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Filosofia - Prof. Monti - a.s.

2016-2017 - Cartesio e il razionalismo

René Descartes
1596 – 1650

L’atto di nascita del soggetto razionale moderno

1. PRIMI CENNI SU RAZIONALISMO ED EMPIRISMO

Nel corso del ‘600, la rivoluzione scientifica seguì due fondamentali tendenze / correnti
filosofiche denominate l’una razionalismo e l’altra empirismo.

-1- Il razionalismo – che ebbe in Cartesio, Spinoza e Leibniz i maggiori


rappresentanti – sostiene che, detto molto in fretta, fondamento primo ed essenziale del
sapere è la ragione dell’uomo, il logos greco che tante volte abbiamo nominato.
Ecco che molte idee, molti pensieri, non derivano affatto dall’esperienza, ma sono
presenti nelle nostre menti sin dalla nascita, sono quindi “innati”. Le esperienze che un
individuo, crescendo a partire dall’infanzia sino all’età adulta, accumula presuppongono
tali idee / pensieri come un fondamento indispensabile.
Insomma, detto in due parole: prima la ragione, poi l’esperienza!

-2- Con l’empirismo (in particolare con gli inglesi John Locke, George Berkeley e
David Hume), invece, assistiamo a una differente sottolineatura: ogni forma di sapere,
dunque anche ogni idea / pensiero, trova la sua origine nell’esperienza, la quale si
presenta così come fondamento primo di ogni sapere.
In due parole: prima l’esperienza, poi la ragione!

Insomma: che cosa viene prima fra la ragione e l’esperienza?


Qualcosa che pre-esiste nelle nostre teste e che, poi, ci permette di conoscere il mondo,
facendone esperienza? Oppure prima c’è il mondo esterno che, una volta esperito, fa
nascere in noi pensiero e riflessione?
Proviamo a dire la cosa anche altri in termini, tramite un esempio.
In che modo il grande artista realizza un capolavoro? Dove si trova il suo punto di
partenza, il fondamento primo dell’opera? L’opera nasce da uno stimolo tutto interiore,
un profondo impulso verso la creazione? Oppure emerge a partire dagli stimoli di cui il
mondo reale è ricco?

2. CARTESIO: VITA E SCRITTI

La personalità di Descartes segna la svolta decisiva dal Rinascimento all’età moderna. I


temi del Rinascimento divengono con lui termini di un nuovo problema.
Egli è unanimemente considerato il fondatore della filosofia moderna e, in
particolare, di quella corrente nota come razionalismo: la ragione umana è il

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fondamentale organo di verità e lo strumento per elaborare una nuova visione del
mondo.

I primi studi, svolti in un collegio dei Gesuiti (collegio di La Flèche, una delle migliori
scuole del tempo) non bastarono a dargli un orientamento sicuro, una guida affidabile.
Alla ricerca di questa “guida” Cartesio dedicò i suoi sforzi.
Nel 1616 ottenne la laurea in diritto presso l’università di Poitiers. Dopo un breve
periodo di vita a Parigi, Cartesio decise di intraprendere una serie di viaggi per studiare
il “gran libro del mondo” (ricordate che questa metafora del libro viene usata anche da
Galileo): per far questo si arruolò nell’esercito e partecipò alla Guerra dei
Trent’anni.
Di fatto, la guerra lasciava ai nobili grande libertà e Cartesio poté viaggiare a suo
piacimento per tutta l’Europa, dedicandosi agli studi di matematica e fisica (ottenne, in
particolare, risultati scientifici di grande rilievo nel campo dell’ottica, della geometria e
dell’algebra).
Ciò che si impose al suo studio in modo sempre più pressante, però, fu il desiderio di
giungere alla elaborazione di un metodo universale del sapere, ciò che diventerà la sua
celebre dottrina del metodo.

Nel 1628 si stabilì in Olanda: sia per godervi di quella libertà filosofica e religiosa che
era propria del paese, sia per poter lavorare senza essere distratto dagli obblighi di
società che a Parigi e in provincia gli rubavano molto tempo.
Dal 1629 al 1633 lavorò a un grande trattato di fisica – Il mondo o Trattato della luce –
ma la notizia della condanna di Galileo lo sconsigliò dal pubblicare l’opera,
all’interno della quale la dottrina copernicana aveva una parte di rilievo.
In una lettera privata, Cartesio affermò di non voler insegnare nulla che fosse contrario
alla dottrina della Chiesa, aggiungendo come la sua massima aspirazione fosse quella di
conservare la sua tranquillità privata, indispensabile per i suoi studi (il suo motto, non a
caso, fu “Visse bene chi ben si nascose”).

Cartesio ancora non aveva pubblicato nulla, ma la sua fama era già assai vasta
grazie alle sue scoperte in ambito matematico. Fra il 1633 e il 1637, a seguito
dell’insistenza di alcuni discepoli ed estimatori, Cartesio decise di pubblicare almeno
alcuni risultati parziali: nel 1637 apparvero – scritti in francese e in forma anonima – i
saggi La diottrica, Le meteore e La geometria ai quali premise una prefazione intitolata
Discorso sul metodo. La prefazione aveva l’ambizione di fornire delle indicazioni di
metodo valide per tutte le scienze, mentre i tre saggi particolari ne rappresentavano
esempi di applicazione pratica.
Nel 1649, Cartesio cedette ai ripetuti inviti della regina Cristina di andare a
stabilirsi presso la corte di Svezia, a Stoccolma, ma nel rigido inverno del 1650 si
ammalò e morì.

3. IL METODO CARTESIANO

Il Discorso sul metodo divenne ben presto il manifesto della filosofia moderna,
testimonianza del sorgere di una mentalità scientifica il cui razionalismo mira ad
abbracciare ogni campo.
Una simile ambizione totalizzante, però, richiedeva una giustificazione che,
naturalmente, non poteva essere trovata in nessuna disciplina particolare.

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Cartesio ne era ben consapevole e, sin dal 1629, aveva cominciato ad abbozzare le linee
di un trattato di metafisica brevemente riportato nella quarta parte del Discorso. Una
esposizione più ampia verrà da Cartesio pubblicata nel 1641 con il titolo Meditazioni di
filosofia prima intorno all’esistenza di Dio e all’immortalità dell’anima.
Quest’opera, diversamente dalle precedenti, venne pubblicata da Cartesio con il suo
nome e in latino.

Il Discorso sul metodo, curiosamente, non inizia con l’esposizione del metodo
stesso, ma con una strana premessa che occupa tutta la prima parte del testo.

“ Il buon senso [ovvero la ragione, ndr] è tra tutte le cose quella meglio distribuita […] la
facoltà di giudicare bene e di distinguere il vero dal falso – nel che consiste propriamente
ciò che si chiama buon senso e ragione – è per natura eguale in tutti gli uomini, e che perciò
la diversità delle nostre opinioni non dipende dal fatto che gli uni siano più ragionevoli degli
altri, ma semplicemente dal fatto che conduciamo i nostri pensieri per vie diverse, e non
consideriamo le stesse cose. Non è sufficiente infatti essere dotati di buon ingegno, ma
saperlo applicare bene. Le anime più grandi sono capaci dei maggiori vizi come delle
maggiori virtù, e coloro che procedono molto lentamente, se seguono sempre il giusto
cammino, possono percorrere un tragitto assai più lungo di quelli che corrono, ma se ne
allontanano. ”

Proviamo a commentare!
Sin qui pare una storia vecchia, già sentita: l’uomo è per natura un animale razionale,
come diceva Aristotele; “Bisogna seguire ciò che è comune: il logos”, diceva ancor
prima Eraclito. Cartesio qui è molto rassicurante – dice, infatti, cose già note – “la
ragione è comune a tutti gli uomini”, ma di fatto è proprio da qui che la filosofia e,
successivamente, la scienza prendono le mosse: qui sta la loro origine!
L’istituzione di un logos, una ragione universale, a tutti comune che, per questo, è in
grado di discernere oggettivamente ciò che è vero da ciò che è falso.
È solo davanti all’occhio di questa ragione universale che il mondo può assumere il
nostro senso di “mondo oggettivo”, fatto cioè di cose misurabili e fenomeni
verificabili.

“ […] per quanto riguarda la ragione o il buon senso, essendo essa l’unica qualità che ci
rende uomini e ci distingue dalle bestie, voglio credere che essa sia tutta intera in ciascun
uomo […].
Ma in questo Discorso sarò ben lieto di indicare quali siano i sentieri da me battuti, e di
rappresentarvi la mia vita come in un quadro, perché ciascuno possa giudicarne e perché
io, apprendendo dalla voce pubblica quello che gli altri ne avranno pensato, possa avere un
nuovo mezzo per istruirmi, mezzo che aggiungerò a quelli di cui solitamente mi servo.
Il mio scopo dunque non è di insegnare qui il metodo che ciascuno deve seguire per ben
condurre la propria ragione, ma semplicemente di far vedere in che modo ho cercato di
condurre la mia. ”

Il Discorso sul metodo è un’opera autobiografica. Come già Agostino e Abelardo,


Cartesio ci parla di se stesso. Egli, poi, non pretende di proporci una dottrina sempre e
comunque valida, ma, più modestamente, di raccontarci in quale maniera lui
personalmente ha provato a procedere nel corso dei suoi studi scientifici.
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Cartesio qui è molto prudente: è come se dicesse: “Io non insegno il metodo,
semplicemente parlo a tutti del metodo che io personalmente ho seguito. Non intendo
propormi come esempio, ma chiunque è libero di imitarmi se lo trova utile!”
Cartesio, naturalmente, è del tutto convinto dalla validità delle sue idee: la sua
prudenza non è sintomo di dubbi personali, egli però non vuole proporre una teoria
preconfezionata – cosa che accadeva con il sapere scolastico, tradizionale – ma è come
se dicesse “provate e vedrete che ho ragione!”.

Il problema che Cartesio presenta come suo proprio, personale, emerge dal
bisogno di orientamento che egli sente all’uscita dalla scuola dei Gesuiti, quando,
pur avendo assimilato il miglior sapere del tempo, si accorge di non possedere alcun
sicuro criterio per distinguere il vero dal falso.

“ Come un uomo che cammina da solo e nelle tenebre, decisi però di procedere così
lentamente e di usare tanta circospezione in ogni circostanza, che se anche avessi fatto dei
minimi progressi, avrei tuttavia evitato almeno di cadere […]. ”

Cartesio si trova, per dir così, in stato di solitudine. La cultura appresa a scuola gli
pare incerta, non gli fornisce supporto adeguato. Cosa fare? In una parola, di nuovo:
da dove cominciare?
Ricostruire l’edificio del sapere non è come ricostruire una casa: esso infatti non è stato
pensato e ordinato da una sola mente, ma da moltissime, cosa questa che ha provocato il
disordine cui Cartesio dice di assistere.
Occorre un metodo: procedendo come si è fatto sino ad ora non si può sperare che
le cose migliorino. Detto in una sola, ma efficace parola, possiamo affermare che il
metodo cartesiano, che è ancora oggi il nostro metodo, il metodo della scienza, consiste
nel saper fare punto e a capo. Se c’è una disciplina che si è dimostrata imbattibile
nel fissare punti stabili, nel gettare premesse e da lì procedere con sicurezza,
questa è la matematica. Occorre quindi partire da lì.

Occorre un metodo che assommi i vantaggi di logica, geometria e algebra, ma che


eviti i loro difetti. Quali difetti? L’astrattezza!
Il metodo che Cartesio propone è allo stesso tempo, teoretico e pratico: deve
condurre a distinguere vero da falso, anche e soprattutto in vista dei vantaggi pratici che
possono derivarne per la vita dell’uomo.
Il metodo deve condurre ad una filosofia non solo speculativa, ma anche pratica, per la
quale l’uomo possa rendersi padrone e possessore della natura.
Il metodo deve aprire la mente alla visione della vera realtà, del vero mondo: non
bisogna cercare in esso ciò che esiste solo nelle menti degli uomini (essenze, cause
finali, ecc.).
Bene, è necessario ora dare formulazione al metodo. Non si inventa nulla di nuovo, esso
è già praticamente messo in atto nelle discipline matematiche, si tratta dunque di:

1. Astrarlo dalle discipline matematiche e formularlo in termini di applicabilità


generale;
2. Giustificare il metodo stesso, e la possibilità della sua universale applicazione,
con una ricerca metafisica che lo riporti al suo fondamento ultimo, cioè
all’uomo come soggetto pensante o ragione.

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Sul primo punto la seconda parte del Discorso ci dà la formulazione più semplice e
matura delle regole del metodo, che sono quattro.

1. Non accogliere mai nulla per vero, se non ciò che conosci essere tale con evidenza.
È la cosiddetta regola dell’evidenza.

2. Dividere ciascuna delle difficoltà da esaminare nel maggior numero di parti possibili e
necessarie per meglio risolverla. È la regola dell’analisi.

3. Condurre i pensieri ordinatamente, cominciando dagli oggetti più semplici a


conoscersi per risalire gradatamente alle conoscenze più complesse. È la regola della sintesi.

4. Fare in ogni caso enumerazioni così complete e revisioni così generali da essere
sicuro di non omettere nulla. L’enumerazione controlla l’analisi, la revisione e la sintesi.

Il metodo appare quanto mai semplice: non è un caso, visto che ormai da secoli siamo
abituati a utilizzarlo quando ci troviamo un problema di fronte!
Il metodo insegna a ridurre ogni questione, ogni domanda, nei termini di un
problema.

Attenzione: la regola dell’evidenza è la prima, ma non è da essa che normalmente si


comincia! Ciò che è evidente, infatti, non abbisogna di spiegazione, e dunque di metodo
alcuno. Si comincia invece dall’analisi e solo dopo un lungo tratto di cammino qualcosa
può emergere come evidente.
Il metodo è, secondo Cartesio, il modo in cui l’uomo pensa il contenuto effettivo della
realtà.

“ Quelle lunghe catene di ragioni assolutamente semplici e facili, che i geometri [cioè i
matematici, ndr] impiegano per pervenire alle loro dimostrazioni più difficili, mi avevano
suggerito l’idea che tutte le cose accessibili alla conoscenza degli uomini si collegassero tra
di loro in quello stesso modo […]. ”

Detto in parole povere: la matematica non è solo una teoria astratta, essa è la logica
del mondo, è la lingua migliore per poter descrivere il funzionamento del mondo.
Essa non si esprime a parole, come la logica tradizionale, ma tramite funzioni (che, non
a caso, studiate in matematica!). La quantità, ovvero la “materia estesa”, è l’unica cosa
che realmente esiste là fuori, ed è qualcosa di misurabile!
Ogni fenomeno reale è funzione delle cause materiali che lo provocano e degli
effetti che, a sua volta, esso produce. Non c’è altro. Del perché qualcosa accada, il
metodo non si occupa minimamente. Esso si occupa solo di descrivere il fenomeno in
termini matematici: esso dunque si ferma alla spiegazione del come.
Cartesio non amava discutere queste sue idee: sapeva che una concezione così
strumentale ed utilitaristica avrebbe generato, come in effetti generò, molte critiche e
incomprensioni. Egli, però, era convinto che, alla fine, il suo metodo si sarebbe imposto
e la sua verità sarebbe diventata la verità di tutti. Aveva ragione.

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Una volta ridotto il mondo a un insieme di fenomeni causalmente interdipendenti


tramite un legalismo matematico si sarà raggiunto “tutto ciò che l’ingegno umano può
scoprire”.
Ecco che il metodo, di fatto, non è solo un contenuto dottrinale, una teoria, ma consiste
in una scelta etica, in una abitudine di vita, una decisione pratica che ancora determina
il nostro modo di pensare il mondo e di vivere in esso.

Queste regole non hanno in se stesse giustificazione, né le giustifica il fatto che la


matematica se ne serve con successo, perché queste potrebbero essere valide solo in
matematica. Cartesio le deve giustificare risalendo alla loro radice, l’uomo come
soggettività o ragione. Di questo si occupa la sua opera del 1641, le Meditazioni
metafisiche.

4. IL DUBBIO E IL COGITO ERGO SUM [STUDIARE]

La prima meditazione

“Già da qualche tempo mi sono accorto che sin dai primi anni [di vita] avevo accolto come
vere una quantità di opinioni false e che perciò tutte le costruzioni da me fatte su principi
così mal sicuri non potevano essere che molto dubbie e incerte. Occorreva quindi che
incominciassi seriamente una volta nella mia vita a disfarmi di tutte le opinioni accettate fino
allora e ricostruissi tutto dalle fondamenta […].”

- Trovare il fondamento del metodo è, per Cartesio, possibile solo con una critica
di tutto il sapere già dato. Bisogna sospendere l’assenso ad ogni conoscenza
comunemente accettata, dubitare di tutto e considerare almeno temporaneamente
come falso tutto ciò su cui il dubbio è possibile.
Se in questo modo si giunge ad un principio di cui non si riesce a dubitare, questo
sarà ritenuto saldissimo e tale da poter fondare tutte le altre conoscenze.

Cartesio ritiene che nessun grado o forma di conoscenza si sottragga al dubbio:

1. Si può, e quindi si deve dubitare delle conoscenze sensibili, sia perché a volte i
sensi ingannano, sia perché a volte si hanno nei sogni conoscenze simili a quelle
della veglia, senza che vi sia un sicuro criterio di distinzione.

2. Le conoscenze matematiche sono vere sia nel sogno che nella veglia, ma neppure
queste conoscenze si sottraggono del tutto al dubbio, dato che la loro certezza
potrebbe essere illusoria. Si può supporre, fintanto che non si sa qualcosa di certo
sulla nostra origine, che l’uomo sia stato creato da un genio maligno che gli fa
credere evidente ciò che invece è falso e assurdo. In tal modo il dubbio si estende
a tutto e diviene universale. Si giunge così al cosiddetto dubbio iperbolico.

Puntualizzazione importante sul dubbio iperbolico: con l’ipotesi del genio maligno,
pare che Cartesio abbia introdotto nella sua riflessione un elemento di assurdità, una
cosa “tirata per i capelli”. State molto attenti: il dubbio qui è metodico, non reale!
Questo significa che Cartesio non dubita affatto della verità di proposizioni
matematiche come 2+2=4 (proprio lui, uno dei massimi matematici della storia, come
potrebbe fare una cosa del genere?). Cartesio, invece, si chiede se proprio non sia

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possibile trovare qualcosa su cui in nessun modo, neppure introducendo un’ipotesi


assurda come quella del genio maligno, sia possibile dubitare!

APPROFONDIMENTO [SOLO DA LEGGERE]


- I contemporanei di Cartesio, colpiti dalla scoperta del cogito, o almeno dalla sua originale ripresa,
lo discussero ampiamente. Qualcuno lo accusò di circolo vizioso, affermando che se il principio del
cogito viene accettato perché evidente, la regola dell’evidenza risulta anteriore allo stesso cogito. Per cui
la pretesa di giustificare la regola dell’evidenza in virtù del cogito diviene illusoria. Cartesio risponde
affermando che non è vero che esso risulta evidente perché conforme alla regola dell’evidenza, in quanto
il cogito è la stessa autoevidenza esistenziale che il soggetto ha di sé medesimo.
Gassendi sostiene che il cogito è una forma abbreviata di sillogismo del tipo: “Tutto ciò che pensa esiste.
Io penso, dunque esisto” e risulterebbe infondato perché la premessa cade preliminarmente sotto il dubbio
del genio maligno. Cartesio ribatte che il cogito non è un ragionamento, ma una intuizione immediata della
mente. Più insidiosa l’obiezione di Hobbes: Cartesio avrebbe ragione nel dire che l’io, in quanto
pensa, esiste, ma avrebbe torto nel pretendere di pronunciarsi sul come esso esista, definendolo
uno spirito, un’anima. In ciò Cartesio sarebbe simile a chi dicesse: “Io sto passeggiando, quindi
sono una passeggiata”. Infatti il quid pensante potrebbe benissimo essere una parte del corpo, il
cervello. Cartesio ribatte dicendo che l’uomo non passeggia costantemente mentre pensa costantemente,
per cui il pensiero risulta per lui essenziale. Inoltre il pensiero indica talora l’atto del pensiero, talvolta la
facoltà del pensiero, talvolta la cosa o sostanza con cui tale facoltà si identifica. Per cui, in quest’ultimo
caso, si può legittimamente parlare di una sostanza pensante, la cui essenza è costituita appunto dal
pensiero.

5. DIO COME GIUSTIFICAZIONE METAFISICA DELLE CERTEZZE UMANE [STUDIARE]

La seconda meditazione

- Nella prima meditazione Cartesio ha, per dir così, ripulito completamente la lavagna
della mente umana: lo scopo è di vedere se c’è qualcosa in grado di resistere a tale
radicale cancellazione. Cosa rimane? Semplice: rimane colui il quale ha cancellato la
lavagna, il soggetto pensante! Ecco cosa scrive:

“Io dunque, almeno, non sono forse qualche cosa? Ma io ho già negato di avere alcun
senso ed alcun corpo. Io esisto tuttavia […]. Io esistevo senza dubbio, se mi sono convinto
di qualcosa, o solamente se ho pensato qualcosa. […] Bisogna infine concludere e tener
fermo questa proposizione: io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la
pronuncio o che la concepisco nel mio spirito.”

Ed ecco che, proprio nel carattere radicale di questo dubbio, si presenta il


principio di una prima certezza. Infatti, anche solo per ingannarmi o essere
ingannato, io debbo esistere! Il dubbio stesso conferma la proposizione "io esisto".
Solo chi esiste può dubitare. Ma questa proposizione contiene anche una certa
indicazione su ciò che io sono. Non posso dire di esistere come corpo, dato che in
nessun modo posso affermare l’esistenza dei corpi. Io quindi non esisto se non come
cosa che dubita, cioè che pensa. La certezza del mio esistere concerne solo le
determinazioni del mio pensiero. Le cose pensate, immaginate, sentite… possono non
essere reali, ma il fatto di pensare no: cogito ergo sum (ego cogito, ego sum).
La mia esistenza di soggetto pensante è certa come non lo è nessuna delle cose che
penso o sento. Può darsi che non esista il mio corpo, ma deve per forza esistere l’io che
pensa di percepire un corpo. Su questa certezza originaria e necessaria deve essere

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fondata ogni altra conoscenza. Il principio di Cartesio ripete il movimento di pensiero


che già c’era in Agostino, ma il problema è un altro. Non si tratta, come in Agostino, di
stabilire la presenza trascendente della Verità (cioè di Dio) nell’interiorità dell’uomo. Si
tratta, invece, di trovare nell’esistenza del soggetto pensante, il cui essere è
evidente a se stesso, il principio che garantisce la validità della conoscenza umana e
l’efficacia dell’azione umana sul mondo.
Non bisogna dimenticare che Cartesio ha elaborato la sua metafisica come fondamento
e giustificazione della fisica.
Ecco, per Cartesio, che cos’è l’anima umana: res cogitans, puro pensiero!
Se ricordate per Agostino – ma, in generale, per tutto il pensiero cristiano – l’uomo non
è solo pensiero, ragione, ma anche altre cose: volontà, amore, tensione spirituale verso
Dio... Con la sua operazione Cartesio riduce l’essere umano, nella sua essenza, a pura e
semplice razionalità. Correlativamente, di fronte a un uomo così ridotto, per la
prima volta appare il mondo oggettivo della scienza.

Il ragionamento di Cartesio venne ampiamente criticato e, in effetti, la sua


operazione è filosoficamente piuttosto ingenua: noi non ne parliamo, sarebbe
piuttosto complesso. Qui, di fatto, al rigore della filosofia Cartesio antepone la
fondazione del metodo della scienza, ovvero ciò che più gli interessa.

Ma procediamo: il principio del cogito non mi rende sicuro se non della mia
esistenza. Ciò che primariamente e certamente esiste è l’io, la cosa pensante: res
cogitans.
Su tutto il resto continua a gravare l’ipotesi del genio maligno!
Vediamo: io sono un essere pensante che ha idee, sono sicuro che queste esistono
nel mio pensiero, ma non so se a queste idee corrispondano realtà effettive fuori di
me o meno. Le cose percepite dai sensi certamente esistono nel mio spirito, ma
esistono anche fuori di me? Cartesio, per rispondere a questa domanda, divide in
tre categorie tutte le idee: quelle che sembrano essere innate in me, quelle che mi
sembrano estranee o venute dal di fuori, avventizie, e quelle formate o trovate da
me stesso, fattizie. Alla prima classe corrispondono le idee di Dio, di verità, di
pensiero; alla seconda le idee delle cose naturali; alla terza le idee delle cose
chimeriche o inventate.
Ora, per scoprire se qualcuna di queste idee corrisponde ad una realtà esterna non c’è
altro da fare che chiedersi la possibile causa di esse. Le idee che rappresentano
uomini e cose naturali non hanno nulla di così perfetto che non possa essere stato
inventato da me. Ma è difficile supporre che io possa aver creato l’idea di Dio,
infatti io sono privo di tutte quelle perfezioni che quell’idea rappresenta e la causa di
un’idea deve essere perfetta almeno quanto l’idea. La causa dell’idea di una sostanza
infinita non posso essere io, che sono una sostanza finita. Questa causa deve essere
una sostanza infinita e deve pertanto essere ammessa come esistente. Questa è la prima
prova dell’esistenza di Dio fornita da Cartesio.

In secondo luogo l’esistenza di Dio si può dimostrare anche a partire dalla mia natura
evidentemente imperfetta, come dimostra il fatto che dubito. Ma se fossi causa di me
stesso mi sarei dato tutte le perfezioni che concepisco e che sono appunto contenute
nell’idea di Dio. È chiaro, dunque, che non posso essermi creato da solo e che non può
avermi creato che Dio, che mi ha creato finito pur dandomi l’idea dell’infinito. Questa è
la seconda dimostrazione dell'esistenza di Dio.

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A queste due "prove", Cartesio aggiunge la tradizionale prova ontologica (quella di


Anselmo d'Aosta).
Non è possibile, secondo questa prova, concepire Dio come essere sovranamente
perfetto senza ammettere la sua esistenza. Perché? L’esistenza è proprio una delle
necessarie "perfezioni" di Dio: egli dunque "non può" non esistere!
L’esistenza di Dio è richiesta, secondo Cartesio, dalla stessa durata della mia esistenza,
giacché tutto ciò che non ha causa in se stesso cesserebbe di esistere qualora la sua
causa non continuasse incessantemente a crearlo. La creazione è continua.
Una volta riconosciuta l’esistenza di Dio, il criterio dell’evidenza trova finalmente
la sua garanzia! Dio, essendo perfetto, non può ingannarmi. La facoltà di giudizio,
che ho ricevuta da Lui, non può essere tale da indurmi in errore, se viene adoperata
rettamente. Tutto ciò che appare chiaro ed evidente deve essere vero, perché Dio lo
garantisce come tale. Dio è quel terzo termine che ci permette di passare dalla
certezza del nostro io alla certezza delle altre evidenze.

Ma allora com’è possibile che l’uomo, come spesso capita, si sbagli?


L’errore dipende dal concorso di due cause, cioè dall’intelletto e dalla volontà.
L’intelletto umano è limitato, ma la sua volontà è libera e, quindi, è assai più estesa
dell’intelletto. La volontà può decidere sia rispetto alle cose che l’intelletto presenta con
chiarezza sia rispetto a quelle che non sono evidenti. Nella possibilità della volontà di
affermare o negare ciò che l’intelletto non coglie distintamente risiede la possibilità
dell’errore. L’errore non ci sarebbe mai se io dessi il mio giudizio solo intorno a ciò
che l’intelletto mi fa conoscere con sufficiente chiarezza. La volontà libera può
contravvenire a questa regola. Io potrò anche indovinare per caso, ma anche in questa
situazione avrei usato male la mia libertà. L’errore dipende unicamente dal libero
arbitrio che Dio ha dato all’uomo e si può evitare solo attenendosi alle regole del
metodo e in primo luogo a quella dell’evidenza.
L’evidenza, avendo ormai ottenuto ogni garanzia, consente di eliminare il dubbio che
era stato avanzato in principio sulle cose corporee. Io ho un’idea di cose corporee
esterne a me e tale idea è evidente.

APPROFONDIMENTO
Anche il discorso cartesiano su Dio è stato tradizionalmente accusato di circolo vizioso, poiché il filosofo
pretenderebbe di dimostrare Dio per mezzo dell’evidenza e l’evidenza per mezzo di Dio. Egli inoltre
invocherebbe Dio per giustificare ciò che, in fondo, ritiene già vero prima e indipendentemente da Dio: il
criterio generale dell’evidenza e le evidenze particolari. In tal modo la funzione di Dio all’interno del
conoscere finisce per essere inutile o pleonastica. Per giustificare che l’acqua bolle a cento gradi o che il
sole splende è proprio necessario ricorrere a Dio?
Cartesio, difendendosi, afferma che Dio è garante non tanto della verità quanto della sua permanenza.
Così il suo richiamo alla divinità risulta anche epistemologicamente pericoloso perché rischia di
dogmatizzare ed eternizzare le verità umane, andando contro la metodologia della rivoluzione scientifica,
la quale afferma che una cosa è vera in quanto e finché risulta verificata e non perché è garantita
metafisicamente e per sempre da qualche principio superiore. Le prove fornite dal filosofo francese
sull’esistenza di Dio sono per lo più apparse fragili.

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6. IL DUALISMO CARTESIANO [STUDIARE]

Riassumiamo: vi è la sostanza infinita e perfetta di Dio, Dio che ha creato


l’universo, a sua volta costituito da due tipi di sostanze, ben distinte l’una
dall’altra:

1. La sostanza pensante, res cogitans, l’io degli esseri umani, la loro anima. L’anima
ha caratteristiche sue proprie: è semplice, inestesa, libera.
2. La sostanza estesa, res extensa, ovvero la materia. Anche la materia ha sue proprie
caratteristiche, opposte a quelle dell’anima: essa è estesa (ovvero possiede
larghezza, lunghezza, profondità) ed è meccanicamente determinata: in essa non vi è
libertà alcuna!

Qui Cartesio mostra in pieno il suo essere uno scienziato: anch’egli fa sua la distinzione
già stabilita da Galileo (e, molto prima di lui, da Democrito) fra le determinazioni
quantitative, che sono determinazioni reali, e determinazioni qualitative (colore,
sapore, odore, ecc.) che non esistono come tali nella realtà.

Cartesio, insomma, spezza la realtà in due zone distinte, costituendo il famoso


dualismo cartesiano: la sostanza pensante che è inestesa, consapevole e libera da un
lato; la sostanza estesa che è spaziale e meccanicamente determinata dall’altro. A
questo punto Cartesio deve però spiegare il rapporto fra queste due sostanze.
Cartesio ricorre alla teoria della ghiandola pineale (l’odierna epifisi) che essendo la
sola parte del cervello che non è doppia può unificare le sensazioni che vengono dagli
organi di senso che sono tutti doppi. I pensatori successivi cercheranno di sciogliere il
dualismo in modo differente, trovando questa soluzione come pseudo-filosofica e
pseudo-scientifica.

6. LA FISICA [SOLO DA LEGGERE]

Nella fisica Cartesio studia il mondo della natura come campo dell’estensione, del
movimento e della necessità meccanica. La fisica cartesiana procede in modo
deduttivo, poiché parte da alcuni principi di base e procede costruendo sulla loro
scorta l’intero sistema della natura. Per questo motivo gli illuministi la definiranno
“fisica da tavolino”.
Cartesio ritiene che la prima causa del movimento sia Dio stesso, che ha creato la
materia con una determinata quantità di quiete e di moto, quantità cher Egli
conserva immutata. Dio infatti è immutabile non solo in se stesso, ma in ogni sua
operazione. Da questo principio, detto della “immutabilità divina”, Cartesio trae le leggi
fondamentali della sua fisica.
Dall’immutabilità divina segue come prima legge di natura il principio di inerzia:
ogni cosa persevera sempre nel medesimo stato (di quiete o di moto), stato che non può
essere mutato se non tramite una causa esterna.
La seconda legge è che ogni cosa tende a muoversi (se non influenzata da una causa
esterna) in linea retta. La terza è il principio della conservazione del movimento,
per cui nell’urto dei corpi tra di loro il movimento non viene perduto, ma la sua
quantità rimane costante.
Queste tre leggi, a parere di Cartesio, bastano a spiegare tutti i fenomeni della natura e
la struttura dell’universo. L’universo è una macchina gigantesca, da cui è esclusa
ogni forza animata ed ogni causa finale. Come Bacone, anche Cartesio ritiene che il
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finalismo della natura abbia senso nell’etica, ma che sia ridicolo e stupido nel campo
della fisica. È atto di superbia immaginare che tutto sia stato creato da Dio per
l’esclusivo vantaggio dell’uomo.
L’universo si è formato da un caos iniziale. La materia primitiva era composta di
particelle uguali in grandezza e movimento. Tali particelle si muovevano sia rispetto il
loro centro sia l’una nei confronti dell’altra, in modo da formare dei vortici fluidi che,
componendosi variamente fra di loro, hanno dato origine al sistema solare e quindi alla
terra. Anche le piante e gli animali e lo stesso corpo umano sono un puro
meccanismo. Per spiegare la vita dei corpi organici non serve un’anima vegetativa o
sensitiva, ma bastano le stesse forze meccaniche che agiscono nell’universo. Cartesio
vede nella circolazione del sangue una conferma di questo fatto.
La fisica di Cartesio, con le sue pretese di derivare tutto da tre principi e questi da
uno unico, non si rivelò suscettibile di grandi sviluppi. La strada maestra della
scienza passa da Galileo e Newton, che hanno assai meno di Cartesio la preoccupazione
dell’unità del sapere scientifico e danno una parte più larga all’esperienza e alle nuove
possibilità che essa presenta. Si deve però osservare che la fisica è stata indirizzata da
Cartesio nella direzione del più rigoroso meccanicismo. Inoltre la filosofia di Cartesio
ha stabilito un principio di divisione tra il lavoro della scienza e quello della filosofia.
La filosofia ha punto di partenza nel cogito ergo sum, che è spiritualità, interiorità,
libertà. La scienza deve intendere invece il meccanismo del mondo esteso, che è pura
necessità. Anche nelle ricerche scientifiche particolari il contributo di Cartesio non è
stato grande.

7. LA MATEMATICA [SOLO DA LEGGERE]

- Molto più importante è l’opera di Cartesio nel campo delle matematiche. Egli, in
primo luogo, perfezionò il simbolismo algebrico introducendo l’uso degli esponenti e
indicando le incognite con le lettere x, y, z… Potendo così adoperare la potenza
dell’incognita il calcolo algebrico ebbe notevoli sviluppi. A parte l’ = (al posto del quale
egli utilizzava l’attuale simbolo di infinito), i simboli usati da Cartesio sono quelli
tuttora in uso.
Il grande merito di Cartesio è, poi, la creazione della geometria analitica. La
corrispondenza fra numeri e costruzioni grafiche risale ai pitagorici. Cartesio la
estese e ne fece la base di una nuova disciplina, appunto la geometria analitica. Per
primo si avvide che ad una retta corrisponde sempre una equazione di primo grado, che
una circonferenza o una parabola corrispondono ad una equazione di secondo grado...
L’impulso dato in Francia da Cartesio alle matematiche subì un ulteriore incremento per
opera del suo rivale e contemporaneo Fermat (1601 – 1665). Fermat è un tecnico delle
matematiche che studia un certo numero di problemi cercando di risolverli ognuno col
metodo più appropriato, senza preoccuparsi di ricondurli a un fondamento unico e
assoluto. Quando, nel 1637, Cartesio pubblicò la sua Geometria, Fermat aveva per
conto suo scoperto già quasi tutti i risultati che lo scritto cartesiano conteneva.

8. LA MORALE E LO STUDIO DELLE PASSIONI [STUDIARE]

Nella terza parte del Discorso sul metodo, prima di iniziare col dubbio l’analisi
metafisica, Cartesio aveva stabilito alcune regole di morale provvisoria, destinate a

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evitare che egli rimanesse “irresoluto nelle sue azioni mentre la ragione lo obbligava
ad esserlo nei suoi giudizi”.
La prima regola provvisoria è quella di obbedire alle leggi e ai costumi del paese,
conservando la religione tradizionale e regolandosi in tutto secondo le opinioni più
moderate e lontane dagli eccessi. L’atteggiamento di Cartesio è dunque caratterizzato
dal rispetto verso la tradizione religiosa e politica.
La seconda massima era quella di essere il più fermo e risoluto possibile nell’azione
e di seguire con costanza anche l’opinione più dubbiosa, una volta che fosse stata
accettata. Anche questa regola è suggerita dalle necessità della vita, che molte volte
obbligano ad agire in mancanza di elementi sicuri e definitivi. La regola perde carattere
provvisorio se la ragione è già entrata in possesso del suo metodo.
La terza regola era di cercare di vincere se stessi piuttosto che la fortuna e di
cambiare i propri pensieri più che l’ordine del mondo. Cartesio ritenne costantemente
che nulla è interamente in nostro potere tranne i nostri pensieri, i quali dipendono solo
dal nostro libero arbitrio.

“Non c’è niente che ci impedisca di essere contenti tranne il desiderio, il rimpianto o il
pentimento: ma se facciamo sempre tutto ciò che ci detta la nostra ragione, non avremo mai
alcun motivo di pentirci anche se gli avvenimenti ci mostrino in seguito che ci siamo
ingannati senza nostra colpa. […] per aver sempre seguito il consiglio della nostra ragione,
nulla abbiamo omesso di ciò che era in nostro potere, e che le malattie e gli infortuni non
sono meno naturali per l’uomo che la prosperità e la salute”.

Un piccolo vaso può essere pieno allo stesso modo di uno grande. Se ciascuno pone la
propria soddisfazione nel compimento dei desideri regolati dalla ragione, anche il
più povero e il meno favorito dalla fortuna e dalla natura potrà essere contento e
soddisfatto.
A questa morale provvisoria Cartesio, preso dai prevalenti interessi metafisici e
scientifici, non farà mai seguire una morale definitiva.

Nel suo scritto Le passioni dell’anima Cartesio distingue nell’anima azioni e


affezioni: le azioni dipendono dalla volontà, mentre le affezioni sono involontarie e
sono costituite da percezioni, sentimenti o emozioni causate nell’anima dagli spiriti
vitali, cioè dalle forme meccaniche che agiscono sul corpo.
La “debolezza” dell’anima consiste nel lasciarsi dominare dalle emozioni. Ma
attenzione: ciò non significa che le emozioni siano sostanzialmente nocive. Esse hanno,
infatti, la funzione naturale di incitare l’anima ad acconsentire e a contribuire alle azioni
che servono a conservare il corpo e a renderlo più perfetto. In questo senso la tristezza
e la gioia sono le emozioni fondamentali. Dalla prima l’anima è avvertita delle cose
che nuocciono al corpo, prova odio per esse e desidera liberarsene. Dalla gioia l’anima è
avvertita delle cose utili al corpo e quindi prova amore per loro.
Alle emozioni va tuttavia congiunto uno stato di servitù da cui l’uomo deve tendere
a liberarsi. Esse fanno quasi sempre apparire il bene e il male che rappresentano assai
più grandi e importanti di ciò che realmente sono. L’uomo deve per quanto possibile
lasciarsi guidare non dalle emozioni, ma dall’esperienza e dalla ragione. Solo così potrà
distinguere bene e male nel loro giusto valore ed evitare gli eccessi. In questo dominio
sulle emozioni consiste la saggezza. Proprio questo dominio è il tratto saliente della
morale cartesiana.

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