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Egemonia e filosofia

Filosofia dell’Interpretazione (MFIL-01)

Prof. Marcello Mustè

Corso di laurea magistrale

Anno Accademico 2019-2020

Secondo semestre
12 CFU
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Lezione 1

Il corso di questo semestre è dedicato al concetto di egemonia e in parti-


colare all’autore che ne ha offerto lo sviluppo più ampio e approfondito, oltre
che più influente nella cultura europea. Come vedremo, il concetto di ege-
monia non appartiene solo a Gramsci, ha una storia complessa e anche una
stringente attualità, non solo sul piano delle teorie politiche. La vicenda risale
alle origini della cultura greca (da Erodoto alla letteratura cristiana dei primi
secoli dopo Cristo) e arriva fino ai nostri giorni. Dopo Gramsci ha avuto un
notevole sviluppo, sia nel marxismo (nel 2017 la rivista «Materialismo stori-
co» ha dedicato un’ampia ricognizione all’«egemonia dopo Gramsci») sia
nel discorso scientifico, con particolare riguardo allo studio delle relazioni
internazionali. Negli anni Trenta e Quaranta del Novecento, indipendente-
mente da Gramsci, il concetto di egemonia è stato adoperato da autori come
Heinrich Triepel (L’egemonia, 1938) e Ludwig Dehio (Equilibrio o egemo-
nia, 1948) per interpretare le mire espansionistiche della Germania nazista.
Nel secondo dopoguerra le categorie di egemonia ed equilibrio resteranno
centrali nella lettura della guerra fredda e anche del periodo successivo alla
caduta del Muro. Mi limito a ricordare gli scritti di Robert Gilpin (Guerra e
mutamento nella politica internazionale, 1981), il libro di Kissinger (Ordine
mondiale, 2014), gli studi di Giovanni Arrighi (Il lungo XX secolo, 1994). Al
centro di queste analisi è il rapporto Usa-Cina in un mondo interdipendente:
in Kissinger, per esempio, il rapporto tra potere e legittimità traduce e svi-
luppa la coppia tradizionale equilibrio-egemonia o quella, ancora più antica,
di forza e consenso.

Nota 1

Gramsci, dunque, non è il creatore o l’inventore dell’egemonia. Questo


concetto attraversa tutta la storia della cultura europea. Per avvicinarlo dob-
biamo seguire due linee di ricerca. In primo luogo sorge un problema storico,
più precisamente di storia delle idee (si pensi a Lovejoy, La grande catena
dell’essere del 1936: agli sviluppi in Isaiah Berlin per l’idea di libertà, in Mi-
chel Foucault per l’idea di follia). Si tratta di ricostruire il percorso che que-
sta idea, o almeno questa formula, ha avuto nella cultura europea. Le sue ori-
gini sono certamente greche. Nella lingua greca troviamo il sostantivo ege-
monìa (guida, direzione, autorità, preminenza, comando); egemòn, che signi-
fica guida, comandante; ma anche il verbo egèomai, che vuole “dire colui
che va inn”anzi, che precede, che guida; è facile osservare che deriva da àgo,
che ha una notevole gamma di significati, da condurre a educare. Ciò che in-
teressa è che, nella letteratura di lingua greca, il significato di egemonìa
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cambia in maniera significativa. Le tappe principali sono Erodoto (il coman-


do nella guerra contro i Persiani), Tucidide (l’egemonia nel rapporto di
eguaglianza tra le poleis greche), Platone (la saggezza del legislatore), gli
stoici (Crisippo in particolare: la guida della parte razionale dell’anima, il lo-
gos, definito “principio egemonico”). Secondo gli studiosi, il termine si per-
de nella letteratura latina e moderna (prevale l’autorità o la ditattura), per ri-
tornare in Germania e in Italia nell’Ottocento (Ranke, Droysen nel 1833).
Soprattutto in Italia, dove con Gioberti (1851) abbiamo la prima vera, com-
piuta, teoria dell’egemonia (Del Rinnovamento civile dell’Italia). A questo
punto l’egemonia, utilizzata dai teorici della socialdemocrazia tedesca (Kau-
tsky e Axel’rod) migra in Russia e qui si apre un problema di notevole com-
plessità. Gegemonjia e rukovodstvo (direzione) diventano concetti fonda-
mentali della cultura politica russa: nel populismo e anche in Plechanov pri-
ma del 1917, tra il 1917 e il 1924, quindi nella polemica contro Trockji, per
sparire nel 1929. Come ricordate, Gramsci è a Mosca nel 1922 e nel 1923 e
dunque trae qui la principale suggestione.
La seconda linea da seguire è teoretica. Il concetto di egemonia appartie-
ne a una linea di pensiero che possiamo definire realismo storico e politico.
Non è facile definirne con precisione il carattere. La definizione fondamenta-
le si legge nel Principe, XV, dove Machiavelli distingue la «verità effettuale
della cosa» e la «imaginazione di essa». Ma un secondo elemento risale più
indietro, alla sofistica greca, e soprattutto alla definizione della giustizia di
Trasimaco nel primo libro della Repubblica di Platone: «l’utile del più forte».
La giustizia è un prodotto della forza. Il concetto fondamentale è dunque
quello dei rapporti di forza. Solo che il realismo può essere inteso in almeno
due sensi: in senso quantitativo, come dominio del più forte (Tucidide e Nie-
tzsche), dove anche le alleanze (Hobbes, De cive) rispondono allo stesso cri-
terio; oppure in senso qualitativo, come capacità del meno forte di guidare il
più forte per una maggiore qualità strategica, che deriva dalla sua posizione
storica. Anche questa posizione trova nel Principe, XVIII, una radice:
nell’uomo vi è l’umano (le leggi) e il bestiale (la forza: la golpe e il lione). Il
concetto di egemonia implica dunque questa novità sostanziale nel realismo
politico, che diventa appunto un realismo storico e politico.

Nota 2

Heinrich Triepel e Ludwig Dehio segnano una discontinuità importante


nella storia del concetto di egemonia. Triepel indica con chiarezza la distin-
zione fra Hegemonie, dominio e imperialismo. L’egemonia è fissata nel con-
cetto di direzione: è «un rapporto di direzione fra uno Stato e uno o parecchi
altri Stati». La «vera egemonia» è rinuncia al dominio, ha sempre una fun-
zione civilizzatrice nei rapporti internazionali.
L’importanza del libro di Dehio è invece nella precisa definizione della
coppia equilibrio-egemonia come categorie fondamentali nello studio delle
relazioni internazionali. Dehio si interroga sul nazismo, che gli sembra ap-
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punto un tentativo egemonico. Riconosce nella storia quattro disegni egemo-


nici principali: Carlo V, Luigi XIV, Napoleone I e appunto Hitler. Come ve-
dete, a differenza di Triepel, Dehio non distingue bene tra egemonia e domi-
nio. La categoria di equilibrio è il vero antidoto all’egemonia, come costru-
zione di un mondo di Stati liberi, sul modello burckhardtiano della libera El-
lade.
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Lezione 2

1. Nella lezione precedente ho provato a offrirvi un primo panorama,


molto generale, sulla storia dell’idea di egemonia. Questa ricerca serve per
collocare la riflessione di Gramsci nel posto giusto, all’interno di una vicen-
da molto complessa, senza cadere nell’equivoco che il concetto di egemonia
sia una creazione estemporanea di questo autore. Inoltre potrà aiutarci a
sciogliere uno dei problemi più difficili nelle interpretazioni, che riguarda la
genesi dell’egemonia in Gramsci. Come vedremo, è proprio su questo aspet-
to che si sono maggiormente divisi gli interpreti. Gramsci appartiene dunque
alla storia dell’egemonia, ma bisogna vedere come.
Abbiamo visto che in termini di History of Ideas (Lovejoy, Berlin, Fou-
cault), possediamo due risorse metodologiche: una risorsa storica, che ci por-
ta a seguire le migrazioni del concetto dalla Grecia classica alla Germania
del primo Ottocento, fino al punto alto (sotto il profilo filosofico) rappresen-
tato da Gioberti; quindi alla vicenda della socialdemocrazia tedesca dopo Er-
furt e nella Russia del populismo, prima e dopo la rivoluzione, fino al 1929,
quando l’idea decade, esce di scena, e viene ripresa in Italia da Gramsci. Ma
nello stesso periodo trova una elaborazione decisiva in Heinrich Triepel
(1938), che distingue con precisione egemonia, dominio, imperialismo (e
sottolinea la «funzione civilizzatrice» dell’egemonia), e in Ludwig Dehio
(1948), che fissa il paradigma epistemologico delle relazioni internazionali
nella dialettica di egemonia ed equilibrio e nella dottrina dei quattro disegni
egemonici della storia (Carlo V, Luigi XIV, Napoleone, Hitler). La storia
successiva usa in parte il modello di Triepel (egemonia=consenso) in parte
quello di Dehio (egemonia ed equilibrio): abbiamo accennato ad alcuni svi-
luppi contemporanei nel neorealismo di Robert Gilpin (1981), nel marxismo
di Arrighi (1994), nell’Ordine mondiale di Kissinger (2014) con la dialettica
di potere e legittimità. A questo vanno aggiunti gli sviluppi della teoria
dell’egemonia che possiamo definire post-gramsciani: naturalmente la gran-
de opera di Wallerstein, ma poi Tosel, Laclau, Said e molti altri. Si tratta di
capire la posizione che occupa Gramsci in questa storia.
Questa è la risorsa storica. La seconda risorsa di cui disponiamo (così ab-
biamo detto) è teoretica. Si tratta di comprendere, in maniera preliminare, la
struttura teorica di una categoria così influente. A un primo sguardo
l’egemonia ci è parsa appartenere alla storia del realismo. La definizione più
elementare del realismo moderno si legge in Machiavelli, Principe, XV: la
«verità effettuale della cosa» e la «immaginazione di essa». Sono le due
grandi linee del pensiero politico moderno. Ma abbiamo aggiunto un ulterio-
re aspetto, che viene dal Trasimaco della Repubblica platonica: la giustizia è
«l’utile del più forte». Proprio una categoria gramsciana è al centro del reali-
smo: i rapporti di forza. Solo che i rapporti di forza possono essere intesi in
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senso quantitativo o qualitativo. Anche qui bisogna pensare a Machiavelli,


Principe, XVIII. L’egemonia svolge il realismo dei rapporti di forza nel sen-
so della qualità: il più debole può assumere la direzione del processo se pos-
siede una maggiore capacità strategica, che gli è conferita dalla posizione
storica e dalla razionalità strategica. Il caso esemplare è l’alleanza tra operai
e contadini nei punti bassi, negli anelli deboli, del capitalismo (Russia e Italia,
poi Cina e India).

2. Rispetto a questa vicenda, Gramsci si presenta subito come l’autore


che ha cercato di conferire al concetto di egemonia uno spessore teorico, e
soprattutto un profilo filosofico, particolarmente impegnativo. In Gramsci
troviamo uno sviluppo del concetto, che dal significato iniziale ne trasforma
il senso nel corso di un decennio, fino a concepire l’egemonia come il fulcro
di una teoria generale della democrazia e delle sue crisi (le crisi organiche,
appunto). Chi vuole studiare l’egemonia in Gramsci, deve dunque avere la
pazienza di seguire le diverse fasi di questo sviluppo, di questa progressiva
metamorfosi del concetto. Per questo è così importante il metodo filologico e
cronologico che inaugurammo nella riunione nella commissione scientifica
della Fondazione Gramsci del 3 luglio 1991 (dopo gli studi pionieristici di
Francioni, Vacca, Mangoni, De Felice, Ciliberto e altri interpreti) e che è alla
base della nuova Edizione Nazionale.
Per questo lo studio dell’egemonia in Gramsci presenta difficoltà specifi-
che. La prima difficoltà consiste nel fatto che non esiste, nell’opera di Gram-
sci, una definizione in senso stretto (quello che spesso chiedono i filosofi),
cioè un testo dove il problema sia trattato in maniera specifica, diretta ed
esauriente. Il concetto di egemonia attraversa tutta la riflessione di Gramsci.
Possiamo definirlo un concetto reticolare, nel senso che è il filo rosso che
connette, tiene insieme, i molteplici ambiti tematici che costituiscono la tra-
ma dei quaderni. Ogni analisi aggiunge qualcosa, arricchisce il senso
dell’egemonia, senza tuttavia risolverlo. Osservata nel suo insieme, tutta
l’opera di Gramsci (non solo nei quaderni, ma dal 1923-1924) rappresenta
una specie di analitica dell’egemonia, una ricerca delle condizioni, dei pre-
supposti, del significato, di un pensiero dell’egemonia.

3. Per avere un’idea di questo carattere reticolare, possiamo volgere bre-


vemente lo sguardo ai piani di lavoro che, dopo l’arresto, Gramsci elaborò a
più riprese, comunicandoli a Tatiana Schucht o scrivendoli nei suoi quaderni.
Lo studio dei piani di lavoro fornisce una immagine molto utile del work in
progress dei quaderni. Possediamo otto piani di lavoro, scritti fra il 1927 e il
1932. Ciascuno fissa una fase, un passaggio importante, nel lavoro di Gram-
sci. In nessuno di essi compare l’espressione “egemonia”.
I primi due programmi risalgono al marzo e al maggio 1927, quando
Gramsci si trova nel carcere milanese di San Vittore. Ricordiamo che era sta-
to arrestato a Roma l’8 novembre 1926, alle 22,30, presso l’abitazione di
Clara Passarge dove risiedeva in via Morgagni 25. Fino al 25 novembre, per
16 giorni, rimase nel carcere di Regina Coeli, per essere poi assegnato al
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confino di Ustica, dove trascorse 44 giorni. Gramsci era stato fermato (nono-
stante l’immunità parlamentare) per reati connessi al «sovvertimento delle
istituzioni statali con la violenza». La situazione si aggravò dopo
l’emanazione delle leggi speciali, il 6 dicembre 1926 (in seguito all’attentato
a Mussolini del 31 ottobre attribuito ad Anteo Zamboni), e il trasferimento
della pratica al Tribunale speciale. A quel punto furono emessi tre mandati di
cattura, che giustificarono il rinvio a giudizio del 20 febbraio 1928. Quindi fu
trasferito nel carcere di San Vittore, a Milano (il lungo viaggio inizia il 20
gennaio), in attesa del processo. Lascerà Milano per Roma l’11 maggio 1928.
Il “processone” iniziò il 28 maggio. Come è noto, fu condannato a 20 anni, 4
mesi e 5 giorni di carcere, oltre la multa di 6200 lire. Ricordiamo che a Mila-
no Gramsci poteva leggere, ma non scrivere in cella (solo due lettere a setti-
mana).
Il 19 marzo 1927 (quindi da Milano) Gramsci comunica a Tatiana
l’intenzione di dedicarsi a uno studio disinteressato, für ewig, e fissa 4 argo-
menti di studio: una ricerca sugli intellettuali italiani, uno studio di linguisti-
ca comparata, uno studio sul teatro di Pirandello, un saggio sui romanzi di
appendice e il gusto popolare in letteratura.

La mia vita trascorre sempre ugualmente monotona. Anche lo studiare è molto più
difficile di quanto non sembrerebbe. Ho ricevuto qualche libro e in verità leggo molto (più
di un volume al giorno, oltre i giornali), ma non è a questo che mi riferisco; intendo altro.
Sono assillato (è questo fenomeno proprio dei carcerati, penso) da questa idea: che biso-
gnerebbe fare qualcosa «für ewig», secondo una complessa concezione di Goethe, che
ricordo aver tormentato molto il nostro Pascoli. Insomma, vorrei secondo un piano pre-
stabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbis-
se e centralizzasse la mia vita interiore. Ho pensato a quattro soggetti finora, e già questo
è un indice che non riesco a raccogliermi e cioè: -1° una ricerca sulla formazione dello
spirito pubblico in Italia nel secolo scorso; in altre parole, una ricerca sugli intellettuali
italiani, e loro origini, i loro raggruppamenti secondo le correnti della cultura, i loro diver-
si modi di pensare ecc. ecc. Argomento suggestivo in sommo grado, che io naturalmente
potrei solo abbozzare nelle grandi linee, data l'assoluta impossibilità di avere a disposi-
zione l'immensa mole di materiale che sarebbe necessaria. Ricordi il rapidissimo e super-
ficialissimo mio scritto sull'Italia meridionale e sulla importanza di B. Croce? Ebbene,
vorrei svolgere ampiamente la tesi che avevo allora abbozzato, da un punto di vista «di-
sinteressato», «fur ewig». - 2° Uno studio di linguistica comparata! Niente meno. Ma che
cosa potrebbe essere più «disinteressato» e für ewig di ciò? […] 3° Uno studio sul teatro
di Pirandello e sulla trasformazione del gusto teatrale italiano che il Pirandello ha rappre-
sentato e ha contribuito a determinare. Sai che io, molto prima di Adriano Tilgher, ho
scoperto e ho contribuito a popolarizzare il teatro di Pirandello? Ho scritto sul Pirandello,
dal 1915 al 1920, tanto da mettere insieme un volumetto di 200 pagine e allora le mie af-
fermazioni erano originali e senza esempio: il Pirandello era o sopportato amabilmente o
apertamente deriso. - 4° Un saggio sui .... romanzi di appendice e il gusto popolare in let-
teratura.

Quindi conclude con queste importanti parole:

Che te ne pare di tutto ciò? In fondo, a chi bene osservi, tra questi quattro argomenti
esiste omogeneità: lo spirito popolare creativo, nelle sue diverse fasi e gradi di sviluppo, è
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alla base di essi in misura uguale. Scrivimi le tue impressioni; io ho molta fiducia nel tuo
buon senso e nella fondatezza dei tuoi giudizi.

Il concetto principale, che unifica i quattro argomenti di studio, è «lo spi-


rito popolare creativo». L’espressione ha una grande importanza e indica la
prima direzione della ricerca di Gramsci. Questa formula – spirito popolare
creativo – non tornerà più nell’opera di Gramsci. Ma il tema della formazio-
ne dello spirito popolare diventerà il senso comune, il processo stesso di
formazione della cultura nazionale, nell’interazione reciproca di intellettuali
e semplici (o anche: Rinascimento e Riforma). Come dirà nel Quaderno 11:
«tutti gli uomini sono filosofi». Cioè la filosofia non è la creazione di una
élite di specialisti, ma appartiene al linguaggio, alla religione popolare, al
folclore. Il filosofo chiarifica e critica la filosofia del senso comune.
Nel testo che abbiamo letto va sottolineata quella formula – für ewig –
che ha dato luogo a molti equivoci. Possiamo dire che la lettura del für ewig
divide in due la storia delle interpretazioni. Alcuni la hanno intesa come se
Gramsci dichiarasse il desiderio di un puro lavoro intellettuale, di un disim-
pegno dalla politica. Al contrario, tutta la riflessione di Gramsci resterà anco-
rata al problema politico, alla costruzione di una teoria legata alla prassi. Sul
tema del disinteresse tornerà d’altronde in una lettera a Tatiana del 15 di-
cembre 1930, dove scrive così, rendendo chiaro lo stile dei quaderni, sempre
legati all’attualità politica:

Sarà perché tutta la mia formazione intellettuale è stata di ordine polemico; anche il
pensare «disinteressatamente» mi è difficile, cioè lo studio per lo studio. Solo qualche
volta, ma di rado, mi capita di dimenticarmi in un determinato ordine di riflessioni, e di
trovare per dir così, nelle cose in sé l’interesse per dedicarmi alla loro analisi. Ordinaria-
mente mi è necessario pormi da un punto di vista dialogico o dialettico, altrimenti non
sento nessuno stimolo intellettuale. Come ti ho detto una volta, non mi piace tirar sassi nel
buio; voglio sentire un interlocutore o un avversario in concreto; anche nei rapporti fami-
liari voglio fare dei dialoghi [Giulia]. Altrimenti mi sembrerebbe di scrivere un romanzo
in forma epistolare, che so io, di fare della cattiva letteratura.

Come abbiamo visto Gramsci di riferisce a due testi. Conviene ricordarli.


Il primo (in ordine cronologico) è la lirica di Goethe, intitolata appunto Für
ewig.

Für ewig

Denn was der Mensch in seinen Erdeschranken


Von hohem Glück mit Götternamen nennt:
Die Harmonie der Treue, die kein Wanken,
Der Freundschaft, die nicht Zweifelsorge kennt;
Das Licht, das Weisen nur zu einsamen Gedanken,
Das Dichtern nur in schönen Bildern brennt:
Das hatt' ich all, in meinen besten Stunden
In ihr entdeckt und es für mich gefunden.
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Il secondo riferimento è a una lirica di Pascoli, Per sempre, che si legge


nei Canti di Castelvecchio del 1903Gramsci possiede in carcere una edizione
del 1914, su cui è scritta la data del 1921: forse la tiene sotto gli occhi quan-
do scrive quella lettera. In Pascoli emerge la nota drammatica di una ripeti-
zione che è morte. A questo allude Gramsci parlando del «tormento» del Pa-
scoli intorno al motivo del für ewig.

Io t’odio?!... Non t’amo più, vedi,

non t’amo... Ricordi quel giorno?

Lontano portavano i piedi

un cuor che pensava al ritorno.

5E dunque tornai... tu non c’eri.

Per casa era un’eco dell’ieri,

d’un lungo promettere. E meco

di te portai sola quell’eco:

per sempre!

10Non t’odio. Ma l’eco sommessa

di quella infinita promessa

vien meco, e mi batte il cuore

col palpito trito dell’ore;

mi strilla nel cuore col grido

15d’implume caduto dal nido:

per sempre!

Non t’amo. Io guardai, col sorriso,

nel fiore del molle tuo letto.

Ha tutti i tuoi occhi, ma il viso...

20non tuo. E baciai quel visetto

straniero, senz’urto alle vene.


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Le dissi: «E a me, mi vuoi bene?»

«Sì, tanto!» E i tuoi occhi in me fisse.

«Per sempre?» le dissi. Mi disse:

25per sempre!

Risposi: «Sei bimba e non sai

Per sempre che voglia dir mai!»

Rispose: «Non so che vuoi dire?

Per sempre vuol dire Morire...

30sì: addormentarsi la sera:

restare così come s’era,

per sempre!

Pascoli rappresenta un triangolo, la scena di un abbandono che contrasta


con la parola che recita la promessa di un amore eterno. Il nuovo amore, or-
mai senza passione (senz’urto alle vene), che ripete le stesse parole
dell’amata (E i tuoi occhi in me fisse). Ma il nuovo amore svela, con qualche
cinismo, il significato autentico della promessa di amore eterno: esso è morte,
cioè ripetizione senza vita e passione. L’abbandono era già iscritto nella
promessa contraddittoria, di amore eterno e di morte, che contrastava con la
passione.

4. Poco tempo dopo, il 23 maggio 1927, ancora da Milano, Gramsci ag-


giunge un altro elemento al suo programma, cioè lo studio delle lingue. Scri-
ve così:

Sono proprio deciso a fare dello studio delle lingue la mia occupazione predominante;
voglio sistematicamente riprendere, dopo il tedesco e il russo, l'inglese, lo spagnolo e il
portoghese che avevo studiacchiato negli anni scorsi; inoltre il rumeno, che avevo studiato
all'università solo nella sua parte neolatina e che ora penso di poter studiare completamen-
te, cioè anche per la parte slava del suo dizionario (che poi è più del 50% del vocabolario
rumeno).

Quando Gramsci, nel 1929, avrà possibilità di scrivere in cella su quader-


ni scolastici, questo studio delle lingue acquisterà una certa importanza, por-
tando alla composizione dei Quaderni A, B, C, D e alle traduzioni del Qua-
derno 7 (Marx dall’antologia di Ernst Drahn) del 1930-1931 e del Quaderno
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9 (l’antologia russa) del 1929. Riguarderanno prevalentemente la lingua te-


desca (“Die Literarische Welt”, Goethe, i fratelli Grimm, ecc.) ma anche
un’antologia russa e qualche esercizio di inglese. Solo dal 2007 abbiamo,
nella Edizione Nazionale, l’edizione critica di questi quaderni di traduzione.

5. Il programma di lavoro si precisa quando a Gramsci, arrivato a Turi,


viene concesso il diritto di scrivere in cella su quaderni scolastici. Come è
noto, questo diritto venne riconosciuto, sulla base del regolamento carcerario
vigente (quello del 1891), nel gennaio 1929 dopo istanza della madre a Mus-
solini e la composizione dei quaderni iniziò l’8 febbraio.
Nelle lezioni precedenti abbiamo ricordato due aspetti, che ora mi limito
a indicare: 1) l’art. 325 del regolamento e il nuovo regolamento del 1931. La
comunicazione di Parmegiani a Mussolini. 2) Il “sistema cella-magazzino”.
La testimonianza di Gustavo Trombetti e la relazione di Tatiana a Sraffa. Il
controllo sui quaderni: l’episodio di Filippo Saporito e l’intervista di Musso-
lini.
Sul recto e il verso della prima carta del Quaderno 1, datata 8 febbraio
1929, Gramsci scrive infatti l’elenco dei 16 argomenti principali, che di fatto
iniziano la stesura dei quaderni. Nel manoscritto c’è una sola correzione, al
punto 5: “struttura” al posto di “economia”. È probabile che sia inserita dopo
il 1930, quando Gramsci si dedica allo studio di Croce e Dante, al rapporto
fra “poesia” e “struttura”.

1) Teoria della storia e della storiografia.


2) Sviluppo della borghesia italiana fino al 1870.
3) Formazione dei gruppi intellettuali italiani: svolgimento, atteggiamenti.
4) La letteratura popolare dei «romanzi d’appendice» e le ragioni della sua persistente
fortuna.
5) Cavalcante Cavalcanti: la sua posizione nella struttura e nell’arte della Divina
Commedia.
6) Origini e svolgimento dell’Azione Cattolica in Italia e in Europa.
7) Il concetto di folklore.
8) Esperienze della vita in carcere.
9) La «quistione meridionale» e la quistione delle isole.
10) Osservazioni sulla popolazione italiana: sua composizione, funzione
dell’emigrazione.
11) Americanismo e fordismo.
12) La quistione della lingua in Italia: Manzoni e G. I. Ascoli.
13) Il «senso comune» (cfr 7).
14) Riviste tipo: teorica, critico-storica, di cultura generale (divulgazione).
15) Neo-grammatici e neo-linguisti («questa tavola rotonda è quadrata»).
16) I nipotini di padre Bresciani.

È interessante evidenziare gli elementi di continuità con il piano prece-


dente del 19 marzo 1927 e le novità che intervengono. La continuità con il
progetto sullo «spirito popolare creativo» è evidente nei punti 2-3, 4, 12-15.
Le novità principali riguardano i punti 1, 9, 11. Il punto 1 è legato al ritorno
di interesse per Croce e alla richiesta del libro di Bucharin nella lettera del 25
12

marzo 1929 (che il libro di Bucharin non sia presente nel Fondo Gramsci è
un’altra questione, legata alla decisione di Ambrogio Donini, allora direttore
dell’Istituto Gramsci, di farlo sparire per motivi ideologici, come si evince
dalla lettera che inviò a Togliatti del 18 novembre 1952, dopo il ritorno dei
libri in Italia nel 1950). Gramsci scrisse a Tatiana:

Sulla teoria della storia vorrei avere un volume francese uscito recentemente: Boukha-
rine - Théorie du matérialisme historique, Editions Sociales – Rue Valette 3, Paris (V) e
le Oeuvres philosophiques di Marx, pubblicate dall’ed. Alfred Costes – Paris: Tome I:
Contribution à la critique de la Philosophie du droit de Hegel – Tome II: Critique de la
critique critique, contro Bruno Bauer e consorti. – I libri più importanti di Benedetto Cro-
ce in proposito li ho già.

Qui Gramsci dichiara le tre fonti essenziali della sua riflessione sulla sto-
ria: Marx, Croce, Bucharin.
Il punto 9 è legato alla nuova riflessione che, a partire dal Quaderno 1,
Gramsci dedica all’articolo del 1926 sulla questione meridionale, autentica
base di partenza dei quaderni.
Il punto 11 è connesso invece con il fascicolo della rivista «Die literari-
sche Welt» sulla letteratura americana, che riceve nel 1927 e traduce dal te-
desco nel Quaderno A.
Come vedete, la parola “egemonia” non compare mai. Ma ciascuno di
questi argomenti rappresenta un lato, un aspetto, della questione dell’ege-
monia.

6. Altri 3 piani di lavoro vengono comunicati a Tatiana fra il marzo del


1929 e l’agosto del 1931. Sono lettere e per fortuna abbiamo le date. Inutile
dire che questi piani di lavoro rispondevano alla richiesta pressante di infor-
mazioni da parte della centrale estera del partito ed entravano quindi nel cir-
cuito costituito da Tatiana, Sraffa e Togliatti. Il 25 marzo 1929 Gramsci
spiega a Tatiana che vuole occuparsi di soli 3 temi:

Ho deciso di occuparmi prevalentemente e di prendere note su questi tre argomenti: -


1° La storia italiana nel secolo XIX, con speciale riguardo della formazione e dello svi-
luppo dei gruppi intellettuali; - 2° La teoria della storia e della storiografia; 3° L'america-
nismo e il fordismo.

La lettera del 25 marzo segue di poco tempo l’elenco degli «argomenti


principali». È probabilmente un periodo di interruzione nella stesura dei qua-
derni e di studio delle lingue. Gramsci “asciuga” il piano di lavoro concepito
in 16 argomenti intorno a questi tre temi, strettamente connessi, che rappre-
sentano i tre aspetti capitali della teoria dell’egemonia.

7. Oltre un anno dopo, il 17 novembre 1930, il quadro si è precisato,


Gramsci sembra ormai concentrato sul grande tema degli intellettuali italiani,
della funzione cosmopolitica degli intellettuali nella storia italiana:
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Mi sono fissato su tre o quattro argomenti principali, uno dei quali è quello della fun-
zione cosmopolita che hanno avuto gli intellettuali italiani fino al Settecento, che poi si
scinde in tante sezioni: il Rinascimento e Machiavelli, ecc. Se avessi la possibilità di con-
sultare il materiale necessario, credo che ci sarebbe da fare un libro veramente interessan-
te e che ancora non esiste; dico libro, per dire solo l'introduzione a un certo numero di
lavori monografici, perché la quistione si presenta diversamente nelle diverse epoche e
secondo me bisognerebbe risalire ai tempi dell'Impero Romano. Intanto scrivo delle note,
anche perché la lettura del relativamente poco che ho mi fa ricordare le vecchie letture del
passato.

Come vedete, non si parla più solo della funzione degli intellettuali, della
formazione e dello sviluppo dei gruppi intellettuali, ma è ormai definito con
precisione il centro della questione: il cosmopolitismo come carattere della
storia italiana e il problema delle origini dello spirito nazionale. Il problema
dell’egemonia non riguarda più solo il rapporto Nord-Sud, ma si allarga a
una considerazione generale del cosmopolitismo delle classi dirigenti italiane.
Tenete presente che la questione del cosmopolitismo è tra le più impor-
tanti e difficili dei quaderni. In un primo periodo indica il carattere differen-
ziale della storia degli intellettuali italiani (Impero, Chiesa), dunque un fatto-
re di arretratezza, ma poi arriva a significare il germe di un cosmopolitismo
di tipo nuovo, una risorsa, la possibile base di un nuovo internazionalismo.

8. Ma il 3 agosto 1931, pur ribadendo la centralità del tema degli intellet-


tuali, emergono i segni di quella crisi che poco tempo dopo, agli inizi del
1932, condurrà alla stesura dei primi quaderni “speciali”. Questa lettera è
scritta lo stesso giorno della grave crisi che lo colpisce in carcere e che egli
comunica a Tatiana nelle due lettere del 17 agosto 1931 e del 20 febbraio
1933. Questa crisi fisica è anche intellettuale e si prolunga dall’agosto 1931
agli inizi del 1932 e segna profondamente il carattere e il progetto dei qua-
derni speciali. Il 17 agosto 1931 scrive a Tatiana:

Carissima Tatiana, ti ho accennato, la volta scorsa, a una certa indisposizione che mi


tormentava. Te la voglio oggi descrivere il più oggettivamente che mi sarà possibile e con
tutti quei particolari che mi sembrano essenziali. Incominciò così: - all’una del mattino
del 3 agosto, proprio 15 giorni fa, ebbi uno sbocco di sangue, all’improvviso. Non si trattò
di una vera e propria emorragia continuata, di un flusso irresistibile come ho sentito de-
scrivere da altri: sentivo un gorgoglio nel respirare come quando si ha del catarro, seguiva
un colpo di tosse e la bocca si riempiva di sangue. La tosse non era violenta e neppure
forte: proprio la tosse che viene quando si ha un qualcosa di estraneo in gola, a colpi iso-
lati, senza accessi continuati e senza orgasmo. Ciò durò fino alle quattro circa e in questo
frattempo cacciai fuori 250-300 grammi di sangue. In seguito non mi vennero più boccate
di sangue, ma ad intervalli del catarro con grumi di sangue. Il medico, dottor Cisternini,
mi ordinò il «cloruro di calcio con adrenalina al millesimo» e disse che avrebbe sorveglia-
to il decorso del male. Il mercoledì, 5 agosto, il medico mi auscultò ed escluse che si trat-
tasse di affezione ai bronchi; emise l’ipotesi che la febbre, che intanto si era manifestata,
potesse essere di origine intestinale. Il catarro con grumi sanguigni (non molto abbondan-
te né frequente) mi è durato fino a qualche giorno fa: da qualche giorno i grumi sono
completamente spariti; anche se talvolta mi è venuto qualche accesso di tosse relativa-
mente forte non ho sputato neanche catarro; si trattava quindi di tosse nervosa accidentale.
14

Un anno e mezzo dopo, il 20 febbraio 1933, ricorda ancora l’episodio,


che veramente taglia in due l’esperienza nel carcere di Turi (che lascerà il 19
novembre per la clinica di Civitavecchia) alla sorella Teresina:

Quasi un anno e mezzo fa (precisamente il 3 agosto 1931) ho avuto una crisi un po’
forte, e dopo non sono riuscito più a rimettermi in carreggiata. Mentre prima il tempo mi
passava con una certa facilità, anzi mi pareva a me stesso che passasse senza che me ne
accorgessi, da allora tutto è cambiato: sento le settimane le ore e i minuti e tutto mi grava
e mi pesa come se qualcuno mi limasse i nervi. Questo lo scrivo per te, per spiegarti la
mia vita. Sono come un meccanismo guasto: cause futili producono effetti sproporzionati,
e magari cause che sembrerebbero gravi non producono nessun effetto. Sono diventato
insensibile per tutta una serie di cause e invece mi pare di essere scorticato vivo per le
piccole cose. Se dovessi dire quale sia l’ideale che vagheggio sarebbe questo: di non aver
rapporti con nessuno, di essere dimenticato da tutti e dimenticare tutto e fare la vita di una
bestia nel suo covile. Ma forse se così avvenisse non sarei neppure soddisfatto.

Nella lettera a Tatiana del 3 agosto 1931 Gramsci dichiara di non avere
più un vero programma di studio e di lavoro.

Si può dire che ormai non ho più un vero programma di studi e di lavoro e natural-
mente ciò doveva avvenire. Io mi ero proposto di riflettere su una certa serie di quistioni,
ma doveva avvenire che a un certo punto queste riflessioni avrebbero dovuto passare alla
fase di una documentazione e quindi ad una fase di lavoro e di elaborazione che domanda
grandi biblioteche. Ciò non vuol dire che perda completamente il tempo, ma, ecco, non ho
più delle grandi curiosità in determinate direzioni generali, almeno per ora. Ti voglio dare
un esempio: uno degli argomenti che più mi ha interessato in questi ultimi anni è stato
quello di fissare alcuni aspetti caratteristici nella storia degli intellettuali italiani. Questo
interesse nacque da una parte dal desiderio di approfondire il concetto di Stato e dall'altra
parte di rendermi conto di alcuni aspetti dello sviluppo storico del popolo italiano. Pur
restringendo alle linee essenziali la ricerca, essa rimane tuttavia formidabile. Bisogna ne-
cessariamente risalire all'Impero Romano e alla prima concentrazione di intellettuali «co-
smopoliti» («imperiali») che esso determinò: studiare quindi la formazione dell'organiz-
zazione chiericale cristiano-papale che dà all'eredità del cosmopolitismo intellettuale im-
periale una forma castale europea ecc. ecc. Solo così, secondo me, si spiega che solo dopo
il 700, cioè dopo l'inizio delle prime lotte tra Stato e Chiesa col giurisdizionalismo, si pos-
sa parlare di intellettuali italiani «nazionali»: fino allora, gli intellettuali italiani erano co-
smopoliti, esercitarono una funzione universalistica (o per la Chiesa, o per l'Impero) ana-
zionale, contribuirono a organizzare altri Stati nazionali come tecnici e specialisti, offriro-
no «personale dirigente» a tutta l'Europa, e non si concentrarono come categoria naziona-
le, come gruppo specializzato di classi nazionali. Come vedi questo argomento potrebbe
dar luogo a tutta una serie di saggi, ma per ciò è necessaria tutta una ricerca erudita. Così
avviene per altre ricerche. Bisogna anche tener conto che l'abito di severa disciplina filo-
logica, acquistato durante gli studi universitari, mi ha dato un'eccessiva, forse, provvista
di scrupoli metodici.

8. Per cogliere lo sviluppo decisivo del programma di lavoro di Gramsci,


bisogna volgersi alla struttura del Quaderno 8. Nelle carte 1 recto e 1 verso
troviamo in successione due programmi molto articolati. Essi appartengono
15

a due epoche diverse, il primo può essere datato nel novembre-dicembre


1930, il secondo nel marzo-aprile 1932.
La struttura del Quaderno 8 ci offre un esempio paradigmatico del modo
di lavorare di Gramsci e sul suo uso dei quaderni scolastici. Schematizzando,
il quaderno venne scritto in questo ordine:

1 c. 1 recto e verso (nov.-dic. 1930)


2 c. 51-80 (3° serie degli Appunti di filosofia, perché ha concluso lo spa-
zio del Quaderno 7 (nov. 1931- mag. 1932)
3 c. 3recto-50verso (gen. 1932-mag. 1932)
4 c. 2recto (mar.-apr. 1932)

Alla carta 1 si trova un elenco di 22 saggi principali:

Saggi principali: Introduzione generale. Sviluppo degli intellettuali italiani fino al


1870: diversi periodi. – La letteratura popolare dei romanzi d’appendice. – Folclore e sen-
so comune. – La quistione della lingua letteraria e dei dialetti. – I nipotini di padre Bre-
sciani. – Riforma e Rinascimento. – Machiavelli. – La scuola e l’educazione nazionale. –
La posizione di B. Croce nella cultura italiana fino alla guerra mondiale. – Il Risorgimen-
to e il partito d’azione. – Ugo Foscolo nella formazione della retorica nazionale. – Il teatro
italiano. – Storia dell’Azione Cattolica: Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. – Il Comu-
ne medioevale, fase economico-corporativa dello Stato. – Funzione cosmopolitica degli
intellettuali italiani fino al secolo XVIII. – Reazioni all’assenza di un carattere popolare-
nazionale della cultura in Italia: i futuristi. – La scuola unica e cosa essa significa per tutta
l’organizzazione della cultura nazionale. – Il «lorianismo» come uno dei caratteri degli
intellettuali italiani. – L’assenza di «giacobinismo» nel Risorgimento italiano. – Machia-
velli come tecnico della politica e come politico integrale o in atto.
Appendici: Americanismo e fordismo.

Il secondo progetto è molto più preciso e presenta un elenco di 10 “rag-


gruppamenti di materia”. Siamo alle radici della più importante svolta nella
storia dei quaderni, cioè la nascita dei quaderni “speciali”. Questo è il testo
del Quaderno 8: fra parentesi quadre ho riportato le corrispondenze con i
quaderni “speciali”.

Raggruppamenti di materia:

1° Intellettuali. Quistioni scolastiche. [Q12]


2° Machiavelli. [Q13]
3° Nozioni enciclopediche e argomenti di cultura. [Q16 e Q26]
4° Introduzione allo studio della filosofia e note critiche ad un Saggio popolare di so-
ciologia. [Q11]
5° Storia dell’Azione Cattolica. Cattolici integrali – gesuiti – modernisti. [Q20]
6° Miscellanea di note varie di erudizione (Passato e presente).
7° Risorgimento italiano (nel senso dell’Età del Risorgimento italiano dell’Omodeo,
ma insistendo sui motivi più strettamente italiani). [Q19]
8° I nipotini di padre Bresciani. La letteratura popolare (Note di letteratura). [Q23 e
Q21]
9° Lorianesimo. [Q28]
16

10° Appunti sul giornalismo [Q24]

Tra i quaderni “speciali” non sono previsti nel piano i Q10 (Croce), Q22
(Americanismo), Q25 (gruppi subalterni), Q27 (folclore), Q29 (studio della
grammatica).
17

Lezione 3
(Lunedì 16 marzo 2020)

1. I piani di lavoro

Abbiamo esaminato otto piani di lavoro di Gramsci tra il 1927 e il 1932.


Dal programma del 19 marzo 1927 (dove si legge il famoso für ewig) ai
“raggruppamenti di materia” del Quaderno 8, i temi della riflessione di
Gramsci si precisano sempre meglio. Si passa dallo spirito popolare creativo
(19 marzo 1927) allo studio delle lingue (23 maggio 1927) all’elenco dei 16
argomenti principali (Quaderno 1, 8 febbraio 1929) alle lettere del 25 marzo
1929 e del 17 novembre 1930 dove emerge il tema del cosmopolitismo,
all’elenco dei 22 saggi principali del Quaderno 8 (novembre-dicembre 1930),
alla lettera del 3 agosto 1931 nel giorno della grave crisi emorragica che lo
colpisce fino ai 10 “raggruppamenti di materia” del Quaderno 8 (marzo-
aprile 1932). La successione dei piani di lavoro disegna il progresso della ri-
cerca di Gramsci nel periodo carcerario. In nessuno di questi piani di lavoro,
ricordiamolo ancora, compare la parola “egemonia”. Anche se, come abbia-
mo osservato, la questione dell’egemonia unifica tutti i temi che vengono via
via evocati.

2. Le interpretazioni

Le interpretazioni dell’egemonia in fondo si sono divise su un punto prin-


cipale: la genesi di questo concetto in Gramsci. Da dove viene? Qual è la pe-
riodizzazione? Per averne un’idea, possiamo ricordare brevemente le quattro
letture principali, a cui tutte le altre in qualche modo si riconducono. Ci inte-
ressa tenerle presenti per poi misurare la nostra proposta rispetto a esse.

1 L’egemonia come momento autoritario della filosofia della praxis – La


prima interpretazione può essere ricondotta a Rodolfo Mondolfo. Trovate nel
mio libro (Marxismo e filosofia della praxis) tutte le informazioni per rico-
struire la personalità di questo autore. Ricordate, in particolare, che Mondol-
fo intervenne sulla teoria gramsciana dell’egemonia con due articoli del 1955
e del 1963: Intorno a Gramsci e alla filosofia della prassi; Le antinomie di
Gramsci.
La tesi di Mondolfo può essere sintetizzata così: l’antinomia fondamenta-
le e non superata di Gramsci è tra la costruzione della filosofia della praxis
(che deriva da Labriola) e il momento machiavelliano dell’egemonia. Il con-
cetto di egemonia rappresenta, dunque, un elemento autoritario, non demo-
cratico, derivato dalla teoria leninista, che Gramsci innesta in una concezione
18

sostanzialmente democratica, rappresentata dalla filosofia della praxis: il suo


pensiero si risolve, perciò, in una antinomia non risolta.

2 Egemonia e concetto di società civile. La seconda interpretazione può


essere ricondotta alla influente relazione di Bobbio al convegno gramsciano
del 1967 su Gramsci e la società civile. Nella relazione del 1967 Bobbio po-
teva appoggiarsi sulle ricerche condotte negli stessi anni su Hegel (Hegel e il
giusnaturalismo, 1966) e sul concetto di società civile (Sulla nozione di so-
cietà civile, 1968). E certamente trasse dallo studio dei quaderni elementi
importanti che, nel giro di un decennio, lo porteranno a scavare nelle «grandi
dicotomie» del pensiero contemporaneo e a costruire le basi di una «teoria
generale della politica» (La grande dicotomia, 1974). L’interpretazione di
Gramsci era fondata sull’idea che nel pensiero giuridico di Hegel arrivassero
a «confondersi» le due linee principali della politica moderna – giusnaturali-
smo e realismo –, attraverso la sostituzione dello stato di natura con una so-
cietà civile destinata a essere superata nello Stato come «società razionale».
Questa lettura di Hegel segnava i passaggi successivi della riflessione, iscri-
vendo Marx nella dicotomia società civile-Stato, come l’autore che avrebbe
tolto allo Stato hegeliano il carattere della «razionalità» e affermato bensì la
società civile (e non lo Stato) come forza creatrice della storia, ma identifi-
cando seccamente la società civile con la «struttura» e questa con la base
economica. Da tale esegesi della Prefazione marxiana del 1859 discendeva la
caratterizzazione della teoria gramsciana. Inserito nella «grande dicotomia»
moderna tra società civile e Stato e, con Marx, fra struttura economica e su-
perstrutture, Gramsci avrebbe rovesciato l’ordine dei fattori, assegnando alle
superstrutture la funzione formatrice nella storia e tornando al significato he-
geliano della bürgerliche Gesellschaft, non più intesa (alla maniera di Marx)
come «sistema dei bisogni» e struttura economica ma come «trama» di ideo-
logie e istituzioni. Gramsci tornava a Hegel, dunque, contro la lezione di
Marx. In conclusione, non solo il concetto di egemonia era dedotto
dall’orizzonte moderno della «grande dicotomia» tra società civile e Stato,
ma tale principio (le cui origini venivano erroneamente indicate nel 1926) si
divideva nettamente dalla lezione di Lenin e della rivoluzione sovietica, trat-
tandosi in un caso di mera «direzione politica» e nell’altro di una più ampia
«direzione culturale».
Nella relazione di Bobbio si leggevano intuizioni non prive di rilievo, a
cominciare da quella relativa alla diversa lettura della società civile in Marx
e Gramsci. Senza dubbio, nella struttura composita della categoria giuridica
hegeliana, l’uno (Marx) aveva rivolto lo sguardo al «sistema dei bisogni»
l’altro (Gramsci) alla «trama» civile, ideologica e istituzionale.
Come abbiamo osservato, l’orizzonte teorico di Bobbio era stabilito nella
«grande dicotomia» tra società civile e Stato politico, che trovava uno svol-
gimento in quella, ulteriore, fra struttura e superstrutture. È probabile che tale
lettura della politica moderna si fondasse su alcuni equivoci, sia perché Bob-
bio tendeva a considerare la società civile hegeliana come una espressione
storica dello stato di natura hobbesiano (senza chiamare in causa né la filoso-
19

fia della storia né le aporie interne della filosofia giuridica di Hegel), sia per
la asserita «coincidenza» della società civile di Marx con la base economica.
Egli presupponeva che Gramsci avesse trovato dinanzi a sé questo grande
dilemma e lo avesse sciolto con un taglio netto.

3 Egemonia come traslazione di un concetto linguistico nazionale – Una


terza linea può essere indicata nel libro di Franco Lo Piparo, Lingua, intellet-
tuali, egemonia in Gramsci, Bari, Laterza, 1979. Lo Piparo insiste sulle fonti
nazionali del concetto di egemonia, in particolare sugli studi torinesi di glot-
tologia, sulla lezione di Matteo Bartoli, che in effetti adoperava concetti co-
me “fascino” e “prestigio”, derivati dall’opera di Graziadio Isaia Ascoli e
usati da Bartoli per spiegare l’influsso reciproco fra le lingue. Dunque il con-
cetto di egemonia sorgerebbe fuori del marxismo e soprattutto fuori del mar-
xismo sovietico.

4 Egemonia come elaborazione originale di una categoria leninista – Del


tutto diversa è la linea che seguì Leonardo Paggi nel libro del 1984 su Le
strategia del potere in Gramsci, che ha ricostruito con precisione l’influenza
del dibattito sovietico su Gramsci. Questo libro si arrestava, però, al momen-
to dell’arresto, accreditando la tesi che i quaderni fossero bensì una messa a
punto del concetto di egemonia, ma non uno sviluppo decisivo. Per Paggi le
novità del concetto di egemonia stavano tra il 1923 e il 1926, con l’adesione
alle tesi del IV congresso del Comintern e l’adesione alla linea di Bucharin
sulla Nep. Questa tesi incontrava due limiti: una eccessiva autonomia di
Gramsci dalle fonti sovietiche prima del 1926 e una sottovalutazione della
metamorfosi che il concetto di egemonia subisce nei Quaderni del carcere.

Nessuna di queste interpretazioni sembra oggi del tutto soddisfacente, per


i motivi che vedremo.

3. Un primo schema interpretativo

La lettura che vi proporrò è differente da quelle ora ricordate. Posso anti-


ciparla (solo per avere un filo conduttore del discorso), dicendo che la rifles-
sione di Gramsci sull’egemonia si articola in quattro fasi abbastanza precise:

1 Genesi del concetto – Cominciamo dalla genesi. Non c’è dubbio che, al
di là di alcune ricorrenze giovanili in àmbito geopolitico, Gramsci assume il
concetto durante la sua permanenza a Mosca dal giugno 1922 al dicembre
1923, come rappresentante del Partito comunista d’Italia nel Comintern. In
questo periodo, Gramsci poté apprendere direttamente da Lenin, da Zinov’ev
e da Bucharin la teoria dell’egemonia; arrivato a Vienna (3 dicembre 1923-5
maggio 1924), ne seguì tutti gli sviluppi. Il concetto di egemonia sorgeva
come soluzione strategica del problema della rivoluzione russa e, nello stesso
tempo, come strumento della disputa dottrinale contro Trockij. L’egemonia
20

(lo vedremo) è il concetto fondamentale nello sviluppo del dibattito sovietico


tra il 1917 e il 1929.

2 La prima “traduzione” nel 1924-1926 - Questa è la prima accezione


che si incontra in Gramsci tra il 1924 e il 1926. Solo che Gramsci, fin
dall’inizio, ne propone una “traduzione” nei termini della storia e della poli-
tica italiana. Il rapporto operai-contadini diventa, nella sua riflessione, la
questione nazionale del rapporto Nord-Sud, della mancata unificazione della
nazione, e perciò richiama la funzione degli intellettuali. L’articolo del 1926
sulla questione meridionale (ci torneremo nelle prossime lezioni in maniera
analitica) rappresenta l’esito di questa prima riflessione di Gramsci.
Inoltre il concetto di egemonia è la leva dell’atteggiamento che comincia
a diventare critico verso la politica sovietica (specie staliniana) e verso il
modello sovietico di rivoluzione. In una parola, l’egemonia comincia a indi-
care la rivoluzione in Europa come guerra di posizione, dunque la diversa
via della rivoluzione in occidente, la fine dell’epoca della guerra «d’assalto».

3 La ripresa nei quaderni - In carcere Gramsci assume l’articolo del ’26


sulla questione meridionale come base delle note dei quaderni (come scrive a
Tatiana). Il Quaderno 1 rappresenta già uno sviluppo e una revisione profon-
da delle tesi del 1926. Dovremo soffermarci su di esso. Lo strumento con cui
amplia potentemente il concetto di egemonia è la filosofia. La vera svolta av-
viene quando l’egemonia diventa un concetto filosofico. Tra il 1930 e il 1932
scrive infatti le tre serie di Appunti di filosofia nei Quaderni 4, 7, 8.

4 I quaderni “speciali” – Dal 1932, nei quaderni “speciali” Gramsci met-


te ordine in questo materiale, ancora miscellaneo. I primi quaderni “speciali”
rappresentano l’elaborazione decisiva del concetto di egemonia: i conti con
l’idealismo, la critica a Bucharin, il moderno principe, gli intellettuali, il Ri-
sorgimento, le classi subalterne, il folclore.
L’egemonia diventa egemonia “civile” (Quaderni del carcere, pp. 1566-
1567), cioè cessa di rappresentare l’alleanza operai-contadini e diventa il
concetto-cardine di una teoria universale della democrazia e delle sue crisi.
Indica il rischio corporativo della democrazia moderna e la necessità che essa
sia innervata da visioni del mondo e da gruppi sociali. Il nodo è ormai la dia-
lettica democrazia-egemonia. Questo problema ha un momento analitico (le
rivoluzioni passive, l’americanismo ecc.) e un momento politico
(l’intellettuale collettivo come nuovo soggetto della rivoluzione in Occiden-
te).

4. IV Congresso e V Congresso del Comintern

Se questa ricostruzione è esatta, per comprendere la genesi dell’egemonia


in Gramsci dobbiamo, prima di tutto, avere un’idea di quello che accade in
Urss tra il 23 giugno 1922 (quando Gramsci arriva lì, il viaggio con Grazia-
21

dei e Bordiga era iniziato il 26 maggio) e il 1929. Gli anni del lavoro al Co-
mintern (a Mosca e a Vienna) sono anni di grandi trasformazioni della politi-
ca comunista mondiale, caratterizzati dal succedersi di due Congressi inter-
nazionali a Mosca: il IV Congresso (5 novembre-5 dicembre 1922) e il V
Congresso (17 giugno-8 luglio 1924) del Comintern. Gramsci partecipa al IV
Congresso, che segnerà in maniera permanente la sua visione del comunismo.
Per ricordare gli aspetti principali, questo è il Congresso che approva la linea
del Fronte unico, che discute del fascismo italiano dopo la novità della mar-
cia su Roma (Radek, Zinov’ev, Trockij), che propone la fusione con il Psi.
Soprattutto è il congresso nel quale trova consacrazione la politica della Nep
e Lenin interviene con quel discorso che Gramsci porrà alla base della teoria
della “traducibilità”.
La politica stabilita dal IV Congresso viene stravolta nel V Congresso,
con la “svolta a sinistra” di Zinov’ev (presidente del Comintern), quando
viene avviata la bolscevizzazione dei partiti comunisti, fissati i princìpi del
socialfascismo e della dottrina del marxismo-leninismo. I Princìpi del lenini-
smo di Stalin sono scritti nel febbraio 1924 e chiariscono la base teorica della
nuova politica: come vedremo, si affermano le basi della teoria del sociali-
smo “in un solo paese”: sviluppo ineguale, teoria dell’anello debole, centrali-
tà dell’Urss tra Oriente e Occidente. Ma sarà l’intervento di Bucharin, specie
in relazione alla Nep, a ottenere il maggiore consenso di Gramsci, nel mo-
mento in cui la politica della Nep comincia a essere messa seriamente in di-
scussione.

5. L’egemonia in Urss: primo periodo (1905-1917)

Cerchiamo di capire perché il concetto di egemonia è al centro di questo


processo. Le prime importanti ricorrenze del concetto di egemonia si trovano
tra il 1905 e il 1917 in alcuni testi di Trockij e di Lenin. Di Trockij si può ri-
cordare 1905, dove si legge che la rivoluzione del 1905 è stata «una dimo-
strazione dell’egemonia del proletariato nella rivoluzione borghese e, nello
stesso tempo, dell’egemonia delle città sulle campagne». Lenin adopera la
formula in diverse occasioni, sia nel saggio sulle Due tattiche della social-
democrazia nella rivoluzione del 1905 sia, in maniera più sistematica in al-
cuni scritti del 1911 (Antiche verità che sono sempre di moda). Intorno al
1909, con i primi scritti di Bogdanov e di Lunacharskij, in seguito con la
formazione del Proletkult, comincia anche a diffondersi il concetto di ege-
monia culturale (come premessa e fondamento della egemonia politica). In
queste prime ricorrenze l’egemonia indica la funzione del proletariato nel
processo di rivoluzione borghese. Riassumendo: la rivoluzione borghese si
compie in Russia attraverso una alleanza tra borghesia e proletariato contro
l’autocrazia zarista che vede la spinta proletaria in una posizione egemone,
sia verso la borghesia sia verso i contadini.
Trockij e Lenin derivano il concetto dall’uso che ne avevano fatto i so-
cialdemocratici tedesci, in particolare Kautsky. Un passaggio di rilievo si
22

trova nel programma di Erfurt del 1891 scritto da Kautsky. Ma ancora prima
il termine russo gegemonjia si trova in Plechanov (Our Differences, 1885)
poi nell’esponente menscevico Pavel Axel’rod nel 1898. Da tutti questi pre-
cedenti il lemma arriverò a Lenin.
Possiamo dire che questa è una prima fase della vicenda sovietica
dell’egemonia.

6. Secondo periodo (1917-1923)

Ma il significato dell’egemonia cambia profondamente dopo il 1917, so-


prattutto dopo lo scioglimento dell’assemblea costituente. Ora il problema
non è più l’alleanza con la borghesia contro l’assolutismo, ma l’alleanza con
i contadini contro la borghesia. Il problema diventa quello della base sociale
della rivoluzione, della base di consenso, delle forze motrici, nel momento in
cui la rivoluzione è assediata e minacciata all’interno e all’esterno. Siamo nel
pieno della guerra civile. Nello schema che si afferma in questo periodo:
egemonia sui contadini, dittatura sulla borghesia. È la smicka, l’unione,
l’alleanza tra i ceti oppressi.
Tra il 1917 e il 1923 (Lenin muore il 21 gennaio 1924), lo sviluppo
dell’egemonia è legato in maniera sostanziale alla politica della Nep tra il
1921 e il 1929. C’è un legame inscindibile tra la Nep e la concezione
dell’egemonia. Anche se, fin dall’inizio, si genera quella difformità di inter-
pretazioni che porterà, dal 1925, allo scontro fra Bucharin e Zinov’ev. La
Nep è una misura contingente, di emergenza, o è una politica strutturale della
rivoluzione? Di conseguenza: l’egemonia è un concetto strutturale del marxi-
smo o una teoria contingente, destinata a essere superato? Questa domanda,
che emergerà nel contrasto fra Bucharin e Zinov’ev, è veramente quella cru-
ciale per il destino della rivoluzione.
In questo periodo gli scritti più significativi sono quelli di Zinov’ev, pre-
sidente del Comintern. Nell’Introduzione al primo volume delle sue Opere,
pubblicate a Mosca nel 1923, Zinov’ev chiarisce in maniera netta il significa-
to dell’egemonia. leggiamo un brano:

In che cosa consiste la originale politica del bolscevismo, la sua caratteristica princi-
pale? Il bolscevismo è il primo che nella storia internazionale della lotta delle classi ha
sviluppato l’idea di egemonia del proletariato e ha posto praticamente i principali pro-
blemi rivoluzionari che Marx ed Engels avevano prospettato teoricamente. L’idea di
egemonia del proletariato, appunto perché concepita storicamente e concretamente ha
porttato con sé la necessità di ricercare alla classe operaia un alleato: il bolscevismo ha
trovato questo alleato nella massa dei contadini poveri.

Il brano sintetizza perfettamente la concezione dell’egemonia di Zi-


nov’ev: Marx ed Engels hanno elaborato la sola teoria della rivoluzione; il
bolscevismo ha tradotto in pratica, storicamente, quella teoria attraverso il
concetto di egemonia.
23

Gramsci ricorrerà nel gennaio 1924, nel primo numero dell’Ordine nuovo,
a questo testo di Zinov’ev per il profilo di Lenin scritto in occasione della
sua morte. In un articolo sull’Unità del 24 agosto 1924 lo ripeterà quasi lette-
ralmente, anticipando tutta la lettura di Lenin che poi si leggerà nei quaderni:

Quante volte la rivoluzione nelle città non fu spezzata dei contadini armati dalla rea-
zione? Marx e Engels avevano già accennato alla possibilità di una futura alleanza tra
operai e contadini, ma in un modo non ancora preciso. Il grande merito di aver tradotto in
formula pratica di azione il principio della alleanza operaio-contadina, spetta a Lenin, il
grande teorico e condottiero della rivoluzione russa. Questo concetto di alleanza non è
una formula improvvisa, non è una invenzione, una manovra tattica nel senso che un ge-
nerale di eserciti potrebbe dare a questa parola. Lenin è un grande uomo di azione perché
è un grande teorico. Nei grandi uomini della rivoluzione comunista non possono essere
scisse queste due qualità chi si integrano necessariamente.

Come vedete, Gramsci ripete e rielabora il medesimo concetto di egemo-


nia che era stato proposto da Zinov’ev.
Possiamo definire questa una seconda fase della vicenda dell’egemonia in
Urss, quella che influenzerà in maniera profonda la riflessione, almeno ini-
ziale, di Gramsci.

7. Terzo periodo (1924): Trockij e la polemica anti-trockijsta

Ma le cose cambiano profondamente dopo la morte di Lenin (21 gennaio


1924). Possiamo dire che qui comincia un terzo periodo della storia
dell’egemonia. Dobbiamo tenere presente, oltre la morte di Lenin, il muta-
mento profondo del quadro storico che si verifica: il riflusso dei movimenti
rivoluzionari in Europa (specie dopo la sconfitta tedesca del 1923); la “stabi-
lizzazione” delle economie capitalistiche dopo la guerra e prima della crisi
del ’29; la reazione politica con il sorgere dei regimi autoritari in Italia e in
altri paesi; la nascita dei movimenti di liberazione in Cina e India, dunque
uno sviluppo del comunismo a Oriente e un riflusso a Occidente; l’Urss co-
me potenza centrale tra Est (Cina e India) e Ovest (Europa).
Ma la miccia è accesa dalla pubblicazione di due testi di Trockij: gli arti-
coli raccolti nel libro Il nuovo corso nel 1923-1924 e le Lezioni sull’ottobre
pubblicate nell’ottobre 1924. Questi testi innescano la grande polemica sul
trockijsmo che occuperà il comunismo mondiale per l’intero 1924, fino al
gennaio 1925 (quando Stalin pubblicherà la prefazione a Sulla via
dell’ottobre). Ricordiamo i tratti salienti di questi scritti di Trockij e cer-
chiamo di capire perché riguardano la questione dell’egemonia. Possiamo
riassumere la posizione di Trockij in questi 6 punti:

1 La critica della burocratizzazione sovietica e la tesi del ritorno alle ori-


gini, allo spirito del 1917, al primo leninismo. Per Trockij il senso del 1917 è
la rottura con i menscevichi, l’alternativa tra il “fatalismo” della rivoluzione
democratica e la conquista del potere. Il leninismo si costituisce nella rottura
24

con la tesi menscevica del completamento della rivoluzione democratica: in


sostanza con lo scioglimento dell’assemblea costituente.

2 La ripresa della teoria della rivoluzione permanente dagli scritti del


1904-1906: significa che la rivoluzione non può arrestarsi allo stadio demo-
cratico borghese, ma deve procedere direttamente alla presa del potere.

3 L’attacco diretto a Kamenev e Zinov’ev per la lettera che essi avevano


scritto l’11 ottobre 1917 per contrastare la scelta della rivoluzione. Nlle paro-
le di Trockij, il presidente del Comintern e il grande dirigente bolscevico di-
ventano esponenti interni del “fatalismo” menscevico. Questo attacco mette
subito la polemica sul piano di una lotta personale per il potere.

4 Nel testo di Trockij il leninismo acquista un significato: la critica del


“fatalismo” menscevico; l’idea che la rivoluzione dipende dal livello delle
sovrastrutture; l’idea che la rivoluzione in Europa richiede una preparazione
più lunga e difficile, ma che una volta raggiunto il potere è più facile tenerlo.
Quindi una almeno potenziale critica ai procesi di bolscevizzazione dei parti-
ti europei, allora avviati dal Comintern.

5 Trockji insiste sul significato della pianificazione: perciò limita il valore


della Nep a una politica provvisoria, di emergenza e da superare.

6 Senza dubbio Trockji considera i contadini (specie i contadini proprie-


tari) come subalterni e non protagonisti di un governo operaio. Perciò il suo
sguardo è rivolto all’Europa, egli non legge la situazione mondiale secondo
lo schema Est-Ovest che prevarrà nella dottrina di Stalin. Rimane in Trockij,
più o meno esplicita, la persuasione che le sorti della rivoluzione in Russia
siano legate alla rivoluzione europea. È una critica ante litteram alla tesi del
socialismo in un solo paese.
L’attacco contro Trockij (che intanto si era ritirato in Georgia) cominciò
con un articolo di Kamenev del 18 novembre 1924, acquistando subito la
connotazione di un attacco personale. La questione dottrinale si unì alla lotta
per il potere. I testi più importanti furono due, entrambi fondati sul concetto
di egemonia. In primo luogo la prima parte del Leninismo di Zinov’ev (come
vedremo,la seconda parte uscì un anno dopo, e ormai era indirizzata contro
Bucharin).
Ma il testo di gran lunga più iportante della polemica antitrockijsta fu il
saggio di Bucharin Sulla teoria della rivoluzione permanente. Bucharin offre
la più completa base teorica della Nep, centrata sull’importanza dei contadini
e sul ruolo del mercato. Rispetto a Marx, obiettava Bucharin, Trockij ha di-
menticato il significato delle tappe intermedie”. La questione contadina, sot-
tovalutata da Trockij, è la vera peculiarità russa, l’essenza stessa del lenini-
smo. Di qui la posizione dell’egemonia come concetto fondamentale della
teoria leniniana. In una parola, è proprio il concetto di egemonia quello che
25

Trockij ha trascurato e non compreso, dando perciò luogo a una vera e pro-
pria eresia.

8. Quarto periodo (1925-1926): Stalin e la lotta tra Bucharin e Zinov’ev

Con la fine del 1924 la polemica anti-trockijsta si esaurisce e si apre una


fase diversa. Possiamo definirla come la quarta fase della vicenda
dell’egemonia in Urss. Il punto di approdo è il V Congresso del Comintern e
il XIV Congresso del Pcr (18-31 dicembre 1925), quando queste posizioni si
confrontarono apertamente. Qui venne sancita la formula del socialismo in
un paese solo. L’intervento di chiusura di Stalin fu un attacco diretto contro
Zinov’ev. Ma di fatto Stalin cominciò ad assumere una posizione “centrale”
fra Bucharin e Zinov’ev. Nel XIV congresso Trockji, Kamenev e Zinov’ev
vennero esclusi dall’ufficio politico, nel 1926 Zinovev verrà sostituito da
Bucharin alla presidenza del Comintern.
Con il 1925 si apre dunque una fase nuova. Si chiarisce, anzi tutto, la po-
sizione di Stalin. Emergevano i concetti fondamentali dello sviluppo dise-
guale del capitalismo mondiale e dell’anello debole, indicati come essenza
del leninismo. Poco dopo, nel Plenum del Comintern di marzo, veniva fissata
la tesi della stabilizzazione relativa. Questi tre concetti – sviluppo diseguale,
anello debole, stabilizzazione relativa – si pongono alla base della teoria sta-
liniana (e, in un primo momento, buchariniana) del socialismo in un solo
paese.
Soprattutto esplose la polemica tra Bucharin e Zinov’ev e il progressivo
avvicinamento di quest’ultimo a Trockij, fino alla formazione di una corrente
minoritaria di sinistra all’interno del partito russo. Bucharin fu il primo a teo-
rizzare la nuova formula del socialismo in un paese solo in un discorso
dell’aprile e la formula venne fissata per la prima volta nella XIV conferenza
del Pcr (27-29 aprile 1925).
Qui intervenne una novità fondamentale. Nel discorso al Bolscioi del 17
aprile Bucharin usò la famosa formula rivolta ai contadini: “Arricchitevi!”.
Bucharin, come poi Ustrialov, prospettavano una prosecuzione all’indefinito
della Nep, con un socialismo (come disse Bucharin) che procede “a passo di
tartaruga”. La prima critica venne da un articolo della Krupskaja (la vedova
di Lenin) inviato alla “Pravda” (di cui Bucharin era allora direttore). Ma fu
soprattutto Zinov’ev a guidare l’opposizione a Bucharin con il nuovo libro
La filosofia dell’epoca (settembre 1925) e con la pubblicazione della seconda
parte del Leninismo. Nel cap. 10 Zinov’ev attaccava Bucharin e Ustrialov,
accusandoli di volere un socialismo fondato sui kulak. La Nep veniva letta
come una strategia di ripiegamento. Zinov’ev cominciava a incontrare alcuni
aspetti della posizione di Trockji (pianificazione, contadini, ecc.). La que-
stione si allargava in uno scontro fra Leningrado (Zinovev) e Mosca (Bucha-
rin). La critica della Nep poneva di fatto Zinov’ev al di fuori della linea del
socialismo in un paese solo, avvicinandolo anche per questo a Trockji. Di qui
la sua sostituzione alla guida del Comintern nel 1926.
26

Come vedete, nella lotta tra Zinov’ev e Bucharin si assiste a una specie di
gioco delle parti. Da un lato Zinov’ev ridimensiona il significato della Nep,
che di lì a poco Stalin accantonerà del tutto. D’altro lato Bucharin (primo
teorico del socialismo in un paese solo) difende il carattere “eterno” della
Nep e dell’egemonia (alleanza con i contadini) di cui, non di meno, Stalin si
sbarazzerà negli anni successivi. Perciò Stalin si appoggia a Bucharin contro
Zinov’ev, promuovendolo a capo del Comintern, ma ben presto “il figlio
prediletto del partito” (come era definito nel testamento di Lenin) cadrà in
disgrazia: nel 1928 criticherà la collettivizzazione delle campagne, nel 1929
verrà a sua volta sostituito alla presidenza del Comintern, arrestato nel 1937,
processato e giustiziato nel 1938, riabilitato da Gorbaciov nel 1988. La con-
fessione del 1938, nel processo dei Ventuno, rimane una delle pagine più
impressionanti della storia.
Nonostante il temporaneo prevalere di Bucharin, si andava verso il supe-
ramento della Nep e l’inizio della nuova politica dei piani quinquennali,
inaugurata nel 1929. Stalin, che aveva mantenuto una posizione centrale, su-
però di fatto sia la posizione di Zinov’ev sia quella di Bucharin. Come è stato
dimostrato, con il 1929, insieme alla Nep, anche la dottrina dell’egemonia
venne sostanzialmente abbandonata in Urss. Non si trattava più di una politi-
ca egemonica, ma di industrializzazione forzata e di dominio nei confronti
dei contadini proprietari.
Nello stesso periodo, nel febbraio 1929, Gramsci riprendeva quel filo in-
terrotto, elaborando una nuova teoria dell’egemonia nei Quaderni del carce-
re.

LETTURE CONSIGLIATE (per questa lezione): L. Paggi, Le strategie del potere


in Gramsci, Editori Riuniti, Roma 1984; G. Procacci, La rivoluzione perma-
nente e il socialismo in un paese solo, Editori Riuniti, Roma 1970.
27

Lezione 4

(Mercoledì 18 marzo 2020 – Prima parte)

1. Sintesi

Nella lezione precedente abbiamo seguito una strategia ermeneutica ab-


bastanza lineare. In primo luogo abbiamo ricordato le principali tendenze in-
terpretative sul concetto di egemonia in Gramsci, esaminandone quattro e
osservando che le maggiori controversie riguardano la genesi di questa idea.
Da dove deriva? Da Croce e Hegel (Bobbio), da Matteo Bartoli e la glottolo-
gia italiana (Lo Piparo), dalle teorie autoritarie di Lenin (Mondolfo), da Bu-
charin (Paggi)? Abbiamo spiegato perché, secondo il nostro giudizio, nessu-
na di queste tendenze interpretative risulta oggi convincente o comunque
esauriente. Ciascuna di esse manifesta un limite non superato. Allora abbia-
mo cercato di farci un’idea sul concetto di egemonia nel dibattito sovietico e
nel mondo comunista internazionale, proprio nel periodo in cui Gramsci è a
Mosca e, lavorando per il Comintern, a Vienna. Ci è sembrato opportuno di-
stinguere quattro diversi periodi in questa vicenda che, nel giro di pochi anni,
porta al potere di Stalin e all’abbandono stesso della categoria: in un primo
momento (1905-1917) l’egemonia indica la posizione del proletariato in una
rivoluzione sostanzialmente borghese, condotta contro il potere degli zar, in-
sieme alla borghesia e, d’altro canto, ai contadini; in una seconda fase, dopo
lo scioglimento della costituente (gennaio 1918), l’egemonia rappresenta la
base sociale della rivoluzione, cioè l’alleanza con i contadini e, sul piano teo-
rico, l’aggiunta storica e pratica dei bolscevichi alla teoria della rivoluzione
di Marx ed Engels (in sostanza l’essenza del leninismo); nel terzo periodo
l’egemonia è lo strumento dottrinale della lotta contro Trockij (1924), il qua-
le è appunto accusato di averne dimenticato e tradìto il significato; infine
(1925-1926) rimane al centro della lotta di potere tra Bucharin e Zinov’ev,
fino al prevalere definitivo di Stalin su entrambi; il quale Stalin, con l’avvio
dei piani quinquennali (1929) e con la politica di industrializzazione delle
campagne, archivierà tutta questa fase del bolscevismo. Di egemonia, in-
somma, non si parlerà più.

2. La Conferenza di Como

Chiarire la posizione di Gramsci di fronte a questa vicenda non è sempli-


ce. Rimangono alcuni punti fermi: 1) la lezione mai del tutto dimenticata di
Lenin e della Nep; 2) l’influenza iniziale di Zinov’ev, da cui, come abbiamo
visto, Gramsci riprende alcuni scritti; 3) una certa consonanza (da misurare e
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verificare) con la posizione politica di Bucharin, specie a proposito della


Nep; 4) la critica aperta alla pratica di liquidazione del gruppo dirigente leni-
nista iniziata tra il 1925 e il 1926 (come vedremo nelle lezioni successive). A
partire da questi dati certi, dobbiamo provare a vederci più chiaro.
Cominciamo dall’inizio. La prima occorrenza importante (non la prima in
assoluto, beninteso) del termine “egemonia” si trova in un articolo, Dopo la
conferenza di Como, pubblicato nello «Stato operaio» (la rivista clandestina
dei comunisti) del giugno 1924. L’egemonia è inserita in un discorso che ha
due assi: la critica delle tesi di Roma del secondo congresso del Pci (cioè del
bordighismo); la formula-chiave del «governo operaio e contadino». Scrive
Gramsci:

Si può dire che nel convegno ultimo il nostro partito si è posto esplicitamente, per la
prima volta, il problema di diventare il partito delle più larghe masse italiane, di diventare
il partito che realizzi l’egemonia del proletariato nel quadro vasto dell’alleanza tra la clas-
se operaia e la massa dei contadini.

Cerchiamo di contestualizzare questa citazione, prima di fare un passo


indietro. Gramsci è tornato in Italia il 5 maggio (era stato eletto deputato il 6
aprile nella circoscrizione del Veneto, quindi era protetto dall’immunità par-
lamentare) e partecipa alla I conferenza nazionale del partito che si tiene
clandestinamente nei pressi di Como. Siamo alla vigilia del delitto Matteotti
(10 giugno) e la conferenza è ancora dominata dalla leadership di Bordiga.
Come vedremo, nello stesso periodo Gramsci prende apertamente posi-
zione contro Bordiga e nell’agosto sarà nominato (non eletto, si osservi, ma
“nominato”) segretario generale del partito. Sulla partecipazione di Gramsci
alla Conferenza di Como possediamo due documenti principali. L’intervento,
pubblicato su «Lo Stato operaio» (29 maggio 1924) e su «L’Unità» (5 giu-
gno 1924), è un attacco diretto contro Bordiga, con frequenti interruzioni.
Gramsci paragona Bordiga a Trockij e soprattutto insiste sulla necessità del
partito di massa e dell’alleanza con i contadini. Il secondo documento è
quello che abbiamo ricordato all’inizio.

3. L’autocritica di Livorno

Per comprendere la posizione di Gramsci a Como bisogna fare un passo


indietro. La premessa della critica di Bordiga e della ripresa del concetto di
egemonia è nell’autocritica di Livorno che inizia intorno al 1923, quando
Gramsci si trova fra Mosca e Vienna (dove arriva il 3 dicembre). Dobbiamo
ricordare che in un primo periodo non vi è sostanzialmente spazio per una
teoria dell’egemonia nella politica comunista italiana (mentre è un concetto
centrale in Urss). Cerchiamo di capire perché. Il Partito comunista d’Italia si
era costituito, il 21 gennaio 1921, sulla base dei 21 punti approvati dal II
congresso del Comintern del 1920, attraverso un processo di separazione dal
riformismo socialista, che implicava due idee principali: la separazione dal
passato (cioè dal riformismo) e la tesi della attualità della rivoluzione. La
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scissione, guidata da Bordiga, era stata avversata dallo stesso Lenin e dal
Comintern. Per i sovietici, la minoranza comunista non avrebbe dovuto scin-
dersi dal Psi ma, al contrario, espellere i riformisti di Turati (cosa che i socia-
listi faranno poco tempo dopo per propria iniziativa). La differenza è sottile
ma fondamentale.
La leadership di Bordiga era perfettamente congeniale a questa politica.
Ma tra il 1921 e il 1923 tutta la riflessione di Gramsci passerà per una auto-
critica di Livorno. Questo è il punto essenziale. L’autocritica diventerà espli-
cita in un appunto pubblicato da Togliatti, che dovrebbe essere stato scritto a
Vienna nel luglio 1923. Si legge così:

Valore politico della fusione [tra Pci e Psi]. La reazione si è proposta di ricacciare il
proletariato nelle condizioni in cui si trovava nel periodo iniziale del capitalismo: disperso,
isolato, individui, non classe che sente di essere una unità e aspira al potere. La scissione
di Livorno (il distacco della maggioranza del proletariato italiano dalla Internazionale
comunista) è stata senza dubbio il più grande trionfo della reazione.

Ritengo che questo appunto di Gramsci riflettesse la conversazione che


egli aveva avuto con Lenin il pomeriggio del 22 novembre 1922, che secon-
do la testimonianza di Camilla Ravera si svolse così:

Gramsci mi disse di aver espresso a Lenin il suo profondo dissenso con Bordiga non
soltanto sul problema dei rapporti con il partito socialista, ma sul giudizio del fascismo,
della situazione italiana, delle sue prospettive; e sulla politica del partito, settaria, chiusa,
in definitiva inerte, inadeguata alle esigenze del momento. E mi disse dell’attenzione con
cui Lenin lo aveva ascoltato: Lenin – mi diceva Gramsci – conosce le cose nostre assai
più di quanto supponiamo. E mi riferiva giudizi espressi da Lenin con assoluta precisione
e grande verità sui nostri compagni, su scritti di nostri compagni e di altri esponenti poli-
tici italiani. Con Gramsci, Lenin aveva in particolare parlato del partito socialista, e della
possibilità di una fusione tra il Pci e Psi. Lenin aveva giudicato il modo con cui si era
conclusa la scissione di Livorno «un successo della reazione capitalista»; e non aveva
mai rinunciato alla conquista di Serrati e dei socialisti sinceramente legati all’Interna-
zionale comunista.

Questo giudizio è confermato da tutti gli scritti di Gramsci, almeno dal


1923. Il testo in cui emerge con maggiore nettezza è l’articolo del 15 marzo
1924 Contro il pessimismo, dove si legge questa espressione di straordinaria
intensità: «fummo travolti dagli avvenimenti», «fummo, senza volerlo, un
aspetto della dissoluzione generale della società italiana».

Il congresso di Livorno, la scissione avvenuta al congresso di Livorno furono riallac-


ciati al II congresso [del Comintern], alle sue 21 condizioni, furono presentati come una
conclusione necessaria nelle deliberazioni formali del II congresso. Fu questo un errore,
oggi possiamo valutarne tutta la estensione per le conseguenze che ha avuto. In verità le
deliberazioni del II congresso erano l’interpretazione viva della situazione italiana, come
di tutta la situazione mondiale, ma noi, per una serie di ragioni, non muovemmo, per la
nostra azione, da ciò che succedeva in Italia, dai fatti italiani che davano ragione al II
congresso, che erano una parte delle più importanti della sostanza politica che animava le
decisioni e le misure organizzative prese dal II congresso: noi, però, ci limitammo a batte-
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re sulle questioni formali, di pura logica, di pura coerenza, e fummo sconfitti, perché la
maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi,
quantunque noi avessimo dalla nostra parte l’autorità e il prestigio dell’Internazionale che
erano grandissimi e sui quali ci eravamo fidati. Non avevamo saputo condurre una cam-
pagna sistematica, tale da essere in grado di raggiungere e di costringere alla riflessione
tutti i nuclei degli elementi costitutivi del partito socialista; non avevamo saputo tradurre
in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno
degli avvenimenti italiani degli anni 1919-1920; non abbiamo saputo, dopo Livorno, porre
il problema del perché il congresso avesse avuto quella conclusione; non abbiamo saputo
porre il problema praticamente, in modo da trovarne la soluzione, in modo da continuare
la nostra specifica missione che era quella di conquistare la maggioranza del popolo ita-
liano. Fummo – bisogna dirlo – travolti dagli avvenimenti; fummo, senza volerlo, un
aspetto della dissoluzione generale della Società italiana.

Va sottolineata la grande importanza di questa autocritica su Livorno. In-


dica diverse cose: la rottura con Bordiga (quindi con l’idea di un partito di
quadri, l’astensionismo elettorale, l’attualità della rivoluzione, la rottura con i
contadini e così via), il rapporto con il Comintern (quindi il tema
dell’egemonia), il superamento delle premesse di Livorno: fasi intermedie,
costituente, ecc.
L’autocritica di Livorno incrocia la storia del movimento comunista dal
III al V Congresso del Comintern. Questi tre congressi, come abbiamo ac-
cennato nella lezione precedente, segnano tre tappe fondamentali del movi-
mento comunista internazionale. Nel III Congresso (giugno 1922) il Comin-
tern approva le parole d’ordine del fronte unico, del governo operaio e con-
tadino, quindi dell’egemonia. Nel IV Congresso (5 novembre-5 dicembre
1922), a cui Gramsci partecipa, la linea del III Congresso è confermata, ma
almeno due questioni riguardano direttamente il partito italiano. 1) La fusio-
ne. Nel novembre si stringe il problema della fusione e, non a caso, si verifi-
ca la prima spaccatura tra Gramsci e Bordiga. Ma la fusione fallisce e Zi-
nov’ev ripiega sulla prospettiva del “blocco politico” tra Pci e Psi, che pro-
voca una lettera di protesta di Terracini. 2) La marcia su Roma. Il discorso di
Radek al Congresso sembra suggerito da Gramsci e in sostanza è centrato su
una lettura del fascismo come sbandamento della piccola borghesia piuttosto
che come espressione del grande capitale (questa era la tesi di Bordiga). Fra
Gramsci e Bordiga si crea una prima frattura, ma il comportamento di Gram-
sci al IV Congresso rimane ambiguo: questo gli verrà rimproverato in segui-
to e Gramsci stesso dovrà fornire una spiegazione.
Con il V Congresso (giugno 1924) la posizione del Comintern, come ab-
biamo visto, cambia sostanzialmente. Dopo la sconfitta del 1923 in Germa-
nia, il delitto Matteotti in Italia e così via, il Comintern lancia le parole
d’ordine della bolscevizzazione dei partiti comunisti, del fronte unico dal
basso e del socialfascismo (cioè una sostanziale equiparazione tra fascismo e
socialdemocrazia).
Il punto essenziale è che, nonostante il comportamento ambiguo tenuto
nel corso della discussione, la linea del IV Congresso segna profondamente
la riflessione di Gramsci. Questo riguarda non solo la Nep e il tema
dell’egemonia, ma almeno due questioni: 1) la lettura del fascismo, che
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Gramsci (sulla linea di Radek) legge sempre più come espressione della crisi
della piccola borghesia, piuttosto che come reazione del grande capitale; 2) il
tema della fusione, che egli non approva sul momento, ma svolge successi-
vamente in un senso determinato: costituente, tappe intermedie, e così via.
In questo periodo, insomma, cresce in Gramsci la consapevolezza della
peculiarità della rivoluzione in Europa, specie di fronte alla minaccia del fa-
scismo. Il primo esito di questa riflessione è la lettera che invia, il 9 febbraio
1924, da Vienna, al gruppo dirigente del partito. È un documento fondamen-
tale della sua evoluzione intellettuale. Leggiamone solo il passo più rilevan-
te:

Amadeo [Bordiga] ha tutta una concezione a questo proposito e nel suo sistema tutto è
logicamente coerente e conseguente. Egli pensa che la tattica dell’Internazionale risenta i
riflessi della situazione russa, cioè sia nata sul terreno di una civiltà capitalistica arretrata
e primitiva. Per lui questa tattica è estremamente volontaristica e teatrale, perché solo con
un estremo sforzo di volontà si poteva ottenere dalle masse russe un’attività rivoluzionaria
che non era determinata dalla situazione storica. Egli pensa che per i paesi più sviluppati
dell’Europa centrale ed occidentale questa tattica sia inadeguata o addirittura inutile. In
questi paesi il meccanismo storico funziona secondo tutti i crismi marxistici: c’è la deter-
minazione che mancava in Russia, e perciò il compito assorbente deve essere quello di
organizzare il partito in sé e per sé. Io credo che la situazione sia molto diversa. In primo
luogo perché la concezione politica dei comunisti russi si è formata su un terreno interna-
zionale e non su quello nazionale; in secondo luogo perché nell’Europa centrale ed occi-
dentale lo sviluppo del capitalismo ha determinato non solo la formazione di larghi strati
proletari, ma anche e perciò creato lo strato superiore, l’aristocrazia operaia con i suoi an-
nessi di burocrazia sindacale e di gruppi socialdemocratici. La determinazione, che in
Russia era diretta e lanciava le masse nelle strade all’assalto rivoluzionario, nell’Europa
centrale ed occidentale si complica per tutte queste superstrutture politiche, create dal
più grande sviluppo del capitalismo, rende più lenta e più prudente l’azione della massa e
domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e una tattica ben più com-
plessa e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi nel periodo tra il
marzo ed il novembre 1917. […] Amadeo si pone dal punto di vista di una minoranza in-
ternazionale. Noi dobbiamo porci dal punto di vista di una maggioranza nazionale.

Le parti del testo che ho sottolineato costituiscono una delle prime e più
importanti definizioni del concetto di egemonia, nel contrasto con la conce-
zione di Bordiga e nel confronto differenziale con la situazione russa.
Nella prossima lezione vedremo come questi concetti troveranno una
prima sistemazione nella riflessione di Gramsci nel corso di un anno decisivo
nella sua biografia intellettuale: il 1926. L’anno dell’arresto, ma non solo.

LETTURE CONSIGLIATE: A. Gramsci, La costruzione del partito comunista


1923-1926, Einaudi, Torino 19715; P. Spriano, Storia del Partito comunista
italiano. Da Bordiga a Gramsci (parte prima), Einaudi, Torino 1967; P. To-
gliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel
1923-1924, Editori Riuniti, Roma 1962.
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Lezione 5

(Mercoledì 18 marzo 2020 – Seconda parte)

Il 1926 è un anno decisivo nella biografia di Gramsci. Non solo per


l’arresto, che l’8 novembre lo priva della libertà. Ma per tre fatti che costitui-
scono, a un ritmo molto ravvicinato, tre passaggi salienti della sua matura-
zione: il III congresso del Pci di Lione (20-26 gennaio), la lettera del 14 otto-
bre al comitato centrale del Pcr e l’articolo sulla questione meridionale. Il
tema dell’egemonia trova una progressiva elaborazione in queste tre tappe.

1. Il Congresso di Lione: Gramsci e Bordiga

Cominciamo con il congresso di Lione. Per molte ragioni dobbiamo con-


siderarlo come il momento generativo della teoria gramsciana dell’egemonia.
Il congresso si svolge in condizioni di clandestinità (Terracini è in carcere,
come diversi altri), ma non siamo ancora nel clima delle leggi eccezionali.
È soprattutto il congresso della grande sfida fra il “centro” di Gramsci e
la sinistra di Bordiga. I risultati sono perentori: il centro (cioè la componente
animata da Gramsci e Togliatti) ottiene il 90,8% dei voti contro il 9,2% della
sinistra di Bordiga. Il congresso è aperto dalle relazioni di Gramsci e Bordi-
ga: la prima dura 4 ore, la seconda 7 ore. Non ostanti le rigide misure di poli-
zia, è preceduto da circa 3000 riunioni di base, tra congressi provinciali e di
cellula. Dunque un’ampia mobilitazione, con la partecipazione di Gramsci,
per esempio, al congresso di Milano.
Sulla posizione di Gramsci al congresso di Lione possediamo quattro do-
cumenti principali: 1) L’intervento alla commissione politica tenuto alla vigi-
lia dell’apertura del congresso; 2) Il quarto documento del congresso (Tesi
politica), noto come Tesi di Lione, scritto da Gramsci e Togliatti; 2) Il reso-
conto del congresso dettato da Gramsci a Riccardo Ravagnan, pubblicato su
«L’Unità» il 24 febbraio 1926; 4) La relazione al comitato direttivo del 2-3
agosto 1926 (anticipata sullo «Stato operaio» nel marzo 1928 e pubblicata
integralmente su «Rinascita» solo nel 1967), su cui dovremo tornare in se-
guito.
Anzi tutto, dobbiamo cercare di comprendere quali erano i motivi di fon-
do del contrasto con Bordiga, o almeno quelli che ci interessano sotto il pro-
filo teorico. Per semplificare al massimo, possiamo ricondurli a cinque que-
stioni principali, oltre quella (che funge da sfondo) del rapporto del partito
italiano con il Comintern. In generale emergono due letture della fase politi-
ca, che possiamo definire dell’attualità della rivoluzione (Bordiga) e della
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preparazione rivoluzionaria (Gramsci). Vediamo su quali temi principali si


articolò lo scontro fra Gramsci e Bordiga

1 La critica di idealismo al gruppo ordinovista. La questione divenne


centrale nel dibattito congressuale. Per Bordiga, Gramsci e Togliatti non era-
no marxisti e leninisti, ma neohegeliani e crociani, «una vera scuola napole-
tana in materia filosofica». La risposta più importante venne da Togliatti con
l’articolo La nostra ideologia su L’Unità del 23 settembre 1925. Leggiamo
un brano:

Noi giungemmo al marxismo per la via seguita da Carlo Marx, cioè partendo dalla fi-
losofia idealistica tedesca, da Hegel. Attendiamo ci si dimostri che questa origine è meno
legittima di una eventuale origine da altri punti di partenza: dalle scienze matematiche, ad
esempio, o dal naturalismo, o dalla filosofia positiva, o dall’umanitarismo, o dalla bella
letteratura o (perché no?) da una fede religiosa. Per conto nostro, la via che abbiamo se-
guito è, rispetto a qualsiasi altra, la via maestra e ha tutti i vantaggi dell’essere tale.

2 Il giudizio sul fascismo. Un punto discriminante fra Gramsci e Bordiga


è l’interpretazione del fascismo (e dunque il giudizio sull’Aventino, a cui i
comunisti avevano inizialmente aderito). Per Bordiga il fascismo è
l’espressione del potere della grande borghesia. In questo senso non vi è dif-
ferenza sostanziale tra fascismo e democrazia. Quindi il compito del proleta-
riato rimane lo stesso, anche di fronte alla dittatura. Leggiamo un passo di un
articolo di Bordiga pubblicato su «L’Unità» il 6 settembre 1925:

A noi pare che [con il fascismo] si tratti di una partita giocata dalla borghesia in modo
classico. Essa si sviluppa ulteriormente su una linea logica. Non siamo dei metafisici, ma
dei dialettici: nel fascismo e nella generale controffensiva borghese odierna non vediamo
un mutamento di rotta della politica dello Stato italiano, ma la continuazione naturale del
metodo applicato prima e dopo la guerra dalla «democrazia». Non crederemo all’antitesi
tra democrazia e fascismo, più di quello che abbiamo creduto alla antitesi tra democrazia
e militarismo. Non faremo miglior credito, in questa seconda situazione, al naturale manu-
tengolo della democrazia: il riformismo socialdemocratico.

La posizione di Gramsci si muove in una direzione diversa. Il fascismo


non è l’espressione «classica» della grande borghesia, ma un fenomeno nuo-
vo, di massa, che deriva dalla crisi della piccola borghesia dopo la guerra e
dalla crisi di egemonia del proletariato. Il fascismo è un potere di consenso
prima di essere un atto di forza. Nell’intervento alla commissione politica
spiega:

Quando il fascismo sorse e si sviluppò in Italia come bisognava considerarlo? Era sol-
tanto un organo di combattimento della borghesia, oppure era anche un movimento socia-
le? L’estrema sinistra che allora dirigeva il partito non lo considerò che sotto il primo
aspetto, E questo errore ebbe come conseguenza che non si riuscì ad arginare la avanzata
del fascismo come forse sarebbe stato possibile fare. Nessuna azione politica venne com-
piuta per impedire l’avvento al potere del fascismo. La centrale di allora commise l’errore
di pensare che la situazione del 1921-22 potesse protrarsi e consolidarsi, e che non fosse
né necessario né possibile l’avvento al potere di una dittatura militare. Questo errore di
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valutazione era la conseguenza di un errato sistema di analisi politica, cioè del sistema che
Bordiga oggi oppone a quello sostenuto dal comitato centrale, che è il sistema leninista.
La situazione italiana è caratterizzata dal fatto che la borghesia è organicamente più debo-
le che in altri paesi e si mantiene al potere solo in quanto riesce a controllare e dominare i
contadini. Il proletariato deve lottare per strappare i contadini alla influenza della borghe-
sia E porli sotto la sua guida politica. Questo è il punto centrale dei problemi politici che
il partito dovrà risolvere nel prossimo avvenire. È certo che si debbono esaminare con
attenzione anche le diverse stratificazioni della classe borghese. Anzi, occorre esaminare
la stratificazione del fascismo stesso perché, dato il sistema totalitario che il fascismo ten-
de a instaurare, saranno nel seno stesso del fascismo che tenderanno a risorgere i conflitti
che non si possono manifestare per altre vie. La tattica del partito nel periodo Matteotti ha
cercato sempre di tenere conto delle stratificazioni della borghesia, e la nostra proposta
dell’antiparlamento fu fatta allo scopo di giungere a prendere contatto con masse arretrate
le quali erano fino ad allora rimaste sotto il controllo di strati della grande e della piccola
borghesia. È certo che vi sono delle masse di contadini del mezzogiorno le quali solo
quando noi facemmo la proposta di Antiparlamento vennero a conoscere la esistenza di un
partito comunista.

Questa analisi trova uno sviluppo più ampio nelle Tesi di Lione, che or-
mai legano il giudizio sul fascismo all’analisi della storia italiana. Si presti
attenzione: l’Italia è un paese di capitalismo debole, e questo è il motivo
dell’analogia con la Russia prerivoluzionaria. La «base dell’economia» è
l’agricoltura; inoltre esiste «una piccola borghesia urbana abbastanza estesa e
che ha una importanza assai grande». È un capitalismo incompiuto, dove la
borghesia può mantenere il suo sistema di potere solo alleandosi con le altre
classi, ma tuttavia esercitando «una egemonia limitata». Questa è l’unica oc-
correnza del lemma “egemonia” nel testo delle Tesi di Lione.

Come non controlla naturalmente tutta la economia così la classe industriale non rie-
sce a organizzare da sola la società intiera e lo Stato. La costruzione di uno Stato naziona-
le non le è resa possibile che dallo sfruttamento di fattori di politica internazionale (cosid-
detto Risorgimento). Per il rafforzamento di esso e per la sua difesa è necessario il com-
promesso con le classi sulle quali la industria esercita una egemonia limitata, particolar-
mente gli agrari e la piccola borghesia. Di qui una eterogeneità e una debolezza di tutta la
struttura sociale e dello Stato che ne è espressione.

L’analisi della storia italiana diventa così un’analisi della potenza egemo-
nica della borghesia. La borghesia può dominare alleandosi, nella forma di
compromessi, con il blocco agrario, con i contadini e con la piccola borghe-
sia. Il capitalismo italiano si regge dunque sul sistema del compromesso. Le
Tesi di Lione distinguono 4 periodi: 1) 1870-1890: alleanza fra borghesia e
intellettuali. Ma lo Stato è debole perché il Vaticano costruisce un blocco
reazionario con i contadini contro lo Stato borghese; 2) 1890-1900: con Cri-
spi si determina l’alleanza fra industriali e agrari, che strappa al Vaticano il
controllo sui contadini. 3) 1900-1910: nel periodo giolittiano la borghesia
usa la democrazia e la corruzione per saldare l’alleanza fra industriali e ri-
formismo operaio.
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Come vedete, le tre fasi sono tre alleanze di compromesso: la borghesia si


allea con gli intellettuali, poi con gli agrari, infine con gli operai del nord per
colonizzare il sud agrario.
Dopo la guerra interviene la novità che porta al fascismo. Si legge:

Alla tattica degli accordi e dei compromessi il fascismo sostituisce il proposito di rea-
lizzare una unità organica di tutte le forze della borghesia in un solo organismo politico
sotto il controllo di una unica centrale che dovrebbe dirigere insieme il partito, il governo
e lo Stato. Questo proposito corrisponde alla volontà di resistere a fondo ad ogni attacco
rivoluzionario, il che permette al fascismo di raccogliere le adesioni della parte più deci-
samente reazionaria della borghesia industriale e degli agrari.

Il fascismo esce dalla logica del compromesso, unifica le forze più rea-
zionarie della borghesia e del blocco agrario, afferma una politica di dominio,
generando l’opposizione della parte meno reazionaria (giolittiana) della bor-
ghesia, che diventa così antifascista.

3 Il partito come parte della classe. La battaglia più aspra (anche se mol-
to sottile) a Lione riguarda la concezione del partito. Il centro di Gramsci e
Togliatti delinea la prospettiva di un partito di massa. La parola massa è for-
se quella che ricorre di più negli interventi. Ma la discussione sul partito di
massa si incentra su due modelli teorici relativi al rapporto fra partito e classe
operaia: partito come organo della classe o partito come parte della classe;
sezioni territoriali o cellule di fabbrica.
Per Gramsci il partito è “parte” della classe. Qui emerge l’anima ordino-
vista della Centrale. Per molti versi, nei quaderni, Gramsci supererà questa
visione del partito. “Parte” significa: «gli organizzatori della classe operaia
sono gli operai stessi». Il soggetto è la classe. Per Bordiga la classe è la “par-
te” di un soggetto politico che è il partito. L’organizzazione del partito per
cellule, secondo la base di produzione, risponde in Gramsci a questa conce-
zione del rapporto classe-partito.

4 Le tappe intermedie. Qui veniamo all’aspetto essenziale sotto il profilo


politico. Per Bordiga la rivoluzione è attuale, quindi il partito non ha il com-
pito di allearsi con le forze democratiche borghesi per sconfiggere il fasci-
smo. Per Gramsci, al contrario, fascismo e democrazia non sono lo stesso,
esiste un problema di alleanze non solo sociali ma anche politiche (questo è
il senso dell’Aventino e dell’Antiparlamento). La formula del Comintern è
fronte unico, dall’alto o dal basso (è come un elastico, cambia di significato
fra il IV e il V Congresso). Per Gramsci il problema principale e più urgente
è rovesciare il fascismo:

Sarebbe stato sufficiente lanciare delle parole di propaganda e condurre una campa-
gna di critica ideologica e politica tanto contro il fascismo quanto contro l’opposizione
costituzionale (Aventino)? No, questo non sarebbe stato sufficiente. La propaganda e la
critica politica che si svolgono sugli organi del partito hanno una cerchia d’influenza mol-
to ristretta; esse non giungono molto al di là della massa degli iscritti. Era necessario con-
durre un’azione politica, e questa doveva essere diversa nei riguardi del fascismo e delle
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opposizioni. Infatti, anche la estrema sinistra asserisce che i fattori della situazione in quel
momento erano tre: il fascismo, le opposizioni e il proletariato. Questo vuol dire che tra i
due primi noi dovevamo fare una distinzione e porci, non solo teoricamente, ma pratica-
mente, il problema di disgregare socialmente e quindi politicamente le opposizioni, per
togliere loro le basi che avevano tra le masse. A questo scopo fu rivolta l’azione politica
del partito verso le opposizioni. È certo che, per il proletariato e per noi in quel momento
esisteva un problema fondamentale: quello di rovesciare il fascismo.

Perciò esiste una differenza fondamentale tra democrazia e fascismo:

È assurdo affermare che non esiste differenza tra una situazione democratica e una si-
tuazione reazionaria, e che, anzi, in una situazione democratica sia più disagevole il lavo-
ro per la conquista delle masse. La verità è che oggi in una situazione reazionaria si lotta
per organizzare il partito, mentre in una situazione democratica si lotterebbe per organiz-
zare la insurrezione.

Se fascismo e democrazia non sono lo stesso, è necessario allearsi con le


altre forze democratiche, è necessaria una politica antifascista: nel linguag-
gio di Lione, sono necessarie tappe intermedie nel processo rivoluzionario.
Prima sconfiggere il fascismo, poi pensare alla rivoluzione. Il tema della Co-
stituente (ripreso dal leader liberale Giovanni Amendola) sarà negli anni suc-
cessivi (proprio quando, a livello internazionale, prevarrà la politica del “so-
cialfascismo”) il motivo dell’isolamento di Gramsci nel carcere di Turi.
È vero tuttavia che le le tesi inquadrano questo problema in una serie di
parole d’ordine non tutte coerenti: comitati operai e contadini, tattica del
fronte unico, soluzioni intermedie, repubblica, governo operaio e contadino,
dittatura del proletariato. In sostanza non viene esclusa l’alleanza con le altre
forze antifasciste, sulla linea dell’Aventino, ma è ancora concepita in manie-
ra strumentale, come mezzo per smascherare gli alleati. Leggiamo:

Mentre agita il suo programma di rivendicazioni classiste immediate e concentra la


sua attività nell’ottenere la mobilitazione e unificazione delle forze operaie e lavoratrici, il
partito può presentare, allo scopo di agevolare lo sviluppo della propria azione, soluzioni
intermedie di problemi politici generali, e agitare queste soluzioni tra le masse che sono
ancora aderenti a partiti e formazioni controrivoluzionarie. Questa presentazione e agita-
zione di soluzioni intermedie - lontane tanto dalle parole d’ordine del partito quanto dal
programma di inerzia e passività dei gruppi che si vogliono combattere - permette di rac-
cogliere al seguito del partito forze più vaste, di porre in contraddizione le parole dei diri-
genti i partiti di massa controrivoluzionari con le loro intenzioni reali, di spingere le mas-
se verso soluzioni rivoluzionarie e di estendere la nostra influenza (esempio: antiparla-
mento).
Queste soluzioni intermedie non si possono prevedere tutte, perché devono in ogni ca-
so aderire alla realtà. Esse devono però essere tali da poter costituire un ponte di passag-
gio verso le parole d’ordine del partito, e deve apparire sempre evidente alle masse che
una loro eventuale realizzazione si risolverebbe in un acceleramento del processo rivolu-
zionario e in un inizio di lotte più profonde. La presentazione e agitazione di queste solu-
zioni intermedie è la forma più specifica di lotta che deve essere usata contro i partiti se-
dicenti democratici, i quali in realtà sono uno dei più forti sostegni dell’ordine capitalisti-
co vacillante e come tali si alternano al potere con i gruppi reazionari, quando questi parti-
ti sedicenti democratici sono collegati con strati importanti e decisivi della popolazione
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lavoratrice (come in Italia nei primi mesi della crisi Matteotti) e quando è imminente e
grave un pericolo reazionario (tattica adottata dai bolscevichi verso Kerenski durante il
colpo di Kornilov). In questi casi il Partito comunista ottiene i migliori risultati agitando
le soluzioni stesse che dovrebbero essere proprie dei partiti sedicenti democratici se essi
sapessero condurre per la democrazia una lotta conseguente, con tutti i mezzi che la si-
tuazione richiede. Questi partiti, posti così alla prova dei fatti, si smascherano di fronte
alle masse e perdono la loro influenza su di esse.
Tutte le agitazioni particolari che il partito conduce e le attività che esso esplica in
ogni direzione per mobilitare e unificare le forze della classe lavoratrice devono conver-
gere ed essere riassunte in una formula politica la quale sia agevole a comprendersi dalle
masse e abbia il massimo valore di agitazione nei loro confronti. Questa formula è quella
del "governo operaio e contadino". Essa indica anche alle masse più arretrate la necessità
della conquista del potere per la soluzione dei problemi vitali che le interessano e fornisce
il mezzo per portarle sul terreno che è proprio dell’avanguardia operaia più evoluta (lotta
per la dittatura del proletariato). In questo senso essa è una formula di agitazione, ma non
corrisponde ad una fase reale di sviluppo storico se non allo stesso modo delle soluzioni
intermedie di cui al numero precedente. [I corsivi sono miei]

5 Le forze motrici. Al discorso sulle tappe intermedie corrisponde una re-


visione generale del concetto di rivoluzione. Chi sono i soggetti della rivolu-
zione? Quali sono le forze motrici della rivoluzione italiana? Alla tesi delle
alleanze politiche corrisponde un nuovo discorso sulle alleanze sociali, quin-
di sull’egemonia.

Le forze motrici della rivoluzione italiana, come risulta ormai dalla nostra analisi so-
no, in ordine alla loro importanza, le seguenti:
1) la classe operaia e il proletariato agricolo;
2) i contadini del Mezzogiorno e delle Isole e i contadini delle altri parti d’Italia.
Lo sviluppo e la rapidità del processo rivoluzionario non sono prevedibili al di fuori di
una valutazione di elementi soggettivi: cioè dalla misura in cui la classe operaia riuscirà
ad acquistare una propria figura politica, una coscienza di classe decisa e una indipenden-
za da tutte le altre classi, dalla misura in cui essa riuscirà a organizzare le sue forze, cioè a
esercitare di fatto un’azione di guida degli altri fattori in prima linea a concretare politi-
camente la sua alleanza con i contadini. Si può affermare in generale, e basandosi del re-
sto sulla esperienza italiana, che dal periodo della preparazione rivoluzionaria si entrerà in
un periodo rivoluzionario "immediato" quando il proletariato industriale e agricolo del
settentrione sarà riuscito a riacquistare, per lo svolgimento della situazione oggettiva e
attraverso una serie di lotte particolari e immediate, un alto grado di organizzazione e di
combattività.
Quanto ai contadini, quelli del Mezzogiorno e delle Isole devono essere posti in prima
linea tra le forze su cui deve contare la insurrezione contro la dittatura industriale-agraria,
per quanto non si debba attribuir loro, all’infuori di un’alleanza col proletariato, una im-
portanza risolutiva. L’alleanza tra essi e gli operai è il risultato di un processo storico na-
turale e profondo, favorito da tutte le vicende dello Stato italiano. Per i contadini delle
altre parti d’Italia il processo di orientamento verso l’alleanza col proletariato è più lento e
dovrà essere favorito da una attenta azione politica del partito del proletariato. I successi
già ottenuti in Italia in questo campo indicano del resto che il problema di rompere
l’alleanza dei contadini con le forze reazionarie deve essere posto, per gran parte, anche in
altri paesi dell’Europa occidentale, come problema di distruggere la influenza della orga-
nizzazione cattolica sulle masse rurali.
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2. La relazione al comitato direttivo dell’agosto 1926

L’ultimo documento, ancora legato a Lione, è la relazione al comitato di-


rettivo del 2-3 agosto, intitolata Un esame della situazione italiana, pubblica-
ta sullo «Stato operaio» nel marzo 1928. Questo scritto ha una grande impor-
tanza e mostra come si stava orientando la riflessione di Gramsci prima
dell’arresto. Numerose sono le novità rispetto agli interventi di Lione. Pro-
viamo a schematizzarle.

1 Le due tendenze del fascismo. Gramsci approfondisce l’analisi del fa-


scismo, distinguendo due tendenze fondamentali, quella movimentista di Fa-
rinacci e quella statualista, istituzionale di Federzoni. Non ha dubbi che il fa-
scismo stia diventando Stato, unificandosi con la Corona, con il Vaticano,
con lo stato maggiore dell’esercito. Insomma comprende che il potere fasci-
sta è un fenomeno di lungo periodo, fondato su una base di consenso e su
una complessa dialettica istituzionale.

Le due tendenze del fascismo.


Da una parte la tendenza Federzoni, Rocco, Volpi, che vuole tirare le conclusioni di
tutto questo periodo dopo la marcia su Roma. Essa vuole liquidare il partito fascista come
organismo politico e incorporare nell'apparato statale la situazione di forza borghese crea-
ta dal fascismo nelle sue lotte contro tutti gli altri partiti. Questa tendenza lavora d'accor-
do con la Corona e con lo stato maggiore. Essa vuole incorporare nelle forze centrali dello
Stato da una parte l'Azione cattolica, cioè il Vaticano, ponendo termine di fatto e possi-
bilmente anche di diritto al dissidio fra la casa Savoia ed il Vaticano e dall'altra parte gli
elementi piú moderati dell'ex Aventino. È certo che mentre il fascismo nella sua ala na-
zionalista, dato il passato e le tradizioni del vecchio nazionalismo italiano, lavora verso
l'Azione cattolica, dall'altro lato la casa Savoia cerca ancora una volta di sfruttare le sue
tradizioni per attirare nelle sfere governative gli uomini del gruppo di Di Cesare e del
gruppo Amendola.
L'altra tendenza è ufficialmente impersonata da Farinacci. Essa obbiettivamente rap-
presenta due contraddizioni del fascismo. 1) La contraddizione tra agrari e capitalisti nelle
divergenze d'interesse specialmente doganali. È certo che l'attuale fascismo rappresenta
tipicamente il netto predominio del capitale finanziario nello Stato, capitale che vuole as-
servire a sé tutte le forze produttive del paese. 2) La seconda contraddizione è di gran lun-
ga la piú importante ed è quella tra la piccola borghesia ed il capitalismo.
La piccola borghesia fascista vede nel partito lo strumento della sua difesa, il suo Par-
lamento, la sua democrazia. Attraverso il partito vuole fare pressioni sul governo per im-
pedire di essere schiacciata dal capitalismo. Un elemento che occorre tener presente è il
fatto dell'asservimento completo in cui l'Italia è stata messa dal governo fascista verso
l'America. Nella liquidazione del debito di guerra sia verso l'America che verso l'Inghil-
terra il governo fascista non si è preoccupato di avere nessuna garanzia sulla commercia-
bilità delle obbligazioni italiane. La borsa e la finanza italiane sono esposte in ogni mo-
mento al ricatto politico dei governi americano ed inglese, che possono in ogni momento
gettare sul mercato mondiale enormi quantità di valori italiani. Il debito Morgan d'altra
parte è stato contratto in condizioni ancora peggiori. Sui cento milioni di dollari del presti-
to il governo italiano ha a sua disposizione solo trentatre milioni. Degli altri 67 milioni il
governo italiano può disporre solo coll'alto consenso personale di Morgan, ciò che signi-
fica che il vero capo del governo italiano è Morgan. Questi elementi possono servire per
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dare alla piccola borghesia nella difesa dei suoi interessi attraverso il partito fascista come
tale un'intonazione nazionalista contro il vecchio nazionalismo e l'attuale direzione del
partito che ha fatto sacrificio della sovranità nazionale e dell'indipendenza politica del
paese agli interessi di un gruppo ristretto di plutocrati. A questo proposito un compito del
nostro partito dev'essere quello di insistere in modo particolare sulla parola d'ordine degli
Stati uniti soviettisti d'Europa come mezzo di iniziativa politica fra le file fasciste.
In generale si può dire che la tendenza Farinacci nel partito fascista manca di unità, di
organizzazione, di princìpi generali. Essa è piú uno stato d'animo diffuso che una tenden-
za vera e propria. Non sarà molto difficile al governo di disgregare i suoi nuclei costituti-
vi. Ciò che importa dal nostro punto di vista è che questa crisi, in quanto rappresenta il
distacco della piccola borghesia dalla coalizione borghese agraria fascista, non può non
essere un elemento di debolezza militare del fascismo.

2 Le tappe intermedie. Gramsci ha ormai chiaro che per uscire dal fasci-
smo servono soluzioni intermedie, un «intermezzo democratico» con
l’alleanza di tutte le forze dell’antifascismo. Scrive che l’intermezzo «deve
essere più breve che sia possibile», ma la politica del socialfascismo (ormai
sancita dal Comintern) appare qui superata. Da queste posizioni del 1926 si
comprendono, insomma, i motivi del successivo isolamento di Gramsci, fino
alle accuse di essere estraneo alla linea del comunismo mondiale.

Sul terzo elemento politico. È evidente che avviene nel campo della democrazia un
certo raggruppamento con carattere piú radicale che nel passato. L'ideologia repubblicana
si rafforza, inteso ciò nello stesso senso che per il fronte unico, cioè negli strati medi dei
partiti democratici e in questo caso anche in buona parte degli strati superiori.
Vecchi capi ex aventiniani hanno rifiutato l'invito a riprendere i contatti con la casa
reale. Si dice che lo stesso Amendola nell'ultimo periodo della sua vita fosse diventato
completamente repubblicano e facesse in questo senso propaganda personale. I popolari
sarebbero diventati anche essi tendenzialmente repubblicani, ecc. È certo che si fa un
grande lavoro per determinare sul terreno repubblicano un raggruppamento neodemocra-
tico che dovrebbe prendere il potere al momento della catastrofe fascista e instaurare un
regime di dittatura contro la destra reazionaria e contro la sinistra comunista. A questo
risveglio democratico repubblicano hanno contribuito gli ultimi avvenimenti europei co-
me l'avventura Pilsudski in Polonia ed i sussulti preagonici del cartello francese. Il nostro
partito deve porsi il problema generale delle prospettive della politica nazionale. Gli ele-
menti possono essere cosí stabiliti: se pur è vero che politicamente il fascismo può avere
come successore una dittatura del proletariato — poiché nessun partito o coalizione in-
termedia è in grado di dare sia pure una minima soddisfazione alle esigenze economiche
delle classi lavoratrici che irromperebbero violentemente nella scena politica al momento
della rottura dei rapporti esistenti — non è però certo e neanche probabile che il passaggio
dal fascismo alla dittatura del proletariato sia immediato. Bisogna tener conto del fatto
che le forze armate esistenti, data la loro composizione, non sono conquistabili immedia-
tamente e che esse saranno l'elemento determinante della situazione. Si possono fare delle
ipotesi alle quali attribuire volta per volta maggiore carattere di probabilità. È possibile
che dal governo attuale si passi a un governo di coalizione, nel quale uomini come Giolit-
ti, Orlando, Di Cesarò, De Gasperi diano una maggiore elasticità immediata. Gli ultimi
avvenimenti parlamentari francesi dimostrano di quale elasticità sia capace la politica
borghese per allontanare la crisi rivoluzionaria, spostare gli avversari, logorarli, disgregar-
li. Una crisi economica improvvisa e fulminea non improbabile in una situazione come
quella italiana potrebbe portare al potere la coalizione democratica repubblicana, dato che
essa si presenterebbe agli ufficiali dell'esercito e a una parte della stessa milizia e ai fun-
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zionari dello stato in genere (elemento di cui bisogna tener molto conto in situazioni come
quella italiana) come capace di infrenare la rivoluzione. Queste ipotesi hanno per noi solo
un valore generale di prospettiva. Esse ci servono per fissare questi punti:
1) Noi dobbiamo fin da oggi restringere al minimo l'influenza e l'organizzazione dei
partiti che possono costituire la coalizione di sinistra per rendere sempre piú probabile una
caduta rivoluzionaria del fascismo, in quanto gli elementi energici ed attivi della popola-
zione sono sul nostro terreno nel momento della crisi. 2) In ogni caso noi dobbiamo ten-
dere a rendere piú breve che sia possibile l'intermezzo democratico avendo fin da oggi
disposto a nostro favore il maggior numero di condizioni favorevoli.
È da questi elementi che dobbiamo trarre l'indicazione per la nostra attività pratica
immediata. Intensificare l'attività generale del fronte unico e l'organizzazione di sempre
nuovi comitati d'agitazione per centralizzarli almeno su scala regionale e provinciale. Nei
comitati le nostre frazioni devono cercare prima di tutto di ottenere il massimo di rappre-
sentanze delle diverse correnti politiche di sinistra evitando sistematicamente ogni settari-
smo di partito. Le questioni devono essere dalle nostre frazioni impostate oggettivamente
come espressioni degli interessi della classe operaia e dei contadini.

3 La “tattica determinata” Inoltre Gramsci afferma chiaramente che il


periodo della stabilizzazione non è affatto superato. Nei «paesi periferici» del
capitalismo il problema della rivoluzione si pone in maniera diversa: per «il
largo strato di classi intermedie» e per la necessità della «fase intermedia»,
cioè di una rivoluzione democratica che preceda la conquista del potere. In
maniera esplicita (e questo è l’aspetto essenziale dello scritto) Gramsci di-
chiara la fine della tattica del fronte unico e la necessità di una nuova «tattica
determinata», «che si ponga i problemi concreti della vita nazionale».

Alcune serie di osservazioni e di criteri devono essere posti alla base di questo esame:
1) L'osservazione che nei paesi a capitalismo avanzato la classe dominante possiede
delle riserve politiche ed organizzative che non possedeva per esempio in Russia. Ciò si-
gnifica che anche le crisi economiche gravissime non hanno immediate ripercussioni nel
campo politico. La politica è sempre in ritardo e in grande ritardo sull'economia. L'appa-
rato statale è molto piú resistente di quanto spesso non si può credere e riesce ad organiz-
zare nei momenti di crisi forze fedeli al regime piú di quanto la profondità della crisi po-
trebbe lasciar supporre. Ciò si riferisce specialmente agli Stati capitalistici piú importanti.
Negli Stati periferici tipo della serie, come l'Italia, la Polonia, la Spagna e il Portogallo, le
forze statali sono meno efficienti. Ma in questi paesi si verifica un fenomeno che deve
essere tenuto nel massimo conto. Il fenomeno a parer mio consiste in ciò: in questi paesi
tra il proletariato e il capitalismo si distende un largo strato di classi intermedie le quali
vogliono e in un certo senso riescono a condurre una propria politica con ideologie che
spesso influenzano larghi strati del proletariato, ma che hanno una particolare suggestione
sulle masse contadine. Anche la Francia, nonostante che occupi una posizione eminente
nel primo gruppo degli Stati capitalistici, partecipa per alcune sue caratteristiche alla si-
tuazione degli Stati periferici.
Ciò che mi pare caratteristico della fase attuale della crisi capitalistica consiste nel fat-
to che, a differenza del '20'21'22, oggi le formazioni politiche e militari delle classi medie
hanno un carattere radicale di sinistra, o almeno si presentano dinanzi alle masse come
radicali di sinistra. Lo sviluppo della situazione italiana, dati i suoi caratteri peculiari, mi
pare possa in un certo senso dare il modello per le diverse fasi attraversate dagli altri pae-
si. Nel '19 e '20 le formazioni militari e politiche delle classi medie erano da noi rappre-
sentate dal fascismo primitivo e da D'Annunzio. È noto che in quegli anni tanto il movi-
mento fascista come il movimento dannunziano erano disposti anche ad allearsi con le
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forze proletarie rivoluzionarie per rovesciare il governo di Nitti, che appariva come il
mezzano del capitale americano per asservire l'Italia (Nitti è stato in Europa il precursore
di Dawes). La seconda fase del fascismo — '21 e '22 — è nettamente reazionaria. Dal '23
si inizia un processo molecolare per cui gli elementi piú attivi delle classi medie si sposta-
no dal campo reazionario fascista al campo delle opposizioni aventiniane. Questo proces-
so precipita in una cristallizzazione che poteva essere fatale al fascismo nel periodo della
crisi Matteotti. Per la debolezza del nostro movimento, debolezza che d'altronde aveva
essa stessa un significato, il fenomeno è interrotto dal fascismo, e le classi medie sono
respinte in una nuova polverizzazione politica. Oggi il fenomeno molecolare ha ripreso su
una scala di molto superiore a quello iniziatosi nel '23 ed è accompagnato da un fenomeno
parallelo di raggruppamento delle forze rivoluzionarie intorno al nostro partito, ciò che
assicura che una nuova crisi tipo Matteotti difficilmente potrà avere un nuovo 3 gennaio.
Queste fasi attraversate dall'Italia, in una forma che chiamerei classica ed esemplare, le
ritroviamo in quasi tutti i paesi che abbiamo chiamati periferici del capitalismo. La fase
attuale italiana, cioè un raggruppamento a sinistra delle classi medie, la troviamo in Ispa-
gna, in Portogallo, in Polonia, nei Balcani. Solo in due paesi, Cecoslovacchia e Francia,
troviamo una continuità nella permanenza del blocco di sinistra, fatto che dovrebbe essere
secondo me particolarmente studiato. La conclusione di queste osservazioni che natural-
mente dovranno essere perfezionate ed esposte in forma sistematica, mi pare possa essere
questa: realmente noi entriamo in una fase nuova dello sviluppo della crisi capitalistica.
Questa fase si presenta in forme distinte nei paesi della periferia capitalistica e nei paesi di
avanzato capitalismo. Tra queste due serie di Stati la Cecoslovacchia e la Francia rappre-
sentano i due anelli di congiunzione. Nei paesi periferici si pone il problema della fase
che ho chiamata intermedia tra la preparazione politica e la preparazione tecnica della ri-
voluzione. Negli altri paesi, Francia e Cecoslovacchia comprese, mi pare che il problema
sia ancora quello della preparazione politica. Per tutti i paesi capitalistici si pone un pro-
blema fondamentale, quello del passaggio dalla tattica del fronte unico, inteso in senso
generale, a una tattica determinata, che si ponga i problemi concreti della vita nazionale e
operi sulla base delle forze popolari cosí come sono storicamente determinate.

Credo si possa dire che nel comitato centrale dell’agosto le conseguenze


del congresso di Lione sono finalmente tratte in maniera coerente.

3. La lettera al partito russo

Il comitato centrale è dell’agosto. Nell’ottobre c’è il primo motivo di con-


trasto all’interno del nuovo gruppo dirigente eletto a Lione. Come abbiamo
visto, a Lione non si era discussa la situazione sovietica. Le notizie sulle lotte
interne al partito russo cominciano a circolare nel semestre successivo sulla
stampa “borghese”. Ormai è chiara la divisione nel gruppo dirigente leninista
e l’avvento dello stalinismo. Siamo in un periodo di svolta nella storia sovie-
tica. Dopo la lotta anti-trockijsta, nel 1924-1925, il gruppo dirigente si spac-
ca: Zinov’ev e Kamenev saldano l’opposizione interna con Trockij, mentre
Bucharin e Stalin costituiscono la nuova maggioranza. Le notizie arrivano
sulla stampa italiana nella seconda metà del 1926 e vengono per lo più inter-
pretate dagli osservatori come un sintomo di dissoluzione dell’Urss. Tra ago-
sto e settembre «L’Unità» pubblica i documenti della disputa e Gramsci pub-
blica, sempre su «L’Unità», a partire da settembre, una serie di articoli pole-
43

mici nei quali, senza possibilità di dubbio, schiera il partito con la nuova
maggioranza e, in particolare, riprende molte argomentazioni di Bucharin.
Dunque su un punto non possono esserci dubbi: il centro del Pci, vincitore a
Lione, si schiera compatto con la nuova maggioranza del Pcr guidata da Sta-
lin e Bucharin.
Tenete presente che i documenti di questa vicenda sono una acquisizione
recente. Togliatti rese pubblica la lettera di Gramsci in due articoli del 1964
su «Rinascita». Nel 1970 il direttore dell’Istituto Gramsci Franco Ferri pub-
blicò su «Rinascita» l’intero carteggio da lui rinvenuto a Mosca. Solo dopo il
1990 sono stati trovati negli archivi del Pcus i restanti documenti. Oggi si
leggono raccolti nel volume: Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteg-
gio del 1926, a cura di Chiara Daniele, Einaudi, Torino 1999.
Togliatti, rappresentante del Pci a Mosca, invia all’Ufficio Politico rela-
zioni molto precise e circostanziate su quello che accade. Le sue relazioni
sono lucide e informate: in particolare egli prevede i prossimi provvedimenti
disciplinari e la sostituzione di Zinov’ev alla presidenza del Comintern. So-
prattutto, Togliatti ritiene necessario un pronunciamento dei partiti comunisti,
che finora era stato evitato.
Ai primi di agosto si riunisce in Italia il Comitato centrale, che non acco-
glie l’invito di Togliatti a pronunciarsi. In particolare Gramsci è contrario e
nel corso della riunione afferma:

è difficile per le masse degli altri partiti poter discutere sulle questioni così complesse
come sono quelle del PCR. Quindi prima di fare la discussione bisognerà pensarci. Occor-
re invece informare la massa dei compagni della questione mettendo a loro disposizione
tutto il materiale necessario perché se ne servano come elemento di studio.

Però la situazione precipita. Per il Pci è diventato difficile non intervenire.


Tuttavia, non si riunisce il Comitato centrale ma l’Ufficio politico, che dà
mandato a Gramsci di esprimersi con una lettera indirizzata al Comitato cen-
trale del Pcr. Il 14 ottobre, nella sede della rappresentanza sovietica a Roma,
Gramsci scrive la lettera. Con la data del 14 ottobre invia 2 lettere a Togliatti.
In primo luogo un allegato con alcune istruzioni:

ti unisco il documento di cui ti si parla in altra lettera. Lo farai ricopiare e tradurre,


aggiungendo, se vuoi, i nostri nomi, che in ogni caso, non dovrebbero essere pubblicati.
Puoi rivedere il testo, per qualche mutazione di dettaglio e di forma, data la fretta con cui
è stato compilato. I termini essenziali devono però essere mantenuti integri. Perché noi
vogliamo aiutare la maggioranza del CC [russo], puoi metterti d’accordo coi più respon-
sabili per queste mutazioni. La nostra impressione è alquanto pessimistica; perciò abbia-
mo ritenuto necessaria la lettera.

Quindi la famosa lettera che destò lo scandalo di Togliatti e dei dirigenti


sovietici. Cosa aveva scritto Gramsci? Riassumerei il contenuto della lettera
in questo modo. Il concetto fondamentale è la funzione propulsiva dell’Urss
rispetto al movimento comunista internazionale e soprattutto europeo (già
qui Gramsci appare distante dalla teoria del socialismo in un solo paese).
Questa funzione propulsiva esige la piena unità del gruppo dirigente leninista.
44

Le parole-chiave della lettera sono due: funzione propulsiva, egemonia del


proletariato. Solo che questa unità non può essere conseguita con misure
“meccaniche” e repressive, ma con una sintesi delle parti in lotta, con una
intesa fra maggioranza e opposizione. Leggiamo i passaggi più drammatici
della lettera:

Ebbene: l’acutezza della crisi attuale e la minaccia di scissione aperta o latente che es-
sa contiene, arresta questo processo di sviluppo e di rielaborazione dei nostri Partiti, cri-
stallizza le deviazioni di destra e di sinistra, allontana ancora una volta il successo
dell’unità organica del Partito mondiale dei lavoratori. È su questo elemento in ispecial
modo che noi crediamo nostro dovere di internazionalisti di richiamare l’attenzione dei
compagni piú responsabili del Partito comunista dell’Urss.
Compagni, voi siete stati, in questi nove anni di storia mondiale, l’elemento organiz-
zatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi: la funzione che voi avete
svolto non ha precedenti in tutta la storia del genere umano che la uguagli in ampiezza e
profondità. Ma voi oggi state distruggendo l’opera vostra, voi degradate e correte il ri-
schio di annullare la funzione dirigente che il Partito comunista dell’Urss aveva conqui-
stato per l’impulso di Lenin; ci pare che la passione violenta delle quistioni russe vi fac-
cia perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenti-
care che i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel
quadro degli interessi del proletariato internazionale.

Poco dopo l’attacco alle tendenze repressive del nuovo gruppo dirigente:

solo una ferma unità e una ferma disciplina nel Partito che governa lo stato operaio
può assicurare l’egemonia proletaria in regime di nep, cioè nel pieno sviluppo della con-
traddizione cui abbiamo accennato. Ma l’unità e la disciplina in questo caso non possono
essere meccaniche e coatte; devono essere leali e di convinzione e non quelle di un repar-
to nemico imprigionato o assediato che pensa all’evasione o alla sortita di sorpresa.
Questo, carissimi compagni, abbiamo voluto dirvi, con spirito di fratelli e di amici, sia
pure di fratelli minori. I compagni Zinov’ev, Trotzkij, Kamenev hanno contribuito poten-
temente a educarci per la rivoluzione, ci hanno qualche volta corretto molto energicamen-
te e severamente, sono stati fra i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai
maggiori responsabili della attuale situazione, perché vogliamo essere sicuri che la mag-
gioranza del CC dell’Urss non intenda stravincere nella lotta e sia disposta ad evitare le
misure eccessive. L’unità del nostro Partito fratello di Russia è necessaria per lo sviluppo
e il trionfo delle forze rivoluzionarie mondiali; a questa necessità ogni comunista e inter-
nazionalista deve essere disposto a fare maggiori sacrifici. I danni di un errore compiuto
dal Partito unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata
condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali.
Con saluti comunisti
L’UP del PCI

Ricevuta la lettera, Togliatti la mostrò ai dirigenti sovietici, a Bucharin,


probabilmente a Stalin. Tra il 16 e il 25 ottobre arrivarono diverse lettere da
Mosca. Il 16 ottobre Togliatti giudica «inopportuna» la lettera, il 18 scrive
due lettere, una all’Ufficio politico e una personalmente a Gramsci, per scon-
sigliarne il recapito al Comitato centrale. Il 21 ottobre Manuil’skij scrive di-
rettamente a Gramsci. Jules Humbert-Droz viene inviato a Roma urgente-
mente per illustrare la situazione. In sostanza la lettera di Gramsci viene in-
45

terpretata come una presa di posizione a favore dell’opposizione (Zinov’ev e


Trockij), nel momento in cui l’opposizione stessa viene sconfitta e comple-
tamente emarginata dalla guida del partito.
A questo punto accade un fatto degno di nota. L’Ufficio politico, con una
nota del 26 ottobre firmata “Micheli” (Camilla Ravera) accoglie la proposta
di Togliatti di non consegnare la lettera. Ma lo stesso giorno Gramsci scrive
una lettera durissima a Togliatti, in cui ribadisce punto per punto le sue posi-
zioni. Leggiamone alcuni brani:

Carissimo Ercoli, ho ricevuto la tua lettera del 18. Rispondo a titolo personale, quan-
tunque sia persuaso di esprimere l’opinione anche degli altri compagni.
La tua lettera mi pare troppo astratta e troppo schematica nel modo di ragionare. Noi
siamo partiti dal punto di vista che mi pare esatto, che nei nostri paesi non esistono solo i
partiti, intesi come organizzazione tecnica, ma esistono anche le grandi masse lavoratrici,
politicamente stratificate in modo contraddittorio, ma nel loro complesso tendenti
all’unità. Uno degli elementi piú energici di questo processo unitario è l’esistenza
dell’Urss legata all’attività reale del partito comunista dell’Urss e alla persuasione diffusa
che nell’Urss si cammina nella via del socialismo. in quanto i nostri partiti rappresentano
tutto il complesso attivo dell’Urss essi hanno una determinata influenza su tutti gli strati
politici della grande massa, ne rappresentano la tendenza unitaria, si muovono su un ter-
reno storico fondamentalmente favorevole, nonostante le superstrutture contraddittorie.
Ma non bisogna credere che questo elemento che fa del partito comunista dell’Urss
l’organizzatore di masse piú potente che sia mai apparso nella storia, sia ormai acquisito
in forma stabile e decisiva: tutt’altro. Esso è sempre instabile. Cosí non bisogna dimenti-
care che la rivoluzione russa ha già nove anni di esistenza e che la sua attuale attività è un
insieme di azioni parziali e di atti di governo che solo una coscienza teorica e politica
molto sviluppata può cogliere come insieme e nel suo movimento d’insieme verso il so-
cialismo. non solo per le grandi masse lavoratrici, ma anche per una notevole parte degli
iscritti ai partiti occidentali, che si differenziano dalle masse solo per questo passo, radica-
le ma iniziale verso una coscienza sviluppata che è l’ingresso nel partito, il movimento
d’insieme della rivoluzione russa è rappresentato concretamente dal fatto che il partito
russo si muove unitariamente, che insieme operano e si muovono gli uomini rappresenta-
tivi che le nostre masse conoscono e sono abituate a conoscere. la quistione dell’unità,
non solo del partito russo ma anche del nucleo leninista, è pertanto una quistione della
massima importanza nel campo internazionale; è, dal punto di vista di massa, la quistione
piú importante in questo periodo storico di intensificato processo contraddittorio verso
l’unità.
È possibile e probabile che l’unità non possa essere conservata almeno nella forma
che essa ha avuto nel passato. È anche certo che tuttavia non crollerà il mondo e che oc-
corre far di tutto per preparare i compagni e le masse alla nuova situazione. Ciò non toglie
che sia nostro dovere assoluto richiamare alla coscienza politica dei compagni russi e ri-
chiamare energicamente, i pericoli e le debolezze che i loro atteggiamenti stanno per de-
terminare. Saremmo dei rivoluzionari ben pietosi e irresponsabili se lasciassimo passiva-
mente compiersi i fatti compiuti, giustificandone a priori la necessità.
Che l’adempimento di un tale dovere da parte nostra possa, in via subordinata, giova-
re anche all’opposizione, deve preoccuparci fino ad un certo punto, infatti è nostro scopo
contribuire al mantenimento e alla creazione di un piano unitario nel quale le diverse ten-
denze e le diverse personalità possano riavvicinarsi e fondersi anche ideologicamente. Ma
io non credo che nella nostra lettera, la quale evidentemente deve essere letta nel suo in-
sieme e non già a brani staccati e avulsi, ci sia un qualsiasi pericolo di indebolire la posi-
zione della maggioranza del comitato centrale. In ogni caso, appunto in vista di ciò e della
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possibilità di una tale apparenza, in una lettera aggiunta ti avevo autorizzato a modificare
la forma: potevi benissimo posporre le due parti e mettere subito nell’inizio la nostra af-
fermazione di «responsabilità» dell’opposizione. Questo tuo modo di ragionare perció mi
ha fatto una impressione penosissima.
E voglio dirti che in noi non c’è ombra alcuna di allarmismo, ma solo ponderata e
fredda riflessione. Siamo sicuri che in nessun caso crollerà il mondo: ma sarebbe stolto
muoversi solo se sta per crollare il mondo, mi pare. Nessuna frase fatta perció ci smuove-
rà dalla persuasione di essere nella linea giusta, nella linea leninista per il modo di consi-
derare le quistioni russe. La linea leninista consiste nel lottare per la unità del partito, e
non solo per la unità esteriore, ma per quella un po’ piú intima che consiste nel non esser-
ci nel partito due linee politiche completamente divergenti in tutte le quistioni. Non solo
nei nostri paesi, per ciò che riguarda la direzione ideologica e politica dell’internazionale,
ma anche in Russia, per ciò che riguarda l’egemonia del proletariato e cioè il contenuto
sociale dello Stato, l’unità del partito è condizione esistenziale.
Tu fai una confusione tra gli aspetti internazionali della quistione russa che sono un ri-
flesso del fatto storico del legame delle masse lavoratrici col primo stato socialista, e i
problemi di organizzazione internazionale nel terreno sindacale e politico. I due ordini di
fatti sono coordinati strettamente ma tuttavia distinti. Le difficoltà che si incontrano e si
sono andate costituendo nel campo piú ristretto organizzativo, sono dipendenti dalle flut-
tuazioni che si verificano nel piú largo campo dell’ideologia diffusa di massa, cioè dal
restringersi dell’influenza e del prestigio del partito russo in alcune zone popolari. Per me-
todo noi abbiamo voluto parlare solo degli aspetti piú generali: abbiamo voluto evitare di
cadere nell’imparaticcio scolastico che purtroppo affiora in alcuni documenti di altri parti-
ti e toglie serietà al loro intervento.
Così non è vero, come tu dici, che noi siamo troppo ottimisti sulla bolscevizzazione
reale dei partiti occidentali. Tutt’altro. Il processo di bolscevizzazione è talmente lento e
difficile che ogni anche piú piccolo inciampo lo arresta e lo ritarda. La discussione russa e
l’ideologia delle opposizioni gioca in questo arresto e ritardo un uffizio tanto piú grande,
in quanto le opposizioni rappresentano in Russia tutti i vecchi pregiudizi del corporativi-
smo di classe e del sindacalismo che pesano sulla tradizione del proletariato occidentale e
ne ritardano lo sviluppo ideologico e politico. la nostra osservazione era tutta rivolta con-
tro le opposizioni. È vero che le crisi dei partiti e anche del partito russo sono legate alla
situazione obiettiva, ma cosa significa ciò? Forse che per ciò dobbiamo cessare di lottare,
dobbiamo cessare di sforzarci per modificare favorevolmente gli elementi soggettivi? Il
bolscevismo consiste precisamente anche nel mantenere la testa a posto e nell’essere ideo-
logicamente e politicamente fermi anche nelle situazioni difficili. La tua osservazione è
dunque inerte e priva di valore, cosí come quella contenuta al punto 5, poiché noi abbia-
mo parlato delle grandi masse e non già dell’avanguardia proletaria. Subordinatamente,
però, la difficoltà esiste anche per questa, la quale non è campata per aria ma unita alla
massa: ed esiste tanto piú, in quanto il riformismo con le sue tendenze al corporativismo
di classe, cioè alla non comprensione del ruolo dirigente dell’avanguardia, ruolo da con-
servarsi anche a costo di sacrifizi, è molto piú radicato nell’occidente di quanto fosse in
russia. Tu dimentichi poi facilmente le condizioni tecniche in cui si svolge il lavoro in
molti partiti, che non permettono la diffusione delle quistioni teoriche piú elevate altro
che in piccole cerchie di operai. tutto il tuo ragionamento è viziato di «burocratismo»:
oggi, dopo nove anni dall’ottobre 1917, non è piú il fatto della presa del potere da parte
dei bolscevichi che può rivoluzionare le masse occidentali, perché esso è già stato sconta-
to ed ha prodotto i suoi effetti; oggi è attiva, ideologicamente e politicamente, la persua-
sione (se esiste) che il proletariato, una volta preso il potere, può costruire il socialismo.
L’autorità del partito è legata a questa persuasione, che non può essere inculcata nelle
grandi masse con metodi di pedagogia scolastica, ma solo di pedagogia rivoluzionaria,
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cioè solo dal fatto politico che il partito russo nel suo complesso è persuaso e lotta unita-
riamente.
Mi dispiace sinceramente che la nostra lettera non sia stata capita da te, in primo luo-
go, e che tu, sulla traccia del mio biglietto personale, non abbia in ogni caso cercato di
capir meglio: la nostra lettera era tutta una riquisitoria contro le opposizioni, fatta non in
termini demagogici ma appunto perció piú efficace e piú seria. Ti prego di allegare agli
atti, oltre il testo italiano della lettera e il mio biglietto personale, anche la presente.
Saluti cordiali
Antonio

Con ogni probabilità Gramsci aveva intenzione di difendere le sue posi-


zioni alla riunione del Comitato centrale a Valpolcevera (Genova), che si
tenne dall’1 al 3 novembre. È noto che Gramsci non poté arrivare a Valpol-
cevera perché ricondotto a Roma dalla polizia. Gramsci venne arrestato l’8
novembre e la questione rimase sospesa. La lettera di Tatiana ai familiari
racconta con precisione gli eventi di quelle ore:
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49

Lezione 6

(Lunedì 23 marzo 2020)

1. Storia della “questione meridionale” e significato generale del testo

L’esperienza precarceraria di Gramsci culmina nell’articolo sulla que-


stione meridionale. Al momento dell’arresto (8 novembre 1926) Gramsci la-
sciò questo manoscritto di 28 piccoli fogli scritti su carta intestata della Ca-
mera dei deputati, destinato alla nuova serie dell’«Ordine Nuovo» (che ov-
viamente non poté essere varata), che fissava i concetti fondamentali del suo
pensiero e della politica comunista dopo il congresso di Lione. Come ha te-
stimoniato Ruggero Grieco, la sua elaborazione fu molto impegnativa:

La sua [di Gramsci] elaborazione era lenta. Egli soffriva di insonnia e manifestava
esagerate preoccupazioni di non riuscire a esprimere con chiarezza il suo pensiero per
iscritto. Ai compagni che andavano a trovarlo faceva leggere le cartelle già pronte e do-
mandava loro che cosa avessero da osservare. Se i compagni erano, a suo avviso, troppo
generosi nell’ammirare la genialità dell’analisi che egli andava facendo, cercava di procu-
rarsi dei contraddittori, dei probabili critici e li invitava a casa. “Ho da parlarti, vieni oggi
o domani da me”, diceva a qualcuno. E chi andava a trovarlo lo vedeva camminare avanti
e indietro nella sua stanzetta, fumando una sigaretta dopo l’altra, mentre provocava la di-
sputa. Aveva bisogno del contraddittorio, per arricchire di sangue il suo pensiero.
In quel periodo, non fui un suo contraddittore. Restai intere mattinate e interi pome-
riggi a conversare con lui intorno ai grossi problemi delle prospettive e del lavoro ulterio-
re del Pci. I temi su cui lavorava dovevano ampliare la nostra azione politica, darle il do-
vuto largo respiro.

Dopo l’arresto di Gramsci, lo stesso Grieco (che nel frattempo era fuggito
dall’Italia) chiese a Camilla Ravera (che era rimasta in Italia) di contattare
Tatiana Schucht per recuperare il prezioso manoscritto. Camilla Ravera e
Giuseppe Amoretti ritrovarono il testo e lo consegnarono a Togliatti a Parigi.
Per la prima volta venne pubblicato nel gennaio 1930 sullo «Stato operaio»
con il titolo redazionale Alcuni temi della quistione meridionale, che sosti-
tuiva il titolo autentico, dato da Gramsci, che sarà ripristinato solo nel 1990
dalla edizione critica curata da Francesco M. Biscione: Note sul problema
meridionale e sull’atteggiamento nei suoi confronti dei comunisti, dei socia-
listi e dei democratici. In assenza delle lettere e dei quaderni (pubblicati a
partire dal 1947) lo scritto sulla questione meridionale rappresentò la più im-
portante eredità lasciata dal segretario comunista. Sarà poi ristampato nel
1945 da Togliatti su «Rinascita» e in volume nel 1952.
La scelta del tema indicava con precisione la grande novità del pensiero
di Gramsci. Il concetto di egemonia era stato “tradotto” in italiano
50

nell’analisi del rapporto fra Nord e Sud e, quindi, nella prospettiva


dell’alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud. Questa alleanza toccava
il problema storico irrisolto della nazione italiana e prefigurava la “rivolu-
zione” come il compimento stesso dell’unità nazionale. Egemonia del prole-
tariato e questione meridionale diventavano perciò due facce della stessa
medaglia. Il riscatto del Mezzogiorno e l’alleanza con le classi contadine
rappresentavano la base di tutto il pensiero politico elaborato da Gramsci
come segretario del Pci e una rottura visibile con il vecchio partito di Bordi-
ga.
Inoltre, assumendo la bandiera della “questione meridionale”, i comunisti
entravano nella storia del meridionalismo italiano, finora terreno di intelle-
tuali liberali o conservatori. Per lo stesso Psi, il problema meridionale aveva
sempre significato la socializzazione della terra, senza mai diventare il centro
della questione nazionale e della pratica rivoluzionaria. Che nell’imposta-
zione di Gramsci emergesse una novità “storica”, fu subito chiaro agli intel-
lettuali liberali più aperti e progressivi, come Piero Gobetti, Guido Dorso,
Tommaso Fiore. Proprio nel libro di Guido Dorso, La rivoluzione meridiona-
le, pubblicato da Piero Gobetti nel 1925, si leggevano parole di interesse e di
elogio verso Gramsci. Era il principio di un dialogo proficuo tra diverse cul-
ture antifasciste, tra liberali e comunisti, che i bordighiani rimprovereranno a
Gramsci e che Gramsci ribadirà e tornerà a difendere (come vedremo) nella
pagina conclusiva del suo scritto.

Il giovane studioso sardo [Gramsci] – scriveva Dorso – dopo essere stato il primo a
ricercare i veri motivi dialettici della crisi italiana attraverso la teoria dei consigli di fab-
brica, è stato il primo a scoprire il nocciolo del problema italiano attraverso lo sviluppo
dell’azione agraria. [Si tratta di una] revisione programmatica veramente eccezionale.

La novità dell’impostazione comunista era definita da Dorso (con il con-


senso di Gobetti) «eccezionale». Non solo Gramsci, segretario del Pci, vol-
geva lo sguardo al Sud e ai contadini poveri, considerandoli protagonisti del
processo rivoluzionario, ma indicava nell’unificazione reale della nazione il
compito essenziale della lotta del proletariato italiano. Si trattava, insomma,
di compiere l’opera del Risorgimento.
Non a caso, nello stesso periodo in cui Gramsci scriveva l’articolo, il par-
tito (con la guida di Grieco) costruiva la sua organizzazione meridionale, ce-
lebrando a Bari la prima “Conferenza agraria meridionale” (settembre 1926)
e costituendo il “Consiglio italiano contadino” e l’“Associazione nazionale
di difesa dei contadini” guidata dal giovane Giuseppe Di Vittorio (futuro
leader della Cgil).

2. Genesi dell’articolo

Per quanto impegnativa fu la stesura, l’articolo di Gramsci non nasceva in


maniera improvvisa, ma rappresentava l’epilogo e la sintesi di almeno un
triennio di riflessioni sul tema dell’egemonia. Perciò, negli scritti di Gramsci
51

fra il 1923 e il 1926 può essere seguito con precisione il deciso affermarsi del
tema-chiave della questione meridionale, che portava con sé una nuova defi-
nizione dell’egemonia e la scoperta della funzione degli intellettuali nella so-
cietà civile europea.
Il punto di partenza può essere indicato nella lettera che Gramsci scrisse
da Mosca al Comitato esecutivo del Pcd’I il 12 settembre 1923 per delineare
i caratteri del nuovo giornale, «L’Unità» (il primo numero uscirà il 12 feb-
braio 1924). Vi si legge infatti:

Io propongo come titolo “L’Unità” puro e semplice, che sarà un significato per gli
operai e avrà un significato più generale, perché credo che dopo la decisione dell’ Esec.
[utivo] All.[argato del Comintern] sul governo operaio e contadino, noi dobbiamo dare
importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il problema
dei rapporti tra operai e contadini si pone non soltanto come problema di rapporto di
classe, ma anche e specialmente come un problema territoriale, cioè come uno degli
aspetti della questione nazionale. Personalmente io credo che la parola d’ordine “governo
operaio e contadino” debba essere adattata in Italia così: “Repubblica federale degli ope-
rai e dei contadini”. Non so se il momento attuale sia favorevole a ciò, credo però che la
situazione che il fascismo va creando e la politica corporativa e protezionistica dei confe-
derali porterà il nostro partito a questa parola d’ordine. A questo proposito sto preparando
una relazione per voi che discuterete ed esaminerete. Se sarà utile, dopo qualche numero,
si potrà nel giornale iniziare una polemica con pseudonimi e vedere quali ripercussioni
essa avrà nel paese e negli strati di sinistra dei popolari e dei democratici che rappresenta-
no le tendenze reali della classe contadina e hanno sempre avuto nel loro programma la
parola d’ordine dell’autonomia locale e del decentramento (corsivi miei).

Nella lettera del 1923, la centralità della questione meridionale è già af-
fermata con precisione, in relazione alla prospettiva strategica della “Repub-
blica federale degli operai e dei contadini” (che “traduce” in italiano l’indica-
zione del Comintern sul “governo operaio e contadino”). Da questo momen-
to (cioè nel periodo della lotta con Bordiga) il tema del meridionalismo ri-
mane centrale nella riflessione di Gramsci. Per fissare solo i passaggi princi-
pali (il meridionalismo gramsciano meriterebbe un corso specifico e sarebbe
un ottimo argomento di ricerca), mi limiterò a ricordare tre scritti, che via via
preparano quanto si legge nelle Tesi di Lione e nell’articolo del 1926.

1 L’articolo Il Mezzogiorno e il fascismo appare (non firmato, ma certa-


mente di Gramsci) su «L’Ordine nuovo» del 15 marzo 1924. Qui Gramsci
estende l’analisi accennata nella lettera per la fondazione dell’«Unità» e ri-
badisce le linee essenziali della sua riflessione: la borghesia nazionale è strut-
turalmente incapace di risolvere la questione meridionale, solo l’alleanza di
Nord e Sud, di operai del Nord e contadini del Sud, cioè una iniziativa di
massa, può rappresentare la base sociale della rivoluzione italiana. Il pro-
blema meridionale è il nodo di tutta la concezione della rivoluzione in Italia.
Leggiamo le ultime battute dell’articolo:

La quistione meridionale non può essere risolta dalla borghesia altro che transitoria-
mente, episodicamente, con la corruzione o col ferro e col fuoco. Il fascismo ha esaspera-
52

to la situazione e l'ha in gran parte chiarita. Il non essersi posto con chiarezza il problema,
in tutta la sua estensione e con tutte le sue possibili conseguenze politiche, ha intralciato
l'azione della classe operaia e ha contribuito, in larga parte, al fallimento della rivoluzione
degli anni 1919-'20.
Oggi il problema è ancora piú complicato e difficile che non fosse in quegli anni, ma
esso rimane problema centrale di ogni rivoluzione nel nostro paese e di ogni rivoluzione
che voglia avere un domani, e perciò deve essere posto arditamente e decisamente.
Nell'attuale situazione, con la depressione delle forze proletarie che esiste, le masse con-
tadine meridionali hanno assunto una importanza enorme nel campo rivoluzionario. O il
proletariato, attraverso il suo partito politico, riesce in questo periodo a crearsi un sistema
di alleati nel Mezzogiorno, oppure le masse contadine cercheranno dei dirigenti politici
nella loro stessa zona, cioè si abbandoneranno completamente nelle mani della piccola
borghesia amendoliana, diventando una riserva della controrivoluzione, giungendo fino al
separatismo e all'appello agli eserciti stranieri nel caso di una rivoluzione puramente indu-
striale del nord. La parola d'ordine del governo operaio e contadino deve perciò tenere
speciale conto del Mezzogiorno, non deve confondere la quistione dei contadini meridio-
nali con la quistione in generale dei rapporti tra città e campagna in un tutto economico
organicamente sottomesso al regime capitalistico: la quistione meridionale è anche qui-
stione territoriale ed è da questo punto di vista che deve essere esaminata per stabilire un
programma di governo operaio e contadino che voglia trovare larga ripercussione nelle
masse. (corsivi miei)

2 Il 16 maggio 1925 Gramsci, come deputato, pronuncia il suo unico di-


scorso alla Camera, in opposizione al disegno di legge Mussolini-Rocco con-
tro la massoneria. In questo discorso Gramsci comincia a enucleare uno dei
principali temi dell’articolo del 1926, cioè la differenza tra la “soluzione gio-
littiana” e quella fascista: la prima si basava sul compromesso fra borghesia e
“aristocrazia operaia” del Nord per «soggiogare la massa dei contadini» del
Sud; la seconda, con la legge contro la massoneria, esce dalla logica del
compromesso e mira all’occupazione dello Stato. Vedremo come questo
schema sarà ulteriormente sviluppato nell’articolo sulla questione meridiona-
le.

Conosciamo nella storia italiana degli ultimi tempi due piani politici della borghesia
per risolvere la questione del governo del popolo italiano. Abbiamo avuto la pratica giolit-
tiana, il collaborazionismo del socialismo italiano con il giolittismo, cioè il tentativo di
stabilire una alleanza della borghesia industriale con una certa aristocrazia operaia set-
tentrionale per opprimere, per soggiogare a questa formazione borghese-proletaria la
massa dei contadini italiani, specialmente nel Mezzogiorno. Il programma non ha avuto
successo. Nell'Italia settentrionale si costituisce difatti una coalizione borghese-proletaria
attraverso la collaborazione parlamentare e la politica dei lavori pubblici alle cooperati-
ve; nell'Italia meridionale si corrompe il ceto dirigente e si domina la massa coi mazzieri.
(Interruzioni del deputato Greco) Voi fascisti siete stati i maggiori artefici del fallimento
di questo piano politico, poiché avete livellato nella stessa miseria l'aristocrazia operaia e i
contadini poveri di tutta Italia. Abbiamo avuto il programma che possiamo dire del "Cor-
riere della Sera", giornale che rappresenta una forza non indifferente nella politica nazio-
nale: 800.000 lettori sono anch'essi un partito.

Voci. Meno ...


53

Mussolini. La metà! E poi i lettori dei giornali non contano. Non hanno mai fatto una ri-
voluzione. I lettori dei giornali hanno regolarmente torto!

Gramsci. Il "Corriere della Sera" non vuole fare la rivoluzione.

Farinacci. Neanche "l'Unità"!

Gramsci. Il "Corriere della Sera" ha sostenuto sistematicamente tutti gli uomini politici
del Mezzogiorno, da Salandra ad Orlando, a Nitti, a Amendola; di fronte alla soluzione
giolittiana, oppressiva non solo di classi, ma addirittura di interi territori, come il Mezzo-
giorno e le isole, e perciò altrettanto pericolosa che l'attuale fascismo per la stessa unità
materiale dello Stato italiano, il "Corriere della Sera" ha sostenuto sempre un'alleanza tra
gli industriali del Nord e una certa vaga democrazia rurale prevalentemente meridionale
sul terreno del libero scambio. L'una e l'altra soluzione tendevano essenzialmente a dare
allo Stato italiano una più larga base di quella originaria, tendevano a sviluppare le "con-
quiste" del Risorgimento.
Che cosa oppongono i fascisti a queste soluzioni? Essi oppongono oggi la legge co-
siddetta contro la massoneria; essi dicono di volere cosi conquistare lo Stato. In realtà il
fascismo lotta contro la sola forza organizzata efficientemente che la borghesia avesse in
Italia, per soppiantarla nella occupazione dei posti che lo Stato dà ai suoi funzionari. La
"rivoluzione" fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro
personale. (corsivi miei)

3 Nel resoconto dei lavori del III Congresso di Lione, dettato da Gramsci
a Riccardo Ravagnan e pubblicato su «L’Unità» del 24 febbraio 1926, la ri-
flessione sul problema meridionale mostra ormai una quasi piena maturità. È
opportuno leggere con attenzione la parte del documento dedicata alla «que-
stione agraria». Spicca la definizione dei contadini del sud come «l'elemento
sociale più rivoluzionario della società italiana»; e la conseguente analisi per
cui «la zona meridionale e delle isole funziona come una immensa campagna
di fronte all'Italia del Nord, che funziona come una immensa città». Quello
che manca, e che rappresenterà la novità maggiore dell’articolo del 1926, è il
rilievo che lì sarà assegnato al ruolo degli intellettuali, che (come vedremo)
inaugura un motivo essenziale dei Quaderni del carcere.

La questione agraria
Il partito ha cercato, per ciò che riguarda la sua azione tra i contadini, di uscire dalla
sfera della semplice propaganda ideologica tendente a diffondere solo astrattamente i ter-
mini generali della soluzione leninista del problema stesso, per entrare nel terreno pratico
dell'organizzazione e dell'azione politica reale. È evidente che ciò era più facile da otte-
nersi in Italia che negli altri paesi perché nel nostro paese il processo di differenziazione
delle grandi masse della popolazione è per certi aspetti più avanzato che altrove, in conse-
guenza della situazione politica attuale.
D'altronde una tale questione, dato che il proletariato industriale è da noi solo una
minoranza della popolazione lavoratrice, si pone con maggiore intensità che altrove. Il
problema di quali siano le forze motrici della rivoluzione e quello della funzione direttiva
del proletariato si presentano in Italia in forme tali da domandare una particolare atten-
zione del nostro partito e la ricerca di soluzioni concrete ai problemi generali che si rias-
sumono nell'espressione: questione agraria.
54

La grande maggioranza del Congresso ha approvato l'impostazione che il partito ha


dato a questi problemi e ha affermato la necessità di una intensificazione del lavoro se-
condo la linea generale già parzialmente applicata.
In che cosa consiste praticamente questa attività? Il partito deve tendere a creare in
ogni regione delle unioni regionali dell'Associazione di difesa dei contadini: ma, entro
questi quadri organizzativi più larghi, occorre distinguere quattro raggruppamenti fonda-
mentali delle masse contadine, per ognuno dei quali è necessario trovare atteggiamenti e
soluzioni politiche ben precise e complete.
Uno di questi raggruppamenti è costituito dalle masse dei contadini slavi dell'Istria e
del Friuli, la cui organizzazione è legata strettamente alla questione nazionale.
Un secondo è costituito dal particolare movimento contadino che si riassume sotto il
titolo di "Partito dei contadini" e che ha la sua base specialmente nel Piemonte; per questo
raggruppamento, di carattere aconfessionale e di carattere più strettamente economico,
vale l'applicazione dei termini generali della tattica agraria del leninismo, dato anche il
fatto che tale raggruppamento esiste nella regione in cui esiste uno dei centri proletari più
efficienti in Italia.
I due altri raggruppamenti sono di gran lunga i più considerevoli e sono quelli che
domandano la maggiore attenzione del partito e cioè:
1. la massa dei contadini cattolici, raggruppati nell'Italia centrale e settentrionale, i
quali sono direttamente organizzati dall'Azione cattolica e dall'apparato ecclesiastico in
generale, cioè dal Vaticano;
2. la massa dei contadini dell'Italia meridionale e delle isole.
Per ciò che riguarda i contadini cattolici, il Congresso ha deciso che il partito deve
continuare e deve sviluppare la linea che consiste nel favorire le formazioni di sinistra che
si verificano in questo campo e che sono strettamente collegate alla crisi generale agraria
iniziatasi già prima della guerra nel centro e nel nord d'Italia. Il Congresso ha affermato
che l'atteggiamento assunto dal partito verso i contadini cattolici, sebbene contenga in sé
alcuni degli elementi essenziali per la soluzione del problema politico-religioso italiano,
non deve in nessun modo condurre a favorire i tentativi, che possono nascere, di movi-
menti ideologici di natura strettamente religiosa. Il compito del partito consiste nello spie-
gare i conflitti che nascono sul terreno della religione come derivanti dai conflitti di classe
e nel tendere a mettere sempre in maggior rilievo i caratteri di classe di questi conflitti e
non, viceversa, nel favorire soluzioni religiose dei conflitti di classe, anche se tali soluzio-
ni si presentano come di sinistra in quanto mettono in discussione l'autorità dell'organiz-
zazione ufficiale religiosa.
La questione dei contadini meridionali è stata esaminata dal Congresso con particola-
re attenzione. Il Congresso ha riconosciuto esatta l'affermazione contenuta nelle tesi della
Centrale, secondo la quale la funzione della massa contadina meridionale nello svolgi-
mento della lotta anticapitalistica italiana deve essere esaminata a sé e portare alla conclu-
sione che i contadini meridionali sono, dopo il proletariato industriale e agricolo dell'Ita-
lia del nord, l'elemento sociale più rivoluzionario della società italiana.
Qual è la base materiale e politica di questa funzione delle masse contadine del sud? I
rapporti che intercorrono tra il capitalismo italiano e i contadini meridionali non consisto-
no solamente nei normali rapporti storici tra città e campagna, quali sono stati creati dallo
sviluppo del capitalismo in tutti i paesi del mondo. Nel quadro della società nazionale
questi rapporti sono aggravati e radicalizzati dal fatto che economicamente e politicamen-
te tutta la zona meridionale e delle isole funziona come una immensa campagna di fronte
all'Italia del Nord, che funziona come una immensa città.
Una tale situazione determina nell'Italia meridionale il formarsi e lo svilupparsi di de-
terminati aspetti di una questione nazionale, se pure immediatamente essi non assumano
una forma esplicita di tale questione nel suo complesso, ma solo di una vivacissima lotta a
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carattere regionalistico e di profonde correnti verso il decentramento e le autonomie loca-


li.
Ciò che rende caratteristica la situazione dei contadini meridionali è il fatto che essi, a
differenza dei tre raggruppamenti precedentemente descritti, non hanno nel loro comples-
so nessuna esperienza organizzativa autonoma. Essi sono inquadrati negli schemi tradi-
zionali della società borghese, per cui gli agrari, parte integrante del blocco agrario-
capitalistico, controllano le masse contadine e le dirigono secondo i loro scopi.
In conseguenza della guerra e delle agitazioni operaie del dopoguerra che avevano
profondamente indebolito l'apparato statale e quasi distrutto il prestigio sociale delle clas-
si superiori nominate, le masse contadine del Mezzogiorno si sono risvegliate alla vita
propria e faticosamente hanno cercato un proprio inquadramento. Così si sono avuti mo-
vimenti degli ex combattenti e i vari partiti cosiddetti di "rinnovamento" che cercavano di
sfruttare questo risveglio della massa contadina, qualche volta secondandolo come nel
periodo dell'occupazione delle terre, più spesso cercando di deviarlo e quindi consolidarlo
in una posizione di lotta per la cosiddetta democrazia, come è ultimamente avvenuto con
la costituzione della "Unione nazionale".
Gli ultimi avvenimenti della vita italiana che hanno determinato un passaggio in mas-
sa della piccola borghesia meridionale al fascismo, hanno reso più acuta la necessità di
dare ai contadini meridionali una direzione propria per sottrarsi definitivamente all'in-
fluenza borghese agraria. Il solo organizzatore possibile della massa contadina meridiona-
le è l'operaio industriale, rappresentato dal nostro partito. Ma perché questo lavoro di or-
ganizzazione sia possibile ed efficace occorre che il nostro partito distrugga nell'operaio
industriale il pregiudizio inculcatogli dalla propaganda borghese che il Mezzogiorno sia
una palla di piombo che si oppone ai più grandi sviluppi dell'economia nazionale e di-
strugga nel contadino meridionale il pregiudizio ancora più pericoloso per cui egli vede
nel nord d'Italia un solo blocco di nemici di classe.
Per ottenere questi risultati occorre che il nostro partito svolga un'intensa opera di
propaganda anche nell'interno della sua organizzazione per dare a tutti i compagni una
coscienza esatta dei termini della questione, la quale, se non sarà risolta in modo chiaro-
veggente e rivoluzionariamente saggio da noi, renderà possibile alla borghesia, sconfitta
nella sua zona, di concentrarsi nel sud per fare di questa parte d'Italia la piazza d'armi del-
la sua controrivoluzione.
Su tutta questa serie di problemi, l'opposizione di estrema sinistra [Bordiga] non riuscì
a dire che delle barzellette e dei luoghi comuni. La sua posizione essenziale fu quella di
negare aprioristicamente che questi problemi concreti esistono in sé, senza nessuna analisi
o dimostrazione neanche potenziale. Si può dire anzi che appunto nei riguardi della que-
stione agraria, apparve la vera essenza della concezione dell'estrema sinistra, la quale con-
siste in una specie di corporativismo che aspetta meccanicamente dal solo sviluppo delle
condizioni obiettive generali la realizzazione dei fini rivoluzionari. Tale concezione fu,
come abbiamo detto, nettamente rigettata dalla stragrande maggioranza del Congresso.
(corsivi miei)

3. La “quistione meridionale”

L’importanza di questo scritto dipende da molti aspetti: 1) pubblicato nel


1930 su «Lo Stato operaio», rimase l’espressione della teoria di Gramsci nel-
la clandestinità; 2) è il punto di partenza della problematica dei quaderni. Si
ricordi quello che Gramsci scrisse a Tatiana il 19 marzo 1927: lo scritto è
«rapidissimo e superficialissimo» e nei quaderni vuole «svolgere ampiamen-
te la tesi che allora avev[a] appena abbozzato»; 3) presenta un nesso di que-
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stioni intorno a cui Gramsci intendeva la strategia politica e culturale dei


comunisti: egemonia, questione meridionale, questione degli intellettuali.
Il punto di partenza di tutta la riflessione di Gramsci è la sconfitta storica
del proletariato italiano e soprattutto di quello torinese, con i Consigli e l’oc-
cupazione delle fabbriche. È una riflessione sulla sconfitta:

Nell’aprile 1921, 5000 operai rivoluzionari furono licenziati dalla Fiat, i Consigli di
fabbrica furono aboliti, i salari reali furono abbassati. A Reggio Emilia avvenne proba-
bilmente qualcosa di simile. Gli operai cioè furono battuti. Ma il sacrificio che essi ave-
vano fatto, è restato inutile? Non lo crediamo: siamo anzi sicuri che esso non è stato inuti-
le. È certo difficile registrare tutta una fila di grandi avvenimenti di massa che provino
l’efficacia immediata e fulminea di queste azioni.

L’occasione è data dalla pubblicazione di un articolo di Tommaso Fiore


sulla rivista «Il Quarto Stato» dedicato al libro di Guido Dorso La rivoluzio-
ne meridionale. L’articolo era preceduto da una nota redazionale di Carlo
Rosselli che attribuiva all’«Ordine Nuovo» il proposito di risolvere il pro-
blema meridionale con la suddivisione del «latifondo tra i proletari rurali»:
«non abbiamo dimenticato – scriveva Rosselli – che la formula magica dei
comunisti torinesi era: dividere il latifondo tra i proletari rurali». Gramsci
reagisce a questa lettura. La linea dell’«Ordine Nuovo», spiega, non era af-
fatto quella di suddividere il latifondo, ma quella della egemonia, che qui ac-
quista un doppio senso: da un lato (in un senso ancora leniniano) è
l’egemonia del proletariato sulle masse contadine; d’altro lato è il problema
del consenso nazionale (di una base di massa) a una politica rivoluzionaria e
democratica:

I comunisti torinesi si erano posti concretamente la questione dell’“egemonia del pro-


letariato”, cioè della base sociale della dittatura proletaria e dello Stato operaio. Il proleta-
riato può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un si-
stema di alleanze di classi che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato
borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, ciò che significa, in Italia, nei rea-
li rapporti di classe esistenti in Italia, nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle
larghe masse contadine.

Come vedete, l’egemonia è il concetto fondamentale che gli ordinovisti


portano nella cultura politica comunista. Il congresso di Lione rappresenta
anzi tutto questo: la costruzione di una strategia politica fondata sul concetto
di egemonia.
Questo significa che la sconfitta del movimento operaio (e l’avvento del
fascismo) deriva da una crisi di consenso, dovuta a un’analisi insufficiente
della specifica realtà italiana. Questo è il punto essenziale dell’articolo. Cosa
caratterizza la realtà italiana? La frattura storica, mai sanata, tra Nord e Sud,
che è la frattura fra due realtà sociali: borghesia e proletariato industriale, la-
tifondo e masse contadine. L’incapacità di analizzare questa frattura e di sal-
dare questi due mondi è stata l’origine profonda della sconfitta.
Qui veniamo al primo aspetto essenziale: non solo il proletariato non ha
compreso la centralità di questo nodo, ma è rimasto, sul piano culturale, al di
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sotto del suo compito di egemonia. Il proletariato non ha conquistato una po-
sizione nazionale e, per l’influenza del positivismo, ha continuato a pensare
al Sud in termini di vero e proprio razzismo, come a una realtà inferiore da
dominare.

Il primo problema da risolvere, per i comunisti torinesi, era quello di modificare


l’indirizzo politico e l’ideologia generale del proletariato stesso, come elemento nazionale
che vive nel complesso della vita statale e subisce inconsapevolmente l’influenza della
scuola, del giornale, della tradizione borghese. È noto quale ideologia sia stata diffusa in
forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzo-
giorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile
dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei
barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del
sistema capitalista o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i me-
ridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con
l’esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un
arido e sterile deserto. Il Partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia
borghese nel proletariato settentrionale; il Partito socialista diede il suo crisma a tutta la
letteratura “meridionalista” della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i
Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano e i seguaci minori, che in articoli, in bozzetti, in novel-
le, in romanzi, in libri di impressioni e di ricordi ripetevano in diverse forme lo stesso ri-
tornello; ancora una volta la “scienza” era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma
questa volta essa si ammantava dei colori socialisti, pretendeva essere la scienza del pro-
letariato.

Questo passaggio è di enorme rilievo e rappresenta un’autocritica spietata


del limite culturale del movimento operaio italiano, di quello che Gramsci
definisce, poche pagine dopo, il suo limite corporativo: ragionare in termini
di classe e non di nazione. Ecco sorgere il nodo della egemonia.

Il proletariato, per essere capace di governare come classe, deve spogliarsi di ogni re-
siduo corporativo, di ogni pregiudizio o incrostazione sindacalista. Cosa significa ciò?
Che non solo devono essere superate le distinzioni che esistono tra professione e profes-
sione, ma che occorre, per conquistarsi la fiducia e il consenso dei contadini e di alcune
categorie semiproletarie della città, superare alcuni pregiudizi e vincere certi egoismi che
possono sussistere e sussistono nella classe operaia come tale anche quando nel suo seno
sono spariti i particolarismi di professione. Il metallurgico, il falegname, l’edile, ecc. de-
vono non solo pensare come proletari e non più come metallurgico, falegname, edile, ecc.,
ma devono fare ancora un passo avanti: devono pensare come operai membri di una clas-
se che tende a dirigere i contadini e gli intellettuali, di una classe che può vincere e può
costruire il socialismo solo se aiutata e seguita dalla grande maggioranza di questi strati
sociali. Se non si ottiene ciò, il proletariato non diventa classe dirigente, e questi strati,
che in Italia rappresentano la maggioranza della popolazione, rimanendo sotto la direzio-
ne borghese, danno allo Stato la possibilità di resistere all’impeto proletario e di fiaccarlo.

I giovani torinesi dell’«Ordine Nuovo» avevano provato a rinnovare la


cultura del movimento operaio in questa direzione, senza riuscirci. Gramsci
cita quattro esempi molto significativi:
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1 la candidatura di Gaetano Salvemini, «allora l’esponente più avanzato


in senso radicale della massa contadina del Mezzogiorno» nel 1914 al IV
Collegio di Torino:

Tuttavia questo gruppo torinese voleva fare un’affermazione sul nome del Salvemini,
nel senso che al Salvemini stesso fu esposto dal compagno Ottavio Pastore recatosi a Fi-
renze per avere il consenso alla candidatura: “Gli operai di Torino vogliono eleggere un
deputato per i contadini pugliesi”.
Il Salvemini non volle accettare la candidatura, quantunque fosse rimasto scosso e
persino commosso dalla proposta (in quel tempo non si parlava ancora di “perfidia” co-
munista, e i costumi erano onesti e lieti); egli propose Mussolini come candidato e si im-
pegnò a venire a Torino per sostenere il Partito socialista nella lotta elettorale. Tenne in-
fatti due comizi grandiosi alla Camera del lavoro e in piazza Statuto, tra la massa che ve-
deva ed applaudiva in lui il rappresentante dei contadini meridionali oppressi e sfruttati in
forme ancora più odiose e bestiali che il proletariato settentrionale.

2 L’associazione «Giovane Sardegna» del 1919, quando i giovani torinesi


proposero il blocco nazionale tra operai e ciontadini.

3 L’episodio della Brigata Sassari nel 1917, quando convinsero le truppe


formate da contadini a non sparare sugli operai.

4 L’episodio dei 300 carabinieri della legione di Cagliari nel 1922, che
dichiararono la loro solidarietà agli operai torinesi.

Come si vede, sono tutti episodi di una solidarietà di classe tra operai del
Nord e contadini del Sud, cioè di unificazione della frattura fondamentale
della storia nazionale. Comincia a emergere, insomma, il problema della
egemonia come soluzione del problema nazionale.
Ma il corpo del saggio articola questa tesi di fondo in una serie di propo-
ste analitiche che via via pongono al centro la questione degli intellettuali. Il
primo aspetto è l’analisi della situazione italiana pre-fascista in termini di
egemonia e di rapporto Nord-Sud. La politica di Giolitti (ma poi Salandra,
Nitti, Crispi) viene interpretata come costruzione di un blocco tra borghesia
del Nord e, di volta in volta, operai del Nord e contadini del Sud. La borghe-
sia tiene divise le due parti della nazione, generando una alleanza sociale de-
gli uni contro gli altri. Da un lato Giolitti persegue il disegno di una conso-
ciazione nella fabbrica tra borghesia e proletariato per sfruttare il Sud; d’altro
lato (specie con Crispi) la borghesia del Nord si appoggia alle masse conta-
dine del Sud, attraverso la Chiesa, per sconfiggere gli operai del Nord. In so-
stanza, le classi dirigenti dividono la nazione, ne impediscono il compimento
storico, al fine di impedire la saldatura tra Nord e Sud, che significherebbe la
rivoluzione italiana. Rivoluzione proletaria e compimento del Risorgimento
nazionale arrivano qui a unificarsi.
L’altro aspetto centrale riguarda l’analisi della questione meridionale
considerata in se stessa. In se stessa la società meridionale è caratterizzata
dalla disgregazione, dalla frammentazione sociale, quasi dalla anarchia. Ciò
che unifica la massa amorfa è la funzione intellettuale, che realmente domina
59

il mondo contadino, anzi tutto conquistandone il consenso con una precisa


visione del mondo. Per questo, la questione meridionale si confonde con la
quistione vaticana e con la funzione dei grandi intellettuali nazionali, come
Benedetto Croce e Giustino Fortunato.

Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale; i contadini, che
costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno nessuna coesione
tra loro (si capisce che occorre fare delle eccezioni: la Puglia, la Sardegna, la Sicilia, dove
esistono caratteristiche speciali nel grande quadro della struttura meridionale). La società
meridionale è un grande blocco agrario costituito di tre strati sociali: la grande massa con-
tadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi
proprietari terrieri e i grandi intellettuali. I contadini meridionali sono in perpetuo fermen-
to, ma come massa essi sono incapaci di dare una espressione centralizzata alle loro aspi-
razioni e ai loro bisogni. Lo strato medio degli intellettuali riceve dalla base contadina le
impulsioni per la sua attività politica e ideologica. I grandi proprietari nel campo politico
e i grandi intellettuali nel campo ideologico centralizzano e dominano, in ultima analisi,
tutto questo complesso di manifestazioni. Come è naturale, è nel campo ideologico che la
centralizzazione si verifica con maggiore efficacia e precisione. Giustino Fortunato e Be-
nedetto Croce rappresentano perciò le chiavi di volta del sistema meridionale e, in un cer-
to senso, sono le due più grandi figure della reazione italiana.

C’è ancora, in queste pagine, l’idea delle masse contadine come pura di-
sgregazione, che deve essere unificata: il proletariato del Nord può sostituire
la funzione intellettuale della borghesia nell’unificazione egemonica. Gram-
sci ritiene che il blocco agrario sia garantito dalla funzione intermedia degli
intellettuali tra i contadini e il latifondo.

Il contadino meridionale è legato al grande proprietario terriero per il tramite


dell’intellettuale.
Abbiamo detto che il contadino meridionale è legato al grande proprietario terriero
per il tramite dell’intellettuale. Questo tipo di organizzazione è il tipo più diffuso in tutto
il Mezzogiorno continentale e in Sicilia. Esso realizza un mostruoso blocco agrario che
nel suo complesso funziona da intermediario e da sorvegliante del capitalismo settentrio-
nale e delle grandi banche. Il suo unico scopo è di conservare lo statu quo. Nel suo interno
non esiste nessuna luce intellettuale, nessun programma, nessuna spinta a miglioramenti e
progressi. Se qualche idea e qualche programma è stato affermato, essi hanno avuto la
loro origine fuori del Mezzogiorno, nei gruppi politici agrari conservatori, specialmente
della Toscana, che nel Parlamento erano consorziati ai conservatori del blocco agrario
meridionale.

In sostanza, il blocco agrario, garantito dalla funzione degli intellettuali,


permette alla borghesia industriale del Nord di dominare sull’intero Mezzo-
giorno, riducendo il Sud a colonia e massa materiale di sfruttamento della
grande industria settentrionale. Grazie a questo blocco agrario la divisione
storica tra Nord e Sud diventa dominio della borghesia industriale sul Mez-
zogiorno, riducendo, ma per via di una mediazione, le masse contadine nella
stessa condizione di sfruttamento degli operai del Nord. La borghesia indu-
striale non sfrutta direttamente i contadini (come accade per gli operai), ma
opera uno sfruttamento territoriale attraverso la mediazione degli intellettua-
60

li. Come vedete, il problema degli intellettuali fatica a diventare un problema


universale della modernità, riguarda qui in maniera particolarissima il Sud, la
dinamica di sfruttamento delle masse contadine. Vi è un nucleo industriale (il
Nord), dove lo sfruttamento degli operai è immediato, secondo
l’insegnamento di Marx; vi è un nucleo contadino (il Sud) ,dove invece quel
medesimo sfruttamento è mediato dalla funzione unificatrice degli intellet-
tuali.
Tuttavia in questa analisi ci sono due importanti complicazioni, che ve-
ramente dischiudono l’analisi dei quaderni. In primo luogo, in un passo di
grande rilievo, Gramsci sottolinea la trasformazione della funzione degli in-
tellettuali nel capitalismo avanzato (finanziario, globale), già legandolo al
fatto della tecnica. Questo discorso non riguarda più il Sud, ma la grande in-
dustria settentrionale e l’Europa.

In ogni paese lo strato degli intellettuali è stato radicalmente modificato dallo svilup-
po del capitalismo. Il vecchio tipo dell’intellettuale era l’elemento organizzativo di una
società a base contadina e artigiana prevalentemente; per organizzare lo Stato, per orga-
nizzare il commercio la classe dominante allevava un particolare tipo di intellettuali.
L’industria ha introdotto un nuovo tipo di intellettuale: l’organizzatore tecnico, lo specia-
lista della scienza applicata. Nelle società, dove le forze economiche si sono sviluppate in
senso capitalista, fino ad assorbire la maggior parte dell’attività nazionale, è questo se-
condo tipo di intellettuale che ha prevalso, con tutte le sue caratteristiche di ordine e di-
sciplina intellettuale. Nei paesi invece dove l’agricoltura esercita un ruolo ancora notevole
o addirittura preponderante, è rimasto in prevalenza il vecchio tipo, che dà la massima
parte del personale statale e che anche localmente, nel villaggio e nel borgo rurale, eserci-
ta la funzione di intermediario tra il contadino e l’amministrazione in generale. Nell’Italia
meridionale predomina questo tipo con tutte le sue caratteristiche: democratico nella fac-
cia contadina, reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario e il governo,
politicante, corrotto, sleale; non si comprenderebbe la figura tradizionale dei partiti politi-
ci meridionali, se non si tenesse conto dei caratteri di questo strato sociale.

Il secondo aspetto riguarda Piero Gobetti e Guido Dorso. Gobetti era stato
assassinato a Parigi il 15 febbraio (Gramsci scrive intorno all’ottobre) e la
frazione bordighiana accusa Gramsci e gli ordinovisti di avere dialogato con
lui, con un intellettuale liberale e borghese. Di qui l’elogio di Gobetti che
conclude il manoscritto, che è però l’indicazione di un blocco intellettuale
che va oltre i confini del marxismo e che rappresenta uno snodo fondamenta-
le della questione dell’egemonia.

La figura di Gobetti e il movimento da lui rappresentato furono spontanee produzioni


del nuovo clima storico italiano: in ciò è il loro significato e la loro importanza. Ci è stato
qualche volta rimproverato da compagni di partito di non aver combattuto contro la cor-
rente di idee di Rivoluzione liberale: questa assenza di lotta anzi sembrò la prova del col-
legamento organico, di carattere machiavellico (come si suol dire) tra noi e il Gobetti.
Non potevamo combattere contro Gobetti perché egli svolgeva e rappresentava un movi-
mento che non deve essere combattuto, almeno in linea di principio. Non comprendere ciò
significa non comprendere la questione degli intellettuali e la funzione che essi svolgono
nella lotta delle classi.
61

Perché avremmo dovuto lottare contro il movimento di Rivoluzione liberale? forse


perché esso non era costituito di comunisti puri che avessero accettato dall’A alla Z il no-
stro programma e la nostra dottrina? Questo non poteva essere domandato perché sarebbe
stato politicamente e storicamente un paradosso. Gli intellettuali si sviluppano lentamente,
molto più lentamente di qualsiasi altro gruppo sociale, per la stessa loro natura e funzione
storica. Essi rappresentano tutta la tradizione culturale di un popolo, vogliono riassumerne
e sintetizzarne tutta la storia
Pensare possibile che esso possa, come massa, rompere con tutto il passato per porsi
completamente sul terreno di una nuova ideologia, è assurdo. È assurdo per gli intellettua-
li come massa, e forse assurdo anche per moltissimi intellettuali presi individualmente,
nonostante tutti gli onesti sforzi che essi fanno e vogliono fare.
Il proletariato, come classe, è povero di elementi organizzativi, non ha e non può for-
marsi un proprio strato di intellettuali che molto lentamente, molto faticosamente e solo
dopo la conquista del potere statale. Ma è anche importante e utile che nella massa degli
intellettuali si determini una frattura di carattere organico, storicamente caratterizzata; che
si formi, come formazione di massa, una tendenza di sinistra, nel significato moderno del-
la parola, cioè orientata verso il proletariato rivoluzionario. L’alleanza tra proletariato e
masse contadine esige questa formazione; tanto più la esige l’alleanza tra il proletariato e
le masse contadine del Mezzogiorno. Il proletariato distruggerà il blocco agrario meridio-
nale nella misura in cui riuscirà, attraverso il suo partito, ad organizzare in formazioni au-
tonome e indipendenti, sempre più notevoli masse di contadini poveri; ma riuscirà in mi-
sura più o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua
capacità di disgregare il blocco intellettuale che è l’armatura flessibile ma resistentissima
del blocco agrario. Per la soluzione di questo compito il proletariato è stato aiutato da Pie-
ro Gobetti e noi pensiamo che gli amici del morto continueranno, anche senza la sua gui-
da, l’opera intrapresa che è gigantesca e difficile, ma appunto degna di tutti i sacrifici (an-
che della vita, come è stato nel caso del Gobetti) da parte di quegli intellettuali (e sono
molti, più di quanto si creda) settentrionali e meridionali che hanno compreso essere es-
senzialmente nazionali e portatrici dell’avvenire due sole forze sociali: il proletariato e i
contadini.
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Lezione 7
(Mercoledì 25 marzo 2020)

Con l’analisi dello scritto sulla questione meridionale, siamo giunti alle
soglie dei Quaderni del carcere, la cui composizione comincia nel carcere
speciale di Turi l’8 febbraio 1929. Prima di iniziare l’esame di questa opera,
ritengo opportuno proporvi alcune considerazioni introduttive, che riguarda-
no lo studio dei quaderni in generale.

1. Filologia, cronologia, interpretazione

È probabile che in nessun autore classico del pensiero italiano la filologia


ha tanta importanza come in Gramsci. In generale, la filologia è una discipli-
na basilare in tutte le civiltà fondate sulla scrittura, necessaria per stabilire
l’integrità dei testi, la loro diffusione e alterazione, i comportamenti e le in-
tenzioni degli autori. Nel caso di Gramsci, però, la filologia non è una opera-
zione che corre in parallelo rispetto all’interpretazione, e neanche si può dire
che ne costituisca un semplice presupposto: il lavoro filologico è una parte
integrante, o persino costitutiva, della stessa interpretazione. Il motivo è
semplice. I Quaderni del carcere sono un’opera frammentaria, costituita da
oltre 2.000 note, spesso presentate in un ordine quasi casuale, per lo più in
una assenza di ordine logico. Ma ogni lettore dei quaderni sa che Gramsci
non è un autore frammentario, che tutto il suo lavoro, fin dall’inizio, ha una
ispirazione unitaria, persino sistematica. In Gramsci, insomma, la distanza
tra “frammento” e “sistema” è massima: la forma “frammentaria” accenna
continuamente a un pensiero “sistematico”. Il compito dell’interprete è di ri-
costruire il pensiero unitario dell’autore nella estrema frammentarietà della
sua esposizione. Questo lavoro comporta un rischio elevato di arbitrarietà, di
fumosità, di scarso rigore. La filologia è lo strumento che può aiutarci a col-
mare questo hiatus, ad avvicinare, per quanto possibile, la notevole mole di
frammenti a un quadro sistematico di pensiero.
Fin qui ho parlato di filologia. Ma nel caso di Gramsci la filologia riguar-
da essenzialmente il “fattore tempo”, cioè la cronologia. Le oltre 2.000 note
dei quaderni sono scritte in bella copia, con una grafìa esemplare, in generale
non pongono problemi di decifrazione. Ma vennero scritte in un arco di tem-
po che va dal febbraio 1929 alla metà del 1935, in un periodo di oltre 6 anni.
Con pochissime eccezioni (per esempio la prima nota del Quaderno 1), nes-
suna di esse è datata. Ora, la più importante acquisizione della recente filolo-
gia gramsciana è appunto questa: che il pensiero di Gramsci non è fermo, che
muta e si evolve nel corso di questi sei anni; che nel chiuso del carcere
Gramsci ha una biografia, non è sempre lo stesso, cambia il suo stato
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d’animo, crescono i suoi pensieri, anche in relazione alle vicende politiche


del tempo. I quaderni sono la testimonianza di un pensiero in progress, che
ha fasi diverse, rotture, ripensamenti. Il compito della filologia è seguire, ri-
costruire, questo processo.
D’altronde, i quaderni non nascono dal vuoto. Quando viene arrestato, l’8
novembre 1926, Gramsci è il capo del Partito comunista d’Italia e un espo-
nente di rilievo dell’Internazionale. Ha alle spalle una storia importante. La
sua formazione torinese, la riflessione sulla rivoluzione russa e l’esperienza
dei consigli di fabbrica, il periodo di costruzione del Partito comunista, i
viaggi a Vienna e a Mosca, la vicenda parlamentare, sono tutti momenti che
tornano puntualmente nella trama dei Quaderni. E le premesse immediate dei
quaderni, come sappiamo dalla lezione precedente, risalgono al 1926, un an-
no decisivo della sua biografia: al saggio sulla questione meridionale, alla
lettera al Comitato centrale del partito russo dell’ottobre, con lo scontro che
ne seguì con Togliatti e con il Comintern. Certo la riflessione dei quaderni è
largamente innovativa, ma i temi, le questioni, si erano sedimentate nel pe-
riodo precedente l’arresto.

2. La struttura materiale e l’inizio dei quaderni

Cominciamo con qualche osservazione sulla struttura materiale dei qua-


derni. Alla morte di Gramsci, la mattina del 27 aprile 1937, Tatiana rinvenì
35 quaderni scolastici, che possono facilmente essere suddivisi in tre gruppi:
29 quaderni, scritti in tutto o in parte, presentavano note manoscritte sugli
argomenti più vari e in alcuni casi delle traduzioni; 4 quaderni (poi denomi-
nati A, B, C, D) presentavano prevalentemente esercizi di traduzione dal te-
desco, dal russo, dall’inglese; altri 2 quaderni, poi denominati 17bis e 17ter,
muniti dei contrassegni carcerari di Turi (timbri, numerazione dei fogli, fir-
ma del Direttore), risultavano completamente in bianco, non utilizzati da
Gramsci. Questi quaderni vennero iniziati a Turi (21 quaderni) e, dal 1934, a
Formia (12 quaderni), presso la clinica del dottor Cusumano dove venne ri-
coverato. In tutto, dunque, abbiamo 35 quaderni, oggi depositati presso
l’Archivio Antonio Gramsci della Fondazione Gramsci di Roma.
Ma come iniziò l’avventura dei quaderni? Come ho ricordato, Gramsci
era stato arrestato a Roma l’8 novembre 1926. Fino al 19 luglio 1928, quan-
do arrivò al carcere di Turi di Bari, rimase a Regina Coeli in isolamento, poi
venne trasferito (il 7 dicembre 1926) al confino di Ustica, quindi al San Vit-
tore di Milano (il 7 febbraio 1927), dove nel maggio del 1928 iniziò il “pro-
cessone”, che lo condannò a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione. Già nel-
la lettera a Tatiana del 19 marzo 1927, scritta da Milano, comunicava alla
cognata un primo piano di lavoro in quattro punti. Arrivato a Turi il 19 luglio
1928, il 13 agosto ottiene di stare in una cella da solo, ma non gli viene ac-
cordato il permesso «di poter avere carta e inchiostro per dedicarmi a qual-
che lavoro di carattere letterario e allo studio delle lingue». Solo alla fine del
gennaio 1929 ottiene il permesso, ma con molte restrizioni.
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La concessione del diritto di leggere e scrivere in carcere era esplicita-


mente prevista dall’articolo 325 del Regolamento carcerario vigente, che ri-
saliva al 1891, e venne ribadita nel nuovo Regolamento fascista del 27 giu-
gno 1931. Questi Regolamenti davano un ampio potere discrezionale al Di-
rettore del carcere. Il Direttore Gerlando Parmegiani concesse dunque a
Gramsci di tenere «inchiostro, penne, matite e quaderni» (come riferì al Mi-
nistero), ma con limiti precisi, che possono essere riassunti così:

1) Gramsci non poteva usare fogli sciolti, ma solo quaderni, muniti di un


timbro speciale, numerati e vistati (cioè firmati) dal Direttore del carcere;

2) tutto il materiale – libri, quaderni – doveva essere tenuto nel magazzino


del carcere: dalla testimonianza di Gustavo Trombetti sappiamo che Gramsci
non poteva tenere in cella più di 4 pezzi alla volta. Anche i quaderni rientra-
vano nel conteggio. Se, per esempio, aveva bisogno di 2 libri, poteva tenere
con sé 2 quaderni; oppure 1 libro e 3 quaderni; ecc. Il “sistema cella-
magazzino” è perciò fondamentale per comprendere la composizione
dell’opera.

Con queste forti restrizioni, iniziò comunque la stesura dei quaderni l’8
febbraio 1929, scrivendo di suo pugno la data sul primo foglio del Quaderno
1, in capo all’elenco dei 16 Argomenti principali.
I quaderni erano dunque depositati nel magazzino del carcere. Potevano
essere letti, fotografati, trasmessi al Ministero. Molto probabilmente qualco-
sa venne trasmesso a Mussolini, che parlò genericamente, in una dichiara-
zione a Yvon De Begnac, di «quaderni d’appunti dei condannati del tribunale
speciale».

3. Il destino dei Quaderni

Come ho accennato, Gramsci era morto nella clinica Quisisana di Roma


all’alba del 27 aprile 1937. Il cedimento del suo corpo non era del tutto im-
prevedibile, ma tuttavia la morte arrivò improvvisa, per una emorragia cere-
brale che lo colpì il giorno stesso in cui gli veniva comunicato di avere scon-
tato l’intera pena. Gramsci era dunque un uomo libero. Conosciamo con pre-
cisione le sue ultime ore grazie alla lettera di Tatiana a Sraffa del 12 maggio
1937. Per quanto riguarda i quaderni, sappiamo che Gramsci aveva formula-
to piani abbastanza precisi per il loro utilizzo: pensava di ricongiungersi con
la famiglia a Mosca (dopo un periodo in Sardegna) e aveva incaricato Tatia-
na di portarli via un po’ alla volta, di depositarli all’ambasciata russa e poi di
spedirli a Giulia in Russia. Non sappiamo con precisione quali fossero le sue
ultime volontà sui quaderni. Certamente gli unici depositari furono Tatiana e
Sraffa, a cui Gramsci mostrò alcuni quaderni durante una sua visita a Roma.
La relazione che scrisse per il Partito comunista su richiesta di Togliatti è an-
data perduta e non ne possediamo notizie precise.
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Alla morte di Gramsci Tatiana restò a Roma anzi tutto per seguire il de-
stino dei suoi resti. Il 28 aprile si svolse il funerale in forma privata, alla sola
presenza di Tatiana e del fratello Carlo. Il corpo fu cremato e depositato al
Verano. Solo nel settembre 1938 fu autorizzato il trasferimento dei resti al
cimitero acattolico di Testaccio, dove tuttora si trova la tomba.
Lo stesso giorno della morte di Gramsci, il 27 aprile, Sraffa scrisse a Ta-
tiana esprimendole gratitudine ma soprattutto chiedendole di trasferire il la-
scito di Gramsci in un «luogo sicuro». «Luogo sicuro» significava, senza
possibilità di dubbio, l’ambasciata sovietica a Roma. Tatiana si attivò imme-
diatamente e da una lettera a Giulia del 5 maggio risulta che a quella data i
quaderni erano già trasferiti nella sede dell’ambasciata. Tuttavia fino al 6 lu-
glio non vennero formalmente consegnati all’ambasciatore. Qui si aprono
due importanti problemi: 1) il primo lavoro di Tatiana sui quaderni; 2) il mo-
tivo per cui Tatiana ritardò la consegna dei quaderni all’autorità sovietica.
Soffermiamoci sul primo aspetto. Tra la metà del 1937 e il 1938 (proba-
bilmente il settembre, quando il corpo di Gramsci venne trasferito al Testac-
cio), Tatiana lavorò sui quaderni, compiendo due operazioni di rilievo: 1) in
primo luogo diede la prima numerazione progressiva dei quaderni, in manie-
ra piuttosto casuale, col solo intento di stabilirne un ordine (è il numero ro-
mano che trovate riprodotto nell’edizione critica); 2) in secondo luogo operò
una indicizzazione di alcuni quaderni (probabilmente 2 o 3), allo scopo di
raccogliere le note di argomento affine. Non sappiamo se questa indicazione
era stata data dallo stesso Gramsci, ma certo Tatiana e Sraffa furono i primi a
pensare a un ordinamento “tematico” dei Quaderni.
La seconda questione è molto più complessa. Il centro estero del Partito
comunista, e in primo luogo Togliatti, premeva affinché le carte di Gramsci
fossero trasferite all’archivio del Comintern a Mosca. Fin dalla morte di
Gramsci, Tatiana (in seguito con il consenso delle sorelle Giulia e Genia)
cercò in ogni modo di sottrarre a Togliatti la cura degli scritti gramsciani.
Ciò accadeva per un motivo determinato. La “strana lettera” di Ruggiero
Grieco che aveva allarmato Gramsci, e che probabilmente Tatiana ritrovò fra
le sue carte, divenne l’occasione di un contrasto molto duro con Togliatti;
fino all’inchiesta che il Comintern intentò contro Togliatti nel 1939 e alla let-
tera di denuncia che Giulia e Genia scrissero a Stalin l’8 dicembre 1940.
In ogni caso, consegnati i quaderni all’ambasciata russa di Roma il 6 lu-
glio 1937, essi arrivarono a Mosca, con posta diplomatica, solo nel dicembre
1938, e restarono presso la famiglia Schucht fino all’aprile 1941, quando
vennero consegnati all’Archivio centrale del Comintern. Il Comintern istituì
subito una “Commissione per il patrimonio letterario del compagno Gram-
sci”, che si riunì due volte (in assenza di Togliatti, che era in Spagna), il 25
febbraio e il 7 agosto 1939.
Dopo la liberazione, i quaderni tornarono in Italia il 3 marzo 1945, custo-
diti tra il 1945 e il 1955 in una cassaforte dell’Ufficio amministrativo del Pci,
dal 1955 in una cassetta di sicurezza della Banca Nazionale del Lavoro, infi-
ne affidati all’archivio dell’Istituto Gramsci, dove si trovano tuttora.
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4. La prima edizione dei quaderni

Se trascuriamo le innumerevoli pubblicazioni parziali, i Quaderni del


carcere hanno avuto quattro edizioni principali: edizione tematica (1948-
1951), edizione critica (1975), edizione anastatica (2009), edizione nazionale
(in corso di pubblicazione). Ciascuna di esse configura una diversa risposta
al problema filologico che abbiamo enunciato all’inizio.
La prima edizione può essere definita edizione tematica. Venne pubblica-
ta dall’editore Einaudi, in 6 volumi, tra il 1948 e il 1951; e fatta precedere,
nel 1947, dalla prima edizione delle Lettere dal carcere, che ebbe uno
straordinario successo e si aggiudicò il premio Viareggio. L’idea di una edi-
zione tematica risaliva ai primi lettori dei quaderni: a Tatiana (come abbiamo
visto), a Sraffa (che certamente la espose a Togliatti nella lettera smarrita del
20 maggio 1937 e diede il suo assenso a Einaudi), a Togliatti, che lesse le
prime pagine dei quaderni in fotoriproduzioni che ricevette in Spagna. Il
problema fondamentale era quello di rendere fruibile la riflessione di Gram-
sci al grande pubblico. L’edizione venne annunciata il 30 aprile 1944 in un
articolo non firmato, ma di Togliatti, su “L’Unità” intitolato L’eredità lette-
raria di Gramsci. In verità, nel 1944 l’editore prescelto era “La Nuova Bi-
blioteca” di Carlo Bernari, che tuttavia fallì. Togliatti aveva la convinzione
che le opere di Gramsci non dovessero essere pubblicate dalle edizioni del
partito, ma da un editore indipendente. La scelta cadde quindi su Giulio Ei-
naudi: il contratto di edizione prevedeva l’istituzione di «un’apposita com-
missione designata dal Pci». La commissione, presieduta da Togliatti, indicò
come curatore Felice Platone.
L’edizione tematica derivava dall’esigenza di rendere fruibile a un grande
pubblico il pensiero di Gramsci. Questo non significa, però, che l’eterodossia
di Gramsci non impensierisse i dirigenti comunisti italiani e sovietici, e certo
portò a operare tagli, specie nelle lettere. Per averne un’idea più precisa, bi-
sogna ricordare la lettera che Togliatti indirizzò a Dimitrov il 25 aprile 1941:

i Quaderni di Gramsci – scriveva Togliatti –, che io ho già quasi tutti accuratamente


studiato, contengono materiali che possono essere utilizzati solo dopo un’accurata elabo-
razione. Senza tale trattamento il materiale non può essere utilizzato ed anzi alcune parti,
se fossero utilizzate nella forma in cui si trovano attualmente, potrebbero essere non utili
al partito. Per questo io credo che sia necessario che questo materiale rimanga nel nostro
archivio per essere qui elaborato.

Le preoccupazioni c’erano, ma l’intento principale era di rendere fruibile


il testo, senza particolare riguardo per la filologia e per la cronologia. I cura-
tori raggruppando le note per argomento, cercarono di rispettare i titoli di ru-
brica e i titoli dei quaderni “speciali” che lo stesso Gramsci aveva assegnato.
Così vennero fuori i sei volumi: Il materialismo storico e la filosofia di Be-
nedetto Croce; Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura; Il Risorgi-
mento; Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno; Letteratu-
ra e vita nazionale; Passato e presente. È chiaro che l’edizione non assomi-
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gliava in nessun modo al manoscritto. Era il risultato di una manipolazione.


Gli aspetti principali erano i seguenti: 1) erano eliminati del tutto i quaderni
di traduzione; 2) scompariva qualsiasi riferimento cronologico, perché i qua-
derni erano presentati come fossero un’opera compiuta, coerente in tutte le
sue parti; 3) veniva eliminata la distinzione tra testi di prima e di seconda
stesura (di cui parleremo tra breve).
In sostanza, possiamo parlare di una selezione antologica, di una prima
informazione sul pensiero di Gramsci.

5. L’edizione critica

I limiti dell’edizione tematica vennero superati con l’edizione critica


pubblicata da Einaudi nel 1975 (è quella che studierete nel programma di
questo corso). È importante ricordare che l’edizione critica fu avviata
dall’Istituto Gramsci, che nel frattempo era entrato in possesso dei mano-
scritti, fin dal secondo anniversario della morte di Gramsci. Nel gennaio
1957 il Direttore Franco Ferri scriveva a Giulio Einaudi:

Il nostro Istituto ha da tempo in programma una edizione critica dei «Quaderni» di


Gramsci; il programma ora dovrà essere avviato a realizzazione. Si tratterà di riprodurre il
testo dei «Quaderni» una volta stabilita la loro successione cronologica, senza intervenire
nell’ordinamento della materia, senza omettere i brani che tornano in varie rielaborazioni,
ecc.

I punti principali erano già fissati e l’anno successivo, al primo convegno


di studi gramsciani che si tenne a Roma nel gennaio 1958, il progetto fu ri-
badito con il consenso di Togliatti, che dunque ne auspicò la realizzazione.
La cura dell’edizione fu affidata a Valentino Gerratana e nel 1975 vide fina-
mente la luce un’opera che restituiva, in larga parte, la struttura reale dei
quaderni. Le principali novità possono essere riassunte come segue:

1) Gerratana attribuì a ogni quaderno un numero progressivo, secondo l’ini-


zio (reale o ipotetico) della composizione. Si trattava di un primo tentativo di
filologia e di cronologia. (Venne perciò introdotta la distinzione fra Quader-
no 1, Quaderno 2, ecc., che adoperiamo anche in questo corso).

2) Numerò le singole note (a cui Gramsci aveva assegnato solo il segno di §),
quaderno per quaderno, rispettando l’ordine del manoscritto o ipotizzando-
nel’ordine di composizione.

3) Ricostituì la distinzione (perduta nell’edizione tematica) tra testi A (di


prima stesura), testi B (di stesura unica), testi C (di seconda stesura), ripro-
ducendo le diverse versioni di ciascuna nota.

4) Costruì, nel quarto volume, un ampio apparato critico, ancora oggi utilis-
simo per lo studio dei quaderni.
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6. L’edizione nazionale

La pubblicazione dell’edizione critica ha presto suscitato studi fortemente


innovativi. A partire dagli anni Ottanta le ricerche su Gramsci hanno mutato
nettamente indirizzo. La prima idea, offerta da Gerratana, delle date di com-
posizione dei singoli quaderni ha consentito di porre l’opera di Gramsci in
una prospettiva storica, finalmente legandola alla biografia umana e politica.
Come sempre accade in questi casi, le nuove conoscenze hanno stimolato il
desiderio di saperne di più. Ma cosa significa qui “saperne di più”? Sul piano
filologico sono emerse tre esigenze cha hanno portato a progettare una nuova
edizione dei quaderni, che ha cominciato a realizzarsi nel 1991 con il piano
per la Edizione Nazionale. Queste nuove esigenze possono essere riassunte
così:

1) L’edizione critica, per quanto accurata, lasciava fuori un’ampia sezione


dei quaderni: cioè i 4 quaderni di traduzione (A, B, C, D) e le parti dei Qua-
derni 7 e 9 riservati alle traduzioni. Gerratana giustificò l’esclusione con il
motivo che si trattava di «un esercizio distensivo e un allenamento mentale
utili per un certo periodo», ma privo di importanza per il suo pensiero. A
mano a mano che questi quaderni sono stati studiati, si è invece scoperto che
essi sono parte costitutiva del progetto dei quaderni (si pensi alle traduzioni
di Marx).

2) Alcune scelte di Gerratana, relative alle datazioni dei quaderni, sono subi-
to apparse discutibili. In particolare, nei Quaderni 4, 7 e 10 Gerratana aveva
invertito l’ordine del manoscritto, ritenendo che la data di composizione non
corrispondesse alla sequenza delle pagine. Il Quaderno 4 inizia dai fogli 41-
80bis, segue con i fogli 11-40bis e si conclude con i fogli 1-10bis. Il Quader-
no 7 pone dapprima i fogli 51-73bis, poi i fogli 34bis-50bis. Il Quaderno 10
inizia con i fogli 41-50a e prosegue con i fogli 1-40a. Alcune di queste inver-
sioni, a un esame ulteriore, si sono dimostrate discutibili.

3) Infine, Gerratana aveva compiuto uno sforzo notevole per datare l’inizio
della composizione dei singoli quaderni e la loro disposizione interna. Ma
l’esigenza principale è (per le ragioni che dirò tra poco) quella di datare le
singole note. Questo tentativo non ha solo, o tanto, un rilievo editoriale, ma
di studio e interpretativo, nel senso che occorre per ricostruire una “mappa”
attendibile del percorso teorico di Gramsci.

A queste osservazioni bisogna aggiungere un corollario importante. Una


edizione rigorosamente cronologica dei quaderni, nel senso che disponga tut-
te le note nel preciso ordine di successione, è impossibile. Così come è im-
possibile una edizione che restituisca con assoluta fedeltà il manoscritto, i
quaderni “così come sono”. A questo scopo è stata pubblicata, nel 2009,
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l’edizione anastatica in 18 volumi: che appunto non è una edizione critica,


ma presenta la struttura materiale dei quaderni “così come sono”.
L’Edizione Nazionale è ormai nel pieno delle sue pubblicazioni. Con le
correzioni che si sono accennate, il piano dell’opera è diviso in tre volumi: 1)
Quaderni di traduzione (1929-1932) – 2) Quaderni miscellanei (1929-1935)
– 3) Quaderni speciali (1932-1935).
Ci resta da spiegare cosa significano queste espressioni, che scandiscono
la divisione principale del progetto della Edizione Nazionale.

7. I tempi di composizione dei quaderni

A una considerazione puramente filologica (senza cioè introdurre ancora


il problema cronologico), non è difficile classificare i 35 quaderni. In gene-
rale, 21 quaderni appartengono al periodo di Turi di Bari (8 febbraio 1929-19
novembre 1933, come si evince dalle notazioni carcerarie) e 12 quaderni ap-
partengono al periodo di Formia (7 dicembre 1933-24 agosto 1935, privi di
contrassegni carcerari). In particolare, i quaderni presentano delle divisioni di
contenuto abbastanza nette, che possono essere rese così:

• 2 quaderni (17bis e 17ter) sono inutilizzati, pur recando i contrasse-


gni carcerari di Turi.

• Ci sono spazi dedicati alle sole traduzioni: i Quaderni A, B, C, D e


parti dei Quaderni 7 e 9. Sappiamo che queste traduzioni furono
condotte da Gramsci dal 1929 al 1932, poi abbandonate.

• Ci sono 8 quaderni “miscellanei” puri (1-3, 5-6, 14-15, 17), utilizza-


ti per note di spoglio o per note teoriche, spesso individuate da titoli
di rubrica.

• Abbiamo 4 quaderni “misti”. I quaderni “misti” sono quaderni “mi-


scellanei” che includono sezioni tematiche: 1) il Quaderno 4 presen-
ta 3 sezioni tematiche: Appunti di filosofia 1, Note su Dante, Note
sugli intellettuali; 2) il Quaderno 7 include gli Appunti di filosofia 2;
3) il Quaderno 8 include gli Appunti di filosofia 3; 4) il Quaderno 9
include le note sul Risorgimento italiano.

• Infine ci sono i 17 quaderni “speciali”, cioè monografici, che porta-


no un titolo e che sono dedicati a un tema specifico. L’espressione
“speciali” è dello stesso Gramsci, che la adoperò occasionalmente
nel Quaderno 15 (Quaderni del carcere, p. 1748). I quaderni “spe-
ciali” sono i seguenti: 10, 11, 12, 13, 16, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24,
25, 26, 27, 28, 29. Tutti i quaderni iniziati a Formia sono “speciali”.
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In questo modo, abbiamo una prima “mappa” del contenuto dei quaderni.
Questa “mappa”, seppure corretta sul piano filologico, ha il grave limite di
non fornire indicazioni sui tempi di composizione delle note. Per affrontare
questo problema dobbiamo, in primo luogo, ricostruire la biografia intellet-
tuale di Gramsci in carcere. Per semplificare al massimo, possiamo distin-
guere quattro fasi nella composizione dei quaderni. Questa ripartizione cro-
nologica ci offre una griglia per tentare poi di datare le singole note:

1. Come abbiamo visto, noi conosciamo la data di inizio del Quaderno 1,


scritta dallo stesso Gramsci: 8 febbraio 1929. In questa data Gramsci scrive
la prima pagina e l’inizio della seconda pagina (lasciando in bianco il resto
della pagina 1verso) del Quaderno 1, con l’elenco dei 16 «argomenti princi-
pali». Tuttavia Gramsci interruppe la stesura del quaderno per alcuni mesi,
dedicandosi alle traduzioni nel Quaderno 9, nel Quaderno A, poi nel Quader-
no C. Riprese la stesura del Quaderno 1 nel giugno-luglio 1929: per circa un
anno, fino al maggio 1930, raccolse note di spoglio e note teoriche nelle pa-
gine restanti del Quaderno 1. Una prima fase del suo lavoro, dal febbraio
1929 al maggio 1930 è dunque raccolta sostanzialmente nel Quaderno 1 e
negli esercizi di traduzione.

2. Intorno al maggio 1930 c’è una prima svolta nel suo lavoro. Tra il
maggio 1930 e l’aprile 1932, Gramsci raccoglie note di spoglio e note teori-
che nei Quaderni 2-8, lavorando contemporaneamente su più quaderni, ma
per la prima volta introduce sezioni tematiche nei Quaderni 4, 7 e 8: scrive
infatti le tre serie degli Appunti di filosofia, le note sul canto decimo
dell’Inferno di Dante e le note miscellanee sugli intellettuali. Si definisce co-
sì una seconda fase, in cui quasi tutto il materiale della sua riflessione appare
ormai enucleato.

3. Questi approfondimenti tematici condussero a una nuova e più impor-


tante svolta nel suo lavoro, forse addirittura a un momento di feconda crisi.
Possiamo fissarne due premesse. Nel foglio 1verso del Quaderno 8, scritto
nel marzo-aprile 1932, Gramsci scrisse un elenco di 10 «raggruppamenti di
materia», che in buona parte corrispondono al primo piano dei quaderni
“speciali”. Inoltre, il 22 febbraio 1932 aveva chiesto a Tatiana «dei quaderni
di formato normale, come quelli scolastici, e di non molte pagine, al massi-
mo 40-50, in modo che necessariamente non si trasformino in zibaldoni mi-
scellanei sempre più farraginosi»; che riceveva il 21 marzo. Questi quaderni
piccoli servivano per raccogliere e rielaborare le note precedentemente scritte
sugli intellettuali, secondo un ordine tematico. Si affermava un nuovo meto-
do di lavoro: la costruzione di testi di seconda stesura e di nuovi testi di ste-
sura unica secondo un criterio monografico. Nascevano così i quaderni “spe-
ciali”: dapprima il Quaderno 10 su Croce, poi il Quaderno 12 sugli intellet-
tuali, il Quaderno 13 su Machiavelli, il Quaderno 11 sulla filosofia. Questo
lavoro impegnò Gramsci, in maniera continuativa, tra il maggio e il dicembre
1932 e costituisce il cuore pulsante di tutta la sua riflessione. Possiamo per-
71

ciò fissare questa terza fase del suo lavoro, dominata dalla composizione dei
primi 4 quaderni “speciali”.

4. Nei mesi che restò a Turi, fino al dicembre 1933, Gramsci riprese il
suo lavoro miscellaneo nei Quaderni 15 e 17. In sostanza, nel periodo di Turi
aveva scritto (anche se non completato) i Quaderni 1-12, 13, 15, 17. Con il
trasferimento a Formia, dove arrivò il 7 dicembre 1933, inizia una fase diver-
sa. Gramsci prosegue alcuni quaderni iniziati a Turi: 13, 14 e 17. Ma soprat-
tutto avvia i Quaderni 16, 18-29, tutti privi di contrassegni carcerari e tutti
“speciali”. Abbiamo dunque una quarta e ultima fase del suo lavoro, che so-
stanzialmente coincide con il periodo di Formia.

8. I criteri di datazione

Abbiamo costruito una “mappa” e una “griglia” cronologica. Ma rimane


da capire come possiamo provare a datare le singole note dei quaderni. Come
in ogni caso di questo genere, dobbiamo distinguere due tipi di criteri meto-
dologici: riferimenti diretti (forniti dallo stesso autore) e riferimenti indiretti.
Per nostra sfortuna, i riferimenti diretti di datazione sono molto pochi: come
sappiamo, conosciamo la data di inizio del Quaderno 1 (8 febbraio 1929); nel
Quaderno 15 Gramsci scrisse sul foglio 1verso: “iniziato nel 1933”; datò al
1933 il Quaderno 17. Per il resto, esaminando i quaderni, non si trovano più
di altri dieci indicazioni incidentali di date.
In larghissima parte dobbiamo perciò ricorrere a riferimenti indiretti, fino
a fissare alcune regole generali. Per semplicità possiamo suddividere i criteri
di datazione in due gruppi principali: il primo gruppo si riferisce alle nota-
zioni carcerarie, il secondo gruppo ai comportamenti del prigioniero.

1. Come abbiamo visto, nel gennaio 1929 Gramsci venne autorizzato a


scrivere in cella con un sistema stretto di controlli. I controlli prevedevano
che ogni quaderno venisse munito di un timbro speciale, il visto del Direttore
e la numerazione delle pagine. A queste regole se ne aggiunsero alcune altre
nel corso del tempo. La presenza di questi segni ci aiuta a datare i quaderni,
ma solo per il periodo di Turi, perché i quaderni di Formia sono privi di con-
trassegni carcerari. L’indizio più importante deriva dalla firma del Direttore
del carcere. Noi sappiamo che nel periodo trascorso da Gramsci a Turi si
succedettero quattro Direttori: 1) Gerlando Parmegiani dal 19 luglio 1928 al
febbraio 1929; 2) Gualtieri dal 31 maggio 1929 al 24 novembre 1930; 3)
Vincenzo Azzariti dal 24 novembre 1930 al 18 marzo 1933; 4) Pietro Sorren-
tino dal 18 marzo 1933 al 19 novembre 1933. In base alla firma del Direttore
possiamo perciò suddividere i quaderni in tre gruppi. Si tenga presente che
questa suddivisione ci offre una indicazione abbastanza precisa sulla conse-
gna dei quaderni, non sulla data della loro composizione.
72

1) Un gruppo di 6 quaderni (1, 2, 9, A, B, C), firmati da Gerlando Parmegia-


ni, venne consegnato a Gramsci in unica soluzione tra il gennaio 1929 e l’8
febbraio 1929.

2) Un gruppo di 3 quaderni (3, 4, 7), privi di firma, vennero presumibilmente


consegnati nel maggio 1930.

3) Un gruppo di 3 quaderni (5, 6, 8) portano la firma di un sostituto del Di-


rettore e vengono consegnati nell’ottobre 1930.

In sostanza, tra il gennaio 1929 e l’ottobre 1930 Gramsci dispone di 12


quaderni: i Quaderni 1-9 e i primi tre quaderni di traduzione. La data di con-
segna ci offre una indicazione di base per formulare ipotesi sull’inizio, pro-
babilmente ravvicinato, della stesura.
Oltre la firma del Direttore, ci sono altri indizi da tenere presenti: i princi-
cipali sono l’uso delle marche da bollo, la grafia degli applicati che numera-
no i fogli, e così via.

2. Il secondo criterio riguarda i comportamenti di scrittura di Gramsci nel


periodo carcerario. Gli studiosi hanno osservato alcune variazioni della gra-
fia che si succedono nel tempo e che pertanto possono essere assegnate a pe-
riodi determinati. Per quanto riguarda i comportamenti grafici, possono esse-
re ricordati i seguenti a titolo di esempio: l’abitudine a invadere i margini del
foglio, che può essere attribuito a periodi diversi; l’uso della t tagliata, che
compare solo fino al maggio 1930 ed è poi abbandonato.
Più importanti sono i comportamenti strutturali di Gramsci rispetto allo
spazio disponibile nei quaderni. Possiamo indicare tre regole, che diventano
molto importanti per formulare ipotesi di datazione:

1. Regola della contemporaneità – Gramsci ha l’abitudine di utilizzare im-


mediatamente le sue fonti per la stesura delle note. Questo significa che
l’arrivo in carcere di un libro o di una rivista è cronologicamente prossimo o
simultaneo alla lettura e alla stesura della nota corrispondente.

2. Regola della bipartizione – Gramsci lavora contemporaneamente a più


quaderni disponibili. Questo significa che non è possibile stabilire una suc-
cessione nella stesura dei singoli quaderni, ma la cronologia deve riguardare
le singole note. In generale, però, Gramsci adotta una strategia per moltipli-
care lo spazio disponibile. La regola principale è che, di fronte a un quaderno,
si comporta come se ne avesse due: inizia dal primo foglio e, contempora-
neamente, dal foglio nella metà del quaderno. A volte la seconda parte è
scritta prima della prima metà del quaderno e vengono lasciate parti bianche
per completamenti successivi.

3. Regola del successore – Esistono sequenze di quaderni, nel senso che


quando conclude lo spazio in un quaderno Gramsci lo continua in un quader-
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no “successore”. Questo vale, in modo particolare, per i “miscellanei”. Per


fare un esempio, esaurito lo spazio nel Quaderno 8, Gramsci lo continua nel
Quaderno 9, poi nel Quaderno 14, quindi nel Quaderno 15, infine nel Qua-
derno 17. Però la continuazione non avviene sempre nel primo foglio del
quaderno “successore”, ma nello spazio disponibile in quel momento. Si pos-
sono così stabilire delle sequenze cronologiche, che non coincidono necessa-
riamente con quaderni interi, ma con blocchi di note più o meno omogenee.

Con questi criteri, che interagiscono fra loro, non arriviamo a una perfetta
datazione di tutto il lavoro carcerario di Gramsci, ma siamo in grado di co-
struire una “mappa” che ci restituisce, nel suo sviluppo, la riflessione che sta
alla base dei quaderni.
74

Lezione 8

(Lunedì 30 marzo 2020)

1. Entrare nel “labirinto”

Per iniziare la lettura dei quaderni, dobbiamo anzi tutto tenere presenti le
circostanze della biografia. Gramsci, ricordiamolo ancora, era stato arrestato
la sera dell’8 novembre 1926. In una lettera non datata (allegata agli atti del
processo), ma presumibilmente scritta poco dopo il fermo, chiede alla padro-
na della sua abitazione di Roma, Clara Passarge, l’invio di tre libri, che evi-
dentemente sono al centro dei suoi interessi attuali:

Gentilissima signora, prima di tutto, voglio domandarle scusa per i disturbi e i fastidi
che le ho arrecato, i quali non entravano, in verità, nell’accordo di inquilinato. Sto abba-
stanza bene e sono calmo e tranquillo. Le sarò grato se vorrà preparare un po’ di bianche-
ria e consegnarla a una brava donna, di nome Marietta Bucciarelli, se verrà a domandarla
per me: non posso mandarle l’indirizzo della donna perché l’ho dimenticato. Vorrei avere
questi libri: 1° la Grammatica tedesca che era nello scaffale accanto all’ingresso; 2° il
Breviario di linguistica di Bertoni e Bartoli che era nell’armadio di fronte al letto; 3° gra-
tissimo le sarei se mi inviasse una Divina Commedia di pochi soldi, perché il mio testo lo
avevo imprestato. Se i libri sono rilegati, occorre strappare il cartone, badando che i fogli
non si stacchino. Vorrei avere notizie del bambino che era ammalato di scarlattina. Forse
Marietta saprà qualche cosa. Se la mia permanenza in questo soggiorno durasse a lungo,
credo ella debba ritenere libera la stanza e disporne. I libri può incassarli e gettar via i
giornali quotidiani. Le rinnovo le mie scuse, cara signora, e tutto il mio rincrescimento,
tanto più grande quanto più è stata grande la loro gentilezza.

Altri libri chiede poco tempo dopo dal confino di Ustica, il 9 dicembre, a
Tatiana:

Mandami subito, se puoi, la grammatica tedesca e una grammatica russa; il diziona-


rietto ted. it. e it. ted. e qualche libro (Max und Moritz e la storia della letteratura it. del
Vossler, se riesci a scovarla tra i libri). Mandami quel volumone di articoli e studi sul ri-
sorgimento italiano che è intitolato, mi pare, Storia politica del secolo XIX e un libro inti-
tolato: R. Ciasca, La formazione del programma dell’unità nazionale, o qualcosa di simi-
le.

Due giorni dopo, l’11 dicembre, scrive a Piero Sraffa (allora professore di
economia politica a Cagliari), chiedendo aiuto per i libri, con particolare ri-
guardo a «un buon trattato di economia e di finanza» e a «qualche libro e
qualche rivista di cultura generale». Sraffa, come è noto, gli aprì un conto
illimitato presso la libreria Sperling&Kupfer di Milano, da cui arriveranno a
Gramsci le nuove pubblicazioni.
75

Carissimo amico, sono giunto a Ustica il 7 dicembre, dopo un viaggio alquanto disa-
giato (come puoi comprendere), ma molto interessante. Sono in ottime condizioni di salu-
te. Ustica sarà per me un soggiorno abbastanza piacevole dal punto di vista dell’esistenza
animale, perché il clima è ottimo e posso fare passeggiate saluberrime: per le comodità
generali, tu sai che non ho molte pretese e posso vivere con pochissimo. Mi preoccupa un
po’ il problema della noia, che non potrà essere risolto unicamente dalle passeggiate e dal
contatto con gli amici: siamo finora 14 amici, tra i quali Bordiga. Mi rivolgo a te perché
mi faccia la cortesia di inviarmi qualche libro. Desidererei avere un buon trattato di eco-
nomia e di finanza da studiare: un libro fondamentale, che tu potrai scegliere a tuo giudi-
zio. Quando ti sarà possibile mi manderai qualche libro e qualche rivista di cultura gene-
rale che riterrai interessante per me. Carissimo amico, tu conosci le mie condizioni fami-
gliari e sai quanto sia difficile per me ricevere libri altro che da qualche amico personale:
credi che non avrei osato darti un tale fastidio, se non spinto dalla necessità di risolvere
questo problema dell’abbrutimento intellettuale che specialmente mi preoccupa. Ti ab-
braccio affettuosamente

Fin dai primi giorni della reclusione, dunque, Gramsci cerca di organizza-
re le proprie letture e di impostare una attività di studio. Così, il 19 marzo
1927, dal carcere milanese di San Vittore, comunica a Tatiana (e, per mezzo
di Tatiana, a Togliatti e a Sraffa) il suo primo programma di lavoro (lo ab-
biamo già commentato nelle lezioni precedenti):

Ho pensato a quattro soggetti finora, e già questo è un indice che non riesco a racco-
gliermi, e cioè: 1° una ricerca sulla formazione dello spirito pubblico in Italia nel secolo
scorso; in altre parole, una ricerca sugli intellettuali italiani, le loro origini, i loro raggrup-
pamenti secondo le correnti della cultura, i loro diversi modi di pensare ecc. ecc. Argo-
mento suggestivo in sommo grado, che io naturalmente potrei solo abbozzare nelle grandi
linee, data l’assoluta impossibilità di avere a disposizione l’immensa mole di materiale
che sarebbe necessaria. Ricordi il rapidissimo e superficialissimo mio scritto sull’Italia
meridionale e sulla importanza di B. Croce? Ebbene, vorrei svolgere ampiamente la tesi
che avevo allora abbozzato, da un punto di vista «disinteressato», «für ewig». - 2° Uno
studio di linguistica comparata! Niente meno. Ma che cosa potrebbe essere più «disinte-
ressato» e für ewig di ciò? Si tratterebbe, naturalmente, di trattare solo la parte metodolo-
gica e puramente teorica dell’argomento, che non è stata mai trattata completamente e
sistematicamente dal nuovo punto di vista dei neolinguisti contro i neogrammatici. (Ti
farò orripilare, cara Tania, con questa mia lettera!) Uno dei maggiori «rimorsi» intellet-
tuali della mia vita è il dolore profondo che ho procurato al mio buon professor Bartoli
dell’Università di Torino il quale era persuaso essere io l’arcangelo destinato a prodigare
definitivamente i «neogrammatici», poiché egli, della stessa generazione e legato da mi-
lioni di fili accademici a questa geldra di infamissimi uomini, non voleva andare, nelle
sue enunciazioni, oltre un certo limite fissato dalle convenienze e dalla deferenza ai vec-
chi monumenti funerari dell’erudizione. - 3° Uno studio sul teatro di Pirandello e sulla
trasformazione del gusto teatrale italiano che il Pirandello ha rappresentato e ha contribui-
to a determinare. Sai che io, molto prima di Adriano Tilgher, ho scoperto e ho contribuito
a popolarizzare il teatro di Pirandello? Ho scritto sul Pirandello, dal 1915 al 1920, tanto da
mettere insieme un volumetto di 200 pagine e allora le mie affermazioni erano originali e
senza esempio: il Pirandello era o sopportato amabilmente o apertamente deriso. - 4° Un
saggio sui romanzi di appendice e il gusto popolare in letteratura. L’idea m’è venuta leg-
gendo la notizia della morte di Serafino Renzi, capocomico di una compagnia di drammi
da arena, riflesso teatrale dei romanzi d’appendice, e ricordando quanto io mi sia divertito
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le volte che sono andato ad ascoltarlo, perché la rappresentazione era doppia: l’ansia, le
passioni scatenate, l’intervento del pubblico popolare non era certo la rappresentazione
meno interessante. Che te ne pare di tutto ciò? In fondo, a chi bene osservi, tra questi
quattro argomenti esiste omogeneità: lo spirito popolare creativo, nelle sue diverse fasi e
gradi di sviluppo, è alla base di essi in misura uguale.

Pochi giorni dopo, il 27 marzo 1927, Gramsci rivolge al giudice istruttore


del Tribunale militare di Milano un’istanza per «poter avere permanentemen-
te nella sua cella la penna, l’inchiostro e un centinaio di fogli di carta per
scrivere dei lavori di carattere letterario». Nonostante il parere favorevole del
magistrato, l’autorizzazione non viene concessa.
Arrivato a Turi (19 luglio 1928), Gramsci cerca di creare le condizioni
per realizzare i suoi progetti di studio. Il 25 agosto, la madre invia diretta-
mente a Mussolini l’istanza per il trasferimento in una cella singola e per la
concessione di «carta e inchiostro per dedicar[s]i a qualche lavoro di caratte-
re letterario e allo studio delle lingue». Il capo del governo autorizza il trasfe-
rimento nella cella singola (la n. 1 della sezione 1), ma nega l’autorizzazione
a scrivere. Solo alla fine di gennaio 1929 (lo si apprende da una lettera a Ta-
tiana del 29 gennaio), la concessione arriva, sulla base dell’art. 325 del Rego-
lamento carcerario e con le restrizioni di cui abbiamo parlato nelle lezioni
precedenti.
Ricevuti i quaderni scolastici, Gramsci può dunque iniziare il suo lavoro
di scrittura. Questo lavoro comincia l’8 febbraio 1929 (Gramsci scrive la da-
ta nel primo foglio) con il Primo quaderno, dove scrive l’elenco dei 16 Ar-
gomenti principali di cui intende occuparsi. Ricordiamoli:

Argomenti principali: –
1) Teoria della storia e della storiografia.
2) Sviluppo della borghesia italiana fino al 1870.
3) Formazione dei gruppi intellettuali italiani: svolgimento, atteggiamenti.
4) La letteratura popolare dei «romanzi d’appendice» e le ragioni della sua persistente
fortuna.
5) Cavalcante Cavalcanti: la sua posizione nella struttura e nell’arte della Divina
Commedia.
6) Origini e svolgimento dell’Azione Cattolica in Italia e in Europa.
7) Il concetto di folklore.
8) Esperienze della vita in carcere.
9) La «quistione meridionale» e la quistione delle isole.
10) Osservazioni sulla popolazione italiana: sua composizione, funzione
dell’emigrazione.
11) Americanismo e fordismo.
12) La quistione della lingua in Italia: Manzoni e G. I. Ascoli.
13) Il «senso comune» (cfr 7).
14) Riviste tipo: teorica, critico-storica, di cultura generale (divulgazione).
15) Neo-grammatici e neo-linguisti («questa tavola rotonda è quadrata»).
16) I nipotini di padre Bresciani.

Tuttavia, dopo avere scritto l’elenco degli Argomenti principali, Gramsci


interrompe la stesura del Quaderno 1, che riprenderà nel successivo giugno o
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luglio 1929. Tra il febbraio e il giugno si dedica prevalentemente a lavori di


traduzione dal tedesco (Quaderni A e B), dal russo (Quaderno 9) e ad alcuni
esercizi di lingua inglese (Quaderno C). Nel frattempo (e questo è un aspetto
rilevante, spesso trascurato dagli interpreti) «mette ordine nei [suoi] pensie-
ri». Le prove filologiche di questa interruzione sono sostanzialmente di due
tipi:

1) Le prime fonti utilizzate nel Quaderno 1 sono periodici del giugno


1929. La regola di “contemporaneità” (vedi lezione precedente)
suggerisce che le note siano scritte a ridosso della ricezione delle
pubblicazioni, dunque nel giugno o nel luglio.

2) In due lettere, una a Tatiana (9 febbraio 1929) e una a Giulia (11


marzo 1929), Gramsci stesso dichiara che sta svolgendo lavori di
traduzione. Leggiamo i passi salienti:

Sai? Scrivo già in cella. Per adesso faccio solo delle traduzioni, per rifarmi la mano:
intanto metto ordine nei miei pensieri. (Lettera a Tatiana del 9 febbraio 1929)

Io adesso sto abbastanza bene e dormo qualche mezz’ora di più. Poi mi sono ingolfato
in traduzioni dal tedesco e questo lavoro mi calma i nervi e mi fa stare più tranquillo.
Leggo meno, ma lavoro di più. (Lettera a Giulia dell’11 marzo 1929)

Se questa ipotesi è esatta, Gramsci riprende la stesura del Quaderno 1 so-


lo nel giugno-luglio 1929 e ne continua la scrittura, in maniera lineare (cioè
scrivendo progressivamente dalla prima all’ultima pagina del quaderno), fino
al maggio 1930. Se nell’ultimo periodo, cioè nel maggio 1930, la stesura del
Quaderno 1 si sovrappone ad alcune note dei Quaderni 2, 3, 4 (Gramsci lavo-
ra contemporaneasmente su 4 quaderni), possiamo dire che nel complesso il
primo periodo di lavoro (ed è un caso raro, anzi pressoché unico) è intera-
mente testimoniato da questo quaderno (a cui, naturalmente, vanno aggiunte
le numerose lettere scritte dal carcere speciale di Turi dal febbraio 1929 al
maggio 1930).
Già queste notazioni filologiche ci avvertono della notevolissima impor-
tanza del Quaderno 1, che costituisce una via di accesso sicura nel “labirinto”
dei quaderni. Oltre la cronologia, è però il contenuto teorico che indica un
sostanziale salto di qualità nella riflessione di Gramsci. In breve, questo qua-
derno – che, come abbiamo visto, occupa un intero anno di lavoro del prigio-
niero – rappresenta come un microcosmo del pensiero di Gramsci, dove tutti
i nodi della sua meditazione sono enucleati, sia pure in una forma ancora
“miscellanea” e a volte contratta. Non è esagerato affermare che quasi tutti
gli svolgimenti analitici dei quaderni successivi sono già indicati nel Qua-
derno 1. Perciò sarà opportuno dedicarvi, in queste lezioni, una attenzione
particolare. Nelle pagine che seguono vi indicherò i principali nuclei tematici
che vi vengono focalizzati, poi ne studieremo gli sviluppi successivi.
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2. Il diritto naturale

Dopo l’elenco dei 16 argomenti principali, Gramsci svolge la sua rifles-


sione in una serie di 158 note, che nel loro insieme occupano in maniera con-
tinuativa le 200 facciate (100 carte, ciascuna occupata nel recto e nel verso)
del Quaderno 1: di questi 158 paragrafi, 51 resteranno di stesura unica e 107
verranno ripresi e rielaborati in diversi quaderni “speciali”. Queste note defi-
niscono il primo orientamento dei Quaderni del carcere. Possiamo dire che il
primo tema enucleato è la critica del diritto naturale, concepito come il nu-
cleo teorico che dalla posizione cattolica penetra nelle posizioni laiche mo-
derne, che perciò ne subiscono il paradigma (cfr. in particolare §§ 1, 2, 4).
Questo tema è strettamente intrecciato alla riflessione sul Concordato, di cui
si parla obliquamente nei §§ 3, 5. Leggendo queste pagine, non dimenticate
che il Concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica era stato firmato
l’11 febbraio 1929. La critica del diritto naturale apre a una meditazione più
ampia sullo storicismo, che culmina nelle osservazioni del § 28 su Storia e
Antistoria di Adriano Tilgher, dove, non a caso, compare il titolo di rubrica
Diritto naturale. Gramsci scrive così:

Nella polemica presente contro il diritto naturale non bisogna cercare una intenzione
scientifica qualunque. Si tratta di esercitazioni giornalistiche non molto brillanti, che si
propongono lo scopo propagandistico di distruggere certi stati d’animo molto diffusi e che
sono ritenuti pericolosi. A questo proposito vedere l’opuscolo del Tilgher su «Storia e An-
tistoria», dal quale apparirebbe che mai come oggi la mentalità illuministica da cui è nata
la teoria del diritto naturale è diffusa. L’opuscolo del Tilgher, a suo modo, è una riprova
di tale diffusione, perché il Tilgher cerca con esso di farsi un posticino al nuovo sole. Mi
pare che chi studi con una certa profondità (se si astrae dal linguaggio sforzato) le con-
traddizioni psicologiche che nascono sul terreno dello storicismo, come concezione gene-
rale della vita e dell’azione, sia Filippo Burzio. Per lo meno la sua affermazione: «essere
sopra alle passioni e ai sentimenti pur provandoli» mi pare ricca di molte conseguenze.
Infatti questo è il nodo della quistione dello «storicismo» che il Tilgher non sfiora neppu-
re: «come si possa essere critici e uomini d’azione nello stesso tempo, in modo non solo
che l’uno aspetto non indebolisca l’altro, ma anzi lo convalidi». Il Tilgher scinde molto
meccanicamente i due aspetti di ogni personalità umana (dato che non esiste e non è mai
esistito un uomo tutto critico e uno tutto passionale) invece di cercare di determinare co-
me in diversi periodi storici i due aspetti si combinino in modo che nel mondo della cultu-
ra prevalga una corrente o l’altra. (L’opuscolo del Tilgher lo dovrò ancora rivedere).

Come ogni pensatore del realismo politico (o meglio storico-politico) an-


che Gramsci considera il diritto naturale come una astrazione irreale, priva di
genesi nella storia. Però (questo è l’aspetto che Tilgher non comprende e che
invece emerge dal riferimento a Burzio) la critica del diritto naturale pone il
problema dello storicismo, «il nodo della quistione dello “storicismo”»: cioè
il rapporto fra prassi e teoria, tra essere nella storia ((provare passioni e sen-
timenti, essere uomini d’azione) e sollevarsi sopora di essa nella forma della
coscienza (essere “critici”). La critica del giusnaturalismo apre dunque il
problema di concepire la teoria nella sua genesi dalla storia e nel suo rappor-
to con la prassi, abbandonando la prospettiva “speculativa” che vede nei
79

princìpi una carattere trascendentale, proprio della natura o della ragione


umana. Oltre il giusnaturalismo vi è dunque questo nesso tra teoria e prassi,
che costituisce «il nodo [tuttora non risolto] della quistione dello “storici-
smo”». Qui si accenna, come vedete, la prospettiva stessa della filosofia della
praxis.
La questione del diritto naturale verrà ripresa da Gramsci in due note suc-
cessive, nel Quaderno 15 (§ 8) e nel Quaderno 27 (§ 2). Sono due passaggi
molto importanti della sua riflessione, che è opportuno leggere. Nel Quader-
no 15 si legge a proposito di Machiavelli:

Uno degli imparaticci dei teorici di origine nazionalista (es. M. Maraviglia) è quello
di contrapporre la storia al diritto naturale. Ma cosa significa una tale contrapposizione?
Nulla o solo la confusione nel cervello dello scrittore. Intanto il «diritto naturale» è un
elemento della storia, indica un «senso comune politico e sociale» e come tale è un «fer-
mento» di operosità. La quistione potrebbe esser questa: che un teorico spieghi i fatti col
così detto «diritto naturale», ma questo è un problema di carattere individuale, di critica a
opere individuali ecc. e in fondo non è altro che critica al «moralismo» come canone
d’interpretazione storica. Roba che ha la barba. Ma in realtà, al di sotto di questo spropo-
sito c’è un interesse concreto. Quello di voler sostituire un «diritto naturale» a un altro. E
infatti tutta la teoria nazionalista non è basata su «diritti naturali»? Si vuole al modo di
pensare «popolare» sostituire un modo di pensare non popolare, altrettanto mancante di
critica del primo. (p. 1761-1762)

Come vedete, la critica del diritto naturale (di quella posizione che nasce
nel contesto di un discorso religioso e penetra nel giusnaturalismo moderno)
porta Gramsci a una integrale storicizzazione («Intanto il “diritto naturale” è
un elemento della storia») fino alla identificazione del diritto di natura con il
«senso comune politico e sociale». È la storia che fissa in un preteso diritto
naturale, che diventa norma comune, il risultato di conflitti sociali.
L’aspetto veramente significativo di questa storicizzazione del diritto na-
turale riguarda la categoria di senso comune, che esploderà, dopo il maggio
1930, nelle tre serie di Appunti di filosofia. Qui Gramsci parla di «senso co-
mune politico e sociale». Ma in generale il diritto naturale, cioè il valore as-
sunto in una prospettiva religiosa, rappresenta la sfera stessa del senso co-
mune, che non a caso, nelle riflessioni seguenti, sarà decisamente collegato
con la religione cattolica e con la sua visione trascendente della realtà.
Nel Quaderno 27 la questione è svolta ulteriormente con una rielabora-
zione molto radicale, in seconda stesura, della nota del Quaderno 1 che ab-
biamo già esaminato:

Viene esercitata ancora oggi una certa critica, per lo più di carattere giornalistico e
superficiale, non molto brillante contro il così detto diritto naturale (cfr qualche elucubra-
zione di Maurizio Maraviglia e i sarcasmi e le beffe più o meno convenzionali e stantie
dei giornali e delle riviste). Qual è il significato reale di queste esercitazioni?
Per comprendere ciò occorre, mi pare, distinguere alcune delle espressioni che tradi-
zionalmente ha assunto il «diritto naturale»:
1) La espressione cattolica, contro la quale gli attuali polemisti non hanno il coraggio
di prendere una netta posizione, sebbene il concetto di «diritto naturale» sia essenziale ed
integrante della dottrina sociale e politica cattolica. Sarebbe interessante ricordare lo stret-
80

to rapporto che esiste tra la religione cattolica, così come è stata intesa sempre dalle gran-
di masse e gli «immortali principii dell’89». I cattolici stessi della gerarchia ammettono
questo rapporto quando affermano che la rivoluzione francese è stata una «eresia» o che
da essa si è iniziata una nuova eresia, riconoscono cioè che allora è avvenuta una scissio-
ne nella stessa fondamentale mentalità e concezione del mondo e della vita: d’altronde
solo così si può spiegare la storia religiosa della Rivoluzione francese, ché sarebbe altri-
menti inesplicabile l’adesione in massa alle nuove idee e alla politica rivoluzionaria dei
giacobini contro il clero, di una popolazione che era certo ancora profondamente religiosa
e cattolica. Per ciò si può dire che concettualmente non i principii della Rivoluzione fran-
cese superano la religione, poiché appartengono alla sua stessa sfera mentale, ma i princi-
pii che sono superiori storicamente (in quanto esprimono esigenze nuove e superiori) a
quelli della Rivoluzione francese, cioè quelli che si fondano sulla realtà effettuale della
forza e della lotta.
2) La espressione di diversi gruppi intellettuali, di diverse tendenze politico-
giuridiche, che è quella sulla quale si è svolta finora la polemica scientifica sul «diritto
naturale». A questo proposito la quistione è stata risolta fondamentalmente dal Croce, col
riconoscimento che si è trattato di correnti politiche e pubblicistiche, che avevano il loro
significato e la loro importanza in quanto esprimevano esigenze reali nella forma dogma-
tica e sistematica della così detta scienza del diritto (cfr la trattazione del Croce). Contro
questa tendenza si svolge la polemica «apparente» degli attuali esercitatori di scienza del
diritto, che in realtà, non distinguendo tra il contenuto reale del «diritto naturale» (riven-
dicazioni concrete di carattere politico-economico-sociale), la forma della teorizzazione e
le giustificazioni mentali che del contenuto reale dà il diritto naturale, sono essi più acriti-
ci e antistorici dei teorici del diritto naturale, cioè sono dei muli bendati del più gretto
conservatorismo (che si riferisce anche alle cose passate e «storicamente» superate e
spazzate via).
3) La polemica in realtà mira ad infrenare l’influsso che specialmente sui giovani in-
tellettuali potrebbero avere (e hanno realmente) le correnti popolari del «diritto naturale»,
cioè quell’insieme di opinioni e di credenze sui «proprii» diritti che circolano ininterrot-
tamente nelle masse popolari, che si rinnovano di continuo sotto la spinta delle condizioni
reali di vita e dello spontaneo confronto tra il modo di essere dei diversi ceti. La religione
ha molto influsso su queste correnti, la religione in tutti i sensi, da quella come è realmen-
te sentita e attuata a quella quale è organizzata e sistematizzata dalla gerarchia, che non
può rinunziare al concetto di diritto popolare. Ma su queste correnti influiscono, per meati
intellettuali incontrollabili e capillari, anche una serie di concetti diffusi dalle correnti lai-
che del diritto naturale e ancora diventano «diritto naturale», per contaminazioni le più
svariate e bizzarre, anche certi programmi e proposizioni affermati dallo «storicismo».
Esiste dunque una massa di opinioni «giuridiche» popolari, che assumono la forma del
«diritto naturale» e sono il «folclore» giuridico. Che tale corrente abbia importanza non
piccola è stato dimostrato dalla organizzazione delle «Corti d’Assisi» e di tutta una serie
di magistrature arbitrali o di conciliazione, in tutti i campi dei rapporti individuali e di
gruppo, che appunto dovrebbero giudicare tenendo conto del «diritto» come è inteso dal
popolo, controllato dal diritto positivo o ufficiale. Né è da pensare che l’importanza di
questa quistione sia sparita con l’abolizione delle giurie popolari, perché nessun magistra-
to può in una qualsiasi misura prescindere dall’opinione: è anzi probabile che la quistione
si ripresenti in altra forma e in misura ben più estesa che nel passato, ciò che non manche-
rà di sollevare pericoli e nuove serie di problemi da risolvere.

Gli «immortali princìpi dell’89» (liberté, égalité, fraternité) appartengono


alla «sfera mentale» della religione, non la superano. I princìpi che superano
la dimensione religiosa sono «quelli che si fondano sulla realtà effettuale del-
81

la forza e della lotta», cioè che sanno indicare la genesi del diritto naturale
(una specie di alfabeto del senso comune o, come qui si dice, «folclore giuri-
dico») nell’ordine concreto della storia. Ma in questo testo, come avrete os-
servato, la questione assume una straordinaria complessità. Gli «immortali
princìpi dell’89» sono una secolarizzazione del giusnaturalismo cattolico
(una eresia di quel modello originale). Tutta la morale moderna, sanzionata
dall’epoca liberale, deriva da tale opera di secolarizzazione. La filosofia del-
la praxis mira a spezzare questa continuità, riaffermando «la realtà effettuale
della forza e della lotta», cioè opponendo alla morale della trascendenza
quella posizione filosofica che Gramsci definisce come immanenza. Questa è
la “religione dell’uomo moderno”, che la modernità ha per molti versi man-
cato, assumendo dal cattolicesimo le sue categorie costitutive.
Ora il tratto di questa secolarizzazione, sotto il profilo filosofico, è il ca-
rattere speculativo del diritto naturale: come le categorie dell’idealismo, il
diritto di natura è un dato originario, che si sottrae alla genesi dal divenire
della storia. Come il Dio dei cristiani, il diritto di natura ha una struttura tra-
scendente, che sfugge alle mani dell’uomo e alla sua volontà.

3. Brescianesimo e lorianesimo

Accanto al tema del diritto naturale Gramsci imposta, nelle prime note del
Quaderno 1, alcune rubriche caratteristiche dei quaderni: la critica del bre-
scianesimo e del lorianesimo. Il primo aspetto (cfr. § 24) considera lo stesso
problema del diritto naturale a un diverso livello: la penetrazione di un codi-
ce caratteristico della letteratura religiosa nella letteratura laica (laici sono i
nipotini di padre Bresciani, che riproducono o “secolarizzano” il discorso re-
ligioso popolare). La rubrica sul lorianesimo (cfr. § 25) considera invece le
degenerazioni positiviste e deterministiche del marxismo, che sfociano nella
dottrina del marxismo come sociologia: il lorianesimo, scrive, «poi si è “tu-
mefatto” nel campo della “sociologia”» (Q1, § 32). La critica del lorianesimo,
insomma, anticipa quella che, nei quaderni successivi, sarà rivolta a Bucharin.
(Si ricordi che lorianesimo è un neologismo derivato da Achille Lòria, un
economista che aveva avuto una certa fortuna nel socialismo italiano e che
era stato l’oggetto di critiche e sarcasmi già da parte di Antonio Labriola e
Benedetto Croce).

4. Machiavelli e il “paragone ellittico”

Nelle prime note del Quaderno 1 (prima di arrivare alla “svolta” del § 44)
ci sono ancora due passaggi di grande rilievo teorico: uno su Machiavelli,
l’altro su Maurras.
Il §10 su Machiavelli introduce indirettamente i grandi nodi della rifles-
sione sull’egemonia: il nesso nazionale-internazionale, il rapporto borghesia-
contadini nella rivoluzione nazionale. Si potrebbe dire che Gramsci sostitui-
82

sce qui alla alleanza operai-contadini quella borghesia-contadini (o “metafo-


rizza” la prima con la seconda. Scrive così:

Si suole troppo considerare Machiavelli come il «politico in generale» buono per tutti
i tempi: ecco già un errore di politica. Machiavelli legato al suo tempo: 1) lotte interne
nella repubblica fiorentina; 2) lotte tra gli stati italiani per un equilibrio reciproco; 3) lotte
degli stati italiani per equilibrio europeo. Su Machiavelli opera l’esempio della Francia e
della Spagna che hanno raggiunto una forte unità statale. Fa un «paragone ellittico» come
direbbe il Croce e desume le regole per un forte stato in generale e italiano in particolare.
Machiavelli è uomo tutto della sua epoca e la sua arte politica rappresenta la filosofia del
tempo che tende alla monarchia nazionale assoluta, la forma che può permettere uno svi-
luppo e un’organizzazione borghese. In Machiavelli si trova in nuce la separazione dei
poteri e il parlamentarismo; la sua «ferocia» è contro i residui del feudalismo, non contro
le classi progressive; il principe deve porre fine all’anarchia feudale e ciò fa il Valentino
in Romagna, appoggiandosi sulle classi produttive, contadini e mercanti. Dato il carattere
militare del capo dello stato, come si richiede in un periodo di lotta per la formazione e il
consolidamento del potere, l’indicazione di classe contenuta nell’Arte della guerra si deve
intendere per la struttura generale statale: se i borghesi della città vogliono porre fine al
disordine interno e all’anarchia esterna, devono appoggiarsi sui contadini come massa,
costituendo una forza armata sicura e fedele. Si può dire che questa concezione essen-
zialmente politica è così dominante nel Machiavelli che gli fa commettere gli errori di
carattere militare: egli pensa specialmente alla fanteria, le cui masse possono essere arruo-
late con un’azione politica, e perciò misconosce il valore dell’artiglieria. Insomma deve
essere considerato come un politico che deve occuparsi di arte militare in quanto ciò è
necessario per la sua costruzione politica, ma lo fa in modo unilaterale, perché non lì è il
centro del suo pensiero.

In questa breve nota (che sarà rielaborata nel Quaderno 13, su cui ci sof-
fermeremo nelle lezioni seguenti) è già in nuce tutta l’interpretazione di Ma-
chiavelli che verrà sviluppata successivamente. Gramsci utilizza la formula
del “paragone ellittico” che Croce aveva coniato in Materialismo storico ed
economia marxistica per spiegare la teoria del valore di Marx. Per Croce la
teoria del valore era il risultato, appunto, di un “paragone ellittico” tra la real-
tà economica del capitalismo e una società ideale di soli lavoratori. Ma
Gramsci estende il significato della formula, sottolineando come la conce-
zione politica di Machiavelli derivasse dal confronto della situazione italiana
con i punti più alti dello sviluppo storico europeo («l’esempio della Francia e
della Spagna»). È il primo esempio di “traducibilità”, nel senso che Machia-
velli traduce nella realtà dell’Italia lo spirito universale del suo tempo: in una
parola, fonda la sua teoria sul nesso fra dimensione internazionale e sfera na-
zionale, che presto diventerà il nucleo essenziale della teoria dell’egemonia.
Teniamo a mente questo passaggio fondamentale: attraverso l’esempio di
Machiavelli, l’egemonia si configura come capacità del soggetto (il principe,
il moderno principe) di tradurre nella politica nazionale la funzione propul-
siva (così si era espresso nella lettera del 1926 al comitato centrale del Pcr)
che si afferma a livello universale. Solo che, come poi vedremo, mentre
nell’epoca di Machiavelli la funzione propulsiva è esercitata dai grandi Stati
nazionali, nel novecento l’egemonia deve fare i conti con la crisi degli Stati
83

nazionali, con una situazione di compiuta globalizzazione a livello economi-


co.

5. Il caso esemplare di Maurras

Il secondo aspetto emerge a proposito del nazionalismo di Maurras (che


sarà sviluppato nel § 48) e riguarda la natura del partito politico. Maurras e
Daudet sono figure centrali nella formazione del pensiero di Gramsci. Gram-
sci ne aveva parlato per la prima volta in due articoli pubblicati nel «Grido
del popolo» del 1918 (Scritti giovanili, pp. 205-211 e pp. 325-329). Poi era
tornato su Maurras in due lettere, una a Giuseppe Berti, scritta da Milano il
30 gennaio 1928, l’altra a Tatiana del 7 aprile 1930. Le due lettere (la secon-
da con particolare chiarezza) pongono in rilievo un aspetto essenziale della
riflessione sul nazionalismo francese: la scissione del fronte cattolico, guida-
to dal cardinal Gasparri, dalla minoranza monarchica, e l’analogia che Gram-
sci rileva con il Concordato in Italia. Scrive così a Tatiana:

Non so se tu sei riuscita ad afferrare tutta l’importanza storica che il conflitto tra il
Vaticano e i monarchici francesi ha per la Francia: esso corrisponde, entro certi limiti, alla
riconciliazione italiana. È la forma francese di una conciliazione profonda tra Stato e
Chiesa: i cattolici francesi, come massa organizzata nell’Azione Cattolica francese, si
scindono dalla minoranza monarchica, cessano cioè di essere la riserva popolare potenzia-
le per un colpo di stato legittimista e tendono invece a formare un vasto partito di governo
repubblicano cattolico, che vorrebbe assorbire e assorbirà certamente una notevole parte
dell’attuale partito radicale (Herriot e C.i). È stato tipico nel ’26, durante la crisi parla-
mentare francese, mentre l’«Action Française» preannunziava il colpo di forza e pubbli-
cava i nomi dei futuri ministri che dovevano costituire il governo provvisorio che avrebbe
richiamato il pretendente Giovanni IV d’Orléans, il capo dei cattolici accettava di entrare
a far parte di un governo di coalizione repubblicana. La livida rabbia di Daudet e Maurras
contro il cardinal Gasparri e il nunzio pontificio a Parigi è proprio dovuta alla coscienza
acquistata di essere ormai diminuiti politicamente del 90% a dir poco.

Nel § 18 del Quaderno 1 Gramsci osserva che un partito monarchico in


regime repubblicano rappresenta «un partito sui generis», perché (si osservi)
non è un partito “programmatico”, che punti a esercitare il governo, ma un
partito “antisistema”, «partito di un sistema generale di governo»

Il partito monarchico in regime repubblicano, come il partito repubblicano in regime


monarchico e il partito nazionalista in regime di soggezione nazionale, non può non esse-
re un partito sui generis: deve essere, cioè, se vuole ottenere un successo relativamente
rapido, la centrale di una federazione di partiti, più che un partito caratterizzato in tutti i
punti particolari del suo programma di governo. Il partito di un sistema generale di gover-
no e non di un governo particolare. (Un posto a parte in questa stessa serie, però, spetta ai
partiti confessionali, come il Centro tedesco e i diversi partiti popolari - cristiano-sociali).

Ma il principio dell’analisi è che «ogni partito si fonda su una classe». Il


partito di Maurras si fonda «sui residui della vecchia nobiltà terriera e su una
piccola parte di intellettuali». È un partito anti-borghese.
84

Ogni partito si fonda su una classe e il partito monarchico si fonda in Francia sui resi-
dui della vecchia nobiltà terriera e su una piccola parte di intellettuali. Su che sperano i
monarchici per diventare capaci di prendere il potere e restaurare la monarchia? Sperano
sul collasso del regime parlamentare-borghese e sulla incapacità di qualsiasi altra forza
organizzata esistente ad essere il nucleo politico di una dittatura militare prevedibile o da
loro stessi preordinata. Le loro forze sociali di classe in nessun modo potrebbero altrimen-
ti giungere al potere.

La prognosi è che un partito così, regressivo, può vivere solo in periodi


normali, ma «diventerà insignificante» nei periodi di vera crisi, quando la
lotta riguarderà il partito borghese e quello proletario.

In attesa, il centro dirigente svolge questa attività: 1) azione organizzatrice politico-


militare (militare nel senso di partito), per raggruppare nel modo più efficace possibile la
angusta base sociale su cui storicamente s’appoggia il movimento. Essendo questa base
costituita di elementi in generale più scelti per intelligenza, cultura, ricchezza, pratica di
amministrazione ecc. che in qualsiasi altro, è possibile avere un partito-movimento note-
vole, imponente persino, ma che si esaurisce in se stesso, che non ha cioè, riserve da but-
tare nella lotta in una crisi risolutiva. È notevole dunque solo nei periodi normali, quando
gli elementi attivi si contano solo a decine di migliaia, ma diventerà insignificante (nume-
ricamente) nei momenti di crisi, quando gli attivi si potranno contare a centinaia di mi-
gliaia e forse a milioni (Continua).

L’analisi del nazionalismo di Maurras torna nel § 48 e nel § 106. In que-


ste note Gramsci vede sempre meglio il carattere anti-cattolico di Maurras,
nel senso che oppone il cattolicesimo al cristianesimo. Ma soprattutto ag-
giunge alcune importanti osservazioni sul concetto di egemonia, introducen-
do i concetti di apparato egemonico e di crisi egemonica. Ora Gramsci in-
troduce la nozione di “esercizio normale dell’egemonia” con riferimento al
regime parlamentare moderno. Si osservi che, forse per la prima volta, de-
mocrazia ed egemonia si stringono in un solo quadro teorico. Il discorso
sull’egemonia non riguarda più solo l’egemonia sociale del proletariato sui
contadini, o l’egemonia culturale dei moderati sul Partito d’azione, ma
l’egemonia politica in una democrazia e in un regime parlamentare. L’analisi
comincia così:

Lo sviluppo del giacobinismo (di contenuto) ha trovato la sua perfezione formale nel
regime parlamentare, che realizza nel periodo più ricco di energie «private» nella società
l’egemonia della classe urbana su tutta la popolazione, nella forma hegeliana di governo
col consenso permanentemente organizzato (coll’organizzazione lasciata all’iniziativa
privata, quindi di carattere morale o etico, perché consenso «volontario», in un modo o
nell’altro). Il «limite» trovato dai giacobini con la legge Chapelier [o il maximum] viene
superato e allargato attraverso un processo complesso, teorico-pratico (giuridico-politico
= economico), per cui si riottiene il consenso politico (si mantiene l’egemonia) allargando
e approfondendo la base economica con lo sviluppo industriale e commerciale fino alla
epoca dell’imperialismo e alla guerra mondiale. […]
L’esercizio «normale» dell’egemonia nel terreno divenuto classico del regime parla-
mentare, è caratterizzato da una combinazione della forza e del consenso che si equilibra-
85

no, senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi appaia appoggiata dal consenso
della maggioranza espresso dai così detti organi dell’opinione pubblica (i quali perciò, in
certe situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente).

“Giacobinismo” significa presenza di una pressione popolare in un regi-


me borghese. Ora il giacobinismo trova la «perfezione formale» nel «regime
parlamentare», viene per così dire istituzionalizzato nella democrazia. Nel
regime parlamentare si realizza «l’egemonia della classe urbana» nel senso
hegeliano di una egemonia che parte dalla società civile. Se Chapelier aveva
vietato le organizzazioni operaie, questo limite viene superato nella media-
zione egemonica realizzata dalla dialettica parlamentare, che funziona fino
all’esplodere dell’imperialismo e della guerra. Questo è l’«esercizio normale
dell’egemonia», che combina consenso e forza.
Ma con la guerra questa forma «si screpola», interviene una crisi egemo-
nica. La crisi egemonica è la crisi della democrazia parlamentare e della for-
za rappresentativa dei partiti:

Nel periodo del dopoguerra, l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio


dell’egemonia diventa sempre più difficile. Il fenomeno viene presentato e trattato con
vari nomi e sotto vari aspetti. I più comuni sono: «crisi del principio di autorità» — «dis-
soluzione del regime parlamentare». Naturalmente del fenomeno si descrivono solo le
manifestazioni centrali, nel terreno parlamentare e governativo, e si spiegano col fallimen-
to del «principio» parlamentare, del «principio» democratico ecc., non però del «princi-
pio» d’autorità (questo fallimento viene proclamato da altri). Praticamente questa crisi si
manifesta nella sempre crescente difficoltà di formare dei governi e nella sempre crescen-
te instabilità dei governi stessi ed ha la sua origine immediata nella moltiplicazione dei
partiti parlamentari e nelle crisi interne [permanenti] di ognuno di questi partiti (cioè si
verifica nell’interno di ogni partito ciò che si verifica nell’intero parlamento: difficoltà di
governo).

Maurras è ormai letto all’interno di questo processo disgregativo. Ma per


Gramsci la sua sconfitta è certa, la previsione della sconfitta del regime par-
lamentare è falsa. Di qui la definizione di “giacobinismo alla rovescia”. La
sua posizione è mitologica, puramente astratta, antistorica, regressiva. Quel
certo realismo che gli era riconosciuto (contro i democratico-radicali) negli
scritti giovanili qui è del tutto superato.

Maurras grida già allo sfacelo e si prepara alla presa del potere. Maurras passa per un
grande uomo di stato e per un grandissimo realista. In realtà egli è solo un giacobino alla
rovescia. I giacobini usavano un certo linguaggio, seguivano una certa ideologia; nel loro
tempo quel linguaggio e quella ideologia erano ultra-realistici perché ottennero di far
marciare le forze necessarie per ottenere i fini della rivoluzione e dettero alla classe rivo-
luzionaria il potere. Furono poi staccati dal tempo e dal luogo e ridotti in formule: erano
una cosa diversa, uno spettro, delle parole vane e inerti. Il comico è che Maurras a quelle
formule ne contrappose delle altre, in un sistema logico-letterario formalmente impeccabi-
le, ma del più puro illuminismo. Maurras rappresenta il più puro campione dello «stupido
secolo XIX», la concentrazione di tutte le banalità massoniche rovesciate meccanicamente:
la sua relativa popolarità viene appunto da questo, che il suo metodo piace perché è pro-
prio quello della ragione ragionante da cui è sorto l’enciclopedismo, l’illuminismo e tutta
86

la cultura massonica francese. Gli illuministi avevano creato il mito del selvaggio o che so
io, Maurras crea il mito del passato monarchico francese; solo che questo mito è stato
«storia» e le deformazioni intellettualistiche di esso possono essere troppo facilmente cor-
rette.
La formula fondamentale di Maurras è «politique d’abord», ma egli è il primo a non
osservarla. Prima della politica per lui c’è sempre l’«astrazione politica», l’accoglimento
integrale di un programma «ideologico» minuziosissimo, che prevede tutti i particolari,
come nelle utopie, che domanda una determinata concezione non della storia, ma della
storia di Francia e d’Europa, cioè una determinata ermeneutica.
87

Lezione 9

(Mercoledì 1 aprile 2020)

1. Il § 43 e le “riviste-tipo”

La vera “svolta” nella struttura del Quaderno 1 avviene a un certo punto


del § 43 (scritto tra la fine del 1929 e i primi mesi del 1930), quando Gram-
sci torna sui temi più caratteristici dell’articolo del 1926 sulla questione me-
ridionale. Gramsci ha iniziato a svolgere il punto 14) degli Argomenti princi-
pali (Riviste tipo: teorica, critico-storica, di cultura generale (divulgazio-
ne)): nel § 35 ha inaugurato una rubrica intitolata Riviste tipo, che nel Qua-
derno 1 ha tre note ma proseguirà nei quaderni successivi. Nel § 35 ha distin-
to tre generi di riviste e nel § 38 ha cominciato ad approfondire il terzo tipo,
definito «critico-storico-bibliografico». Nel § 43 continua questo discorso,
ma a un certo punto, alla c. 23verso, il discorso ha una improvvisa impenna-
ta. L’elaborazione dei quaderni comincia ad acquistare coerenza e sistemati-
cità. Nelle cc. 23verso-29verso, Gramsci introduce una serie di temi in una
rapida successione. Li riassumerei così.

1 Il carattere molecolare dei processi culturali. Nell’analisi delle riviste-


tipo, Gramsci introduce una riflessione sulla struttura dei «processi cultura-
li». L’«errore “illuministico”», come lo definisce, consiste nell’illusione che
un «centro omogeneo» (cioè un gruppo intellettuale centralizzato, come può
essere un partito) possa irradiare il proprio verbo per tutte le molteplici arti-
colazioni della vita sociale. All’errore “illuministico” corrisponde una visio-
ne, altrettanto sbagliata, dei processi culturali «per esplosioni rapide e gene-
ralizzate»: l’idea, insomma, che la vita sociale progredisca per rotture im-
provvise, di tipo rivoluzionario classico. Al contrario, i processi culturali ac-
cadono «per combinazioni successive», attraverso articolazioni e stratifica-
zioni «disparatissime», dove la nuova e la vecchia cultura si “combinano” in
modi diversi, lungo percorsi imprevedibili. Questo significa che la costruzio-
ne di un discorso egemonico non deriva meccanicamente dalla formula stabi-
lita da un «centro omogeneo», ma deve seguire il ritmo molecolare delle tra-
sformazioni culturali. Leggiamo alcuni brani:

non basta la premessa della «diffusione organica da un centro omogeneo di un modo


di pensare e di operare omogeneo». Lo stesso raggio luminoso passa per prismi diversi e
dà rifrazioni di luce diverse: se si vuole la stessa rifrazione occorre tutta una serie di retti-
ficazioni dei singoli prismi. […]
In questo stesso ordine di osservazioni si inserisce un criterio più generale: i muta-
menti nei modi di pensare, nelle credenze, nelle opinioni, non avvengono per «esplosioni»
rapide e generalizzate, avvengono per lo più per «combinazioni successive» secondo
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«formule» disparatissime. L’illusione «esplosiva» nasce da assenza di spirito critico. Co-


me non si è passati, nei metodi di trazione, dalla diligenza a trazione animale, agli espressi
moderni elettrici, ma si è passati attraverso una serie di «combinazioni intermedie» che in
parte ancora sussistono (come la trazione animale su rotaie ecc. ecc.) e come avviene che
il materiale ferroviario invecchiato negli Stati Uniti viene ancora utilizzato per molti anni
in Cina e vi rappresenta un progresso tecnico — così nella sfera della cultura i diversi
strati ideologici si combinano variamente e ciò che è diventato «ferravecchio» nella città è
ancora «utensile» in provincia. Nella sfera della coltura anzi, le «esplosioni» sono ancora
meno frequenti e meno intense che nella sfera della tecnica.
Si confonde l’esplosione «di passioni» politiche accumulate in un periodo di trasfor-
mazioni tecniche alle quali non corrispondono adeguate nuove forme di organizzazione
giuridica con le sostituzioni di nuove forme di cultura alle vecchie.

2 La ridefinizione delle funzioni intellettuali Rispetto all’articolo sulla


questione merdionale del 1926, già nel § 43 del Quaderno 1 Gramsci ridefi-
nisce la funzione dell’intellettuale, assegnando a esso un compito universale
nell’àmbito della moderna società civile (non più soltanto unificazione e me-
diazione nel rapporto Nord-Sud o città-campagna, ma unificazione e media-
zione della moderna società civile democratica). È il primo nucleo di quella
teoria degli intellettuali che (come vedremo) sarà sviluppata nel Quaderno
12. Qui scrive così:

Per intellettuali occorre intendere non [solo] quei ceti comunemente intesi con questa
denominazione, ma in generale tutta la massa sociale che esercita funzioni organizzative
in senso lato, sia nel campo della produzione, sia nel campo della cultura, sia nel campo
amministrativo-politico: corrispondono ai sott’ufficiali e agli ufficiali subalterni nell’eser-
cito (e anche a una parte degli ufficiali superiori con esclusione degli stati maggiori nel
senso più ristretto della parola).
Per analizzare le funzioni sociali degli intellettuali occorre ricercare ed esaminare il
loro atteggiamento psicologico verso le grandi classi che essi mettono a contatto nei di-
versi campi: hanno atteggiamento «paternalistico» verso le classi strumentali? o «credo-
no» di esserne una espressione organica? hanno atteggiamento «servile» verso le classi
dirigenti o si credono essi stessi dirigenti, parte integrante delle classi dirigenti?

3 Il primo paradigma della teoria dell’egemonia: il Risorgimento Nel §


43 viene annunciato quel terreno di sperimentazione della teoria dell’ege-
monia che verrà ripreso e ampliato (come vedremo fra breve) nel § 44 (per
poi essere sistemato nel Quaderno 19): la dialettica dei partiti e delle forze
sociali nel Risorgimento italiano. Comincia a emergere l’idea-chiave
dell’egemonia moderata sul Partito d’azione, dovuta al difetto di giacobini-
smo dei mazziniani, cioè alla loro incapacità di rappresentare le esigenze del-
le masse contadine e di una riforma agraria. Mentre i moderati rappresentano
un gruppo sociale omogeneo (la borghesia), il Partito d’azione non è collega-
to ad alcun gruppo sociale e perciò viene assorbito dall’iniziativa moderata.
È l’origine di quel trasformismo che caratterizza tutta la storia italiana post-
risorgimentale fino all’avvento al potere del fascismo. Nel § 43 si leggono
queste analisi:
89

Il così detto «trasformismo» è legato a questo fatto: il Partito d’Azione viene incorpo-
rato molecolarmente dai moderati e le masse vengono decapitate, non assorbite
nell’ambito del nuovo stato. […]
La non impostazione della quistione agraria portava alla quasi impossibilità di risolve-
re la quistione del clericalismo e dell’atteggiamento del Papa. Sotto questo riguardo i mo-
derati furono molto più arditi del Partito d’Azione: è vero che essi non distribuirono i beni
ecclesiastici fra i contadini, ma se ne servirono per creare un ceto nuovo di grandi e medi
proprietari legato alla nuova situazione politica, ma almeno non esitarono a mettere le
mani sulle congregazioni. Il P. d’A. era invece paralizzato dalle velleità mazziniane di
[una] riforma religiosa che non solo non toccava le grandi masse, ma le rendeva passibili
di una sobillazione contro i nuovi eretici. L’esempio della Francia era lì a dimostrare che i
giacobini, che erano riusciti a schiantare i girondini sulla quistione agraria e non solo a
impedire la coalizione rurale contro Parigi ma a moltiplicare nelle provincie i loro aderen-
ti, furono invece danneggiati dai tentativi di Robespierre di instaurare una riforma religio-
sa.

2. Il § 44: direzione e dominio

Dopo l’analisi del § 43, dobbiamo osservare che al centro di questo qua-
derno (cc. 30recto-42recto) si trova una lunga nota (Direzione politica di
classe prima e dopo l’andata al governo), che Gramsci scrisse tra la fine del
1929 e i primi mesi del 1930. Per la complessità e l’intreccio di temi che vi
compaiono, questa nota divide il quaderno in due parti, introducendo una
porzione significativa dei problemi che saranno considerati nei quaderni suc-
cessivi. Anzi tutto vi troviamo la prima occorrenza del termine “egemonia”,
riportata tra virgole come “egemonia politica”.
Sul piano teorico, Gramsci introduce una distinzione tra due figure in cui
può presentarsi una classe dominante: direzione e dominio. Scrive così:

Il criterio storico-politico su cui bisogna fondare le proprie ricerche è questo: che una
classe è dominante in due modi, è cioè «dirigente» e «dominante». È dirigente delle classi
alleate, è dominante delle classi avversarie. Perciò una classe già prima di andare al potere
può essere «dirigente» (e deve esserlo): quando è al potere diventa dominante ma conti-
nua ad essere anche «dirigente».

Questo è il «criterio storico-politico» fondamentale su cui deve deve fon-


darsi l’intera ricerca. In questo passo vi sono tre importanti osservazioni: 1)
la direzione politica è esercitata in una alleanza, il dominio verso le «classi
avversarie»; 2) la direzione politica precede la conquista del potere, non è
solo un atto di governo; 3) arrivata al potere, la classe dominante esercita en-
trambe le funzioni, sia il dominio sia la direzione politica. Ma l’elemento di
continuità è quest’ultimo, la direzione.
La distinzione fra direzione (egemonia) e dominio richiama, come sap-
piamo, l’esperienza sovietica, cioè l’egemonia del proletariato nei confronti
dell’alleato contadino e la dittatura (dominio) verso i ceti aristocratici e la
borghesia. Infatti l’intero § 44 si concluderà con una notazione sulla teoria di
Lenin e con una critica a Trockij. Ma l’intera questione viene ora sperimen-
90

tata da Gramsci sul terreno nazionale, con un approfondimento sempre più


stretto della vicenda risorgimentale.

3. Il trasformismo come carattere della storia nazionale

Espressa in termini teorici, la nozione di egemonia (=direzione politica)


presenta peculiari difficoltà nell’analisi storica e politica. La prima conse-
guenza riguarda il concetto di trasformismo. Per intendere questo aspetto,
bisogna ricordare il carattere esemplare che in questa pagine assume la dia-
lettica politica del Risorgimento italiano. Con un passaggio molto complesso,
Gramsci ha iniziato la nota parlando del rapporto fra moderati e Partito
d’azione:

Tutto il problema delle varie correnti politiche del Risorgimento, dei loro rapporti re-
ciproci e dei loro rapporti con le forze omogenee o subordinate delle varie sezioni (o set-
tori) storiche del territorio nazionale si riduce a questo fondamentale: che i moderati rap-
presentavano una classe relativamente omogenea, per cui la direzione subì oscillazioni
relativamente limitate, mentre il Partito d’Azione non si appoggiava specificamente a nes-
suna classe storica e le oscillazioni che subivano i suoi organi dirigenti in ultima analisi si
componevano secondo gli interessi dei moderati: cioè storicamente il Partito d’Azione fu
guidato dai moderati (l’affermazione di Vittorio Emanuele II di «avere in tasca», o qual-
cosa di simile, il Partito d’Azione è esatta, e non solo per i suoi contatti personali con Ga-
ribaldi; il Partito d’Azione storicamente fu guidato da Cavour e da Vittorio Emanuele II).

Il ragionamento è molto complesso e contratto. Proviamo a schematiz-


zarlo. Moderati e Partito d’azione vengono presi come “alleati”, nel senso
che entrambi mirano all’unificazione nazionale. Si pone dunque un problema
di egemonia. La parola-chiave è oscillazione. La direzione politica oscilla,
cioè non è ferma, determinata. Ma l’oscillazione dipende dalla rappresentan-
za o meno di una classe omogenea. I moderati rappresentano la borghesia,
quindi non oscillano. Al contrario il Partito d’azione non rappresenta una
classe, quindi oscilla gravemente, non ha una direzione politica definita.
Questo è il motivo per cui subisce l’iniziativa moderata e di fatto è guidato
dai moderati. L’egemonia appare qui in una forma estrema, radicale, dove
una forza guida l’altra quasi senza residui, fino a esercitare egemonicamente
una forma di vero e proprio dominio. Questo assorbimento dell’alleato viene
definito trasformismo.

I moderati continuarono a dirigere il Partito d’Azione anche dopo il 70 e il «trasformi-


smo» è l’espressione politica di questa azione di direzione; tutta la politica italiana dal 70
ad oggi è caratterizzata dal «trasformismo», cioè dall’elaborazione di una classe dirigente
nei quadri fissati dai moderati dopo il 48, con l’assorbimento degli elementi attivi sorti
dalle classi alleate e anche da quelle nemiche. La direzione politica diventa un aspetto del
dominio, in quanto l’assorbimento delle élites delle classi nemiche porta alla decapitazio-
ne di queste e alla loro impotenza.
91

Questo genere di egemonia (assorbimento, decapitazione) continua dopo


l’unificazione in tutta la storia italiana. Come vedete, l’egemonia è talmente
radicale, talmente piena, che essa diventa dominio. In sostanza non vi è più
una dialettica egemonica, ma il secco assorbimento di una forza nell’altra.
Siamo alle origini della rivoluzione passiva, che Gramsci chiama in un primo
tempo «rivoluzione senza rivoluzione» (a partire dal Quaderno 4 introdurrà il
riferimento aVincenzo Cuoco: la frase riportata fra parentesi quadre è un’ag-
giunta posteriore).

Dalla politica dei moderati appare chiara questa verità ed è la soluzione di questo pro-
blema che ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effet-
tuato di rivoluzione senza rivoluzione [o di rivoluzione passiva secondo l’espressione di
V. Cuoco]. In quali forme i moderati riuscirono a stabilire l’apparato della loro direzione
politica? In forme che si possono chiamare «liberali» cioè attraverso l’iniziativa indivi-
duale, «privata» (non per un programma «ufficiale» di partito, secondo un piano elaborato
e costituito precedentemente all’azione pratica e organizzativa).

Conviene ricapitolare. Abbiamo iniziato affermando che la classe domi-


nante esercita una egemonia nei confronti degli alleati. Poi abbiamo trovato
un caso molto radicale di egemonia e lo abbiamo definito trasformismo. Ma
il trasformismo indica una “verità” più larga: il Risorgimento come “rivolu-
zione” (unificazione nazionale e costruzione liberale) “senza rivoluzione”,
cioè senza che in essa si manifesti la rappresentanza sociale della classe al-
leata.

4. L’egemonia culturale dei moderati

I moderati, come abbiamo visto, esercitano una egemonia al limite del


dominio. Ma i moderati sono intellettuali, più precisamente intellettuali or-
ganici, condensati, cioè rappresentano perfettamente la loro classe, la bor-
ghesia. Siccome la borghesia è la classe che guida il processo, essi esercitano
un potere di attrazione che Gramsci definisce spontaneo, cioè non coattivo,
di pieno consenso. Dunque la direzione politica dei moderati presuppone un
livello egemonico più profondo, che è l’attrazione spontanea esercitata dal
ceto intellettuale organico. Qui usciamo dai limiti di una egemonia politica e
chiamiamo in causa la funzione di una egemonia intellettuale.

Ciò era «normale», data la struttura e la funzione delle classi rappresentate dai mode-
rati, delle quali i moderati erano il ceto dirigente, gli «intellettuali» in senso organico. […]
I moderati erano «intellettuali», «condensati» già naturalmente dall’organicità dei loro
rapporti con le classi di cui erano l’espressione (per tutta una serie di essi si realizzava
l’identità di rappresentato e rappresentante, di espresso e di espressivo, cioè gli intellettua-
li moderati erano una avanguardia reale, organica delle classi alte perché essi stessi appar-
tenevano economicamente alle classi alte: erano intellettuali e organizzatori politici e in-
sieme capi di azienda, grandi proprietari-amministratori terrieri, imprenditori commerciali
e industriali, ecc.). Data questa «condensazione» o concentrazione organica, i moderati
esercitavano una potente attrazione, in modo «spontaneo», su tutta la massa d’intellettuali
92

esistenti nel paese allo stato «diffuso», «molecolare», per le necessità, sia pure elemen-
tarmente soddisfatte, della istruzione pubblica e dell’amministrazione. Si rivela qui la ve-
rità di un criterio di ricerca storico-politico: non esiste una classe indipendente di intellet-
tuali, ma ogni classe ha i suoi intellettuali; però gli intellettuali della classe storicamente
progressiva esercitano un tale potere di attrazione, che finiscono, in ultima analisi, col su-
bordinarsi gli intellettuali delle altre classi e col creare l’ambiente di una solidarietà di
tutti gli intellettuali con legami di carattere psicologico (vanità ecc.) e spesso di casta
(tecnico-giuridici, corporativi).

Gramsci torna ad affrontare questo tema nel § 46 dello stesso Quaderno 1,


intitolato Moderati e gli intellettuali. Se è vero che l’egemonia moderata fu
soprattutto una egemonia intellettuale, qui cerca di scorgerne i caratteri fon-
damentali, che individua in una «concezione generale della vita» (Gioberti) e
in un programma scolastico (si comincia a vedere l’importanza del tema edu-
cativo per la costruzione del popolo-nazione).

§ 〈46〉. Moderati e gli intellettuali. I moderati dovevano avere il sopravvento tra gli
intellettuali. Mazzini e Gioberti. Gioberti offriva agli intellettuali una filosofia che sem-
brava nazionale e originale, tale da porre l’Italia allo stesso livello delle nazioni più pro-
gredite e dare nuova dignità al «pensiero» italiano; Mazzini dava solo degli aforismi e
degli accenni filosofici che a molti intellettuali, specialmente meridionali, dovevano sem-
brare vuote chiacchiere (il Galiani aveva «sfottuto» quel modo di pensare e di scrivere).
Quistione della scuola. Attività dei moderati per introdurre il principio pedagogico
dell’«insegnamento reciproco» (Confalonieri, Capponi ecc.); movimento di Ferrante
Aporti e degli asili, legato anche al pauperismo. Era il solo movimento concreto contro la
scuola «gesuitica» e non poteva non avere efficacia non solo fra i laici, ai quali dava una
personalità propria, ma anche nel clero liberaleggiante e antigesuitico (ostilità contro Fer-
rante Aporti ecc.; il ricovero e l’educazione dell’infanzia abbandonata era un monopolio
del clericalismo e queste iniziative spezzavano il monopolio).
Queste attività scolastiche del Risorgimento di carattere liberale o liberaleggiante
hanno una grande importanza per afferrare il meccanismo dell’egemonia dei moderati
sugli intellettuali. L’attività scolastica, in tutti i suoi gradi, ha un’importanza enorme, an-
che economica, per gli intellettuali di tutti i gradi; l’aveva allora anche maggiore, data la
ristrettezza dei quadri sociali e le scarse strade aperte all’iniziativa degli intellettuali (og-
gi: giornalismo, movimento di partiti ecc. hanno allargato moltissimo i quadri intellettua-
li).
L’egemonia di un centro direttivo sugli intellettuali ha queste due linee strategiche:
«una concezione generale della vita», una filosofia (Gioberti), che dia agli aderenti una
«dignità» da contrapporre alle ideologie dominanti come principio di lotta; un programma
scolastico che interessi e dia una attività propria nel loro campo tecnico a quella frazione
degli intellettuali che è la più omogenea e la più numerosa (insegnanti, dai maestri ai pro-
fessori d’Università).
I Congressi degli scienziati che si ripeterono nel Risorgimento ebbero una doppia ef-
ficacia: 1° riunire gli intellettuali del grado più elevato, moltiplicando così la loro influen-
za; 2° ottenere una più rapida concentrazione degli intellettuali dei gradi più bassi, che
sono portati normalmente a seguire gli universitari, i grandi scienziati per spirito di casta.
Lo studio delle Riviste enciclopediche e specializzate dà un altro aspetto di questa
egemonia. Un partito come quello moderato offriva alla massa degli intellettuali tutte le
soddisfazioni per le esigenze generali che possono essere offerte da un governo (da un
partito al governo) attraverso i servizi statali (per questa funzione di partito «di governo»
93

servì ottimamente dopo il 48 lo Stato piemontese che accolse gli intellettuali esuli e mo-
strò in modello ciò che sarebbe stato il futuro Stato unitario).

Ma nel § 44 Gramsci aggiunge ancora una osservazione di notevole rilie-


vo. L’attrazione spontanea dipende dal carattere progressivo della classe
rappresentata. «Quando la classe dominante ha esaurito la sua funzione», al-
lora il «blocco intellettuale» comincia a sgretolarsi e, per conservare il potere,
l’egemonia deve convertirsi in dominio.

Questo fenomeno si verifica «spontaneamente» nei periodi in cui quella determinata


classe è realmente progressiva, cioè fa avanzare l’intera società, soddisfacendo alle sue
esigenze esistenziali non solo, ma ampliando continuamente i suoi quadri per una conti-
nua presa di possesso di nuove sfere di attività industriale-produttiva. Quando la classe
dominante ha esaurito la sua funzione, il blocco ideologico tende a sgretolarsi e allora alla
«spontaneità» succede la «costrizione» in forme sempre meno larvate e indirette, fino alle
misure vere e proprie di polizia e ai colpi di Stato.

Il circolo in qualche modo si è chiuso. Gramsci ha presentato le categorie


fondamentali della sua riflessione. A questo punto torniamo al Partito d’azio-
ne. È necessario comprendere come e perché, da alleato, esso si sia lasciato
assorbire dai moderati. Per Gramsci è evidente che esso non poteva assumere
la guida della rivoluzione borghese, ma in realtà non riuscì neanche a eserci-
tare la sua funzione, degradando nella «tradizione retorica della letteratura
italiana». Cosa avrebbe dovuto fare? In cosa ha mancato? Per diventare una
«forza autonoma», il Partito d’azione avrebbe dovuto legarsi organicamente
alle «masse popolari», cioè «in primo luogo ai contadini».

Il Partito d’Azione non poteva avere questo potere di attrazione ed anzi egli stesso era
attratto […]. Perché il P. d’A. diventasse una forza autonoma e, in ultima analisi, per lo
meno riuscisse a imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente po-
polare e democratico (più in là non poteva andare date le premesse fondamentali del moto
stesso) avrebbe dovuto contrapporre all’azione «empirica» dei moderati (che era empirica
solo per modo di dire) un programma organico di governo che abbracciasse le rivendica-
zioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini. All’attrazione «spon-
tanea» esercitata dai moderati, doveva cioè contrapporre un’attrazione «organizzata», se-
condo un piano.

Il Partito d’azione rifiutò di saldarsi alle masse contadine e perciò comin-


ciò a oscillare, fino a lasciarsi assorbire dai moderati. Qui interviene il para-
gone che domina questa pagina: quello tra Partito d’azione e giacobinismo. Il
giacobinismo è l’esempio della funzione esercitata da una forza non-
egemonica che, saldandosi con le masse popolari, salva e spinge avanti la ri-
voluzione borghese, fino a farvi emergere il problema dei ceti subalterni. Il
giacobinismo è la forza progressiva della rivoluzione borghese.

Confronto tra giacobini e Partito d’Azione: i giacobini lottarono strenuamente per as-
sicurare il legame tra città e campagna; furono sconfitti perché dovettero soffocare le vel-
leità di classe degli operai; il loro continuatore è Napoleone e sono oggi i radico-socialisti
francesi.
94

Poco dopo il confronto è sviluppato in tutta la sua ampiezza. È un lungo


brano, che conviene avere presente.

A proposito del giacobinismo e del Partito d’Azione un elemento da ricordare è che i


giacobini conquistarono con la lotta la loro funzione di partito dirigente: essi si imposero
alla borghesia francese, conducendola su una posizione molto più avanzata di quella che
la borghesia avrebbe voluto «spontaneamente» e anche molto più avanzata di quella che
le premesse storiche dovevano consentire, e perciò i colpi di ritorno e la funzione di Na-
poleone. Questo tratto, caratteristico del giacobinismo e quindi di tutta la Rivoluzione
Francese, del forzare la situazione (apparentemente) e del creare fatti compiuti irreparabi-
li, cacciando avanti la classe borghese a calci nel sedere, da parte di un gruppo di uomini
estremamente energici e risoluti può essere «schematizzato» così: il terzo stato era il me-
no omogeneo degli stati; la borghesia ne costituiva la parte più avanzata culturalmente ed
economicamente; lo sviluppo degli avvenimenti francesi mostra lo sviluppo politico di
questa parte, che inizialmente pone le questioni che solo interessano i suoi componenti
fisici attuali, i suoi interessi «corporativi» immediati (corporativi in un senso speciale, di
immediati ed egoistici di un determinato gruppo ristretto sociale); i precursori della rivo-
luzione sono dei riformisti moderati, che fanno la voce grossa ma in realtà domandano
ben poco. Questa parte avanzata perde a mano a mano i suoi caratteri «corporativi» e di-
venta classe egemone per l’azione di due fattori: la resistenza delle vecchie classi e
l’attività politica dei giacobini. Le vecchie classi non vogliono cedere nulla e se cedono
qualche cosa lo fanno con l’intenzione di guadagnare tempo e preparare la controffensiva;
la borghesia sarebbe caduta in questi «tranelli» successivi senza l’azione energica dei gia-
cobini, che si oppongono ad ogni arresto intermedio e mandano alla ghigliottina non solo i
rappresentanti delle vecchie classi, ma anche i rivoluzionari di ieri oggi diventati reazio-
nari. I giacobini dunque rappresentano il solo partito della rivoluzione, in quanto essi non
solo vedono gli interessi immediati delle persone fisiche attuali che costituiscono la bor-
ghesia francese, ma vedono gli interessi anche di domani e non di quelle sole determinate
persone fisiche, ma degli altri strati sociali del terzo stato che domani diventeranno bor-
ghesi, perché essi sono persuasi dell’égalité e della fraternité. Bisogna ricordare che i gia-
cobini non erano astrattisti, anche se il loro linguaggio «oggi» in una nuova situazione e
dopo più di un secolo di elaborazione storica, sembra «astrattista». Il linguaggio dei gia-
cobini, la loro ideologia, rifletteva perfettamente i bisogni dell’epoca, secondo le tradizio-
ni e la cultura francese (cfr nella Sacra Famiglia l’analisi di Marx da cui risulta che la
fraseologia giacobina corrispondeva perfettamente ai formulari della filosofia classica
tedesca, alla quale oggi si riconosce maggiore concretezza e che ha dato origine allo stori-
cismo moderno): 1° bisogno: annientare la classe avversaria o almeno ridurla
all’impotenza; creare l’impossibilità di una controrivoluzione; 2° allargare gli interessi di
classe della borghesia, trovando gli interessi comuni tra essa e gli altri strati del terzo sta-
to, mettere in moto questi strati, condurli alla lotta, ottenendo due risultati: 1° di opporre
un bersaglio più largo ai colpi della classe avversa, cioè di creare un rapporto militare fa-
vorevole alla rivoluzione; 2° di togliere alla classe avversa ogni zona di passività in cui
essa avrebbe certamente creato eserciti vandeani (senza la politica agraria dei giacobini
Parigi sarebbe stata circondata dalla Vandea fino alle sue porte: la resistenza della Vandea
propriamente detta è legata alla quistione nazionale determinata tra i Brettoni dalla formu-
la della «repubblica una e indivisibile», alla quale i giacobini non potevano rinunziare pe-
na il suicidio: i girondini cercarono di far leva sul federalismo per schiacciare i giacobini,
ma le truppe provinciali condotte a Parigi passarono ai giacobini: eccetto la Brettagna e
altre piccole zone periferiche, la quistione agraria si presentava scissa dalla quistione na-
zionale, come si vede in questo e altri episodi militari: la provincia accettava l’egemonia
95

di Parigi, cioè i rurali comprendevano che i loro interessi erano legati a quelli della bor-
ghesia). I giacobini dunque forzarono la mano, ma sempre nel senso dello sviluppo storico
reale, perché essi fondarono non solo lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe
«dominante», ma fecero di più (in un certo senso), fecero della borghesia la classe diri-
gente, egemone, cioè dettero allo Stato una base permanente.
Che i giacobini siano sempre rimasti sul terreno di classe, è dimostrato dagli avveni-
menti che segnarono la loro fine e la morte di Robespierre: essi non vollero riconoscere
agli operai il diritto di coalizione (legge Chapelier [e sue conseguenze nella legge del
«maximum»]) e così spezzarono il blocco urbano di Parigi; le loro forze d’assalto, che si
riunivano nel Comune, si dispersero, deluse, e il Termidoro ebbe il sopravvento: la rivo-
luzione aveva trovato i suoi limiti di classe: la politica degli «alleati» aveva fatto svilup-
pare quistioni nuove che allora non potevano essere risolte.

Il giacobinismo diventa così il modello di ciò che il Partito d’azione


avrebbe dovuto essere e non fu. La parte centrale della nota è dunque dedica-
ta all’analisi del giacobinismo mancato del Partito d’azione. Gramsci esami-
na la posizione di Pisacane, Giuseppe Ferrari, Crispi e altri episodi per mo-
strare il fallimento di ogni tentativo giacobino nella storia italiana.

5. La revisione della questione meridionale

Ma la questione del giacobinismo presenta una difficoltà specifica. Noi


abbiamo parlato del giacobinismo francese, ma è chiaro che nella situazione
italiana si pone una complicazione. I moderati rappresentano la borghesia
industriale del Nord e, in questo senso, assorbono anche la classe operaia,
ancora debole o inesistente. Ciò che rimane senza rappresentanza è la cam-
pagna, cioè il Mezzogiorno. Il tema del giacobinismo ci riporta dunque alla
questione meridionale. Il giacobinismo mancato del Partito d’azione indica
la radice più profonda della scissione fra Nord e Sud, la causa della mancata
unificazione nazionale.
Il Sud di fatto non partecipa al Risorgimento e rimane tagliato fuori dalla
nazione. Questo è il problema che sta al fondo dell’analisi. L’egemonia dei
moderati si converte nel dominio del Nord sul Sud. Come abbiamo visto, il
trasformismo non è un autentico esercizio egemonico, ma tende a rovesciarsi
in una posizione di dominio. Come già nell’articolo del ’26, lo sfruttamento
del Mezzogiorno contagia la classe operaia e il movimento socialista, fino a
un vero e proprio razzismo.

Un altro elemento per saggiare la portata reale della politica «unitaria ossessionata» di
Crispi è il complesso di sentimenti creatosi nel settentrione per riguardo al mezzogiorno.
La «miseria» del Mezzogiorno era inspiegabile «storicamente» per le masse popolari del
Nord: queste non capivano che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma
come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord
era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud, che l’incremento industriale era di-
pendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale. Esse invece pensavano che se
il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dagli impacci che allo sviluppo
moderno opponeva il borbonismo, ciò significava che le cause della miseria non erano
esterne ma interne; poiché d’altronde era radicata la persuasione della grande ricchezza
96

naturale del terreno, non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomi-
ni, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica. Queste opinioni già diffuse (il lazzaroni-
smo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e teorizzate addirit-
tura dai sociologhi del positivismo (Niceforo, Ferri, Orano ecc.) assumendo la forza delle
«verità scientifiche» in un tempo di superstizione della scienza. Si ebbe così una polemica
Nord-Sud sulle razze e sulle superiorità e inferiorità del Settentrione e del Mezzogiorno
(libri di Colajanni in difesa del Mezzogiorno e collezione della «Rivista Popolare»). In-
tanto rimase nel Nord la credenza della «palla di piombo» che il Mezzogiorno rappresen-
terebbe per l’Italia, la persuasione dei più grandi progressi che la civiltà moderna indu-
striale del Nord avrebbe fatto senza questa «palla di pionibo» ecc. ecc.

Come vedete, Gramsci ha cominciato a scrutare in profondità quel tema


che l’articolo del 1926 aveva sollevato. Portato nella dialettica risorgimentale,
il principio dell’egemonia ha indicato la fonte del problema nazionale, rico-
nosciuta nel fallimento del Partito d’azione, nell’assenza di un momento gia-
cobino, quindi nella pratica del trasformismo.
Quello che cambia, rispetto all’articolo del ‘ 26, è la considerazione del
“blocco intellettuale” meridionale, che ora assume l’aspetto di una reazione
della cultura del Mezzogiorno al dominio del Nord.

In questo secolo si realizza un certo blocco «intellettuale» che ha a capo B. Croce e


Giustino Fortunato e che si dirama in tutta Italia; in ogni rivistina di giovani, che abbiano
tendenze liberali-democratiche e in generale si propongano di svecchiare la cultura italia-
na, in tutti i campi, dell’arte, della letteratura, della politica, appare non solo l’influenza
del Croce e del Fortunato, ma la loro collaborazione: esempio tipico la «Voce» e
l’«Unità», ma si vede anche nella «Patria» di Bologna, nell’«Azione Liberale» di Milano,
nei «borelliani» ecc. Appare anche nel «Corriere della Sera» e finisce nel dopoguerra, da-
te le nuove situazioni, con l’apparire nella «Stampa» (attraverso Cosmo, Salvatorelli,
Ambrosini) e nel giolittismo, con l’assunzione di Croce nell’ultimo governo Giolitti.
Di questo movimento, oggi, vien data una interpretazione tendenziosa anche da G.
Prezzolini che ne fu una tipica incarnazione; ma rimane la prima edizione della Cultura
italiana di Prezzolini, del 1923, con le sue «omissioni», come documento autentico. Que-
sto movimento giunge fino al Gobetti e alle sue iniziative di cultura e trova in lui il suo
punto di risoluzione. Gobetti rappresenta il punto d’approdo di questo movimento e la
fine del blocco, cioè l’origine della sua dissoluzione. La polemica di Giovanni Ansaldo
contro Guido Dorso è il documento più espressivo di questa dissoluzione, anche per una
certa comicità di atteggiamenti gladiatori di intimidazione dell’«unitarismo ossessionato».

La nuova analisi di questo movimento culturale, che dal Sud (Croce e


Fortunato) arriva al Nord (Salvemini e Gobetti), suggerisce una ulteriore
considerazione sul Partito d’azione. Esiste un rapporto dialettico fra masse
contadine e ceti intellettuali. Il passaggio è difficile ma decisivo. I contadini
non sono una classe progressiva, essi vengono unificati dalla creazione di un
gruppo intellettuale. In termini leniniani, l’alleanza tra operai e contadini
passa necessariamente per la funzione intellettuale. Come si vede, d’altronde,
lo schema sovietico dell’egemonia degli operai sui contadini rimane sullo
sfondo, mai tematizzato, in tutta questa nota.
97

Da questo complesso di avvenimenti e di spunti polemici deriva un criterio per ricer-


care la diversa «saggezza» delle diverse correnti che si contesero la direzione politica e
ideologica del Partito d’Azione: il collegamento delle diverse classi rurali che si realizza
in un blocco attraverso i diversi ceti intellettuali può essere dissolto per addivenire a una
nuova formazione (passaggio dal borbonesimo al regime liberale nazionale nell’Italia me-
ridionale) solo se si fa forza in due direzioni: sui contadini di base accettandone le riven-
dicazioni e facendo di esse parte integrante del nuovo programma di governo e sugli intel-
lettuali insistendo sui motivi che più li possono interessare. Il rapporto tra queste due
azioni è dialettico: se i contadini si muovono, gli intellettuali incominciano a oscillare e
reciprocamente se un gruppo di intellettuali si pone sulla nuova base, essi finiscono col
trasportare con sé frazioni di massa sempre più importanti. Si può dire, data la dispersione
e l’isolamento della popolazione rurale e la difficoltà quindi di concentrarli in forti orga-
nizzazioni, che conviene iniziare il lavoro politico dagli intellettuali, ma in generale è il
rapporto dialettico tra le due azioni che occorre tener presente. Si può dire anche che par-
titi contadini nel senso proprio della parola è quasi impossibile crearne: il partito nei con-
tadini si realizza in generale come forte corrente di opinioni, non in forme schematiche;
ma l’esistenza anche di uno scheletro di partito è di immensa utilità, sia per una certa se-
lezione di uomini, sia per controllare gli intellettuali e impedire che gli «interessi di casta»
li trasportino impercettibilmente in altro terreno.

6. La critica a Trockij e la “rivoluzione permanente”

Tutta l’analisi dell’egemonia svolta in questa nota trova uno sviluppo e


una conclusione nelle ultime righe, dove il problema riceve la sua più ampia
prospettiva. Ora infatti il problema dell’egemonia è derivato dall’ordine in-
ternazionale e dalle differenze nazionali. Il fallimento del Partito d’azione è
legato alla «relativa debolezza della borghesia italiana» e il caso francese ap-
pare come «il fenomeno completo», che presenta «la maggior ricchezza di
elementi politici». Mentre Germania e Inghilterra appaiono come soluzioni
di compromesso, dove la nuova classe afferma il proprio potere economico
ma lascia ai vecchi ceti il potere politico. Ai due estremi vi sono, dunque, il
caso italiano e quello francese. (Troveremo uno sviluppo di questo tema nel-
la teoria della traducibilità).
La conclusione, però, torna sull’Urss. Gramsci si riferisce alla formula
della “rivoluzione permanente” inaugurata da Marx nelle rivoluzioni del ’48
e riproposta da Trockij (chiamato da Gramsci con il cognome Bronstein) nel
1905. A cui oppone la formula di Lenin dell’egemonia del proletariato. In
sostanza Gramsci ci dice che la sua ripresa del giacobinismo è del tutto di-
versa da quella del Trockij del 1905.

A proposito della parola d’ordine «giacobina» lanciata da Marx alla Germania del 48-
49 è da osservare la sua complicata fortuna. Ripresa, sistematizzata, elaborata, intellettua-
lizzata dal gruppo Parvus-Bronstein, si manifestò inerte e inefficace nel 1905 e in seguito:
era una cosa astratta, da gabinetto scientifico. La corrente che la avversò [Lenin e gli anti-
trockisti del 1924] in questa sua manifestazione intellettualizzata, invece, senza usarla «di
proposito» la impiegò di fatto nella sua forma storica, concreta, vivente, adatta al tempo e
al luogo, come scaturiente da tutti i pori della società che occorreva trasformare, di al-
leanza tra due classi con l’egemonia della classe urbana.
98

Nell’un caso, temperamento giacobino senza il contenuto politico adeguato, tipo Cri-
spi; nel secondo caso temperamento e contenuto giacobino secondo i nuovi rapporti stori-
ci, e non secondo un’etichetta intellettualistica.
99

Lezione 10

(Lunedì 6 aprile 2020)

1. Un “repertorio” della teoria dell’egemonia

Questa è la terza lezione che dedichiamo al Quaderno 1. Come abbiamo


visto, il punto di partenza ideale della riflessione di Gramsci è l’articolo del
1926 sulla questione meridionale, a cui devono essere collegati gli altri av-
venimenti biografici di quell’anno (il congresso di Lione, la lettera al comita-
to centrale del partito russo, ecc.). Ma nel periodo che intercorre fra l’arresto
(8 novembre 1926) e l’inizio della stesura dei quaderni (8 febbraio 1929),
quando Gramsci non ha ancora la possibilità di scrivere in carcere (con
l’eccezione delle lettere), le sue meditazioni ampliano notevolmente il qua-
dro teorico. Per questo ci siamo soffermati sulla genesi del primo quaderno e
sui peculiari tempi di composizione, mostrando come la scrittura del Qua-
derno 1 occupi un periodo abbastanza lineare del suo lavoro, dal giugno-
luglio 1929 al maggio 1930.
Considerato nell’insieme, il primo quaderno enuclea tutti i grandi nodi
della concezione di Gramsci, che saranno poi ripresi e sviluppati nei quader-
ni successivi. Nell’esame che abbiamo svolto, sono emersi fin qui almeno
quattro punti fondamentali. Proviamo a ricordarli:

1 Il Quaderno 1 inizia con una serie di note sul “diritto naturale”, scritte
anche sotto l’impressione della firma del Concordato. Gramsci riporta il di-
ritto naturale alla dottrina sociale e politica della Chiesa cattolica, mostrando
come l’intero giusnaturalismo moderno ne rappresenti, in definitiva, un pro-
lungamento nella forma di una secolarizzazione. Ma questa “secolarizzazio-
ne” non supera il presupposto trascendente della posizione cattolica e co-
mincia a delineare una delle categorie più importanti del pensiero di Gram-
sci: quella di senso comune. La critica del senso comune, che sarà svolta nei
quaderni successivi, chiarisce il primo significato della “riforma morale e in-
tellettuale”, intesa come affermazione di una rigorosa immanenza, cioè di
una laicità coerente (la “religione dell’uomo moderno”), che non sia limitata
a una “secolarizzazione” del discorso religioso.

2 Nel § 10 abbiamo incontrato una nota su Machiavelli. In questo breve


paragrafo Gramsci estende a Machiavelli la metafora del “paragone ellittico”,
che Benedetto Croce aveva utilizzato per la teoria marxiana del valore-lavoro.
Infatti Machiavelli elabora la sua teoria politica, nel pieno della crisi degli
Stati italiani, guardando al modello dei grandi Stati nazionali europei, e così
“traduce” nella realtà italiana il punto alto dello sviluppo mondiale. Come
prima esposizione dellateoria della traducibilità, questa riflessione su Ma-
100

chiavelli comincia a chiarire il nesso nazionale-internazionale come fonda-


mento del concetto di egemonia. Il soggetto politico (il principe di Machia-
velli, il moderno principe dei quaderni) opera sempre questo “paragone ellit-
tico”, cioè traduce la sfera globale in quella nazionale e, nello stesso tempo,
contribuisce alla formazione della realtà mondiale, in un circolo dialettico
inesauribile.

3 Nelle note dedicate a Maurras e al nazionalismo francese, Gramsci met-


te a fuoco due concetti caratteristici della teoria dell’egemonia: l’apparato
egemonico e la crisi organica. Il tentativo di ripensare la teoria delle crisi
come crisi di egemonia (crisi organica, appunto), cioè come distacco cata-
strofico tra rappresentanti e popolo-nazione, rappresenta un passaggio deci-
sivo in vista della più matura teoria dell’egemonia, sempre più intesa come
innervamento del quadro democratico.

4 Nei §§ 43-44 interviene la versa svolta nella dinamica del Quaderno 1.


Come abbiamo osservato, Gramsci introduce la distinzione fra direzione e
dominio, sottolineando che il dominio, cioè la funzione politica di governo,
presuppone sempre l’opera di direzione, cioè la creazione del consenso di
massa e la costruzione di un disegno egemonico. Il dominio senza direzione
(egemonia) è un esercizio di pura forza, una dittatura senza legittimità e sen-
za prospettive. Gramsci sperimenta questa teoria nello studio della dialettica
politica nel Risorgimento italiano, soffermandosi sul rapporto fra moderati e
democratici. L’egemonia dei moderati (come ogni egemonia) si fonda sul
rapporto organico con un gruppo sociale progressivo (la borghesia), che in-
vece manca ai democratici, che perciò “oscillano” sul terreno politico. Que-
sto significa che l’egemonia non è un discorso ideologico o sovrastrutturale,
un fatto puramente creativo o di semplice cultura, ma evoca il problema della
relazione fra struttura e superstrutture, fra gruppi sociali ed élites dirigenti,
che nei quaderni successivi verrà determinata dalla teoria del blocco storico.
Inoltre, lo studio del Risorgimento permette a Gramsci di mettere a fuoco tre
aspetti ulteriori. In primo luogo, la radice della questione meridionale viene
ormai riconosciuta nell’incapacità del Partito d’azione di rappresentare le
masse contadine del Sud. In secondo luogo, il Risorgimento nazionale co-
mincia a essere interpretato come una rivoluzione passiva, secondo la formu-
la che, nel Quaderno 4, Gramsci riprenderà dal Saggio storico di Vincenzo
Cuoco. In terzo luogo l’intera storia d’Italia, fino all’avvento al potere del
fascismo, è ora letta nella categoria del trasformismo, ossia nella pratica dei
ceti dirigenti di assimilare e decapitare i gruppi sociali subalterni.

Come vedete, la ricerca del Quaderno 1 presenta un vero e proprio “re-


pertorio” dei concetti fondamentali della teoria dell’egemonia. Superato lo
scoglio del § 44, ci restano però da evidenziare altri due aspetti fondamentali,
che emergono nelle ultime note del quaderno: la ripresa del concetto hegelia-
no di società civile e la prima delineazione del tema dell’americanismo.
101

2. La “società civile” hegeliana

Dunque nei §§ 43-44 Gramsci ha ormai elaborato molti grandi temi della
sua riflessione. Siamo agli inizi del 1930 e, fino al maggio, vi aggiunge nu-
merose altre note, dal § 45 al § 158. Come ora vedremo, proprio qui vengono
inseriti altri tasselli decisivi del concetto di egemonia.
Una svolta ulteriore interviene con il § 47, di stesura unica, scritto
all’inizio del 1930. Qui Gramsci indica il luogo dell’egemonia nella società
civile hegeliana. Leggiamo anzi tutto questo brano:

§ 〈47〉. Hegel e l’associazionismo. La dottrina di Hegel sui partiti e le associazioni


come trama «privata» dello Stato. Essa derivò storicamente dalle esperienze politiche del-
la Rivoluzione francese e doveva servire a dare una maggiore concretezza al costituziona-
lismo. Governo col consenso dei governati, ma col consenso organizzato, non generico e
vago quale si afferma nell’istante delle elezioni: lo Stato ha e domanda il consenso, ma
anche «educa» questo consenso con le associazioni politiche e sindacali, che però sono
organismi privati, lasciati all’iniziativa privata della classe dirigente. Hegel, in un certo
senso, supera già, così, il puro costituzionalismo e teorizza lo Stato parlamentare col suo
regime dei partiti. La sua concezione dell’associazione non può essere che ancora vaga e
primitiva, tra il politico e l’economico, secondo l’esperienza storica del tempo, che era
molto ristretta e dava un solo esempio compiuto di organizzazione, quello «corporativo»
(politica innestata nell’economia).

Il riferimento di Gramsci è ai §§ 250-256 e 301-305 dei Lineamenti di fi-


losofia del diritto di Hegel. Al di là dell’interpretazione (abbastanza occasio-
nale) che offre del testo di Hegel, ciò che interessa è che Gramsci indichi qui
la società civile moderna come la stessa sfera egemonica. È nella società ci-
vile, dunque, che si svolge il conflitto tra visioni egemoniche contrastanti, tra
i gruppi sociali e le loro alternative visioni del mondo. È un sistema fondato
sul consenso, ma Gramsci aggiunge subito che il consenso è «organizzato»,
strutturato, rappresentato da corpi e forze (come per esempio i partiti o le as-
sociazioni civili) che “abitano” la società civile. Le forze vengono rappresen-
tate nello Stato, ma lo Stato ha anche il compito di educare queste forze.
Questo è lo «Stato parlamentare col suo regime dei partiti», che Hegel
avrebbe adombrato sia pure in una forma «ancora vaga e primitiva».
Nella terza serie di Appunti di filosofia che si legge nel Quaderno 8, la
“scoperta” hegeliana della società civile viene direttamente collegata alla
funzione degli intellettuali, che cominciano a rappresentare i veri soggetti di
un conflitto egemonico insediato nella sfera sociale. Gramsci scrive così:

nella concezione non solo della [scienza] politica, ma in tutta la concezione della vita
culturale e spirituale, ha avuto enorme importanza la posizione assegnata da Hegel agli
intellettuali, che deve essere accuratamente studiata. Con Hegel si incomincia a non pen-
sare più secondo le caste o gli «stati» ma secondo lo «Stato», la cui «aristocrazia» sono
appunto gli intellettuali. La concezione «patrimoniale» dello Stato (che è il modo di pen-
sare per «caste») è immediatamente la concezione che Hegel deve distruggere (polemiche
sprezzanti e sarcastiche contro von Haller). Senza questa «valorizzazione» degli intellet-
102

tuali fatta da Hegel non si comprende nulla (storicamente) dell’idealismo moderno e delle
sue radici sociali.

La questione del rapporto fra Gramsci e Hegel è molto complessa e molto


importante. Per una migliore comprensione del problema, allego a questa le-
zione l’articolo, pubblicato sulla rivista “Polemos”, nel quale ho ricostruito
l’intero svolgimento dell’interpretazione gramsciana e il quadro delle sue
fonti. Spero che vi sia utile.

3. Lo Stato

A partire da qui Gramsci svilupperà nei quaderni la sua concezione dello


Stato, come concezione allargata. Erroneamente si è ripetuto, tante volte,
che in Gramsci (come in Marx e nel marxismo teorico) non vi sarebbe una
teoria dello Stato e del diritto. In realtà, partendo da Hegel e da Croce (e da
Marx), Gramsci elabora una precisa teoria dello Stato, secondo la quale la
sfera istituzionale può essere distinta dalla sfera sociale solo provvisoriamen-
te e in forma didascalica. Società e Stato costituiscono una unità sostanzial-
mente inscindibile, perché tanto la società civile è percorsa da forze ed ener-
gie politiche, tanto lo Stato appartiene all’articolazione generale della società
civile. L’unico modo di considerare realisticamente lo Stato e il diritto, nella
modernità avanzata, è quello di inserirlo in una teoria generale della politica,
tenendoli insieme e non dividendoli analiticamente dal flusso della vita so-
ciale. Come scrisse nel Quaderno 6, l’unica definizione adeguata dello Stato
moderno è la seguente: «Stato=società politica+società civile, cioè egemonia
corazzata di coercizione».
Nel Quaderno 1 la questione è ripresa nel § 150, a partire da un libro di
Raffaele Ciasca. Gramsci inizia con una precisa definizione dello Stato, che è
di chiara impronta marxista:

Per le classi produttive (borghesia capitalistica e proletariato moderno) lo Stato non è


concepibile che come forma concreta di un determinato mondo economico, di un deter-
minato sistema di produzione. Conquista del potere e affermazione di un nuovo mondo
produttivo sono inscindibili: la propaganda per l’una è anche propaganda per l’altra: in
realtà solo in questa coincidenza risiede la origine unitaria della classe dominante che è
economica e politica insieme.

Dunque lo Stato, in linea generale, è la «forma concreta», cioè l’espres-


sione, di «un determinato mondo economico»: la classe dominante si costi-
tuisce proprio in questa unità tra funzione politica e funzione economica. Ma
qui sorgono due complicazioni. In primo luogo, quando «la spinta al pro-
gresso non è strettamente legata a uno sviluppo economico locale»: cioè
quando nella sfera nazionale non c’è una classe progressiva (per es. la bor-
ghesia) capace di svolgere la sua rivoluzione, che ha la maturità necessaria
per esercitare un compito politico dirigente. Allora la forma dello Stato di-
venta «il riflesso dello sviluppo internazionale», non la «forma concreta di
103

un determinato mondo economico». La forma dello Stato in qualche modo


precede lo sviluppo economico. Allora lo Stato non è l’espressione adeguata
delle forze economiche, ma dell’azione degli intellettuali, i quali traducono
nel linguaggio nazionale il riflesso internazionale. Nella variante interlineare
Gramsci scrive che questa è una delle possibili definizioni della rivoluzione
passiva.

Invece quando la spinta al progresso non è strettamente legata a uno sviluppo econo-
mico locale, ma è riflesso dello sviluppo internazionale che manda alla periferia le sue
correnti ideologiche [nate sulla base dello sviluppo produttivo dei paesi più progrediti],
allora la classe portatrice delle nuove idee è la classe degli intellettuali e la concezione
dello Stato muta d’aspetto. Lo Stato è concepito come una cosa a sé, come un assoluto
razionale. Si può dire questo: essendo lo Stato la cornice concreta di un mondo produtti-
vo, ed essendo gli intellettuali l’elemento sociale che si identifica meglio col personale
governativo, è proprio della funzione degli intellettuali porre lo Stato come un assoluto:
così è concepita come assoluta la loro funzione storica, è razionalizzata la loro esistenza.
Questo motivo è basilare dell’idealismo filosofico ed è legato alla formazione degli Stati
moderni in Europa come «reazione - superamento nazionale» della Rivoluzione francese e
del napoleonismo [rivoluzione passiva].

La seconda complicazione è altrettanto rilevante. Grazie alla notazione


precedente, si deve “capovolgere” il giudizio corrente sulla storia italiana. Si
crede che le correnti giacobine siano le più esterofile, quelle autoctone le più
nazionaliste (così Vincenzo Cuoco, per esempio, aveva interpretato la rivolu-
zione napoletana del 1799). Ma è vero il contrario. Le correnti autoctone in-
carnano la tradizione cosmopolita italiana e, per questa via, traducono nel
linguaggio nazionale (nella forma tipica degli intellettuali) le esperienze
mondiali, avanzate o reazionarie che siano.

Si può osservare: che alcuni criteri di valutazione storica e culturale devono essere
capovolti. 1°) Le correnti italiane che vengono «bollate» di razionalismo francese e di «il-
luminismo» sono invece proprio le più aderenti alla realtà empirica italiana, in quanto
concepiscono lo Stato come forma concreta di uno sviluppo economico italiano. A ugual
contenuto conviene uguale forma politica. 2°) Invece sono proprio «giacobine» le correnti
che appaiono più autoctone, in quanto pare sviluppino una corrente tradizionale italiana.
Questa corrente è «italiana», perché essendo stata per molti secoli la «cultura» l’unica
manifestazione italiana nazionale, ciò che è sviluppo di questa manifestazione tradizionale
più antica pare più autoctono. Ma è una illusione storica. Ma dove era la base materiale di
questa cultura italiana? Essa non era in Italia. Questa «cultura italiana» è la continuazione
del «cosmopolitismo» medioevale legato alla Chiesa e all’Impero, concepiti universali.
L’Italia ha una concentrazione intellettuale «internazionale», accoglie ed elabora teorica-
mente i riflessi della più soda e autoctona vita del mondo non italiano. Gli intellettuali
italiani sono «cosmopoliti», non nazionali; anche Machiavelli nel Principe riflette la
Francia, la Spagna ecc. col loro travaglio per la unificazione nazionale, più che l’Italia.
Ecco perché io chiamerei veri «giacobini» i rappresentanti di questa corrente: essi vera-
mente vogliono applicare all’Italia uno schema intellettuale razionale, elaborato
sull’esperienza altrui e non sull’esperienza nazionale. La quistione è molto complessa ed
irta di apparenti contraddizioni, e perciò occorre esaminarla ancora profondamente su una
base storica. In ogni modo gli intellettuali meridionali nel Risorgimento appaiono con
chiarezza essere questi studiosi del «puro» Stato, dello Stato in sé.
104

4. L’americanismo

La novità forse più rilevante del Quaderno 1 irrompe nel § 61 e viene ri-
presa in diverse note successive (soprattutto §§ 135 e 158, con la riflessione
su Gentile nei §§ 87, 92 e 132), per poi essere sistemata nel Quaderno “spe-
ciale” 22 dedicato all’americanismo e al fordismo. Siamo ancora nelle prime
settimane del 1930.
Forse la migliore introduzione alla riflessione sull’americanismo si legge
nel § 76, dedicato alla crisi dell’Occidente. Ne aveva parlato Filippo Burzio
in un articolo sulla “Stampa” di Torino. Per Burzio l’Occidente si reggeva
sulla fusione tra spirito critico e spirito scientifico e capitalistico («industria-
le», specifica Gramsci). Ma lo spirito scientifico (l’azione) ha prevalso e lo
spirito critico ha ceduto, teoria e prassi si sono separate. Come Gramsci os-
serva, questo è il problema stesso dello storicismo. Come vedremo, questo
prevalere dell’azione disegna la traiettoria dell’americanismo.
Cominciamo dal § 61. Il punto di partenza è la domanda sul futuro dell’E-
uropa. Il capitalismo americano rappresenta la forma della società europea di
domani?

L’americanismo può essere una fase intermedia dell’attuale crisi storica? La concen-
trazione plutocratica può determinare una nuova fase dell’industrialismo europeo sul mo-
dello dell’industria americana? Il tentativo probabilmente sarà fatto (razionalizzazione,
sistema Bedaux, taylorismo ecc.). Ma può riuscire?

Le cose vanno in questa direzione, ma l’Europa oppone alla prospettiva


americana le sue «tradizioni di cultura». Questa lotta si riduce all’opposizio-
ne tra una società che si fonda sulla rendita e una società che ha di fatto eli-
minata la rendita, rendendola produttiva.

L’Europa reagisce, contrapponendo alla «vergine» America le sue tradizioni di cultu-


ra. Questa reazione è interessante non perché una così detta tradizione di cultura possa
impedire una rivoluzione nell’organizzazione industriale, ma perché essa è la reazione
della «situazione» europea alla «situazione» americana. In realtà, l’americanismo, nella
sua forma più compiuta, domanda una condizione preliminare: «la razionalizzazione della
popolazione», cioè che non esistano classi numerose senza una funzione nel mondo della
produzione, cioè classi assolutamente parassitarie. La «tradizione» europea è proprio in-
vece caratterizzata dall’esistenza di queste classi, create da questi elementi sociali:
l’amministrazione statale, il clero e gli intellettuali, la proprietà terriera, il commercio.
Questi elementi, quanto più vecchia è la storia di un paese, tanto più hanno lasciato duran-
te i secoli delle sedimentazioni di gente fannullona, che vive della «pensione» lasciata
dagli «avi». Una statistica di questi elementi sociali è difficilissima, perché molto difficile
è trovare la «voce» che li possa abbracciare.

La differenza fondamentale tra Europa e America è dunque tra una eco-


nomia parassitaria e una economia razionalizzata. Questo significa che in
America le superstrutture non sono sviluppate, la struttura domina su ogni
105

manifestazione dell’ideologia, vengono meno «intermiedari politici e ideolo-


gici».

L’America senza «tradizione», ma anche senza questa cappa di piombo: questa una
delle ragioni della formidabile accumulazione di capitali, nonostante i salari relativamente
migliori di quelli europei. La non esistenza di queste sedimentazioni vischiose delle fasi
storiche passate ha permesso una base sana all’industria e specialmente al commercio e
permette sempre più la riduzione dei trasporti e del commercio a una reale attività subal-
terna della produzione, coll’assorbimento di questa attività da parte dell’industria stessa
(vedi Ford e quali «risparmi» abbia fatto sui trasporti e sul commercio assorbendoli).
Questa «razionalizzazione» preliminare delle condizioni generali della produzione, già
esistente o facilitata dalla storia, ha permesso di razionalizzare la produzione, combinando
la forza (— distruzione del sindacalismo —) con la persuasione (— salari e altri benefizi
—); per collocare tutta la vita del paese sulla base dell’industria. L’egemonia nasce dalla
fabbrica e non ha bisogno di tanti intermediari politici e ideologici. Le «masse» di Romier
sono l’espressione di questo nuovo tipo di società, in cui la «struttura» domina più imme-
diatamente le soprastrutture e queste sono razionalizzate (semplificate e diminuite di nu-
mero).

Si presti attenzione. In Italia un tentativo di americanismo ha avuto due


espressioni. La prima espressione è stata l’Ordine nuovo. La seconda è il
corporativismo fascista. Nel § 135 Gramsci si sofferma su Massimo Natale
Fovel, che aveva conosciuto a Torino e che era diventato un teorico del cor-
porativismo. Ma la conclusione di Gramsci è che, oltre la retorica, il fasci-
smo si muove nella direzione inversa all’americanismo e il corporativismo
accresce, piuttosto che razionalizzare, le situazioni di rendita.

Ma a parte queste considerazioni, si presenta la quistione: ormai le corporazioni esi-


stono, esse creano le condizioni in cui le innovazioni industriali possono essere introdotte
su larga scala, perché gli operai né possono opporsi a ciò, né possono lottare per essere
essi stessi i portatori di questo rivolgimento. La quistione è essenziale, è l’hic Rhodus del-
la situazione italiana: dunque le corporazioni diventeranno la forma di questo rivolgimen-
to per una di quelle «astuzie della provvidenza» che fa sì che gli uomini senza volerlo ub-
bidiscano agli imperativi della storia. Il punto essenziale è qui: può ciò avvenire? Si è por-
tati necessariamente a negarlo. La condizione suddetta è una delle condizioni, non la sola
condizione e neanche la più importante; è solo la più importante delle condizioni imme-
diate. L’americanizzazione richiede un ambiente dato, una data conformazione sociale e
un certo tipo di Stato. Lo Stato è lo Stato liberale, non nel senso del liberalismo doganale,
ma nel senso più essenziale della libera iniziativa e dell’individualismo economico, giunto
con mezzi spontanei, per lo stesso sviluppo storico, al regime dei monopoli. La sparizione
dei redditieri in Italia è una condizione del rivolgimento industriale, non una conseguen-
za: la politica econornico-finanziaria dello Stato è la molla di questa sparizione: ammor-
tamento del debito pubblico, nominatività dei titoli, tassazione diretta e non indiretta. Non
pare che questa sia la direzione attuale della politica o stia per diventarlo. Anzi. Lo Stato
va aumentando i redditicri e creando dei quadri chiusi sociali. In realtà finora il regime
corporativo ha funzionato per sostenere posizioni pericolanti di classi medie, non per eli-
minare queste e sta diventando, per gli interessi costituiti che crea, una macchina di con-
servazione dell’esistente così com’è e non una molla di propulsione. Perché? Perché il
regime corporativo è in dipendenza della disoccupazione e non dell’occupazione: difende
agli occupati un certo minimo di vita, che se fosse libera la concorrenza crollerebbe
106

anch’esso, provocando gravi rivolgimenti sociali. Benissimo: ma il regime corporativo,


nato in dipendenza di questa situazione delicatissima, di cui bisogna mantener l’equilibrio
essenziale a tutti i costi, per evitare un’immane catastrofe potrebbe procedere a tappe pic-
colissime, insensibili, che modifichino la struttura sociale senza scosse repentine: anche il
bambino meglio e più solidamente fasciato si sviluppa normalmente. Ed ecco perché oc-
correrebbe sapere se il Fovel è la voce di un individuo singolo o l’esponente di forze eco-
nomiche che cercano la loro via. In ogni caso il processo sarebbe lunghissimo e nuove
difficoltà, nuovi interessi che nel frattempo si costituiranno, faranno opposizione tenace al
suo sviluppo regolare.

Il discorso sul corporativismo verrà sviluppato ulteriormente da Gramsci


(ne parleremo al momento opportuno), ma questa conclusione resterà ferma.
La conclusione del Quaderno 1 si legge nel § 158, l’ultimo del quaderno. La
questione diventa qui molto più complessa. L’industrialismo, spiega Gramsci,
esige sempre un «soggiogamento degli istinti». Anzi ogni creazione di «un
nuovo modo di vivere» è una violenta sottomissione dell’istinto, che dà luo-
go a un contrasto fra «ideologia puritana» e «crisi di libertinismo». Scrive
così:

L’industrialismo è una continua vittoria sull’animalità dell’uomo, un processo ininter-


rotto e doloroso di soggiogamento degli istinti a nuove e rigide abitudini di ordine, di
esattezza, di precisione. C’è una meccanizzazione o l’aspetto di una meccanizzazione. Ma
ogni nuovo modo di vivere, nel periodo in cui si impone e lotta contro il vecchio, non ap-
pare una meccanizzazione? Ciò avviene perché finora i mutamenti sono avvenuti per
coercizione brutale, cioè per imposizione di una classe su un’altra. La selezione degli
uomini adatti al nuovo tipo di civiltà, cioè al nuovo tipo di lavoro è avvenuta con inaudita
brutalità, gettando nell’inferno delle sottoclassi i deboli, i refrattari. Ci sono state delle
crisi. Ma chi era coinvolto in questa crisi? Non le masse lavoratrici, ma le classi medie
che avevano sentito anch’esse la pressione ma indirettamente, per il loro stesso sistema di
vita e di lavoro. Le crisi di libertinismo sono state numerose: ogni epoca storica ne ha una.
Per ottenere un nuovo adattamento al nuovo lavoro, si esercita una pressione su tutta
l’area sociale, si sviluppa una ideologia puritana che dà l’esterna forma di persuasione e
di consenso all’intrinseca coercizione brutale.

Il dopoguerra è stato un episodio di crisi di libertinismo, cioè di scatena-


mento degli istinti, complicato dal contrasto latente con l’esigenza puritana
di una razionalizzazione dell’economia:

Il dopoguerra ha avuto una crisi simile, forse la più vasta che si sia mai vista nella sto-
ria; ma la pressione era stata esercitata non per imporre una nuova forma di lavoro, ma per
le necessità di guerra. La vita di trincea è stata l’oggetto principale della pressione. Si so-
no scatenati specialmente gli istinti sessuali, repressi per tanti anni in grandi masse di gio-
vani dei due sessi e resi formidabili dalla sparizione di tanti maschi e da uno squilibrio dei
sessi. Le istituzioni legate alla riproduzione sono state scosse: matrimonio, famiglia ecc.
ed è nata una nuova forma di «illuminismo» in queste quistioni. La crisi è resa più forte
dal contrasto tra questo contraccolpo della guerra e le necessità del nuovo metodo di lavo-
ro che si va imponendo (taylorismo, razionalizzazione). Il lavoro domanda una rigida di-
sciplina degli istinti sessuali, cioè un rafforzamento della «famiglia» in senso largo (non
di questa o quella forma storica), della regolamentazione [e stabilità] dei rapporti sessuali.
107

La conclusione è molto problematica, parla di rischio di un ipocrisia so-


ciale. È ipotizzabile che Gramsci si riferisca qui ai processi di industrializza-
zione in Urss.

In questa questione il fattore ideologico più depravante è l’illuminismo, la concezione


«libertaria» legata alle classi non manualmente produttive. Fattore che diventa grave se in
uno Stato le classi lavoratrici non subiscono più la pressione violenta di un’altra classe, se
la nuova abitudine di lavoro deve essere acquisita solo per via di persuasione e di convin-
zione. Si forma una situazione a doppio fondo, tra l’ideologia «verbale» che riconosce le
nuove necessità e la pratica «animalesca» che impedisce ai corpi fisici di realmente acqui-
stare le nuove abitudini. Si forma cioè una situazione di grande ipocrisia sociale totalita-
ria. Perché totalitaria? In altre situazioni, la massa lavoratrice è costretta a osservare la
virtù: chi la predica, non la osserva, pur rendendole omaggio verbale: l’ipocrisia è di clas-
se, non totale; è una forma transitoria, perché scoppierà in una crisi di libertinismo, ma
quando già le masse avranno assimilato la «virtù» in abitudini acquisite. In questo secon-
do caso, invece, non esistendo il dualismo di classe, la «virtù» viene affermata, ma non
osservata né per convinzione né per coercizione: non vi sarà pertanto acquisizione di nuo-
ve abitudini, necessarie per il nuovo sistema di lavoro. È una crisi in «permanenza» che
solo la coercizione può troncare, una coercizione di nuovo tipo, perché, essendoci una
sola classe, sarà autodisciplina (Alfieri che si fa legare alla sedia!) In ogni caso, il nemico
da combattere è l’illuminismo. E se non si crea l’autodisciplina, nascerà una qualche for-
ma di bonapartismo, o ci sarà un’invasione straniera, cioè si creerà la condizione di una
coazione esterna che faccia cessare d’autorità la crisi.

Questa analisi ha un singolare riflesso filosofico che chiama in causa la


filosofia di Giovanni Gentile. Nel Quaderno 1 Gramsci ne parla tre volte, con
accenti diversi. Nel § 87 si riferisce alla formula gentiliana secondo cui:

«Filosofia che non si pensa, ma che si fa, e perciò si enuncia ed afferma non con le
formule ma con l’azione».

E conclude che questa è una filosofia dell’opportunismo, che giustifica un


discorso che non è coerente con l’azione. Ma ci torna poco dopo, nel § 92, e
ormai osserva che quella formula esprime l’essenza dell’americanismo.

È curioso che all’americanismo non si cerchi di applicare la formuletta di Gentile del-


la «filosofia che non si enunzia in formule ma si afferma nell’azione»; è curioso e istrutti-
vo, perché se la formula ha un valore è proprio l’americanismo che può rivendicarlo.
Quando si parla dell’americanismo, invece, si trova che esso è meccanicistico, rozzo, bru-
tale, cioè «pura azione» e gli si contrappone la tradizione ecc. Ma questa tradizione ecc.
perché non viene assunta anche come base filosofica, come filosofia enunciata in formule
per quei movimenti per i quali invece la «filosofia è affermata nell’azione»? Questa con-
traddizione può spiegare molte cose: differenza tra azione reale, che modifica essenzial-
mente la realtà esterna (e quindi anche la cultura reale) ed è l’americanismo, e gladiatori-
smo gaglioffo che si autoproclama azione e modifica solo il vocabolario non le cose, il
gesto esterno non l’uomo interiore. La prima crea un avvenire che è intrinseco alla sua
attività obbiettiva, e che spesso è ignorato. Il secondo crea dei fantocci perfezionati, se-
condo un figurino prefissato, che cadranno nel nulla appena tagliati i fili che danno loro
l’apparenza del moto e della vita.
108

Infine nel § 132 Gramsci tira le somme, interpretando l’idealismo attuale


di Gentile come la filosofia che fa coincidere ideologia e filosofia. E gli con-
trappone decisamente Croce, che nella sua filosofia distingue i due momenti.
La contrapposizione fra Croce e Gentile assume un po’ l’aspetto
dell’opposizione tra Europa e America.

§ 〈132〉. L’idealismo attuale e il nesso ideologia-filosofia. L’idealismo attuale fa


coincidere ideologia e filosofia (ciò significa in ultima analisi l’unità [da esso] postulata
fra reale e ideale, tra pratica e teoria ecc.), cioè è una degradazione della filosofia tradi-
zionale rispetto all’altezza cui l’aveva portata il Croce con le sue «distinzioni». Questa
degradazione è visibilissima negli sviluppi che l’idealismo attuale mostra nei discepoli del
Gentile: i «Nuovi Studi» diretti da Ugo Spirito e A. Volpicelli sono il documento più vi-
stoso che io conosca di questo fenomeno. L’unità di ideologia e filosofia, quando avviene
in questo modo riporta a una nuova forma di sociologismo, né storia né filosofia cioè, ma
un insieme di schemi astratti sorretti da una fraseologia tediosa e pappagallesca. La resi-
stenza del Croce a questa tendenza è veramente «eroica»: il Croce, secondo me, ha viva la
coscienza che tutti i movimenti di pensiero moderni portano a una rivalutazione trionfale
del materialismo storico, cioè al capovolgimento della posizione tradizionale del proble-
ma filosofico e alla morte della filosofia intesa nel modo tradizionale. Egli resiste con tut-
te le sue forze a questa pressione della realtà storica, con una intelligenza eccezionale dei
pericoli e dei mezzi dialettici di ovviarli. Perciò lo studio dei suoi scritti dal 19 ad oggi è
del maggior valore: la preoccupazione del Croce nasce con la guerra mondiale e con la
sua affermazione che essa è la «guerra del materialismo storico». La sua posizione «au
dessus», in un certo senso, è già indice di tale preoccupazione ed è un allarme (nella guer-
ra «ideologia e filosofia» entrarono in frenetico connubio). Anche certi suoi atteggiamenti
recentissimi (verso il libro del De Man, libro Zibordi ecc.) non possono spiegarsi altri-
menti perché molto in contraddizione con sue posizioni «ideologiche» (pratiche) di prima
della guerra.
109

Lezione 11

(Mercoledì 8 aprile 2020)

1. Fra Dante e Croce

L’argomento di questa lezione è costituito dalle 11 note che Gramsci


scrisse nel Quaderno 4 tra il maggio 1930 e il maggio 1932 (cioè nello stesso
periodo in cui componeva, nei Quaderni 4, 7, 8, le tre serie di Appunti di filo-
sofia) sul Canto X dell’Inferno di Dante. Nel capitolo 6 del mio libro Marxi-
smo e filosofia della praxis (che è parte del programma di esame) troverete
una esposizione dettagliata di queste note e delle lettere relative al tema dan-
tesco. Ma vorrei ora ricordarne gli aspetti essenziali, perché questa digres-
sione dantesca ha una certa importanza per lo sviluppo della teoria
dell’egemonia. Attraverso la lettura di Dante, infatti, Gramsci non solo ela-
bora una peculiare teoria estetica (che potremmo definire un’estetica
dell’inespresso), ma arriva anche a definire un concetto della teoria politica,
quello di catarsi, che come è ovvio riprende dalla poetica di Aristotele e dal-
la tradizione aristotelica.
Anzi tutto è opportuno ricordare il contenuto di questo canto X
dell’Inferno di Dante. Siamo nel cerchio degli eretici, in particolare di fronte
agli epicurei, ossia ai negatori della immortalità dell’anima. Qui emergono
due figure: Farinata degli Uberti, il grande capo ghibellino, e Cavalcante Ca-
valcanti, il padre di Guido Cavalcanti, il poeta amico della giovinezza di
Dante. In un drammatico contrappunto, l’uno rappresenta la fiera passione
politica («com’avesse l’inferno in gran dispitto»), l’altro l’intenso affetto pa-
terno. Affetto che esplode quando Dante, incidentalmente, usa il verbo al
passato per parlare del figlio, e dice «ebbe» («Da me stesso non vegno: // co-
lui ch’attende là, per qui mi mena // forse cui Guido vostro ebbe a disdegno»).
E da quell’«ebbe» Cavalcante deduce la morte di Guido e «drizzato gridò»:

«Come
dicesti? elli ebbe? non viv’elli ancora?
non fière li occhi suoi il dolce lume?»
Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi alla risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
Ma quell’altro magnanimo a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa.

Come vedremo, sono proprio questi i versi su cui si soffermerà l’analisi


di Gramsci. Ma l’analisi di questo canto richiama anche il confronto con Be-
110

nedetto Croce, in particolare con il libro su La poesia di Dante, apparso per


l’editore Laterza nel 1921 e di cui Gramsci possedeva in carcere la terza edi-
zione riveduta del 1922. Nel secondo capitolo di questo libro, Croce aveva
introdotto la distinzione tra «poesia» e «struttura» della Commedia. Attraver-
so quei due momenti – la poesia e la struttura – Croce intendeva distinguere
(distinguere, badate, non opporre) la concezione fisica e metafisica, teologica
etica e politica, di Dante dai momenti di alta poesia che costituiscono
l’«unità» del poema. Ma tale distinzione richiamava un problema più genera-
le della sua filosofia dello spirito, quello del rapporto tra la sfera pratica della
volizione e la sfera teoretica, inaugurata dall’intuizione estetica. Perciò, la
lettura crociana di Dante si fondava su categorie che conservavano uno stret-
to legame con la filosofia dello spirito e con la sua articolazione fondamenta-
le. Si intende perché, criticarle o correggerle, come Gramsci cercò di fare,
significava confrontarsi con tutto lo sforzo teoretico che Croce aveva com-
piuto nella sua opera filosofica.
D’altronde, Gramsci farà i conti con la filosofia di Croce soprattutto nel
Quaderno 10, che venne scritto dal maggio 1932, cioè appena dopo la con-
clusione di queste note dantesche, che perciò ne rappresentano il prologo, il
precedente immediato e la preparazione. Il Quaderno 10 è il primo dei qua-
derni «speciali». Un quaderno che nacque, nell’aprile del 1932, in una ma-
niera abbastanza occasionale, con l’invio da parte di Tatiana della Storia
d’Europa e con la richiesta di un giudizio, e dunque con il rinvio del progetto,
inizialmente annunciato, di raccogliere le note sulla storia degli intellettuali.
Vi compariva (ripresa dal Quaderno 8) la famosa formula dell’«Anti-Croce»,
cioè il progetto di una «resa dei conti» con la filosofia crociana che avrebbe
impegnato «un intero gruppo di uomini» per almeno «dieci anni di attività».
Fu nel Quaderno 10 che Gramsci sistemò la sua interpretazione di Croce,
come «trascrizione» della filosofia della praxis in termini speculativi: Croce
– scrisse – è un «materialista storico “inconsapevole” o consapevole nel mo-
do che egli chiama di “superamento”»; è «un filosofo della praxis “senza sa-
perlo”». Si trattava perciò di incorporare nella filosofia della praxis molte co-
se della filosofia di Croce, ma di criticarne poi il carattere «speculativo»,
mostrando la genesi delle categorie dal terreno «impuro» della storia.

2. Primi riferimenti al Canto X

Le note su Dante rappresentano una ricca premessa a questo confronto


con Croce, che fu decisivo nella evoluzione dei Quaderni. Ma perché Gram-
sci si concentrò sul Canto X dell’Inferno? Vedremo che questo interesse risa-
liva ai corsi universitari torinesi e a un articolo pubblicato nel 1918
sull’«Avanti!» torinese. Ma soprattutto è indicato nell’elenco degli «argo-
menti principali» scritto, l’8 febbraio 1929, sul primo foglio (c. 1 recto) del
primo quaderno: il punto n. 5 recita infatti così: «Cavalcante Cavalcanti: la
sua posizione nella economia (cancellato e sostituito con il lemma crociano
«struttura») e nell’arte della Divina Commedia». Già poco prima di allora, il
111

17 dicembre 1928, aveva chiesto alla cognata un libro di Vincenzo Morello


su Dante, Farinata, Cavalcante, di cui si occupò poi nei quaderni. Ma nelle
lettere dal carcere, tra l’agosto del 1929 e il settembre del 1931, si trovano
numerosi riferimenti a questi studi danteschi. Il primo riferimento di rilievo è
del 26 agosto 1929. In questa lettera a Tatiana sono già riassunti i punti prin-
cipali della sua interpretazione. Scrive infatti così:

Su questo canto di Dante ho fatto una piccola scoperta che credo interessante e che
verrebbe a correggere in parte una tesi troppo assoluta di B.[enedetto] Croce sulla Divina
Commedia… Nel X canto tutti sono affascinati dalla figura di Farinata e si fermano solo a
esaminre e a sublimare questa… Poi scriverò la mia «nota dantesca»… Dico per ridere,
perché per scrivere una nota di questo genere, dovrei rivedere una certa quantità di mate-
riale (per esempio, la riproduzione delle pitture pompeiane) che si trova solo nelle grandi
biblioteche. Dovrei cioè raccogliere gli elementi storici che provano come,per tradizione,
dall’arte classica al medioevo, i pittori rifiutassero di riprodurre il dolore nelle sue forme
più elementari e profonde (dolore materno): nelle pitture pompeiane, Medea che sgozza i
figli avuti da Giasone è rappresentata con la faccia coperta da un velo, perché il pittore
ritiene sovrumano e inumano dare un’espressione al suo viso.

Come vedete, il 26 agosto 1929 Gramsci aveva già fissato alcuni princìpi
interpretativi. I punti principali sono tre:

1) la critica dantesca si è occupata di Farinata, ma ha trascurato la figura di


Cavalcante, che è invece l’autentico centro del canto;

2) dare il giusto rilievo al dolore di Cavalcante significa «correggere in parte


una tesi troppo assoluta di B.[enedetto] Croce»;

3) la chiave per penetrare nel congegno del Canto X è nelle «pitture pom-
peiane», cioè nella tradizione iconografica per cui l’artista rifiuta di rappre-
sentare un dolore estremo e copre con un velo il volto del personaggio. I rife-
rimenti che la memoria gli suggeriva erano per lo più sbagliati, ma
l’indicazione era chiara.

Le lettere non parlano più di Dante fino al febbraio 1931. Qui interviene
un personaggio ulteriore, cioè Umberto Cosmo, lo studioso di Dante che era
stato suo professore a Torino e a cui fa recapitare da Piero Sraffa l’estratto di
una lettera a Tatiana del 23 febbraio 1931. Gramsci ha dunque ripreso gli
studi su Dante e nella lettera del 20 settembre 1931 fornisce un quadro abba-
stanza completo delle sue conclusioni. Anche qui colpiscono alcuni aspetti.
In primo luogo la critica al saggio del 1869 su Il Farinata di Dante di Fran-
cesco De Sanctis: per De Sanctis, scrive Gramsci, «Farinata da poesia diven-
ta struttura», mentre «io sostengo che nel decimo canto sono rappresentati
due drammi, quello di Farinata e quello di Cavalcante e non il solo dramma
di Farinata». In secondo luogo il ricordo sfocato e certamente impreciso delle
lezioni di Pietro Toesca all’Università di Torino, da cui gli sembrava di ri-
cordare la spiegazione del «quadro pompeiano in cui Medea assiste
all’uccisione dei figli avuti da Giasone» «con gli occhi bendati». Infine, di
112

nuovo, il riferimento a Croce: «mi pare che questa interpretazione leda in


modo vitale la tesi del Croce su la poesia e la struttura della Divina Comme-
dia. Senza la struttura non ci sarebbe la poesia e quindi anche la struttura ha
un valore di poesia».

3. Gramsci, Togliatti e il “circuito” delle lettere

Prima di procedere oltre, è opportuna una piccola digressione, che riguar-


da la natura di queste lettere. Abbiamo già detto che le lettere erano indiriz-
zate a Tatiana Schucht ed erano lette da Piero Sraffa. Questo significa che le
lettere di Gramsci entravano in un particolare circuito che rendeva possibile
la comunicazione del prigioniero con il centro estero del Partito comunista,
che si trovava a Parigi. Tatiana Schucht era di fatto l’unico tramite di Gram-
sci con l’esterno. E le vicende legali e umane di Gramsci erano seguite da
Piero Sraffa, che Gramsci aveva conosciuto nel 1919 e che aveva anche col-
laborato all’«Ordine nuovo». Sraffa non era iscritto al partito comunista, ma
certamente aveva una funzione importante, sia pure «coperta» (come si dice-
va), e soprattutto teneva rapporti diretti con Togliatti. Quando veniva in Italia,
passava per Parigi e incontrava i dirigenti del centro estero del partito, in par-
ticolare incontrava Togliatti. Dunque le lettere di Gramsci arrivavano a Tania,
venivano lette da Sraffa e comunicate a Togliatti. Poi, in senso inverso, le
osservazioni di Togliatti arrivavano, attraverso Sraffa e Tania, a Gramsci.
Nel caso delle lettere su Dante questo circuito fu particolarmente efficace.
Sia perché fu Sraffa a rintracciare Umberto Cosmo, sia perché Togliatti in-
tervenne in forma diretta per almeno due volte. La prima volta ricordò di
«avere sentito qualche cosa di simile» «da Nino stesso, o da Gobetti o da un
certo Calosso», cioè da Umberto Calosso (che era stato collaboratore
dell’«Ordine nuovo»), negli anni torinesi. La seconda volta, in maniera più
circostanziata, ricordò che Gramsci, nel 1918, aveva pubblicato un articolo
su Il cieco Tiresia, nel quale già si accennava l’interpretazione del Canto X
dell’Inferno. E queste osservazioni vennero riferite a Sraffa, che le comunicò
a Tania e dunque arrivarono a Gramsci.
Come vedete, le lettere dal carcere acquistano un significato complesso,
perché parlano sì di Dante e di filosofia, ma sono anche messaggi rivolti al
centro estero del partito comunista. Sono cioè messaggi politici. Questo si-
gnifica che ci impongono due livelli di lettura: per quello che dicono (su
Dante, su Croce ecc.) e per quello che vogliono comunicare al partito. Questa
è una cifra costante della scrittura carceraria di Gramsci. L’importante è non
cadere nella tentazione di considerare le note su Dante solo come messaggi
politici: al contrario, Gramsci fece uno sforzo enorme per curare entrambi i
livelli, quello diretto e quello metaforico. Mentre elaborava una propria filo-
sofia, voleva anche dire qualcosa all’esterno.
Sorge allora il problema di decifrare queste lettere in rapporto al loro sen-
so biografico e politico. È chiaro che Gramsci proiettò se stesso nella figura
di Cavalcante, cercò di esprimere il proprio affetto paterno, il dramma della
113

lontananza e dell’isolamento. E in certo modo proiettò se stesso anche


nell’immagine dantesca dell’«eretico», di colui che, per la legge del contrap-
passo, è stretto nel presente della propria condizione, staccato dal mondo. Ed
è possibile che, accentuando il contrasto tra la fredda figura politica di Fari-
nata e il dolore umano e privato di Cavalcante, volesse raffigurare il suo rap-
porto con Togliatti, in un periodo già turbato dai falliti tentativi di liberazio-
ne.

4. La “critica dell’inespresso”

Rimane il fatto che le note sul Canto X non furono solo «comunicate»
nelle lettere, ma vennero elaborate in undici note del Quaderno 4. Al di là
della comunicazione con l’esterno, divennero dunque l’oggetto di una rifles-
sione propriamente filosofica. Gramsci lavorò a queste note quasi sul solo
filo della memoria. Tra i libri del Fondo Gramsci non risulta neanche una
copia dell’Inferno, ma solo una edizione francese del Paradiso. Per il resto i
suoi studi si fondarono su poche letture dirette, che possono essere ricostruite
consultando il Fondo Gramsci e studiando i riferimenti delle lettere e dei
quaderni: anzi tutto il libro di Croce e il saggio di De Sanctis (nell’edizione
Treves del 1924 dei Saggi critici), poi il libro di Vincenzo Morello su Dante,
Farinata, Cavalcante, quindi alcuni articoli di Luigi Russo, di Fedele Roma-
ni e pochissime altre cose. La prima cosa che colpisce è la negazione radicale
dell’interpretazione politica del canto, come era stata riproposta da Vincenzo
Morello (che divenne un po’ il Dühring della situazione), che lo aveva defi-
nito «per eccellenza politico». Per Gramsci il problema del Canto X non era
la politica, ma la poesia. E nella sua lettura la poesia era tutta raccolta nella
drammatica apparizione di Cavalcante nei versi 67-72, cioè nel prorompere
del dolore paterno dinanzi all’«ebbe» usato da Dante. Solo che la poesia
(questo è il tratto specifico della sua lettura, anche rispetto a Croce) non tro-
vava un luogo nei versi espressi dal poeta, nella costruzione letteraria: la
poesia si accende nella struttura, ma rinvia a uno stato d’animo, che non tro-
va espressione nelle parole e che ogni volta unisce il poeta e il lettore.
La conclusione era, in certo modo, paradossale: tutta l’opera letteraria ap-
pariva come struttura, ma la sua unità e il suo senso erano conferiti
dall’accendersi della poesia: da una poesia non espressa nelle parole del poe-
ta, ma inespressa. Gramsci si rese conto dei rischi della sua visione estetica,
che quasi lasciava esplodere il tema crociano dell’intuizione, e perciò dedicò
una nota, la n. 79, alla «obiezione» che la sua teoria avrebbe potuto sollevare.
Scrisse così:

Q4 §79 Critica dell’«inespresso»? Le osservazioni da me fatte potrebbero dar luogo


all’obbiezione: che si tratti di una critica dell’inespresso, di una storia dell’inesistito, di
un’astratta ricerca di plausibili intenzioni mai diventate concreta poesia, ma di cui riman-
gono tracce esteriori nel meccanismo della struttura. Qualcosa come la posizione che
spesso assume il Manzoni nei Promessi Sposi, come quando Renzo, dopo aver errato alla
ricerca dell’Adda e del confine, pensa alla treccia nera di Lucia: «... e contemplando
114

l’immagine di Lucia! non ci proveremo a dire ciò che sentisse: il lettore conosce le circo-
stanze: se lo figuri». Si potrebbe anche qui trattare di cercare di «figurarsi» un dramma,
conoscendone le circostanze.

Si trattava dunque di figurarsi un dramma, conoscendone le circostanze.


La poesia si accendeva in questa opera di figurazione a partire dall’edificio
della struttura, che arrivava a identificarsi con l’intera costruzione letteraria
del poema.

5. Il dolore “velato” e le sue fonti

Abbiamo toccato la radice della riflessione di Gramsci sul Canto X, che


come vedete non è solo una meditazione su Dante ma anche, più in generale,
sulla natura del fatto estetico. Gramsci ne propose una articolazione impor-
tante con riferimento all’arte classica e alla poetica. Cercò di ricordare alcune
lezioni di storia dell’arte di Pietro Toesca che aveva seguito nel 1912
all’Università di Torino. Queste lezioni, che riguardavano la pittura pom-
peiana di Medea, sembravano adattarsi perfettamente alla sua interpretazione
del Canto X. Ne parlò nel § 78:

La pittura pompeiana di Medea che uccide i figli avuti da Giasone: Medea è rappre-
sentata col viso bendato: il pittore non sa o non vuole rappresentare quel viso. (C’è però il
caso di Niobe, ma in opera di scultura: coprire il viso avrebbe significato togliere il conte-
nuto proprio all’opera).
 
  In  maniera  più  precisa  vi  tornò  nel  §  80:  
 
Plinio ricorda che Timante di Sicione aveva dipinto la scena del sacrificio di Ifigenia
effigiando Agamennone velato. Il Lessing, nel Laocoonte, per primo (?) riconobbe in que-
sto artificio non l’incapacità del pittore a rappresentare il dolore del padre, ma il sentimen-
to profondo dell’artista che attraverso gli atteggiamenti più strazianti del volto, non
avrebbe saputo dare un’impressione tanto penosa d’infinita mestizia come con questa fi-
gura velata, il cui viso è coperto dalla mano. Anche nella pittura pompeiana del sacrifizio
d’Ifigenia, diversa per la composizione generale dal dipinto di Timante, la figura di Aga-
mennone è velata.
Di queste diverse rappresentazioni del sacrifizio di Ifigenia parla Paolo Enrico Arias
nel «Bollettino dell’Istituto Nazionale del dramma antico di Siracusa», articolo riassunto
dal «Marzocco» del 13 luglio 1930.
Nelle pitture pompeiane esistono altri esempi di figure velate: es. Medea che uccide i
figli. La quistione è stata trattata dopo il Lessing, la cui interpretazione non è completa-
mente soddisfacente?
 
  Possiamo  riassumere  così  le  parole  di  Gramsci:    
 
1)  il  primo  riferimento  è  alla  pittura  pompeiana  di  Medea:  nel  primo  brano  
dice  che  «Medea è rappresentata col viso bendato» perché «il pittore non sa o
non vuole rappresentare quel viso».
115

2) Nel secondo brano (dopo la lettura dell’articolo di Arias) scrive che «nella
pittura pompeiana del sacrifizio d’Ifigenia, diversa per la composizione ge-
nerale dal dipinto di Timante, la figura di Agamennone è velata».

3) Il riferimento è alla scultura di Nìobe: ma qui «coprire il viso avrebbe si-


gnificato togliere il contenuto proprio all’opera».

4) Ricorda infine il passo di Plinio su Timante di Sicione e un passaggio del


Laocoonte di Lessing.

Il primo riferimento è certamente agli «affreschi pompeiani» custoditi al


Museo archeologico nazionale di Napoli, tra cui quello di Medea che uccide i
suoi figli. Il ricordo di Gramsci, in questo caso, era sbagliato, perché Medea
non vi è rappresentata con gli occhi bendati. I suoi occhi sono aperti sui figli
che sta per uccidere.
Il secondo riferimento è al sacrificio di Ifigenia che si ammira nella «Casa
del poeta tragico» a Pompei, «derivata da un quadro di Timante». Anche in
questo caso la figura di Agamennone non è velata, ma Ifigenia è rappresenta-
ta con un velo sul capo e con il volto coperto dalle mani.
Il terzo riferimento è alle sculture di Nìobe che si ammirano a Firenze,
alla Galleria degli Uffizi, e a Roma, negli Horti Sallustiani: tutte rappresen-
tano la «figlia di Niobe» nell’atto di cadere in terra e morire, e non dunque il
dolore della madre, come si può leggere in Omero (Iliade, XXIV, 599-620) o
in Ovidio (Metamorfosi, VI, 146-312).
Molto più importante era il riferimento al passo di Plinio di Vecchio nella
Naturalis historia (XXXV, 73), dove con riferimento al sacrificio di Ifigenia
di Timante si legge che Timante «velavit» il volto stesso del padre, «quem
digne non poterat ostendere». E il significato poetico del velo su ciò che non
può essere mostrato, perché eccede il limite della sopportazione umana, si
ritrova in Cicerone, Quintiliano, Leon Battista Alberti, Benedetto Varchi e
viene ripreso da molte poetiche contemporanee.
Insomma, i ricordi di Gramsci non erano tutti esatti. Ma la linea del ra-
gionamento era molto chiara. Possiamo riassumerla così. Il Canto X non era
un canto politico, ma schiettamente poetico. La poesia era concentrata sulla
figura di Cavalcante, ma non realizzata nelle sue parole. Le parole di Caval-
cante dischiudono il momento poetico nell’animo del lettore, come qualcosa
di inespresso nella struttura stessa del Canto. Ma questo rinvio della struttu-
ra alla poesia rappresenta un canone generale dell’estetica, che rinvia al pas-
so di Plinio su Timante, cioè alla funzione del velo nell’arte figurativa. Il
momento più drammatico della rappresentazione non può essere espresso,
raffigurato, ma deve essere coperto con un velo e lasciato alla figurazione
dello spettatore. In linea generale, la struttura vela la poesia, inaugurandola
senza tuttavia esprimerla. Se volessimo usare il lessico di Nietzsche,
l’apollineo trova il suo senso nel dionisiaco, ma la forma apollinea non può
esaurirne le risorse di significato.
116

6. L’inversione di Luigi Russo

A questo punto comincia a essere chiara la «correzione» che Gramsci ri-


teneva di avere portato all’estetica di Croce. Nel secondo capitolo della Poe-
sia di Dante Croce aveva distinto poesia e struttura, così come, nella sua fi-
losofia, aveva distinto teoria e prassi, intuizione e volizione. Ora Gramsci ar-
rivava a sostenere che l’intera opera letteraria è struttura: ma è una struttura
che si apre in direzione della poesia. In modo analogo, la realtà è praxis: ma
una praxis che si apre e si oltrepassa nella teoria.
La correzione era dunque significativa e toccava un punto nevralgico del-
la filosofia dello spirito, da cui sarebbero derivate molte conseguenze, svi-
luppate nei quaderni successivi, soprattutto il 10 e l’11. Proprio di questo
aspetto Gramsci trovò una conferma leggendo l’articolo che Luigi Russo
aveva pubblicato in due parti, nel 1927, su Genesi e unità della Commedia.
In certo modo, Gramsci trovò nello scritto di Russo il rovescio della sua ri-
flessione. Se nelle sue note la struttura generava la poesia, qui – in un Luigi
Russo largamente influenzato dalla filosofia di Giovanni Gentile – accadeva
proprio il contrario: per Russo infatti ««è sempre la poesia a generare la sua
struttura», perché «il poetare non presuppone nulla: e il pensato, il mondo
intenzionale, la struttura, presuppongono assolutamente il poetare». Le con-
clusioni a cui Gramsci era giunto apparivano pertanto rovesciate. Anche
Russo «correggeva» Croce, ma nella direzione inversa. Qui era la poesia a
generare l’intero universo della struttura letteraria.

7. La catarsi e la teoria dell’egemonia

Ma queste riflessioni su Dante acquistarono ben presto anche un signifi-


cato teorico più generale, politico e storico. In primo luogo politico in senso
stretto, perché Gramsci non mancò di opporle a quanti, partendo dal marxi-
smo e dal materialismo volgare, tendevano a ridurre l’arte a pura e semplice
propaganda politica o a espressione immediata delle classi (l’arte borghese e
l’arte proletaria): «ci sono – scrisse nel Quaderno 15 – due serie [ben distin-
te] di fatti», «uno di carattere estetico, o di arte pura, l’altro di politica cultu-
rale (cioè di politica senz’altro)». Le due cose non andavano mai confuse.
Ma più importante fu la conseguenza che ne trasse sul piano della teoria
generale, per la concezione del marxismo e della filosofia della praxis. Nelle
note su Dante e in altre note dello stesso periodo, Gramsci cominciò a utiliz-
zare la categoria di catarsi che Aristotele aveva adoperato nella Politica e
nella Poetica. Con riferimento al Canto X, catarsi significava il trascendi-
mento della struttura nella poesia, dell’espressione nell’inespresso: «su “ebbe”
cade l’accento “estetico” e “drammatico” del verso ed [esso] è l’origine del
dramma di Cavalcante, interpretato nelle didascalie di Farinata; c’è la “catar-
si”». Ma ben presto il concetto di catarsi acquistò un significato teorico più
generale, che travalicava la sfera dell’estetica, fino a rappresentare «il punto
117

di partenza per tutta la filosofia della praxis». Nel Quaderno 10 scrisse infatti
così:

si può impiegare il termine di «catarsi» per indicare il passaggio dal momento mera-
mente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico, cioè l’elaborazione
superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche
il passaggio dall’«oggettivo al soggettivo» e dalla «necessità alla libertà». La struttura da
forza esteriore che schiaccia l’uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in
mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di
nuove iniziative. La fissazione del momento «catartico» diventa così, mi pare, il punto di
partenza per tutta la filosofia della praxis; il processo catartico coincide con la catena di
sintesi che sono risultato dello svolgimento dialettico.

Il termine catarsi, individuato a partire dalle note su Dante, arrivava a in-


dicare il punto culminante della teoria politica, il trascendersi della struttura
nelle superstrutture, dell’oggetto nella soggettività, della quantità nella quali-
tà: insomma il processo di costituzione della volontà collettiva, del soggetto
politico, in una parola la teoria della egemonia. Certo restava una differenza
fondamentale tra il piano estetico e quello politico: sul piano estetico, la ca-
tarsi della struttura generava il momento poetico come velato, inespresso e a
rigore inesprimibile. Sul piano storico-politico, invece, la catarsi generava
l’orizzonte stesso della espressione umana, quel piano delle superstrutture e
della società civile a cui era affidato il compito attivo dell’iniziativa politica
e della costruzione di una nuova «visione del mondo».
118

Lezione 12

(Mercoledì 15 aprile 2020)

1. Gli “Appunti di filosofia”: introduzione e significato generale

Nella lezione precedente ci siamo soffermati sulle riflessioni di Gramsci


dedicate al canto X dell’Inferno di Dante. Il risultato della ricerca era dupli-
ce: da un lato una peculiare teoria estetica, che abbiamo definito sintetica-
mente come una estetica dell’inespresso; d’altro lato una tesi politica, perché,
a partire dal problema estetico, Gramsci aveva enucleato la categoria di ca-
tarsi. In senso storico-politico, catarsi significava il trascendimento della
struttura nelle superstrutture, della quantità nella qualità, del momento ogget-
tivo e misurabile della storia nella soggettività creativa e imprevedibile. Con
il concetto aristotelico di catarsi, insomma, Gramsci ha indicato il problema
di fondo di tutta la sua ricerca, cioè il problema della costituzione del sogget-
to politico. Come nasce, a partire dal dato oggettivo della struttura, il sogget-
to moderno?
Come vedremo in seguito, questa riflessione spingeva Gramsci a fare i
conti non solo con il pensiero politico (la teoria classica della sovranità, per
esempio, fino a un concetto “allargato” di Stato), ma con l’intera tradizione
filosofica moderna. Nella modernità, a partire da Cartesio (il Cogito), il sog-
getto era stato definito come un presupposto evidente, come il principio della
costruzione e della comprensione del mondo. Nella filosofia teoretica di Kant,
questo stesso principio (il Cogito) aveva trovato uno sviluppo più ampio nel-
la struttura trascendentale della soggettività, che è tale perché non deriva dai
fenomeni ma li costituisce a priori. Questo principio di un soggetto trascen-
dentale era penetrato nell’idealismo: nella dottrina delle categorie di Hegel e,
più tardi, in quella di Croce. Anche qui le categorie non hanno una genesi
nella storia o nei fenomeni, ma sono costitutive («operatrici» dirà Croce) del-
la storia. Rispetto a tutta la tradizione filosofica (idealismo e materialismo),
Gramsci ripensa profondamente la figura del soggetto moderno: esso non è
un presupposto, non ha una funzione trascendentale, ma è il risultato di una
mediazione. Il concetto di catarsi indicava questo problema aperto, tutto da
indagare: se il soggetto non è presupposto, come si costituisce a partire dalla
struttura oggettiva della realtà? Quale mediazione lo produce? Qui nasceva la
questione di fondo della teoria dell’egemonia.
Vi chiedo di fare molta attenzione alle date, per comprendere la riflessio-
ne di Gramsci nel suo sviluppo. Come abbiamo visto, il lavoro su Dante si
articolò in un biennio, tra il maggio 1930 e il maggio 1932, e trovò espres-
sione (oltre alle lettere inviate a Tatiana su questo argomento) in undici note
composte nelle carte 1recto-7verso del Quaderno 4. Ricordate che il fatto che
119

queste note occupano i primi fogli del quaderno non significa affatto che fos-
sero le prime scritte. In base al principio di bipartizione (che abbiamo ricor-
dato in una lezione precedente) Gramsci scriveva parallelamente (cioè nello
stesso periodo) dalla carta 41recto, cioè esattamente alla metà del quaderno
di 80 fogli. Proprio alla c. 41recto iniziò, nel maggio 1930, la «prima serie»
di Appunti di filosofia. Materialismo e idealismo, che portò avanti nel Qua-
derno 4 (prima serie), nel Quaderno 7 (seconda serie) e nel Quaderno 8 (terza
serie). Nel loro insieme, gli Appunti di filosofia vennero scritti fra il maggio
1930 e il maggio 1932: cioè nello stesso arco di tempo delle riflessioni su
Dante. Se ora non consideriamo le importanti “miscellanee” di questo perio-
do, possiamo dire che due anni cruciali del lavoro del prigioniero furono oc-
cupati da questi due argomenti: le note su Dante e gli Appunti di filosofia.
Proviamo a essere più precisi. Gramsci iniziò la prima serie, alla metà del
quarto quaderno (§§ 1-48), nel maggio 1930, negli stessi giorni in cui comin-
ciava a scrivere (nello stesso Quaderno 4, ma occupando i primi fogli) le no-
te sul canto decimo dell’Inferno di Dante; e la concluse tra l’ottobre e il no-
vembre. Subito dopo, nel novembre 1930, avviò la composizione della se-
conda serie nel Quaderno 7 (§§ 1-48), che terminò intorno al novembre 1931.
Quindi, in quello stesso novembre, cominciò a scrivere la terza serie nel
Quaderno 8 (§§ 166-240), che concluse nel maggio 1932. Nell’insieme, ri-
petiamolo, la stesura degli Appunti di filosofia impegnò, in maniera piuttosto
continuativa, due anni di lavoro. Già queste osservazioni di carattere crono-
logico offrono un’indicazione sulla importanza delle tre sezioni di Appunti di
filosofia, che (insieme alle note dantesche, che vi sono strettamente connesse,
e alle note miscellanee sugli intellettuali che si leggono nel Quaderno 4, §§
49-77) segnano un punto di conversione nella ricerca carceraria di Gramsci:
qui si apre una nuova prospettiva di riflessione, basata su una intuizione di
natura filosofica che condurrà, in maniera progressiva ma abbastanza lineare,
all’idea di una filosofia della praxis.
Bisogna chiedersi, naturalmente, perché Gramsci si avventurò in un lavo-
ro stricto sensu filosofico. In fondo non era un filosofo di professione e i
primi quaderni avevano definito questioni storiografiche e politiche (il diritto
naturale, il Risorgimento, l’americanismo ecc.), che in linea di massima po-
tevano essere considerate, in senso tradizionale, anche senza una vera e pro-
pria elaborazione filosofica. Ma è chiaro che a un certo punto della sua ri-
flessione Gramsci avvertì che uno sviluppo rigoroso del concetto di egemo-
nia non poteva essere assicurato senza affrontare il nodo filosofico che vi
stava al fondo. Questo concetto richiedeva una duplice critica: la critica del
materialismo e la critica dell’idealismo. Solo attraverso questa doppia critica
sarebbe nata una filosofia della praxis, cioè il progetto di un marxismo teori-
co profondamente rinnovato, incentrato sul concetto di egemonia.
Vi chiedo di prestare molta attenzione alle categorie che adoperiamo. Co-
sa significa criticare materialismo “e” idealismo? Significa cercare di oltre-
passare le due posizioni fondamentali della tradizione filosofica europea.
Queste posizioni possono essere misurate nella forma in cui hanno concepito
la relazione tra pensiero ed essere e il problema della verità. Proviamo a
120

riassumere la questione nei termini più semplici. Per il materialismo (o reali-


smo) la posizione originaria della filosofia è segnata dalla differenza tra pen-
siero ed essere. L’essere (la materia) è una realtà che trascende il pensiero, in
un iniziale dualismo. Le cose sono quello che sono, hanno realtà a prescin-
dere dal pensiero che le pensa e dalla volontà. Perciò l’uomo entra nella veri-
tà quando l’intellectus è adeguato alla res, quando il pensiero (le parole, le
rappresentazioni, ecc.) corrispondono alla cosa così come è. Al contrario
l’errore (il negativo) consiste nella divergenza dell’intellectus dalla res. Per
l’idealismo, al contrario, la posizione originaria della filosofia è segnata
dall’identità di pensiero ed essere: non c’è una materia che trascende il pen-
siero (neanche nella forma di una cosa in sé), l’uomo è originariamente nella
verità. Il problema dell’idealismo (che tocca in Hegel e nella dialettica la sua
espressione massima e insuperata) è quello di dedurre la differenza a partire
dall’identità originaria. Senza la differenza tra pensiero ed essere, e in gene-
rale senza la differenza, infatti, non è possibile un mondo.
Materialismo e idealismo rappresentano le due grandi linee della filosofia
europea. Ogni autore classico che voi considerate può essere inserito nell’una
o nell’altra di queste due caselle. Criticarle entrambe significa dunque fare i
conti non con questa o quella corrente di pensiero, ma con l’insieme della
razionalità occidentale. Gli Appunti di filosofia partono dalla persuasione
che il marxismo teorico, ripensato nella forma di una filosofia della praxis,
prospetti una forma di razionalità diversa e ulteriore rispetto all’intera tradi-
zione, insomma una nuova filosofia. Questo principio, capace di trasformare
il modello di razionalità nei suoi fondamenti, starebbe già al fondo
dell’opera di Marx, anche se Marx, secondo Gramsci, non riuscì a renderlo
esplicito. “Marxismo” significa appunto questo, svolgere in maniera innova-
tiva, e in tempi storici diversi, la struttura concettuale che è implicita ma non
dichiarata negli scritti di Marx.

2. Cosa è la filosofia della praxis?

Su tale aspetto – la genesi della filosofia della praxis – dobbiamo soffer-


marci brevemente. È noto che si tratta di una espressione caratteristica del
lessico dei quaderni (le occorrenze, se ho contato bene, sono 136), che fin
dalla prima edizione tematica, nel 1948, ha sollevato interrogativi. Non era
possibile non osservare che in molte note Gramsci sostituiva i lemmi tradi-
zionali – in particolare materialismo storico – con tale formula. I curatori
della prima edizione – Felice Platone e Palmiro Togliatti, che ne era il super-
visore – spiegarono in un Glossarietto che la sostituzione era stata operata da
Gramsci per non «insospettire la censura». Nella edizione critica del 1975,
Valentino Gerratana non ripeté questa ipotesi, ma non arrivò a correggerla
sostanzialmente. Solo da qualche tempo, grazie alla lettura diacronica dei
quaderni (quella che noi adottiamo in questo corso), abbiamo potuto osserva-
re che la sostituzione dell’espressione «materialismo storico» con «filosofia
della praxis» corrisponde al mutamento del problema fondamentale posto a
121

base del programma di ricerca dei quaderni ed esprime al massimo grado


l’esigenza, precocemente affermata da Gramsci, di una nuova visione del
marxismo teorico, che anche nella denominazione si distinguesse dalla cor-
rente idea di «ortodossia». D’altronde, questa esigenza attraversa tutto il filo
teorico dell’opera, fin dai primi quaderni. Per limitarci a qualche esempio, si
può ricordare la citazione, nel Quaderno 4, di una lettera di Pietro Giordani
alla principessa Carlotta. Vi si legge:

§ 〈34〉. A proposito del nome di «materialismo storico». Nel «Marzocco» del 2 ot-
tobre 1927, nel capitolo XI dei Bonaparte a Roma di Diego Angeli dedicato alla princi-
pessa Carlotta Napoleone (figlia di Re Giuseppe e moglie di Napoleone Luigi, il fratello
di Napoleone III, morto nell’insurrezione di Romagna del 31) è riportata una lettera di
Pietro Giordani alla principessa Carlotta in cui il Giordani scrive i suoi ricordi personali
su Napoleone I. Napoleone a Bologna si era recato [nel 1805] a visitare l’«Istituto» (Ac-
cademia di Bologna) e conversò a lungo con quegli scienziati (fra cui Volta). Fra l’altro
disse: «... Io credo che quando nelle scienze si trova qualche cosa veramente nuova, biso-
gna appropriargli un vocabolo affatto nuovo, acciocché l’idea rimanga precisa e distinta.
Se date nuovo significato a un vecchio vocabolo, per quanto professiate che l’antica idea
attaccata a quella parola non ha niente di comune coll’idea attribuitagli nuovamente, le
menti umane non possono mai ritenersi affatto che non concepiscano qualche somiglianza
e connessione fra l’antica e la nuova idea; e ciò imbroglia la scienza e produce poi inutili
dispute». Secondo l’Angeli la lettera del Giordani, senza data, si può ritenere che risalga
alla primavera del 1831 (quindi è da pensare che il Giordani ricordasse il contenuto della
conversazione con Napoleone, ma non la forma esatta). [Vedere se il Giordani espone nei
suoi libri sulla lingua suoi concetti su questo argomento].

Osservate che, come è sottolineato nel titolo, qui si parla «del nome di
“materialismo storico”». Dunque, «quando nelle scienze si trova qualche co-
sa veramente nuova, bisogna appropriargli un vocabolo affatto nuovo, ac-
ciocché l’idea rimanga precisa e distinta».
Si può ricordare ancora l’analisi, critica o persino distruttiva, sul termine
«materialismo» condotta nel Quaderno 8 a proposito della storia del materia-
lismo di Lange e poi ripresa nel Quaderno 11:

Sarà da notare come il Marx sempre eviti di chiamare «materialistica» la sua conce-
zione e come ogni volta che parla di filosofie materialistiche le critichi o affermi che sono
criticabili. Marx poi non adopera mai la formula «dialettica materialistica» ma «raziona-
le» in contrapposto a «mistica», ciò che dà al termine «razionale» un significato ben pre-
ciso.

Il bisogno di «un vocabolo affatto nuovo» per «qualche cosa veramente


nuova» era dunque cresciuto, nell’animo di Gramsci, con l’approfondirsi del-
la critica a Bucharin, che lasciava emergere nuclei tematici originali, non ri-
conducibili al lessico tradizionale del «materialismo». La scelta di sostituire
l’espressione “materialismo storico” con “filosofia della praxis” fu dunque
consapevole e corrispondeva al programma fondamentale di ricerca che
Gramsci intendeva condurre sul piano della filosofia.
L’espressione «filosofia della praxis» cominciò a essere adoperata, in
maniera sistematica, a partire dall’aprile del 1932, in coincidenza dell’avvio
122

dei quaderni «speciali». Nei nuovi testi di stesura unica e nella rielaborazione
dei testi di prima stesura, il marxismo non si chiamava più «materialismo
storico», ma appunto «filosofia della praxis». Però questa espressione – de-
stinata a indicare il suo nuovo marxismo – non nacque improvvisa, ma fu
lungamente preparata. Negli Appunti di filosofia possiamo seguirne il lento
ma deciso affermarsi. Anche in questo senso, essi sono un testo di decisiva
preparazione della fase più matura del suo pensiero. Di filosofia della praxis
comincia a parlarsi nella prima serie con riferimento a un saggio di Antonino
Lovecchio (Filosofia della prassi e filosofia dello spirito) che attirò
l’attenzione di Gramsci; quindi in una nota miscellanea del Quaderno 5,
composta tra il novembre e il dicembre 1930, dove si afferma che Machia-
velli «ha espresso una concezione del mondo originale, che si potrebbe
anch’essa chiamare “filosofia della praxis” o “neo-umanesimo” in quanto
non riconosce elementi trascendentali o immanentici (in senso metafisico)
ma si basa tutta sull’azione concreta dell’uomo che per le sue necessità stori-
che opera e trasforma la realtà». Nel Quaderno 7, in una nota databile tra la
fine del 1930 e i primi mesi del 1931, parlando degli «elementi costitutivi del
marxismo», chiarì che, «nella filosofia», l’unità dialettica fondamentale è da-
ta dalla «prassi», definita come il «rapporto tra la volontà umana (superstrut-
tura) e la struttura economica». Ma il riferimento alla filosofia della praxis
esplode nel Quaderno 8, attraversandolo dall’inizio alla fine. L’espressione
ricorre nuovamente in relazione a Machiavelli in una lunga e importante nota
del febbraio 1932; ma poi appare con continuità in almeno sei note della ter-
za serie di Appunti di filosofia. Tra queste note del Quaderno 8 ha particolare
importanza il § 198, poi rielaborato nel Quaderno 10, dove Gramsci analizza
due testi di Croce (uno tratto dalla prima serie delle Conversazioni critiche,
l’altro da una nota, dedicata a Gentile, di Materialismo storico ed economia
marxistica) e intende mostrare che l’interpretazione crociana del marxismo
arriva a contraddirsi e a essere incoerente proprio per la sostanziale svaluta-
zione della filosofia della praxis:

§ 〈198〉. Filosofia della Praxis. A p. 298 sgg. della Serie Prima delle Conversazio-
ni critiche il Croce analizza alcune proposizioni delle Glosse al Feuerbach per giungere
alla conclusione che non si può parlare di un Marx filosofo e quindi di una filosofia mar-
xista, perché ciò che Marx si proponeva era appunto di «capovolgere» non tanto la filoso-
fia di Hegel, quanto la filosofia in genere, di sostituire il filosofare con l’attività pratica
ecc. Ma non pare che il Croce sia esatto obbiettivamente, né che egli riesca soddisfacente
criticamente. Ammesso che il Marx volesse soppiantare la filosofia con l’attività pratica,
come mai il Croce non ricorre all’argomento perentorio che non si può negare la filosofia
se non filosofando, cioè riaffermando quel che si era voluto negare? È vero che lo stesso
Croce nel volume Materialismo storico ecc., in una nota riconosce esplicitamente come
giustificata l’esigenza di costruire sul marxismo una «filosofia della praxis» posta da An-
tonio Labriola. Se si esamina, in una veduta d’insieme, tutto ciò che il Croce ha scritto sul
marxismo, sia in modo sistematico, sia incidentalmente, si può cogliere quanto egli sia
contradditorio e incoerente da uno scritto all’altro, nei vari periodi della sua attività di
scrittore.
123

In questo brano va sottolineata quella espressione che si riferisce a La-


briola. Gramsci scrive in maniera caratteristica: «l’esigenza di costruire sul
marxismo una “filosofia della praxis”». L’espressione è caratteristica ma
molto precisa. La filosofia della praxis è proprio una «costruzione» che nasce
«sul marxismo», cioè a partire dal marxismo, sviluppandone audacemente i
princìpi costitutivi.
I riferimenti che abbiamo ricordato dimostrano che la filosofia della pra-
xis non fu una escogitazione improvvisa di Gramsci, adoperata per non «in-
sospettire la censura», ma il risultato di un percorso teorico lungo e molto
complesso, che percorse l’elaborazione degli Appunti di filosofia e che solo
in seguito, a partire dal maggio 1932, con l’istituzione dei quaderni speciali,
si generalizzò e divenne sistematico.

3. Da dove viene la filosofia della praxis?

Almeno dalla composizione del Quaderno 8, Gramsci ritenne opportuno


riferirsi a una precisa linea di pensiero, cercando di rielaborarla, al fine di
rendere sempre più evidente la novità teorica della sua riflessione. La formu-
la della filosofia della praxis rinviava infatti a una tradizione teorica ormai
consolidata. Per la prima volta era stata adoperata da Antonio Labriola nel
1898, nel terzo saggio sul materialismo storico, Discorrendo di socialismo e
di filosofia, dove aveva definito la filosofia della praxis come il «midollo» e
il «nocciolo» del marxismo. Ma rileggiamo i quattro brani del terzo saggio in
cui Labriola indicava con maggiore precisione i caratteri della filosofia della
praxis:

Il materialismo storico si allargherà, si diffonderà, si specificherà, avrà esso stesso una


storia. Forse da paese a paese avrà modalità e colorito diverso. E ciò non sarà gran male;
purché rimanga in fondo il nocciolo, che n'è, come a dire, tutta la filosofia. Per es., dei
postulati come questi: - nel processo della praxis è la natura, ossia l'evoluzione storica
dell'uomo: - e dicendo praxis, sotto questo aspetto di totalità, s'intende di eliminare la vol-
gare opposizione tra pratica e teoria: - perché, in altri termini, la storia è la storia del lavo-
ro, e come, da una parte, nel lavoro così integralmente inteso è implicito lo sviluppo ri-
spettivamente proporzionato e proporzionale delle attitudini mentali e delle attitudini ope-
rative, così, da un'altra parte, nel concetto della storia del lavoro è implicita la forma sem-
pre sociale del lavoro stesso, e il variare di tale forma: - l'uomo storico è sempre l'uomo
sociale, e il presunto uomo presociale, o supersociale, è un parto della fantasia: - e così
via.

E così siamo daccapo nella filosofia della praxis, che è il midollo del materialismo
storico. Questa è la filosofia immanente alle cose su cui filosofeggia. Dalla vita al pensie-
ro, e non già dal pensiero alla vita; ecco il processo realistico. Dal lavoro, che è un cono-
scere operando, al conoscere come astratta teoria: e non da questo a quello. Dai bisogni, e
quindi dai varii stati interni di benessere e di malessere, nascenti dalla soddisfazione o
insoddisfazione dei bisogni, alla creazione mitico-poetica delle ascoste forze della natura:
e non viceversa. In questi pensieri è il segreto di una asserzione di Marx, che è stata per
molti un rompicapo, che egli avesse, cioè, arrovesciata la dialettica di Hegel: il che vuol
dire, in prosa corrente, che alla semovenza ritmica d'un pensiero per sé stante (- la genera-
124

tio aequivoca delle idee! -) rimane sostituita la semovenza delle cose, delle quali il pensie-
ro è da ultimo un prodotto.

In fine, il materialismo storico? ossia la filosofia della praxis, in quanto investe tutto
l'uomo storico e sociale, come mette termine ad ogni forma d'idealismo, che consideri le
cose empiricamente esistenti qual riflesso, riproduzione, imitazione, esempio, conseguen-
za o come altro dicasi, d'un pensiero, come che siasi, presupposto, così è la fine anche del
materialismo naturalistico, nel senso fino a pochi anni fa tradizionale della parola. La ri-
voluzione intellettuale, che ha condotto a considerare come assolutamente obiettivi i pro-
cessi della storia umana, è coeva e rispondente a quell'altra rivoluzione intellettuale, che è
riuscita a storicizzare la natura fisica. Questa non è più, per alcun uomo pensante, un fatto,
che non fu mai in fieri, un avvenuto che non è mai divenuto, un eterno stante che non pro-
ceda, e molto meno il creato d'una volta sola, che non sia la creazione di continuo in atto.

Ragione precipua dell'accorgimento critico, col quale il materialismo storico corregge


il monismo, è questa: che esso parte dalla praxis, cioè dallo sviluppo della operosità, e
come è la teoria dell'uomo che lavora, così considera la scienza stessa come un lavoro.
Porta infine a compimento il senso implicito alle scienze empiriche; che noi, cioè, con
l'esperimento ci riavviciniamo al fare delle cose, e raggiungiamo la persuasione, che le
cose stesse sono un fare, ossia un prodursi.

Proprio nel periodo di Turi, Gramsci tornò a richiamarsi con forza a La-
briola, come all’unico pensatore che aveva posto in maniera corretta, anzi
esemplare, il problema teorico del marxismo:

Perché il Labriola non ha avuto fortuna nella pubblicistica socialdemocratica? Si può


dire a proposito della filosofia del marxismo ciò che la Luxemburg dice a proposito
dell’economia: nel periodo romantico della lotta, dello Sturm und Drang popolare, si ap-
punta tutto l’interesse sulle armi più immediate, sui problemi di tattica politica. Ma dal
momento che esiste un nuovo tipo di Stato, nasce [concretamente] il problema di una
nuova civiltà e quindi la necessità di elaborare le concezioni più generali, le armi più raf-
finate e decisive. Ecco che Labriola deve essere rimesso in circolazione e la sua imposta-
zione del problema filosofico deve essere fatta predominare. Questa è una lotta per la cul-
tura superiore, la parte positiva della lotta per la cultura che si manifesta in forma negativa
e polemica con gli a- privativi e gli anti- (anticlericalismo, ateismo ecc.). Questa è la for-
ma moderna del laicismo tradizionale che è alla base del nuovo tipo di Stato.
La trattazione analitica e sistematica della concezione del Labriola potrebbe essere la
sezione filosofica della rivista tipo «Voce» - «Leonardo» («Ordine Nuovo») e potrebbe
alimentare la rubrica almeno per sei mesi o un anno. Bisognerebbe inoltre compilare una
bibliografia «internazionale» sul Labriola («Neue Zeit» ecc.).

Ma la vicenda di quella formula (filosofia della praxis) si era protratta ben


oltre Labriola. Anzi tutto fu Giovanni Gentile, in un saggio del 1899 (La filo-
sofia della prassi), a svolgerne il concetto, sia pure in una forma distruttiva,
cioè per dimostrare che Marx finiva per contraddirsi tra il richiamo alla pra-
xis, che indicava Hegel e la dialettica, e quello al materialismo, che invece
evocava il «rovesciamento» operato da Feuerbach. Tuttavia lo studio di Gen-
tile fu molto importante, anche perché rese esplicite due premesse della filo-
125

sofia della praxis, così come era stata elaborata da Labriola: da un lato ne ri-
velò la parentela con la «riforma» della dialettica di Bertrando Spaventa (che
era stato il maestro di Labriola) e, d’altro lato, la legò alle Tesi su Feuerbach
del giovane Marx, di cui offrì la prima traduzione italiana. E dopo di lui, il
tema della filosofia della praxis venne ripreso da Rodolfo Mondolfo, che ne
prospettò un’articolazione diversa, anzi tutto ripensando il rapporto storico
tra Marx e Feuerbach.
Non mi soffermo ulteriormente sulle fonti della filosofia della praxis,
perché nel mio libro (Marxismo e filosofia della praxis) troverete tutti gli ap-
profondimenti necessari.

4. Alla radice della filosofia della praxis c’è l’opera di Marx

Questi autori italiani influirono variamente su Gramsci. L’influenza deci-


siva fu senza dubbio quella di Labriola, un autore che egli (come d’altronde
Togliatti) ben conosceva fin dal periodo precarcerario e che si trova citato in
alcuni articoli del 1918. D’altronde, Gramsci conferì il massimo rilievo al
contributo di Labriola – fino ad affermare, come abbiamo visto, la «necessità
di rimetter[lo] in circolazione e di far predominare la sua impostazione del
problema filosofico» – per un motivo specifico. Nel lessico di Labriola, la
filosofia della praxis significava, in primo luogo, la critica del marxismo «in
combinazione» (con le correnti idealistiche, con il materialismo, con il neo-
kantismo), dunque l’esigenza di un ritorno all’opera di Marx. Significava
cercare in Marx il nucleo di una filosofia originale. Questo «ritorno a Marx»
(dunque l’affermazione dell’autonomia, dell’autosufficienza, del marxismo
come filosofia) significava, per Gramsci, la critica del modo in cui il marxi-
smo teorico si era sviluppato dopo la morte di Marx, sia nella Seconda che
nella Terza Internazionale. Per questo, proprio a partire dal maggio 1930 (nel
§ 153 del Quaderno 1), Gramsci cominciò a svolgere una confutazione, a
tratti feroce e distruttiva, del «manuale» di Bucharin, che lui stesso aveva va-
riamente utilizzato nel periodo precarcerario (per esempio per alcune dispen-
se per la scuola di partito del 1925), e che divenne quasi il simbolo
dell’«ortodossia» materialista invalsa nel marxismo sovietico. Era una critica
filosofica che articolava, d’altronde, la critica politica, che Gramsci aveva
svolto nella famosa lettera del 14 ottobre 1926 al Comitato centrale del Parti-
to comunista russo, dove aveva contestato la «svolta» e la nuova linea del
Comintern, centrata sulla categoria di «socialfascismo».
Con questo recupero della lezione di Labriola, Gramsci svolgeva una cri-
tica delle principali tendenze del marxismo teorico e soprattutto superava la
sua vecchia lettura di Marx. Gli anni del carcere (e in modo particolare gli
Appunti di filosofia) testimoniano una diversa lettura di Marx. Bisogna ricor-
dare che, nel periodo giovanile, Marx non era stato un suo autore fondamen-
tale: tutti ricordano il celebre articolo del 1918 su La rivoluzione contro il
Capitale, cioè l’idea che la rivoluzione sovietica avesse infranto le incrosta-
zioni positivistiche del Capitale di Marx, mettendo in primo piano il ruolo
126

della volontà e della soggettività, secondo l’insegnamento di Bergson,


dell’idealismo e di altre tendenze. La sua conoscenza di Marx (all’inizio li-
mitata al Manifesto, alla Sacra famiglia, all’esposizione popolare di Engels)
crebbe certamente durante il soggiorno a Mosca e a Vienna, nella prima metà
degli anni Venti, quando per esempio studiò l’antologia russa curata nel
1923-1924 da Adoratskij e Udal’cov, dove, tra le altre cose, poté leggere
brani della Ideologia tedesca. Ma furono gli anni del carcere a riportarlo a
una considerazione diretta, e del tutto nuova, dell’opera di Marx.
Il primo segno di questo rinnovato interesse per Marx lo troviamo nella
traduzione, che Gramsci condusse nel Quaderno 7 tra il maggio 1930 e il lu-
glio 1931, dell’antologia di scritti di Marx intitolata Lohnarbeit und Kapital.
Zur Judenfrage und andere Schriften aus der Frühzeit (Lavoro salariato e
capitale. La Questione ebraica e altri scritti della giovinezza) curata da Ernst
Drahn. Grazie alla pubblicazione in due volumi dei Quaderni di traduzione,
noi oggi possiamo apprezzare l’importanza di queste pagine. La cosa più im-
portante è che Gramsci non seguì l’ordine dell’edizione originale, ma una
propria «gerarchia di valore in ordine decrescente» (Giuseppe Cospito), co-
minciando dalle Tesi su Feuerbach (n. 1), proseguendo con un passo della
Prefazione a Per la critica dell’economia politica (n. 2), dunque dedicandosi
alle pagine iniziali del Manifesto del partito comunista (n. 3), per poi arrivare,
verso la fine, a un passo della Sacra Famiglia (n. 7). Questa è la sequenza
del «ritorno» a Marx nei quaderni, per il significato che ciascuno di quei testi
arriverà ad assumere nel suo laboratorio teorico: le Tesi su Feuerbach indi-
cheranno l’orizzonte della filosofia della praxis, a cominciare dal concetto di
“blocco storico”; nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica iso-
lerà i due princìpi fondamentali della «formazione di una volontà collettiva»;
dalla Sacra famiglia emergerà il concetto di «traducibilità». A questi testi va
aggiunto il riferimento alla Miseria della filosofia per quanto riguarda la
concezione delle superstrutture.
Già dalle traduzioni, insomma, si scorge la peculiarità del rapporto di
Gramsci con Marx. Gramsci estraeva, per così dire, dai testi di Marx come
dei princìpi, delle degnità, che nella sua riflessione acquistavano tratti origi-
nali. Di questa lettura di Marx bisogna segnalare altri due aspetti essenziali.
In primo luogo la tendenza a riempire il pensiero di Marx nel confronto con
gli altri autori fondamentali della sua riflessione. Per citare alcuni esempi, i
confronti con Machiavelli, con Lenin, con Ricardo, acquistarono un signifi-
cato importante. Il caso di Machiavelli è molto interessante. Pensando alle
interpretazioni di Foscolo, di Croce, di Russo, Gramsci affermò che «la posi-
zione di Machiavelli si ripete per Marx», perché entrambi, in forme diverse,
avevano svelato il fondamento della politica e delle ideologie, «di che lagri-
me grondi e di che sangue» il gioco del potere. Però Marx aveva superato
Machiavelli in un punto essenziale, mostrando la integrale storicità della na-
tura umana: «la innovazione fondamentale introdotta da Marx nella scienza
politica e storica in confronto del Machiavelli – spiegava – è la dimostrazio-
ne che non esiste una “natura umana” fissa e immutabile e che pertanto la
scienza politica deve essere concepita nel suo contenuto concreto (e anche
127

nella sua formulazione logica?) come un organismo storicamente in isvilup-


po». Tuttavia era anche vero che in Machiavelli si trovava qualcosa che
Marx aveva perduto, cioè la teoria del «principe», del «soggetto che vuole
fondare lo Stato», della soggettività politica. Lo stesso discorso si ripeteva
per Lenin, che era «filosofo» non per le pagine che aveva scritto sulla filoso-
fia (che Gramsci ignorò del tutto) ma perché nella sua azione si trovava im-
plicito il principio della egemonia: Marx e Lenin indicavano perciò «due fa-
si» della filosofia della praxis, «omogenee ed eterogenee nello stesso tempo»,
dove il leninismo (perciò paragonato al paolinismo nel primo cristianesimo)
è bensì «organizzazione» e «azione» ma anche «espansione della Weltan-
schauung».
Si potrebbe continuare, con Ricardo, con Croce, con Bergson ecc., e far
vedere come il «ritorno a Marx» nei quaderni fosse un atteggiamento com-
plesso, soprattutto quando l’analisi dei testi marxiani si avvicinava al nodo
dell’egemonia, della costruzione della «volontà collettiva» e del soggetto po-
litico moderno. Ma altrettanto decisivo, negli Appunti di filosofia, fu il modo
in cui Gramsci ripensò la filosofia di Hegel e il suo rapporto con Marx. Si
deve ricordare che il rapporto Marx-Hegel era stato sostanzialmente escluso
da Croce (lo hegelismo rappresentava soltanto la «precoltura» del giovane
Marx) e inteso da Gentile come il centro di una contraddizione, quella tra
praxis e materialismo. Gramsci diede invece il massimo rilievo alla posizione
di Hegel, e per diverse ragioni. Possiamo sintetizzare così. In primo luogo,
Hegel non significava più, come per Engels, l’autore di una dialettica ideali-
sta, che stava sulla testa invece che sui piedi, ma colui che aveva compreso
«cos’è la realtà». Hegel era colui che aveva scoperto la funzione moderna
della «società civile», che aveva «enorme importanza» «per la posizione as-
segnata agli intellettuali». Dunque una fonte fondamentale del suo marxismo
rinnovato. Soprattutto, nella visione di Gramsci, Hegel non era un filosofo
idealista, ma colui che aveva «unificato» materialismo e idealismo, secondo
una linea che sarà ripresa da Marx. Marx, anzi, aveva ripristinato l’unità di
pensiero ed essere, dopo che la destra e la sinistra hegeliana (fino a Feuer-
bach) la avevano lacerata: e ora, dopo Marx, il marxismo era incorso nel me-
desimo errore degli epigoni hegeliani, e il compito della filosofia della praxis
era appunto quello di riconquistare la perduta dialettica dei due momenti,
della struttura oggettiva e delle superstrutture.
In sintesi: la filosofia della praxis non è un marxismo teorico senza Marx,
come è stato detto tante volte in maniera semplicistica. Al contrario, è un
marxismo teorico che parte dall’opera di Marx e si sostanzia di un dialogo
continuo con i suoi scritti e con i suoi pensieri. Perciò il rapporto Gramsci-
Marx è veramente il centro della teoria dell’egemonia.
Nella prossima lezione affronteremo le pagine più importanti degli Ap-
punti di filosofia, partendo proprio da un testo di Marx, le Tesi su Feuerbach.
Quindi vedremo come si articola la doppia critica di materialismo e ideali-
smo.
128

Lezione 13

(Lunedì 20 aprile 2020)

1. La costituzione del soggetto politico

Nella ricerca che abbiamo condotto fin qui è emerso un problema fonda-
mentale: quello della costituzione del soggetto politico a partire dalla base
oggettiva della struttura. Nei quaderni questo problema è modulato in molti
modi: per esempio, la conversione della quantità in qualità; o la formazione
delle superstrutture e della coscienza. Nelle lezioni precedenti abbiamo visto
qual è la radice filosofica della questione: nel pensiero moderno (come nella
politica moderna) il soggetto è sempre stato configurato come un presuppo-
sto, in senso trascendentale; per Gramsci il soggetto è invece un risultato,
quindi il marxismo teorico deve illustrarne la genesi, la mediazione dialettica
che lo costituisce. Se ci pensate, proprio qui ci ha portato l’analisi del Qua-
derno 1, cioè il fatto che l’egemonia dei moderati sui democratici nel Risor-
gimento deriva dalla loro omogeneità organica a un gruppo sociale, mentre la
politica dei democratici “oscilla” sul piano politico perché essi non rappre-
sentano alcun gruppo sociale determinato e non hanno radici nella struttura.
Ancora, lo studio delle note del Quaderno 4 sul canto X dell’Inferno ci hanno
posto il problema della catarsi, cioè della conversione della “struttura” nella
coscienza. Infine, parlando degli Appunti di filosofia, abbiamo osservato che
materialismo e idealismo commettono un errore contrario e simmetrico: gli
idealisti (come Croce) nascondono la struttura, si mantengono solo sul terre-
no delle superstrutture; i materialisti (come Bucharin) dimenticano che la
struttura non basta, che occorre spiegare il fatto della coscienza, il passaggio
alle superstrutture, al soggetto politico attivo. Tutte queste linee di riflessione
ci riportano dunque al medesimo punto: come si costituisce il soggetto a par-
tire dal fatto oggettivo della struttura? Qual è il rapporto fra struttura e super-
strutture? È chiaro, ormai, che la relazione fra questi due termini (struttura,
superstrutture) costituisce per Gramsci l’intero della realtà, quello che nelle
filosofie tradizionali si chiama “spirito”.

2. Il confronto con Marx: le “Tesi su Feuerbach”

Per comprendere questo problema, non dobbiamo mai perdere di vista il


rapporto intenso che Gramsci stabilisce con l’opera di Marx. Come sappiamo,
nello stesso periodo in cui scrive gli Appunti di filosofia, Gramsci traduce dal
tedesco, nel Quaderno 7, una serie di testi di Marx. Per la questione che
stiamo affrontando, vorrei richiamare la vostra attenzione su tre testi, che in-
129

tervengono in maniera decisiva nella elaborazione gramsciana dell’egemonia.


I testi sono i seguenti:

1) Le Tesi su Feuerbach
2) Due passaggi della Prefazione (Londra, gennaio 1859) a Per la cri-
tica dell’economia politica
3) La Miseria della filosofia

Cominciamo dalle Tesi su Feuerbach, un piccolo testo che Marx aveva


scritto nel 1845 a commento dell’Essenza del cristianesimo di Ludwig
Feuerbach. Engels ritrovò queste Tesi dopo la morte di Marx e le pubblicò
nel 1888 come appendice al suo libro Ludwig Feuerbach e il punto di appro-
do della filosofia classica tedesca. La cosa caratteristica è che, nel pubblicar-
le, vi apportò correzioni significative, come noi sappiamo a partire
dall’edizione critica di Rjazanov del 1932. Tutti gli autori di questo periodo
tennero dunque presente il solo testo di Engels, ignorando l’originale di
Marx.
La correzione più importante riguardava la terza tesi. Vediamo. Marx
aveva scritto così:

Das Zusammenfallen des Ändern[s] der Umstände und der menschlichen Tätigkeit
oder Selbstveränderung kann nur als revolutionäre Praxis gefaßt und rationell verstanden
werden.

La coincidenza del variare delle circostanze e dell’attività umana, o autotrasformazio-


ne, può essere concepita e compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria.

Nel testo pubblicato da Engels si leggeva invece:

Das Zusammenfallen des Änderns der Umstände und der menschlichen Tätigkeit
kann nur als umwälzende Praxis gefaßt und rationell verstanden werden.

Nella versione di Engels cadeva l’espressione «oder Selbstveränderung»,


quindi il riferimento all’«autotrasformazione» dell’uomo; e il concetto di
«revolutionäre Praxis» («prassi rivoluzionaria») era sostituito da quello di
«umwälzende Praxis» («prassi che rovescia» o «prassi rovesciante»). È dif-
ficile stabilire per quale ragione Engels ritenesse la correzione utile a chiarire
il pensiero di Marx: quella espressione «umwälzende Praxis» diventò
l’occasione di numerosi equivoci e di molteplici complicazioni.
Ma la filosofia della praxis fu legata proprio a quella aggiunta di Engels,
alla umwälzende Praxis. Bisogna ricordarne brevemente la storia. In primo
luogo bisogna ricordare che Labriola non aveva dato un peso particolare alle
Tesi su Feuerbach. Le aveva ricevute da Engels il 3 aprile 1890 e gli rispose
con una lunga lettera. Però non vi diede molto peso o almeno non le collocò
alla radice della filosofia della praxis.
La vicenda cominciò propriamente con Giovanni Gentile, quando ricevet-
te in dono da Croce nel gennaio 1898 il terzo saggio di Labriola. E subito fe-
130

ce un doppio collegamento: con le Tesi e con Bertrando Spaventa. Nel saggio


su La filosofia della prassi Gentile offrì la prima traduzione delle Tesi. In
questa traduzione, la terza tesi era tradotta con un errore che possiamo defini-
re volontario: arrivò a tradurre «umwälzende Praxis» con il poco letterale
«prassi rovesciata» e, in altri luoghi, «prassi che si rovescia».

Il coincidere del variar dell’ambiente e dell’attività umana può essere concepito e in-
teso razionalmente soltanto come prassi rovesciata.

La traduzione infedele della terza tesi si perpetuò nel marxismo italiano.


Nella nuova traduzione di Mondolfo del 1909 nel saggio Feuerbach e Marx
la umwälzende Praxis era infatti tradotta con «praxis che si rovescia» invece
di «prassi rovesciata». E la terza traduzione fu quella di Gramsci nel Quader-
no 7 nel maggio 1930: qui umwälzende Praxis diventava direttamente rove-
sciamento della praxis.

Il convergere del mutarsi dell’ambiente e dell’attività umana può essere concepito e


compreso razionalmente solo come rovesciamento della prassi.

La traduzione infedele di Marx acquistava grande importanza per il suo


pensiero. Perché il rovesciamento della prassi indicava il rapporto circolare
tra struttura e superstrutture. Nel chiuso del carcere Gramsci non poté cono-
scere né la nuova edizione di David Rjazanov del 1932, che ristabiliva il te-
sto di Marx, né le discussioni a cui, in Italia, la traduzione di Gentile (e di
Mondolfo) aveva dato luogo, a partire dagli articoli di Giuseppe Capograssi e
di Eugenio Di Carlo, entrambi apparsi, nel 1933, sulla «Rivista internaziona-
le di filosofia del diritto». Le prime discussioni italiane risalgono infatti al
1933: G. CAPOGRASSI, «Prassi che rovescia» o «prassi che si rovescia»?
Postilla a Rodolfo Mondolfo, «Rivista internazionale di filosofia del diritto»,
1933, pp. 746-749; E. DI CARLO, rec. ad A. POGGI, Il concetto del diritto e
dello Stato nella filosofia giuridica italiana contemporanea, «Rivista inter-
nazionale di filosofia del diritto», 1933, p. 439.

Appendice

Proviamo a capire perché questo breve scritto acquistò tanta importanza nel marxismo
italiano e in Gramsci. Cosa c’era nelle undici Tesi su Feuerbach da attirare in tale misura
il marxismo italiano, sino a farne il principio di tutta la filosofia marxista? Le Tesi diven-
nero quasi il manifesto filosofico del marxismo italiano.
Il primo concetto è esposto con chiarezza da Marx nella prima tesi. Esso riguarda il
principio della praxis, considerato come principio della sua concezione filosofica. Marx
inizia con una critica perentoria del materialismo, di tutto il materialismo precedente,
compreso quello di Feuerbach. Il torto del materialismo è di avere concepito «l’oggettività,
la realtà, la sensibilità» solo «sotto la forma dell’oggetto o dell’intuizione». Marx vuole
dire che il materialismo ha concepito l’oggetto come trascendente rispetto al soggetto, nel
segno del realismo. È l’allievo di Hegel che parla qui. Parla anche della forma
131

dell’intuizione, per significare l’assenza di mediazione in tale dualismo (questo è il tema


della quinta tesi, che conviene anticipare).

Il difetto principale di ogni materialismo sino a oggi (compreso quello di Feuerbach) è che
l’oggettività, la realtà, la sensibilità vengono compresi solo sotto la forma dell’oggetto o
dell’intuizione;

Feuerbach, non contento del pensiero astratto, vuole l’intuizione; ma non comprende la sensibi-
lità come attività pratica umano-sensibile. (5a tesi)

Il materialismo non arriva a concepire l’oggetto soggettivamente, cioè nell’atto di


produzione della soggettività, nella mediazione. Ma questa soggettività è subito specifica-
ta con due parole: sinnlich menschliche Tätigkeit, attività sensibile umana, e Praxis, prassi,
azione.

non però come attività sensibile umana, come prassi; non soggettivamente.

Di qui l’elogio e la critica dell’idealismo. L’idealismo ha visto la soggettività, ma la


ha sviluppata in modo astratto.

Perciò il lato attivo fu sviluppato in modo astratto dall’idealismo in opposizione al materialismo


– poiché naturalmente l’idealismo non conosce l’attività reale, sensibile, in quanto tale.

Il discorso di Marx si muove dunque nella direzione del superamento di materialismo


e idealismo, cerca nel principio della praxis un punto di unificazione. Di qui la critica a
Feuerbach, fermo alla posizione realista dell’antico materialismo.

Feuerbach vuole oggetti sensibili – realmente separati dagli oggetti del pensiero. Ma non conce-
pisce l’attività umana stessa come attività oggettiva (als gegenständliche Tätigkeit). Conseguente-
mente egli, nella Essenza del cristianesimo, considera genuinamente umano l’atteggiamento teoreti-
co, mentre la prassi viene concepita e fissata solo nel suo modo di apparire sordidamente giudaico.
Egli non comprende perciò il significato dell’attività «rivoluzionaria», «pratico-critica».

Stabilito il principio della praxis, nella seconda tesi Marx ne propone lo svolgimento a
proposito dell’idea di verità. È un punto essenziale. La verità non è una questione teorica,
ma una questione pratica. La verità dell’oggetto è nella sua produzione a opera della pra-
xis. Il richiamo a Vico è immediato. Però Marx aggiunge una frase di grande forza:
l’uomo deve provare la verità nella «Diesseitigkeit seines Denkens», nella mondanità del
suo pensiero. E questa mondanità si esprime in due parole: realtà e potenza, Wirklichkeit
und Macht.

La questione se al pensiero umano spetti la verità oggettiva, non è una questione teorica, ma una
questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e la potenza, del carattere
mondano del suo pensiero. La questione sulla realtà o non realtà del pensiero – una volta che il pen-
siero sia isolato dalla prassi – è una questione meramente scolastica.

La terza tesi costituisce il passaggio-chiave del discorso. Qui, come vedremo, si inse-
risce il nodo del rovesciamento della praxis. Nella sua versione originaria, Marx critica il
materialismo perché concepisce l’uomo, in maniera unilaterale, come condizionato
dall’ambiente sociale. Al contrario, l’ambiente sociale non è solo la condizione, ma è il
prodotto della praxis. Il rapporto è circolare. Marx lo scolpisce nella frase celebre: Der
Erzieher selbst erzogen werden muß; anche l’educatore deve essere educato. Uomo e so-
cietà non possono essere divisi: si tratta di una Selbstveränderung, di una autotrasforma-
zione. Questa è la revolutionäre Praxis.
132

La dottrina materialistica del cambiamento delle condizioni e dell’educazione dimentica che le


condizioni sono modificate dagli uomini e che anche l’educatore deve essere educato. Quella dottrina
è costretta quindi a dividere la società in due parti – una delle quali è sollevata al di sopra della socie-
tà.
Il coincidere del variare delle condizioni e dell’attività umana o auto- trasformazione può essere
compresa e concepita razionalmente solo come prassi rivoluzionaria.

A questo punto, nella quarta tesi, Marx chiarisce la critica all’Essenza del cristianesi-
mo di Feuerbach. Per Feuerbach la religione è alienazione, nel senso che l’uomo proietta
oltre sé la propria essenza generica. In questa visione della religione c’è un primo errore.
L’uomo non proietta la terra nel cielo, ma opera questa proiezione perché la sua essenza è
lacerata, è attraversata dalla contraddizione. Il problema della praxis è dunque la con-
traddizione della forma umana. Esso riguarda non solo la religione ma ogni forma ideolo-
gica.

Feuerbach muove dal fatto della autoestraneazione religiosa, della duplicazione del mondo in
mondo religioso e mondano. Il suo lavoro consiste nel risolvere il mondo religioso nel suo fonda-
mento mondano. Ma che il fondamento mondano si stacchi da se stesso e si fissi nelle nuvole come
un regno indipendente è spiegabile soltanto con l’autodissociazione e con l’autocontraddittorietà di
questo fondamento mondano stesso. Esso deve essere tanto compreso in se stesso nella sua contrad-
dizione, quanto rivoluzionato praticamente. Quindi, dopo che, per esempio, la famiglia terrena è stata
scoperta come il segreto della sacra famiglia, è proprio la prima a dover essere distrutta.

Nelle tesi successive, dalla 6 alla 10, Marx trae un’altra conseguenza dalla critica a
Feuerbach. Fermo al materialismo, Feuerbach considera l’uomo come individuo singolo, e
dunque è subalterno all’ideale della società borghese. Al contrario, il principio della pra-
xis permette di vedere che l’uomo non è l’individuo, ma l’insieme dei rapporti sociali e
che la religione è un prodotto sociale. Perciò la nuova filosofia non guarda alla società
borghese (giudaica, fatta di individui economici), ma alla società umana o umanità socia-
le.

6.
Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è
un’astrazione che abita nell’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali.
Feuerbach, non penetrando nella critica di questa essenza reale, è pertanto costretto:
1) ad astrarre dallo svolgimento della storia e a fissare il sentimento religioso per se stesso, e a
presupporre un individuo umano astratto-isolato;
2) pertanto l’essenza può essere concepita solo come «genere», come generalità interna, muta,
che colleghi molti individui in modo naturale.

7.
Feuerbach non vede dunque che il «sentimento religioso» è esso stesso un prodotto sociale e che
l’individuo astratto che egli analizza in realtà appartiene a una forma sociale determinata.

8.
Tutta la vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che inducono la teoria al mistici-
smo, trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella comprensione di questa prassi.

9.
Il punto più alto al quale perviene il materialismo intuitivo, cioè il materialismo che non conce-
pisce la sensibilità come attività pratica, è l’intuizione degli individui singoli e della società borghese.

10.
Il punto di vista del vecchio materialismo è la società borghese; il punto di vista del nuovo è la
società umana o l’umanità sociale.
133

Veniamo all’ultimo punto, condensato nella undicesima tesi. È la celebre contrapposi-


zione fra una visione teoretica e una visione pratica del mondo. La filosofia ha finora
pensato di comprendere il mondo contemplandolo come un oggetto, con il metro teoretico.
Ma se è vero quanto abbiamo affermato, il mondo può essere compreso solo cambiandolo,
cioè nell’atto pratico della sua produzione rivoluzionaria.

Die Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert; es kömmt drauf an, sie zu verän-
dern.

I filosofi hanno solo interpretato variamente il mondo; si tratta di arrivare a cambiarlo.

Come vedete, si tratta di un testo molto particolare di Marx, strettamente filosofico,


tanto più in assenza di una conoscenza integrale della Ideologia tedesca. Certamente
Marx vi enuclea il principio della praxis. I due aspetti essenziali sono i seguenti. In primo
luogo la critica del materialismo e il programma di un duplice superamento, nel principio
della sinnlich menschliche Tätigkeit, di materialismo e di idealismo, pur conservando,
dell’idealismo, la tesi fondamentale dell’identità di pensiero ed essere. In secondo luogo
l’idea di rivoluzione, connessa al principio della praxis, dove non si parla mai di capitali-
smo o di proletariato, in generale di classi, ma del superamento del punto di vista teoreti-
co in quello pratico.

3. Per la critica dell’economia politica

L’attenzione di Gramsci fu attirata da due passaggi della Prefazione del


1859. Questi due punti furono collocati alla base della teoria dell’egemonia.
Nel primo, dopo avere definito il rapporto fra struttura e superstrutture, Marx
affermava che «le forme ideologiche» «permettono agli uomini di concepire
questo conflitto [la contraddizione strutturale] e di combatterlo». È chiaro
che qui Gramsci riconobbe il suo problema principale, cioè la catarsi della
struttura e la definizione della coscienza come luogo del superamento delle
contraddizioni. Conviene tenere presente l’intero testo di Marx:

Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo condut-
tore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della
loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla
loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di svi-
luppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione co-
stituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una
sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della co-
scienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il pro-
cesso sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determi-
na il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.
A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in
contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che
ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mos-
se. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro cate-
ne. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base eco-
nomica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si
studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento
134

materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la
precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o
filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo
conflitto e di combatterlo.

Poco dopo, Marx indicava due princìpi, che nella riflessione di Gramsci
diventarono i due princìpi fondamentali della formazione delle volontà col-
lettive. Marx aveva scritto così:

[1] Una formazione sociale non perisce finchè non si siano sviluppate tutte le forze
produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano
mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della
loro esistenza.
[2] Ecco perchè l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, per-
chè, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le
condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.

4. La “Miseria della filosofia”

Il terzo testo è Miseria della filosofia, il saggio contro Proudhon che


Marx scrisse fra il dicembre 1846 e il giugno 1847 e che pubblicò a Parigi
nel luglio 1847. L’opera è spesso ricordata da Gramsci in relazione a uno
sviluppo significativo della teoria dell’egemonia: il tema delle rivoluzioni
passive. Per la prima volta la formula è adoperata nel Quaderno 4 con riferi-
mento al Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 di Vincenzo
Cuoco. Ma presto il significato si allarga e arriva a indicare i processi di mo-
dernizzazione nelle situazioni (come il Risorgimento italiano) che non deri-
vano in maniera diretta da una rivoluzione “attiva” (come la Rivoluzione
francese o la rivoluzione sovietica) ma ne assimilano alcuni caratteri in for-
ma indiretta. Perciò Gramsci ritrovò lo stesso concetto anche nella formula,
attribuita a Edgar Quinet, di «rivoluzione-restaurazione».
Come risulta dal Fondo librario, Gramsci disponeva in carcere della Mi-
seria della filosofia nella traduzione di Ettore Ciccotti, pubblicata nel 1925
dalla Società Editrice Avanti come volume 28 degli Scritti di C. Marx, F.
Engels e F. Lassalle. La riflessione su questa opera di Marx dovette essere
continuativa e molto attenta, al punto che, dapprima nel Quaderno 4 poi, in
maniera più precisa, nel Quaderno 13, arrivò a considerarla come «un mo-
mento essenziale nella formazione della filosofia della praxis», uno «svolgi-
mento delle Tesi su Feuerbach», perché (aveva spiegato nel Quaderno 4) in
essa «sono contenute affermazioni essenziali dal punto di vista del rapporto
della struttura e delle superstrutture e del concetto di dialettica proprio del
materialismo storico». Superiore, sotto il profilo filosofico, alla Sacra fami-
glia («una fase intermedia indistinta e di origine occasionale»), essa rendeva
esplicite le novità delle Tesi su Feuerbach, che pure erano rimaste al centro
delle tre serie di Appunti di filosofia. In realtà furono due i passaggi del se-
condo capitolo di questo scritto di Marx che attirarono in modo prevalente la
sua attenzione.
135

In primo luogo le ultime pagine dell’opera, quelle dedicate a Gli scioperi


e le coalizioni degli operai, dove Marx, stringendo l’intera polemica con
Proudhon, spiegava il senso della sua critica alla fase utopistica del sociali-
smo, quando «il proletariato non si è ancora sufficientemente sviluppato per
costituirsi in classe», «non ha ancora assunto un carattere politico»: e, con
perfetto lessico hegeliano, introduceva la distinzione fra la classe in sé e la
classe per se stessa, dove finalmente «la lotta di classe contro classe è una
lotta politica» e non solo una difesa «di resistenza» del proprio interesse eco-
nomico. Parole che Gramsci intese come la prospettiva di un superamento
della risposta economico-corporativa della lotta di classe, come l’inizio della
costruzione di un disegno egemonico, quando «i singoli componenti di un
sindacato non lottano solo più per i loro interessi economici, ma per la difesa
e lo sviluppo dell’organizzazione stessa». L’indicazione della terza tesi su
Feuerbach gli sembrava qui ripresa e fatta più concreta, in quanto il «rove-
sciamento della prassi» (la famosa «umwälzende Praxis» aggiunta da Engels)
arrivava a significare il passaggio rivoluzionario alle superstrutture, la catarsi
della coscienza, e quindi la genesi della dimensione della lotta politica.
Nella Miseria della filosofia ci fu un secondo aspetto su cui Gramsci tor-
nò con insistenza. Si trattava della prima parte del secondo capitolo, dedicato
a Il metodo, nel quale Marx aveva svolto le sette osservazioni di carattere
teorico sul Système di Proudhon. In tale testo Marx metteva a confronto il
pensiero di Proudhon con quello di Hegel, operando una critica di entrambi,
ma in una forma e secondo modalità diverse. Se il torto dell’economia politi-
ca (spiegava Marx) era di considerare i rapporti di produzione come «catego-
rie fisse, immutabili, eterne», la visione dialettica aveva il merito di cercarne
la genesi, ma prendendo «le cose alla rovescia», cioè trattando i rapporti reali
come incarnazione di idee astratte e non, viceversa, le categorie come «pro-
dotti storici e transitori» di un determinato modo di produzione. Questo erro-
re apparteneva, anzi tutto, a Hegel, il quale aveva appunto scambiato
l’astratto con il concreto, surrogando il divenire reale della storia nel «meto-
do assoluto», definito nella terza sezione della Scienza della logica, ossia
nella «dottrina del concetto». Proprio parlando di Hegel, nella Prima osser-
vazione Marx sottolineava che, nel puro movimento dialettico, «i contrari si
equilibrano, si neutralizzano, si paralizzano»; e, poche pagine dopo, vi oppo-
neva lo schema storico dell’«antagonismo reale», la necessità si considerare
il modo di produzione nel senso di una reale opposizione, e dunque di una
contraddizione insanabile, tra le forze produttive. Nel brano che Gramsci uti-
lizzò per elaborare la teoria delle rivoluzioni passive, Marx scriveva così:

una volta che [la ragione] sia pervenuta a porsi come tesi, questa tesi, questo pensiero,
opposto a se stesso, si sdoppia in due pensieri contraddittori, il positivo e il negativo, il sì
e il no. La lotta di questi due elementi antagonistici, racchiusi nella antitesi, costituisce il
movimento dialettico. Il sì diventa no, il no diventa sì, il sì diventa contemporaneamente
sì e no, il no diventa contemporaneamente no e sì: quindi i contrari si equilibrano, si neu-
tralizzano, si paralizzano. La fusione di questi due pensieri contraddittori costituisce un
pensiero nuovo che ne è la sintesi.
136

È chiaro, dunque, che per il Marx della Miseria della filosofia la dialettica
hegeliana ha un difetto “speculativo”, per il quale l’opposizione, convertita
dall’antagonismo storico reale alla sfera astratta della pura ragione, viene
“neutralizzata” e “paralizzata” nella «sintesi», che costuisce non il supera-
mento ma la semplice «fusione» dei termini contrari. Ma in Proudhon questo
movimento dialettico, per sé astratto e insufficiente, viene ulteriormente de-
formato attraverso la separazione degli opposti, per cui «ogni categoria eco-
nomica ha due lati, l’uno buono, l’altro malvagio», facendo dell’uno
«l’antidoto» dell’altro: «al posto della categoria – spiegava Marx – che si
pone e si oppone a se stessa per la sua natura contraddittoria, sta il signor
Proudhon che si infervora, si dibatte, si dimena fra i due lati della categoria».
Perciò, nell’opinione di Marx, Proudhon aveva tradotto la dialettica hegelia-
na in una «serie nell’intelletto», separando astrattamente i contrari, fino a
configurarli in una disputa eterna fra l’eguaglianza e l’ineguaglianza.
In una nota della terza serie degli Appunti di filosofia, composta intorno
all’aprile 1932, Gramsci definì «la posizione del Croce […] come quella di
Proudhon criticata nella Miseria della filosofia: hegelismo addomesticato».
Nella seconda stesura del Quaderno 10, nell’aprile-maggio 1932, parlò più
precisamente di «rivoluzione passiva», collegando la «dialettica “speculativa”
della storia, meccanicismo arbitrario di essa», attribuita a Croce, alla formula
di Cuoco e ancora concludendo: «cfr la posizione del Proudhon criticata nel-
la Miseria della filosofia». È chiaro dunque che in una prima fase Gramsci
considerò la riforma crociana della dialettica come un passo indietro rispetto
a Hegel, attribuendovi gli stessi caratteri di “neutralizzazione” del conflitto
sociale che Marx aveva attribuito a Hegel e che egli, invece, indicò in Proud-
hon. Nelle note sul Risorgimento italiano del Quaderno 9, intorno al maggio
1932, insisté sulle «attinenze con l’Italia» della «critica della Miseria della
filosofia contro la falsificazione della dialettica hegeliana fatta da Proudhon»,
non menzionando però il nome di Croce, ma i principali «movimenti intellet-
tuali» del processo di unificazione («Gioberti, l’hegelismo dei moderati») e,
in maniera pià diretta, le formule di Cuoco e Quinet («rivoluzione passiva,
dialettica di rivoluzione, restaurazione»).
Nello stesso periodo, in effetti, l’analogia fra Croce e Proudhon cominciò
a lasciare spazio all’altra e più pregnante attinenza con Gioberti, sempre più
avvicinato alla posizione criticata da Marx. Nel Quaderno 10 Gramsci mise a
fuoco questa corripondenza in un brano di particolare rilievo:

un fenomeno culturale paragonabile a quello dei neoguelfi-moderati, sebbene in una


posizione storico-politica più avanzata, è il sistema di ideologia del Proudhon in Francia.
Sebbene l’affermazione possa apparire paradossale, mi pare si possa dire che il Proudhon
è il Gioberti della situazione francese poiché Proudhon ha verso il movimento operaio
francese la stessa posizione del Gioberti di fronte al movimento liberale-nazionale italia-
no. Si ha nel Proudhon una stessa mutilazione dell’hegelismo e della dialettica che nei
moderati italiani e pertanto la critica a questa concezione politico-storiografica è la stessa,
sempre viva e attuale, contenuta nella Miseria della filosofia.
137

Se il binomio Croce-Proudhon tendeva a uscire di scena (non venne più


ripreso dopo il Quaderno 10), acquistò sempre maggiore importanza, invece,
il paragone con Gioberti. Circa un anno dopo, in una nota del Quaderno 15
databile nel marzo-aprile 1933, Gramsci ne ribadì l’importanza, riportando
l’analogia al «panico creato dal terrore del 1793». Poco dopo tornava sulla
questione con un ragionamento più articolato, dove l’analogia con Proudhon
veniva approfondita nel confronto con Mazzini. Mentre questo non aveva
saputo «essere tutto se stesso e gettare nella lotta tutte le proprie “risorse”
politiche e morali», restando nella subalternità all’avversario o alleato e ma-
nifestando un difetto di visione egemonica, Gioberti appariva come il rappre-
sentante esemplare della rivoluzione passiva, perché affermava l’esigenza di
incorporare l’antitesi, sviluppando tutte le possibilità di lotta della tesi, ovve-
ro della sua parte politica:

mentre Cavour era consapevole del suo compito in quanto era consapevole critica-
mente del compito di Mazzini, Mazzini, per la scarsa o nulla consapevolezza del compito
di Cavour, era in realtà anche poco consapevole del suo proprio compito, perciò i suoi
tentennamenti (così a Milano nel periodo successivo alle cinque giornate e in altre occa-
sioni) e le sue iniziative fuori tempo, che pertanto diventavano elementi solo utili alla po-
litica piemontese. È questa una esemplificazione del problema teorico del come doveva
essere compresa la dialettica, impostato nella Miseria della Filosofia: che ogni membro
dell’opposizione dialettica debba cercare di essere tutto se stesso e gettare nella lotta tutte
le proprie «risorse» politiche e morali, e che solo così si abbia un superamento reale, non
era capito né da Proudhon né da Mazzini. Si dirà che non era capito neanche da Gioberti e
dai teorici della rivoluzione passiva e «rivoluzione-restaurazione», ma la quistione cam-
bia: in costoro la «incomprensione» teorica era l’espressione pratica delle necessità della
«tesi» di sviluppare tutta se stessa, fino al punto di riuscire a incorporare una parte
dell’antitesi stessa, per non lasciarsi «superare», cioè nell’opposizione dialettica solo la
tesi in realtà sviluppa tutte le sue possibilità di lotta, fino ad accaparrarsi i sedicenti rap-
presentanti dell’antitesi: proprio in questo consiste la rivoluzione passiva o rivoluzione-
restaurazione.

In conclusione, la Miseria della filosofia suggerì a Gramsci la critica della


«dialettica addomesticata», intesa come una neutralizzazione del conflitto
sociale. E ben presto Gramsci collegò questa visione della dialettica ai pro-
cessi storici di rivoluzioni passive.
138

Lezione 14

(Mercoledì 22 aprile 2020)

1. Il “blocco storico”

Negli Appunti di filosofia, Gramsci definì il rapporto fra struttura e super-


strutture con la formula del blocco storico. Gramsci riprese questa formula,
in maniera abbastanza occasionale, da una battuta di Georges Sorel nelle Ri-
flessioni sulla violenza, che certamente aveva letto nel periodo precarcerario
e la ritrovò in un libro di Giovanni Malagodi, Le ideologie politiche. In quel
passo della lettera a Daniel Halévy che fungeva come introduzione alle Ri-
flessioni sulla violenza, Sorel chiariva la natura dei «miti», come «quelli co-
struiti dal cristianesimo primitivo, dalla Riforma, dalla Rivoluzione, dai
mazziniani», e sottolineava che l’indagine storica non può, in tali casi, pro-
cedere con il metodo analitico – cercando di «analizzare un tale sistema di
immagini allo stesso modo che un oggetto si scompone nei suoi elementi» –,
ma deve, al contrario, «prenderli in blocco come forze storiche». Con parole
analoghe, Malagodi considerava gli «stati relativamente fugaci della nostra
coscienza volontaria», affermando che «bisogna “prenderli in blocco”, co-
me forze storiche». Trovate nel mio libro Marxismo e filosofia della praxis
tutti i riferimenti utili a questi testi.
Alla base della categoria vi era, dunque, l’antitesi tra metodo analitico e
metodo sintetico, con il richiamo – si trattasse di «miti» o di stati fugaci della
«coscienza volontaria» – a non dividere e scomporre l’oggetto, prendendolo,
appunto, «in blocco», nell’unità della sua determinazione «storica». Gramsci
assunse il concetto di «blocco storico» per indicare il nesso concreto e circo-
lare fra struttura e superstrutture e per sottrarlo a ogni tentazione causalistica
e deterministica, come quella che, attraverso Bucharin, era invalsa nel mate-
rialismo storico. Le metafore a cui ricorse – il «nesso necessario e vitale» tra
pelle e scheletro nel corpo umano, il rapporto fra struttura anatomica e colore
della pelle – richiamavano al primato della «sintesi» rispetto all’«analisi»,
all’impossibilità, come aveva detto Sorel, di «scomporre» l’unità del proces-
so storico «nei suoi elementi». Gramsci voleva sottolineare la totalità circola-
re del rapporto, la «sintesi» dialettica:

non si può pensare un individuo “scuoiato” come il vero individuo; vero vorrebbe dir
morto, elemento non più attivo e operante ma oggetto da tavolo anatomico» (Quaderno 8,
§ 240).

Oltre la metafora, il «morto» indicava qui la «struttura», qualora non fos-


se stata considerata «in blocco» con le superstrutture, ma per sé, come
l’unico elemento «reale» e determinante la coscienza dell’uomo.
139

Un chiarimento importante si legge nel Quaderno 7, dove Gramsci spiegò


questa situazione in maniera chiara, affermando che «il concetto di blocco
storico» è «l’equivalente filosofico dello “spirito” nella filosofia crociana»:
«introdurre nel “blocco storico” – aggiunse – una attività dialettica e un pro-
cesso di distinzione non significa negarne l’unità reale» (Quaderno 7, §1). La
categoria di «blocco storico» indicava «l’unità reale» dello «spirito», il nesso
concreto al cui interno dovevano essere considerati, prendendoli «in blocco»
e «dialetticamente», gli elementi «distinti» della sintesi. Era, insomma, la vi-
sione gramsciana della «realtà», quella che emergeva dalla ripresa del lemma
di Sorel: ed essa corrispondeva al principio marxiano del «rovesciamento
della prassi».

2. L’autonomia della politica

Vi proporrò alcune riflessioni su questo concetto a partire da tre testi dei


quaderni:

1) Quaderno 13, §10, scritto dopo il maggio 1932, presumibilmente tra il


maggio e il dicembre.

2) Quaderno 8, §225, rielaborato nel Quaderno 10, nel paragrafo non nume-
rato sui Punti di riferimento.

3) Quaderno 8, §169, rielaborato nel Quaderno 11, §12.

Cominciamo dal primo testo (pp. 1568-1570). Gramsci inizia con il pro-
blema di Machiavelli, inteso come scopritore dell’autonomia della politica.

La quistione iniziale da porre e da risolvere in una trattazione sul Machiavelli è la qui-


stione della politica come scienza autonoma, cioè del posto che la scienza politica occupa
o deve occupare in una concezione del mondo sistematica (coerente e conseguente) – in
una filosofia della praxis –.

Ma il problema della distinzione del momento politico richiama immedia-


tamente la teoria crociana dei distinti. È solo nell’ottica crociana che può es-
sere inteso il problema dell’autonomia della politica: nell’ortodossia marxista
(per esempio in Bucharin) la politica è solo il riflesso della struttura, del rap-
porto fra le classi.

Il progresso fatto fare dal Croce, a questo proposito, agli studi sul Machiavelli e sulla
scienza politica, consiste precipuamente (come in altri campi dell’attività critica crociana)
nella dissoluzione di una serie di problemi falsi, inesistenti o male impostati. Il Croce si è
fondato sulla sua distinzione dei momenti dello Spirito e sull’affermazione di un momen-
to della pratica, di uno spirito pratico, autonomo e indipendente, sebbene legato circolar-
mente all’intera realtà per la dialettica dei distinti.
140

Ora il problema è capire come la tesi di Croce (l’unica, ripeto, in cui può
essere concepita l’autonomia della politica) può essere trascritta nella filoso-
fia della praxis, cioè nel marxismo teorico. Qui Gramsci non ha dubbi: il
rapporto di distinzione tra le forme dello spirito si trascrive nella relazione
reciproca fra le superstrutture. E ciò significa che Croce ha trascurato il fatto
che, oltre le superstrutture, vi è il rapporto che queste hanno con la struttura,
cioè il blocco storico.

In una filosofia della prassi la distinzione non sarà certo tra i momenti dello Spirito
assoluto, ma tra i gradi della soprastruttura.

Se le cose stanno così, il primo problema è capire la posizione della poli-


tica nel circolo delle superstrutture. Gramsci afferma che la politica rappre-
senta il primo momento, quello iniziale e più immediato (come l’intuizione
estetica nella filosofia di Croce).

In una filosofia della prassi la distinzione non sarà certo tra i momenti dello Spirito
assoluto, ma tra i gradi della soprastruttura e si tratterà pertanto di stabilire la posizione
dialettica dell’attività politica (e della scienza corrispondente) come determinato grado
superstrutturale: si potrà dire, come primo accenno e approssimazione, che l’attività poli-
tica è appunto il primo momento o primo grado, il momento in cui la superstruttura è an-
cora nella fase immediata di mera affermazione volontaria, indistinta ed elementare.

Dunque al centro della filosofia della praxis vi è il «il circolo dei gradi
della superstruttura», di cui la politica rappresenta il momento iniziale.

In che senso si può identificare la politica e la storia e quindi tutta la vita e la politica.
Come perciò tutto il sistema delle superstrutture possa concepirsi come distinzioni della
politica e quindi si giustifichi l’introduzione del concetto di distinzione in una filosofia
della prassi.

Qualcosa è chiaro, qualcosa no. Finora abbiamo trascurato un problema


essenziale, seguendo Croce nel suo stesso errore. Il problema fondamentale è
il rapporto tra questo circolo di distinti e la struttura, tra il momento soggetti-
vo e quello oggettivo. Questo era l’errore di Croce, che aveva dato una teoria
delle forme spirituali senza scorgere la loro relazione con la struttura oggetti-
va della realtà. In forma molto contratta ora Gramsci pone la questione. Leg-
gete queste righe con molta attenzione:

Ma si può parlare di dialettica dei distinti e come si può intendere il concetto di circo-
lo fra i gradi della superstruttura? Concetto di «blocco storico», cioè unità tra la natura e
lo spirito (struttura e superstruttura) unità dei contrari e dei distinti.

In forma contratta, ripeto, qui Gramsci dice la cosa essenziale. Il blocco


storico indica la relazione del circolo delle superstrutture con la realtà ogget-
tiva della struttura. Il blocco storico è «unità tra la natura e lo spirito». Ma
osservate la battuta conclusiva. Questa unità è «unità dei contrari e dei distin-
ti». Dunque è unità tra due logiche: la logica della struttura sono i contrari,
141

cioè l’opposizione dialettica; la logica delle superstrutture sono i distinti, cioè


le diverse forme dello spirito. Ancora: la struttura proietta la contraddizione
nelle forme spirituali (nelle ideologie).

3. La “dialettica addomesticata”

Consideriamo ora il secondo testo, il Quaderno 8, §225. Senza citarlo,


Gramsci torna al senso della Prefazione di Marx del 1859. Se le cose stanno
come abbiamo visto nel Quaderno 13, come si passa dalla contraddizione
della struttura alla sfera delle ideologie che, secondo Marx, è il luogo in cui
gli uomini diventano consapevoli della contraddizione e lo risolvono? Marx
aveva scritto:

le forme ideologiche, nel cui terreno gli uomini diventano consapevoli di questo con-
flitto e lo risolvono.

Qui Gramsci corregge, nel senso della filosofia della praxis, la stessa lo-
gica dialettica hegeliana. Ancora una volta, tra i due testi – quello degli Ap-
punti di filosofia e quello del Quaderno 10 – il più perspicuo è il primo.
Gramsci parla della «dialettica addomesticata», criticando Croce ma certa-
mente anche Hegel.

teoria della rivoluzione-restaurazione, una dialettica addomesticata, perché presuppo-


ne «meccanicamente» che l’antitesi debba essere conservata dalla tesi per non distruggere
il processo dialettico, che pertanto viene «preveduto» come ripetentesi meccanicamente
all’infinito. Invece nella storia reale l’antitesi tende a distruggere la tesi: il risultato è un
superamento, ma senza che si possa a priori «misurare» i colpi come in un «ring» di lotta
convenzionalmente regolamentata. Quanto più l’antitesi sviluppa se stessa implacabil-
mente, tanto più la tesi svilupperà se stessa, cioè dimostrerà tutte le sue possibilità di vita
(la posizione del Croce è come quella di Proudhon criticata nella Miseria della filosofia:
hegelismo addomesticato).

Gramsci vuole dire che gli opposti non presuppongono l’Aufhebung. La


sintesi non è il fondamento dell’opposizione. Nella storia reale, cioè nella
realtà, la tesi e l’antitesi non si risolvono, ma tendono a svilupparsi implaca-
bilmente, cioè nella propria parzialità. Il proletariato tenderà a distruggere la
borghesia, e viceversa. Questo conflitto non ha una soluzione oggettiva. La
prassi non si rovescia, l’opposizione si perpetua, se il proletariato non si co-
stituisce a soggetto, non compie praticamente quel rovesciamento. La sintesi
è imprevedibile, cioè affidata alla prassi.
Come vedete, se la struttura indica l’opposizione, la sintesi, il superamen-
to, è solo nella prassi soggettiva, cioè nella sfera della società civile e delle
superstrutture, nella costruzione di un soggetto che diventa capace di genera-
re la sintesi. Qui siamo oltre Croce, ma anche oltre Hegel (e direi oltre Marx).
Per questi autori non solo l’opposizione si risolve, ma è impensabile se non
nell’orizzonte della sua sintesi: il negativo è incluso nell’affermazione, come,
nella prima triade della logica di Hegel, il nulla nell’essere.
142

4. Il lavoratore e la coscienza

Arriviamo al terzo testo, quello più complesso, dove Gramsci “deduce”,


da questa situazione, il concetto-chiave dell’egemonia. Siamo veramente alla
radice del pensiero dei quaderni. Qui conviene tenere presenti entrambe le
stesure, il Quaderno 8, §169 e il Quaderno 11, §12, perché la rielaborazione
della seconda stesura è abbastanza radicale, guadagna in estensione ma perde
qualcosa in efficacia. Per esempio: nel Quaderno 8 il soggetto è definito «il
lavoratore medio», nel Quaderno 11 diventa «l’uomo attivo di massa». Ma in
generale è chiaro che Gramsci pensa alla situazione del proletariato.
Iniziamo dunque l’analisi. Gramsci segnala subito una contraddizione
nella situazione del proletario:

Il lavoratore medio opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di


questo suo operare-conoscere il mondo; la sua coscienza teorica anzi può essere «storica-
mente» in contrasto col suo operare.

Come vedete, l’osservazione è straordinariamente importante: tra prassi


(che qui significa «situazione oggettiva») e coscienza c’è un contrasto, una
opposizione. Nel Quaderno 11 il concetto è reso più chiaro:

L’uomo attivo di massa opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di
questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua co-
scienza teorica anzi può essere storicamente in contrasto col suo operare.

Questo non significa solo un contrasto tra prassi e teoria, tra situazione e
coscienza, ma una contraddizione acuta tra due coscienze che lacerano il pro-
letario. La prima coscienza è l’attualità della sua condizione, la seconda è
l’eredità del passato, la visione del mondo che ha ereditato: il senso comune.
Proseguiamo sul Quaderno 11:

Si può quasi dire che egli ha due coscienze teoriche (o una coscienza contraddittoria),
una implicita nel suo operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella
trasformazione pratica della realtà e una superficialmente esplicita o verbale che ha eredi-
tato dal passato e ha accolto senza critica.

La conseguenza di questa contraddizione può essere distruttiva. Il proleta-


rio viene ridotto all’inerzia, alla morte spirituale, viene messo fuori gioco da
questo contrasto di coscienze.

Tuttavia questa concezione «verbale» non è senza conseguenze: essa riannoda a un


gruppo sociale determinato, influisce nella condotta morale, nell’indirizzo della volontà,
in modo più o meno energico, che può giungere fino a un punto in cui la contradditorietà
della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce
uno stato di passività morale e politica.
143

Qui interviene il problema dell’egemonia. Si presti attenzione: nella co-


scienza del proletario, al suo interno, avviene una lotta di egemonie. Fin qui
è solo una lotta tra una visione dle mondo ereditata dal passato (il senso co-
mune) e una situazione, una visione del mondo progressiva solo implicita.
Ma la teoria della egemonia vuole appunto rendere esplicita questa situazio-
ne, trasformarla in una chiara coscienza e in una filosofia. Essa vuole appun-
to riunificare la teoria e la prassi.

La comprensione critica di se stessi avviene quindi attraverso una lotta di «egemonie»


politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell’etica, poi della politica, per
giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale. La coscienza di
essere parte di una determinata forza egemonica (cioè la coscienza politica) è la prima
fase per una ulteriore e progressiva autocoscienza in cui teoria e pratica finalmente si uni-
ficano. Anche l’unità di teoria e pratica non è quindi un dato di fatto meccanico, ma un
divenire storico, che ha la sua fase elementare e primitiva nel senso di «distinzione», di
«distacco», di indipendenza appena istintivo, e progredisce fino al possesso reale e com-
pleto di una concezione del mondo coerente e unitaria. Ecco perché è da mettere in rilievo
come lo sviluppo politico del concetto di egemonia rappresenta un grande progresso filo-
sofico oltre che politico-pratico, perché necessariamente coinvolge e suppone una unità
intellettuale e una etica conforme a una concezione del reale che ha superato il senso co-
mune ed è diventata, sia pure entro limiti ancora ristretti, critica.

Come vedete, siamo arrivati al nucleo essenziale della teoria della ege-
monia. Ma Gramsci ne trae subito tre conseguenze capitali. In primo luogo
in questa concezione è implicita una critica radicale dell’ortodossia, una
chiara indicazione dell’errore di fondo del marxismo della Terza Internazio-
nale. Il difetto fondamentale di questo marxismo è di avere subordinato la
teoria alla prassi, di non avere visto che oltre la situazione del proletariato è
necessaria una filosofia, cioè sviluppare il momento teorico della coscienza.

Tuttavia, nei più recenti sviluppi della filosofia della praxis, l’approfondimento del
concetto di unità della teoria e della pratica non è ancora che ad una fase iniziale: riman-
gono ancora dei residui di meccanicismo, poiché si parla di teoria come «complemento»,
«accessorio» della pratica, di teoria come ancella della pratica.

E poco dopo:

L’insistere sull’elemento «pratico» del nesso teoria-pratica, dopo aver scisso, separato
e non solo distinto i due elementi (operazione appunto meramente meccanica e conven-
zionale) significa che si attraversa una fase storica relativamente primitiva, una fase anco-
ra economico-corporativa, in cui si trasforma quantitativamente il quadro generale della
«struttura» e la qualità-superstruttura adeguata è in via di sorgere, ma non è ancora orga-
nicamente formata.

Il secondo aspetto, che discende da questa critica, è la quistione degli in-


tellettuali, come nodo centrale del nuovo marxismo. Perché quella contraddi-
zione sia sciolta, la costituzione della soggettività deve partire dalla creazio-
ne di una élite di intellettuali, che conservi un rapporto organico con la mas-
sa.
144

Pare giusto che anche questa quistione debba essere impostata storicamente, e cioè
come un aspetto della quistione politica degli intellettuali.
Autocoscienza critica significa storicamente e politicamente creazione di una élite di
intellettuali: una massa umana non si «distingue» e non diventa indipendente «per sé»
senza organizzarsi (in senso lato) e non c’è organizzazione senza intellettuali, cioè senza
organizzatori e dirigenti, cioè senza che l’aspetto teorico del nesso teoria-pratica si distin-
gua concretamente in uno strato di persone «specializzate» nell’elaborazione concettuale
e filosofica. Ma questo processo di creazione degli intellettuali è lungo, difficile, pieno di
contraddizioni, di avanzate e di ritirate, di sbandamenti e di riaggruppamenti, in cui la
«fedeltà» della massa (e la fedeltà e la disciplina sono inizialmente la forma che assume
l’adesione della massa e la sua collaborazione allo sviluppo dell’intero fenomeno cultura-
le) è messa talvolta a dura prova. Il processo di sviluppo è legato a una dialettica intellet-
tuali-massa; lo strato degli intellettuali si sviluppa quantitativamente e qualitativamente,
ma ogni sbalzo verso una nuova «ampiezza» e complessità dello strato degli intellettuali è
legato a un movimento analogo della massa di semplici, che si innalza verso livelli supe-
riori di cultura e allarga simultaneamente la sua cerchia di influenza, con punte individuali
o anche di gruppi più o meno importanti verso lo strato degli intellettuali specializzati.
Nel processo però si ripetono continuamente dei momenti in cui tra massa e intellettuali
(o certi di essi, o un gruppo di essi) si forma un distacco, una perdita di contatto, quindi
l’impressione di «accessorio», di complementare, di subordinato.

Arriviamo così al terzo aspetto che la questione dell’egemonia assume.


L’intellettuale, per essere organico alla massa, non può essere un individuo,
ma deve essere un soggetto collettivo, capace di elaborare una visione del
mondo adeguata alla posizione del lavoratore. Ma nella democrazia moderna
questo soggetto esiste già, sono i partiti politici, che dunque diventano, nella
concezione di Gramsci, intellettuali collettivi, forme proprie del conflitto in
una democrazia matura. Leggiamo ancora dal Quaderno 11.

È da porre in rilievo l’importanza e il significato che hanno, nel mondo moderno, i


partiti politici nell’elaborazione e diffusione delle concezioni del mondo in quanto essen-
zialmente elaborano l’etica e la politica conforme ad esse, cioè funzionano quasi da «spe-
rimentatori» storici di esse concezioni. I partiti selezionano individualmente la massa ope-
rante e la selezione avviene sia nel campo pratico che in quello teorico congiuntamente,
con un rapporto tanto più stretto tra teoria e pratica quanto più la concezione è vitalmente
e radicalmente innovatrice e antagonistica dei vecchi modi di pensare. Perciò si può dire
che i partiti sono gli elaboratori delle nuove intellettualità integrali e totalitarie, cioè il
crogiolo dell’unificazione di teoria e pratica intesa come processo storico reale e si capi-
sce come sia necessaria la formazione per adesione individuale e non del tipo «laburista»
perché, se si tratta di dirigere organicamente «tutta la massa economicamente attiva» si
tratta di dirigerla non secondo vecchi schemi ma innovando, e l’innovazione non può di-
ventare di massa, nei suoi primi stadi, se non per il tramite di una élite in cui la concezio-
ne implicita nella umana attività sia già diventata in una certa misura coscienza attuale
coerente e sistematica e volontà precisa e decisa.

Il percorso, come vedete, è stringente. Dalla situazione del lavoratore (per


sé inerte) sorge la necessità della costruzione di una teoria adeguata; la teoria
richiama la funzione degli intellettuali; ma intellettuali collettivi sono i parti-
145

ti politici, che assolvono dunque il compito di costruttori (teorici e pratici) di


nuove visioni del mondo.
146

Lezione 15

(Lunedì 27 aprile 2020)

1. Blocco storico e traducibilità

Con la teoria del blocco storico abbiamo affrontato un nodo filosofico


molto importante nella riflessione di Gramsci. Se consideriamo le tre serie di
Appunti di filosofia, il blocco storico rappresenta tuttavia solo una parte della
elaborazione teoretica dei quaderni. Il problema della dialettica è affrontato
qui in relazione al rapporto fra struttura e superstrutture: possiamo dire che
Gramsci ha conferito una nuova forma al concetto di rovesciamento della
praxis enucleato nella terza tesi su Feuerbach, ripensandolo con il lessico
della Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica (struttura-
superstrutture). In questa riflessione ha innestato la filosofia di Croce come
chiave per descrivere il movimento delle superstrutture, della coscienza: co-
me abbiamo visto l’edificio della sovrastruttura, di cui aveva parlato Marx,
diventa un circolo di forme distinte, dove l’attività politica rappresenta il
cominciamento immediato e più semplice. Potremmo anche dire che Gram-
sci ha unificato il problema di Gentile (la praxis) e quello di Croce (il circolo
omogeneo delle categorie). Ma le filosofie idealiste sono innestate nel tronco
del Marx del 1859: le superstrutture trovano una genesi nella struttura e,
d’altra parte, la rovesciano, nella logica circolare del blocco storico. Così il
problema della dialettica è incontrato da Gramsci non solo al livello della
praxis (Gentile) o al livello delle categorie (Croce), ma nel rapporto fra strut-
tura e superstrutture, tra oggettività e coscienza. La struttura è il luogo dei
contrari, dell’opposizione e della contraddizione; le superstrutture sono il
luogo dei distinti.
Questo discorso ci ha condotti all’analisi del § 169 del Quaderno 8. Qui il
rovesciamento della praxis si precisa nel concetto di egemonia. La contraddi-
zione della struttura penetra infatti nella situazione del lavoratore: l’operaio è,
al tempo stesso, praxis progressiva e coscienza regressiva, cioè senso comu-
ne ereditato. Come aveva scritto Lenin nel Che fare, «l’ideologia borghese
… s’impone all’operaio». Nel lavoratore c’è «una lotta di egemonie». Il
compito del marxismo teorico è elaborare una teoria adeguata alla prassi, la
coscienza. Ma questo compito esige la filosofia, dunque le figure
dell’intellettuale e del partito politico. Solo l’elaborazione della superstruttu-
ra permette il rovesciamento della praxis, ormai concepito come riforma in-
tellettuale e morale.
Il blocco storico, considerato come circolo dell’oggetto e del soggetto,
della quantità e della qualità, esaurice l’intera sfera della realtà. Se preferite
dirlo con le parole della filosofia tradizionale, è l’equivalente dello spirito o
147

dell’essere. Negli Appunti di filosofia si trova però un secondo aspetto che


chiarisce la concezione gramsciana della realtà: quello della traducibilità, poi
rielaborato e sistemato in un paragrafo specifico del Quaderno 11. Come ora
vedremo, la traducibilità indica, sotto il profilo filosofico, il ritmo generativo
del concetto universale, la dialettica tra il senso globale della storia e la fun-
zione soggettiva delle nazioni e dei sistemi filosofici. Anche qui si determina
un circolo dialettico, uno scambio continuo e reciproco fra universale e parti-
colare.

2. Fra Trockij e Stalin

Anche nel caso della traducibilità il metodo di Gramsci è estremamente


complesso. Il dialogo con Marx e con il marxismo del suo tempo è mediato
da numerose fonti. Di nuovo Gramsci innesta in Marx categorie che proven-
gono dalla filosofia italiana. Lo sfondo della riflessione, però, è il grande
problema del movimento comunista, espresso dopo l’autunno 1924 dalla di-
sputa sul trockismo. Con le Lezioni sull’ottobre Trockij aveva ribadito il
concetto di rivoluzione permanente, che include l’idea di una rivoluzione
mondiale, fondata sull’asse tra rivoluzione sovietica e rivoluzione europea.
Per salvare la rivoluzione russa non basta l’alleanza tra operai e contadini
(l’egemonia), ma occorre il sostegno di una rivoluzione in Germania, in In-
ghilterra e così via. Il discorso di Trockij includeva una critica personale a
Zinoviev e Kamenev, dunque la lotta per l’eredità di Lenin. La lotta contro
Trockij vide unite tutte le anime del Pcr che poi si divideranno. Ma via via
diede luogo alla tesi di Stalin del socialismo in un solo paese, alla teoria
dell’anello debole, della bolscevizzazione dei partiti europei. Insomma al
centro della disputa era la dimensione internazionale della rivoluzione, il
nesso nazionale-internazionale. Solo dopo il 1929 questo nesso sarà tagliato
da Stalin con la costruzione della potenza sovietica, l’industrializzazione for-
zata, il congedo dell’egemonia, la burocrazia e la tecnica. Ma Gramsci ha
ben presente che il nodo della rivoluzione comunista è questo rapporto tra
sviluppo nazionale e internazionale.
Di questo abbiamo parlato nelle lezioni precedenti, a cui vi rinvio. Ma ora
dobbiamo tenere presente che la teoria della traducibilità è anche la risposta
di Gramsci al grande dilemma del comunismo mondiale tra rivoluzione
mondiale e rivoluzioni nazionali. Nella visione di Gramsci i due momenti
non possono essere separati, sia la posizione di Stalin sia quella di Trockij
appaiono unilaterali e non pienamente dialettiche.

3. Marx come fonte della traducibilità

Con la teoria della traducibilità, il ritorno a Marx è particolarmente forte.


Possiamo ricordare due testi fondamentali. Il primo testo è un passaggio-
chiave del Manifesto. Marx aveva scritto così:
148

Si è rimproverato ai comunisti ch'essi vorrebbero abolire la patria, la nazionalità.


Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la
prima cosa che il proletario deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a
classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch'esso ancora nazionale, seppure
non certo nel senso della borghesia.
Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più
già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale,
con l'uniformità della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni d'esistenza.
Il dominio del proletariato li farà scomparire ancor di più. Una delle prime condizioni
della sua emancipazione è l'azione unita, per lo meno dei paesi civili.
Lo sfruttamento di una nazione da parte di un'altra viene abolito nella stessa misura
che viene abolito lo sfruttamento di un individuo da parte di un altro.
Con l'antagonismo delle classi all'interno delle nazioni scompare la posizione di reci-
proca ostilità fra le nazioni.

Die Arbeiter haben kein Vaterland. Man kann ihnen nicht nehmen, was sie nicht ha-
ben. Indem das Proletariat zunächst sich die politische Herrschaft erobern, sich zur natio-
nalen Klasse erheben, sich selbst als Nation konstituieren muß, ist es selbst noch national,
wenn auch keineswegs im Sinne der Bourgeoisie.

Come vedete, il passo di Marx sembra avere qualcosa di paradossale: Die


Arbeiter haben kein Vaterland, i lavoratori non hanno patria. Ma subito dopo
Marx aggiunge che il proletariato deve sich die politische Herrschaft erobern,
sich zur nationalen Klasse erheben, cioè deve diventare classe dirigente,
conquistare il dominio politico ed elevarsi a classe nazionale, in un processo
di superamento delle nazionalità, di progressiva globalizzazione. In questo
brano del Manifesto non solo è già implicita la futura polemica con
l’anarchismo di Bakunin (il quale non riconoscerà mai che i proletari debba-
no identificarsi con lo Stato nazionale, farsi classe dirigente), ma è indicata la
visione di Marx del rapporto nazionale-internazionale. È come se Marx
scandisse tre passaggi: in linea di principio, gli operai non hanno patrie, la
loro patria è il mondo; però in linea di fatto essi si elevano a classe nazionale,
si identificano, per così dire, con la loro patria; ma le patrie, conquistate
dall’azione proletaria, progressivamente si superano in un internazionalismo
compiuto, in un processo globale di superamento delle nazioni.
Ma veniamo al secondo testo di Marx ed Engels che sollecitò la riflessio-
ne di Gramsci e che Gramsci tradusse nel Q7. Parliamo della Sacra famiglia.
Nella Glossa marginale critica n. 3 del capitolo quarto si leggevano infatti
queste parole, su cui Gramsci tornò ripetutamente, assumendole come il mo-
dello della traducibilità:

Se il signor Edgar [Bauer] confronta un momento l’uguaglianza francese con la “auto-


coscienza„ tedesca, s’accorgerà che l'ultimo principio esprime alla tedesca, cioè in idee
astratte, ciò che il primo principio dice alla francese, cioè nella lingua della politica e della
osservazione ragionevole. L’autocoscienza è l’uguaglianza dell’uomo con se stesso nel
pensiero puro. L’uguaglianza è la coscienza che ha l’uomo di se stesso come elemento
della pratica, cioè, per conseguenza, la coscienza che l’uomo ha degli altri uomini come
uguali a lui e l’agire dell’uomo con gli altri uomini, come con suoi eguali. L’uguaglianza
149

è l’espressione francese della unità della sostanza umana, della coscienza della specie e
dell’agire della specie umana, della pratica identità dell’uomo con l’uomo, cioè, insomma,
del rapporto sociale od umano dell’uomo con l'uomo. Come, perciò, la critica demolitrice
in Germania, prima che fosse assurta in Feuerbach allo studio dell’uomo materiale, aveva
tentato di risolvere tutto il determinato e tutta l’esistenza mercè il principio della “auto-
coscienza„ così del pari la critica demolitrice in Francia l’aveva tentato col principio
dell’uguaglianza.

Marx indicava una analogia e una reciproca conversione fra l’uguaglianza


pratica francese e l’autocoscienza speculativa tedesca. Dicono la stessa cosa
ma in due linguaggi differenti: i francesi nel linguaggio della prassi, i tede-
schi in quello della pura teoresi. Come vedete, la conversione presuppone un
concetto unico, universale; e avviene tra spinte nazionali (francesi, tedeschi)
a cui corrispondono diversi approcci filosofici (la prassi, l’autocoscienza).
Gramsci fu subito colpito da questo rapporto stabilito da Marx fra lingua
francese e lingua tedesca. Fin dal Quaderno 1 (§ 44) ne fece l’oggetto della
sua meditazione, a proposito del giacobinismo francese. Nel Quaderno 8 ne
rintracciò la fonte nelle lezioni di Hegel sulla storia della filosofia:

Nelle prime lezioni (di storia della filosofia) Hegel dice che «la filosofia del Kant, del
Fichte e dello Schelling contiene in forma di pensiero la rivoluzione, alla quale lo spirito
negli ultimi tempi ha progredito in Germania»; in una grande epoca cioè della storia uni-
versale, a cui «solo due popoli hanno preso parte, i Tedeschi e i Francesi, per opposti che
siano tra loro, anzi appunto perché opposti»; sicché, laddove il nuovo principio in Germa-
nia «ha fatto irruzione come spirito e concetto» in Francia invece si è esplicato «come
realtà effettuale» («Vorles. über die Gesch. d. Philos., 2 ed., Berlino, 1844, III, 485). Nel-
le lezioni di filosofia della storia, Hegel spiega che il principio della volontà formale, del-
la libertà astratta, secondo cui «la semplice unità dell’autocoscienza, l’Io, è la libertà asso-
lutamente indipendente e la fonte di tutte le determinazioni universali», «rimase presso i
Tedeschi una tranquilla teoria, ma i Francesi vollero eseguirlo praticamente» (Vorles.
über die Philosophie der Gesch., 3 ed., Berlino, 1848, pp. 531-2). (Questo passo di Hegel
mi pare sia appunto il riferimento letterale del Marx, dove nella Sacra Famiglia accenna a
Proudhon contro il Bauer. Ma esso mi pare assai più importante ancora come «fonte» del
pensiero espresso nelle Tesi su Feuerbach che i filosofi hanno spiegato il mondo e si tratta
ora di mutarlo, cioè che la filosofia deve diventare «politica», «pratica», per continuare ad
essere filosofia: la «fonte» per la teoria dell’unità di teoria e di pratica). (pp. 1066-1067)

Qui Gramsci dice tre cose importanti:

1) Marx aveva ripreso da Hegel il suo principio. Questo principio esprime


dunque il senso fondamentale della dialettica.

2) La traducibilità spiega la tesi XI su Feuerbach. Questo collegamento con


le Tesi è essenziale. La trasformazione della teoria in praxis deve appunto
essere letta come una traduzione, proprio nel senso in cui francesi e tedeschi
traducono teoria e prassi, filosofia e politica.

3) E indica dunque concretamente l’unità di teoria e prassi.


150

4. La fonte di Lenin

Il punto di partenza è dunque questa lettura di Marx. Ma Gramsci trovò


conferme e sviluppi in almeno due testi di Lenin. È molto importante ricor-
darli. In primo luogo, ritrovò il senso della posizione di Marx in un discorso
di Lenin al quarto Congresso dell’Internazionale comunista del 1922 (a cui
egli stesso aveva partecipato a Mosca), quando il leader bolscevico aveva
criticato la risoluzione del terzo Congresso sulle questioni organizzative,
considerandola «troppo russa», «interamente permeata di spirito russo». I
partiti comunisti europei avevano adottato la posizione russa, ma non erano
stati capaci di tradurla nella loro cultura nazionale. Questa traduzione esige
uno studio sistematico, una ricostruzione attenta della cultura di un popolo.
Lenin aveva detto così:

Nel 1921, al terzo congresso, abbiamo votato una risoluzione sulla struttura organiz-
zativa dei partiti comunisti, sui metodi e sul contenuto del loro lavoro. La risoluzione è
eccellente, ma è quasi interamente russa, cioè quasi interamente ispirata alle condizioni
russe. Questo è il suo lato buono, ma anche il suo lato cattivo. Cattivo, perché sono con-
vinto che quasi nessuno straniero potrà leggerla: ho riletto la risoluzione ancora una volta,
prima di dire questo. In primo luogo è troppo lunga: contiene 50 o più paragrafi. Gli stra-
nieri, di solito, non possono leggere cose simili. In secondo luogo, anche se la leggeranno,
nessuno degli stranieri la comprenderà, appunto perché è troppo russa. Non perché sia
scritta in russo, essa è tradotta ottimamente in tutte le lingue, Ma perché è interamente
permeata di spirito russo. In terzo luogo, se, anche in via di eccezione, qualche straniero la
comprenderà, non potrà applicarla. Questo è il suo terzo difetto. Ho parlato con alcuni
delegati che sono venuti qui, e spero, nel corso ulteriore di questo congresso, al quale mi è
purtroppo impossibile partecipare, di poter parlare ampiamente con un gran numero di
delegati dei vari paesi. Ho l’impressione che abbiamo commesso un grande errore con
quella risoluzione, e cioè che ci siamo noi stessi tagliata la tagliata la strada verso ulteriori
successi. Come ho già detto, la risoluzione è stesa molto bene e sono disposto a mettere la
firma sotto i suoi 50 e più paragrafi. Ma noi non abbiamo capito come si deve mettere la
nostra esperienza russa alla portata degli stranieri. Tutto ciò che dice la risoluzione, è ri-
masto lettera morta. Se non comprenderemo questo, non potremo avanzare oltre. Ritengo
che per noi tutti, tanto per i compagni russi che per i compagni stranieri, l’essenziale sia
questo: dopo cinque anni di rivoluzione russa, dobbiamo studiare. Soltanto adesso abbia-
mo la possibilità di studiare. Non so per quanto tempo questa possibilità potrà durare. Non
so per quanto tempo le potenze capitalistiche ci lasceranno la possibilità di studiare tran-
quillamente. Ma ogni momento libero dalla lotta, dalla guerra, dobbiamo utilizzarlo per lo
studio, e per di più cominciando dal principio. Tutto il partito e tutti gli strati della popo-
lazione in Russia lo dimostrano con la loro sete di sapere. Questa aspirazione allo studio
dimostra che oggi il compito più importante per noi è: studiare, e studiare; ma anche i
compagni stranieri debbono studiare; non come studiamo noi, cioè non per imparare a
leggere, a scrivere e a comprendere ciò che si legge, della qualcosa abbiamo ancora biso-
gno. […] La risoluzione è troppo russa: riflette l’esperienza russa e perciò è assolutamente
incomprensibile agli stranieri, i quali non possono accontentarsi di appenderla in un ango-
lo, come un’icona, e di pregare davanti a essa. Così non si può ottenere nulla. I compagni
stranieri debbono digerire un buon pezzo di esperienza russa. Come questo avverrà, non
so.
151

Riflettete su questo testo di Lenin, al di là della occasione politica. Esso


dice qualcosa di rilevante sotto il profilo teorico. Il grave errore commesso
dal Comintern è di non avere tenuto presente che gli europei hanno una cul-
tura diversa da quella russa: non è solo una questione di lingue, di traduzioni,
ma proprio di culture nazionali. Per “tradurre” l’esperienza dei bolscevichi,
non basta fare la versione da una lingua all’altra. È necessario uno studio del-
la propria cultura nazionale, è necessario ricreare nel contesto di una nazione
diversa gli stessi princìpi che in Russia hanno ispirato la rivoluzione. Se la
sostanza rivoluzionaria è la stessa, i partiti europei devono elaborarla in ma-
niera diversa, in una forma propria.
Ma un secondo testo di Lenin intervenne nella riflessione di Gramsci. Si
tratta del celebre articolo su Tre fonti e tre parti integranti del marxismo, che
Lenin pubblicò il 3 marzo 1913 in occasione del trentesimo anniversario del-
la morte di Marx. Lenin aveva indicato tre fonti del pensiero di Marx: il ma-
terialismo, l’economia classica, le teorie socialiste. Marx, secondo Lenin,
aveva ripreso queste fonti e le aveva trasformate in una dottrina nuova, le
aveva appunto integrate, attraverso la teoria della lotta di classe.
Gramsci assunse questo discorso di Lenin, ma lo modificò in profondità.
Non solo per la critica del materialismo (una posizione che appartiene a Le-
nin ma non a Gramsci), ma perché le tre fonti diventarono i tre momenti di
una reciproca traducibilità, tre linguaggi che si convertono l’uno nell’altro.
La questione trova un chiarimento nel Quaderno 11, §65. Qui Gramsci chia-
risce due aspetti fondamentali della traducibilità. In primo luogo i gradi della
traducibilità sono le tre fonti di cui aveva parlato Lenin nell’articolo del 1913
Tre fonti e tre parti integranti del marxismo: filosofia, politica, economia.
Ma queste tre fonti costituiscono un circolo omogeneo, cioè si traducono re-
ciprocamente (ecco la novità rispetto all’articolo di Lenin). Come vedete, la
teoria della traducibilità ci riporta al nodo fondamentle del blocco storico:

Filosofia‑politica‑economia. Se queste tre attività sono gli elementi costitutivi neces-


sari di una stessa concezione del mondo, necessariamente deve esserci, nei loro principii
teorici, convertibilità da una all’altra, traduzione reciproca nel proprio specifico linguag-
gio di ogni elemento costitutivo: uno è implicito nell’altro, e tutti insieme formano un cir-
colo omogeneo (cfr le note precedenti sulla traducibilità reciproca dei linguaggi scientifi-
ci).

5. Le fonti italiane

Marx e Lenin sono dunque i punti di partenza per la teoria della traducibi-
lità. Ma certamente Gramsci riempì queste tesi con altri elementi che prove-
nivano soprattutto dalla filosofia italiana. In primo luogo tornò alla teoria
della circolazione del pensiero europeo di Bertrando Spaventa. Spaventa è
probabilmente il filosofo italiano più importante della seconda metà dell’800
per almeno tre ragioni: 1) la riforma della dialettica e l’inserzione dello hege-
lismo in Italia; 2) il confronto con il positivismo, almeno dal 1868 (lettera a
152

De Meis sul paolottismo); 3) la teoria della circolazione del pensiero europeo.


Insieme alla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis (1870-
1871), rinnovò profondamente l’immagine della cultura e della filosofia ita-
liana.
In modo sintetico ed efficace, la teoria della «circolazione» venne definita
nelle due prolusioni che Spaventa pronunziò a Bologna il 10 maggio del
1860 e soprattutto a Napoli nel novembre 1861. Nella prolusione napoletana
emergevano i due presupposti principali della sua concezione, che la distin-
guevano nettamente dalla tradizione precedente: in primo luogo la visione
hegeliana e dialettica della storia della filosofia, per cui questa storia delinea
la formazione progressiva del concetto, che non si costituisce in una nazione
particolare ma – circolarmente, appunto – attraverso l’evoluzione di tutte le
nazioni: per cui non c’è, spiegava Spaventa, una filosofia inglese, francese,
italiana o tedesca, ma solo una filosofia europea; in secondo luogo, un gran-
de peso assumeva in Spaventa il principio della modernità, che consentiva
anzi tutto di situare il Rinascimento italiano in un’altra prospettiva. In so-
stanza, nella prolusione Spaventa negava recisamente l’esistenza di una filo-
sofia nazionale, che gli sembrava piuttosto un carattere del pensiero antico,
degli Indiani o dei Greci: nella modernità, spiegava, esiste solo una filosofia
europea, sovranazionale, di cui le espressioni nazionali costituiscono delle
«stazioni», dei momenti. Così, la peculiarità della tradizione italiana veniva
riconosciuta nella forma di un «ingegno precursore», come nazione precorri-
trice delle grandi conquiste del pensiero moderno. Questo valeva per Gior-
dano Bruno, che anticipava Spinoza; per Tommaso Campanella, che richia-
mava Cartesio, per Bernardino Telesio che era legato a Bacone e Locke. E
valeva, almeno da un certo momento in poi, per i i più recenti filosofi italiani,
per Galluppi, per Rosmini e soprattutto per Gioberti, sempre più avvicinato
alla filosofia di Hegel. Questo modo di concepire la storia della filosofia si
legava, naturalmente, agli esiti più importanti della speculazione di Spaventa,
cioè al suo tentativo di una riforma della dialettica hegeliana: se l’ingegno
italiano era stato sempre «precursore», anche in questo caso, anche nel pre-
sente, si avviava ad anticipare la filosofia del futuro, cioè la filosofia post-
hegeliana.
Si presti attenzione. Non esiste dunque, per Spaventa, una filosofia na-
zionale. Ma le nazioni hanno pur sempre una funzione fondamentale nella
definizione del concetto. Lo spirito, il concetto, l’universale non cade dal cie-
lo, ma sorge organicamente dalla terra, dalla storia, dal movimento reciproco
delle nazioni, dal circolare che le filosofie nazionali fanno l’una con l’altra.
Gramsci dirà: dalla traduzione reciproca delle culture nazionali.

6. Antonio Labriola

La posizione di Spaventa penetrò profondamente nel marxismo italiano


attraverso Antonio Labriola. Labriola non dimenticò mai la lezione di Spa-
venta, di cui era stato allievo devoto all’Università di Napoli. Non solo, ma si
153

trovò a Napoli proprio nel 1861, quando Spaventa aveva dettato quella pro-
lusione. Scoperto il socialismo e il marxismo, Labriola tornerà con vigore
alla lezione di Spaventa, per entrambi gli aspetti principali che abbiamo se-
gnalato: la riforma della dialettica (praxis), la circolazione del pensiero euro-
peo. L’idea che il pensiero sia il grande prevaricatore dell’essere diventerà il
ritmo stesso della praxis: il lavoro umano, non più il pensare, sarà concepito
come il prevaricatore dell’essere naturale e come il principio della storicità
umana e del progresso. Ma altrettanto importante è il tema della circolazione,
che Labriola, nel terzo saggio, proverà a rileggere in senso marxista. Nella
riflessione di Labriola il problema della circolazione diventa quello
dell’interdipendenza raggiunta dalla società europea nel secolo XIX e la
“stazione” nazionale italiana viene declinata con le categorie della storia atti-
va e passiva (che in Gramsci diventeranno le rivoluzioni passive). Leggiamo
questo passo del terzo saggio:

In che veramente consiste questo rinascimento d'Italia, e che aspettativa può dar di sé,
a quelli che guardino la generalità del progresso umano, senza pregiudizii e senza precon-
cetti? Per tacere delle grandi difficoltà che c'è a trattare, con intenti obiettivi, e con criterii
non desunti dai soli impulsi della personale opinione, la storia attuale di qualunque paese;
nel caso speciale d'Italia bisognerebbe risalire fino al secolo XVI, quando l'iniziale svi-
luppo dell'epoca capitalistica - che qui avea sede principale - fu spostato dal Mediterra-
neo. Bisognerebbe arrivare, attraverso alla storia della successiva decadenza, alle premes-
se positive e negative, interne ed esterne, delle presenti condizioni d'Italia. Non occorre io
dica che le mie forze sarebbero impari all'impresa; perché non avrei la più lontana tenta-
zione di misurarmici, a proposito e nella occasione di un discorso familiare, come è que-
sto. Chi un simile studio sapesse concretare in un libro, potrebbe dire d'aver concorso ad
esprimere, in forma riflessa, la presente situazione, e l'attuale coscienza degl'italiani.

In questo brano, come poi, in maniera più estesa, nel quarto saggio po-
stumo (Da un secolo all’altro), Labriola ripensava la circolazione di Spaven-
ta come sviluppo interdipendente delle nazioni, in un quadro teorico non più
speculativo ma propriamente marxista.

7. Croce e il pragmatismo

Se pensate che Labriola era stato il maestro di Benedetto Croce, com-


prendete subito perché la teoria della traducibilità riguardi anche Croce. Ab-
biamo già osservato che Gramsci aveva portato particolare attenzione alla
teoria crociana del circolo delle forme distinte. Croce aveva conseguito que-
sta posizione, intorno al 1907, superando la precedente tesi dei gradi spiri-
tuali. Nella Filosofia della pratica aveva concepito il rapporto fra teoria e
pratica come un circolo: possiamo anche dire, usando il lessico gramsciano,
come una traduzione reciproca delle due sfere, dove il giudizio individuale è
la base della volizione pratica (che appunto traduce la teoria in prassi) e,
d’altra parte, la prassi costituisce l’oggetto del giudizio (che dunque traduce
in termini teoretici l’opera della prassi).
154

Anche nella filosofia di Croce, insomma, la prassi traduce nell’azione la


conoscenza teoretica; così come la teoria traduce nel linguaggio dell’arte (in-
tuizione) e della filosofia (concetto) quello che la prassi ha generato.
Inoltre entrarono nella riflessione di Gramsci problemi del pragmatismo
italiano, soprattutto Giovanni Vailati, per un saggio su Il linguaggio come
ostacolo alla eliminazione di contrasti illusori, dove Vailati aveva segnalato
i fraintendimenti e gli errori (cioè le discrepanze) che accompagnavano la
traduzione di un concetto da una lingua all’altra.

8. La definizione della traducibilità nel Quaderno 7

Gramsci trasse da tutto questo materiale la sua teoria della traducibilità.


Ne offrì la definizione più precisa in apertura della seconda serie degli
Appunti di filosofia, nel Quaderno 7, dove scrisse queste parole:

il principio della traducibilità reciproca è un elemento “critico” inerente al materiali-


smo storico, in quanto si presuppone e si postula che una data fase della civiltà ha una
«fondamentalmente identica» espressione culturale e filosofica, anche se l’espressione ha
un linguaggio diverso, data dalla tradizione particolare di ciascuna «nazione» o di ogni
sistema filosofico (p. 851).

Il «principio» postula l’esistenza di «una “fondamentalmente identica”


espressione culturale e filosofica», relativa a una data «fase della civiltà»,
ossia, come si legge altrove, «una stessa concezione del mondo», rispetto
a cui i «principii teorici» appaiono reciprocamente «convertibili», arri-
vando «tutti insieme» a costituire un «circolo omogeneo» (v. il Quaderno
4, p. 472).
Si presti attenzione, dunque, alla complessità di questo concetto, che pos-
siao schematizzare così:

1) In primo luogo vi è la Wirklichkeit, la fase della civiltà fondamentalmente


identica. Questo discorso avrà uno sviluppo essenziale nel confronto con
Machiavelli, nel rapporto tra stato nazionale e cosmopolitismo moderno.

2) In secondo luogo, vi sono le spinte nazionali, cioè il fatto che le diverse


forme si incarnano nella vicenda storica delle nazioni.

3) In terzo luogo vi è il rapporto tra le forme del conoscere, intese secondo il


principio della reciproca traducibilità: in particolare la convertibilità della
teoria e della prassi, quindi il senso della undicesima tesi di Marx.

4) Infine c’è il fraintendimento della traduzione, per cui, nel tradurre la me-
desima fase della civiltà, se ne mutano i termini, a seconda della situazione
storica e del genio nazionale. La traduzione è dunque anche principio di pro-
155

gresso, nel senso che ciascuna spinta nazionale aggiunge qualcosa di nuovo,
contribuisce alla formazione di quella «“fondamentalmente identica”
espressione culturale e filosofica».

9. Il circolo omogeneo delle tre fonti del marxismo teorico

La questione trova un chiarimento ulteriore nel § 65 del Quaderno 11, che


rielabora una nota del Quaderno 4. Qui Gramsci chiarisce due aspetti fondamen-
tali della traducibilità. In primo luogo (è un brano che abbiamo già citato, ma che
conviene qui ripetere e tenere presente) i gradi della traducibilità sono le tre fonti
di cui aveva parlato Lenin nell’articolo del 1913 Tre fonti e tre parti integranti
del marxismo: filosofia, politica, economia. Ma queste tre fonti costituiscono un
circolo omogeneo, cioè si traducono reciprocamente:

Filosofia‑politica‑economia. Se queste tre attività sono gli elementi costitutivi neces-


sari di una stessa concezione del mondo, necessariamente deve esserci, nei loro principii
teorici, convertibilità da una all’altra, traduzione reciproca nel proprio specifico linguag-
gio di ogni elemento costitutivo: uno è implicito nell’altro, e tutti insieme formano un cir-
colo omogeneo (cfr le precedenti sulla traducibilità reciproca dei linguaggi scientifici).

In secondo luogo, Gramsci indica uno svolgimento della teoria, che ri-
guarda lo stesso Lenin. Nel circolo omogeneo accade che la forma sia impli-
cita in un’altra forma. Facciamo degli esempi. Il politico scrive un trattato di
filosofia, ma la sua vera filosofia (quella che riprende il senso globale della
storia, la «“fondamentalmente identica” espressione culturale e filosofica»
di un’epoca) può essere implicita nella sua azione politica. Così, al contrario,
un filosofo può scrivere un articolo politico, ma il suo pensiero politico è nel-
la sua stessa filosofia. Questo significa che i gradi sono iscritti uno nell’altro.

Da queste proposizioni (che devono essere elaborate), conseguono, per lo storico della
cultura e delle idee, alcuni criteri d’indagine e canoni critici di grande significato. Può
avvenire che una grande personalità esprima il suo pensiero più fecondo non nella sede
che apparentemente dovrebbe essere la più «logica», dal punto di vista classificatorio
esterno, ma in altra parte che apparentemente può essere giudicata estranea. Un uomo po-
litico scrive di filosofia: può darsi che la sua «vera» filosofia sia invece da ricercarsi negli
scritti di politica. In ogni personalità c’è una attività dominante e predominante: è in que-
sta che occorre ricercare il suo pensiero, implicito il più delle volte e talvolta in contraddi-
zione con quello espresso ex professo. È vero che in un tale criterio di giudizio storico
sono contenuti molti pericoli di dilettantismo e che nell’applicazione occorre esser molto
cauti, ma ciò non toglie che il criterio sia fecondo di verità.

Infine Gramsci osserva che il prevalere di un grado rispetto agli altri è le-
gato al livello dello sviluppo storico. Il discorso può essere inteso così: nella
fase corporativa del movimento operaio prevale il grado economico; nella
fase della guerra di movimento (giacobinismo, rivoluzione russa) prevale il
grado politico; nella fase della guerra di posizione prevale il grado filosofico
(teoria, egemonia, visione del mondo). Dal punto di vista «nazionale» il cir-
156

colo acquista questa sequenza: Inghilterra (economia) // Francia-Russia (po-


litica) // Italia-Europa (filosofia).

A questo proposito è ancora utile e fecondo il pensiero espresso dalla Luxemburg sul-
la impossibilità di affrontare certe quistioni della filosofia della prassi in quanto esse non
sono ancora divenute attuali per il corso della storia generale o di un dato aggruppamento
sociale. Alla fase economico-corporativa, alla fase di lotta per l’egemonia nella società
civile, alla fase statale corrispondono attività intellettuali determinate che non si possono
arbitrariamente improvvisare o anticipare. Nella fase della lotta per l’egemonia si sviluppa
la scienza della politica; nella fase statale tutte le superstrutture devono svilupparsi, pena
il dissolvimento dello Stato.

La traducibilità è un esempio capitale della trascrizione dell’idealismo


nella filosofia della praxis. Riassume il senso della frase di Engels per cui il
marxismo è l’erede della filosofica classica tedesca. Il «circolo omogeneo»,
infatti, è lo stesso circolo delle categorie (l’arte, la logica, la religione e così
via), ossia delle superstrutture, ma ricondotte a quella «mondanizzazione» e
«terrestrità assoluta» di cui parlò altrove: sono le forme dello spirito, ma ra-
dicate nella realtà delle nazioni e individuate nella loro genesi concreta dalla
storia.
157

Lezione 16
(Mercoledì 29 aprile 2020)

1. I quaderni “speciali”

L’espressione «quaderni speciali» è dello stesso Gramsci, che la adoperò


una volta, all’inizio del Quaderno 15, per definire i quaderni di carattere mo-
nografico, dedicati a un argomento specifico e che portano un titolo determi-
nato. Nella carta 1verso del Quaderno 15, Gramsci scrisse infatti così:

Quaderno iniziato nel 1933 e scritto senza tener conto delle divisioni di materia e dei
raggruppamenti di note in quaderni speciali. (Corsivo mio)

Perciò la filologia gramsciana adopera correntemente questa formula per


indicare i 17 quaderni che hanno tali caratteristiche e distinguerli, così, dai
quaderni “miscellanei”, dai quaderni “misti”, dai quaderni di traduzioni e dai
2 quaderni rimasti inutilizzati (vi rinvio, per questo, alla lezione introduttiva
sui quaderni).
In particolare i quaderni speciali sono i seguenti:

Quaderno 10 – La filosofia di Benedetto Croce


Quaderno 11 – Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio
della filosofia e della storia della cultura
Quaderno 12 – Appunti e note sparse per un gruppo di saggi sulla storia de-
gli intellettuali e della cultura in Italia
Quaderno 13 – Noterelle sulla politica del Machiavelli
Quaderno 16 – Argomenti di cultura. 1°
Quaderno 18 – Niccolò Machiavelli. II
Quaderno 19 – «Risorgimento italiano»
Quaderno 20 – Azione cattolica – Cattolici integrali – gesuiti - modernisti
Quaderno 21 – Problemi della cultura nazionale italiana. 1° Letteratura po-
polare
Quaderno 22 – Americanismo e fordismo
Quaderno 23 – Critica letteraria
Quaderno 24 – Giornalismo
Quaderno 25 – Ai margini della storia. Storia dei gruppi sociali subalterni
Quaderno 26 – Argomenti di cultura. 2°
Quaderno 27 – Osservazioni sul «Folclore»
Quaderno 28 – Lorianismo
Quaderno 29 – Note per una introduzione allo studio della grammatica

La caratteristica generale di questi quaderni è di essere costituiti prevalen-


temente (con una eccezione che riguarda il Quaderno 10) da note di seconda
158

stesura (testi C) e da note di stesura unica (testi B). Come ricordate, le note di
seconda stesura (testi C nella edizione critica di Valentino Gerratana) sono
rielaborazioni, più o meno ampie e importanti, di testi scritti precedentemen-
te nei quaderni miscellanei, che vengono perciò riutilizzati e variamente mo-
dificati. Quindi lo studio dei quaderni speciali pone un problema nuovo a chi
li legge. Una volta datati i quaderni e le singole note, è anche necessario stu-
diare le varianti rispetto ai testi di prima stesura dove esistono.
Vi aggiungo tra i materiali del corso un mio articolo recente, che vi offre
notizie più dettagliate sull’origine dei quaderni speciali. Ma la domanda
principale è quando e perché Gramsci sentì l’esigenza di cambiare il proprio
metodo di lavoro, cominciando a “raggruppare” per argomento le note pre-
cedenti, aggiungendone ordinatamente di nuove, fino a costruire quaderni
che non sono più “miscellanei” (come i precedenti) né veri e propri saggi
monografici o libri, ma costituiscono un genere intermedio di scrittura unico,
a metà fra lo stile frammentario e l’intenzione sistematica che guida la pro-
gressione dei diversi paragrafi.
Naturalmente una certa sistematicità era presente anche nei quaderni pre-
cedenti, come è testimoniato dall’uso dei titoli di rubrica e dalle sezioni mo-
nografiche che compongono i quaderni misti. Ma qui Gramsci compie il
massimo sforzo di “stringere” i temi maggiori della sua ricerca.
Bisogna tenere presente, inoltre, che i primi quattro quaderni speciali (10,
11, 12, 13) vennero scritti nella massima parte nel carcere speciale di Turi
nel corso del 1932, per lo più parallelamente, e dunque indicano una rifles-
sione “unitaria” e meritano, per molti versi, di non essere separati, di essere
letti insieme.
Ora dobbiamo dire qualcosa sul “quando” e sul “perché” della nascita di
questo nuovo progetto.

2. Genesi dei quaderni “speciali”

Proverò a schematizzare in alcuni punti il problema, non semplice, della


nascita dei quaderni speciali.

1. Il primo accenno all’intenzione di riformulare il lavoro carcerario nei qua-


derni speciali si trova nella lettera a Tatiana Schucht del 22 febbraio 1932.
Gramsci scrive queste parole:

Se puoi, mandami dei quaderni, ma non come quelli che mi hai mandato qualche tem-
po fa, che sono incomodi e troppo grandi: dovresti scegliere dei quaderni di formato nor-
male, come quelli scolastici, e di non molte pagine, al massimo 40-50, in modo che neces-
sariamente non si trasformino in zibaldoni miscellanei sempre più farraginosi. Vorrei ave-
re questi piccoli quaderni appunto per riordinare queste note, dividendole per argomento e
così sistemandole; ciò mi farà passare il tempo e mi sarà utile personalmente per raggiun-
gere un certo ordine intellettuale.
159

Come vedete, l’intenzione di Gramsci era quella di «riordinare» le note


dei quaderni miscellanei, «dividendole per argomento e così sistemandole».
Gramsci si riferiva, in particolare, alle note sulla storia degli intellettuali ita-
liani. Il 21 marzo Gramsci dichiarò alla cognata di avere ricevuto i quaderni,
anche se solo due di essi erano adatti allo scopo:

Ho ricevuto i quaderni: i migliori sono quei due piccoli (per numero di pagine) che
hai mandato nel secondo piego, quello raccomandato. I block-notes non possono essere
utilizzati.

2. Dopo avere ricevuto i quaderni “piccoli” (quindi dopo il 21 marzo 1932),


Gramsci cominciò a elaborare il progetto degli “speciali”, scrivendo nella
carta 2recto del Quaderno 8 un primo piano di lavoro, intitolato “raggruppa-
menti di materia”. Ricordiamolo:

Raggruppamenti di materia:

1° Intellettuali. Quistioni scolastiche.


2° Machiavelli.
3° Nozioni enciclopediche e argomenti di cultura.
4° Introduzione allo studio della filosofia e note critiche ad un Saggio popolare di so-
ciologia.
5° Storia dell’Azione Cattolica. Cattolici integrali – gesuiti – modernisti.
6° Miscellanea di note varie di erudizione (Passato e presente).
7° Risorgimento italiano (nel senso dell’Età del Risorgimento italiano dell’Omodeo,
ma
insistendo sui motivi più strettamente italiani).
8° I nipotini di padre Bresciani. La letteratura popolare (Note di letteratura).
9° Lorianesimo.
10° Appunti sul giornalismo.

3. Nella lettera del 12 aprile 1932, Tatiana (dopo essersi consultata con Piero
Sraffa) invitò Gramsci a occuparsi della Storia d’Europa di Benedetto Croce,
uscita in quei giorni per l’editore Laterza. Questo invito incontrava
l’interesse del prigioniero, che proprio in quel periodo aveva scritto, nel
Quaderno 8, una serie di importanti note sulla filosofia di Croce. Tatiana gli
scriveva:

Tu riceverai fra poco un libro di Croce, La storia d'Europa. - Dovresti farne una re-
censione perché a me interessa molto e le tue osservazioni potranno essermi molto utili
per un mio lavoro.

L’invito di Tatiana alterò il programma formulato nei “raggruppamenti di


materia” e portò Gramsci a inaugurare il primo (e non previsto) quaderno
speciale: il Quaderno 10, intitolato La filosofia di Benedetto Croce.

4. Il lavoro su Croce si svolse in maniera quasi parallela in tre diverse forme,


che bisogna tenere presenti contemporaneamente: in alcune note del Quader-
160

no 8, nelle lettere di argomento crociano scritte a Tatiana, nel Quaderno 10.


In generale, Gramsci scrisse sul Quaderno 8 le note che servivano come base
per la redazione della lettera settimanale a Tatiana, poi ne rielaborò il conte-
nuto nel Quaderno 10. Su molti aspetti della riflessione su Croce abbiamo
dunque tre redazioni: nel Quaderno 8, nelle lettere, nel Quaderno 10.

5. La stesura del Quaderno 10 presenta dunque una particolare complessità.


Possiamo schematizzarla così:

1= Gramsci iniziò il Quaderno 10 dal primo foglio, carta 1recto (fino alla
carta 2recto), scrivendo Alcuni criteri generali metodici per la critica della
filosofia del Croce, come riflessione generale e introduttiva sull’argomento.

2= Dalla metà del quaderno (carta 41recto-50verso) rielaborò i temi delle


lettere a Tatiana e delle note del Quaderno 8 nei Punti di riferimento per un
saggio su B. Croce.

3= Concluso questo lavoro nella seconda parte del quaderno, Gramsci


proseguì la stesura delle sue note nella parte residua rimasta in bianco dalla
carta 2recto fino alla 40verso, completando così tutti i fogli.

4= Come abbiamo visto, il Quaderno 10 era stato iniziato nell’aprile. A


partire da maggio (cioè mentre continuava la stesura del Quaderno 10),
Gramsci iniziò altri tre quaderni speciali, che pertanto vennero composti pa-
rallelamente: il Quaderno 12 sugli intellettuali (maggio-giugno 1932), il
Quaderno 13 su Machiavelli (maggio 1932-novembre 1933), il Quaderno 11
sulla filosofia (giugno-luglio-dicembre 1932). Con l’eccezione di alcune note
del Quaderno 10 e del Quaderno 13, che vennero aggiunte successivamente,
possiamo perciò dire che tra l’aprile e il dicembre del 1932 Gramsci operò
una straordinaria “sistemazione” di tutto il suo pensiero, raccogliendo in
quattro quaderni speciali il senso principale delle sue meditazioni, attraverso
il lavoro di rielaborazione di testi precedenti (la “seconda stesura” o testi C) e
di scrittura di testi nuovi (la “stesura unica” o testi B).

3. L’Anti-Croce

Nell’articolo che trovate come “materiale” della lezione e nel libro che
avete in programma potete seguire la storia dei rapporti intellettuali fra
Gramsci e Croce. Qui mi limito a ricordare alcuni punti della critica che ven-
ne elaborata nel Quaderno 10 e che costituisce un aspetto centrale di tutto il
pensiero di Gramsci.

3.1. LA FORMULA DELL’ANTI-CROCE. Per tre volte Gramsci sintetizzò il suo pro-
gramma di ricerca nella formula dell’«Anti-Croce». Conviene anzi tutto te-
nere presenti le tre versioni del concetto:
161

(1) Quaderno 8 = § 〈235〉. Introduzione allo studio della filosofia. Oltre la serie
«trascendenza, teologia, speculazione – filosofia speculativa», l’altra serie «trascendenza,
immanenza, storicismo speculativo – filosofia della praxis». Sono da rivedere e da critica-
re tutte le teorie storicistiche di carattere speculativo. Da questo punto di vista bisogne-
rebbe scrivere un nuovo Antidühring, che potrebbe essere un Anticroce, poiché in esso
potrebbe riassumersi non solo la polemica contro la filosofia speculativa, ma anche, im-
plicitamente, quella contro il positivismo e le teorie meccanicistiche, deteriorazione della
filosofia della praxis.

(2) Quaderno 10 = § <11> Il Croce combatte con troppo accanimento la filosofia del-
la praxis e nella sua lotta ricorre ad alleati paradossali, come il mediocrissimo De Man.
Questo accanimento è sospetto, può rivelarsi un alibi per negare una resa dei conti. Occor-
re invece venire a questa resa di conti, nel modo più ampio e approfondito possibile. Un
lavoro di tal genere, un Anti-Croce che nell’atmosfera culturale moderna potesse avere il
significato e l’importanza che ha avuto l’Anti-Dühring per la generazione precedente la
guerra mondiale, varrebbe la pena che un intero gruppo di uomini ci dedicasse dieci anni
di attività.
Nota I. Le tracce della filosofia della praxis possono trovarsi specialmente nella solu-
zione che il Croce ha dato di problemi particolari. Un esempio tipico mi pare la dottrina
dell’origine pratica dell’errore. In generale si può dire che la polemica contro la filosofia
dell’atto puro di Giovanni Gentile ha costretto il Croce a un maggior realismo e a provare
un certo fastidio e insofferenza almeno per le esagerazioni del linguaggio speculativo,
divenuto gergo e «apriti, sesamo» dei minori fraticelli attualisti.
Nota II. Ma la filosofia del Croce non può essere tuttavia esaminata indipendentemen-
te da quella del Gentile. Un Anti-Croce deve essere anche un Anti-Gentile; l’attualismo
gentiliano darà gli effetti di chiaroscuro nel quadro che sono necessari per un maggior
rilievo.

(3) Quaderno 11 = § 〈51〉. Serie di concetti e di posizioni filosofiche da esaminare


in una introduzione allo studio della filosofia: trascendenza, teologia, filosofia speculati-
va, storicismo speculativo. La «speculazione» (in senso idealistico) non ha introdotto una
trascendenza di nuovo tipo nella riforma filosofica caratterizzata dalle concezioni imma-
nentistiche? Pare che solo la filosofia della prassi sia la concezione conseguentemente
«immanentistica». Sono specialmente da rivedere e criticare tutte le teorie storicistiche di
carattere speculativo. Si potrebbe scrivere un nuovo Anti-Dühring che potrebbe essere un
«Anti-Croce» da questo punto di vista, riassumendo non solo la polemica contro la filoso-
fia speculativa, ma anche quella contro il positivismo e il meccanicismo e le forme dete-
riori della filosofia della prassi.

Come vedete, l’Anti-Croce è un vero e proprio programma di ricerca, per


cui «varrebbe la pena che un intero gruppo di uomini ci dedicasse dieci anni
di attività». Possiamo dire che alla base di questo programma vi è l’idea di
una doppia trascrizione. Nella lettura di Gramsci, la filosofia di Croce si
forma negli studi giovanili sul materialismo storico, alla scuola di Antonio
Labriola, e opera successivamente una trascrizione del marxismo in termini
speculativi. In questa filosofia rimangono perciò significative tracce della fi-
losofia della praxis, questo è il suo valore: ma tali tracce sono convertite in
un discorso speculativo, quindi alterate e trasformate nell’ideologia di fondo
del revisionismo. In questo senso (cioè come teorico del revisionismo) Croce
162

è il leader mondiale della cultura, in quanto ha tradotto e “addomesticato” il


marxismo in un orizzonte idealistico.
Gramsci è consapevole che la filosofia della praxis non deve perdere le
novità positive della filosofia crociana. Ma deve operare una seconda trascri-
zione, o una contro-trascrizione, cioè ri-tradurre la filosofia di Croce nel lin-
guaggio di un marxismo rinnovato. Il centro di questa trascrizione è il supe-
ramento dell’elemento speculativo di quella filosofia. Per questo Gramsci
insiste sull’antitesi tra un vero storicismo e uno storicismo speculativo, fra un
residuo di trascendenza e l’immanenza. L’espressione speculativo ha un si-
gnificato molto preciso nel lessico gramsciano: significa che Croce ha fonda-
to il suo storicismo su categorie che non hanno una genesi storica, che hanno
un carattere trascendentale (sono operatrici della storia, ma non derivano
dalla storia), che non provengono dalla realtà concreta. Sono forme assolute
dello spirito, non hanno quel carattere di “terrestrità” che il marxismo esige
nel discorso filosofico.
Come vedete, la critica dell’“idealismo” di Croce, e dell’idealismo in ge-
nerale, è soprattutto una critica del momento speculativo, trascendentale,
cioè di idee che (come le categorie crociane) non sono funzioni prodotte dal-
la realtà storica. Di qui l’antitesi fra uno storicismo integrale e uno storici-
smo speculativo; di qui il richiamo gramsciano a una rigorosa immanenza.

3.2. RIVOLUZIONI PASSIVE. Come abbiamo detto, il Quaderno 10 trae spunto


dalla pubblicazione della Storia d’Europa nel secolo decimonono, che – in-
sieme alla Storia del regno di Napoli, alla Storia dell’età barocca, alla Storia
d’Italia – rappresenta il culmine e il capolavoro della storiografia etico-
politica di Croce. A un certo punto, Gramsci definì le opere storiche di Croce
come trattati di rivoluzioni passive: «nella Storia d’Europa – scrisse nel
Quaderno 8 – […] il periodo scelto è monco, è il periodo delle rivoluzioni
passive, per dirla col Cuoco, il periodo della ricerca delle forme [superiori],
della lotta per le forme, perché il contenuto si è già affermato con le rivolu-
zioni inglesi, con quelle francesi, con le guerre napoleoniche». Sia nella Sto-
ria d’Italia che nella Storia d’Europa, Croce aveva iniziato la narrazione da
un momento “passivo”, dall’età della restaurazione o dal 1870, non stringen-
do il nesso con il momento “attivo” della rivoluzione francese e del giacobi-
nismo, quando il popolo-nazione manifesta tutta la sua energia.
Come l’Anti-Croce, questo giudizio sulla storia etico-politica riassume
tutta la critica di Gramsci. Possiamo dire così: a differenza di Gentile, Croce
è un teorico dell’egemonia (dell’egemonia, non del dominio), ma separa il
momento egemonico (la storia degli intellettuali, l’elemento etico, politico)
dal retroterra costitutivo dell’oggettività. Questo vale per le superstrutture,
che sono considerate senza la relazione con la struttura (il blocco storico); e
vale, a maggiore ragione, per la storiografia, dove il momento “passivo” è
separato da quello “attivo”, senza perciò mettere a fuoco il rapporto costitu-
tivo dei due aspetti. Per Gramsci le rivoluzioni passive (che avvengono per il
«contraccolpo» di un evento rivoluzionario) sono una dinamica fondamenta-
le dei processi di modernizzazione: ma devono essere lette nella relazione
163

con le rivoluzioni “attive”, con il momento “giacobino” della storia, quando


il popolo-nazione manifesta la sua piena soggettività.

3.3. DISTINTI E OPPOSTI. Nelle lezioni dedicate agli Appunti di filosofia ab-
biamo già esaminato questo aspetto. Possiamo riprenderlo brevemente. Nella
sua critica a Hegel, Croce aveva sostenuto che le forme dello spirito (le cate-
gorie; la teoria e la pratica; l’estetica, la logica, l’economia, l’etica) non han-
no un rapporto dialettico, di opposizione, ma di distinzione. Hegel aveva
compiuto un grave errore scambiando i distinti e gli opposti: con la conse-
guenza di svalutare le scienze empiriche secondo i canoni della ragione filo-
sofica, di affermare la “morte dell’arte”, di costruire una improbabile “filoso-
fia della storia”. Il nuovo idealismo doveva perciò superare, su questo punto,
il vecchio idealismo di Hegel, riformulandone la teoria dialettica.
Come sappiamo, Gramsci accoglie questa posizione, ma la limita alla di-
namica delle superstrutture. Le superstrutture hanno una relazione reciproca
ordinata dalla logica dei distinti, non da quella dell’opposizione. La restaura-
zione del valore della realtà empirica (delle scienze, delle arti, della storia)
operata da Croce non deve essere perduta. Ma nella sua giusta “riforma” del-
la dialettica Croce ha compiuto il solito errore speculativo. Non ha visto,
cioè, che oltre il circolo delle superstrutture vi è la realtà oggettiva della
struttura: qui vale la logica degli opposti, come Hegel aveva insegnato.
Da diverse prospettive, la critica di Gramsci a Croce ha una notevole coe-
renza. L’Anti-Croce assume le novità della filosofia di Croce ma, passo dopo
passo, le trascrive nella filosofia della praxis, cioè in un marxismo profon-
damente rinnovato, storicista e umanista.
164

Lezione 17

(Lunedì 4 maggio 2020)

1. Il Quaderno 11: introduzione generale

Ci siamo soffermati sulla genesi dei quaderni “speciali” e abbiamo visto


come sia nato nell’aprile 1932 il primo di essi, cioè il Quaderno 10, dedicato
alla filosofia di Benedetto Croce. Se ricordate, abbiamo anche affermato che
dal maggio 1932 Gramsci inizia altri 2 quaderni “speciali” (il 12 sugli intel-
lettuali e il 13 su Machiavelli) e nel giugno inaugura un terzo quaderno “spe-
ciale”, cioè il Quaderno 11, dedicato allo studio della filosofia. Nel frattempo
raccoglie nel Quaderno 9 nuove note “miscellanee”. Come vedete, il lavoro
di Gramsci è frenetico, labirintico, il prigioniero passa da un quaderno
all’altro, intreccia tutte le tematiche della sua ricerca.
Oggi cominceremo lo studio del Quaderno 11, che ci interessa in maniera
particolare, perché è quello specificamente dedicato alla filosofia. La compo-
sizione di questo quaderno va dal giugno al dicembre 1932. Ma dobbiamo
tenere conto del fatto che, come abbiamo appena osservato, la scrittura di
questo quaderno si sovrappone a quella degli altri “speciali” e delle note
“miscellanee” del Quaderno 9. In questa tabella ho provato a ricostruire il
lavoro “parallelo” di Gramsci in questo periodo:

Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre


1932 1932 1932 1932 1932 1932 1932

Inizio Q11 Q11 Q11 Q11 Q11 Fine


Q11 Q11

Q9 Q9 Q9 Q9 Q9 Q9

Q10 Q10 Q10 Q10 Q10 Q10 Q10

Q12

Q13 Q13 Q13 Q13 Q13 Q13 Q13


165

Q14

Come vedete dalla tabella, Gramsci lavora contemporaneamente (cioè al-


ternando la scrittura sull’uno e sull’altro) su 4 o (nel giugno 1932) persino su
5 quaderni. Per comprendere il suo sviluppo intellettuale, noi dovremmo in
teoria disporre le note dei diversi quaderni secondo il loro ordine di compo-
sizione. Ma si tratta, vvoiamente, di una operazione impossibile o almeno di
una operazione-limite. Consapevoli di questo limite, leggeremo perciò le no-
te secondo la successione dei singoli quaderni.
Lo studio del Quaderno 11 pone molti problemi di natura filologica. Nelle
prossime settimane terrò una conferenza (ovviamente telematica) al “Corso
di alta formazione in filosofia e filologia” del nostro Dipartimento e al mo-
mento opportuno vi fornirò il testo della relazione e una documentazione det-
tagliata. Per il momento mi limito a segnalarvi le questioni più rilevanti,
quelle che ci sono utili per affrontare la lettura.

2. La composizione del Quaderno 11

Cominciamo dalla composizione del quaderno. Il Quaderno 11 si compo-


ne di 71 testi: 64 di seconda stesura e 7 di stesura unica (§§ 47, 57, 58, 59, 60,
61, 69: secondo la numerazione di Gerratana, che sarà riveduta nella Edizio-
ne Nazionale). La gran parte delle note è dunque una rielaborazione in se-
conda stesura delle note più strettamente filosofiche delle tre serie di Appunti
di filosofia, alternando i Quaderni 4, 7, 8. Inoltre può essere indicato un pre-
ciso metodo di lavoro. Per ciascuna sezione Gramsci procede in una maniera
che possiamo definire regressiva: inizia elaborando le note del quaderno più
recente (il Quaderno 8) e via via risale ai quaderni più antichi (al Quaderno 4
e al Quaderno 3). Tenete sempre presente che Gramsci non può tenere sul
suo tavolo di lavoro tutti i quaderni contemporaneamente. Perciò è costretto
a scegliere un ordine, e sceglie di cominciare dalle cose più recenti che ha
scritto. In questa tabella trovate una indicazione più precisa delle fonti utiliz-
zate, che può darvi un’idea del metodo regressivo adottato, sezione per se-
zione:

I. Alcuni punti preliminari di riferimento

§ 12 > Q8+Q10 giugno-luglio 1932

II. Osservazioni e note critiche su un tentativo di «Saggio popolare di sociologia»

§§ 13-19 > Q8 luglio-agosto 1932


§§ 20-25 > Q7 agosto-dicembre 1932
166

§§ 26-35 > Q4 agosto-dicembre 1932

III. La scienza e le ideologie «scientifiche»

§ 36 > Q8 agosto-dicembre 1932


§§ 37-39 > Q4 agosto-dicembre 1932

IV. Gli strumenti logici del pensiero

§§ 40-43 > Q8 agosto-dicembre 1932


§ 44 > Q4 agosto-dicembre 1932
§ 45 agosto-dicembre 1932

V. Traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici

§ 46 > Q7 agosto-dicembre 1932


§ 48 > Q4 agosto-dicembre 1932
§§ 49-50 agosto-dicembre 1932

VI. Appunti miscellanei

§§51-56 > Q8 agosto-dicembre 1932


§ 62-65 > Q4 agosto-dicembre 1932
§ 66 > Q4+Q8 agosto-dicembre 1932
§ 67 > Q4 agosto-dicembre 1932
§ 68 > Q9 agosto-dicembre 1932
§ 70 > Q3 agosto-dicembre 1932

Appunti e riferimenti di carattere storico-critico

§§ 1-6 > Q8 dicembre 1932


§§ 7-8 > Q4 dicembre 1932
§§ 9-11 > Q3 dicembre 1932

Per ogni sezione, dunque, Gramsci tende a iniziare dalle note più recenti
(il Quaderno 8) e via via risale a quelle più antiche (Quaderno 7, poi Quader-
no 4), aggiungendovi alcune rielaborazioni di note miscellanee (Quaderno 3,
Quaderno 9) e qualche nota di stesura unica.
Osservate il fatto, del tutto straordinario anzi unico, che per la stesura del
§ 12 si serve anche di una nota del Quaderno 10, cioè di un altro quaderno
“speciale”.

3. Le edizioni e il problema del titolo del quaderno

Nell’edizione tematica del 1948-1951 il Quaderno 11 venne smembrato


tra 4 dei 6 volumi, pubblicando la sola seconda stesura delle note, spesso so-
stituendo ai titoli di rubrica del manoscritto dei titoli editoriali. Una nota (§
10) venne esclusa dalla raccolta, altre (come il fondamentale § 34) pubblicate
parzialmente. Possiamo dire, pertanto, che il Quaderno 11 è stato pubblicato
167

per la prima volta da Valentino Gerratana, nel 1975, nell’edizione critica Ei-
naudi. Inoltre, a differenza di altri quaderni (come i Quaderni 4, 7, 10), Ger-
ratana pubblicò il Quaderno 11 nella stessa disposizione del manoscritto.
Un problema particolare riguarda il titolo del quaderno. Come sappiamo,
tutti i quaderni “speciali” hanno un titolo assegnato dallo stesso Gramsci.
Gerratana osservò che nel Quaderno 11 «manca un titolo generale», ma –
aggiunse – «altrove – cfr. Quaderno 10 (XXXIII), parte II, § 60 – questo
Quaderno 11 (XVIII) è citato dallo stesso Gramsci con il titolo Introduzione
allo studio della filosofia». In effetti alla c. 39recto del Quaderno 10 si leg-
gono queste parole:

Questa proposizione [di Labriola], sia nell’impiego fattone da Hegel, sia in quello fat-
tone dalla filosofia della prassi, è da confrontare col parallelo, fatto dallo stesso Hegel e
che ha uno spunto nella Sacra Famiglia, tra il pensiero pratico-giuridico francese e quello
speculativo tedesco (a questo proposito è da vedere il quaderno su «Introduzione allo stu-
dio della filosofia» p. 59).

Oggi sappiamo che non è vero che nel Quaderno 11 manchi un titolo. È
vero che esso non è indicato all’inizio, ma nella c. 11recto con una doppia
sottolineatura: Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio del-
la filosofia e della storia della cultura. Poiché tutti i quaderni “speciali” han-
no un titolo, è plausibile ritenere che questo fosse il titolo assegnato da
Gramsci al quaderno. Ma questa osservazione (insieme ad altre) modifica le
ipotesi sulla composizione. Possiamo infatti ipotizzare che la stesura del
quaderno iniziò proprio dalla c. 11recto, con la scrittura del titolo.

4. La sequenza del quaderno

L’osservazione sul titolo ci permette di ricostruire una sequenza coerente,


di formulare una ipotesi sulla stesura del quaderno. La sequenza può essere
sintetizzata in questi passaggi.

1. Gramsci decide di inaugurare il quaderno “filosofico” e inizia la stesu-


ra dalla c. 11recto, lasciando in bianco i primi dieci fogli per collocarvi suc-
cessivamente un sommario e un nuovo testo di premessa. Quindi, per prima
cosa, scrive il titolo. È un comportamento abbastanza consueto: nel Quader-
no 16 inizia dalla c. 2recto; nel Quaderno 19 dalla c. 3recto; nel Quaderno 20
dalla c. 11recto; nel Quaderno 21 dalla c. 3recto; nel Quaderno 23 dalla c.
3recto; nel Quaderno 24 dalla c. 5recto; nel Quaderno 25 dalla c. 11recto;
nel Quaderno 26 dalla c. 3recto. L’inizio della stesura dall’undicesimo foglio
avviene, quindi, anche nei Quaderni 20 e 25; mentre è consueto il compor-
tamento di lasciare spazi bianchi nei primi fogli.

2. Gramsci scrive in maniera continuativa l’intero quaderno dalla c.


11recto alla c. 79verso. A questo punto, terminata la carta a disposizione
(rimane libero solo il f. 80), prosegue la stesura delle note «di carattere stori-
168

co-critico» alla c. 3recto, concludendole alla c. 6verso e lasciando in bianco


le residue cc. 7recto-10verso. Infatti il tema dell’ultima nota e quello della
prima (Labriola) si legano in maniera continuativa.

3. Infine decide di occupare la c. 1verso per l’avvertenza di carattere ge-


nerale tratta dal Quaderno 4, c. 55 (dove era posta in margine al §16, in for-
ma abbastanza accidentale).

In questo modo abbiamo stabilito, in maniera più verosimile, come venne


scritto il Quaderno 11. Vi raccomando di studiare queste osservazioni filolo-
giche tenendo sott’occhio il testo dell’edizione critica e, possibilimente, an-
che la riproduzione anastatica del manoscritto (la trovate nella biblioteca di
Villa Mirafiori, appena sarà di nuovo agibile). Chiariti questi aspetti, nella
prossima lezione possiamo dedicarci al contenuto del quaderno, a cominciare
dalla nuova definizione che Gramsci propone del sapere filosofico.
169

Lezione 18

(Mercoledì 6 maggio 2020)

1. Una nuova idea di filosofia

Secondo l’ordine congetturale della composizione (come lo abbiamo sta-


bilito nella lezione precedente), inizieremo la lettura del Quaderno 11 dal
primo dei sei capitoli degli Appunti per una introduzione e un avviamento
allo studio della filosofia e della storia della cultura. Questo capitolo reca
come titolo: I. Alcuni punti preliminari di riferimento. È un lungo testo, che
occupa quasi 12 fogli del Quaderno 11, dalla carta 11recto alle prime righe
della carta 22recto. Secondo noi, sono le prime pagine che vennero scritte di
questo quaderno. Gramsci lo costruì rielaborando alcune note del Quaderno 8
e, in un caso, del Quaderno 10. Per lo studioso è importante la linea del ra-
gionamento, ma è anche importante la forma piuttosto radicale della rielabo-
razione (le varianti) a cui Gramsci sottopose il Quaderno 8.
Nella sua struttura materiale questo capitolo ha una cesura nella carta
12verso, dove Gramsci lascia un rigo bianco. Ma nella sostanza presenta una
svolta argomentativa importante alla carta 16recto, dove, come vedremo,
viene introdotto un tema di estrema importanza, che riguarda il concetto di
egemonia (che abbiamo anticipato studiando il Quaderno 8, ma su cui con-
verrà tornare brevemente).
Perché sono così importanti questi «punti preliminari di riferimento»? Il
motivo principale è che qui Gramsci delinea un nuovo concetto di filosofia,
una idea del sapere filosofico che intende superare la tradizione speculativa,
individuale, di questa disciplina. L’affermazione iniziale che “tutti gli uomini
sono filosofi” corrisponde a un allargamento inaudito del campo filosofico.
Le filosofie sono ripensate come visioni del mondo, che unificano l’alto e il
basso, gli intellettuali e i semplici, e che perciò pongono un duplice compito.
Da un lato la filosofia è un’ermeneutica del senso comune, un’analitica delle
visioni del mondo che caratterizzano determinate epoche storiche, che si ri-
trova nei grandi pensatori come nelle più ordinarie manifestazioni del lin-
guaggio o del costume. D’altro lato la filosofia esercita una funzione critica,
rivoluzionaria, di costruzione di nuove e più razionali visioni del mondo, che
devono diventare comuni. È il principio della “riforma morale e intellettuale”.
Insomma l’esercizio dell’egemonia passa per il sapere filosofico, ha bisogno
di questa funzione intellettuale. Ma di una filosofia diversa dalla tradizione,
perché storica, immanente, terrestre. Gramsci definisce filosofia della praxis
questo nuovo concetto di filosofia.
170

Questa nuova idea di filosofia compie la critica dell’idealismo “speculati-


vo” che abbiamo incontrato nel Quaderno 10. Ma deve essere composta con
l’altro grande tema del Quaderno 11, che è la critica di Bucharin e in genera-
le del materialismo (di cui ci occuperemo nella prossima lezione).

2. Tutti gli uomini sono filosofi

Gramsci inizia i «punti preliminari di riferimento» parlando di un «pre-


giudizio» che deve essere «distrutto». Il «pregiudizio», cioè l’errore, consiste
nella credenza che la filosofia sia uno specialismo, un discorso tecnico, ela-
borato da una classe di intellettuali che sono appunto i filosofi.

Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di


molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata ca-
tegoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici.

Il pregiudizio deve essere distrutto perché la filosofia, al contrario, appar-


tiene a «tutti gli uomini». C’è una «filosofia spontanea» che costituisce la
visione del mondo, il senso della realtà, dell’uomo. Cerchiamo di dare il giu-
sto peso a questa espressione: visione del mondo. Questa filosofia spontanea
si definisce a tre livelli: il linguaggio, il senso comune (e buon senso), il fol-
clore.

Occorre pertanto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono «filosofi», de-
finendo i limiti e i caratteri di questa «filosofia spontanea», propria di «tutto il mondo», e
cioè della filosofia che è contenuta: 1) nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e
di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; 2)
nel senso comune e buon senso; 3) nella religione popolare e anche quindi in tutto il si-
stema di credenze, superstizioni, opinioni, modi di vedere e di operare che si affacciano in
quello che generalmente si chiama «folclore».

Fin qui Gramsci ha illustrato, in generale, cosa è la filosofia, ne ha data


una prima definizione. Ora sorge una complicazione radicale nel discorso.
Interviene il concetto di critica. La filosofia presenta un’alternativa, si dupli-
ca. Da un lato la filosofia è la visione del mondo ereditata, alla quale si ap-
partiene quasi per nascita, o almeno per educazione. Noi siamo visione del
mondo, perché apparteniamo al mondo. D’altro lato, però, la filosofia può
essere elaborata, «consapevolmente e criticamente»: noi possiamo costruire
il nostro mondo, non limitarci ad accettarlo passivamente. C’è una filosofia
che accogliamo e una filosofia che elaboriamo. C’è la tradizione, c’è la criti-
ca.

Avendo dimostrato che tutti sono filosofi, sia pure a modo loro, inconsapevolmente,
perché anche solo nella minima manifestazione di una qualsiasi attività intellettuale, il
«linguaggio», è contenuta una determinata concezione del mondo, si passa al secondo
momento, al momento della critica e della consapevolezza, cioè alla quistione: è preferibi-
le «pensare» senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale, cioè
171

«partecipare» a una concezione del mondo «imposta» meccanicamente dall’ambiente


esterno, e cioè da uno dei tanti gruppi sociali nei quali ognuno è automaticamente coin-
volto fin dalla sua entrata nel mondo cosciente (e che può essere il proprio villaggio o la
provincia, può avere origine nella parrocchia e nell’«attività intellettuale» del curato o del
vecchione patriarcale la cui «saggezza» detta legge, nella donnetta che ha ereditato la sa-
pienza dalle streghe o nel piccolo intellettuale inacidito nella propria stupidaggine e impo-
tenza a operare) o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevol-
mente e criticamente e quindi, in connessione con tale lavorio del proprio cervello, sce-
gliere la propria sfera di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia del
mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente
dall’esterno l’impronta alla propria personalità?

3. Le quattro note ai «punti preliminari»

A questo punto, Gramsci inserisce quattro Note, che tendono ad articolare


e a complicare il discorso. Sono quattro passaggi decisivi del ragionamento,
su cui è opportuno soffermarsi con molta cura. Possono offrirci la chiave del
pensiero di Gramsci. Nella prima nota, Gramsci ribadisce che si appartiene
sempre a una visione del mondo, a una filosofia. È un destino storico, che
tocca la nascita dell’uomo:

Per la propria concezione del mondo si appartiene sempre a un determinato aggrup-


pamento, e precisamente a quello di tutti gli elementi sociali che condividono uno stesso
modo di pensare e di operare. Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre
uomini-massa o uomini-collettivi.

Ma qui sorge il problema. Perché le visioni del mondo non sono tutte
eguali. Ci sono «tipi» diversi. La visione del mondo può essere passiva, cioè
disgregata e molteplice; oppure attiva, e il suo carattere è la coerenza e la cri-
tica. In quella passiva, l’uomo stesso è disgregato nella sua personalità.

La quistione è questa: di che tipo storico è il conformismo, l’uomo-massa di cui si fa


parte? Quando la concezione del mondo non è critica e coerente ma occasionale e disgre-
gata, si appartiene simultaneamente a una molteplicità di uomini-massa, la propria perso-
nalità è composita in modo bizzarro: si trovano in essa elementi dell’uomo delle caverne e
principii della scienza più moderna e progredita, pregiudizi di tutte le fasi storiche passate
grettamente localistiche e intuizioni di una filosofia avvenire quale sarà propria del genere
umano unificato mondialmente.

La visione disgregata è dunque segnata dall’anacronismo. È disgregata


perché unisce il passato e il presente, la tradizione e l’attualità. È una stratifi-
cazione di tempi diversi senza intima coerenza.

Criticare la propria concezione del mondo significa dunque renderla unitaria e coeren-
te e innalzarla fino al punto cui è giunto il pensiero mondiale più progredito. Significa
quindi anche criticare tutta la filosofia finora esistita, in quanto essa ha lasciato stratifica-
zioni consolidate nella filosofia popolare. L’inizio dell’elaborazione critica è la coscienza
di quello che è realmente, cioè un «conosci te stesso» come prodotto del processo storico
172

finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un’infinità di tracce accolte senza beneficio
d’inventario. Occorre fare inizialmente un tale inventario.

Criticare significa dunque unificare: ma unificare significa innalzare la


visione del mondo al livello dell’attualità, al principio globale che informa la
situazione attuale del mondo. La critica non ha dunque una natura astratta
(non è dettata da un principio di ragione o da un diritto naturale), ma pro-
priamente storica.
Questo concetto è ulteriormente chiarito nella seconda nota. Filosofia e
storia sono lo stesso, in molti sensi. Sia perché la filosofia segna l’epoca,
possiamo dire che costituisce ciò che si chiama epoca, sia perché la filosofia
è sempre storia della filosofia. Per dire meglio, la filosofia ha una origine
verticale, nasce dal presente (il globale), ma è fin dall’inizio mediazione con
il passato e con la tradizione. Questa mediazione è il nodo della critica. La
tesi crociana della contemporaneità della storia diventa un compito attivo, un
esercizio intellettuale che deve essere sempre riguadagnato. È il presente che
deve ridurre a sé il passato, che deve unificarlo e assimilarlo nel segno del
principio storico globale.

Non si può separare la filosofia dalla storia della filosofia e la cultura dalla storia della
cultura. Nel senso più immediato e aderente, non si può essere filosofi, cioè avere una
concezione del mondo criticamente coerente, senza la consapevolezza della sua storicità,
della fase di sviluppo da essa rappresentata e del fatto che essa è in contraddizione con
altre concezioni o con elementi di altre concezioni. La propria concezione del mondo ri-
sponde a determinati problemi posti dalla realtà, che sono ben determinati e «originali»
nella loro attualità. Come è possibile pensare il presente e un ben determinato presente
con un pensiero elaborato per problemi del passato spesso ben remoto e sorpassato? Se
ciò avviene, significa che si è «anacronistici» nel proprio tempo, che si è dei fossili e non
esseri modernamente viventi. O per lo meno che si è «compositi» bizzarramente. E infatti
avviene che gruppi sociali che per certi aspetti esprimono la più sviluppata modernità, per
altri sono in arretrato con la loro posizione sociale e pertanto sono incapaci di completa
autonomia storica.

La terza nota introduce una complicazione ulteriore e, come poi vedremo,


decisiva. La visione del mondo più elementare è il linguaggio. Il linguaggio
porta con sé quella ambiguità di cui abbiamo parlato. In questo passo l’ambi-
guità è rappresentata dal dialetto e dal processo di unificazione di una lingua
nazionale. Ma ciò che importa di una lingua nazionale non è la sua adesione
alla nazionalità, ma la sua traducibilità in termini globali. La lingua naziona-
le si traduce nelle altre culture, e in questa traduzione emerge dialetticamen-
te il principio globale.

Se è vero che ogni linguaggio contiene gli elementi di una concezione del mondo e di
una cultura, sarà anche vero che dal linguaggio di ognuno si può giudicare la maggiore o
minore complessità della sua concezione del mondo. Chi parla solo il dialetto o compren-
de la lingua nazionale in gradi diversi, partecipa necessariamente di una intuizione del
mondo più o meno ristretta e provinciale, fossilizzata, anacronistica in confronto delle
grandi correnti di pensiero che dominano la storia mondiale. I suoi interessi saranno ri-
stretti, più o meno corporativi o economistici, non universali. Se non sempre è possibile
173

imparare più lingue straniere per mettersi a contatto con vite culturali diverse, occorre al-
meno imparare bene la lingua nazionale. Una grande cultura può tradursi nella lingua di
un’altra grande cultura, cioè una grande lingua nazionale, storicamente ricca e complessa,
può tradurre qualsiasi altra grande cultura, cioè essere una espressione mondiale. Ma un
dialetto non può fare la stessa cosa.

La quarta e ultima nota sanziona le osservazioni precedenti. Criticare una


visione del mondo non significa scoprire astrattamente un principio originale,
ma tradurre (diffondere, socializzare) lo spirito del mondo. In questo circolo
si costituisce una critica pienamente storica.

Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte «ori-
ginali», significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte,
«socializzarle» per così dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di
coordinamento e di ordine intellettuale e morale. Che una massa di uomini sia condotta a
pensare coerentemente e in modo unitario il reale presente è fatto «filosofico» ben più
importante e «originale» che non sia il ritrovamento da parte di un «genio» filosofico di
una nuova verità che rimane patrimonio di piccoli gruppi intellettuali.

4. La politica come unità di teoria e prassi

A questo punto (carta 12verso) Gramsci lascia una riga bianca, crea uno
stacco, e introduce un discorso in parte diverso, che si chiude nella carta
16recto. L’analisi si complica, o meglio si articola in tre termini che sono ca-
ratteristici del suo pensiero: la filosofia, il senso comune, la religione. Ora la
filosofia si distingue nettamente dalle altre due categorie, come critica e co-
struzione del buon senso, ma anche senso comune e religione non sono lo
stesso.

Connessione tra il senso comune, la religione e la filosofia. La filosofia è un ordine


intellettuale, ciò che non possono essere né la religione né il senso comune. Vedere come,
nella realtà, neanche religione e senso comune coincidono, ma la religione è un elemento
del disgregato senso comune. Del resto «senso comune» è nome collettivo, come «reli-
gione»: non esiste un solo senso comune, ché anche esso è un prodotto e un divenire sto-
rico. La filosofia è la critica e il superamento della religione e del senso comune e in tal
senso coincide col «buon senso» che si contrappone al senso comune.

È importante sottolineare che anche la religione acquista un doppio signi-


ficato: religione trascendente e ideologia.

Relazioni tra scienza ‑ religione ‑ senso comune. La religione e il senso comune non
possono costituire un ordine intellettuale perché non possono ridursi a unità e coerenza
neanche nella coscienza individuale per non parlare della coscienza collettiva: non posso-
no ridursi a unità e coerenza «liberamente» perché «autoritativamente» ciò potrebbe av-
venire come infatti è avvenuto nel passato entro certi limiti. Il problema della religione
intesa non nel senso confessionale ma in quello laico di unità di fede tra una concezione
del mondo e una norma di condotta conforme; ma perché chiamare questa unità di fede
«religione» e non chiamarla «ideologia» o addirittura «politica»?
174

Ma il senso laico della religione indica non solo l’immanenza, ma il nesso


di teoria e prassi. Il problema principale della filosofia è quello della riforma
intellettuale e morale, della morale conforme, dell’alto e del basso. Come
scrive Gramsci, dell’unità del Rinascimento e della Riforma. Il passaggio
fondamentale (ne vedremo poi gli sviluppi) è il problema dell’antitesi tra teo-
ria e prassi. Questo problema va inteso in un senso specifico: nel senso che,
in un gruppo sociale, la teoria rimane nel senso comune e dunque nasconde il
principio della prassi.

Non esiste infatti la filosofia in generale: esistono diverse filosofie o concezioni del
mondo e si fa sempre una scelta tra di esse. Come avviene questa scelta? È questa scelta
un fatto meramente intellettuale o più complesso? E non avviene spesso che tra il fatto
intellettuale e la norma di condotta ci sia contraddizione? Quale sarà allora la reale conce-
zione del mondo: quella logicamente affermata come fatto intellettuale, o quella che risul-
ta dalla reale attività di ciascuno, che è implicita nel suo operare? E poiché l’operare è
sempre un operare politico, non si può dire che la filosofia reale di ognuno è contenuta
tutta nella sua politica? Questo contrasto tra il pensare e l’operare, cioè la coesistenza di
due concezioni del mondo, una affermata a parole e l’altra esplicantesi nell’effettivo ope-
rare, non è dovuto sempre a malafede. La malafede può essere una spiegazione soddisfa-
cente per alcuni individui singolarmente presi, o anche per gruppi più o meno numerosi,
non è soddisfacente però quando il contrasto si verifica nella manifestazione di vita di lar-
ghe masse: allora esso non può non essere l’espressione di contrasti più profondi di ordine
storico sociale. Significa che un gruppo sociale, che ha una sua propria concezione del
mondo, sia pure embrionale, che si manifesta nell’azione, e quindi saltuariamente, occa-
sionalmente, cioè quando tal gruppo si muove come un insieme organico, ha, per ragioni
di sottomissione e subordinazione intellettuale, preso una concezione non sua a prestito da
un altro gruppo e questa afferma a parole, e questa anche crede di seguire, perché la segue
in «tempi normali», cioè quando la condotta non è indipendente e autonoma, ma appunto
sottomessa e subordinata. Ecco quindi che non si può staccare la filosofia dalla politica e
si può mostrare anzi che la scelta e la critica di una concezione del mondo è fatto politico
anch’essa.

Il contrasto tra prassi e teoria è dunque il conctrasto stesso fra presente e


passato, tra immanenza e trascendenza. La prassi non passa da sola nella teo-
ria. Per questo (che è il vero compito rivoluzionario) serve il lavoro della po-
litica e, come vedremo fra breve, dell’intellettuale, in particolare di
quell’intellettuale collettivo che nella democrazia moderna è rappresentato
dai partiti politici.

Il rapporto tra filosofia «superiore» e senso comune è assicurato dalla «politica», così
come è assicurato dalla politica il rapporto tra il cattolicismo degli intellettuali e quello
dei «semplici». Le differenze nei due casi sono però fondamentali.

5. Filosofia, egemonia, partiti

Tutto il discorso si stringe nelle carte 16 verso-recto. Abbiamo già esami-


nato questo passaggio studiando il Quaderno 8, ma dobbiamo ora compren-
175

dere come si inserisca nella tramma “filosofica” del Quaderno 11. Qui
l’analisi del rapporto teoria-prassi dischiude la questione dell’egemonia, cioè
la costruzione di una teoria adeguata alla prassi.

L’uomo attivo di massa opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di
questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua co-
scienza teorica anzi può essere storicamente in contrasto col suo operare. Si può quasi dire
che egli ha due coscienze teoriche (o una coscienza contraddittoria), una implicita nel suo
operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella trasformazione pratica
della realtà e una superficialmente esplicita o verbale che ha ereditato dal passato e ha
accolto senza critica. Tuttavia questa concezione «verbale» non è senza conseguenze: essa
riannoda a un gruppo sociale determinato, influisce nella condotta morale, nell’indirizzo
della volontà, in modo più o meno energico, che può giungere fino a un punto in cui la
contradditorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna
scelta e produce uno stato di passività morale e politica.
La comprensione critica di se stessi avviene quindi attraverso una lotta di «egemonie»
politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell’etica, poi della politica, per
giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale. La coscienza di
essere parte di una determinata forza egemonica (cioè la coscienza politica) è la prima
fase per una ulteriore e progressiva autocoscienza in cui teoria e pratica finalmente si uni-
ficano. Anche l’unità di teoria e pratica non è quindi un dato di fatto meccanico, ma un
divenire storico, che ha la sua fase elementare e primitiva nel senso di «distinzione», di
«distacco», di indipendenza appena istintivo, e progredisce fino al possesso reale e com-
pleto di una concezione del mondo coerente e unitaria. Ecco perché è da mettere in rilievo
come lo sviluppo politico del concetto di egemonia rappresenta un grande progresso filo-
sofico oltre che politico‑pratico, perché necessariamente coinvolge e suppone una unità
intellettuale e una etica conforme a una concezione del reale che ha superato il senso co-
mune ed è diventata, sia pure entro limiti ancora ristretti, critica.

Il passaggio è di grande importanza e trova uno sviluppo nella concezione


dei partiti politici, ai quali viene appunto assegnato il compito di elaborare
una visione del mondo e di saldare la teoria e la prassi.

È da porre in rilievo l’importanza e il significato che hanno, nel mondo moderno, i


partiti politici nell’elaborazione e diffusione delle concezioni del mondo in quanto essen-
zialmente elaborano l’etica e la politica conforme ad esse, cioè funzionano quasi da «spe-
rimentatori» storici di esse concezioni. I partiti selezionano individualmente la massa ope-
rante e la selezione avviene sia nel campo pratico che in quello teorico congiuntamente,
con un rapporto tanto più stretto tra teoria e pratica quanto più la concezione è vitalmente
e radicalmente innovatrice e antagonistica dei vecchi modi di pensare. Perciò si può dire
che i partiti sono gli elaboratori delle nuove intellettualità integrali e totalitarie, cioè il
crogiolo dell’unificazione di teoria e pratica intesa come processo storico reale e si capi-
sce come sia necessaria la formazione per adesione individuale e non del tipo «laburista»
perché, se si tratta di dirigere organicamente «tutta la massa economicamente attiva» si
tratta di dirigerla non secondo vecchi schemi ma innovando, e l’innovazione non può di-
ventare di massa, nei suoi primi stadi, se non per il tramite di una élite in cui la concezio-
ne implicita nella umana attività sia già diventata in una certa misura coscienza attuale
coerente e sistematica e volontà precisa e decisa.
176

Questa teoria (filosofia-egemonia-partiti) rappresenta la critica più radica-


le dei recenti sviluppi della filosofia della praxis. Infatti, il marxismo è rima-
sto legato al momento pratico e ha negato il momento determinante della
teoria (della critica e della costruzione di una propria visione del mondo). Lo
strumento di questa riduzione è il determinismo, il fatalismo, l’economismo.
Il marxismo ha pensato che la costruzione del soggetto politico fosse surro-
gata dall’andamento automatico della storia, dalla rivoluzione che si fa da sé.
Per questo bisogna riportare al centro della filosofia della praxis il problema
della costituzione del soggetto politico.
Così, la critica della filosofia “speculativa” (idealismo) ci conduce
all’altro polo del discorso, cioè alla critica del materialismo, che trova nella
figura di Bucharin il bersaglio privilegiato.
177

Lezione 19

(Lunedì 11 maggio 2020)

1. Chi era Bucharin?

Una parte consistente del Quaderno 11 è dedicata alla critica di Nikolaj


Ivanovic Bucharin. Nelle prime lezioni di questo corso ci siamo già occupati
di questa figura, ricordandone il destino storico e il notevole rilievo intellet-
tuale. Nella seconda sezione del Quaderno 11, che conta ben 27 fogli (cc.
22recto-49recto, §§ 13-35) Gramsci rielaborò le note dei Quaderni 4 (§§ 25-
35), 7 (§ 20-25) e 8 (§§ 13-19) dedicate al Manuale di Bucharin: La teoria
del materialismo storico. Testo popolare della sociologia marxista, apparso
a Mosca nel 1921 e nel 1925 nella quarta edizione definitiva. Nel momento
in cui Gramsci scrisse le note (Q4-Q8 fra il maggio 1930 e il maggio 1932;
Q11 dopo il luglio 1932) Bucharin era stato estromesso come presidente del
Comintern (aprile 1929) ed espulso dal Politburo (novembre 1929). Solo più
tardi, nel 1937 e nel 1938, verrà dapprima espulso dal partito russo poi pro-
cessato e fucilato.
La critica di Gramsci si mantiene sempre su un livello teorico, non vi so-
no allusioni a queste vicende. Ma naturalmente si tratta di capire cosa Gram-
sci, dal chiuso della sua prigione, ne sapesse, e questo costituisce uno dei te-
mi più complessi e affascinanti dello studio della biografia carceraria gram-
sciana.
Per chi fosse interessato ad approfondire questo aspetto, rinvio alla rico-
struzione che ho proposto nella conferenza per il “Corso di alta formazione
in Filosofia, filologia e archivi” e che trovate fra i materiali del corso. Ora
vorrei soffermarmi esclusivamente sugli aspetti filosofici della critica a Bu-
charin.

2. La materia è solo “rapporto umano”

Come abbiamo visto, le idee filosofiche di Gramsci emergono da un dop-


pio movimento: da un lato la critica radicale del materialismo di Bucharin,
d’altro lato il richiamo a una tradizione specifica del marxismo italiano, quel-
la della filosofia della praxis, e in particolare a Labriola. I due aspetti sono
strettamente connessi. La critica a Bucharin fa leva, infatti, sulla concezione
del marxismo caratteristica di Labriola. In Labriola si trova, secondo Gram-
sci, la giusta impostazione del problema del marxismo: la critica del marxi-
smo in combinazione, l’idea che nel pensiero di Marx sia implicita una filo-
sofia originale, il concetto della praxis come atto umano che inizia la storia.
178

La critica di Bucharin è dunque una critica del materialismo, dell’idea


che la filosofia della praxis possa fondarsi su una filosofia materialista di tipo
tradizionale. Osserviamone i passaggi fondamentali.
Nel § 30 viene confutato in maniera diretta il concetto di materia. Infatti
ogni materialismo si fonda sul postulato della esistenza della materia, di una
materia data, trascendente, e indipendente dalla volontà umana. Nella visio-
ne di Gramsci, fra materialismo e immanenza vi è un contrasto di fondo,
irresolubile. Al contrario, la materia è solo un fatto della storia umana, è
(come Gramsci si esprime) «rapporto umano»:

È evidente che per la filosofia della praxis la «materia» non deve essere intesa né nel
significato quale risulta dalle scienze naturali (fisica, chimica, meccanica ecc., e questi
significati sono da registrare e da studiare nel loro sviluppo storico) né nei suoi significati
quali risultano dalle diverse metafisiche materialistiche. Le diverse proprietà fisiche (chi-
miche, meccaniche ecc.) della materia che nel loro insieme costituiscono la materia stessa
(a meno che non si ricaschi in una concezione del noumeno kantiano) sono considerate,
ma solo in quanto diventano «elemento economico» produttivo. La materia non è quindi
da considerare come tale, ma come socialmente e storicamente organizzata per la produ-
zione e quindi la scienza naturale come essenzialmente una categoria storica, un rapporto
umano.

L’idea di materia come «rapporto umano» è svolta nelle linee successive.


Gramsci fa un importante riferimento alla concezione crociana dell’utile-
economico. La natura non è un dato, ma è produzione della volontà umana:

E il concetto idealistico che la natura non è altro che la categoria economica, non po-
trebbe, depurato dalle sue superstrutture speculative, essere ridotto in termini di filosofia
della praxis ed essere dimostrato storicamente legato a questa e uno sviluppo di questa?

La riflessione di Gramsci chiama in causa due questioni. In primo luogo


la lettura di Croce come trascrizione in termini speculativi della filosofia del-
la praxis. Per Croce la natura è un prodotto della volontà umana, oltre ogni
separazione di natura e spirito. Questo è il senso della critica rivolta a Lu-
kacs:

È da studiare la posizione del prof. Lukacz verso la filosofia della praxis. Pare che il
Lukacz affermi che si può parlare di dialettica solo per la storia degli uomini e non per la
natura. Può aver torto e può aver ragione. Se la sua affermazione presuppone un dualismo
tra la natura e l’uomo egli ha torto perché cade in una concezione della natura propria del-
la religione e della filosofia greco-cristiana e anche propria dell’idealismo, che realmente
non riesce a unificare e mettere in rapporto l’uomo e la natura altro che verbalmente. Ma
se la storia umana deve concepirsi anche come storia della natura (anche attraverso la sto-
ria della scienza) come la dialettica può essere staccata dalla natura? Forse il Lukacz, per
reazione alle teorie barocche del Saggio popolare, è caduto nell’errore opposto, in una
forma di idealismo. É certo che in Engels (Antidühring) si trovano molti spunti che pos-
sono portare alle deviazioni del Saggio. Si dimentica che Engels, nonostante che vi abbia
lavorato a lungo, ha lasciato scarsi materiali sull’opera promessa per dimostrare la dialet-
tica legge cosmica e si esagera nell’affermare l’identità di pensiero tra i due fondatori del-
la filosofia della praxis.
179

In secondo luogo riguarda l’idea marxiana della struttura. Cosa è la strut-


tura? Per Gramsci la struttura è bensì ciò che condiziona le superstrutture, ma
è anche un prodotto delle superstrutture. Tra i due momenti c’è un rapporto
circolare: riprendendo una espressione di Sorel, come sappiamo, Gramsci lo
definisce «blocco storico», nel senso che nessuno dei due termini può essere
separato dall’altro.
Il punto essenziale viene espresso nella parte centrale di questo § 30. Ciò
che chiamiamo materia indica «l’elemento meno variabile nello sviluppo sto-
rico», la quantità, il misurabile, cioè l’oggetto che costituisce «la cristallizza-
zione di tutta la storia passata». Per certi versi, la materia è il passato, la
condizione di necessità su cui sorge l’atto della volontà, che in Gramsci è po-
litica:

L’insieme delle forze materiali di produzione è l’elemento meno variabile nello svi-
luppo storico, è quello che volta per volta può essere accertato e misurato con esattezza
matematica, che può dar luogo pertanto a osservazioni e a criteri di carattere sperimentale
e quindi alla ricostruzione di un robusto scheletro del divenire storico. La variabilità
dell’insieme delle forze materiali di produzione è anch’essa misurabile e si può stabilire
con una certa precisione quando il suo sviluppo da quantitativo diventa qualitativo.
L’insieme delle forze materiali di produzione è insieme una cristallizzazione di tutta la
storia passata e la base della storia presente e avvenire, è un documento e insieme una for-
za attiva attuale di propulsione. Ma il concetto di attività di queste forze non può essere
confuso e neppure paragonato all’attività nel senso fisico o metafisico.

3. Sulla realtà del mondo esterno

Ma questa critica del concetto di materia, integralmente ricondotta alla


storia e alla volontà umana, si approfondisce nel punto filosofico essenziale:
la negazione della realtà del mondo esterno e un nuovo concetto di oggettivi-
tà. Qui entra in gioco, oltre il materialismo, il problema stesso del realismo,
la separazione di pensiero ed essere. Bucharin aveva fondato il materialismo
sulla realtà dell’essere (della materia) come indipendente dal pensiero. Ma
questo era anche un punto essenziale in Lenin o in Engels. Contro l’ideali-
smo, i marxisti avevano sempre affermato la realtà dell’oggetto, la sua indi-
pendenza dal soggetto.
La critica del mondo esterno è messa a fuoco nel § 17. Si ricordi che Bu-
charin aveva affermato che la concezione soggettivistica e idealistica (con
riferimento a Berkeley) aveva un fondamento religioso. Gramsci rovescia
questo argomento. La fede nella realtà del mondo esterno è il tratto essenzia-
le del senso comune e deriva dalla dottrina cristiano-ebraica della creazione.
Come è facile intendere, tutto il tema della riforma intellettuale e morale na-
sce qui, dall’affermazione di una visione del mondo immanentistica e sogget-
tivistica:

Basta enunziare così il problema per sentire un irrefrenabile e gargantuesco scoppio di


ilarità. Il pubblico «crede» che il mondo esterno sia obbiettivamente reale, ma qui appunto
180

nasce la quistione: qual è l’origine di questa «credenza» e quale valore critico ha «obbiet-
tivamente»? Infatti questa credenza è di origine religiosa anche se vi partecipa è religio-
samente indifferente. Poiché tutte le religioni hanno insegnato e insegnano che il mondo,
la natura, l’universo è stato creato da dio prima della creazione dell’uomo e quindi l’uomo
ha trovato il mondo già bell’e pronto, catalogato e definito una volta per sempre, questa
credenza è diventata un dato ferreo del «senso comune» e vive con la stessa saldezza an-
che se il sentimento religioso è spento o sopito. Ecco allora che fondarsi su questa espe-
rienza del senso comune per distruggere con la «comicità» la concezione soggettivistica
ha un significato piuttosto «reazionario», di ritorno implicito al sentimento religioso; in-
fatti gli scrittori o gli oratori cattolici ricorrono allo stesso mezzo per ottenere lo stesso
effetto di ridicolo corrosivo.

Al contrario, la filosofia della praxis riprende la concezione soggettivisti-


ca, caratteristica di tutta la filosofia moderna, e la invera nella concezione
delle superstrutture, traducendola così nel linguaggio storicistico. La realtà
delle visioni del mondo, delle ideologie, delle superstrutture, è la forma in
cui il marxismo trascrive l’idealismo in una filosofia della praxis:

È certo che la concezione soggettivistica è propria della filosofia moderna nella sua
forma compiuta e avanzata, se da essa e come superamento di essa è nato il materialismo
storico, che nella teoria delle superstrutture pone in linguaggio realistico e storicistico ciò
che la filosofia tradizionale esprimeva in forma speculativa La dimostrazione di questo
assunto, che qui è appena accennato, avrebbe la più grande portata culturale, perché met-
terebbe fine a una serie di discussioni futili quanto oziose e permetterebbe uno sviluppo
organico della filosofia della praxis, fino a farla diventare l’esponente egemonico dell’alta
cultura.

Occorre dimostrare che la concezione «soggettivistica», dopo aver servito a criticare


la filosofia della trascendenza da una parte e la metafisica ingenua del senso comune e del
materialismo filosofico, può trovare il suo inveramento e la sua interpretazione storicistica
solo nella concezione delle superstrutture mentre nella sua forma speculativa non è altro
che un mero romanzo filosofico.

4. Cosa è l’oggettività?

L’assunzione così radicale del soggettivismo pone il problema di ridefini-


re il senso della oggettività. Ciò che è oggettivo non indica un dato in sé, tra-
scendente lo spirito umano, ma una costruzione storica, un processo di unifi-
cazione dell’umanità, un «universale soggettivo», in larga parte realizzato dal
metodo sperimentale della scienza. Nella visione di Gramsci oggettivo signi-
fica che il soggetto si fa universale, si fa mondo, unificando l’umanità. Dalla
lotta di egemonie emerge un senso globale, storicamente variabile, e questo è
il senso dell’oggettività.

Oggettivo significa sempre «umanamente oggettivo», ciò che può corrispondere esat-
tamente a «storicamente soggettivo», cioè oggettivo significherebbe «universale soggetti-
vo». L’uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere
umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di uni-
181

ficazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la
società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della
nascita delle ideologie non universali concrete ma rese caduche immediatamente
dall’origine pratica della loro sostanza. C’è quindi una lotta per l’oggettività (per liberarsi
dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l’unificazione culturale
del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano «spirito» non è un punto di partenza, ma
di arrivo, l’insieme delle soprastrutture in divenire verso l’unificazione concreta e ogget-
tivamente universale e non già un presupposto unitario ecc.
La scienza sperimentale è stata (ha offerto) finora il terreno in cui una tale unità cultu-
rale ha raggiunto il massimo di estensione: essa è stata l’elemento di conoscenza che ha
più contribuito a unificare lo «spirito», a farlo diventare più universale; essa è la soggetti-
vità più oggettivata e universalizzata concretamente.
Il concetto di «oggettivo» del materialismo metafisico pare voglia significare una og-
gettività che esiste anche all’infuori dell’uomo, ma quando si afferma che una realtà esi-
sterebbe anche se non esistesse l’uomo o si fa una metafora o si cade in una forma di mi-
sticismo. Noi conosciamo la realtà solo in rapporto all’uomo e siccome l’uomo è divenire
storico anche la conoscenza e la realtà sono un divenire, anche l’oggettività è un divenire
ecc. (§17)

5. La previsione è prassi

Per Bucharin la sociologia marxista assicura la previsione sulla base di


leggi necessarie della vita sociale, applicando il metodo delle scienze empiri-
che. Si fonda cioè sul rapporto causa-effetto. Per Gramsci non esistono leggi
che permettano di prevedere l’esito di una lotta. La previsione è prassi, non è
conoscenza. Si conosce il passato, non si conosce il futuro e l’esito della lotta.
Questo è il campo della volontà e quindi della politica. L’analisi scientifica
permette solo di riconoscere l’opposizione, il conflitto, che attraversa la so-
cietà, ma è l’azione politica che può determinarne gli esiti, che perciò riman-
gono sempre incerti e imprevedibili. Rispetto alla dialettica hegeliana, la sin-
tesi è costruita dalla lotta, dall’energia della volontà, non è necessaria in
senso assoluto. Necessarie sono le condizioni della prassi, non la prassi stes-
sa.

In realtà si può prevedere «scientificamente» solo la lotta, ma non i momenti concreti


di essa, che non possono non essere risultati di forze contrastanti in continuo movimento,
non riducibili mai a quantità fisse, perché in esse la quantità diventa continuamente quali-
tà. Realmente si «prevede» nella misura in cui si opera, in cui si applica uno sforzo volon-
tario e quindi si contribuisce concretamente a creare il risultato «preveduto». La previsio-
ne si rivela quindi non come un atto scientifico di conoscenza, ma come l’espressione
astratta dello sforzo che si fa, il modo pratico di creare una volontà collettiva.
E come potrebbe la previsione essere un atto di conoscenza? Si conosce ciò che è sta-
to o è, non ciò che sarà, che è un «non esistente» e quindi inconoscibile per definizione. Il
prevedere è quindi solo un atto pratico che non può, in quanto non sia una futilità o un
perditempo, avere altra spiegazione che quella su esposta. È necessario impostare esatta-
mente il problema della prevedibilità degli accadimenti storici per essere in grado di criti-
care esaurientemente la concezione del causalismo meccanico, per svuotarla di ogni pre-
stigio scientifico e ridurla a puro mito che fu forse utile nel passato, in un periodo arretra-
to di sviluppo di certi gruppi sociali subalterni (vedere una nota precedente). (§15)
182

6. La filologia vivente

Il marxismo come sociologia è dunque impossibile. La sociologia ha solo


un valore di comodo. La filosofia della praxis, in quanto scienza, non è pre-
visione, ma è filologia, cioè accertamento di fatti particolari; e filosofia in
quanto metodologia generale della storia. Qui la lezione di Croce diventa de-
cisiva: il materialismo storico è un canone, la filosofia è una metodologia
della storia. Di più, affidarsi alla sociologia e alla statistica significa andare
incontro a «vere catastrofi», a sconfitte politiche. Significa scambiare le
astrazioni per la realtà. La realtà è storia, gli schemi sociologici sono astra-
zioni. La sociologia come previsione diventa «errore pratico in atto».

L’esperienza su cui si basa la filosofia della praxis non può essere schematizzata; essa
è la storia stessa nella sua infinita varietà e molteplicità il cui studio può dar luogo alla
nascita della «filologia» come metodo dell’erudizione nell’accertamento dei fatti partico-
lari e alla nascita della filosofia intesa come metodologia generale della storia. Questo
forse volevano dire quegli scrittori che, come accenna molto affrettatamente il saggio nel
primo capitolo, negano si possa costruire una sociologia dalla filosofia della praxis e af-
fermano che la filosofia della praxis vive solo nei saggi storici particolari (l’affermazione,
così nuda e cruda, è certamente erronea e sarebbe una nuova curiosa forma di nominali-
smo e di scetticismo filosofico).
Negare che si possa costruire una sociologia, intesa come scienza della società, cioè
come scienza della storia e della politica, che non sia la stessa filosofia della praxis, non
significa che non si possa costruire una compilazione empirica di osservazioni pratiche
che allarghino la sfera della filologia come è intesa tradizionalmente. Se la filologia è
l’espressione metodologica dell’importanza che i fatti particolari siano accertati e precisa-
ti nella loro inconfondibile «individualità», non si può escludere l’utilità pratica di identi-
ficare certe «leggi di tendenza» più generali che corrispondono nella politica alle leggi
statistiche o dei grandi numeri che hanno servito a far progredire alcune scienze naturali.
Ma non è stato messo in rilievo che la legge statistica può essere impiegata nella scienza e
nell’arte politica solo fino a quando le grandi masse della popolazione rimangono essen-
zialmente passive – per rispetto alle quistioni che interessano lo storico e il politico – o si
suppone rimangano passive. D’altronde l’estensione della legge statistica alla scienza e
all’arte politica può avere conseguenze molto gravi in quanto si assume per costruire pro-
spettive e programmi d’azione; se nelle scienze naturali la legge può solo determinare
spropositi e strafalcioni, che potranno essere facilmente corretti da nuove ricerche e in
ogni modo rendono solo ridicolo il singolo scienziato che ne ha fatto uso, nella scienza e
nell’arte politica può avere come risultato delle vere catastrofi, i cui danni «secchi» non
potranno mai essere risarciti. Infatti nella politica l’assunzione della legge statistica come
legge essenziale, fatalmente operante, non è solo errore scientifico, ma diventa errore pra-
tico in atto; essa inoltre favorisce la pigrizia mentale e la superficialità programmatica.
(§25)

Questo discorso ha un valore più generale. Richiama la funzione dei par-


titi di massa nelle democrazie moderne. È attraverso l’azione collettiva dei
partiti che la filologia (accertamento dei fatti) diventa filologia vivente, cioè
183

costruzione pratica della storia in modo consapevole e critico. La filologia


vivente è la costruzione stessa dei fatti, la prassi.

Con l’estendersi dei partiti di massa e il loro aderire organicamente alla vita più inti-
ma (economico-produttiva) della massa stessa, il processo di standardizzazione dei senti-
menti popolari da meccanico e casuale (cioè prodotto dall’esistenza ambiente di condizio-
ni e di pressioni simili) diventa consapevole e critico. La conoscenza e il giudizio di im-
portanza di tali sentimenti non avviene più da parte dei capi per intuizione sorretta dalla
identificazione di leggi statistiche, cioè per via razionale e intellettuale, troppo spesso fal-
lace, – che il capo traduce in idee-forza, in parole-forza – ma avviene da parte
dell’organismo collettivo per «compartecipazione attiva e consapevole», per «con-
passionalità», per esperienza dei particolari immediati, per un sistema che si potrebbe dire
di «filologia vivente». Così si forma un legame stretto tra grande massa, partito, gruppo
dirigente e tutto il complesso, bene articolato, si può muovere come un «uo-
mo‑collettivo».

7. Una nuova “ortodossia”

Arriviamo così alla parte costruttiva del discorso di Gramsci, che possia-
mo sintetizzare in due punti: il nuovo concetto di ortodossia e il metodo spe-
rimentale.
Al nuovo concetto di ortodossia è dedicato il § 27. Il principio della nuo-
va ortodossia è quello (derivato da Labriola) per cui il marxismo basta a sé
stesso, è autosufficiente.

L’ortodossia non deve essere ricercata in questo o quello dei seguaci della filosofia
della praxis, in questa o quella tendenza legata a correnti estranee alla dottrina originale,
ma nel concetto fondamentale che la filosofia della praxis «basta a se stessa», contiene in
sé tutti gli elementi fondamentali per costruire una totale ed integrale concezione del
mondo, una totale filosofia e teoria delle scienze naturali, non solo, ma anche per vivifica-
re una integrale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una totale, integra-
le civiltà. Questo concetto così rinnovato di ortodossia, serve a precisare meglio
l’attributo di «rivoluzionario» che si suole con tanta facilità applicare a diverse concezioni
del mondo, teorie, filosofie.

Il cerchio si chiude nel § 34, dove Gramsci torna sul tema della oggettivi-
tà del mondo esterno. Il problema della scienza si stringe nell’«attività prati-
co-sperimentale», che costituisce la «cellula storica elementare», cioè la rela-
zione originaria di uomo e natura, in quanto «unità perfetta di teoria e prati-
ca».

L’espressione di Engels che «la materialità del mondo è dimostrata dal lungo e labo-
rioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali» dovrebbe essere analizzata e preci-
sata. S’intende per scienza l’attività teorica o l’attività pratico‑sperimentale degli scien-
ziati? o la sintesi delle due attività? Si potrebbe dire che in ciò si avrebbe il processo uni-
tario tipico del reale, nell’attività sperimentale dello scienziato che è il primo modello di
mediazione dialettica tra l’uomo e la natura, la cellula storica elementare per cui l’uomo,
ponendosi in rapporto con la natura attraverso la tecnologia, la conosce e la domina. È
184

indubbio che l’affermarsi del metodo sperimentale separa due mondi della storia, due
epoche e inizia il processo di dissoluzione della teologia e della metafisica, e di sviluppo
del pensiero moderno, il cui coronamento è nella filosofia della praxis. L’esperienza
scientifica è la prima cellula del nuovo metodo di produzione, della nuova forma di unio-
ne attiva tra l’uomo e la natura. Lo scienziato‑sperimentatore è anche un operaio, non un
puro pensatore e il suo pensare è continuamente controllato dalla pratica e viceversa, fin-
ché si forma l’unità perfetta di teoria e pratica.
185

Lezione 20

(Mercoledì 13 maggio 2020)

1. Le premesse della questione degli intellettuali

La centralità del tema degli intellettuali nella definizione della filosofia


della praxis cresce, nel pensiero di Gramsci, tra il 1924 e il 1926 (il periodo,
come ricordate, della lotta contro Bordiga, prima dell’arresto) e trova una
prima espressione compiuta, anche se provvisoria, nell’articolo del 1926: No-
te sul problema meridionale e sull’atteggiamento nei suoi confronti dei co-
munisti, dei socialisti e dei democratici, più conosciuto con il titolo redazio-
nale della prima edizione del 1930 (sulla rivista clandestina “Lo Stato ope-
raio”): Alcuni temi della quistione meridionale. Teniamo presente che teoria
dell’egemonia e teoria degli intellettuali sono due aspetti strettamente con-
nessi, che si sviluppano insieme, l’uno nell’altro. Abbiamo studiato lo scritto
sulla questione meridionale nella lezione 6, che vi invito a tenere presente.
Ora possiamo limitarci a ricordare che, in quel testo, il problema degli intel-
lettuali diventava centrale per almento tre diversi motivi:

1= Gramsci scriveva che «il contadino meridionale è legato al grande pro-


prietario terriero per il tramite dell’intellettuale». Esaminando la situazione
peculiare del Mezzogiorno e delle masse contadine, osservava che, mentre
nel Nord dell’Italia, dove si era affermata la fabbrica fordista, il dominio del
capitale sull’operaio appare diretto (il capitalista sfrutta l’operaio in fabbrica,
senza la necessità di una mediazione intellettuale), nel Sud agricolo questo
medesimo dominio risulta indiretto, cioè mediato dalla funzione decisiva di
un blocco intellettuale (Benedetto Croce, Giustino Fortunato e così via).
Come vedete, Gramsci coglieva il ruolo determinante degli intellettuali nel
meccanismo di riproduzione del sistema sociale ma, per questo verso, lo li-
mitava ancora al contesto meridionale arretrato. Riteneva, insomma, che in
una società industriale avanzata, caratterizzata dalla presenza della grande
fabbrica, la borghesia esercitasse direttamente, senza la mediazione degli in-
tellettuali, la propria funzione di dominio. È facile osservare che nei quaderni
il paradigma adottato per la questione meridionale verrà esteso, reso generale
e universale, diventando il carattere della nuova forma del capitalismo mon-
diale dopo la grande guerra e la svolta degli anni Trenta, nei punti più avan-
zati dello sviluppo e non solo in quelli arretrati (il “post-fordismo”, come si
direbbe oggi).

2= In alcuni passi del saggio sulla questione merdionale, però, Gramsci al-
largava lo sguardo allo «sviluppo del capitalismo», alle tendenze di fondo
186

della società borghese contemporanea e arrivava a osservare che la funzione


degli intellettuali è destinata a crescere e a complicarsi in maniera significa-
tiva. Cominciava a vedere, perciò, che il capitalismo non è fermo a una fase
fordista, dove il dominio avviene sul terreno della fabbrica, ma tende a
estendersi sull’intero terreno della società civile. Proprio in tale estensione
delle forme mediate della riproduzione del sistema e del dominio sociale di-
venta fondamentale il ruolo degli intellettuali. Più precisamente, scrive
Gramsci, di «un nuovo tipo di intellettuale», diverso da quello tradizionale e
prevalente nelle società arretrate. Scriveva infatti così, in un brano che anti-
cipa molte riflessioni dei Quaderni del carcere:

In ogni paese lo strato degli intellettuali è stato radicalmente modificato dallo svilup-
po del capitalismo. Il vecchio tipo dell’intellettuale era l’elemento organizzativo di una
società a base contadina e artigiana prevalentemente; per organizzare lo Stato, per orga-
nizzare il commercio la classe dominante allevava un particolare tipo di intellettuali.
L’industria ha introdotto un nuovo tipo di intellettuale: l’organizzatore tecnico, lo specia-
lista della scienza applicata. Nelle società, dove le forze economiche si sono sviluppate in
senso capitalista, fino ad assorbire la maggior parte dell’attività nazionale, è questo se-
condo tipo di intellettuale che ha prevalso, con tutte le sue caratteristiche di ordine e di-
sciplina intellettuale. Nei paesi invece dove l’agricoltura esercita un ruolo ancora notevole
o addirittura preponderante, è rimasto in prevalenza il vecchio tipo, che dà la massima
parte del personale statale e che anche localmente, nel villaggio e nel borgo rurale, eserci-
ta la funzione di intermediario tra il contadino e l’amministrazione in generale. Nell’Italia
meridionale predomina questo tipo con tutte le sue caratteristiche: democratico nella fac-
cia contadina, reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario e il governo,
politicante, corrotto, sleale; non si comprenderebbe la figura tradizionale dei partiti politi-
ci meridionali, se non si tenesse conto dei caratteri di questo strato sociale.

3= Un terzo aspetto è quello relativo alle figure di Piero Gobetti e Guido


Dorso. Come forse ricordate, Gramsci doveva difendersi dalle accuse dei
bordighiani, di avere dialogato con intellettuali liberali, di avere confuso e
contaminato il punto di vista operaio con quello borghese. Al contrario, so-
stiene, è necessario operare oltre i confini del marxismo, creare un blocco
intellettuale più ampio di forze democratiche, contaminare le diverse culture
progressive. Nell’elogio di Gobetti è implicito il principio che il “blocco in-
tellettuale” può esercitare una reale egemonia sulla società, che va oltre i
confini della fabbrica e del conflitto di tipo economico. Scriveva:

La figura di Gobetti e il movimento da lui rappresentato furono spontanee produzioni


del nuovo clima storico italiano: in ciò è il loro significato e la loro importanza. Ci è stato
qualche volta rimproverato da compagni di partito di non aver combattuto contro la cor-
rente di idee di Rivoluzione liberale: questa assenza di lotta anzi sembrò la prova del col-
legamento organico, di carattere machiavellico (come si suol dire) tra noi e il Gobetti.
Non potevamo combattere contro Gobetti perché egli svolgeva e rappresentava un movi-
mento che non deve essere combattuto, almeno in linea di principio. Non comprendere ciò
significa non comprendere la questione degli intellettuali e la funzione che essi svolgono
nella lotta delle classi. […]
Pensare possibile che esso possa, come massa, rompere con tutto il passato per porsi
completamente sul terreno di una nuova ideologia, è assurdo. È assurdo per gli intellettua-
187

li come massa, e forse assurdo anche per moltissimi intellettuali presi individualmente,
nonostante tutti gli onesti sforzi che essi fanno e vogliono fare.
Il proletariato, come classe, è povero di elementi organizzativi, non ha e non può for-
marsi un proprio strato di intellettuali che molto lentamente, molto faticosamente e solo
dopo la conquista del potere statale. Ma è anche importante e utile che nella massa degli
intellettuali si determini una frattura di carattere organico, storicamente caratterizzata; che
si formi, come formazione di massa, una tendenza di sinistra, nel significato moderno del-
la parola, cioè orientata verso il proletariato rivoluzionario. L’alleanza tra proletariato e
masse contadine esige questa formazione; tanto più la esige l’alleanza tra il proletariato e
le masse contadine del Mezzogiorno. Il proletariato distruggerà il blocco agrario meridio-
nale nella misura in cui riuscirà, attraverso il suo partito, ad organizzare in formazioni au-
tonome e indipendenti, sempre più notevoli masse di contadini poveri; ma riuscirà in mi-
sura più o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua
capacità di disgregare il blocco intellettuale che è l’armatura flessibile ma resistentissima
del blocco agrario

Fin dalle prime note dei Quaderni del carcere Gramsci elaborò queste
prime intuizioni, collocando la questione degli intellettuali al centro della sua
teoria dell’egemonia. L’intero Quaderno 1 è, in definitiva, una riflessione su-
gli intellettuali, considerati sotto diverse prospettive: la formazione del senso
comune (che è appunto opera della funzione intellettuale), il meccanismo di
educazione scolastica e universitaria, le tendenze degli intellettuali italiani
(lorianesimo e brescianesimo), la funzione dei ceti intellettuali nel Risorgi-
mento italiano. Sono tutte linee di riflessione che, nel § 47 (un testo di stesu-
ra unica), trovano una espressione teorica nel rilievo assegnato al concetto
hegeliano di “società civile”. È la società civile, infatti, il luogo in cui, attra-
verso la funzione degli intellettuali, si costituisce il discorso egemonico.
Inoltre, nel nostro studio del Quaderno 8 e del Quaderno 11, abbiamo già
incontrato un testo nel quale l’opera dell’intellettuale assume un ruolo fon-
damentale nella costruzione del discorso rivoluzionario. È il passo (cu cui ci
siamo soffermati a lungo) dove Gramsci parla del “lavoratore medio” o “uo-
mo attivo di massa”. Come abbiamo visto, la coscienza del lavoratore è il
luogo di una contraddizione fra teoria e prassi, fra il senso comune ereditato
dal passato e trasmesso dall’educazione e, d’altra parte, l’attività produttiva
svolta nel rapporto con la natura e con gli altri operai. Perché questa contrad-
dizione sia superata, e il lavoratore venga sollevato al compito di una sogget-
tività progressiva, è necessario il lavoro collettivo dell’intellettuale: è cioè
necessaria l’elaborazione di una teoria unificata con la prassi, serve la co-
struzione di una visione del mondo adeguata al tempo presente. Senza
l’opera intellettuale, il processo politico incontrerebbe una strada sbarrata.

2. Marxismo e intellettuali

Questo ruolo centrale degli intellettuali (e della loro storia) è forse la ca-
ratteristica principale del marxismo di Gramsci. Nessun pensatore marxista
(con l’eccezione del precedente di Antonio Labriola) aveva parlato così degli
intellettuali, come di soggetti attivi nel processo di riproduzione sociale e di
188

autentici protagonisti del processo rivoluzionario. Nel marxismo teorico fra


Ottocento e Noivecento, i testi più importanti erano rimasti quelli di Karl
Kautsky del 1895 (L’intelligenza e la socialdemocrazia), poi di Max Adler
nel 1910 (Il socialismo e gli intellettuali). In ogni caso prevaleva l’idea che
gli intellettuali rappresentassero un ceto intermedio fra borghesi e proletari,
destinati a proletarizzarsi nel progresso della società capitalistica. Si trattava
perciò di conquistarli alla causa rivoluzionaria sulla base di una comunanza
di interessi con il proletariato. Sotto la guida della classe operaia essi avreb-
bero superato il difetto astratto e piccolo-borghese implicito nella loro condi-
zione sociale.
Con Gramsci il problema cambia completamente aspetto. Gli intellettuali
diventano il soggetto centrale e attivo del processo rivoluzionario, tanto che
il partito politico stesso, come vedremo, è definito intellettuale collettivo. Tra
intellettuali e concetto di egemonia si stabilisce dunque un legame indissolu-
bile.

3. Il Quaderno 12

Nel primo foglio del Quaderno 8 Gramscì stilò un ampio programma di


lavoro che portava questo titolo generale: Note sparse e appunti per una sto-
ria degli intellettuali italiani. Dopo alcune notazioni di carattere metodologi-
co, elencò una serie di «saggi principali» che, nel loro insieme, articolavano
questo tema. Nel verso dello stesso foglio del Quaderno 8 si legge l’elenco
ulteriore di dieci «raggruppamenti di materia», che rappresentano il primo
progetto dei quaderni “speciali” e che tutti ruotano intorno alla questione de-
gli intellettuali. Se ricordiamo la corrispondenza con Tatiana nel periodo in
cui venne avviata la stesura dei quaderni “speciali”, ci accorgiamo che
l’intero lavoro intrapreso da Gramsci riguardava proprio il nodo degli intel-
lettuali e della loro storia. Non solo aveva promesso (a Tatiana e a Sraffa) un
testo generale sulla storia degli intellettuali italiani, ma la prima richiesta di
«quaderni di formato normale, come quelli scolastici, e di non molte pagine,
al massimo 40-50», formulata il 22 febbraio 1932, era funzionale all’idea di
riordinare le note, già scritte nei “miscellanei”, su questo argomento. Da que-
sti e altri documenti possiamo trarre una conclusione molto importante: la
questione degli intellettuali costituiva, nelle intenzioni di Gramsci, il tema
generale dei suoi quaderni, il problema principale al cui interno si articola-
vano tutti gli aspetti che via via venivano trattati. Nel loro complesso, dun-
que, i Quaderni del carcere possono essere definiti come un trattato (incon-
cluso e necessariamente disordinato) sul problema-cardine delle funzioni in-
tellettuali e della loro storia.
Il saggio riassuntivo promesso a Tatiana non venne tuttavia concluso,
perché, scrisse Gramsci, «è ancora presto per riassumere e sintetizzare», e «si
tratta di una materia ancora allo stadio fluido, che dovrà subire una elabora-
zione ulteriore». Perciò iniziò la stesura del Quaderno 10, dedicato alla filo-
sofia di Benedetto Croce, e inaugurò il Quaderno 13 su Machiavelli. Ma nel
189

giro di soli due mesi, tra il maggio e il giugno del 1932, scrisse i 12 fogli del
Quaderno 12, intitolato Appunti e note sparse per un gruppo di saggi sulla
storia degli intellettuali, dove rielaborò, in seconda stesura (aggregandoli in
tre soli paragrafi), alcuni testi del Quaderno 4. In questo piccolo ma inportan-
te quaderno troviamo perciò il condensato di tutta la sua riflessione sugli in-
tellettuali.

4. L’intellettuale “democratico”

Da dove nasce la centralità (inaudita per il marxismo) di questo tema? Il


primo motivo lo abbiamo già incontrato studiando il Quaderno 11. Se ricor-
date, tutta la costruzione teorica del Quaderno 11 era basata sulla doppia cri-
tica di idealismo e materialismo e, perciò, sul programma di una filosofia
della praxis. Il marxismo teorico doveva essere radicalmente riformulato in
tale prospettiva, in una filosofia nuova e indipendente, che non si “combina”
con le tradizioni “speculative” e materialiste, perché le ha preliminarmente
confutate. Il presupposto dell’intero discorso era però la critica del filosofo
puro, metafisico, separato (purus philosophus, aveva scritto Croce, purus
asinus), e la perentoria affermazione per cui ogni uomo è filosofo. Attraverso
il linguaggio, il senso comune, il folclore, la filosofia era dimostrata come
una visione del mondo comune a tutti gli uomini. Ne derivava l’immagine di
un filosofo impurus, cioè aderente al senso comune e, nello stesso tempo,
capace di formularne la critica storica. Un filosofo, possiamo aggiungere, che
è nello stesso tempo storico e politico, riunificando le funzioni della teoria e
della prassi.
Questa immagine nuova del filosofo prefigura già la figura dell’intellet-
tuale moderno, che (come vedremo nella prossima lezione) verrà definito or-
ganico e collettivo. Ma il nuovo tipo di intellettuale è anzi tutto il risultato di
una crisi irreversibile dell’intellettuale tradizionale, di quello che Gramsci
definisce anche l’uomo del Rinascimento, separato dalla vita sociale e dalla
lotta politica. Più precisamente, è l’intellettuale democratico (o “democratiz-
zato”), che esercita una funzione adeguata al livello raggiunto dalla moderna
società civile democratica. La crisi dell’intellettuale tradizionale è dichiarata
in molti luoghi dei quaderni e in maniera sintetica in un passo del Quaderno
6, § 10:

La funzione dei grandi intellettuali, se permane intatta, trova però un ambiente molto
più difficile per affermarsi e svilupparsi: il grande intellettuale deve anch’egli tuffarsi nel-
la vita pratica, diventare un organizzatore degli aspetti pratici della cultura, se vuole con-
tinuare a dirigere; deve democratizzarsi, essere più attuale: l’uomo del Rinascimento non
è più possibile nel mondo moderno, quando alla storia partecipano attivamente e diretta-
mente masse umane sempre più ingenti.

Gramsci vuole dire che nella società di massa, ormai globale e cosmopo-
litica, come si è affermata dopo il 1870 e soprattutto dopo il 1918, non è più
possibile l’intellettuale tradizionale, separato dalla società civile: la funzione
190

intellettuale (come vedremo) si è diffusa nell’intero corpo sociale, si è resa


universale, ed esige una figura di intellettuale capace di esercitare un pensie-
ro diffuso, aderente alla società. Come Gramsci si esprime: Rinascimen-
to+Riforma. L’intellettuale aderisce ormai alla cultura sociale diffusa e ne è
l’artefice, il costruttore. (Insomma, non serviva la tv o internet per rendersi
conto che qualcosa di sostanziale era cambiato nella figura dell’intellettuale
moderno…).
Nella pagina conclusiva del Quaderno 12 (§ 3) Gramsci precisa questo
concetto, affermando che nella società democratica «non si può parlare di
non-intellettuali, perché non-intellettuali non esistono», «non si può separare
l’homo faber dall’homo sapiens». Così come, nel Quaderno 11, affermava
che «ogni uomo è filosofo», così anche la figura dell’intellettuale è riunifica-
ta alla massa: tutti gli uomini sono intellettuali, in quanto esercitano una fun-
zione nella società civile e sono portatori di una visione del mondo. Se
l’uomo, come tale, è un animale dotato di intelletto (ossia è razionale e ap-
partiene a una visione del mondo, a una tradizione storica), allora è anche
vero che ogni uomo, in quanto uomo, è un intellettuale (come, d’altronde, è
filosofo). Leggiamo il brano:

Quando si distingue tra intellettuali e non-intellettuali in realtà ci si riferisce solo alla


immediata funzione sociale della categoria professionale degli intellettuali, cioè si tiene
conto della direzione in cui grava il peso maggiore della attività specifica professionale,
se nell’elaborazione intellettuale o nello sforzo muscolare-nervoso. Ciò significa che se si
può parlare di intellettuali, non si può parlare di non-intellettuali, perché non-intellettuali
non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo di elaborazione intellettuale-cerebrale e
sforzo muscolare-nervoso non è sempre uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività
specifica intellettuale. Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento
intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens.

Il nuovo intellettuale democratico unifica in sé la teoria e la prassi,


l’homo sapiens e l’homo faber. È nel flusso della vita pratica, «costruttore» e
«organizzatore» di un nuovo senso comune. Unifica, cioè, il sapere e
l’azione; ma per questo unisce la competenza (la tecnica-lavoro) e la «conce-
zione umanistica storica»; è bensì specialista ma anche dirigente, quindi por-
tatore di un sapere generale, universale. Come Gramsci scrive con una for-
mula efficace, il nuovo intellettuale democratico è specialista+politico. Leg-
giamo:

Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motri-
ce esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente
alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, «persuasore permanentemente» perché
non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-
lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si
rimane «specialista» e non si diventa «dirigente» (specialista + politico).

5. Oriente e Occidente
191

C’è un altro aspetto decisivo nella teoria gramsciana degli intellettuali,


che dobbiamo provare a chiarire prima di riprendere l’analisi del Quaderno
12. Ha a che fare con il giudizio sulla rivoluzione sovietica e sulla costruzio-
ne del socialismo russo. La consapevolezza del fatto che la rivoluzione
d’ottobre non può essere un modello per la rivoluzione europea è precoce in
Gramsci, anche se si chiarifica progressivamente. Un documento interessante
è la lettera che Gramsci scrisse a Togliatti, Terracini e altri dirigenti comuni-
sti da Vienna il 9 febbraio 1924 (quando non era stato ancora nominato se-
gretario del Pcd’I!), quando, da parte del Comintern, si avviava l’opera di
“bolscevizzazione” dei partiti comunisti europei:

la determinazione, che in Russia era diretta e lanciava le masse nelle strade all’assalto
rivoluzionario, nell’Europa centrale e occidentale si complica per tutte queste soprastrut-
ture politiche, create dal più grande sviluppo del capitalismo, rende più lenta e più pru-
dente l’azione della massa e domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e
una tattica ben più complessa e di lunga lena di quelle che furono necessarie al bolscevi-
smo nel periodo tra il marzo e il novembre 1917.

Gramsci ha presto chiaro che la rivoluzione in Occidente non può seguire


la linea russa. La differenza tra le due situazioni è data dal diverso sviluppo
delle superstrutture. La questione è chiarita in un testo di stesura unica del
Quaderno 7, §16:

Mi pare che Ilici [Lenin] aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra
manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 17, alla guerra di posizione che era la
sola possibile in Occidente, dove, come osserva Krasnov, in breve spazio gli eserciti po-
tevano accumulare sterminate quantità di munizioni, dove i quadri sociali erano di per sé
ancora capaci di diventare trincee munitissime. Questo mi pare significare la formula del
«fronte unico» che corrisponde alla concezione di un solo fronte dell’Intesa sotto il co-
mando unico di Foch. Solo che Ilici [Lenin] non ebbe il tempo di approfondire la sua for-
mula, pur tenendo conto che egli poteva approfondirla solo teoricamente, mentre il com-
pito fondamentale era nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fis-
sazione degli elementi di trincea e di fortezza rappresentati dagli elementi di società civile
ecc. In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa;
nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato
si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea
avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da
Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carat-
tere nazionale.

Questa differenza tra le due rivoluzioni implica un giudizio sull’Urss e la


necessità di una nuova teoria del marxismo. Il giudizio sull’Urss si raccoglie
sempre più intorno ad alcune categorie caratteristiche: la guerra di movimen-
to (chiusa nel 1917 e non ripetibile), il cesarismo (progressivo o regressivo),
la prevalenza del dominio sull’egemonia. Il confronto fra i due modelli com-
porta che la rivoluzione in Occidente è ulteriore rispetto a quella sovietica, e
che la guerra di movimento rappresenta una fase ancora «economico-
corporativa», dove non è ancora dispiegato il terreno dell’egemonia. Quindi
192

la rivoluzione europea, quando avverrà, non sarà subalterna al potere sovieti-


co, ma ne costituirà uno sviluppo più maturo. L’Urss, scrive Gramsci, è:

una fase ancora economico-corporativa, in cui si trasforma quantitativamente il qua-


dro generale della «struttura» e la qualità-superstruttura adeguata è in via di sorgere, ma
non è ancora organicamente formata. (Quaderno 11, §12)

E’ chiaro che questa analisi implica conseguenze teoriche molto impor-


tanti, specie in relazione alla dottrina staliniana dello Stato. Nel rapporto al
Comitato Centrale del 7 gennaio 1933, Stalin aveva ripensato la natura dello
Stato comunista in termini di puro rafforzamento del potere sovrano:

l’estinzione dello Stato si farà non attraverso l’indebolimento del potere statale, ma at-
traverso il suo rafforzamento massimo (Stalin, Questioni del leninismo).

Nella concezione di Gramsci le cose vanno in senso opposto. Lo Stato è


definito «società politica+società civile, cioè egemonia corazzata di coerci-
zione». E la teoria della società regolata appare come un progressivo esau-
rimento della funzione di coercizione e come un aumento esponenziale della
funzione di egemonia. Questa è, in definitiva, l’unica accezione possibile di
comunismo. Se lo Stato è egemonia+coercizione, consenso+dominio, il pro-
cesso storico è come un emergere del consenso, un graduale riassorbimento
del Sovrano nella società civile. Possiamo dire che il modello staliniano è
rovesciato. Nel Quaderno 6, § 88, si legge:

È da meditare questo argomento: la concezione dello Stato gendarme‑guardiano not-


turno, ecc. (a parte la specificazione di carattere polemico: gendarme, guardiano notturno,
ecc.) non è poi la concezione dello Stato che sola superi le estreme fasi «corporative-
economiche»? Siamo sempre nel terreno della identificazione di Stato e Governo, identi-
ficazione che appunto è un ripresentarsi della forma corporativa-economica, cioè della
confusione tra società civile e società politica, poiché è da notare che nella nozione gene-
rale di Stato entrano elementi che sono da riportare alla nozione di società civile (nel sen-
so, si potrebbe dire, che Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata
di coercizione). In una dottrina dello Stato che concepisca questo come possibile tenden-
zialmente di esaurimento e di risoluzione della società regolata, l’argomento è fondamen-
tale. L’elemento Stato-coercizione si può immaginare esaurentesi mano a mano che si
affermano elementi sempre più cospicui di società regolata (o Stato etico o società civile).
Le espressioni di Stato etico o di società civile verrebbero a significare che
quest’«immagine» di Stato senza Stato era presente ai maggiori scienziati della politica e
del diritto in quanto si ponevano nel terreno della pura scienza (= pura utopia, in quanto
basata sul presupposto che tutti gli uomini sono realmente uguali e quindi ugualmente
ragionevoli e morali, cioè passibili di accettare la legge spontaneamente, liberamente e
non per coercizione, come imposta da altra classe, come cosa esterna alla coscienza). Oc-
corre ricordare che l’espressione di guardiano notturno per lo Stato liberale è di Lassalle,
cioè di uno statalista dogmatico e non dialettico. (Cfr bene la dottrina di Lassalle su que-
sto punto e sullo Stato in generale, in contrasto col marxismo). Nella dottrina dello Stato-
società regolata, da una fase in cui Stato sarà uguale Governo, e Stato si identificherà con
società civile, si dovrà passare a una fase di Statoo-guardiano notturno, cioè di una orga-
nizzazione coercitiva che tutelerà lo sviluppo degli elementi di società regolata in conti-
193

nuo incremento, e pertanto riducente gradatamente i suoi interventi autoritari e coattivi.


Né ciò può far pensare a un nuovo «liberalismo», sebbene sia per essere l’inizio di un’era
di libertà organica.

La teoria della rivoluzione in Occidente è il presupposto della riflessione


sugli intellettuali. Solo nella società democratica europea, dove la qualità-
superstruttura è «organicamente formata», dove la politica è articolata nella
ricchezza della società civile, dove la forma adeguata di “rivoluzione” è la
guerra di posizione, può scorgersi il carattere decisivo della funzione intellet-
tuale, che opera la grande mediazione “ideologica” delle visioni del mondo e
del senso comune, coniugando la competenza specialistica con la capacità
generale di direzione, come il sapere storico-umanistico.
194

Lezione 21

(Lunedì 18 maggio 2020)

1. Gli intellettuali e Hegel

Nel § 47 del Quaderno 1 Gramsci aveva indicato nella teoria hegeliana


della società civile il luogo di formazione della politica moderna. In quel pa-
ragrafo (di stesura unica) aveva legato il pensiero di Hegel alla Rivoluzione
francese e sottolineato che, con la bürgerliche Gesellschaft, Hegel aveva reso
“concreto” il costituzionalismo moderno (liberale): il concenso, infatti, di-
venta «organizzato», non si limita al momento delle elezioni, non è gestito
“dall’alto”, ma si articola in una molteplicità di organismi intermedi («la
trama “privata” dello Stato», partiti e associazioni politiche e sindacali).
Questa è la vera teoria dello «Stato parlamentare col suo regime dei partiti».
In una parola, è l’immagine della democrazia, che si sviluppa nella società
civile, in un terreno intermedio fra la struttura economico-produttiva (ancora
“corporativa” e come tale incapace di egemonia) e la sovranità dello Stato
politico (puro “dominio” senza consenso). Una democrazia, come vedete,
dove il consenso non è occasionale (questo è il carattere dello Stato liberale)
ma organizzato, perché poggia sulla «trama privata» di un vasto tessuto as-
sociativo. Ma la società civile, proprio per questo, è il luogo delle pratiche
egemoniche e, al tempo stesso, della funzione intellettuale, che costruisce e
media tale organizzazione del consenso. È il caso di rileggere questa impor-
tante nota hegeliana:

§ 〈47〉. Hegel e l’associazionismo. La dottrina di Hegel sui partiti e le associazioni


come trama «privata» dello Stato. Essa derivò storicamente dalle esperienze politiche del-
la Rivoluzione francese e doveva servire a dare una maggiore concretezza al costituziona-
lismo. Governo col consenso dei governati, ma col consenso organizzato, non generico e
vago quale si afferma nell’istante delle elezioni: lo Stato ha e domanda il consenso, ma
anche «educa» questo consenso con le associazioni politiche e sindacali, che però sono
organismi privati, lasciati all’iniziativa privata della classe dirigente. Hegel, in un certo
senso’ supera già, così, il puro costituzionalismo e teorizza lo Stato parlamentare col suo
regime dei partiti. La sua concezione dell’associazione non può essere che ancora vaga e
primitiva, tra il politico e l’economico, secondo l’esperienza storica del tempo, che era
molto ristretta e dava un solo esempio compiuto di organizzazione, quello «corporativo»
(politica innestata nell’economia).

Se pensate al Marx della Kritik del 1843, potete comprendere subito la


novità del discorso di Gramsci. Marx aveva obiettato a Hegel di avere inver-
tito il rapporto fra società civile e Stato. Secondo Marx, Hegel non aveva vi-
sto che la società civile genera lo Stato. Per Gramsci, al contrario, Hegel ha
riconosciuto con chiarezza il terreno della politica moderna, di una democra-
195

zia “organizzata”. Non solo non ha invertito il rapporto fra società e Stato,
ma ha saputo indicare nella società civile la struttura costitutiva della demo-
crazia, oltre il limite liberale di un consenso “occasionale”. Dunque Hegel è,
a pieno titolo, il teorico della politica moderna e anche il precursore della
dottrina dell’egemonia e delle funzioni intelelttuali.
Lo spunto depositato nel Quaderno 1 è ripreso e svolto nel Quaderno 8, §
187, altro testo di stesura unica (non ripreso nei quaderni “speciali”). Ora
Gramsci dice qualcosa di più. Hegel non solo ha indicato nella società civile
il luogo della democrazia moderna, ma ha riconosciuto la vera natura dello
Stato, assegnando agli intellettuali la posizione di «aristocrazia», di principio
motore della politica. Con la polemica contro Haller, Hegel ha superato la
visione «patrimoniale», corporativa, dello Stato, mettendo il discorso politico
nella dimensione di una schietta universalità. Ancora una volta non può
sfuggire la netta differenza rispetto al giudizio che, su questo aspetto, aveva
dato il giovane Marx (in un testo, ricordiamolo, che Gramsci non poteva co-
noscere). Scrive così:

nella concezione non solo della [scienza] politica, ma in tutta la concezione della vita
culturale e spirituale, ha avuto enorme importanza la posizione assegnata da Hegel agli
intellettuali, che deve essere accuratamente studiata. Con Hegel si incomincia a non pen-
sare più secondo le caste o gli «stati» ma secondo lo «Stato», la cui «aristocrazia» sono
appunto gli intellettuali. La concezione «patrimoniale» dello Stato (che è il modo di pen-
sare per «caste») è immediatamente la concezione che Hegel deve distruggere (polemiche
sprezzanti e sarcastiche contro von Haller). Senza questa «valorizzazione» degli intellet-
tuali fatta da Hegel non si comprende nulla (storicamente) dell’idealismo moderno e delle
sue radici sociali.

Più precisamente la società civile è una sfera autonoma, collocata tra la


struttura economica e lo Stato politico. Questa struttura intermedia è appunto
il terreno della egemonia e della nuova funzione intellettuale. Per la verità
Hegel è anche corretto, perché questa società civile non manifesta un sistema
dei bisogni (economia, struttura) e una polizia o amministrazione (dominio,
coercizione). Diventa la sfera dove il consenso si organizza, e in definitiva
riassume in sé il senso della politica. Nel § 15 del Quaderno 10 Gramsci sot-
tolinea che lo Stato è bensì volontà soggettiva (sovranità, potere), ma questa
volontà deriva dal movimento della società civile, è solo la conseguenza di
un mutamento già «avvenuto nella struttura economica»:

Tra la struttura economica e lo Stato con la sua legislazione e la sua coercizione sta la
società civile, e questa deve essere radicalmente trasformata in concreto e non solo sulla
carta della legge e dei libri degli scienziati; lo Stato è lo strumento per adeguare la società
civile alla struttura economica, ma occorre che lo Stato «voglia» far ciò, che cioè a guida-
re lo Stato siano i rappresentanti del mutamento avvenuto nella struttura economica.

In altri luoghi dei quaderni esprimerà una tesi ancora più radicale. Lo Sta-
to politico non è oltre la società civile (come aveva pensato Hegel) ma è una
funzione della società civile. È un potere diffuso, che ha radici nazionali e
soprattutto internazionali.
196

2. Democrazia proletaria?

Questa concezione della società civile (che è, ricordiamolo, l’elemento


differenziale tra Oriente e Occidente) ha, dunque, importanti conseguenze
per la concezione della democrazia. Oltre Marx, dobbiamo pensare a Lenin.
In un celebre scritto del 1918 contro Kautsky, Lenin aveva distinto Demo-
crazia borghese e democrazia proletaria. Lo scritto di Lenin è di una nettez-
za esemplare e rappresenta la visione tradizionale del marxismo su questo
punto. Non esiste, per Lenin, la democrazia pura, nel senso che nella società
divisa in classi non è in alcun modo realizzabile l’eguaglianza. Perciò la de-
mocrazia è sempre espressione di un dominio di classe e le stesse concessio-
ni liberali (per esempio la tutela delle minoranze o la libertà di opinione) so-
no solo illusioni. Anche la democrazia dei Soviet, di conseguenza, non è un
perfezionamento della democrazia borghese, una democrazia migliore o
maggiore, ma un’altra forma di Stato, dove gli istituti democratici (Lenin fa
l’esempio dei giudici) sono posti al servizio della classe proletaria. Come ve-
dete, tra lo Stato e le classi non c’è nulla di intermedio, di fatto non c’è una
società civile. Nella visione di Lenin ci sono due classi che lottano per il po-
tere e, quando lo hanno conquistato, mettono al proprio servizio ogni forma
istituzionale e ogni principio pubblico, esercitando la dittatura (il dominio)
nei confronti della classe nemica.
In Gramsci (almeno nel Gramsci dei quaderni) la situazione cambia in
maniera sostanziale. La società civile diventa l’orizzonte della democrazia
politica: di una democrazia non solo formale ma “organizzata” e incardinata
su soggetti attivi (partiti, associazioni, sindacati ecc.). A differenza di Lenin,
ciò che conta non sono le classi e lo Stato sovrano, ma ciò che sta nel mezzo,
dove si sviluppa e si articola il conflitto egemonico e intellettuale. La do-
manda ulteriore è se, nella prospettiva inaugurata da Gramsci, si può ancora
parlare della differenza fra democrazia borghese e democrazia proletaria. E
soprattutto: esiste ancora questa differenza di fronte all’esperienza dei fasci-
smi? Questo è il punto con cui il movimento comunista internazionale si è
scontrato e diviso per oltre un quindicennio. Il significato unitario
dell’antifascismo (che dunque ha un ruolo essenziale nell’evoluzione del
movimento operaio, comunista e socialista) ha implicato proprio la revisione
di quel paradigma leniniano. La democrazia (né borghese né proletaria) viene
progressivamente scoperta come il terreno più avanzato delle lotte sociali e
riconosciuta come il prodotto delle stesse conquiste operaie. La teoria
dell’egemonia di Gramsci anticipò questi processi. Non per caso Gramsci,
come si sa, per primo aveva opposto alle tesi del socialfascismo la parola
d’ordine della Costituente (guadagnandosi così l’isolamento in carcere dai
compagni di partito). La teoria dell’egemonia ha alla sua base, perciò, una
concezione generale della democrazia moderna, centrata sulla funzione degli
intellettuali e dei partiti politici.
197

3. L’intellettuale organico

Con queste osservazioni abbiamo detto l’essenziale sulla funzione degli


intellettuali. Ma nel Quaderno 12 Gramsci entra nel merito del problema del-
la storia degli intellettuali. In primo luogo sorge la domanda cruciale, se gli
intellettuali sono un gruppo sociale autonomo oppure un gruppo organico a
un gruppo sociale. Questa è la domanda che avvia tutto il discorso:

Gli intellettuali sono un gruppo sociale autonomo e indipendente, oppure ogni gruppo
sociale ha una sua propria categoria specializzata di intellettuali? Il problema è complesso
per le varie forme che ha assunto finora il processo storico reale di formazione delle di-
verse categorie intellettuali.

La risposta non può essere dubbia, gli intellettuali sono organici, nel sen-
so che rappresentano un prolungamento e uno sviluppo della funzione intel-
lettuale già implicita (ma solo implicita) nell’ordine della struttura. Come è
facile comprendere, questa nozione di organicità – per cui l’intellettuale è
sempre espressione di un gruppo sociale (di un “gruppo sociale”, si osservi,
non di una “classe”) – ha sia una funzione analitica sia una funzione pratica:
analitica perché permette di decifrare la storia dei gruppi intellettuali (per
esempio le élites risorgimentali), pratica perché prefigura la costruzione di
un nuovo intellettuale organico, espressione delle forze sociali di progresso e
della loro capacità egemonica.
Il primo esempio di intelelttuale organico è quindi l’imprenditore, che
unisce in sé la capacità della produzione di beni e «di organizzatore della so-
cietà in generale». Ma questa capacità dell’imprenditore si prolunga in una
classe di intellettuali, che provvede, in maniera più specifica, a quel compito
di «organizzatore della società in generale» secondo gli interessi di un grup-
po sociale determinato. In altri termini: affinché l’imprenditore eserciti la
propria funzione di produttore di beni, è necessaria una forma sociale ade-
guata, che è costituita non solo di rapporti economici (per esempio lo sfrut-
tamento, in senso marxiano) ma anche, e soprattutto, di rapporti intellettuali,
cioè esige una visione del mondo corrispettiva. Ma leggiamo il passo in cui
Gramsci affronta questo aspetto:

gli intellettuali sono un gruppo sociale autonomo e indipendente, oppure ogni gruppo
sociale ha una sua propria categoria specializzata di intellettuali? Il problema è complesso
per le varie forme che ha assunto finora il processo storico reale di formazione delle di-
verse categorie intellettuali. Le più importanti di queste forme sono due:
1) Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel
mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o più ceti di in-
tellettuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel
campo economico, ma anche in quello sociale e politico: l’imprenditore capitalistico crea
con sé il tecnico dell’industria, lo scienziato dell’economia politica, l’organizzatore di una
nuova cultura, di un nuovo diritto, ecc. ecc. Occorre notare il fatto che l’imprenditore rap-
presenta una elaborazione sociale superiore, già caratterizzata da una certa capacità diri-
gente e tecnica (cioè intellettuale): egli deve avere una certa capacità tecnica, oltre che
198

nella sfera circoscritta della sua attività e della sua iniziativa, anche in altre sfere, almeno
in quelle più vicine alla produzione economica (deve essere un organizzatore di masse
d’uomini, deve essere un organizzatore della «fiducia» dei risparmiatori nella sua azienda,
dei compratori della sua merce ecc.).
Se non tutti gli imprenditori, almeno una élite di essi deve avere una capacità di orga-
nizzatore della società in generale, in tutto il suo complesso organismo di servizi, fino
all’organismo statale, per la necessità di creare le condizioni più favorevoli all’espansione
della propria classe; o deve possedere per lo meno la capacità di scegliere i «commessi»
(impiegati specializzati) cui affidare questa attività organizzatrice dei rapporti generali
esterni all’azienda.
Si può osservare che gli intellettuali «organici» che ogni nuova classe crea con se
stessa ed elabora nel suo sviluppo progressivo, sono per lo più «specializzazioni» di
aspetti parziali dell’attività primitiva del tipo sociale nuovo che la nuova classe ha messo
in luce.

4. L’autonomia del ceto intellettuale

Ma il discorso presenta subito complicazioni notevoli. Le principali sono


tre:

1) le masse contadine;

2) il rapporto con la tradizione, che porta gli intellettuali a porre se stessi co-
me autonomi e indipendenti;

3) l’ampliamento inaudito della categoria degli intellettuali nella società mo-


derna, come tratto specifico della società civile democratica.

Sulle masse contadine, Gramsci avverte subito che esse, in linea di prin-
cipio, non esprimono propri intellettuali organici, ma al tempo stesso sono
dominate attraverso l’opera degli intellettuali. Questa, come sappiamo, è la
radice della questione meridionale, già individuata nell’articolo del 1926.

Così è da notare che la massa dei contadini, quantunque svolga una funzione essenzia-
le nel mondo della produzione, non elabora proprii intellettuali «organici» e non «assimi-
la» nessun ceto di intellettuali «tradizionali», quantunque dalla massa dei contadini altri
gruppi sociali tolgano molti dei loro intellettuali e gran parte degli intellettuali tradizionali
siano di origine contadina.

Il secondo punto è molto più complesso. Gli intellettuali non hanno solo
un rapporto organico e verticale con il gruppo sociale, non sono soltanto una
espressione lineare del gruppo sociale, ma hanno un rapporto orizzontale con
la tradizione. Cioè proseguono uno specifico discorso specialistico, tecnico.
Per fare un esempio, il filosofo non si riferisce solo al proprio gruppo sociale,
ma anche alla storia della filosofia, alla continuità della propria tradizione
disciplinare. Questo rapporto tende perciò a staccarli dal gruppo sociale, a
conferire a essi una spiccata autonomia. L’intellettuale, oltre che organico,
199

rimane sempre un intellettuale tradizionale. È il caso degli ecclesiastici nel


corso del medioevo; è il caso dell’idealismo moderno. Come scrive Gramsci,
Croce è tanto legato agli Agnelli quanto a Platone e Aristotele.

Ma ogni gruppo sociale «essenziale» emergendo alla storia dalla precedente struttura
economica e come espressione di un suo sviluppo (di questa struttura), ha trovato, almeno
nella storia finora svoltasi, categorie sociali preesistenti e che anzi apparivano come rap-
presentanti una continuità storica ininterrotta anche dai più complicati e radicali muta-
menti delle forme sociali e politiche. La più tipica di queste categorie intellettuali è quella
degli ecclesiastici, monopolizzatori per lungo tempo (per un’intera fase storica che anzi da
questo monopolio è in parte caratterizzata) di alcuni servizi importanti: l’ideologia reli-
giosa cioè la filosofia e la scienza dell’epoca, con la scuola, l’istruzione, la morale, la giu-
stizia, la beneficenza, l’assistenza ecc.
La categoria degli ecclesiastici può essere considerata essere la categoria intellettuale
organicamente legata all’aristocrazia fondiaria: era equiparata giuridicamente
all’aristocrazia, con cui divideva l’esercizio della proprietà feudale della terra e l’uso dei
privilegi-statali legati alla proprietà. Ma il monopolio delle superstrutture da parte degli
ecclesiastici (da esso è nata l’accezione generale di «intellettuale» – o di «specialista» –
della parola «chierico», in molte lingue di origine neolatina o influenzate fortemente, at-
traverso il latino chiesastico, dalle lingue neolatine, col suo correlativo di «laico» nel sen-
so di profano – non specialista) non è stato esercitato senza lotta e limitazioni, e quindi si
è avuto il nascere, in varie forme (da ricercare e studiare concretamente) di altre categorie,
favorite e ingrandite dal rafforzarsi del potere centrale del monarca, fino all’assolutismo.
Così si viene formando l’aristocrazia della toga, con suoi propri privilegi; un ceto di am-
ministratori ecc., scienziati, teorici, filosofi non ecclesiastici ecc.
Siccome queste varie categorie di intellettuali tradizionali sentono con «spirito di cor-
po» la loro ininterrotta continuità storica e la loro «qualifica», così essi pongono se stessi
come autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante; questa auto-posizione non è
senza conseguenze nel campo ideologico e politico, conseguenze di vasta portata (tutta la
filosofia idealista si può facilmente connettere con questa posizione assunta dal complesso
sociale degli intellettuali e si può definire l’espressione di questa utopia sociale per cui gli
intellettuali si credono «indipendenti», autonomi, rivestiti di caratteri loro proprii ecc. Da
notare però che se il papa e l’alta gerarchia della Chiesa si credono più legati a Cristo e
agli apostoli di quanto non siano ai senatori Agnelli e Benni, lo stesso non è per Gentile e
Croce, per esempio; il Croce, specialmente, si sente legato fortemente ad Aristotile e a
Platone, ma egli non nasconde, anzi, di essere legato ai senatori Agnelli e Benni e in ciò
appunto è da ricercare il carattere più rilevato della filosofia del Croce).

La conclusione generale è tuttavia chiara. L’intellettuale è una figura atti-


va del processo di riproduzione sociale, non è solo il riflesso del proprio
gruppo sociale. Il filosofo idealista, per esempio, non è solo espressione del
gruppo sociale borghese, ma è anzi tutto un filosofo, sente la continuità della
propria disciplina di pensiero, si rende autonomo dal proprio gruppo sociale,
e perciò è un artefice del senso comune.
Arriviamo così al terzo aspetto. Nella società civile democratica si assiste
a una estensione inaudita delle funzioni intellettuali. Nel rapporto gruppi so-
ciali-intellettuali la bilancia si sposta sempre più a favore degli intellettuali.
Non solo nel senso che “tutti gli uomini sono intellettuali”, ma nel senso, più
specifico, che nella società civile crescono in maniera esponenziale le attività,
i mestieri, le professioni, che richiedono un esercizio di capacità intellettuali.
200

In alcuni casi sono attività creative, in altri casi appaiono piuttosto come di-
vulgazione «della ricchezza intellettuale già esistente, tradizionale, accumu-
lata». In analogia con «l’organismo militare», dove ci sono generali e «gra-
duati di truppa», la società civile appare come una catena ininterrotta di tra-
smissione ideologica, dove le visioni del mondo vengono continuamente
create ma soprattutto ripetute, diffuse, amplificate. Con gli strumenti di co-
municazione, con la scuola, entrano nelle case e condizionano l’immagine
culturale dei cittadini. Questo è il meccanismo dell’egemonia, nel quale dun-
que gli intellettuali, a tutti i livelli, hanno un ruolo costitutivo.
In una linea di riflessione che tornerà nel tema dell’americanismo (ce ne
occuperemo nelle prossime lezioni), questo significa anche che nella società
civile cresce la quota di lavoro improduttivo, di rendita: nel senso che, a una
società di tipo fordista, dove l’occupazione era concentrata nella frabbrica e
nelle campagne, segue una società diversa, dove il lavoro tende a non pro-
durre direttamente beni e merci di consumo immediato, ma immaginario col-
lettivo. Gramsci scrive che,

nel mondo moderno, la categoria degli intellettuali, così intesa, si è ampliata in modo
inaudito. Sono state elaborate dal sistema sociale democratico-burocratico masse impo-
nenti, non tutte giustificate dalle necessità sociali della produzione, anche se giustificate
dalle necessità politiche del gruppo fondamentale dominante. Quindi la concezione loria-
na del «lavoratore» improduttivo (ma improduttivo per riferimento a chi e a quale modo
di produzione?), che potrebbe in parte giustificarsi se si tiene conto che queste masse
sfruttano la loro posizione per farsi assegnare taglie ingenti sul reddito nazionale. La for-
mazione di massa ha standardizzato gli individui e come qualifica individuale e come psi-
cologia, determinando gli stessi fenomeni che in tutte le altre masse standardizzate: con-
correnza che pone la necessità dell’organizzazione professionale di difesa, disoccupazio-
ne, superproduzione scolastica, emigrazione ecc.

5. Intellettuale organico e intellettuale collettivo: i partiti politici

Dobbiamo ricordare il punto di partenza di questa analisi. Nella società


moderna non è più possibile l’intellettuale “di tipo tradizionale”.
L’intellettuale “di tipo tradizionale” è anzi tutto individuo, un genio, un crea-
tore solitario. Appartiene a un’età che possiamo definire “romantica”. Nello
studio del Quaderno 13, dedicato a Machiavelli, incontreremo una analogia
importante con questa situazione. Il principe di Machiavelli è un individuo
(per esempio Cesare Borgia); ma il “moderno principe” non può essere più
un individuo, deve essere un soggetto collettivo, una comunità orientata nella
medesima direzione. La stessa cosa accade per l’intellettuale. L’intellettuale
“di tipo nuovo”, “democratizzato”, deve essere concepito come un intellet-
tuale collettivo, come un organismo di attiva collaborazione. Se ricordate, nel
Quaderno 10 Gramsci aveva definito l’Anti-Croce come un progetto per cui
«varrebbe la pena che un intero gruppo di uomini ci dedicasse dieci anni di
attività». È un buon esempio di “intellettuale collettivo”, cioè di un lavoro
intellettuale compiuto non da un individuo ma da una comunità di ricerca.
201

La questione si complica, tuttavia, perché l’intellettuale non è solo un ri-


cercatore, ma, come abbiamo visto, è l’espressione di un gruppo sociale (or-
ganico) e un artefice del senso comune. Nella visione di Gramsci,
l’intellettuale è un vero e proprio soggetto politico. Nella democrazia moder-
na la figura dell’intellettuale collettivo come soggetto politico è già offerta
dalla storia e può essere riconosciuta nella forma del partito politico moder-
no. Il partito, come associazione libera che costituisce la “trama privata” del-
la società civile, non è, infatti, né la classe (in senso economico-corporativo)
né una figura del dominio statale, ma è il portatore di nuove visioni del mon-
do, di “ideologie” e posizioni ideali. Proprio per questo è l’architrave della
democrazia, in quanto elaborazione dei propri membri e organizzazione
strutturata del consenso. La sua funzione è quindi propriamente “intellettua-
le”, di ricerca e di diffusione collettiva di nuove culture, capace di unificare
l’alto e il basso, la competenza specialistica e la politica di massa. «Il pro-
blema più interessante – scrive Gramsci nel Quaderno 12 –

è quello che riguarda, se considerato da questo punto di vista, il partito politico mo-
derno, le sue origini reali, i suoi sviluppi, le sue forme. Cosa diventa il partito politico in
ordine al problema degli intellettuali? […]
il partito politico, per tutti i gruppi, è appunto il meccanismo che nella società civile
compie la stessa funzione che compie lo Stato in misura più vasta e più sinteticamente,
nella società politica, cioè procura la saldatura tra intellettuali organici di un dato gruppo,
quello dominante, e intellettuali tradizionali, e questa funzione il partito compie appunto
in dipendenza della sua funzione fondamentale che è quella di elaborare i proprii compo-
nenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come «economico», fino a farli
diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti, organizzatori di tutte le attività e le
funzioni inerenti all’organico sviluppo di una società integrale, civile e politica.
Si può dire anzi che nel suo ambito il partito politico compia la sua funzione molto
più compiutamente e organicamente di quanto lo Stato compia la sua in ambito più vasto:
un intellettuale che entra a far parte del partito politico di un determinato gruppo sociale,
si confonde con gli intellettuali organici del gruppo stesso, si lega strettamente al gruppo,
ciò che non avviene attraverso la partecipazione alla vita statale che mediocremente e tal-
volta affatto. […]
Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali,
ecco un’affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura; pure, se si riflette,
niente di più esatto. Sarà da fare distinzione di gradi, un partito potrà avere una maggiore
o minore composizione del grado più alto o di quello più basso, non è ciò che importa:
importa la funzione che è direttiva e organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale. Un
commerciante non entra a far parte di un partito politico per fare del commercio, né un
industriale per produrre di più e a costi diminuiti, né un contadino per apprendere nuovi
metodi di coltivare la terra, anche se alcuni aspetti di queste esigenze del commerciante,
dell’industriale, del contadino possono trovare soddisfazione nel partito politico
(l’opinione generale contraddice a ciò, affermando che il commerciante, l’industriale, il
contadino «politicanti» perdono invece di guadagnare, e sono i peggiori della loro catego-
ria, ciò che può essere discusso). Per questi scopi, entro certi limiti, esiste il sindacato pro-
fessionale in cui l’attività economico-corporativa del commerciante, dell’industriale, del
contadino, trova il suo quadro più adatto.
Nel partito politico gli elementi di un gruppo sociale economico superano questo
momento del loro sviluppo storico e diventano agenti di attività generali, di carattere na-
zionale e internazionale. Questa funzione del partito politico dovrebbe apparire molto più
202

chiara da un’analisi storica concreta del come si sono sviluppate le categorie organiche
degli intellettuali e quelle tradizionali sia nel terreno delle varie storie nazionali sia in
quello dello sviluppo dei vari gruppi sociali più importanti nel quadro delle diverse nazio-
ni, specialmente di quei gruppi la cui attività economica è stata prevalentemente strumen-
tale.
203

Lezione 22

(Mercoledì 20 maggio 2020)

1. Il Quaderno 13

Nello stesso periodo della stesura dei Quaderni 10, 11, 12 (di cui abbiamo
parlato nelle lezioni precedenti), presumibilmente nel maggio 1932, Gramsci
iniziò il Quaderno 13, intitolato Noterelle sulla politica del Machiavelli (il
titolo è scritto in capo alla carta 1recto con doppia sottolineatura). Il quader-
no è composto di 40 note, che rielaborano precedenti note di prima stesura
dei Quaderni 1, 4, 7, 8, 9, con l’eccezione di un paragrafo, il § 25 («Doppiez-
za» e «ingenuità» del Machiavelli), che è nuovo e di stesura unica. È molto
probabile che la composizione di questo quaderno si prolungò fino al no-
vembre 1933, poco tempo prima il trasferimento a Civitavecchia e quindi
nella clinica Cusumano di Formia (dove i quaderni arrivarono nascosti den-
tro un baule di effetti personali).
Quindi Gramsci lavorò a lungo (maggio 1932-novembre 1933) e in ma-
niera abbastanza lineare alla scrittura di questo quaderno, che si presenta
grande, in formato registro, per un totale di 60 facciate. Attraverso la rifles-
sione su Machiavelli, tutta la teoria dell’egemonia venne qui sistemata nei
punti essenziali. I grandi temi che vi emergono – l’egemonia, il moderno
principe, il concetto di grande potenza, i rapporti di forza, i partiti politici, il
cesarismo, la guerra di posizione, le volontà collettive – rappresentano i tas-
selli di un discorso organico, che segna un primo approdo consistente delle
riflessioni carcerarie.
In un periodo successivo, verso la metà del 1934, Gramsci tornerà su Ma-
chiavelli nel Quaderno 18, intitolato Niccolò Machiavelli. II, composto di
sole 3 note, che non va oltre la composizione del secondo foglio. Questo
quaderno, dunque, aggiunge poco alla potente interpretazione tratteggiata nel
Quaderno 13.

2. Il Machiavelli di Gramsci

Insieme a Marx, Lenin, Croce e pochi altri, Machiavelli è l’autore più


importante dei Quaderni del carcere. Forse è l’autore che Gramsci sente più
vicino in tutto il periodo della prigionia. Prima di esaminare il più famoso §
1 del Quaderno 13 (quello sul Principe come «mito vivente» e sul «moder-
no» o «nuovo» Principe), proviamo a riassumere in pochi punti
l’interpretazione che Gramsci offrì di questo classico del pensiero politico.
204

Per uno sguardo di insieme vi consiglio di tenere presenti, in modo particola-


re, i §§ 13 e 20.

1= Machiavelli, uomo del suo tempo – In primo luogo, Machiavelli non è,


per Gramsci, un astratto «scienziato della politica», «valido per tutti i tempi»,
ma un «uomo tutto della sua epoca» e un politico di parte, militante e appas-
sionato. Di fronte alla frammentazione politica italiana, Machiavelli guarda
ai grandi modelli di Stato nazionale europeo, all’esempio di Francia e Spa-
gna, e intende tradurli nella realtà italiana. È dunque, in primo luogo, un
esempio vivo e forse insuperato di traducibilità, cioè di capacità di afferrare
il senso globale della politica mondiale e affermarlo, in una forma originale,
nella situazione nazionale. Per questo Gramsci fin dal Quaderno 1 utilizza
l’espressione (che Croce aveva adoperato per la teoria del valore di Marx) di
paragone ellittico. Machiavelli compie una specie di paragone ellittico tra
l’arretratezza dell’Italia e lo sviluppo politico delle grandi monarchie europee.
Leggiamo il brano del § 13 che sintetizza questo aspetto:

§ 〈13〉. Accanto ai meriti della moderna «machiavellistica» derivata dal Croce, oc-
corre segnalare anche le «esagerazioni» e le deviazioni cui ha dato luogo. Si è formata
l’abitudine di considerare troppo il Machiavelli come il «politico in generale», come lo
«scienziato della politica», attuale in tutti i tempi. Bisogna considerare maggiormente il
Machiavelli come espressione necessaria del suo tempo e come strettamente legato alle
condizioni e alle esigenze del tempo suo che risultano: 1) dalle lotte interne della repub-
blica fiorentina e dalla particolare struttura dello Stato che non sapeva liberarsi dai residui
comunali-municipali, cioè da una forma divenuta inceppante di feudalismo; 2) dalle lotte
tra gli Stati italiani per un equilibrio nell’ambito italiano, che era ostacolato dall’esistenza
del papato e dagli altri residui feudali, municipalistici della forma statale cittadina e non
territoriale; 3) dalle lotte degli Stati italiani più o meno solidali per un equilibrio europeo,
ossia dalle contraddizioni tra le necessità di un equilibrio interno italiano e le esigenze
degli Stati europei in lotta per l’egemonia. Su Machiavelli opera l’esempio della Francia e
della Spagna che hanno raggiunto una forte unità statale territoriale; il Machiavelli fa un
«paragone ellittico» (per usare l’espressione crociana) e desume le regole per uno Stato
forte in generale e italiano in particolare. Machiavelli è uomo tutto della sua epoca e la
sua scienza politica rappresenta la filosofia del tempo che tende all’organizzazione delle
monarchie nazionali assolute, la forma politica che permette e facilita un ulteriore svilup-
po delle forze produttive borghesi.

2= Machiavelli “giacobino” – In secondo luogo, Machiavelli è un teorico


di tipo giacobino. Questa definizione può sembrare strana, perché il giacobi-
nismo appartiene a un’epoca successiva e molto diversa della storia. Ma
Gramsci vuole dire che Machiavelli cerca di costruire la nazione italiana co-
me potenza attiva, affermando le esigenze della borghesia e appoggiandosi
alla classe contadina. L’unità tra classe progressiva e contadini (che rappre-
senta il nerbo della teoria dell’egemonia) è affermata da Machiavelli nel suo
tempo, che è quello di una incipiente rivoluzione borghese. Egli indica la via
della costituzione del popolo-nazione: una via che la storia italiana non sarà
in grado di realizzare, neanche nel Risorgimento. Riferiamoci, anche qui, a
un brano del § 13:
205

In Machiavelli si può scoprire in nuce la separazione dei poteri e il parlamentarismo


(il regime rappresentativo): la sua «ferocia» è rivolta contro i residui del mondo feudale,
non contro le classi progressive. Il Principe deve porre termine all’anarchia feudale e ciò
fa il Valentino in Romagna, appoggiandosi sulle classi produttive, mercanti e contadini.
Dato il carattere militare-dittatoriale del capo dello Stato, come si richiede in un periodo
di lotta per la fondazione e il consolidamento di un nuovo generale statale: se le classi ur-
bane vogliono porre fine al disordine interno e all’anarchia esterna devono appoggiarsi sui
contadini come massa, costituendo una forza armata sicura e fedele di tipo assolutamente
diverso dalle compagnie di ventura. Si può dire che la concezione essenzialmente politica
è così dominante nel Machiavelli che gli fa commettere gli errori di carattere militare: egli
pensa specialmente alle fanterie, le cui masse possono essere arruolate con un’azione poli-
tica e perciò misconosce il significato dell’artiglieria. il Russo (nei Prolegomeni a Ma-
chiavelli) nota giustamente che l’Arte della guerra integra il Principe, ma non trae tutte le
conclusioni della sua osservazione. Anche nell’Arte della guerra il Machiavelli deve esse-
re considerato come un politico che deve occuparsi di arte militare; il suo unilateralismo
(con altre «curiosità» come la teoria della falange, che danno luogo a facili spiritosaggini
come quella più diffusa ricavata dal Bandello) è dipendente dal fatto che non nella qui-
stione tecnico-militare è il centro del suo interesse e del suo pensiero, ma egli ne tratta
solo in quanto è necessario per la sua costruzione politica.
Ma non solo l’Arte della guerra deve essere connessa al Principe, sibbene anche le
Istorie fiorentine, che devono servire appunto come un’analisi delle condizioni reali ita-
liane ed europee da cui scaturiscono le esigenze immediate contenute nel Principe.

3= Autonomia della politica e riforma intellettuale e morale – Machiavel-


li è colui che fonda la politica moderna (quello stesso modello a cui deve ri-
chiamarsi la filosofia della praxis), anzi tutto perché afferma l’autonomia
della politica dalla religione e dalla morale. Per Machiavelli (come per
Gramsci) non esiste una «astratta “natura umana” fissa e immutabile», la po-
litica non ha un fondamento giusnaturalistico: perciò viene distinta dalla sfe-
ra religiosa e da quella morale. Scrive Gramsci nel § 20:

La innovazione fondamentale introdotta dalla filosofia della praxis nella scienza della
politica e della storia è la dimostrazione che non esiste una astratta «natura umana» fissa e
immutabile (concetto che deriva certo dal pensiero religioso e dalla trascendenza) ma che
la natura umana è l’insieme dei rapporti sociali storicamente determinati, cioè un fatto
storico accertabile, entro certi limiti, coi metodi della filologia e della critica. Pertanto la
scienza politica deve essere concepita nel suo contenuto concreto (e anche nella sua for-
mulazione logica) come un organismo in sviluppo.

Machiavelli libera la politica dalla morale e dalla religione. Ma proprio


su questo punto fondamentale, «che ha una grande portata filosofica», viene
di fatto sconfitto. La sua scoperta non riesce a diventare senso comune. La
modernità non lo segue su questo terreno di rigorosa laicità.

È da osservare tuttavia che l’impostazione data dal Machiavelli alla quistione della
politica (e cioè l’affermazione implicita nei suoi scritti che la politica è una attività auto-
noma che 〈ha〉 suoi principii e leggi diversi da quelli della morale e della religione,
proposizione che ha una grande portata filosofica perché implicitamente innova la conce-
zione della morale e della religione, cioè innova tutta la concezione del mondo) è ancora
206

discussa e contraddetta oggi, non è riuscita a diventare «senso comune». Cosa significa
ciò? Significa solo che la rivoluzione intellettuale e morale i cui elementi sono contenuti
in nuce nel pensiero del Machiavelli non si è ancora attuata, non è diventata forma pub-
blica e manifesta della cultura nazionale?

Perciò la filosofia della praxis deve ripetere (ossia riprendere, continuare,


compiere) la stessa posizione di Machiavelli, fino a farla diventare senso
comune. Questo è il senso più profondo della riforma intellettuale e morale:
la politica ha leggi proprie, non si fonda sulla religione o sulla morale:

Questa posizione della politica del Machiavelli si ripete per la filosofia della praxis: si
ripete la necessità di essere «antimachiavellici», sviluppando una teoria e una tecnica del-
la politica che possono servire alle due parti in lotta, quantunque esse si pensa finiranno
col servire specialmente alla parte che «non sapeva», perché in essa è ritenuta esistere la
forza progressiva della storia e infatti si ottiene subito un risultato: di spezzare l’unità ba-
sata sull’ideologia tradizionale, senza la cui rottura la forza nuova non potrebbe acquistare
coscienza della propria personalità indipendente. Il machiavellismo è servito a migliorare
la tecnica politica tradizionale dei gruppi dirigenti conservatori, così come la politica della
filosofia della praxis; ciò non deve mascherare il suo carattere essenzialmente rivoluzio-
nario, che è sentito anche oggi e spiega tutto l’antimachiavellismo, da quello dei gesuiti a
quello pietistico di P. Villari.

4= Machiavelli ha tolto il velo alla politica e ha educato i semplici – Per-


ché e per chi Machiavelli ha scritto il suo Principe? Ricordate che Ugo Fo-
scolo, nei Sepolcri, aveva definito Machiavelli

Quel grande
che temprando lo scettro a' regnatori
gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue.

Questa definizione torna ripetutamente in Gramsci, nel senso che Ma-


chiavelli ha svelato ai semplici quello che i governanti sanno da sempre e na-
scondono: ha svelato ai semplici che l’azione politica ha le sue leggi, non de-
riva (come i governanti vogliono far credere) da norme morali e religiose.
Grazie a questa scoperta, anche i semplici possono finalmente diventare sog-
getto, emanciparsi ed entrare nell’orizzonte della politica moderna. Anche i
subalterni possono diventare un soggetto politico e organizzarsi per la pro-
pria liberazione:

Si può quindi supporre che il Machiavelli abbia in vista «chi non sa», che egli intenda
fare l’educazione politica di «chi non sa», educazione politica non negativa, di odiatori di
tiranni, come parrebbe intendere il Foscolo, ma positiva, di chi deve riconoscere necessari
determinati mezzi, anche se propri dei tiranni, perché vuole determinati fini. Chi è nato
nella tradizione degli uomini di governo, per tutto il complesso dell’educazione che as-
sorbe dall’ambiente famigliare, in cui predominano gli interessi dinastici o patrimoniali,
acquista quasi automaticamente i caratteri del politico realista. Chi dunque «non sa»? La
classe rivoluzionaria del tempo, il «popolo» e la «nazione» italiana, la democrazia cittadi-
na che esprime dal suo seno i Savonarola e i Pier Soderini e non i Castruccio e i Valenti-
207

no. Si può ritenere che il Machiavelli voglia persuadere queste forze della necessità di
avere un «capo» che sappia ciò che vuole e come ottenere ciò che vuole, e di accettarlo
con entusiasmo anche se le sue azioni possono essere o parere in contrasto con l’ideologia
diffusa del tempo, la religione.

In questo senso Machiavelli è il vero precursore del giacobinismo e della


filosofia della praxis. Ma è anche uno sconfitto dalla storia. La sua sconfitta
è l’origine della decadenza italiana. Il compito del moderno Principe è quello
di realizzarne il messaggio fondamentale.

3. Il mito vivente

Lo sviluppo di questo tema è fissato nel § 1, che rielabora note del Qua-
derno 8. Il Principe viene interpretato da Gramsci come un modello metodi-
co di pensiero politico, perché opera una fusione della politica come scienza
e della politica come utopia, di teoria e prassi. In questo senso il Principe è
un’opera politica perfetta: non è una fredda trattazione sociologica, ma è
opera militante, che conosce la realtà per modificarla profondamente. Essere
e dover esser (come vedremo fra poco) sono iscritti l’uno nell’altro. Questa
unificazione ha il carattere del mito, cioè accade in «una forma fantastica e
artistica», impersonata nella figura del condottiero (del principe, appunto).

Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistemati-
ca ma un libro «vivente», in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella
forma drammatica del «mito». Tra l’utopia e il trattato scolastico, le forme in cui la scien-
za politica si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla sua concezione la forma
fantastica e artistica, per cui l’elemento dottrinale e razionale si impersona in un condot-
tiero, che rappresenta plasticamente e «antropomorficamente» il simbolo della «volontà
collettiva».

Come vedete, interviene subito la parola veramente decisiva di questa pa-


gina: volontà collettiva. Il principe è il simbolo di una volontà collettiva. Il
principe è mito, creazione, arte (perché di fatto non esiste), ma una fantasia
concreta. Gramsci scrive che non è una riflessione astratta, ma una «autori-
flessione del popolo». È il popolo stesso che si riflette e disegna la genesi
della propria volontà collettiva.

Il Principe del Machiavelli potrebbe essere studiato come una esemplificazione storica
del «mito» sorelliano, cioè di una ideologia politica che si presenta non come fredda uto-
pia né come dottrinario raziocinio, ma come una creazione di fantasia concreta che opera
su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva. Il
carattere utopistico del Principe è nel fatto che il «principe» non esisteva nella realtà sto-
rica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obbiettiva, ma era
una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale; ma gli elemen-
ti passionali, mitici, contenuti nell’intero volumetto, con mossa drammatica di grande ef-
fetto, si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell’invocazione di un principe,
«realmente esistente». Nell’intero volumetto Machiavelli tratta di come deve essere il
Principe per condurre un popolo alla fondazione del nuovo Stato, e la trattazione è con-
208

dotta con rigore logico, con distacco scientifico: nella conclusione il Machiavelli stesso si
fa popolo, si confonde col popolo, ma non con un popolo «genericamente» inteso, ma col
popolo che il Machiavelli ha convinto con la sua trattazione precedente, di cui egli diventa
e si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro «logi-
co» non sia che un’autoriflessione del popolo, un ragionamento interno, che si fa nella
coscienza popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato, immediato. La
passione, da ragionamento su se stessa, ridiventa «affetto», febbre, fanatismo d’azione.
Ecco perché l’epilogo del Principe non è qualcosa di estrinseco, di «appiccicato»
dall’esterno, di retorico, ma deve essere spiegato come elemento necessario dell’opera,
anzi come quell’elemento che riverbera la sua vera luce su tutta l’opera e ne fa come un
«manifesto politico».

Qui si colloca la doppia critica che Gramsci rivolge a Sorel e a Croce. So-
rel ha concepito il mito come espressione immediata della classe: sindacali-
smo, sciopero generale, spirito di scissione. Ha presupposto un meccanici-
smo e un determinismo, uno svolgimento della storia senza la soggettività di
una volontà collettiva.

Si può studiare come il Sorel, dalla concezione dell’ideologia‑mito non sia giunto al-
la comprensione del partito politico, ma si sia arrestato alla concezione del sindacato pro-
fessionale. È vero che per il Sorel il «mito» non trovava la sua espressione maggiore nel
sindacato, come organizzazione di una volontà collettiva, ma nell’azione pratica del sin-
dacato e di una volontà collettiva già operante, azione pratica, la cui realizzazione massi-
ma avrebbe dovuto essere lo sciopero generale, cioè un’«attività passiva» per così dire, di
carattere cioè negativo e preliminare (il carattere positivo è dato solo dall’accordo rag-
giunto nelle volontà associate) di una attività che non prevede una propria fase «attiva e
costruttiva». Nel Sorel dunque si combattevano due necessità: quella del mito e quella
della critica del mito in quanto «ogni piano prestabilito è utopistico e reazionario». La
soluzione era abbandonata all’impulso dell’irrazionale, dell’«arbitrario» (nel senso berg-
soniano di «impulso vitale») ossia della «spontaneità». […]
Può un mito però essere «non-costruttivo», può immaginarsi, nell’ordine di intuizioni
del Sorel, che sia produttivo di effettualità uno strumento che lascia la volontà collettiva
nella sua fase primitiva ed elementare del suo mero formarsi, per distinzione (per «scis-
sione») sia pure con violenza, cioè distruggendo i rapporti morali e giuridici esistenti? Ma
questa volontà collettiva, così formata elementarmente, non cesserà subito di esistere,
sparpagliandosi in una infinità di volontà singole che per la fase positiva seguono direzio-
ni diverse e contrastanti? Oltre alla quistione che non può esistere distruzione, negazione
senza una implicita costruzione, affermazione, e non in senso «metafisico», ma pratica-
mente, cioè politicamente, come programma di partito. In questo caso si vede che si sup-
pone dietro la spontaneità un puro meccanicismo, dietro la libertà (arbitrio ‑ slancio vita-
le) un massimo di determinismo, dietro l’idealismo un materialismo assoluto.

Un discorso diverso deve essere fatto per Croce, il quale, negando la fun-
zione dei partiti politici, ha di fatto rescisso il legame tra prassi e volontà
collettiva.

Sarebbe da notare qui una contraddizione implicita nel modo con cui il Croce pone il
suo problema di storia e antistoria con altri modi di pensare del Croce: la sua avversione
dei «partiti politici» e il suo modo di porre la quistione della «prevedibilità» dei fatti so-
ciali, cfr Conversazioni Critiche, Serie prima, pp. 150-52, recensione del libro di Ludovi-
209

co Limentani, La previsione dei fatti sociali, Torino, Bocca, 1907; se i fatti sociali sono
imprevedibili e lo stesso concetto di previsione è un puro suono, l’irrazionale non può non
dominare e ogni organizzazione di uomini è antistoria, è un «pregiudizio»: non resta che
risolvere volta per volta, e con criteri immediati, i singoli problemi pratici posti dallo
svolgimento storico – cfr articolo di Croce, Il partito come giudizio e come pregiudizio in
Cultura e Vita morale – e l’opportunismo è la sola linea politica possibile

In questo senso è necessario tornare al metodo di Machiavelli. Ma cor-


reggerlo in un punto fondamentale. Nella visione di Machiavelli il principe è
un individuo (un condottiero, come Cesare Borgia). Nella modernità avanza-
ta, più precisamente nella società democratica, il principe non può essere un
individuo ma deve essere un organismo: cioè, si presti attenzione, non un or-
ganismo qualsiasi, ma un organismo che sia il germe della volontà collettiva
di una nazione, che prefiguri già in se stesso il popolo-nazione. Lo «sviluppo
storico», come scrive Gramsci, ha già indicato con precisione la forma di
questo organismo: esso è il partito politico, in quanto «prima cellula in cui si
riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali
e totali». La funzione egemonica, in una democrazia moderna, non può che
essere incardinata nell’elaborazione di questi soggetti che sono i partiti poli-
tici. L’elemento individuale (come vedremo) tenderà ad assumere piuttosto il
carattere del cesarismo, cioè dell’arbitrato in una situazione di crisi organica.

Il moderno principe, il mito-principe non può essere una persona reale, un individuo
concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già
abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente
nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico, la
prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire
universali e totali. Nel mondo moderno solo un’azione storico-politica immediata e immi-
nente, caratterizzata dalla necessità di un procedimento rapido e fulmineo, può incarnarsi
miticamente in un individuo concreto: la rapidità non può essere resa necessaria che da un
grande pericolo imminente, grande pericolo che appunto crea fulmineamente
l’arroventarsi delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività
ironica che possono distruggere il carattere «carismatico» del condottiero (ciò che è avve-
nuto nell’avventura di Boulanger). Ma un’azione immediata di tal genere, per la sua stessa
natura, non può essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo
restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e
nuove strutture nazionali.

Il problema che emerge in queste pagine è quello della formazione della


volontà collettiva, di cui il partito è germe. È il concetto stesso di nazionale-
popolare. La genesi della volontà collettiva è appunto il significato del gia-
cobinismo, che in questo senso incarna il mito di Machiavelli.

Il carattere «astratto» della concezione sorelliana del «mito» appare dall’avversione


(che assume la forma passionale di una repugnanza etica) per i giacobini che certamente
furono una «incarnazione categorica» del Principe di Machiavelli. Il moderno Principe
deve avere una parte dedicata al giacobinismo (nel significato integrale che questa nozio-
ne ha avuto storicamente e deve avere concettualmente), come esemplificazione di come
si sia formata in concreto e abbia operato una volontà collettiva che almeno per alcuni
210

aspetti fu creazione ex novo, originale. E occorre che sia definita la volontà collettiva e la
volontà politica in generale nel senso moderno, la volontà come coscienza operosa della
necessità storica, come protagonista di un reale ed effettuale dramma storico.
Una delle prime parti dovrebbe appunto essere dedicata alla «volontà collettiva», im-
postando così la quistione: quando si può dire che esistano le condizioni perché possa su-
scitarsi e svilupparsi una volontà collettiva nazionale-popolare?

Nell’assenza di giacobinismo, cioè dell’incarnazione del principe di Ma-


chiavelli, è tutto il problema storico italiano, riassunto nella questione del co-
smopolitismo (impero e Chiesa). La formazione della volontà collettiva ri-
chiede due passaggi fondamentali e connessi. In primo luogo il rapporto tra
civiltà urbana e contadini.

Le condizioni positive sono da ricercare nell’esistenza di gruppi sociali urbani, con-


venientemente sviluppati nel campo della produzione industriale e che abbiano raggiunto
un determinato livello di cultura storico-politica. Ogni formazione di volontà collettiva
nazionale-popolare è impossibile se le grandi masse dei contadini coltivatori non irrom-
pono simultaneamente nella vita politica. Ciò intendeva il Machiavelli attraverso la rifor-
ma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese, in questa comprensio-
ne è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe (più o meno fe-
condo) della sua concezione della rivoluzione nazionale. Tutta la storia dal 1815 in poi
mostra lo sforzo delle classi tradizionali per impedire la formazione di una volontà collet-
tiva di questo genere, per mantenere il potere «economico-corporativo» in un sistema in-
ternazionale di equilibrio passivo.

La seconda condizione è la riforma intellettuale e morale, che significa


una emancipazione dei subalterni, e in particolare del mondo contadino, dalla
visione del mondo tradizionale, dominata dalla religione.

Una parte importante del moderno Principe dovrà essere dedicata alla quistione di una
riforma intellettuale e morale, cioè alla quistione religiosa o di una concezione del mondo.
Anche in questo campo troviamo nella tradizione assenza di giacobinismo e paura del
giacobinismo (l’ultima espressione filosofica di tale paura è l’atteggiamento maltusiano di
B. Croce verso la religione). Il moderno Principe deve e non può non essere il banditore e
l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno
per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento
di una forma superiore e totale di civiltà moderna.

Ma (si osservi) la riforma morale è legata a una riforma economica, cioè a


un mutamento conseguente della struttura.

Può esserci riforma culturale e cioè elevamento civile degli strati depressi della socie-
tà, senza una precedente riforma economica e un mutamento nella posizione sociale e nel
mondo economico? Perciò una riforma intellettuale e morale non può non essere legata a
un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è appunto
il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale.

La conclusione della nota è tra le pagine più controverse e criticate di


Gramsci. Gramsci afferma che il moderno principe prende il posto «della di-
211

vinità o dell’imperativo categorico», cioè diventa il criterio ultimo della di-


stinzione tra bene e male, tra verità ed errore. Molti hanno letto in questo
passaggio una prova della mentalità “totalitaria”, non democratica, di Gram-
sci. Leggiamo anzi tutto il brano:

Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali


e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come
utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il
moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe
prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la ba-
se di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rap-
porti di costume.

La spiegazione puntuale di questo passaggio si trova nel § 16, dove


Gramsci si sofferma proprio sul dover essere, distinguendone due forme,
quella di Machiavelli e quella di Savonarola.
In primo luogo egli critica il «troppo realismo politico», cioè la rimozione
di ogni dover essere dal discorso politico. Se il diplomatico e il puro scien-
ziato politico possono arrestarsi alla realtà effettuale, il politico deve invece
unire l’essere e il dover essere, la conoscenza della situazione (i rapporti di
forza, come vedremo nella prossima lezione) e la prospettiva ulteriore.

Il «troppo» (e quindi superficiale e meccanico) realismo politico porta spesso ad af-


fermare che l’uomo di Stato deve operare solo nell’ambito della «realtà effettuale», non
interessarsi del «dover essere», ma solo dell’«essere». Ciò significherebbe che l’uomo di
Stato non deve avere prospettive oltre la lunghezza del proprio naso. Questo errore ha
condotto Paolo Treves a trovare nel Guicciardini e non nel Machiavelli il «vero politico».
Bisogna distinguere oltre che tra «diplomatico» e «politico», anche tra scienziato della
politica e politico in atto. Il diplomatico non può non muoversi solo nella realtà effettuale,
perché la sua attività specifica non è quella di creare nuovi equilibri, ma di conservare
entro certi quadri giuridici un equilibrio esistente. Così anche lo scienziato deve muoversi
solo nella realtà effettuale in quanto mero scienziato. Ma il Machiavelli non è un mero
scienziato; egli è un uomo di parte, di passioni poderose, un politico in atto, che vuol crea-
re nuovi rapporti di forze e perciò non può non occuparsi del «dover essere», certo non
inteso in senso moralistico.

Si tratta ora di capire cosa significa «dover essere». È una legge di natu-
ra? È un imperativo della pura ragione? Oppure una prescrizione religiosa?
Nella visione di Gramsci il dover essere è volontà concreta, cioè prospettiva
storica, spinta di emancipazione che sorge dallo sviluppo stesso della realtà e
si incardina nella forza «progressiva». Dunque: l’imperativo categorico (di
cui si parlava nella nota citata in precedenza) non è l’ordine del partito, ma il
dover essere che scaturisce concretamente dalla dinamica delle forze stori-
che:

La quistione non è quindi da porre in questi termini, è più complessa: si tratta cioè di
vedere se il «dover essere» è un atto arbitrario o necessario, è volontà concreta, o velleità,
desiderio, amore con le nuvole. Il politico in atto è un creatore, un suscitatore, ma né crea
dal nulla, né si muove nel vuoto torbido dei suoi desideri e sogni. Si fonda sulla realtà ef-
212

fettuale, ma cos’è questa realtà effettuale? È forse qualcosa di statico e immobile o non
piuttosto un rapporto di forze in continuo movimento e mutamento di equilibrio? Applica-
re la volontà alla creazione di un nuovo equilibrio delle forze realmente esistenti ed ope-
ranti, fondandosi su quella determinata forza che si ritiene progressiva, e potenziandola
per farla trionfare è sempre muoversi nel terreno della realtà effettuale ma per dominarla e
superarla (o contribuire a ciò). Il «dover essere» è quindi concretezza, anzi è la sola inter-
pretazione realistica e storicistica della realtà, è sola storia in atto e filosofia in atto, sola
politica.

Questo discorso vale, in sede storica, per l’interpretazione del rapporto fra
Machiavelli e Savonarola. Non è vero che Machiavelli è il teorico della realtà
effettuale e Savonarola del dover essere. Entrambi sono espressione del do-
ver essere, ma concepito diversamente. Nel caso di Savonarola il dover esse-
re è ancora intriso di astrazione religiosa e di utopia; in Machiavelli il dover
essere è «realistico» e fonda la prospettiva futura su una analisi concreta dei
rapporti di forza.

L’opposizione Savonarola-Machiavelli non è l’opposizione tra essere e dover essere


(tutto il paragrafo del Russo su questo punto è pura belletristica) ma tra due dover essere,
quello astratto e fumoso del Savonarola e quello realistico del Machiavelli, realistico an-
che se non diventato realtà immediata, poiché non si può attendere che un individuo o un
libro mutino la realtà ma solo la interpretino e indichino la linea possibile dell’azione. Il
limite e l’angustia del Machiavelli consistono solo nell’essere egli stato una «persona pri-
vata», uno scrittore e non il capo di uno Stato o di un esercito, che è pure una singola per-
sona, ma avente a sua disposizione le forze di uno Stato o di un esercito e non solo eserciti
di parole. Né perciò si può dire che il Machiavelli sia stato anche egli un «profeta disar-
mato»: sarebbe fare dello spirito a troppo buon mercato. Il Machiavelli non dice mai di
pensare o di proporsi egli stesso di mutare la realtà, ma solo e concretamente di mostrare
come avrebbero dovuto operare le forze storiche per essere efficienti.
213

Lezione 23

(Lunedì 25 maggio 2020)

1. La critica dell’economismo

Prima di osservarne gli sviluppi in alcuni concetti-chiave (crisi organica,


guerra di posizione, cesarismo), dobbiamo affrontare il punto nevralgico del-
la dottrina matura dell’egemonia. Abbiamo visto che, negli Appunti di filoso-
fia, la questione riguardava soprattutto il blocco storico, cioè il rapporto fra
struttura e superstrutture. Nel Quaderno 13 lo stesso problema viene ripensa-
to da Gramsci nel concetto, in parte diverso, di rapporti di forza (la locuzio-
ne blocco storico non viene più usata). Questo modello teorico è sviluppato
in due note, il § 17 e il § 18.
Vi proporrò una lettura rovesciata delle due note, perché il § 18 è il pre-
supposto del § 17. Infatti nel § 18 viene svolta la critica dell’economismo,
inteso come degenerazione della filosofia della praxis. La nota si intitola Al-
cuni aspetti teorici e pratici dell’«economismo» e rielabora in seconda stesu-
ra le carte 70verso-74recto del Quaderno 4. Nel passo che segue, Gramsci
definisce l’economismo come una degenerazione della filosofia della praxis,
una superstizione, che deriva dalla “combinazione” tra marxismo e liberismo
economico. Infatti è il liberismo (non il marxismo) che riduce all’elemento
economico tutti gli aspetti della società civile. Possiamo perciò dire che il
liberismo è la radice dell’economismo, che a un certo punto penetra nel mar-
xismo teorico e lo corrompe.

In varie occasioni è affermato in queste note che la filosofia della praxis è molto più
diffusa di quanto non si voglia concedere. L’affermazione è esatta se si intende che è dif-
fuso l’economismo storico, come il prof. Loria chiama ora le sue concezioni più o meno
sgangherate, e che pertanto l’ambiente culturale è completamente mutato dal tempo in cui
la filosofia della praxis iniziò le sue lotte; si potrebbe dire, con terminologia crociana, che
la più grande eresia sorta nel seno della «religione della libertà» ha anch’essa, come la
religione ortodossa, subito una degenerazione, si è diffusa come «superstizione» cioè è
entrata in combinazione col liberismo e ha prodotto l’economismo. È da vedere però se,
mentre la religione ortodossa si è ormai imbozzacchita, la superstizione eretica non abbia
sempre mantenuto un fermento che la farà rinascere come religione superiore, se cioè le
scorie di superstizione non siano facilmente liquidabili.

Dunque il liberismo è la radice teorica dell’economismo. Ma questa posi-


zione si fonda su un «errore teorico» di teoria politica. Questo è il punto es-
senziale del discorso di Gramsci. Il liberismo presuppone la separazione tra
società civile e Stato, in quanto distinzione non solo «metodica» (cioè utile
sul piano metodologico) ma «organica» (cioè sostanziale). Si ritiene che lo
Stato sia altro dalla società civile. Al contrario, nella società moderna, Stato e
214

società civile costituiscono una unità fondamentale e «nella realtà effettuale»


essi «si identificano».

L’impostazione del movimento del libero scambio si basa su un errore teorico di cui
non è difficile identificare l’origine pratica: sulla distinzione cioè tra società politica e so-
cietà civile, che da distinzione metodica viene fatta diventare ed è presentata come distin-
zione organica. Così si afferma che l’attività economica è propria della società civile e che
lo Stato non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma siccome nella realtà effet-
tuale società civile e Stato si identificano, è da fissare che anche il liberismo è una «rego-
lamentazione» di carattere statale, introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva: è
un fatto di volontà consapevole dei propri fini e non l’espressione spontanea, automatica
del fatto economico.

Quando l’«errore teorico» del liberismo penetra nel marxismo, esso gene-
ra diverse figure. La prima è il sindacalismo (Georges Sorel, ma per altri ver-
si Rosa Luxembourg), che riduce l’azione politica al momento economico-
corporativo, al sindacato e allo sciopero generale, e perciò nega il fondamen-
to stesso del concetto di egemonia. In questo caso l’economismo si risolve
nella spontaneità della classe, nella logica della insurrezione immediata.
Mentre la teoria dell’egemonia richiede l’elaborazione della classe in un
soggetto politico generale, nella forma specifica dei partiti politici.

Nel movimento del sindacalismo teorico la quistione si presenta più complessa: è in-
negabile che in esso l’indipendenza e l’autonomia del gruppo subalterno che si dice di
esprimere sono invece sacrificate all’egemonia intellettuale del gruppo dominante, poiché
appunto il sindacalismo teorico non è che un aspetto del liberismo, giustificato con alcune
affermazioni mutilate, e pertanto banalizzate, della filosofia della praxis. Perché e come
avviene questo «sacrifizio»? Si esclude la trasformazione del gruppo subordinato in do-
minante, o perché il problema non è neppure prospettato (fabianesimo, De Man, parte no-
tevole del laburismo) o perché è presentato in forme incongrue e inefficienti (tendenze
socialdemocratiche in generale) o perché si afferma il salto immediato dal regime dei
gruppi a quello della perfetta eguaglianza e dell’econornia sindacale.

Una forma ulteriore di economismo è l’astensionismo elettorale. Qui il


pensiero corre a Bordiga e forse a Trockij. Anche in questo caso si rifiuta il
livello avanzato della lotta politica, e non si vede (come Gramsci spiega nel §
30) che il «sistema elettivo» non è un fatto superfluo o solo quantitativo, ma
un fatto qualitativo, la «manifestazione terminale» di un processo egemonico,
che misura la capacità espansiva di una forza politica e di un gruppo sociale.

L’economismo si presenta sotto molte altre forme oltre che il liberismo e il sindacali-
smo teorico. Gli appartengono tutte le forme di astensionismo elettorale (esempio tipico
l’astensionismo dei clericali italiani dopo il 1870, dopo il 1900 sempre più attenuato, fino
al 1919 e alla formazione del Partito popolare: la distinzione organica che i clericali face-
vano tra Italia reale e Italia legale era una riproduzione della distinzione tra mondo eco-
nomico e mondo politico-legale), che sono molte, nel senso che può esserci semi-
astensionismo, un quarto ecc. All’astensionismo è legata la formula del «tanto peggio,
tanto meglio» e anche la formula della così detta «intransigenza» parlamentare di alcune
215

frazioni di deputati. Non sempre l’economismo è contrario all’azione politica e al partito


politico, che viene però considerato mero organismo educativo di tipo sindacale.

Economismo significa dunque: restare al livello economico-corporativo,


non passare sul terreno dell’egemonia. Ecco perché proprio la teoria
dell’egemonia rappresenta la critica più radicale a ogni forma di economismo.

Nella sua forma più diffusa di superstizione economistica, la filosofia della praxis
perde una gran parte della sua espansività culturale nella sfera superiore del gruppo intel-
lettuale, per quanta ne acquista tra le masse popolari e tra gli intellettuali di mezza tacca,
che non intendono affaticarsi il cervello ma vogliono apparire furbissimi ecc. Come scris-
se Engels, fa molto comodo a molti credere di poter avere, a poco prezzo e con nessuna
fatica, in saccoccia, tutta la storia e tutta la sapienza politica e filosofica concentrata in
qualche formuletta. Avendo dimenticato che la tesi secondo cui gli uomini acquistano co-
scienza dei conflitti fondamentali nel terreno delle ideologie non è di carattere psicologico
o moralistico, ma ha un carattere organico gnoseologico, si è creata la forma mentis di
considerare la politica e quindi la storia come un continuo marché de dupes, un gioco di
illusionismi e di prestidigitazione. L’attività «critica» si è ridotta a svelare trucchi, a susci-
tare scandali, a fare i conti in tasca agli uomini rappresentativi.
Si è così dimenticato che essendo o presumendo di essere anche l’«economismo» un
canone obbiettivo di interpretazione (obbiettivo-scientifico), la ricerca nel senso degli in-
teressi immediati dovrebbe esser valida per tutti gli aspetti della storia, per gli uomini che
rappresentano la «tesi» come per quelli che rappresentano l’«antitesi». Si è dimenticato
inoltre un’altra proposizione della filosofia della praxis: quella che le «credenze popolari»
o le credenze del tipo delle credenze popolari hanno la validità delle forze materiali.
Gli errori di interpretazione nel senso delle ricerche degli interessi «sordidamente
giudaici» sono stati talvolta grossolani e comici e hanno così reagito negativamente sul
prestigio della dottrina originaria. Occorre perciò combattere l’economismo non solo nella
teoria della storiografia, ma anche e specialmente nella teoria e nella pratica politica. In
questo campo la lotta può e deve essere condotta sviluppando il concetto di egemonia,
così come è stata condotta praticamente nello sviluppo della teoria del partito politico e
nello sviluppo pratico della vita di determinati partiti politici (la lotta contro la teoria della
così detta rivoluzione permanente, cui si contrapponeva il concetto di dittatura democrati-
co-rivoluzionaria, importanza avuta dal sostegno dato alle ideologie costituentiste ecc.).

Possiamo dunque concludere che l’economismo rappresenta la degenera-


zione più pericolosa della filosofia della praxis. Attraverso l’economismo il
movimento operaio rimane al livello economico-corporativo e non riesce a
costituirsi come autentico soggetto politico. Il concetto di egemonia è qui
negato alle sue radici. Il chiarimento di questa critica è offerto nel § 17, at-
traverso la teoria dei rapporti di forza.

2. Movimenti organici e movimenti occasionali

Criticato l’economismo, la teoria dell’egemonia si presenta ora come ana-


lisi dei rapporti di forza. Siamo al § 17. Proviamo a leggere questa nota
fondamentale e a scandirne i diversi passaggi.
216

In primo luogo Gramsci indica il concetto di forza come soluzione corret-


ta del problema del rapporto fra struttura e superstrutture. La teoria del bloc-
co storico, elaborata negli Appunti di filosofia, subisce qui uno sviluppo ra-
dicale. Se ricordate, il blocco storico indicava la relazione circolare fra la
struttura e le superstrutture, tra l’oggettività e il soggetto. Ma nel concetto di
forza non si tratta più solo di rapporto di determinazione reciproca fra i due
termini: le forze indicano lo sviluppo coerente della struttura nell’ordine del-
le superstrutture, la rigorosa traduzione politica del dato oggettivo della strut-
tura. Tutta la dimensione della struttura è ora elaborata nell’orizzonte del
soggetto. In questo movimento catartico l’economismo è criticato e lasciato
alle spalle.
Per questo motivo assumono una importanza sempre maggiore i due prin-
cìpi della prefazione a Per la critica dell’economia politica di Marx. Il senso
di questi princìpi è che la società opera nell’orizzonte delle «condizioni ne-
cessarie e sufficienti» e che, d’altro lato, prosegue il cammino fino a che le
«forme di vita» non abbiano esaurito il proprio processo. In termini più sem-
plici: le crisi del capitalismo trovano soluzioni sempre nuove e diverse fino a
quando la forma sociale borghese non ha esaurito la sua funzione storica. Le
risposte, in termini di reazione o di moderato progresso, sono molteplici, im-
prevedibili, e si articolano nella durata della forma sociale. Il sistema sociale
può subire una scossa, come nella grande crisi del 1929, ma ha risorse per
adattarsi e superare le difficoltà, se il suo compito storico non è tramontato. È
all’interno di questa durata che il soggetto politico deve esercitare la funzio-
ne egemonica, nei termini di una prolungata e intelligente guerra di posizio-
ne. Possiamo anche dire che la struttura (il tempo lungo della struttura) indi-
ca il quadro di riferimento oggettivo al cui interno deve articolarsi il tempo
più breve e creativo della lotta politica.
Ma vediamo come Gramsci riporta i due princìpi di Marx:

È il problema dei rapporti tra struttura e superstrutture che bisogna impostare esatta-
mente e risolvere per giungere a una giusta analisi delle forze che operano nella storia di
un determinato periodo e determinare il loro rapporto. Occorre muoversi nell’ambito di
due principii: 1) quello che nessuna società si pone dei compiti per la cui soluzione non
esistano già le condizioni necessarie e sufficienti o esse non siano almeno in via di appari-
zione e di sviluppo; 2) e quello che nessuna società si dissolve e può essere sostituita se
prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti (controllare
l’esatta enunciazione di questi principii).
«Una formazione sociale non perisce, prima che non siano sviluppate tutte le forze
produttive per le quali essa è ancora sufficiente e nuovi più alti rapporti di produzione non
ne abbiano preso il posto, prima che le condizioni materiali di esistenza di questi ultimi
siano state covate nel seno stesso della vecchia società. Perciò l’umanità si pone sempre
solo quei compiti che essa può risolvere; se si osserva con più accuratezza si troverà sem-
pre che il compito stesso sorge solo dove le condizioni materiali della sua risoluzione esi-
stono già o almeno sono nel processo del loro divenire» (Introduzione a Critica
dell’Economia Politica).

Questi princìpi portano, in primo luogo, a determinare la natura della


struttura. Nella struttura bisogna distinguere i fenomeni organici da quelli
217

occasionali. Cerchiamo di fissare nel modo più preciso questa distinzione di


organico e occasionale. Il movimento organico della struttura è caratterizza-
to dalla lunga durata (come nel secondo principio di Marx): gli spostamenti
organici sono «relativamente permanenti». Le crisi organiche si prolungano
«per decine di anni». Solo i teorici dell’economismo ritengono che queste
crisi producano un crollo immediato del sistema. Al contrario, in quelle «de-
cine di anni», o persino nei secoli in cui la forma sociale si mantiene, si arti-
colano i movimenti occasionali, nei quali «le forze politiche operanti positi-
vamente alla conservazione e difesa della struttura stessa si sforzano tuttavia
di sanare entro certi limiti e di superare» quelle crisi. È proprio sul terreno
dell’occasionale che si costituiscono le «forze antagonistiche», che si svolge
il conflitto sociale, come una prolungata guerra di posizione, che non preve-
de il mito dell’assalto finale al palazzo del nemico. Leggiamo questo passag-
gio:

Dalla riflessione su questi due canoni si può giungere allo svolgimento di tutta una se-
rie di altri principii di metodologia storica. Intanto nello studio di una struttura occorre
distinguere i movimenti organici (relativamente permanenti) da i movimenti che si posso-
no chiamare di congiuntura (e si presentano come occasionali, immediati, quasi accidenta-
li). I fenomeni di congiuntura sono certo dipendenti anch’essi da movimenti organici, ma
il loro significato non è di vasta portata storica: essi danno luogo a una critica politica
spicciola, del giorno per giorno, che investe i piccoli gruppi dirigenti e le personalità re-
sponsabili immediatamente del potere. I fenomeni organici danno luogo alla critica stori-
co-sociale, che investe i grandi aggruppamenti, di là dalle persone immediatamente re-
sponsabili e di là dal personale dirigente. Nello studiare un periodo storico appare la gran-
de importanza di questa distinzione. Si verifica una crisi, che talvolta si prolunga per de-
cine di anni. Questa durata eccezionale significa che nella struttura si sono rivelate (sono
venute a maturità) contraddizioni insanabili e che le forze politiche operanti positivamente
alla conservazione e difesa della struttura stessa si sforzano tuttavia di sanare entro certi
limiti e di superare. Questi sforzi incessanti e perseveranti (poiché nessuna forma sociale
vorrà mai confessare di essere superata) formano il terreno dell’«occasionale» sul quale si
organizzano le forze antagonistiche che tendono a dimostrare (dimostrazione che in ulti-
ma analisi riesce solo ed è «vera» se diventa nuova realtà, se le forze antagonistiche trion-
fano, ma immediatamente si svolge in una serie di polemiche ideologiche, religiose, filo-
sofiche, politiche, giuridiche ecc., la cui concretezza è valutabile dalla misura in cui rie-
scono convincenti e spostano il preesistente schieramento delle forze sociali) che esistono
già le condizioni necessarie e sufficienti perché determinati compiti possano e quindi
debbano essere risolti storicamente (debbano, perché ogni venir meno al dovere storico
aumenta il disordine necessario e prepara più gravi catastrofi).

Stabilire la relazione tra movimenti organici e movimenti occasionali è il


compito più difficile della scienza politica. Tra i due movimenti c’è un «nes-
so dialettico», ed è facile scambiare l’un processo con l’altro. Questo è
l’errore che compiono le due principali degenerazioni della filosofia della
praxis: da un lato, come sappiamo, l’economismo, che vede solo il movimen-
to organico; d’altro lato l’ideologismo, che invece ritiene che la storia sia co-
stituita solo da movimenti occasionali, nel senso che le ideologie possano
tutto, senza il vincolo oggettivo della struttura. Al contrario, come ha inse-
gnato Marx, il movimento organico è «reltivamente permanente», sostan-
218

zialmente oggettivo, e rappresenta la cornice al cui interno le forze possono


operare per spostare i confini della situazione. La difficoltà del compito ana-
litico e gli errori di prospettiva sono segnalati da Gramsci in questo brano:

L’errore in cui si cade spesso nelle analisi storico-politiche consiste nel non saper tro-
vare il giusto rapporto tra ciò che è organico e ciò che è occasionale: si riesce così o ad
esporre come immediatamente operanti cause che invece sono operanti mediatamente, o
ad affermare che le cause immediate sono le sole cause efficienti; nell’un caso si ha
l’eccesso di «economismo» o di dottrinarismo pedantesco, dall’altro l’eccesso di «ideolo-
gismo», nell’un caso si sopravalutano le cause meccaniche; nell’altro si esalta l’elemento
volontaristico e individuale. (La distinzione tra «movimenti» e fatti organici e movimenti
e fatti di «congiuntura» o occasionali deve essere applicata a tutti i tipi di situazione, non
solo a quelle in cui si verifica uno svolgimento regressivo o di crisi acuta, ma a quelle in
cui si verifica uno svolgimento progressivo o di prosperità e a quelle in cui si verifica una
stagnazione delle forze produttive). Il nesso dialettico tra i due ordini di movimento e
quindi di ricerca difficilmente viene stabilito esattamente e se l’errore è grave nella sto-
riografia, ancor più grave diventa nell’arte politica, quando si tratta non di ricostruire la
storia passata ma di costruire quella presente e avvenire: i proprii desideri e le proprie
passioni deteriori e immediate sono la causa dell’errore, in quanto essi sostituiscono
l’analisi obbiettiva e imparziale e ciò avviene non come «mezzo» consapevole per stimo-
lare all’azione ma come autoinganno. La biscia, anche in questo caso, morde il ciarlatano
ossia il demagogo è la prima vittima della sua demagogia.

Questa nuova interpretazione del rapporto fra struttura e superstrutture


(che dunque rappresenta uno svolgimento della teoria del blocco storico) ha
conseguenze molto rilevanti nel pensiero di Gramsci. Funziona, in primo
luogo, come un principio di differenziazione delle situazioni. Di fronte a una
grande crisi (come quella del 1929) le risposte sono molteplici e devono es-
sere valutate in maniera analitica. La forma sociale può arginare la sua crisi,
almeno sul terreno occasionale, con una trasformazione delle proprie basi
produttive (l’americanismo), con un intervento arbitrale che sblocchi una si-
tuazione di equilibrio distruttivo delle forze in conflitto (il cesarismo), racco-
gliendo il gruppo sociale dominante in una soluzione apertamente reazionaria
(fascismi).
Ma l’analisi dei movimenti organici permette a Gramsci anche di fissare
una nuova periodizzazione della storia europea, che va dal 1789 al 1870.
Dunque di determinare gli estremi della crisi organica attuale nel periodo
della grande guerra e dell’avvento al potere dei fascismi. Su questa periodiz-
zazione si fonda la critica della rivoluzione permanente e l’idea del 1917
come ultimo episodio della guerra di assalto. È dunque un passaggio decisivo.

Questi criteri metodologici possono acquistare visibilmente e didatticamente tutto il


loro significato se applicati all’esame di fatti storici concreti. Si potrebbe farlo utilmente
per gli avvenimenti che si svolsero in Francia dal 1789 al 1870. Mi pare che per maggior
chiarezza dell’esposizione sia proprio necessario abbracciare tutto questo periodo. Infatti
solo nel 1870-71, col tentativo comunalistico si esauriscono storicamente tutti i germi nati
nel 1789 cioè non solo la nuova classe che lotta per il potere sconfigge i rappresentanti
della vecchia società che non vuole confessarsi decisamente superata, ma sconfigge anche
i gruppi nuovissimi che sostengono già superata la nuova struttura sorta dal rivolgimento
219

iniziatosi nel 1789 e dimostra così di essere vitale e in confronto al vecchio e in confronto
al nuovissimo. Inoltre, col 1870-71, perde efficacia l’insieme di principii di strategia e
tattica politica nati praticamente nel 1789 e sviluppati ideologicamente intorno al 48
(quelli che si riassumono nella formula della «rivoluzione permanente»: sarebbe interes-
sante studiare quanto di tale formula è passata nella strategia mazziniana – per es. per
l’insurrezione di Milano del 1853 – e se è avvenuto consapevolmente o meno). Un ele-
mento che mostra la giustezza di questo punto di vista è il fatto che gli storici non sono
per nulla concordi (ed è impossibile che lo siano) nel fissare i limiti di quel gruppo di av-
venimenti che costituisce la rivoluzione francese. Per alcuni (per es. il Salvemini) la rivo-
luzione è compiuta a Valmy: la Francia ha creato un nuovo Stato e ha saputo organizzare
la forza politico-militare che ne afferma e ne difende la sovranità territoriale. Per altri la
Rivoluzione continua fino al Termidoro, anzi essi parlano di più rivoluzioni (il 10 agosto
sarebbe una rivoluzione a sé ecc.; cfr la Rivoluzione francese di A. Mathiez nella colle-
zione Colin). Il modo di interpretare il Termidoro e l’opera di Napoleone offre le più
aspre contradizioni: si tratta di rivoluzione o di controrivoluzione? ecc. Per altri la storia
della Rivoluzione continua fino al 1830, 1848, 1870 e persino fino alla guerra mondiale
del 1914.

La periodizzazione della storia europea – per cui, come si è detto, la for-


ma sociale entra in crisi dopo il 1870, pur non avendo esaurito le sue «forme
di vita» – ha anche un preciso significato politico. La rivoluzione russa del
1917 rappresenta l’ultimo episodio della guerra di movimento. Nella lunga
epoca della crisi, negli «Stati più avanzati», «dove la “società civile” è diven-
tata una struttura molto complessa e resistente alle “irruzioni” catastrofiche
dell’elemento economico immediato (crisi, depressioni ecc.); le superstruttu-
re della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moder-
na». Nelle società europee «viene a mancare l’elemento della rapidità, del
tempo accelerato, della marcia progressiva definitiva come si aspetterebbero
gli strateghi del cadornismo politico» (Quaderno 13, § 24, pp. 1615-1616). In
questa epoca di crisi organica la guerra di movimento (la rivoluzione in sen-
so classico) non è più possibile. Si entra nella fase della guerra di posizione,
della lotta egemonica, dove nel tempo lungo della storia si cerca, giorno do-
po giorno, di strappare posizioni all’avversario, facendo avanzare gradata-
mente le ragioni del progresso.

3. I rapporti di forza

A questo punto Gramsci può esporre compiutamente il concetto di rap-


porti di forza, in cui si riassume la teoria dell’egemonia. Egli distingue tre
gradi. Possiamo definirli così: il rapporto strutturale, il rapporto politico, il
rapporto militare. «Lo sviluppo storico – spiega – oscilla continuamente tra il
primo e il terzo momento, con la mediazione del secondo». Ciò significa che
il passaggio fondamentale è proprio il secondo momento, quello dove la for-
za si costituisce come forza politica e manifesta la sua potenza egemonica.
Il primo grado è economico-corporativo. Le forze esprimono la realtà
immediata delle classi, della funzione produttiva, della posizione sociale. Si
tratta, scrive Gramsci, di
220

un rapporto di forze sociali strettamente legato alla struttura, obbiettivo, indipendente


dalla volontà degli uomini, che può essere misurato coi sistemi delle scienze esatte o fisi-
che. Sulla base del grado di sviluppo delle forze materiali di produzione si hanno i rag-
gruppamenti sociali, ognuno dei quali rappresenta una funzione e ha una posizione data
nella produzione stessa. Questo rapporto è quello che è, una realtà ribelle: nessuno può
modificare il numero delle aziende e dei suoi addetti, il numero delle città con la data po-
polazione urbana ecc. Questo schieramento fondamentale permette di studiare se nella
società esistono le condizioni necessarie e sufficienti per una sua trasformazione, permette
cioè di controllare il grado di realismo e di attuabilità delle diverse ideologie che sono
nate nel suo stesso terreno, nel terreno delle contraddizioni che esso ha generato durante il
suo sviluppo.

Questo primo livello indica il «grado di realismo», di «attuabilità delle


diverse ideologie». Ma, come vedete, le forze non sono affatto soggetti: il
rapporto «è quello che è», non può generare un conflitto politico. Il grave er-
rore dell’economismo è appunto di arrestarsi a questa situazione oggettiva,
elementare, al di qua dell’egemonia e della politica.
Occorre dunque trascendere questa situazione oggettiva e arrivare al se-
condo momento, quello decisivo, che si articola «in vari gradi, che corri-
spondono ai diversi momenti della coscienza politica collettiva, così come si
sono manifestati finora nella storia». Vediamo quali sono i «gradi» di svilup-
po della capacità egemonica, di trasformazione – possiamo dire – della clas-
se in soggetto politico.
Il primo grado è quello economico-corporativo. Si afferma una solidarietà
elementare del gruppo professionale: il commerciante riconosce un legame
con gli altri commercianti, ma non ancora con il gruppo sociale borghese. In
modo analogo un operaio è solidale con altri operai, ma non con la classe dei
subalterni.

Il primo e più elementare [rapporto delle forze politiche] è quello economico-


corporativo: un commerciante sente di dover essere solidale con un altro commerciante,
un fabbricante con un altro fabbricante, ecc., ma il commerciante non si sente ancora soli-
dale col fabbricante; è cioè sentita l’unità omogenea, e il dovere di organizzarla, del grup-
po professionale, ma non ancora del gruppo sociale più vasto.

Nel secondo grado si costituisce il gruppo sociale, ma ancora in un senso


«meramente economico». Si afferma una prima forma di soggettività politica,
ma solo come rivendicazione del proprio interesse di classe:

Un secondo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza della solidarietà di in-


teressi fra tutti i membri del gruppo sociale, ma ancora nel campo meramente economico.
Già in questo momento si pone la quistione dello Stato, ma solo nel terreno di raggiungere
una eguaglianza politico-giuridica coi gruppi dominanti, poiché si rivendica il diritto di
partecipare alla legislazione e all’amministrazione e magari di modificarle, di riformarle,
ma nei quadri fondamentali esistenti.

Solo nel terzo grado, quello propriamente egemonico, si forma la volontà


collettiva. L’interesse economico è superato, il gruppo sociale si solleva a
221

una effettiva universalità, entra nella «sfera delle superstrutture complesse» e


diventa partito. In questo modo è in grado di creare «l’egemonia di un grup-
po sociale fondamentale su una serie di gruppi subordinati»: di unificare in
un partito molteplici gruppi sociali, conferendovi un indirizzo determinato e
facendosi «forza motrice di una espansione universale».

Un terzo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza che i propri interessi cor-
porativi, nel loro sviluppo attuale e avvenire, superano la cerchia corporativa, di gruppo
meramente economico, e possono e debbono divenire gli interessi di altri gruppi subordi-
nati. Questa è la fase più schiettamente politica, che segna il netto passaggio dalla struttu-
ra alla sfera delle superstrutture complesse, è la fase in cui le ideologie germinate prece-
dentemente diventano «partito», vengono a confronto ed entrano in lotta fino a che una
sola di esse o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi, a dif-
fondersi su tutta l’area sociale, determinando oltre che l’unicità dei fini economici e poli-
tici, anche l’unità intellettuale e morale, ponendo tutte le quistioni intorno a cui ferve la
lotta non sul piano corporativo ma su un piano «universale» e creando così l’egemonia di
un gruppo sociale fondamentale su una serie di gruppi subordinati. Lo Stato è concepito sì
come organismo proprio di un gruppo, destinato a creare le condizioni favorevoli alla
massima espansione del gruppo stesso, ma questo sviluppo e questa espansione sono con-
cepiti e presentati come la forza motrice di una espansione universale, di uno sviluppo di
tutte le energie «nazionali», cioè il gruppo dominante viene coordinato concretamente con
gli interessi generali dei gruppi subordinati e la vita statale viene concepita come un con-
tinuo formarsi e superarsi di equilibri instabili (nell’ambito della legge) tra gli interessi del
gruppo fondamentale e quelli dei gruppi subordinati, equilibrii in cui gli interessi del
gruppo dominante prevalgono ma fino a un certo punto, non cioè fino al gretto interesse
economico-corporativo. Nella storia reale questi momenti si implicano reciprocamente,
per così dire orizzontalmente e verticalmente, cioè secondo le attività economico-sociali
(orizzontali) e secondo i territori (verticalmente), combinandosi e scindendosi variamente:
ognuna di queste combinazioni può essere rappresentata da una propria espressione orga-
nizzata economica e politica.

Ma il discorso non è ancora completo, perché a questa graduazione della


forza egemonica occorre aggiungere un elemento decisivo, cioè il nesso na-
zionale-internazionale. Il processo di costituzione del soggetto egemonico
non è solo un movimento verticale, dalla classe al partito, ma anche, per co-
sì dire, orizzontale, che deriva dalle combinazioni per cui il senso globale
viene afferrato dal soggetto nazionale e i punti più alti dello sviluppo mon-
diale si riflettono (attivamente o passivamente) nella formazione della volon-
tà collettiva. Siamo di nuovo al nodo della traducibilità, che indica
l’interdipendenza dello stesso livello delle superstrutture.

Ancora bisogna tener conto che a questi rapporti interni di uno Stato-nazione si in-
trecciano i rapporti internazionali, creando nuove combinazioni originali e storicamente
concrete. Una ideologia, nata in un paese più sviluppato, si diffonde in paesi meno svilup-
pati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni. (La religione, per es., è sempre stata
una fonte di tali combinazioni ideologico-politiche nazionali e internazionali, e con la re-
ligione le altre formazioni internazionali, la massoneria, il Rotary Club, gli ebrei, la di-
plomazia di carriera che suggeriscono espedienti politici di origine storica diversa e li
fanno trionfare in determinati paesi, funzionando come partito politico internazionale che
opera in ogni nazione con tutte le sue forze internazionali concentrate; ma religione, mas-
222

soneria, Rotary, ebrei ecc., possono rientrare nella categoria sociale degli «intellettuali»,
la cui funzione, su scala internazionale, è quella di mediare gli estremi, di «socializzare» i
ritrovati tecnici che fanno funzionare ogni attività di direzione, di escogitare compromessi
e vie d’uscita tra le soluzioni estreme). Questo rapporto tra forze internazionali e forze
nazionali è ancora complicato dall’esistenza nell’interno di ogni Stato di parecchie sezioni
territoriali di diversa struttura e di diverso rapporto di forza in tutti i gradi (così la Vandea
era alleata con le forze internazionali reazionarie e le rappresentava nel seno dell’unità
territoriale francese; così Lione nella Rivoluzione Francese rappresentava un nodo parti-
colare di rapporti ecc.).

Questa descrizione del ciclo egemonico rappresenta la confutazione più


stretta dell’economismo. In un passaggio molto rilevante, Gramsci aggiunge
che le crisi economiche non determinano le «crisi storiche fondamentali»,
come mostra l’esempio della rivoluzione francese, dove la rottura è determi-
nata da motivi di «prestigio» e non da una crisi economica.

Altra quistione connessa alle precedenti è quella di vedere se le crisi storiche fonda-
mentali sono determinate immediatamente dalle crisi economiche. La risposta alla qui-
stione è contenuta implicitamente nei paragrafi precedenti, dove sono trattate quistioni
che sono un altro modo di presentare quella ora trattata, tuttavia è sempre necessario, per
ragioni didattiche, dato il pubblico particolare, esaminare ogni modo di presentarsi di una
stessa quistione come fosse un problema indipendente e nuovo. Si può escludere che, di
per se stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali; solo possono
creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e
risolvere le quistioni che coinvolgono tutto l’ulteriore sviluppo della vita statale. Del re-
sto, tutte le affermazioni che riguardano i periodi di crisi o di prosperità possono dar luo-
go a giudizi unilaterali. Nel suo compendio di storia della Rivoluzione francese (ed. Co-
lin) il Mathiez, opponendosi alla storia volgare tradizionale, che aprioristicamente «trova»
una crisi in coincidenza con le grandi rotture di equilibri sociali, afferma che verso il 1789
la situazione economica era piuttosto buona immediatamente, per cui non si può dire che
la catastrofe dello Stato assoluto sia dovuta a una crisi di immiserimento (cfr
l’affermazione esatta del Mathiez). Occorre osservare che lo Stato era in preda a una mor-
tale crisi finanziaria e si poneva la quistione su quale dei tre ordini sociali privilegiati do-
vevano cadere i sacrifizi e i pesi per rimettere in sesto le finanze statali e regali. Inoltre: se
la posizione economica della borghesia era florida, certamente non era buona la situazione
delle classi popolari delle città e delle campagne, specialmente di queste, tormentate da
miseria endemica. In ogni caso, la rottura dell’equilibrio delle forze non avvenne per cau-
se meccaniche immediate di immiserimento del gruppo sociale che aveva interesse a
rompere l’equilibrio e di fatto lo ruppe, ma avvenne nel quadro di conflitti superiori al
mondo economico immediato, connessi al «prestigio» di classe (interessi economici av-
venire), ad una esasperazione del sentimento di indipendenza, di autonomia e di potere.
La quistione particolare del malessere o benessere economico come causa di nuove realtà
storiche è un aspetto parziale della quistione dei rapporti di forza nei loro vari gradi.
223

Lezione 24

(Mercoledì 27 maggio 2020)

1. La”crisi” come crisi di egemonia

Ci occuperemo oggi della teoria gramsciana della crisi. Tutta la riflessio-


ne di Gramsci è orientata alla definizione della crisi della forma sociale come
crisi organica, cioè come crisi di una relazione egemonica. Questa posizione
è sviluppata soprattutto nei §§ 23, 24, 26, 27 del Quaderno 13. Per intendere
questo passaggio decisivo, dobbiamo ricordare alcune premesse.
In primo luogo teniamo presente quello che Gramsci aveva scritto nel §
17, liquidando in maniera netta un pregiudizio del marxismo teorico, secon-
do il quale le «crisi storiche fondamentali» sarebbero determinate dalle «crisi
economiche». Al contrario, aveva scritto, «si può escludere che, per se stesse,
le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali; solo possono
creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di
impostare e risolvere le quistioni che coinvolgono tutto l’ulteriore sviluppo
della vita statale». In quella nota, aveva citato l’esempio della rivoluzione
francese, che non era stata innescata da una crisi economica («la situazione
economica era piuttosto buona immediatamente»), ma «nel quadro di conflit-
ti superiori al mondo economico immediato, connessi al “prestigio” di clas-
se». Perciò aveva concluso che il momento economico è solo «un aspetto
parziale della quistione dei rapporti di forza nei loro vari gradi». In altri ter-
mini, la teoria della crisi non può essere ricondotta, in maniera meccanica,
all’elemento economico. Una forma sociale va in crisi quando viene messo
in discussione un legame “organico”, più essenziale, che riguarda il rapporto
di forze politiche, il “prestigio”, e che richiama tutta la sfera complessa delle
superstrutture.
In secondo luogo dobbiamo tornare a Marx e al modo peculiare in cui
Gramsci lo lesse. Come sappiamo, egli trasse dalla Prefazione del 1859 a Per
la critica dell’economia politica i due princìpi generali della scienza politica.
Il secondo principio (nella riformulazione di Gramsci) affermava che «nes-
suna società si dissolve e può essere sostituita se prima non ha svolto tutte le
forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti». Se la forma sociale non
ha esaurito la sua funzione storica, nessuna crisi economica ne interrompe il
percorso. La forma sociale (in particolare il capitalismo) possiede le risorse
per assorbire le sue crisi, risponde alle crisi di sovrapproduzione o alle crisi
finanziarie elaborando forme politiche imprevedibili. La grande crisi del
1929 non aveva affatto chiuso la parabola del capitalismo, il quale anzi aveva
trovato strumenti di reazione e persino di contrattacco (l’americanismo, per
esempio, ma anche, come vedremo, le soluzioni reazionarie). Allo stesso
224

modo, le forze di progresso non possono attendere l’esaurimento finale del


sistema, il “crollo” del capitalismo, ma devono agire nella complessità dei
suoi processi, con un conflitto egemonico che riguarda tutta la sfera della so-
cietà civile e delle superstrutture. Se tutto questo è vero, la nozione stessa di
crisi della forma sociale deve essere riformulata. Oltre il concetto di crisi
economica, il marxismo teorico deve guardare alla più complessa determina-
zione della crisi organica (cioè relativa, come abbiamo visto nella lezione
precedente, ai movimenti organici della forma sociale).

2. Il 18 brumaio di Marx

Il rapporto con l’opera di Marx diventa, a questo proposito, molto impor-


tante. Abbiamo finora sottolineato la presenza di alcuni testi-chiave: le Tesi
su Feuerbach, la Sacra famiglia, Miseria della filosofia, il Manifesto, il pri-
mo libro del Capitale. Nella teoria delle crisi organiche Gramsci fa soprattut-
to i conti con gli scritti storici di Marx: con Le lotte di classe in Francia, con
La guerra civile in Francia e, in modo particolarissimo, con lo scritto del
1851-1852 su Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Perché questo libro divenne
così importante per la riflessione di Gramsci? Svolgendo in maniera molto
più radicale la lettura della storia francese delineata nelle Lotte di classe in
Francia, ora Marx non si trovava di fronte il conflitto aperto e semplificato
tra borghesia e proletariato teorizzato nel Manifesto, ma una realtà sociale
molto più articolata, modificata, come in un prisma, dalla espressione politi-
ca (dai partiti) dei gruppi sociali. Nel punto cruciale della sua analisi, Marx
affermava che le rivoluzioni borghesi «passano tempestosamente di successo
in successo», ma poi entrano in una «lunga nausea». Proprio questa «lunga
nausea» stabiliva l’orizzonte storico dell’affermazione di Luigi Bonaparte,
che perciò non era interpretato come esponente della borghesia (industriale o
finanziaria) ma come manifestazione della sua crisi. Il successo di Napoleone
III era derivato dalla crisi di rappresentanza della borghesia industriale e fi-
nanziaria, dalla scissione fra i rappresentanti parlamentari (il “partito
dell’ordine”) e il gruppo sociale borghese. A un certo punto, la borghesia to-
glie la fiducia ai propri rappresentanti parlamentari, rinuncia alla funzione
politica, comincia a pensare solo ai propri affari e lascia il potere politico
nelle mani di un avventuriero. Come vedete, Marx interpreta la crisi come
una vera e propria crisi organica, come la rottura del rapporto fra il gruppo
sociale e i suoi rappresentanti parlamentari. In questa «lunga nausea» (la
borghesia rinuncia alla funzione di classe universale, si ritira in un orizzonte
economico-corporativo) si afferma un potere né borghese né proletario, ma
che ha una base sociale plurima, che anzi raccoglie il consenso di quelle
classi che la rivoluzione borghese non è riuscita ad assorbire e che il movi-
mento operaio non ha saputo conquistare: da un lato il sottoproletariato,
d’altro lato i contadini proprietari. Il potere di Luigi Bonaparte è la reazione
della campagna contro la città, di una campagna non ridotta alla regola del
capitalismo contro la borghesia industriale e l’aristocrazia finanziaria. Il bo-
225

napartismo è una specie di clamoroso interregno della modernità, dove le


classi produttive fondamentali (borghesia e proletariato) appaiono emargina-
te dalla sfera del potere.
Tra le pagine più rilevanti del 18 brumaio di Marx deve essere segnalata
l’analisi della burocrazia, lo «spaventoso corpo parassitario», che ha la sua
base sociale nei «contadini piccoli proprietari». Se nella rivoluzione borghe-
se la burocrazia era stata un mezzo, uno strumento, del dominio di classe, ora
essa diventa un fine indipendente, il soggetto determinante del potere di Bo-
naparte. Questa analisi della burocrazia (con alcune suggestioni che derivano
da Max Weber) diventerà decisiva nella riflessione di Gramsci.
C’è un punto, tuttavia, sul quale Gramsci si distacca da Marx. Nella Pre-
fazione alla seconda edizione del 1869, Marx aveva respinto con nettezza la
categoria di cesarismo. Aveva scritto così:

Io spero che il mio scritto contribuirà a liberarci della frase scolastica, ora così corren-
te specie in Germania, circa il cosiddetto cesarismo. Con questa superficiale analogia sto-
rica si viene a dimenticare il fatto essenziale che, specialmente nell'antica Roma, la lotta
di classe si svolgeva soltanto all'interno di una minoranza privilegiata, tra i ricchi e i pove-
ri che erano liberi cittadini, mentre la grande massa produttiva della popolazione, gli
schiavi, costituiva soltanto il piedistallo passivo dei combattenti. Si dimentica la profonda
espressione di Sismondi:"il proletariato romano viveva a spese della società, mentre, la
società moderna vive a spese del proletariato". Data una differenza così completa tra le
condizioni materiali ed economiche della lotta di classe nel mondo antico e nel mondo
moderno, anche i prodotti politici di essa non possono avere in comune niente più di quel-
lo che l'arcivescovo di Canterbury non abbia in comune con il gran sacerdote Samuele.

Le prime pagine dell’opera giustificavano, d’altronde, questa critica al


cesarismo. A partire dalla celebre metafora hegeliana, scriveva che nella sto-
ria i grandi fatti e i grandi personaggi si presentano due volte, «la prima volta
come tragedia, la seconda volta come farsa». E offriva una spiegazione quasi
ontologica della metafora, nel senso che gli uomini fanno la storia sotto il pe-
so del passato, e perciò tendono a rievocare figure antiche. Ma appena la
borghesia ha conseguito il suo pieno dominio, si libera in un attimo di tutti
questi «mostri antidiluviani», a cominciare dallo spettro di Cesare:

Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze
scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé,
determinate dai fatti e dalla tradizione. La tradizione di tutte le generazioni scomparse
pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a
trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di
crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro
servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per
rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a
prestito la nuova scena della storia. Così Lutero si travestì da apostolo Paolo; la rivoluzio-
ne del 1789-1814 indossò successivamente i panni della Repubblica romana e dell’Impero
romano; e la rivoluzione del 1848 non seppe fare di meglio che la parodia, ora del 1789,
ora della tradizione. rivoluzionaria del 1793-1795. Così il principiante che ha imparato
una lingua nuova la ritraduce continuamente nella sua lingua materna ma non riesce a
226

possederne lo spirito e ad esprimersi liberamente se non quando si muove in essa senza


reminiscenze, e dimenticando in essa la propria lingua d’origine.
Al solo considerare queste evocazioni storiche di morti, si palesa tosto una spiccata
differenza. Camille Desmoulins, Danton, Robespierre, Saint-Just, Napoleone, tanto gli
eroi quanto i partiti e la massa della vecchia Rivoluzione francese adempirono, in costume
romano e con frasi romane, il compito dei tempi loro, quello di liberare dalle catene e di
instaurare la moderna società borghese. Gli uni spezzarono le terre feudali, e falciarono le
teste feudali cresciute sopra di esse. L’altro creò nell’interno della Francia le condizioni
per cui poté cominciare a svilupparsi la libera concorrenza, poté essere sfruttata la pro-
prietà fondiaria suddivisa, e poté essere impiegata la forza produttiva industriale, della
nazione liberata dalle sue catene; e al di là dei confini della Francia spazzò dappertutto le
istituzioni feudali, nella misura in cui ciò era necessario per creare alla società borghese in
Francia un ambiente corrispondente sul continente europeo. Una volta instaurata la nuova
formazione sociale disparvero i mostri antidiluviani; e con essi disparve la romanità risu-
scitata: i Bruti, i Gracchi, i Publicola, i tribuni, i senatori e lo stesso Cesare.

Su questo aspetto, Gramsci non seguì Marx e, come vedremo (nella pros-
sima lezione), il cesarismo diventò una categoria fondamentale per illustrare
il meccanismo delle crisi organiche.

3. La crisi organica

Le pagine sulle crisi organiche del Quaderno 13 vennero scritte poco do-
po l’ascesa al potere di Hitler in Germania e, senza dubbio, ne serbano la for-
te impressione. Ma in generale Gramsci cerca di rendere ragione della grande
crisi del capitalismo mondiale, che ha ormai condotto a soluzioni reazionarie
in tutta l’Europa, a un nuovo tipo di “americanismo” e alla costruzione del
primo Stato socialista in Unione Sovietica. Il problema è dunque quello di
trovare un pensiero adeguato allo stravolgimento inaudito dell’ordine mon-
diale. Teniamo sempre presente questo sfondo storico, che Gramsci non per-
de mai di vista.
Nel § 23 Gramsci ripensa compiutamente la teoria della crisi come crisi
egemonica, cioè come distacco tra dirigenti e diretti, tra partiti e popolo-
nazione, tra rappresentanti e rappresentati. Come aveva insegnato Marx nel
18 brumaio (ma Gramsci generalizza questo aspetto, trasformandolo nel
principio stesso della crisi della forma democratica), il primo segno, la radice,
della crisi egemonica è la divaricazione tra partiti e gruppi sociali:

A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tra-
dizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determina-
ti uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti co-
me loro espressione dalla loro classe o frazione di classe.

Questo distacco tra partiti e gruppi sociali è potenzialmente distruttivo.


La democrazia è in pericolo, la strada è aperta a soluzioni di tipo autoritario,
all’emergere di potenze oscure (cioè non legittime sotto il profilo democrati-
227

co, prive di consenso) e alle avventure di «uomini provvidenziali o carisma-


tici»:

Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericola,


perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresenta-
te dagli uomini provvidenziali o carismatici.

I partiti perdono ogni capacità egemonica. Questa è l’origine della crisi.


Ma come si genera questa situazione? Gramsci indica due fattori fondamen-
tali: da un lato il fallimento di una azione politica della classe dirigente (la
guerra), d’altro lato la mobilitazione di masse precedentemente inerti
(l’allargamento delle basi democratiche dello Stato). Come vedete, sono due
cause opposte e simmetriche. La prima causa indica un errore catastrofico
delle classi dirigenti, la seconda produce uno svolgimento storico progressi-
vo, nel senso che una crescita di soggettività delle masse, un processo di in-
clusione di nuovi gruppi sociali, genera un deficit di rappresentanza. È la si-
tuazione determinata dallo sviluppo del movimento operaio e
dall’introduzione del suffragio universale, che spezza il limite elitario del
vecchio Stato liberale e getta nell’arena politica masse precedentemente
amorfe, come i piccoli borghesi e i contadini. La prima conseguenza (quella
su cui si concentrerà la riflessione di Gramsci) è il rafforzamento dei corpi
che sono estranei alla logica del consenso: burocrazia, finanza, Chiesa.

Come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che


dal terreno dei partiti (organizzazioni di partito in senso stretto, campo elettoraleparla-
mentare, organizzazione giornalistica) si riflette in tutto l’organismo statale, rafforzando
la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della
Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni
dell’opinione pubblica? In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo
stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la
classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o
imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse
(specialmente di contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla
passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso di-
sorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di «crisi di autorità» e ciò appunto è la
crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso.

4. Le soluzioni reazionarie

La crisi organica trova due risposte possibili. La prima risposta è quando


la classe dirigente serra i propri ranghi, costituisce un partito unico e afferma
il proprio dominio di classe. La borghesia forza il consenso e istituisce una
propria dittatura. È il caso dei fascismi, quando il gruppo sociale dominante
abbandona la logica dell’egemonia ed entra nel terreno del puro dominio:

La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione
non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stes-
228

so ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta


uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità
maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone a un
avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il mo-
mento e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione,
che non può essere molto numeroso e molto addestrato. Il passaggio delle truppe di molti
partiti sotto la bandiera di un partito unico che meglio rappresenta e riassume i bisogni
dell’intera classe è un fenomeno organico e normale, anche se il suo ritmo sia rapidissimo
e quasi fulmineo in confronto di tempi tranquilli: rappresenta la fusione di un intero grup-
po sociale sotto un’unica direzione ritenuta sola capace di risolvere un problema domi-
nante esistenziale e allontanare un pericolo mortale.

Ma la classe dirigente può non avere la forza per imporre questa soluzio-
ne. Può determinarsi una situazione di equilibrio tendenzialmente catastrofi-
co, in cui nessuna delle forze fondamentali riesce a prevalere. Qui si afferma
il potere del capo carismatico, che tra poco Gramsci svolgerà in termini di
cesarismo. Come vedete, c’è una differenza fondamentale tra il dominio e il
capo carismatico: nel primo caso il gruppo sociale dominante serra i ranghi
ed esce dal terreno della democrazia per conservare il proprio potere; nel se-
condo caso il gruppo dominante non riesce a prevalere ma deve accettare una
soluzione arbitrale. Il potere passa nelle mani di un individuo, «di un padro-
ne», che non possiede egemonia o rappresenta (come nel caso di Luigi Bo-
naparte) gruppi sociali emarginati (contadini e sottoproletariato):

Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del capo carismatico,
significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere disparati, ma in cui
prevale l’immaturità delle forze progressive) che nessun gruppo, né quello conservativo
né quello progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservati-
vo ha bisogno di un padrone (cfr Il 18 brumaio di Luigi Napoleone).

È molto importante che proprio in questa considerazione sulla crisi orga-


nica Gramsci introduca una digressione sul tema del compromesso. La prati-
ca del compromesso, cioè la capacità di entrare in alleanze, è un aspetto
foindamentale dell’egemonia, che è appunto la capacità di istituire relazioni
tra gruppi sociali diversi. Solo grazie al compromesso, il movimento operaio
diventa egemone rispetto ad altre classi, come contadini o piccola borghesia.
L’egemonia si fonda sulla politica delle alleanze tra forze diverse. Al contra-
rio, la critica del compromesso è una forma di determinismo che conduce al-
la distruzione di ogni forma di opposizione. Il riferimento al movimento co-
munista, che aveva ormai adottato la tattica suicida del “socialfascismo” e
del “blocco contro blocco”, quindi della rottura contro le altre forze demo-
cratiche, appare qui trasparente.

Un elemento da aggiungere al paragrafo dell’economismo, come esemplificazione


delle teorie così dette dell’intransigenza, è quello della rigida avversione di principio ai
così detti compromessi, che ha come manifestazione subordinata quella che si può chia-
mare la «paura dei pericoli». Che l’avversione di principio ai compromessi sia strettamen-
te legata all’economismo è chiaro in quanto la concezione su cui si fonda questa avver-
sione non può essere altro che la convinzione ferrea che esistano per lo sviluppo storico
229

leggi obbiettive dello stesso carattere delle leggi naturali, con in più la persuasione di un
finalismo fatalistico di carattere simile a quello religioso: poiché le condizioni favorevoli
dovranno fatalmente verificarsi e da esse saranno determinati, in modo alquanto misterio-
so, avvenimenti palingenetici, risulta l’inutilità non solo, ma il danno di ogni iniziativa
volontaria tendente a predisporre queste situazioni secondo un piano. Accanto a queste
convinzioni fatalistiche sta tuttavia la tendenza ad affidarsi «in seguito» ciecamente e scri-
teriatamente alla virtù regolatrice delle armi, ciò che però non è completamente senza una
logica e una coerenza, poiché si pensa che l’intervento della volontà è utile per la distru-
zione, non per la ricostruzione (già in atto nel momento stesso della distruzione). La di-
struzione viene concepita meccanicamente non come distruzione-ricostruzione. In tali
modi di pensare non si tiene conto del fattore «Tempo» e non si tiene conto, in ultima
analisi, della stessa «economia» nel senso che non si capisce come i fatti ideologici di
massa sono sempre in arretrato sui fenomeni economici di massa e come pertanto in certi
momenti la spinta automatica dovuta al fattore economico è rallentata, impastoiata o an-
che spezzata momentaneamente da elementi ideologici tradizionali, che perciò deve es-
serci lotta cosciente e predisposta per far «comprendere» le esigenze della posizione eco-
nomica di massa che possono essere in contrasto con le direttive dei capi tradizionali. Una
iniziativa politica appropriata è sempre necessaria per liberare la spinta economica dalle
pastoie della politica tradizionale, per mutare cioè la direzione politica di certe forze che è
necessario assorbire per realizzare un nuovo, omogeneo, senza contraddizioni interne,
blocco storico economico-politico, e poiché due forze «simili» non possono fondersi in
organismo nuovo che attraverso una serie di compromessi o con la forza delle armi, al-
leandole su un piano di alleanza o subordinando l’una all’altra con la coercizione, la qui-
stione è se si ha questa forza e se sia «produttivo» impiegarla. Se l’unione di due forze è
necessaria per vincere un terza, il ricorso alle armi e alla coercizione (dato che se ne abbia
la disponibilità) è una pura ipotesi metodica e l’unica possibilità concreta è il compromes-
so, poiché la forza può essere impiegata contro i nemici, non contro una parte di se stessi
che si vuole rapidamente assimilare e di cui occorre la «buona volontà» e l’entusiasmo.

5. La guerra di posizione

Abbiamo visto le conseguenze della teoria delle crisi sul piano storico-
politico, fino alle soluzioni del dominio e del capo carismatico. Come teoria
della rivoluzione, però, la questione della crisi organica apre la prospettiva
della guerra di posizione, indicata da Gramsci con questa metafora militare
ma che rappresenta, in ultima istanza, il compito egemonico del movimento
operaio nei paesi europei, dove (a differenza dell’Oriente) esiste «una robu-
sta struttura della società civile». Il concetto di guerra di posizione compare
già nel Quaderno 1 (§§ 134-135) e indica, in generale, il nuovo livello della
tattica rivoluzionaria dopo l’epoca della guerra di movimento o di assedio,
culminata e conclusa nella rivoluzione sovietica del 1917. Come Gramsci si
esprime, la rivoluzione russa è l’ultimo episodio della guerra di movimento.
Nella realtà complessa dell’Occidente il movimento operaio deve entrare nel
terreno democratico della lotta per l’egemonia, fatta di continui e mai con-
clusivi avanzamenti e arretramenti sul terreno della società civile. Prima del
Quaderno 13 (e di alcuni svolgimenti nei quaderni successivi), i testi più im-
portanti si leggono nei Quaderni 6 e 7. Nel § 138 del Quaderno 6 Gramsci
definisce la guerra di posizione come «la quistione di teoria politica la più
230

importante, posta dal periodo del dopo guerra e la più difficile ad essere ri-
solta giustamente», perché definisce la forma di lotta politica attuale.

La guerra di posizione domanda enormi sacrifizi a masse sterminate di popolazione;


perciò è necessaria una concentrazione inaudita dell’egemonia e quindi una forma di go-
verno più «intervenzionista», che più apertamente prenda l’offensiva contro gli oppositori
e organizzi permanentemente l’«impossibilità» di disgregazione interna: controlli d’ogni
genere, politici, amministrativi, ecc., rafforzamento delle «posizioni» egemoniche del
gruppo dominante, ecc. Tutto ciò indica che si è entrati in una fase culminante della situa-
zione politico-storica, poiché nella politica la «guerra di posizione», una volta vinta, è de-
cisiva definitivamente. Nella politica cioè sussiste la guerra di movimento fino a quando
si tratta di conquistare posizioni non decisive e quindi non sono mobilizzabili tutte le ri-
sorse dell’egemonia e dello Stato, ma quando, per una ragione o per l’altra, queste posi-
zioni hanno perduto il loro valore e solo quelle decisive hanno importanza, allora si passa
alla guerra d’assedio, compressa, difficile, in cui si domandano qualità eccezionali di pa-
zienza e di spirito inventivo. Nella politica l’assedio è reciproco, nonostante tutte le appa-
renze e il solo fatto che il dominante debba fare sfoggio di tutte le sue risorse dimostra
quale calcolo esso faccia dell’avversario.

Nel Quaderno 7, § 16, Gramsci riporta la guerra di posizione a


un’intuizione di Lenin, il quale tuttavia «non ebbe il tempo di approfondire
la sua formula». Si tratta allora di riprenderla e di elaborare una teoria della
rivoluzione in Occidente fondata sul concetto di guerra di posizione:

Mi pare che Ilici [Lenin] aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra
manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 17, alla guerra di posizione che era la
sola possibile in Occidente, dove, come osserva Krasnov, in breve spazio gli eserciti po-
tevano accumulare sterminate quantità di munizioni, dove i quadri sociali erano di per sé
ancora capaci di diventare trincee munitissime. Questo mi pare significare la formula del
«fronte unico» che corrisponde alla concezione di un solo fronte dell’Intesa sotto il co-
mando unico di Foch. Solo che Ilici non ebbe il tempo di approfondire la sua formula, pur
tenendo conto che egli poteva approfondirla solo teoricamente, mentre il compito fonda-
mentale era nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fissazione degli
elementi di trincea e di fortezza rappresentati dagli elementi di società civile ecc. In
Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra
Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito
una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui
stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capi-
sce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale.

La questione viene ripresa e ulteriormente definita nel § 24 del Quaderno


13, che rielabora una nota del Quaderno 7, dove Gramsci giunge a “tradurre”
la strategia egemonica nella forma della guerra di posizione, dichiarando la
rivoluzione del 1917 come ultimo episodio della guerra manovrata. Inoltre
indica proprio in Trockij lo spunto, sia pure inadeguato, della teoria della
guerra di posizione.

La stessa riduzione deve avvenire nell’arte e nella scienza politica, almeno per ciò che
riguarda gli Stati più avanzati, dove la «società civile» è diventata una struttura molto
complessa e resistente alle «irruzioni» catastrofiche dell’elemento economico immediato
231

(crisi, depressioni ecc.); le superstrutture della società civile sono come il sistema delle
trincee nella guerra moderna. Come in questa avveniva che un accanito attacco
d’artiglieria sembrava aver distrutto tutto il sistema difensivo avversario ma ne aveva solo
invece distrutto la superficie esterna e al momento dell’attacco e dell’avanzata gli assali-
tori si trovavano di fronte una linea difensiva ancora efficiente, così avviene nella politica
durante le grandi crisi economiche; né le truppe assalitrici, per effetto della crisi, si orga-
nizzano fulmineamente nel tempo e nello spazio, né tanto meno acquistano uno spirito
aggressivo; per reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né abbandonano le difese, pur
tra le macerie, né perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire. Le cose
certo non rimangono tali e quali, ma è certo che viene a mancare l’elemento della rapidità,
del tempo accelerato, della marcia progressiva definitiva come si aspetterebbero gli stra-
teghi del cadornismo politico. L’ultimo fatto del genere nella storia della politica sono
stati gli avvenimenti del 1917. Essi hanno segnato una svolta decisiva nella storia dell’arte
e della scienza della politica. Si tratta dunque di studiare con «profondità» quali sono gli
elementi della società civile che corrispondono ai sistemi di difesa nella guerra di posizio-
ne. Si dice con «profondità» a disegno, perché essi sono stati studiati, ma da punti di vista
superficiali e banali, come certi storici del costume studiano le stranezze della moda
femminile, o da un punto di vista «razionalistico» cioè con la persuasione che certi feno-
meni sono distrutti appena spiegati «realisticamente», come se fossero superstizioni popo-
lari (che del resto anch’esse non si distruggono con lo spiegarle).
A questo nesso di problemi è da riattaccare la quistione dello scarso successo ottenuto
da nuove correnti nel movimento sindacale.
Un tentativo di iniziare una revisione dei metodi tattici avrebbe dovuto essere quello
esposto da L. Davidovic Bronstein [Trotzky ndc] alla quarta riunione quando fece un con-
fronto tra il fronte orientale e quello occidentale, quello cadde subito ma fu seguito da lot-
te inaudite: in questo le lotte si verificherebbero «prima». Si tratterebbe cioè se la società
civile resiste prima o dopo l’assalto, dove questo avviene ecc. La quistione però è stata
esposta solo in forma letteraria brillante, ma senza indicazioni di carattere pratico.
232

Lezione 25

(1 giugno 2020)

1. Il proprio tempo nella forma del pensiero

Alla ricostruzione che abbiamo proposto dobbiamo aggiungere un ultimo


tassello, quello dell’americanismo. Tutta la questione dell’egemonia, di cui
abbiamo studiato la genesi e la struttura, deve essere messa alla prova della
lettura del proprio tempo storico. Come aveva insegnato Hegel (e Gramsci
non dimenticherà mai questo splendido aforisma hegeliano), la filosofia è «il
proprio tempo appreso nella forma del pensiero». Il tempo di Gramsci, che
egli può osservare solo in maniera frammentaria dal chiuso di una prigione, è
segnato dal tramonto dell’egemonia europea (soprattutto inglese),
dall’affermazione della giovane potenza americana, dalla costruzione del
primo Stato socialista in Urss, dal dominio dei fascismi in molte nazioni eu-
ropee, a cominciare dall’Italia e dalla Germania. L’intreccio di questi aspetti
costituisce, senza dubbio, la materia, il contenuto, dei quaderni. È un tempo
segnato da trasformazioni inaudite, dalla fine repentina del mondo liberale
che, inaugurato dalla rivoluzione francese, si era infranto nelle trincee della
grande guerra. Un mondo è finito, un altro sta per nascere, ma i suoi contorni
sono ancora sfocati, difficili da decifrare. Qui interviene il lavoro della filo-
sofia, la «forma», come aveva detto Hegel, del «pensiero». La domanda di
Gramsci, che attraversa tutte le meditazioni dei Quaderni del carcere, è dun-
que questa: qual è la tendenza fondamentale della nuova epoca? Come può
essere pensato il mutamento di paradigma egemonico che attraversa il mon-
do attuale? Quali sono le traiettorie che il discorso egemonico assumerà nel
futuro prevedibile?
In maniera del tutto caratteristica (per un intellettuale e leader comunista
degli anni trenta), al centro di questa riflessione non vi è l’Unione Sovietica
ma l’America, cioè la nuova grande potenza economica e militare, ma anche
culturale, uscita vincitrice dal conflitto, che rappresenta, agli occhi di Gram-
sci, l’avvenire stesso dell’Europa. La riflessione sull’americanismo indica
perciò il risultato forse più importante di tutta la teoria dell’egemonia elabo-
rata nei quaderni.

2. Il Quaderno 22

La riflessione di Gramsci sull’americanismo è in larga parte raccolta nel


Quaderno 22, intitolato Americanismo e fordismo. Gramsci scrisse il titolo
sulla copertina, a matita. Lo iniziò a Formia, dove era arrivato il 7 dicembre
233

1933, verso il luglio-agosto 1934 e lo portò avanti nella seconda metà del
1934. Il quaderno è composto di 16 note: con l’eccezione del § 1, di stesura
unica, Gramsci vi rielaborò in seconda stesura le note sull’argomento scritte
nei Quaderni 1, 3, 4, 9.
La struttura del quaderno è molto caratteristica. Nelle prime due pagine
Gramsci scrisse un paragrafo introduttivo, con un elenco di temi da conside-
rare, interrompendosi al 10°. È utile avere presente questo indice:

Registro di alcuni dei problemi più importanti o interessanti essenzialmente anche se a


prima vista paiono non di primo piano: 1) sostituzione all’attuale ceto plutocratico, di un
nuovo meccanismo di accumulazione e distribuzione del capitale finanziario fondato im-
mediatamente sulla produzione industriale; 2) quistione sessuale; 3) quistione se
l’americanismo possa costituire un’«epoca» storica, se cioè possa determinare uno svol-
gimento graduale del tipo, altrove esaminato, delle «rivoluzioni passive» proprie del seco-
lo scorso o se invece rappresenti solo l’accumularsi molecolare di elementi destinati a
produrre un’«esplosione», cioè un rivolgimento di tipo francese; 4) quistione della «ra-
zionalizzazione» della composizione demografica europea; 5) quistione se lo svolgimento
debba avere il punto di partenza nell’intimo del mondo industriale e produttivo o possa
avvenire dall’esterno, per la costruzione cautelosa e massiccia di una armatura giuridica
formale che guidi dall’esterno gli svolgimenti necessari dell’apparato produttivo; 6) qui-
stione dei così detti «alti salari» pagati dall’industria fordizzata e razionalizzata; 7) il for-
dismo come punto estremo del processo di tentativi successivi da parte dell’industria di
superare la legge tendenziale della caduta del saggio del profitto; 8) la psicanalisi (sua
enorme diffusione nel dopoguerra) come espressione dell’aumentata coercizione morale
esercitata dall’apparato statale e sociale sui singoli individui e delle crisi morbose che tale
coercizione determina; 9) il Rotary Club e la Massoneria; 10) 〈...〉

A questo punto, Gramsci lasciò bianche tutte le pagine 3-10, con la evi-
dente intenzione di proseguire successivamente questa scrittura. Continuò,
invece, dalla pagina 11, utilizzando il quaderno fino alla pagina 54 per riela-
borare in seconda stesura le 15 note sull’americanismo individuate nei qua-
derni “miscellanei” 1, 3, 4, 9. Quando questo lavorò terminò, intorno alla fi-
ne del 1934, le sue forze fisiche non gli consentirono di continuare la compo-
sizione del quaderno, riprendendola, come aveva progettato, dalla pagina 2.
Si tratta, dunque, di un quaderno incompiuto, dove Gramsci non ebbe il
tempo di rielaborare e affinare ulteriormente i temi che via via aveva enu-
cleato.

3. La tendenza fondamentale

Leggendo l’elenco dei 9 argomenti del § 1, non vi sarà sfuggita la notevo-


le importanza del punto 7), dove Gramsci si propone di studiare «il fordismo
come punto estremo del processo di tentativi successivi da parte dell’indu-
stria di superare la legge tendenziale della caduta del saggio del profitto». Il
riferimento è alla terza sezione del libro III del Capitale di Marx, che dob-
biamo assumere come la base teorica di tutta la riflessione sull’americani-
smo. Marx aveva affermato che, nel processo di sviluppo del capitalismo, a
234

un certo punto il saggio di profitto tende a diminuire, avvicinando l’intero


sistema al suo esaurimento storico e, quindi, a una crisi di tipo organico.
Gramsci osserva, dunque, che il fordismo è un tentativo «estremo», da parte
del capitalismo, di arginare la tendenza storica alla riduzione del saggio di
profitto. Il capitalismo può “rispondere” con successo alle proprie crisi ri-
strutturando non solo il fondamento economico del sistema (con la fabbrica
“fordista”), ma anche elaborando una rinnovata forma sociale e una cultura
egemonica a essa adeguata. In altri termini, la tendenza organica del sistema
verso la crisi è il motivo non di un “crollo” ma di processi profondi di ristrut-
turazione e trasformazione sociale e culturale, che modificano gli equilibri
egemonici del mondo. Come vedete, il dialogo con la teoria economica di
Marx è il punto veramente centrale della teoria dell’americanismo.
Dopo la crisi del 1929 il mondo è entrato in uno di questi processi di ri-
strutturazione economica e culturale, forse in quello decisivo. Ma
l’americanismo esprime, più precisamente, la tendenza fondamentale della
storia presente, che è caratterizzata dalla crisi irreversibile del modello libe-
rale e dal passaggio inesorabile, a Occidente (Stati Uniti) come a Oriente
(Unione Sovietica), «dal vecchio individualismo economico all’economia
programmatica». Anche l’Europa, come vedremo, si trova di fronte questa
sfida, e questo è il motivo della sua decadenza e della sua sconfitta sul piano
egemonico. Gramsci scrive che

l’americanismo e il fordismo risultano dalla necessità immanente di giungere


all’organizzazione di un’economia programmatica e che i vari problemi esaminati do-
vrebbero essere gli anelli della catena che segnano il passaggio appunto dal vecchio indi-
vidualismo economico all’economia programmatica: questi problemi nascono dalle varie
forme di resistenza che il processo di sviluppo trova al suo svolgimento, resistenze che
vengono dalle difficoltà insite nella «societas rerum» e nella «societas hominum». Che un
tentativo progressivo sia iniziato da una o altra forza sociale non è senza conseguenze
fondamentali: le forze subalterne, che dovrebbero essere «manipolate» e razionalizzate
secondo i nuovi fini, resistono necessariamente. Ma resistono anche alcuni settori delle
forze dominanti, o almeno alleate delle forze dominanti. Il proibizionismo, che negli Stati
Uniti era una condizione necessaria per sviluppare il nuovo tipo di lavoratore conforme a
un’industria fordizzata, è caduto per l’opposizione di forze marginali, ancora arretrate,
non certo per l’opposizione degli industriali o degli operai.

4. La “razionalità” del fordismo

Considerato come tale, perciò, il fordismo è un processo razionale, nel


senso specifico che razionalizza il modello di sviluppo industriale, liberando-
lo dalle sacche di parassitismo che ne ostacolano il progresso. Gramsci scrive
senza esitazioni:

pare di poter rispondere che il metodo Ford è «razionale», cioè deve generalizzarsi,
ma che perciò sia necessario un processo lungo, in cui avvenga un mutamento delle con-
dizioni sociali e un mutamento dei costumi e delle abitudini individuali, ciò che non può
avvenire con la sola «coercizione», ma solo con un contemperamento della coazione (au-
235

todisciplina) e della persuasione, sotto forma anche di alti salari, cioè di possibilità di mi-
glior tenore di vita, o forse, più esattamente, di possibilità di realizzare il tenore di vita
adeguato ai nuovi modi di produzione e di lavoro, che domandano un particolare dispen-
dio di energie muscolari e nervose.

Il richiamo alla «persuasione» esprime, d’altronde, la critica rivolta a


Trockij, il cui “americanismo” appariva “troppo risoluto”, eccessivo, coerci-
tivo. Non è difficile accorgersi che, nella realtà del 1934, la critica a Trockij
riguarda anche e forse soprattutto Stalin, il quale, con i piani quinquennali,
aveva avviato l’industrializzazione forzata del paese e in particolare delle
campagne. Ma in generale bisogna insistere su questo elemento di “razionali-
tà” attribuito al fordismo, che, al di là delle differenze fondamentali tra capi-
talismo e socialismo, tra Usa e Urss, rappresenta un processo di modernizza-
zione dello sviluppo industriale. A un certo punto Gramsci chiarisce che nel-
la riflessione sul fordismo «non è in quistione immediatamente la forma di
organizzazione economico-sociale, ma la razionalità delle proporzioni tra i
diversi settori della popolazione nel sistema sociale esistente». Cioè: questo
discorso riguarda, in prima istanza, la forma razionale dello sviluppo, al di là
della stessa differenza tra società borghese e società socialista.

5. Usa ed Europa

Per intendere questo aspetto, è però necessario osservare con più atten-
zione il giudizio sugli Stati Uniti e sull’Europa. Questi sono i due poli prin-
cipali del ragionamento di Gramsci. Gli Stati Uniti sono i portatori di una
nuova forma di organizzazione produttiva, che guarda effettivamente al futu-
ro. Gramsci scrive che il taylorismo «è anche il maggior sforzo collettivo ve-
rificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con una coscienza del fine
mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo». È dunque il
principio di un’autentica rivoluzione, resa possibile dal fatto che gli Stati
Uniti sono una nazione giovane, priva di una lunga tradizione. Tuttavia, nelle
note finali del quaderno Gramsci considera la tendenza americana solo come
un sintomo dei processi mondiali, non come «un nuovo tipo di civiltà», ma
come «un prolungamento organico e una intensificazione della civiltà euro-
pea». Il carattere ancora limitato della “razionalità” fordista è indicato, da un
lato, nella crisi morale delle “classi alte” del capitalismo americano, che
sempre di più abbandonano il puritanesimo originario, e d’altro lato nella
stessa politica degli alti salari, che egli considera un «fenomeno transitorio»,
dovuto in larga parte al più intenso sfruttamento del lavoro, mirato a creare
un’aristocrazia operaia ma destinato a scomparire con la generalizzazione del
sistema. Il modello americano, dunque, permette di leggere in trasparenza le
tendenze dell’avvenire («allo stato di “faro”»), ma non rappresenta, come ta-
le, una forma stabile di “razionalità” del sistema produttivo. Per questo, con-
clude, il problema principale non è l’“imitazione” dell’americanismo, ma la
creazione di un sistema “razionale” che parta dalle classi lavoratrici, dai pro-
236

duttori, che non sia «di marca americana», ma che sappia convertire la dura
«necessità» del taylorismo in una «libertà»:

non è dai gruppi sociali «condannati» dal nuovo ordine che si può attendere la rico-
struzione, ma da quelli che stanno creando, per imposizione e con la propria sofferenza, le
basi materiali di questo nuovo ordine: essi «devono» trovare il sistema di vita «originale»
e non di marca americana, per far diventare «libertà» ciò che oggi è «necessità».

Ma il problema centrale di tutta l’analisi dell’americanismo è la decaden-


za dell’Europa. Potrà l’Europa entrare nella nuova tendenza egemonica del
tempo o, come sembra, è condannata a un inevitabile declino? In questo sen-
so, tutta l’analisi dell’americanismo è in realtà una diagnosi sul futuro
dell’Europa. Bisogna capire, spiega Gramsci, se il «contraccolpo» del model-
lo americano costringerà l’Europa a cambiare la propria base sociale e cultu-
rale e così a tornare a esercitare una funzione nel nuovo sistema egemonico
del mondo. Qui pesa la differenza fondamentale tra America ed Europa.
L’America, come dicevamo, è una nazione giovane, quasi senza passato. Al
contrario l’Europa porta con sé i segni di una lunga storia, nella quale si sono
sedimentati i «residui passivi» di un’ampia sfera di parassitismo. Richiamo
la vostra attenzione su questa equazione che Gramsci inserisce: l’area non
produttiva della società, parassitaria, rappresenta il sedimento di una tradi-
zione, il resto visibile di un passato ormai superato dalla storia. Le nuove po-
tenze del mondo (America e Urss) sono libere da questo retaggio “irraziona-
le”. Questi sedimenti parassitari possono essere osservati, in primo luogo,
nella struttura economica delle città italiane, cresciute intorno alla rendita
agraria, senza una vasta area di contadini proprietari e coltivatori delle pro-
prie terre. Ma più in generale derivano dalla tradizione degli Stati nazionali,
cioè dalla presenza massiccia di corpi indipendenti, sottratti alla logica pro-
duttiva, a cominciare dalla burocrazia.
Gramsci si domanda, in diversi luoghi dei quaderni, se il corporativismo
possa rappresentare una via italiana all’americanismo. La risposta è sostan-
zialmente negativa, perché – scrive – il corporativismo fascista parte «da esi-
genze di polizia» e non di sviluppo; e perché, aggiunge, invece di “raziona-
lizzare” la struttura produttiva, rappresenta i ceti parassitari e «crea nuovi
redditieri». Tuttavia (anche rispetto alla pigrizia liberale, incapace di cogliere
il nuovo processo di sviluppo mondiale) le teorie corporative attirano
l’attenzione analitica di Gramsci, come un tentativo (sia pure fallimentare) di
ripensare il sistema economico italiano.

6. Un nuovo tipo umano

L’americanismo non è soltanto un progetto economico, vòlto a rendere


“razionale” il sistema produttivo. L’americanismo è soprattutto il tentativo di
creare una nuova civiltà, cioè un apparato egemonico che trasforma il tipo
umano in tutte le sue funzioni. Tutta la storia dell’industrialismo, spiega
Gramsci, «è una continua lotta contro l’elemento “animalità” dell’uomo», un
237

continuo «soggiogamento degli istinti», un processo repressivo che avviene


«con l’impiego di brutalità inaudite, gettando nell’inferno delle sottoclassi i
deboli e i refrattari o eliminandoli del tutto». La storia dell’industria umana è
la storia della creazione di un conformismo, di una «seconda natura», ade-
guata alle esigenza della forma produttiva: ogni forma sociale crea, con tali
«brutalità», un tipo di uomo capace di sostenere il peso della ragione econo-
mica. Leggiamo questo brano, per altro molto suggestivo:

La storia dell’industrialismo è sempre stata (e lo diventa oggi in una forma più accen-
tuata e rigorosa) una continua lotta contro l’elemento «animalità» dell’uomo, un processo
ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti (naturali, cioè
animaleschi e primitivi) a sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di or-
dine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più complesse di
vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo dell’industrialismo.
Questa lotta è imposta dall’esterno e finora i risultati ottenuti, sebbene di grande valore
pratico immediato, sono puramente meccanici in gran parte, non sono diventati una «se-
conda natura». Ma ogni nuovo modo di vivere, nel periodo in cui si impone la lotta contro
il vecchio, non è sempre stato per un certo tempo il risultato di una compressione mecca-
nica? Anche gli istinti che oggi sono da superare come ancora troppo «animaleschi» in
realtà sono stati un progresso notevole su quelli anteriori, ancor più primitivi: chi potrebbe
descrivere il «costo», in vite umane e in dolorosi soggiogamenti degli istinti, del passag-
gio dal nomadismo alla vita stanziale e agricola? Ci rientrano le prime forme di schiavitù
della gleba e del mestiere ecc. Finora tutti i mutamenti del modo di essere e di vivere sono
avvenuti per coercizione brutale, cioè attraverso il dominio di un gruppo sociale su tutte le
forze produttive della società: la selezione o «educazione» dell’uomo adatto ai nuovi tipi
di civiltà, cioè alle nuove forme di produzione e di lavoro, è avvenuta con l’impiego di
brutalità inaudite, gettando nell’inferno delle sottoclassi i deboli e i refrattari o eliminan-
doli del tutto.

Gramsci descrive questa vicenda senza alcuna traccia di moralismo, senza


alcun vagheggiamento di un ritorno nella terra degli istinti. Il tono drammati-
co della sua prosa deriva proprio dalla consapevolezza del fatto che il «sog-
giogamento degli istinti» è una specie di destino dell’uomo, una necessità,
che finora la storia ha affermato con la violenza ma che deve diventare un
atto di libertà e di autodisciplina dei produttori. Tuttavia, questo «soggioga-
mento degli istinti» genera crisi di rigetto, reazioni della dimensione animale
repressa, che Gramsci definisce «crisi di libertinismo». Gli esempi di queste
crisi sono il rifiuto della disciplina bellica dopo la fine della prima guerra
mondiale, «una crisi dei costumi di estensione e profondità inaudite», che ha
toccato soprattutto la sfera sessuale; o le reazioni americane al proibizioni-
smo degli alcoolici, con una vera e propria ribellione all’etica puritana.
Il punto essenziale è che il taylorismo corrisponde alla creazione di un
nuovo «tipo umano», «un tipo superiore», attraverso «una selezione forzata».
L’americanismo appare, da questo punto di vista, come il tentativo di crea-
zione di una nuova civiltà, profondamente diversa da quella conosciuta
nell’Europa liberale. Gramsci scrive così:

In America la razionalizzazione del lavoro e il proibizionismo sono indubbiamente


connessi: le inchieste degli industriali sulla vita intima degli operai, i servizi di ispezione
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creati da alcune aziende per controllare la «moralità» degli operai sono necessità del nuo-
vo metodo di lavoro. Chi irridesse a queste iniziative (anche se andate fallite) e vedesse in
esse solo una manifestazione ipocrita di «puritanismo», si negherebbe ogni possibilità di
capire l’importanza, il significato e la portata obbiettiva del fenomeno americano, che è
anche il maggior sforzo collettivo verificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con
una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo. La
espressione «coscienza del fine» può sembrare per lo meno spiritosa a chi ricorda la frase
del Taylor sul «gorilla ammaestrato». Il Taylor infatti esprime con cinismo brutale il fine
della società americana: sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti
macchinali ed automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale
qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia,
dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico mac-
chinale. Ma in realtà non si tratta di novità originali: si tratta solo della fase più recente di
un lungo processo che si è iniziato col nascere dello stesso industrialismo, fase che è solo
più intensa delle precedenti e si manifesta in forme più brutali, ma che essa pure verrà
superata con la creazione di un nuovo nesso psico-fisico di un tipo differente da quelli
precedenti e indubbiamente di un tipo superiore. Avverrà ineluttabilmente una selezione
forzata, una parte della vecchia classe lavoratrice verrà spietatamente eliminata dal mondo
del lavoro e forse dal mondo tout court.

Attraverso l’analisi (incompiuta) dell’americanismo, Gramsci ha messo a


fuoco altri aspetti fondamentali della teoria dell’egemonia. Possiamo riassu-
mere così. Con la crisi degli anni trenta, la nuova tendenza egemonica è indi-
cata nel passaggio storico «dal vecchio individualismo economico
all’economia programmatica», che vede protagonisti gli Stati di nuova for-
mazione, come gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. L’ideologia americana
rappresenta il tentativo più radicale in questa direzione, perché mira a una
integrale “razionalità” del sistema, fino alla creazione di una nuova civiltà e
di un nuovo tipo umano. L’Europa può accettare la sfida, costruire un pro-
prio modello di razionalità economica (non «di marca americana»), trovando
un equilibrio superiore fra necessità e libertà, oppure sembra destinata a un
declino irreparabile. Fin dai tempi dell’«Ordine Nuovo» (come Gramsci ri-
corda più volte) il movimento operaio si è orientato alla ricerca di nuovo
“americanismo”, di una ulteriore forma di “razionalità”, di un diverso “con-
formismo”, che abbia come propria base non l’imprenditore fordista ma il
produttore sociale.
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