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Terza lezione – 02/03

Continuiamo a trattare dell’attività di Filippo Brunelleschi a Firenze e citiamo due opere


architettoniche che egli lascia in città, destinate a realizzare il profilo architettonico della città
ancora oggi. Tra le opere realizzate, si ricorda il progetto (e la realizzazione) della chiesa di
San Lorenzo.

Abbiamo avuto modo di citare questa chiesa ricordando che su di essa aveva un patronato,
sostanzialmente esclusivo, la più importante famiglia fiorentina di quel tempo, cioè i Medici,
ed è proprio la volontà di Cosimo ad affidare la realizzazione della chiesa a Filippo
Brunelleschi. Già egli aveva realizzato la Sagrestia “Vecchia”, immaginata non solo come un
ambiente dove si svolgevano le abituali funzioni di una sagrestia, ma anche come sacello
della memoria della famiglia De Medici.
Passando alla realizzazione della chiesa, Brunelleschi impiega una serie di elementi
architettonici che sono distintivi del suo linguaggio stilistico: in primo luogo l’utilizzo della
pietra serena (pietra di colore grigio caldo) e dal punto di vista strutturale la sequenza delle
colonne che sostengono gli archi a tutto sesto e che determinano lo sviluppo longitudinale
della navata principale della chiesa, separandola da quelle laterali. I fusti delle colonne, gli
archi a tutto sesto e l’insistenza delle finestre sulla sommità ripropongono una strutturazione
architettonica per certi aspetti analoga al loggiato dell’Ospedale degli Innocenti.
La struttura è articolata e arricchita dal rapporto fra lo spazio centrale della navata e lo
spazio delle navate laterali; Brunelleschi lavora a questo sviluppo in larghezza della chiesa,
creando un modulo, fortemente caratterizzato in senso geometrico che corrisponde allo
sviluppo tridimensionale dello spazio secondo le regole della prospettiva, che era ormai
divenuta patrimonio acquisito dagli artisti fiorentini del tempo. Lo spazio compreso fra la
navata centrale e la parete di fondo della navata laterale è caratterizzato da una
proporzionalità studiata attraverso l’ampiezza dello spazio fra le colonne e lo spazio del
fondo della navata laterale, con una riduzione della grandezza che è direttamente legata alla
distanza fra l’osservatore e l’architettura, in modo che le colonne inquadrano le lesene che, a
loro volta, risultano tangenti all’arco a tutto sesto, ridotto rispetto all’arco della navata
centrale, che fa da apertura al vano laterale dell’altare. Al di sopra della navata centrale la
solita finestra, mentre la lunetta che chiude in alto la navata laterale presenta un’apertura un
oculo di forma circolare.
Brunelleschi utilizza una struttura architettonica che si richiama all’architettura classica (la
colonna sormontata da un capitello corinzio) ma introduce in questo aspetto anche delle
novità: l’assenza di un basamento e la presenza di una sorta di dado che viene a porsi fra il
capitello e l’imposta; questo elemento si chiama pulvino, non ha una funzione strutturale ma
è utile ad accentuare lo sviluppo verticale dello spazio compreso fra le colonne della navata
centrale. Tutto il profilo, sia della navata centrale sia di quelle laterali, è caratterizzato dalla
ricorrenza della pietra serena che Brunelleschi impiegava costantemente.

L’opera che più di ogni altra contribuisce


a definire il profilo urbanistico della città
in questi anni è la Cupola di Santa Maria
del Fiore. Nel 1418 l'Opera di Santa
Maria del Fiore bandisce il concorso che
Brunelleschi vince, ma solo due anni dopo
i lavori avranno inizio e dureranno fino al
1434.
È una struttura di ampiezza smisurata che
porta non pochi problemi a Brunelleschi,
per la sua realizzazione, in relazione al
fatto che in quel tempo mancavano le
maestranze in grado di costruire enormi
ponteggi, necessari per portare avanti la
realizzazione della cupola.
Brunelleschi si trova davanti una difficoltà
oggettiva e quindi mette a punto una
struttura architettonica che è in grado di
sostenersi autonomamente: la struttura è
stata realizzata come una doppia cupola,
una interna che fa da scheletro e da
sostegno alla cupola esterna; e poi
progetta una struttura di mattoni disposti
a spina di pesce, intrecciato l’uno all’altro, in maniera tale da consentire la costruzione
progressiva in altezza, senza bisogno di ponteggi.
La cupola chiude il tamburo della chiesa, cioè la parte absidale che era stata realizzata tempo
prima su progetto di Arnolfo di Cambio e poi ripensata successivamente. Brunelleschi si trova
di fronte alla necessità, su richiesta dei committenti, di chiudere la struttura e lo fa creando
una cupola che allo stesso tempo ha una salda struttura architettonica ma anche una
leggerezza che si può paragonare a una sorta di bolla che si gonfia sotto lo sguardo di chi la
osserva.
La cupola viene poi arricchita da elementi che saranno introdotti successivamente: le fasce
esterne che serrano la struttura e più avanti Brunelleschi realizza la lanterna, un piccolo
tempietto che fa elemento di chiusura dello sviluppo verticale della cupola. La lanterna è
costituita da otto finestre ed è caratterizzata dalla presenza di archi rampanti che fuoriescono
dal perimetro della lanterna, poggiandosi alla base.
L’idea di Brunelleschi è quella di creare una forma architettonica che in qualche misura faccia
da centro della struttura urbanistica della città, come se nella sua idea la città di Firenze
ruotasse intorno a essa: la cupola diventa il centro della città, non solo in termini urbanistici
ma anche prospettici, spaziali.
La realizzazione di Brunelleschi per la città di Firenze è destinata a mutare la struttura
trecentesca della città, una struttura che aveva accolto già da tempo un’abbondante
popolazione ma che si era drammaticamente ridotta (nel 1348) a causa della peste nera.
Dopo quel momento Firenze aveva progressivamente ripreso importanza, la popolazione è
aumentata e la città ha un impetuoso sviluppo urbanistico di cui Brunelleschi si fa
protagonista. La cupola dialoga benissimo con la struttura duecentesca della chiesa di Santa
Maria del Fiore, ma anche con il campanile trecentesco che prende il nome di campanile di
Giotto perché realizzata in buona misura su progetto del grande artista Giotto.
Brunelleschi, che aveva cominciato con il concorso del 1401 e che aveva lavorato
prevalentemente come scultore, ad un certo punto si dedica all’architettura ed essa risulterà
essere impegno quasi esclusivo negli anni successivi. In gioventù Brunelleschi aveva
conosciuto e stretto amicizia con un giovane artista: Donatello, scultore tra i più importanti in
tutta la storia dell’arte e protagonista della svolta prospettica e spaziale. Insieme a
Brunelleschi, Donatello (e poco più tardi Masaccio) saranno gli assoluti protagonisti della
svolta stilistica che si porrà in alternativa al linguaggio dell’arte tardo gotica.
Donatello diventa l’artista richiesto dai più importanti
committenti della Firenze di quel tempo e la sua piena
affermazione si può legare alla realizzazione del San
Giorgio che è inserito all’interno di un’edicola, che ha un
profilo ancora gotico: l’arco trilobato, la presenza del
timpano triangolare decorato con elementi vegetali e i
pinnacoli che danno all’edicola marmorea uno slancio
verticale, quasi a contrasto con la leggerezza della statua
di San Giorgio realizzato da Donatello.
Si trova nel Museo del Bargello a Firenze.

Questa edicola proviene dalla chiesa di Or Sanmichele:


l’Arte dei Corazzai, cioè gli artigiani che lavoravano il
metallo e le armi (spade, scudi, elmi, ecc.) commissiona a
Donatello la statua di San Giorgio (il santo-soldato), il
santo patrono dell’Arte dei Corazzai.
Donatello realizza questa statua che la completa intorno al
1415 e questa statua si pone come esempio di un’assoluta
novità e frutto di una nuova concezione del rapporto fra spazio e figura: la statua occupa
pienamente lo spazio misurabile attraverso il teorema prospettico e si pone al centro di
questo spazio, saldamento piantato per terra in maniera tale da misurare, con l’ampiezza
delle spalle e la struttura salda della testa, l’apertura delle gambe proprio lo spazio che egli
occupa.
È uno spazio le cui dimensioni, in altezza e in larghezza, sono in qualche modo la proiezione
degli elementi decorativi dello scudo: l’asse verticale dello scudo accompagna la misura
dell’altezza nello spazio e l’asse longitudinale misura l’ampiezza; la profondità invece è
calcolata attraverso la definizione plastica del corpo di San Giorgio. Donatello realizza la
statua imprimendo la figura del santo con una lieve torsione del busto rispetto alla testa e al
resto del corpo, in questo modo definisce la relazione fra la dimensione della figura e la
dimensione più ampia dello spazio in cui la figura è collocata.
Allo stesso tempo Donatello rinuncia (rifacendosi alla riscoperta della tradizione classica) a
ogni elemento decorativo, abbandona le ampie pieghe eleganti di Lorenzo Ghiberti e
immagina la statua nella sua essenzialità, dando consistenza a ogni elemento del corpo di
San Giorgio: le spalle, le braccia muscolose, il collo sviluppato come un solido geometrico che
sostiene la testa, rivolta verso l’esterno quasi a intercettare lo sguardo dell’osservatore. La
sua attenzione alla definizione tridimensionale dello spazio viene osservata anche alla
predella della statua (sotto l’edicola compare un rilievo in marmo). Due scudi posti sotto i
pilastrini dell’edicola e una scena narrativa al centro.

Questa scena si tratta di un episodio che si riferisce all’episodio celebre della vita di San
Giorgio, con il santo soldato che combatte contro il drago che insidiava la giovane
principessa. Al centro della composizione c’è il cavallo impennato su cui si trova San Giorgio
e il santo con la lancia si appresta a uccidere il drago; nella parte destra la principessa, con le
mani giunte quasi a invocare la vittoria del santo, è collocata davanti a una struttura
architettonica che si sviluppa in profondità, nonostante Donatello utilizzi una tecnica che
prende il nome di stiacciato, cioè un bassorilievo molto sottile, è in grado di definire la
profondità lo spazio che accoglie le figure. La serie di archi a tutto sesto, alle spalle della
principessa, definisce la profondità dello spazio e anche la rappresentazione della caverna, a
sinistra, risponde a un concetto unitario che è appunto la definizione prospettica dello spazio.
In tempi assai precoci, Donatello è in grado di offrire un esempio completo dell’applicazione
del teorema prospettico-matematico messo a punto da Brunelleschi e divulgato anni dopo nei
trattati di Leon Battista Alberti.
Donatello parte da un punto (detto il punto di fuga) verso il quale convergono tutte le linee
che vengono tracciate da un punto qualsiasi del contorno della scena; il punto di fuga è
collocato esattamente sulla schiena di San Giorgio e Donatello traccia una serie di linee che
convergono verso quel punto di fuga per dare una misura certa di quelle figure in relazione
alla loro collocazione dello spazio. Quella convergenza delle linee verso il punto di fuga è in
grado di dire in maniera certa quanto sono grandi le figure a seconda di quanto siano
distanti dal punto di fuga. È una primissima attestazione dell’impiego di questo teorema
matematico da parte di Donatello, così da poter dire che la scultura è in questo momento
l’arte di avanguardia nella Firenze di questi anni, dal momento che gli artisti erano ancora
tutti legati a un linguaggio ancora tardo gotico.
Donatello tuttavia comincia a lavorare, già nel corso del primo decennio del Quattrocento, e a
lui si attribuisce il Crocifisso che si trova nella chiesa di Santa Croce, a Firenze. È un crocifisso
che evidenzia aspetti dello stile per noi molto significativi: il crocifisso di Santa Croce si
presenta come un’opera che è caratterizzata da un forte realismo, soprattutto nella
rappresentazione del volto di Cristo (lo sguardo abbassato, i capelli, la barba, la cavità degli
occhi, il naso pronunciato) per nulla idealizzata. Questo aspetto non fugge ai commentatori
del tempo e si arriva addirittura ad affermare che Donatello avesse messo in croce un
contadino.
L’aspetto di caratterizzazione naturalistica si lega alla volontà di Donatello di rappresentare
non una forma ideale, ma un corpo vero caratterizzato da un senso plastico, perché è solo la
struttura fisica del corpo a poter essere messa in relazione con lo spazio tridimensionale.
Accanto a questi aspetti, che sono quelli considerati innovativi, (il Rinascimento nella prima
fase ha una forte connotazione umanistica, cioè mette al centro l’uomo nella realtà
complessiva), il crocifisso di Donatello che si colloca entro il primo decennio del
Quattrocento, presenta degli elementi ancora tradizionali, legati all’idea decorativa presente
nelle scultore di Lorenzo Ghiberti, infatti Donatello si forma presso la bottega di Ghiberti. Gli
elementi tradizionali sono il modo in cui viene reso il drappo di stoffa che cinge i fianchi di
Gesù, che ha un andamento elegante, con pieghe ampie che si ripetono ritmicamente ed è un
dettaglio che va sottolineato proprio perché può essere collegato al linguaggio stilistico di
Ghiberti.
Confronto fra il crocifisso di Filippo Brunelleschi (conservato a Santa Maria Novella) e il
crocifisso di Donatello
Apparentemente il crocifisso di Brunelleschi presenta una forma più idealizzata, elegante, ma
pone particolare attenzione e innovativa alla struttura fisica del corpo, ai muscoli, ai tendini in
tensione e le ossa rinunciando all’elemento decorativo del perizoma che veniva sostituito dal
drappo di stoffa, proprio a sottolineare ancora di più la verità rappresentativa del Cristo in
croce. Rispetto a quello di Brunelleschi, il crocifisso di Donatello (che sembra più realistico, in
particolare nel volto) presenta ancora degli elementi più legati alla tradizione di Ghiberti:
l’andamento quasi disegnato delle gambe che creano una sorta di ovale, legato a una qualità
disegnativa della definizione. In sostanza vuol dire che tra il primo e il secondo decennio del
Quattrocento, Donatello mostra già tutte le sue potenzialità, anche espressive, ma rivela
ancora un legame alla tradizione stilistica di Ghiberti, che invece non sussiste nell’opera di
Brunelleschi, tutto ispirato a una verità rappresentativa che intende raffigurare un uomo
“vero”, nella sua fisicità.
Oltre a questi due protagonisti (Brunelleschi e Donatello) occorre menzionare un altro artista
che in questo momento dialoga strettamente con Brunelleschi e Donatello, attraverso un
nuovo linguaggio, fortemente caratterizzato da una tensione spaziale e da una precisa
volontà di riproporre modelli classici, della statuaria antica. Questo artista si chiama Nanni di
Banco (Nanni è l’abbreviazione di Giovanni) ed è uno scultore dalle straordinarie capacità,
dotato di una qualità innovativa eccezionale, destinato però a incidere nel panorama della
scultura fiorentina in questi anni, perché muore molto presto (nel 1421). Nella sua breve vita
però gli consente di realizzare alcune importanti opere, forse la più significativa è ancora una
volta un’edicola nella chiesa di Or Sanmichele.
Nanni di Banco per un’altra corporazione
fiorentina, cioè l’Arte dei Marmorai, artigiani
che lavoravano la pietra, il marmo, e scultori.
La corporazione dei Marmorai non aveva un
solo santo patrono, bensì quattro (Casorio,
Claudio, Sempronio e Nicostrato) chiamati i
Santi Quattro Coronati.
Si poneva il problema di inserire all’interno di
una nicchia non una figura, ma bensì quattro
e Nanni di Banco risolve questo problema
collocando le quattro statue una a fianco
all’altra, disponendole in semicerchio e crea
una fittissima trama di relazioni visive e quasi
tattili. È la testimonianza di una acquisita
consapevolezza della relazione tra figure e
spazio: lo spazio è misurabile
prospetticamente e viene abitato da quattro
figure che si dispongono in maniera tale da
dare una sensazione razionale della loro
presenza. Queste quattro figure mostrano
un’attenzione alla statuaria classica.
Si tratta di quattro figure togate, con i
panneggi che ricascano verso il basso, non
nascondono la struttura fisica dei santi e il
dettaglio delle teste è fortemente caratterizzato in senso classico: la ritrattistica romana era
ben nota in quei tempi, gli artisti non sanno nulla della pittura antica e ci vorranno molti anni
prima di arrivare ad una conoscenza parziale della pittura classica, invece conoscono la
statuaria antica.
Nanni di Banco si rifà certamente ai modelli classici nel definire i ritratti di questi quattro
santi: sembrano dei personaggi caratterizzati da un altissima nobiltà (capigliature diverse,
barbe più o meno incolte e le bocche semi socchiuse in questo dialogo serrato tra i quattro
personaggi).
Brunelleschi continua la sua strada
nell’architettura e Donatello procede quasi
senza rivali, per qualche tempo, nella Firenze di
questi anni e la fama di Donatello supera anche
i confini della città di Firenze e l’artista viene
richiesto a Siena per realizzare una formella in
bronzo per la vasca battesimale del Battistero
di Siena. La vasca si caratterizza per una serie
di figure allegoriche a tutto tondo dentro
piccole nicchie, che separano i rilievi in bronzo
realizzati dai più importanti artisti di quegli
anni: Donatello, Lorenzo Ghiberti (realizza il
Battesimo di Cristo) e anche Jacopo della
Quercia. Al centro della vasca un ciborio in
marmo che viene realizzato diversi anni dopo.

Il Battistero di Siena è dedicato a


San Giovanni Battista e le formelle
in bronzo mostrano gli episodi
della vita del santo. A Donatello
viene chiesto di realizzare (fra il
1423 e il 1427) il rilievo che
raffigura la presentazione della
testa del Battista (il santo subisce il
martirio con la decapitazione) come
un trofeo macabro e viene portata
alla presenza del re Erode.
Donatello per questa scena impiega
il teorema prospettico, quindi
dando una dimensione
tridimensionale allo spazio che
occupano le figure; uno spazio
prospettico che si misura attraverso
la sequenza delle piastrelle in primo
piano, la definizione del tavolo in
cui si siedono i commensali del re Erode, attraverso anche la successione degli archi a tutto
sesto rappresentati su diversi piani, in modo da misurare la profondità dello spazio. Lo
spazio dà anche la possibilità a Donatello di scandire lo sviluppo narrativo dell’episodio: ogni
piano spaziale presenta un momento particolare della vicenda. Quindi lo spazio prospettico
non serve solo per definire la profondità, ma anche per dare cadenza diacronica al racconto,
a definirne lo sviluppo.
In primo piano è raffigurato l’episodio con il servo, inginocchiato, che mostra al re Erode la
testa ormai decapitata di San Giovanni Battista: questo momento determina l’orrore del re,
che sembra quasi allontanarsi dal vassoio che reca la testa del santo, in preda a un moto di
orrore, disgusto, per quanto egli stesso aveva determinato. La reazione emotiva del re Erode
si osserva anche in tutti gli altri personaggi (i commensali che si alzano terrorizzati, un
personaggio si nasconde il volto per non vedere, i fanciulli in primo piano fuggono
terrorizzati) e questo è l’episodio culminante, quello che conclude la vicenda (secondo i testi,
Re Erode conviveva con Erodiade, moglie del fratellastro e madre di Salomè; questo adulterio
venne criticato da Giovani Battista, che fu rinchiuso su ordine del re. In seguito, durante il
banchetto, lo stesso sovrano venne conquistato dalla danza di Salomè e le promise di
realizzare un suo desiderio: la decapitazione del Battista, la cui testa viene portata alla
ragazza).
In primo avviene l’episodio, ma nei piani retrostanti si svolgono altri due momenti che non
avvengono allo stesso momento, cosicché la formella può essere letta solo nella sua
articolazione spaziale, ma anche nel suo sviluppo narrativo: nel piano intermedio ci sono i
suonatori che hanno accompagnato la danza di Salomè e nel piano ancora più arretrato la
consegna della testa ai servitori che poi giungono alla presenza del re Erode.
La formella si rivela una delle attestazioni dell’applicazione del teorema prospettico, ma se la
mettiamo a confronto con la formella di Ghiberti (Il Battesimo di Cristo) si accorge che lo
spazio in Ghiberti è utilizzato ancora in maniera tradizionale, legato sostanzialmente a una
dimensione bidimensionale: gli angeli sono collocati a formare un semicerchio intorno alla
figura di Cristo, collocato davanti a un piano di fondo, dove le figure sono collocate senza
dare un senso della loro qualità plastica, tridimensionale.
La formella di Ghiberti evidenzia tutta l’eleganza della sua arte, dove il braccio di San
Giovanni Battista si confonde quasi con il profilo delle nuvole che accolgono gli angeli,
proprio per accompagnare la forma ovale dentro la quale è collocata la figura di Cristo.
Ghiberti continua a pensare alla scultura come un rilievo che si sviluppa davanti a un piano di
fondo che non può essere travagliato, mentre invece lo spazio per Donatello si apre verso la
profondità, grazie alla competenza acquisita attraverso il teorema prospettico.
Questa tomba è stata realizzata da Donatello e si
trova a Napoli, nella chiesa di Sant’Angelo a Nilo.
Non è molto noto che Napoli conservi una
testimonianza della scultura di Donatello all’interno
di una delle sue importanti chiese, nel centro
storico. Si tratta di una tomba monumentale
dedicato a Rainaldo Brancacci, componente di una
delle famiglie più illustri della nobiltà napoletana,
avviato alla carriera ecclesiastica fino ad assumere il
ruolo di cardinale.
Rainaldo commissiona per sé il proprio monumento
funebre, destinandolo a un’ambiente della chiesa a
cui era molto legato, cioè Sant’Angelo a Nilo.
L’opera non viene realizzata a Napoli bensì a Pisa
da due artisti che avevano stretto una sorta di
società, lavoravano alle stesse commissioni, si
dividevano gli incarichi e i guadagni: Donatello e lo
scultore e architetto Michelozzo.
I due avevano siglato una società che aveva sede a
Pisa: era un luogo strategico perché si trovava a
poca distanza dalle cave di marmo e Pisa aveva un
porto affacciato sul mar Tirreno, non a caso era una
delle quattro repubbliche marinare. Questo aspetto
rappresentava un vantaggio strategico perché era
possibile far giungere via mare e fino alla voce
dell’Arno i marmi provenienti dalle Alpi Apuane ed
era possibile trasportare i marmi scolpiti dalla
bottega.
Le diverse parti del monumento funebre vengono realizzate e scolpite a Pisa e poi inviate via
mare a Napoli, dove c’era un agente della bottega di Donatello e di Michelozzo incaricato di
sovrintendere alla costruzione del monumento, quindi all’assemblaggio delle varie parti che
erano giunte via mare da Pisa a Napoli.
La tomba segue ancora una tradizione trecentesca, legata soprattutto allo scultore toscano
Tino di Camaino che ha lasciato esempi importanti di sculture funebri, lavorando per gli
Angiò. L’idea di una tomba all’interno di una sorta di edicola che rivelava il suo interno
attraverso l’apertura di tendaggi, la tomba stessa è retta da figure allegoriche che svolgono la
funzione di cariatidi, cioè figure di sostegno; la presenza del rilievo con la Madonna con il
Bambino circondata da raffigurazioni di angeli e di santi, il timpano ha la particolare forma
mistilinea con al centro la figura di Dio Padre benedicente e tutti questi elementi comuni alla
scultura funeraria trecentesca.
Ci sono naturalmente delle novità nel modo di rappresentare nelle figure delle cariatidi ma
soprattutto la novità è legata proprio al particolare che all’interno della tomba con certezza
Donatello, tutto il resto è invece assegnato a Michelozzo, che aveva ideato il progetto,
realizzato le statue e le figure a rilievo. Donatello contribuisce con certezza alla tomba del
cardinale Brancacci realizzando un rilievo bassissimo (un altro esempio di stiacciato) che
rappresenta l’Assunzione della Vergine, collocato al centro della fronte del sarcofago, ed è
un’opera di eccezionale qualità perché evidenzia tutta la forza espressiva di Donatello e
anche la capacità di ripensare la tradizione iconografica precedente, riportandola in maniera
evidente a una concezione realistica: gli angeli non hanno alcunché di idealizzato ma sono
dei giovani che quasi si misura la fatica fisica nel sostenere e portare in cielo il trono su cui è
seduta la Madonna e nonostante la tecnica esecutiva si basa su un rilievo bassissimo,
Donatello è in grado di restituire quella definizione tridimensionale.
Donatello lascia a Napoli un’opera di grande qualità e di grande rilievo, poco conosciuta
purtroppo.

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