industria culturale nel XX secolo sono
l’internazionalizzazione, la ristrutturazione organizzativa e lo slittamento degli investimenti
verso il settore dei servizi: si passa così, dopo la crisi economica degli anni Settanta, a
considerare prevalentemente il settore dei servizi, piuttosto che quello primario (che
include, a titolo d’esempio, industria mineraria, agricoltura e manifattura). Investire nel
settore industriale che si occupa di servizi rivolti a scopi sociali, diventa così la nuova pratica
dei magnati del capitalismo più avanzato.
Ancora, il cosiddetto “spostamento spaziale” consiste nell’investire all’estero al fine di
ripartire i costi fissi e trarre il massimo vantaggio da mercati del lavoro più economici, dal
momento che durante gli anni 80-90 i salari reali andavano aumentando soprattutto nei
paesi industrializzati. L’internazionalizzazione dell’investimento diretto all’estero (IDE) ha
una lunga storia, che va dal 1870 all’incirca sino al 1914, per poi essere ripresa negli anni 80
del nostro secolo: in particolare nel secondo dopoguerra, specialmente negli anni Sessanta,
hanno assunto grande importanza le multinazionali, soprattutto americane. Grazie poi alla
globalizzazione il processo di produzione globale ha segnato una nuova fase nel fenomeno
dell’Internazionalizzazione: le politiche neoliberiste degli anni Ottanta e Novanta portarono
all’eliminazione delle misure protezionistiche per le industrie nazionali, e ciò contribuì ad
allontanare l’influenza dei governi nazionali nella gestione dell’economia, a tal punto che i
governi divennero apparentemente impotenti davanti alle speculazioni sui mercati
monetari.
Volendo poi continuare il discorso concentrandoci sul concetto di “impresa creativa”,
dobbiamo relazionarci al pensiero e agli avvenimenti dei tardi anni Novanta e degli anni
Duemila.
Nicholas Garnham ha identificato i principali obiettivi impliciti che stanno dietro la
mobilizzazione legata all’espressione “industrie creative”, ovvero la concezione di queste
industrie pensate come centrali per la crescita dell’economia a livello nazionale e globale, e
come fonti essenziali della futura crescita economica e di guadagno dovuto soprattutto alle
esportazioni. Come possiamo notare, i fautori di queste teorie tendono a speculare su tutto
ciò che è commerciabile, ma in questo preciso momento si focalizzano maggiormente sul
fattore sociale, si va insomma alla ricerca di sempre più importanti punti di incontro per il
potenziale compratore: in questo modo la cultura, parte integrante di ogni individuo, di ogni
popolazione, diventa il migliore punto d’appoggio per la speculazione finanziaria, e non
senza ragioni. La definizione di “industrie creative” ha avuto due conseguenze per i
produttori interessati, da un lato ha consentito alle maggiori conglomerazioni industriali
culturali di creare alleanze con aziende più piccole, mentre dall’altro ha permesso agli
operatori interessati di proteggere e rafforzare la proprietà intellettuale. Garnham ci parla
proprio di “prestigio morale dell’artista creativo”: quindi, si alza il livello delle
collaborazioni tra artista e azienda. Inoltre, ha consentito al settore culturale di usare
argomenti a favore del sostegno pubblico per la formazione degli operatori del settore
creativo, dunque per istruire e qualificare sempre più persone nella prospettiva di avere una
prestante forza lavoro.
La caratteristica che più contraddistingue l’impresa creativa e le industrie culturali nel
rapporto con l’economia moderna, è l’interdipendenza: le piccole imprese sono sempre più
in collegamento con le grandi “corporation” e facendone parte ne adottano le strategie

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capillari di mercato. Queste ultime cambiano di continuo la loro struttura organizzativa, in
tutti i settori industriali, essenzialmente per subappaltare il lavoro a piccole e medie
imprese le quali, pur essendo di ridotte dimensioni, sono certamente più dinamiche e
capaci di notevoli rinnovamenti rispetto alle grandi conglomerate. Il sistema di reti
interaziendali concorre ad avvantaggiare sia le “corporation” sia le piccole imprese, poiché
se da una parte le “corporation” si estendono gradualmente grazie all’aiuto delle imprese
“creative”, che agiscono da produttori indipendenti, di cui i conglomerati sono distributori e
finanziatori, d’altra parte le piccole imprese si sentono più autonome dalle pressioni
commerciali, anche se una fetta dei rischi rimane comunque accollata all’azienda di minori
dimensioni, essendo quella che gestisce la creatività nella produzione culturale. Tale
processo può essere definito anche come “capitalismo delle alleanze”, nozione secondo cui
le multinazionali o “corporation” dipendono dalle imprese creative ed in misura importante
viene abbandonato il principio di autosufficienza aziendale. Se il campo dell’investimento
aumenta, le “corporation” si ingrandiscono di conseguenza e sono stimolate a dedicare
maggiore attenzione alla produzione culturale, in quanto, come dicevamo sopra, il
marketing culturale e la pubblicità, quindi il contatto diretto con la vita degli utenti, sono
aspetti necessari per far incrementare il profitto dell’azienda ma soprattutto per far
conoscere istantaneamente il prodotto in competizione con altri presenti sul mercato.
Per tale motivo, l’azienda che si impegna nel rispetto di modelli sociali di creatività, finisce
per avere sempre più rilevanza nel mondo contemporaneo, specialmente con l’aiuto di
forme di produzione alternative e indipendenti; i principi che stanno alla base di questa
piramide sono, prima della vendita e dell’acquisto, la distribuzione e la condivisione.
Tuttavia, prima di concludere è nostra intenzione porre l’accento sugli interessi dominanti
delle “corporation” nell’industria culturale; per prima cosa, le imprese operanti nel settore
culturale producono e distribuiscono testi a scopo di lucro, quindi l’obiettivo del guadagno
deriva da un approccio diretto al testo, visto che da esso derivano anche gli interessi
collettivi delle altre compagnie, data la natura oligopolistica dei conglomerati attivi nella
produzione culturale. In questo modo, avremo pertanto un balzo in avanti delle posizioni da
parte dei vari soggetti operanti nel settore, concentrata soprattutto sui testi dato che - cosa
non meno importante - non dobbiamo dimenticare che le società dell’industria culturale
promuovono in linea generale gli interessi del profitto (e quindi degli affari) attraverso il
marketing e la pubblicità, instaurando un contesto in cui il consumo viene associato alla
soddisfazione del compratore.
Infine, possiamo arrivare alla seguente conclusione: nonostante tutti i cambiamenti che si
sono avvicendati nell’industria culturale in tutti questi anni, essa ha assunto e continua ad
assumere, nelle economie industriali avanzate, un peso di gran lunga maggiore rispetto al
passato. Ha acquistato importanza grazie a diversi fattori che l’era contemporanea ha solo
contribuito ad alimentare, come ad esempio la creazione e la messa in circolazione di
prodotti (testi) che influenzano la nostra conoscenza, la comprensione e l’esperienza, ma
anche grazie a fattori riguardanti l‘economia, la società e la cultura in senso lato. Insomma,
nonostante tutto quello che si può dire di negativo riguardo la speculazione, la
commercializzazione e la mercificazione degli elementi culturali, la caratteristica
fondamentale di queste imprese è la forza intrinseca sottesa al cambiamento socioculturale
ed economico: il marchio non può che accrescere la produzione culturale nel suo
complesso, e il profitto può essere considerato, a buon diritto, come un vero e proprio
cardine della società di cui facciamo parte, società che ha fatto del capitalismo avanzato –
giova ricordarlo - la propria bandiera.

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Bibliografia:
- Ludovico Solima, Management per l’impresa culturale, Roma, Carocci Editore, 2020
- David Hesmondhalgh, Le industrie culturali, Milano, Egea, 2015
- M. Malagugini, Allestire per comunicare, Milano, Angeli, 2008

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