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Cosa faremo dopo il Covid-19.

Sei dottorandi di architettura in cerca di progetti


A cura di Fabrizio Marzilli e Antonio Sorrentino

Collana: «Gli Strumenti»


Direttore: Antonino Saggio
Redazione: Fabrizio Marzilli, Valerio Perna, Antonio Sorrentino
Indirizzo: nITro, Piazza Grecia 61, 00196 Roma tel. 0697615923

In copertina: Ant Farm, Inflatocookbook, 1971

Seconda edizione ottobre 2021


ISBN: 978-1-716-80343-7

Editore: Lulu.com, Raleigh, NC USA


Distribuzione internazionale: Lulu.com, Amazon.com

«Gli Strumenti» vuole fornire elementi di riflessione conoscitiva e teorica nei campi
della scienza contemporanea, del pensiero, dell’arte, dell’urbanistica, dell’architettura
e della produzione di oggetti per spingere il lettore alla ricerca di nuove direzioni del
proprio operare.
A cura di Fabrizio Marzilli
e Antonio Sorrentino

Cosa faremo
dopo il Covid-19
Sei dottorandi di architettura in cerca di progetti

Seminario Linee di Ricerca


Dottorato di Ricerca in Architettura. Teorie e Progetto
Dipartimento di Architettura e Progetto
Facoltà di Architettura “Sapienza” Università di Roma

Prefazione di Antonino Saggio


Indice

Prefazione 7
Antonino Saggio
Introduzione 9
Fabrizio Marzilli e Antonio Sorrentino

Sporcarsi - Distanziarsi
Introduzione 15
Michele Lazazzera e Ciro Priore

Dialogo con Leonardo Caffo 17

Sporcarsi 29
Ciro Priore

Distanziarsi 43
Michele Lazazzera

Emozionarsi - Reincarnarsi

Introduzione 57
Endri Kicaj e Antonio Sorrentino

Dialogo con Sarah Robinson 59


Emozionarsi 65
Antonio Sorrentino

Reincarnarsi 81
Endri Kicaj

Allettarsi - Interrogarsi

Introduzione 95
Fabrizio Marzilli e Luisa Parisi

Dialogo con Pippo Ciorra 97

Allettarsi 103
Luisa Parisi

Interrogarsi 113
Fabrizio Marzilli

Riferimenti Bibliografici su Covid-19 127


SPORCARSI - DISTANZIARSI
Nella pagina precedente:
Bernard Rudofsky, J.A. Coderch, Casa Rudofsky, Cortijo de San Rafael, Malaga,
Spain,1968
Introduzione
Michele Lazazzera e Ciro Priore

Nell’ultimo anno, spinti dal tentativo di interrompere la catena di


trasmissione virale, abbiamo accelerato il processo di interruzione dello
scambio fra ambiente domestico e naturale che era già in atto. È eviden-
te che, se la natura lì fuori è prodotta da noi ma è anche il prodotto del
quale facciamo parte, il nostro esistere comporta quindi empatia, alterità,
somiglianza e differenza. La lotta alla pandemia di SARS-CoV-2 è stata
una lunga corsa piena di inciampi e paradossi.
Mascherine non biodegradabili, distanziamento coatto, stanze urba-
ne come stanze di carceri. Separatori, griglie e bunker. Combattiamo la
guerra con armi poco efficienti e antistoriche. Siamo sicuri di non dover/
potere cambiare?
È chiaro che occorre riformulare un distanziamento e strumenti di pro-
tezione per fronteggiare future crisi, provando a guardare al concetto
di densità urbana per un equilibrio tra città e spazio domestico. In tal
senso, la scelta di tornare a sporcarsi (il verbo polo rispetto a distanziarsi
in questa sezione) tira in ballo ragionamenti profondi sul rapporto tra
domestico e selvatico. Se da un lato la casa urbana, con la sua chiusu-
ra di interno verso l’esterno rappresenta il polo in cui il primo termine
è contrapposto al secondo, dall’altro lato la casa vacanza rappresenta il
polo opposto in cui domestico e selvatico convivono in un rapporto di
vicendevole appoggio di compensazione.

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La possibilità di interloquire con il filosofo Leonardo Caffo che ha
sviscerato le dinamiche e le tematiche riguardanti la crisi sistemica do-
vuta a Covid-19 è stata l’occasione per riflettere su questi verbi, uscendo
anche dall’ambito puramente architettonico.

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Leonardo Caffo
Filosofo

Michele Lazazzera e Ciro Priore

Michele Lazazzera e Ciro Priore: Prima di riflettere sul futuro che ci


apprestiamo a vivere, vorremmo cominciare con una domanda più mirata a
comprendere il periodo di transizione che stiamo vivendo. Al punto 16 del tuo
Dopo il Covid-19 asserisci che «La novità del Covid-19 è che è la prima vera
rivoluzione internazionale e planetaria della storia». A più di un anno dalla
pubblicazione di quel documento, credi ancora che la crisi pandemica si stia di-
mostrando essere una rivoluzione? E se sì, che direzione credi stia prendendo?

Leonardo Caffo: Il Covid è stato una rivoluzione, e in base a come


lo si poteva assecondare, i termini della rivoluzione cambiavano. Avrem-
mo potuto assecondare il Covid per rimettere in discussione la forza cen-
tripeta che lo ha generato e non agire sugli effetti (mascherine, vaccini)
ma sulle cause; sarebbe stato tuttavia utopico e ai confini dell’immagina-
zione. Sappiamo che siamo nell’era delle pandemie: dopo il Covid-19 ci
sarà un Covid 22, 23 o 27 che probabilmente saranno più drammatici e
ciò è dato dal rapporto squilibrato che abbiamo con l’ambiente e con gli
animali, dall’urbanizzazione forzata delle foreste, dall’ipernatalità. È una
pandemia che non ha niente a che vedere con quelle del passato, nono-
stante si continuino a usare analogie con peste e Spagnola: all’epoca le in-
frastrutture urbane non erano quelle di oggi, il virus non viaggiava su un
frecciarossa, sugli aeroplani, non correva alla velocità della metropolitana.
Questa è una vera pandemia mentre la peste era europea e la Spagnola

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non era arrivata nemmeno in Australia. Quelle erano forme occidentali
di pandemia. Erroneamente pensavamo che se il mondo occidentale era
in pandemia allora, per una questione di colonialismo di secondo ordine,
tutti erano in pandemia.
In questa pandemia ci sono stati anche gli yanomami: anche i più
sperduti nella foresta amazzonica hanno avuto problemi per il covid.
Io ho scritto molte cose sbagliate, che non si sono avverate, nel mio libro
Dopo il Covid-19. Pensavo che gli yanomami non avrebbero avuto nessun
problema dalla pandemia mentre, in realtà, in Brasile le contaminazioni
sono arrivate fino a lì. Ma c’è da dire che se gli yanomami hanno vissuto
solo il problema della morte legata al Covid, noi abbiamo vissuto anche
quello del blocco delle infrastrutture o del prezzo del petrolio in negativo
quindi, in realtà, i nostri problemi non sono stati solo fisici ma sociali ed
economici.
La rivoluzione del Covid non è stata assecondata nelle cause, pur-
troppo, ma negli effetti.
Se per esempio pensiamo a qual è la differenza fra un genio della filoso-
fia come Agamben e un principiante della filosofia quale posso essere io
ci rendiamo conto che le categorie del vecchio pensiero filosofico hanno
pensato che il Covid fosse l’occasione, per il Sistema, per imporci norme
biopolitiche e controlli. In realtà quello che non ha capito Agamben è
che il sistema ha subito il Covid e non era preparato, tanto è vero che
adesso la prima preoccupazione del sistema è farci tornare in zona bianca
per farci fare gli aperitivi. Altrimenti si arresta tutto il motore economi-
co che c’è dietro il capitalismo che non può più permettersi di tenerci
chiusi in casa. Insomma, penso che l’idea di tutti i filosofi che pensavano
che questa era l’occasione per tenerci chiusi in casa sia una puttanata. Il
capitalismo funziona solo se le biglie sono impazzite. Se le biglie sono
sotto controllo il capitalismo si avvolge. Abbiamo necessità che i ragazzi
vadano al parco a limonare al parco perché poi consumeranno i Durex e
quindi spenderanno dei soldi. Abbiamo bisogno che la gente esca a bere
perché se no al tizio che produce l’Absolut cosa gli diciamo?!
Questo è quello che contestavo e che continuo a contestare: che il
Covid venisse ficcato dentro tutte quelle vecchie filosofie che hanno in-
fluenzato l’architettura per tanti anni. Oggi non vanno più bene, è cam-
biato il sistema che c’è dietro.
Non credo che il Covid sia finito quindi onestamente non possiamo mi-
surarne la portata della rivoluzione fin quando non potremo osservarlo
al contrario e cercare di vedere che gettata storica ha avuto. È ovvio che

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- e dico una cosa molto banale – se non abbiamo utilizzato un momento
storico come quello del primo Covid in cui il petrolio aveva prezzo nega-
tivo per sovvertire le cose, non credo che sia possibile all’orizzonte nessun
tipo di rivoluzione ecologica e complessiva dei consumi. Il Covid ci ha
dimostrato che andremo a morire, che andremo a sbattere e che non
abbiamo nessuna capacità di riorganizzare il mondo neanche quando è
il mondo stesso che ci da una grande occasione. Nonostante le migliaia
di morti quotidiane non siamo stati in grado di cambiare rotta ma siamo
stati solo impegnati a far ripartire il sistema esattamente come era prima:
è evidente che a questo punto è “buona la prima”, non ci sarà nessun’altra
chance. Sicuro.

ML e CP: Secondo un luogo comune, in parte vero, nei paesi del Nord
Europa si vive in uno stato di tensione fra una certa abitudine di distanza e
distacco fra i corpi (tanto che il gesto del salutarsi è minimo e l’idea di toccarsi
è quasi sospetta) e il vivere gli spazi aperti praticando nudismo o sedendosi
per terra, mentre, nei Paesi sud-europei assistiamo, invece, a una situazione
quasi inversa, in cui le distanze fra i corpi diminuiscono e l’idea di igiene
sembra essere più presente. Queste abitudini sono così radicate che per certi
versi hanno consentito anche di mettere in atto politiche di contenimento dif-
ferenti (pensiamo alla Svezia che per lungo tempo non ha voluto imporre un
distanziamento sociale stringente). Di contro, nei paesi del Sud c’è stato subito
un forte senso di adattamento alle restrizioni (pensiamo alle feste sui balco-
ni o alle prima impensabili file ordinate fuori ai supermercati). Secondo te,
dopo l’epidemia di SarsCov2 gli equilibri/squilibri fra nord e sud rimarranno
uguali o quelle abitudini sono destinate a cambiare?

LC: Siamo stati tutti più realisti del re, abbiamo preso fatti contin-
genti per costruirne teorie complessive. In realtà i paesi del Nord hanno
avuto misure diverse a seconda delle loro abitudini culturali. In Svezia
mantengono già la distanza e non c’è bisogno che questa venga imposta.
È un paese che è grande una volta e mezza l’Italia.
La gente in Italia fuori si è distanziata, dentro invece ha fatto come
gli pareva. Se vi fate un giro a Napoli o a Catania vedrete come la gente
non rispetti più le norme (in certi quartieri non c’è mai stato il distanzia-
mento). Il senso delle norme era incutere paura. Il Covid è stato subito
dal sistema: ogni stato si è regolato sui comportamenti dei cittadini.
Sono critico nei confronti di certi atteggiamenti filosofici che hanno

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detto che è iniziata la società del distanziamento: la gente non vede l’ora
di buttare la mascherina, non si è abituata alla distanza.
Se vede il prossimo con la mascherina abbassata la abbassa anche lui.
Forse è solo il senso di colpa extra-normativo che ci fa appoggiare un
certo tipo di distanziamento sociale. Il distanziamento risale a un certo
tipo di media.
Noi del Covid non abbiamo capito nulla, avremmo dovuto cambiare
la società ma non lo abbiamo fatto e tutto quello che stiamo vedendo
sono una sorta di ammortizzatori temporanei per ritornare alla situazio-
ne pre-Covid per fare ognuno come gli pare. La nostra preoccupazione
è correre per mettere al riparo l’estate e i consumi (per rifare la “stessa
spiaggia stesso mare” degli anni 60, ma non siamo più negli anni 60 - in
quel caso eravamo all’inizio del problema mentre ora siamo alla fine.
Certo che dovremmo distanziarci ma non ci distanziamo per niente, le
città sono ancora congestionate, c’è una pessima gestione degli uncini
intorno alle città, dei borghi e delle campagne, del consumo dei suoli. In
città come Milano si continua a verticalizzare prendendo modelli come il
grattacielo, che era già vecchio a New York all’inizio del 900, pensandolo
come un modello innovativo.
Il sistema può assorbire istanze rivoluzionarie ma non può capovol-
gersi. Le soluzioni politiche non sono state così pesanti come la situazio-
ne richiedeva, ripeto: non è mai accaduto che il prezzo del petrolio fosse
negativo, ma nessuno ha pensato a riconvertire l’energia. Non si è parlato
di consumo di carne, si è parlato delle mascherine senza neanche mettere
l’obbligo di mascherine ecologiche, abbiamo solo mascherine usa e getta
che incrementeranno la potenziale pandemia del futuro.
Non eravamo pronti al Covid e agiamo per eliminarlo senza pensare
al fatto che questo modo può alimentare a sua volta una nuova pan-
demia. Abbiamo utilizzato vecchie teorie biopolitiche (vecchie teorie
foucaultiane: di ŽiŽek e Agamben) senza capire che il capitalismo non
ha bisogno di sorvegliarci, siamo costantemente monitorati con i nostri
smartphone. La tecnologia è cambiata, il sistema è cambiato, ha bisogno
che spendiamo, che consumiamo, che andiamo in giro, che prendiamo le
malattie veneree (per favorire l’industria della sanità).
Ma torniamo all’architettura. Un compito enorme sta a chi progetta
gli spazi: questa è stata una pandemia spaziale. Se gli spazi fossero stati
diversi, la pandemia non avrebbe avuto questa capacità di attecchimen-
to. Se avessimo avuto una geotermia più diffusa non avremmo avuto
problemi con gli impianti di riscaldamento etc. Se le città non avessero

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assorbito le campagne per creare dei quartieri civetta (pensiamo a Roma
che si è allargata oltre il raccordo mangiando tutto ciò che era intorno).
Il Covid ci ha dato occasioni che non abbiamo visto. Ci ha detto che
potevamo fare il 90% del lavoro a casa (la rete sarà un problema), che si
potevano organizzare stazioni di smart working nelle campagne, nei bor-
ghi per defaticare le città. Ciò è inapplicabile per il sistema, perché a un
certo tipo di lavoro in un certo tipo di luogo corrisponde un determinato
salario. Se lavori a Milano e non puoi pagare a Palermo. Il capitalismo
non chiuderà i luoghi della socialità perché è tutto settato sul consumo.
Se decidesse di chiudere queste attività rischierebbe di lasciare agli indi-
vidui spazio e tempo per pensare e rischierebbe di cadere.
Il Covid è stato un allarme che ci ha fatto pensare dicendoci: ferma-
tevi ora, alla prossima non moriranno solo plotoni di 80 enni (tenendo
presente che invecchiare è un vantaggio della vita specializzata e capitali-
stica), ma la prossima pandemia potrebbe essere un virus che attecchisce
sull’acqua, sui cibi e noi continuiamo a far espandere un sistema. Cosa
può essere un approccio rivoluzionario in architettura?
L’approccio di Boeri è un approccio che non coglie l’urgenza del
problema, pensiamo al bosco verticale: mettere alberi che assorbono
CO2 non coglie l’urgenza del problema. Andare a New York vuol dire
consumare le stesse tonnellate che il bosco verticale riesce a produrre
in un anno, parliamo di un volo di solo andata. Il capitalismo gioca su
equilibri sottili. Se tua moglie muore puoi prendere il Prozac.  L’urgenza
è evitare la produzione massiva di CO2. L’azione che bisogna mettere in
campo è molto più potente. A patto che l’architettura non agisca solo
sugli effetti ma anche sulle cause. Dobbiamo uscire dall’idea di museo
espositivo e progettare secondo questa nuova direzione: abbiamo tutti gli
strumenti tecnologici e concettuali per farlo. Facciamolo. 

ML e CP: Il distanziamento sociale con i suoi dispositivi hardware


(barre – separatori - cancelli) e l’idea di una architettura fatta di spazi mi-
nimi possono essere riconducibili a un atteggiamento gerarchico e violento che
l’uomo esercita nei confronti dell’animale (oggetto di consumo compresso in
gabbia)?

LC: Forse, non propriamente dell’animale direi, ma l’idea che nel


Sistema gestire e dominare siano cose molto simili. Se hai soldi non esi-
stono barriere. I confini esistono per chi attraversa il mar Mediterraneo,

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io se voglio mi metto su un aereo e vado in Australia, sono vaccinato e
posso andarci. Questo sta a testimoniare che la nostra è una società a ma-
trioska: a un certo tipo di potere capitalista equivalgono determinati tipi
di libertà biologiche. La privazione della libertà per pochissimo tempo
(ora la situazione è cambiata e possiamo fare quello che vogliamo, siamo
solo storditi), ci ha ricordato coloro a cui abbiamo tolto la libertà: gli ani-
mali, i migranti e tutti quegli umani discriminati nel mondo, che viveva-
no in un precariato totale, quelle che Benjamin chiamava le “vite offese”.  
La cosa incredibile è che noi abbiamo il Covid perché sfruttiamo
gli animali. Sia che sia uscito dai laboratori, sia che sia partito dal wet
market, nel primo caso era perché si stava sperimentando sugli animali
e nel secondo perché ci si stava nutrendo di animali selvatici. Tuttavia,
nessuna riga per mettere in discussione lo sfruttamento degli animali da
cui derivano le epidemie.
Noi piuttosto usiamo le mascherine per i prossimi cento anni pur di
continuare ad allevare e mangiare pipistrelli. Se noi minimizzassimo lo
sfruttamento non avremo il 90 percento dei problemi che ci troviamo
ad affrontare: crisi climatica, epidemia etc. È assurdo che pur di non
affrontare la cause, continuiamo a parlare delle conseguenze, questo lo
trovo incredibile.

ML e CP: L’esperienza di Le Corbusier, che è fondamentale per la tua


ricerca della semplicità, ci insegna che anche l’uomo per certi versi più antro-
pocentrico di tutti può ad un certo punto auspicare una «vita umana final-
mente inoperosa, animale, pura.» Ci potremmo aggiungere quindi anche per
certi versi “selvaggia”. Pare di capire che l’esperienza del Cabanon e quella
delle tue ultime ricerche raccolte in Essere Giovani possano trovare un nodo
di congiunzione nell’estate (non fosse altro che per lo scopo per cui è nato il
primo e per i tanti ricordi estivi che citi nel tuo ultimo libro). Se per un certo
verso possiamo dire che l’estate, così come la giovane età, coincide con il tempo
del selvaggio, possiamo dire anche che la ricerca di estate, quando si traduce in
una fuga dal domestico/urbano, può essere letta come una ricerca di ritrovata
giovinezza, quindi di ritrovato selvatico?

LC: Questa è una domanda tanto complicata. È una domanda spe-


culativa. Non si può pensare che l’umanità...ci si può pensare ma dopo
la tragedia. Quando tutto andrà completamente a farsi friggere potrebbe
pure succedere. Come racconto nel libro Fragile Umanità, una porzione

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di umanità che resiste al disastro riorganizza la propria vita in modo
più ancorato alla natura, alla ricerca di quanto non si faccia oggi. Da un
punto di vista speculativo la mia risposta è invece assolutamente positiva
rispetto a quello che state chiedendo. È evidente che quello che ci sta
capitando ci pone a un bivio: o ci concentriamo sul salvare questo Siste-
ma e ce lo godiamo accelerando al massimo lo sfruttamento (e questa
posizione si chiama accelerazionismo, esiste ed è documentabile in varie
forme e caratterizzazioni). Di fatto appoggiamo l’approccio maggiorita-
rio - che è quello che sta avvenendo - riapriamo i cancelli e andiamo tutti
a farà bordello in mezzo alla strada. Continuiamo a dirci cose del tipo
«tra vent’anni non vedo l’ora di potermi comprare un attico a Manhattan» o
cose del genere.
Dall’altro lato - ed è come se non ci fosse una via di mezzo - c’è la
scelta del «ma questo è vivere? Questo è davvero stare al mondo? Questo è
davvero esistere? Non dovremmo ripensare tutto radicalmente a partire da
noi stessi? Non c’era più vita in una scelta come quella che ha fatto Battiato di
andarsene a vivere alle pendici dell’Etna in una casa a Milo, mentre avrebbe
potuto tranquillamente comprarsi otto palazzi a Milano?» Viveva in una
casa che potremmo permetterci tutti e tre, perché è il paese più eco-
nomico del mondo quello in cui si è trasferito. Questo bivio da un lato
risulta poco efficace perché tu non è che puoi proporre come soluzione
complessiva a 7-8 miliardi di persone di riscoprire la vita selvaggia. Che
cosa vuol dire? Poi ci sono dei paesi che non hanno ancora attraversato
lo sviluppo che abbiamo attraversato noi nel Cinquecento. Non hanno
avuto il Rinascimento, non hanno avuto l’Illuminismo. Non hanno avuto
tutto ciò che oggi ci porta ad essere così. Il motivo per cui abbiamo degli
scontri culturali con i ragazzi che arrivano dalla Mezzaluna fertile, che
arrivano con i barconi, non vediamo l’ora di accoglierli e poi violentano
magari le nostre sorelle sotto casa, non è perché sono cattivi, ma perchè
abbiamo messo insieme due culture che non c’entrano niente l’una con
l’altra. Sono culturalmente indietro rispetto a noi di seicento anni, non
hanno attraversato l’immensa riforma dell’Illuminismo. Cosa saremmo
noi senza l’Illuminismo? Chi lo sa? Quindi non è una questione di razzi-
smo e non è una questione di antropologia for dummies., è che il mondo
all’improvviso ha fatto cadere i suoi confini geopolitici ma le culture non
erano pronte a incontrarsi. Non lo erano ancora. E questo sarà uno dei
tanti problemi che dovremmo affrontare di qui a poco. Quindi cosa si fa?
Vai in India e gli dici di riscoprire la vita selvaggia alla gente che dorme
in strada? A Varanasi, a uno che non ha manco l’acqua per pulirsi il culo?

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Ti dice «valla a scoprire tu, che hai avuto duemila anni per arrivare ad avere
un appartamento a Roma. Io voglio avere quello che hai tu adesso perché sono
indietro rispetto a te, mi siete venuti a disturbare voi. Avete distrutto voi l’e-
quilibrio che avevo in un paese come il mio».
Dall’altro lato è ovvio che invece ci sarebbe la possibilità - che però è
puramente individuale - che tu citavi rispetto agli altri lavori che ho fatto,
che è “cos’è una vita degna di essere vissuta anche individualmente”. Per-
ché dovremmo fare la vita che gli altri hanno scelto per noi sapendo che
è fallimentare? Che andremo incontro a epidemie, che probabilmente
avremo delle vite allucinanti, chiusi nelle case, nei quaranta metri quadri
che ci possiamo permettere nelle periferie delle grandi città. Quella che
ci aveva fatto il Covid era una domanda: sei sicuro che questa è la vita che
vuoi vivere? e ovviamente il capitalismo dall’altro lato ti dice «amico mio,
qui c’è la figa, qui c’è da bere, qui c’è da divertirsi. Lascia perdere il bosco, lascia
stare la serenità. Perché io ti posso offrire tutto. Hai un vizio? Te lo assecondo».
Quindi quella lì ha quasi a che fare con una ricerca spirituale, indi-
viduale, più profonda su che cosa significhi vivere o sul senso della vita.
Ed è ovvio che è una ricerca che tu puoi fare soltanto nel momento in
cui non devi pensare a mangiare o a bere. Non puoi chiedere a un ragaz-
zo che scappa dalla guerra sulla striscia di Gaza «vuoi riscoprire la vita
selvaggia?» Quello ha avuto le bombe fino a stamattina. E tu gli dici «ma
forse non era meglio vivere sugli alberi?» Ti dice: «ecco! Il tipico prodotto
della società capitalista».
Quindi bisogna tenere insieme queste due cose. Sicuramente quello
di cui mi sono occupato io è una riformulazione del modello complessivo
di che cosa significa antropocentrismo tramite la gioventù, la vita selvag-
gia, la capanna. Ma più che altro chiedersi come siamo stati pensati e se
ci va bene come siamo stati instradati in questo mondo. Se pensiamo che
questa era la soluzione ma io non credo. 

ML e CP: Nei tuoi lavori, spesso sembri quasi auspicare ad un ritorno


ad una primitiva vita naturale e pensiamo soprattutto a Fragile Umanità e
Quattro Capanne. Credi davvero che il futuro degli esseri umani possa essere
lontano dalle città o piuttosto che c’è bisogno di ripensare alle città del futuro?

LC: Dipende da cosa intendiamo per futuro. Il futuro prossimo


venturo è nelle città. Le città diventeranno sempre più grandi, si espan-
deranno sempre di più. Milano si allargherà, Pechino si allargherà, Du-

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bai si allargherà. Lo sappiamo, il futuro in questo momento, è dove c’è
la connessione internet. Dove puoi andare a lavorare, quindi il futuro è
nelle città. 
Se per futuro invece intendiamo l’avvenire, cioè quello che dovreb-
be avvenire dopo il futuro e che dovrebbe essere anche programmato,
direi che è ovvio che ci stiamo giocando una partita enorme. Potremmo
salvare il salvabile e cambiare vita, riformulare le cose ed evitare la tra-
gedia. Questo significherebbe anche cambiare il rapporto che abbiamo
con la natura, con le campagne e quindi probabilmente l’avvenire sarà lì.
Quando ci saranno le crisi pandemiche le città si svuoteranno, non per
sei mesi come è avvenuto adesso ma magari per sei anni, per sette anni,
perché le epidemie saranno più incontrollabili, perché la Russia chiuderà
il rubinetto del gas e l’Italia non ha fatto il nucleare e quindi non può
produrre energia, perchè il cibo non è autoprodotto etc. Tutte queste
cose che adesso sembrano dei pezzettini di un puzzle incontrollabile poi
diventeranno una costellazione complessiva e a quel punto la gente dirà
«raccogliamo i nostri cari e andiamo nella campagna dei nonni e intanto ve-
diamo come va». Allora quello lì sarà l’avvenire ovviamente.
L’umanità finirà in modo molto più simile a come è iniziata perché è
un cerchio. Siamo nati in un modo e moriremo in quel modo esattamen-
te come il neonato e il vecchio si somigliano molto di più che l’adulto e
il vecchio o l’adulto e il bambino. Sono rincoglioniti, si pisciano addosso,
non sanno stare a letto. Allo stesso modo l’umanità assomiglierà molto di
più alla sua fine che alla punta del capitalismo avanzato perché la sua fine
sarà nelle campagne, nei boschi con le candele e il suo inizio somigliava
a quello. Solo che noi abbiamo considerato un’alterazione dei duecento-
mila anni di Homo Sapiens (cioè gli ultimi cento anni post-rivoluzione
industriale) come la nostra normalità, la nostra prassi. Ma in realtà l’Ho-
mo Sapiens, in questi duecentomila anni, ne avrà vissuti cinque/seimila e
con la tecnologia e il capitalismo avanzato avrà vissuto qualche secolo. È
una piccola parentesi nell’evoluzione della specie umana, solo che noi la
stiamo considerando come l’avvenire ma in realtà è un’alterazione.
Io credo che le nostre generazioni, tutti i millennials più o meno
sarà la prima generazione adulta a cominciare a vedere la fine di questo
Sistema. Sono abbastanza sicuro che tra vent’anni il mondo potrebbe
essere un posto molto più brutto di com’è adesso. Non più come si diceva
una volta «i tuoi nipoti vedranno la fine del mondo», ma sono abbastanza
sicuro che sicuramente la vedrà mia figlia ma io vedrò l’inizio della fine
del mondo. 

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ML e CP: Nella seconda metà del 2019, l’Intergovernmental Scien-
ce-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services ha pubblicato il
rapporto Escaping the Era of Pandemic (Fuga dalla pandemia), in cui affer-
ma, tra le tante tesi proposte, che siamo entrati in una nuova era il Pandemio-
cene. Se pensiamo che gran parte dell’architettura modernista può essere intesa
come una conseguenza della paura della malattia (Chayka 2020), tanto che
per Illich il mondo intero è diventato un ospedale, in questo momento sarebbe
più giusto pensare all’architettura come luogo della cura o sarà la malattia che
stiamo vivendo a curare l’architettura?

LC: Questo non lo so, ovviamente. È ovvio che tutto il modernismo


è stato un proteggersi dalle malattie, dagli effetti della natura. Se voi pen-
sate a com’erano fatte le cartine, credo ancora nel 700 addirittura, lì dove
non c’erano le terre conosciute, c’era la scritta “Hic sunt leones”. Era tutto
un proteggersi dalla paura delle epidemie e dalla natura e l’architettura
ha fatto una cosa incredibile. Perché Le Corbusier nonostante tutti i suoi
problemi è stato un genio incredibile? Perché è l’architettura che ci ha
dato le possibilità della medicina, del vivere bene, di vivere all’aperto ma
al sicuro, del vivere con un certo tipo di illuminazione.
Senza spazio non ci sarebbe null’altro. Se gli architetti non fossero
stati in grado di pensare a un ospedale, la sanità a cielo aperto non l’avre-
sti potuta fare. È ovvio che è un sapere strutturale e io non credo che per
vizi di forma, e per una passione primitivista, vada tirato giù tutto ciò. È
bellissimo l’architrave della società contemporanea. Noi siamo al sicuro
in questo momento, non ci sono insetti che ci fanno morire. Perché ba-
rattare tutto ciò? Io non credo che ciò vada barattato perché ci piace, ma
perché ad un certo punto andrà barattato perché abbiamo esagerato. Ora
è ovvio che l’architettura, in questo momento, dovrebbe aiutarci non più
a curarci ma a vivere nel rischio. Uno dei grossi problemi che ha avuto
l’epidemia è che ci ha fatto dimenticare che la vita implica il rischio della
morte.
Non si può vivere dentro un preservativo, dentro una campana per-
ché quello non è vivere ma sopravvivere. Ti chiudi in casa, spranghi le
finestre, ti fai portare il cibo da Amazon Prime e speri che quello che ti
porta il cibo, un giorno per sbaglio, non ti tagli la gola, ma comunque il
rischio c’è anche quando l’hai minimizzato. Questa cosa di rimuovere il
rischio dalla vita è una delle cose più gravi che possano esistere, quindi
secondo me il compito dell’architettura è quello di farci vivere agevol-
mente il rischio. Abbiamo bisogno di riportare la natura nelle città. E

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in questo, secondo me, Boeri ha ragione, perché una città come Milano,
che si è riempita di cemento, non avendo la fortuna di Roma che ha
alberi ovunque, è diventata il polo centralizzante della vita economica
e produttiva di questo paese. Ma non c’è un albero neanche se lo cerchi
col cannocchiale. È ovvio che dobbiamo riportare la natura in città però
dovremmo assumercene il rischio.
Quando Le Corbusier è andato a Bogotà per fare il piano rego-
latore e non gliel’hanno fatto fare perché Bogotà è un bordello. Che
cazzo di piano regolatore volevano fare? Alla fine ha piantato gli alberi
sulle colline circostanti. È stata questa la sua operazione. Quelle colline
erano state disboscate dai cartelli della droga per vedere meglio la città.
Quando è andato via ha detto «prima però almeno piantiamo gli alberi» e
ha fatto un’operazione incredibile perché Bogotà è un inferno ma grazie
a quell’uncino enorme di alberi che sono stati piantati nel tessuto colli-
nare attorno alla città sono tornate specie di insetti infettivi, sono tornati
uccelli e altri animali che prima non c’erano. Allora è chiaro che noi do-
vremmo immaginarci anche un’architettura che nel ridarci certe cose ci
dà anche il rischio della vita.
Non possiamo avere gli alberi nel senso di avere la quercia all’ultimo
piano del Bosco Verticale perché a quel punto non abbiamo riportato la
natura in città ma un’idea di natura. Come se fosse uno zoo. Noi dobbia-
mo assumerci il rischio dei cinghiali che passeggiano per Roma. È quella
la cosa: provare a ridare una dimensione di rischio alla costruzione, una
dimensione di rischio alla progettazione. È finito il momento in cui ci
dovevamo solo proteggere, quello del modernismo appunto. Oggi è evi-
dente che a furia di proteggerci stiamo rischiando di non vivere. Quindi
bisogna enormemente riaprire la casa che andrebbe ripensata profonda-
mente. La casa è una struttura antica, patriarcale, protettiva nei confronti
del mondo esterno. Ci sono funzioni a cui dovevano corrispondere delle
stanze che per molti ragazzi non hanno più senso: le lavanderie, la cuci-
na. C’è gente che mangia solo su Just Eat. Perché devo buttare la stanza
di una casa per una cucina? Magari ci faccio uno studio o un cinema.
Dovremmo pensare a delle strutture molto più perforabili, a delle
case molto più comunicabili tra loro. Se avessimo avuto un’idea diversa
da quella del condominio, l’epidemia sarebbe stata molto diversa. Se i
palazzi fossero stati simili alle canoniche di un tempo, in cui la gente
comunicava, faceva la pasta insieme, o se avessimo avuto la possibilità di
utilizzare i tetti delle nostre città. Non abbiamo mai utilizzato i tetti dei
nostri palazzi. Pensate Londra cos’è. Su ogni tetto c’è un bar, una piscina,

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un rooftop. Noi ci mettiamo le antenne. Perché i palazzi non potrebbero
sfruttare i tetti? Ma noi filosofi possiamo dire quattro cazzate, gli archi-
tetti invece hanno la possibilità di mettere le mani in pasta.

Leonardo Caffo, filosofo. È co-curatore del Public Program 2020 di Trien-


nale Milano. Insegna Filosofia teoretica al Politecnico di Torino e Fenomenologia
delle arti visive contemporanee alla NABA di Milano. Conduttore e autore di Rai
Radio 3, collabora con il Corriere della Sera. Tra le sue opere, ricordiamo  A
come animale (2015) e Costruire futuri (2018) pubblicate da Bompiani, La vita
di ogni giorno (2016), Fragile umanità(2017) e Vegan (2018) uscite per Einaudi.
Con nottetempo, nel 2020, ha pubblicato il saggio Dopo il Covid-19 e Quattro
capanne o della semplicità.

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