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RIASSUNTO INTRODUZIONE ALLA STORIA MODERNA

P.PRODI

1; La storia come disciplina

“Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono
andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie
nuove; poi anche queste se ne andranno, e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in
cenere. La storia delle foglie, la storia dell’albero... Fesserie! Se ogni foglia scrivesse la sua storia,
se quest’albero scrivesse la sua storia, allora diremmo: eh sì, la storia... L’albero che resterà, se
resterà, potrà anche essere segato ramo a ramo: i viceré, i papi, i capitani; i grandi insomma...
Facciamone un po’ di fuoco, un po’ di fumo: ad illudere i popoli, le nazioni, l’umanità vivente... La
storia! E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce della loro
fame? Credete che si sentirà nella storia?
Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino a sentirlo?”
(Leonardo Sciascia).
Non esiste nulla di più antistorico di un manuale di storia, data la sua pretesa di fornire un quadro
confezionato e organico del passato umano: i manuali sono necessari, in quanto contenitori di
nozioni non altrimenti assimilabili, ma sono puro materiale grezzo su cui far funzionare la propria
intelligenza. La storia come disciplina non è nozionismo, ma è un esercizio intellettuale dinamico (il
termine stesso storia viene dal greco istorìa, indagine, inchiesta, curiosità). In particolare, nel
Novecento, a opera della scuola francese delle “Annales”, si è affermato il carattere della storia
come scienza sociale: comprendere il presente mediante il passato e comprendere il passato
mediante il presente; comprendere quanto, delle azioni passate, nell’hic e nunc che viviamo non è
ancora tramontato. In questo senso la storia è il principale sostegno della politica, dato che la
discussione politica è tanto più proficua quanto più è storica e tanto più dannosa quanto più si basa
su dottrinarismi, su idola theatri.
Il passato non esiste se non in noi stessi e in ciò che di esso rimane dentro di noi e intorno a noi:
l’illusione di poter ricreare il passato (nata nella scuola positivista dell’Ottocento) è definitivamente
tramontata, in quanto non è mai possibile risalire a un fatto “come è realmente avvenuto”: lo
sguardo dello storico, gli strumenti interpretativi dello storico, non sono mai neutri. È possibile
ottenere sempre immagini non dei fatti in sé, ma della nostra concezione ed elaborazione
intellettuale di essi (“surrogati storici”). Nietzsche (pieno ‘800) aveva già capito questa debolezza
nell’approccio storico, e sosteneva infatti che la cultura storico- accademica dei suoi tempi
è “un’occupazione da vecchi, il guardare indietro, fare i conti, concludere, cercare conforto nel
passato” utilizzato contro la gioventù per opprimerla e tenerla sottomessa con il peso del passato.
La storia come disciplina ha rinunciato da lungo tempo alla pretesa di insegnare a vivere – secondo
l’antico detto historia magistra vitae – perché la realtà ci ha mostrato molto bene l’illusione di una
morale storica. La presunzione di considerare la storia come chiave di interpretazione della realtà è
oggi chiamata storicismo. “Per storicismo si intende un’interpretazione del metodo delle scienze
sociali che aspiri alla previsione storica mediante la scoperta dei “ritmi” o dei “patterns”, delle
“leggi”, delle “tendenze” che sottostanno all’evoluzione storica” (Karl Popper)
Ma ha comunque una funzione essenziale per la sopravvivenza della nostra civiltà. Oggi il compito
assegnato alla storia è molto importante, considerando che (soprattutto dagli “anni zero” in poi) le
tecnologie moderne, la globalizzazione e tutti i fenomeni ad essa collegati hanno portato a una
veloce disgregazione delle identità collettive, uno sradicamento che costringe tutti a una precarietà
impossibile da sostenere: per sopravvivere abbiamo bisogno del nostro passato. Ricreare le identità
collettive, spiegarne la formazione, è la funziona nuova del mestiere di storico – quasi una funzione
parallela a quella che lo psicanalista esercita a proposito della coscienza individuale.
Un altro punto centrale del dibattito di oggi è se la storia abbia conservato una sua identità nello
sviluppo che hanno avuto le scienze sociali nel corso dell’ultimo secolo.

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Fino a non molto tempo fa la storia era considerata una disciplina maestra, regina, e si parlava di
“scienze ausiliari della storia”: l’archeologia, filologia, paleografia, archivistica, numismatica
erano viste come “ancelle della scienza regina”. Oggi il discorso è diverso, e quasi tutte queste
scienze sono diventate autonome acquisendo un proprio statuto scientifico (e anzi specializzandosi
al proprio interno sempre di più) e pur restando spesso indispensabili per supportare i discorsi
storici non esistono più solo in funzione ad essi. Si è creato un sistema a rete, nel quale le discipline
coinvolte interagiscono tra di loro e variano di volta in volta nei rapporti a seconda dell’epoca e del
problema che si vuole affrontare. L’indipendenza di un numero sempre maggiore di campi
d’indagine ha fatto sì che alla Storia venissero a mancare sempre più settori interni.
Ma che cosa rimane quindi della storia senza aggettivi (o storia generale) dopo la nascita di tante
storie specializzate? Due sono le funzioni che sicuramente questa disciplina ha conservato:
• Studiare il punto d’intersezione delle storie particolari: esse, lasciate a sé stesse, non risultano
per niente comprensibili senza un quadro più generale in cui inserirle. Non esiste nella realtà l’homo
economicus, l’homo religiosus ecc, esiste sono l’uomo nella sua complessità, nella sua unicità;
• Studiare la linea di confine lungo la quale le singole storie particolari degli uomini si
confrontano con il problema del potere, con il conflitto tra la libertà e il dominio che caratterizza
in tutte le epoche il grande percorso della convivenza umana: qualcosa di molto simile a quello che
Benedetto Croce chiamava “storia etico-politica”.
Come se non bastasse, la storia stessa si è frantumata in discipline sempre più specializzate, sia in
senso “verticale” (cioè in senso cronologico del periodizzamento: storia antica, storia moderna,
storia medievale...) ma anche in senso orizzontale, con la specializzazione di un preciso ambito:
storia economica, storia delle idee, storia religiosa ecc...
Per quello che riguarda le prime, è ovvio che le periodizzazioni sono soltanto concetti artificiali e
costruiti: l’età moderna non è mai esistita, come non sono mai esistite epoche storiche come il
Rinascimento, il Barocco, o i secoli stessi. Sono tutte astrazioni usate dallo storico per rendere
possibile il discorso e soprattutto la didattica – e ne è una prova evidente il fatto che comunque non
si tratta di definizioni definitive, anzi, il periodizzamento della storia è un processo mentale che
varia secondo il tempo e la cultura dello storico e che dipende dai fenomeni che vogliamo studiare e
dalla loro collocazione nel tempo e nello spazio.
Per quanto riguarda l’estensione dello sguardo storico, spesso si parla di nouvelle historie per
indicare tutti i settori della vita umana prima trascurati o addirittura ignorati: il clima, i sentimenti,
la vita quotidiana, la vita sessuale... In realtà è un termine un po’ improprio, dato che comunque
almeno teoricamente i grandi storici del passato hanno inteso sempre la storia come storia di civiltà,
che comprende ogni aspetto della vita dell’uomo.
Si sono moltiplicati anche gli insegnamenti di storia locale, e in realtà è cambiata la concezione
stessa di questa disciplina, col diffondersi della consapevolezza che la storia locale non è differente
dalla storia senza aggettivi (o storia generale); è allora opportuno parlare semplicemente di
una dimensione spaziale della storia accanto a quella temporale: non esiste una storia generale di
prima categoria e una storia locale di seconda categoria, esistono soltanto diverse storie spaziali,
diverse dimensioni spaziali di quella che è l’unica storia del mondo. Per questa ragione ogni studio
storico deve necessariamente essere effettuato con un atlante a fronte, per seguire con lo sguardo i
movimenti in senso spaziale.

METODO STORICO

Lo storico è una figura a metà tra l’umanista e lo scienziato, in quanto non rientra a pieno né
nell’una né nell’altra categoria: dall’umanista lo distingue il lavoro pesante di esplorazione,
classificazione e interpretazione delle testimonianze del passato, molto più simile a un lavoro di
laboratorio più che alla speculazione teorica; di contro, non può considerarsi uno scienziato in
quanto usa categorie concettuali astratte e naturalmente non può riprodurre gli avvenimenti che
studia in laboratorio, e naturalmente non può

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nemmeno mai vantare di una precisione come quella scientifica (abbiamo già parlato degli
strumenti concettuali mai neutri, a cui vanno aggiunte le testimonianze non sempre certe di cui lo
storico può disporre). I risultati a cui lo storico arriva nella sua ricerca sono validi soltanto hic
et nunc, relativamente al fenomeno che indaga, senza alcuna pretesa di validità eterna e
universale.
Ciò che distingue lo storico dagli altri scienziati sociali è che egli ha in più nel vedere le cose una
specie di quarta dimensione, la dimensione tempo.
Non si tratta di andare alla ricerca di una causa o tanto peggio della causa unica del fenomeno che
vogliamo studiare, ma di cercare di mettere alla luce l’immensa ragnatela che collega gli
avvenimenti della vita degli uomini. La prima cosa che si apprende in quest’esercizio è che non
esiste un tempo unico nel quale inserire le nostre osservazioni, anzi, il tempo unico dei nostri
calendari e orologi è a sua volta un fenomeno storico. Esiste una pubblicità di tempi storici: non
esiste la storia dell’evento contro la storia di un lungo periodo, anzi, l’evento non esiste, ha senso
solo se pensato come particella, come realtà sempre ulteriormente frammentabile finché scompare
dalla visione. Certamente una dichiarazione di guerra o un assassinio sono fenomeni determinabili
con una data e un luogo, ma il più dei fenomeni (evoluzione delle mentalità collettive, sviluppo
delle realtà economiche) sono meno facilmente databili. Allo stesso modo i ritmi della storia sono
molteplici: si va dal ritmo velocissimo degli avvenimenti della cronaca al ritmo più lento delle
congiunture economiche sino al tempo lunghissimo delle strutture. Con l’espressione “struttura” si
intendono quei grumi che si formano nel fiume degli avvenimenti, come architetture esterne della
storia dell’umanità che per essa sono dei limiti ma soprattutto un sostegno, come uno scheletro
all’interno di un corpo: il concetto di proprietà, innestato nell’Occidente dal diritto romano, ma
anche realtà politico-sociali come la Chiesa, lo Stato, l’Impresa ecc. sono realtà provenienti da
epoche lontane che hanno subito lente e profondissime evoluzioni – la struttura è come “l’acqua in
cui nuotiamo”.
Max Weber, che sosteneva la necessità di un simile procedimento, all’inizio del Novecento parla
di tipi ideali in cui si possano riunire e correlare fenomeni simili sotto un’unica denominazione:
non valori o astrazioni dotate di una loro realtà, ma strumenti concettuali da modificare e verificare
continuamente: Rinascimento, Barocco, ma anche nobiltà, borghesia, mercantilismo... tutti
strumenti provvisori validi soltanto nei limiti della definizione che consapevolmente ne diamo e nel
tempo e nello spazio in cui li applichiamo.

IL LABORATORIO DELLO STORICO: LE FASI DI RICERCA

Tutti i manuali di metodo storico, dai più antichi sino ai più recenti, tendono a distinguere quattro
fasi della ricerca:
1. La fase progettuale, quella che porta alla formulazione della domanda, dell’ipotesi di ricerca, e
parte inevitabilmente dalla personalità dello storico. In questo senso, la storia è inseparabile dallo
storico, e alla base di qualunque lavoro che meriti c’è per forza un interesse individuale – meglio
ancora se si tratta di un interesse allo stesso tempo collettivo, cioè se lo storico si fa catalizzatore dei
dubbi collettivi e lavora come rappresentante della comunità. L’elaborazione delle ipotesi è già
comunque in parte un lavoro scientifico, nel senso che deve sempre trovare un riscontro nella
letteratura precedente sull’argomento e nell’accertamento della presenza di testimonianze: farsi
guidare solo dalla curiosità potrebbe portare a tematiche troppo ampie e quindi non dominabili
culturalmente oppure, al contrario, ad una concentrazione eccessiva sul particolare che lo rende
astratto dai problemi circostanti e quindi rende tutto il lavoro storico praticamente inutile. Bisogna
mettere sempre in chiaro i limiti ma anche i confini minimi di un lavoro.
2. L’ “euristica”, il reperimento; lo scavo dei dati bibliografici, delle testimonianze o
delle fonti (termine che deriva dal corrispondente tedesco, che per la prima volta ne ha teorizzato
l’importanza).
Tale fase va naturalmente miscelata con la prima, e serve praticamente a confermare che l’ipotesi
sia seria e fattibile. È opportuno nelle letture delle opere storiche andare a ritroso, partendo dai
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tempi più vicini fino a quelli più lontani (che spesso sono i più attendibili: vale il principio
filosofico di recentiores non deteriores). Le fonti si trovano per lo più raccolte nei musei, nelle
biblioteche, negli archivi. Di qui l’importanza dell’acquisizione delle tecniche che ne permettano la
lettura: la paleografia, la lingua latina ecc. Bisogna poi distinguere le fonti “intenzionali” (redatte
con il fine esplicito di lasciare una memoria per i posteri) dalle fonti “periintenzionali” (tracce che
l’uomo lascia nel suo passaggio, utili ma fatte senza lo scopo di tramandare alcunchè).
3. La critica e l’interpretazione delle fonti; dopo aver raccolto le fonti, bisogna lavorare sulla loro
attendibilità. Le distinzioni fondamentali sono autenticità e veridicità, non per forza in
collegamento (l’esempio più facile è quello di una denuncia fiscale, documento quasi sempre
autentico ma spesso non veridico). Nell’esame di autenticità prevalgono la critica esterna e l’esame
morfologico della fonte (lingua e stile, formule, grafia ecc.); si tratta di un lavoro praticamente
filologico. Nell’esame di veridicità è necessaria sia la critica interna sia la comparazione con i dati
derivati da altre testimonianze sullo stesso argomento.
Occorre però tenere presente che per lo storico anche i falsi possono avere un’importanza immensa,
se non altro per il valore che comunque hanno nella storia in cui sono inseriti (basti pensare
all’opera della donazione di Costantino, rivelatasi un falso ma comunque fondamentale per la
comprensione degli avvenimenti storici occidentali).
4. L’elaborazione o stesura del testo; il testo concluso deve contenere l’esposizione delle ipotesi
di partenza della ricerca, lo stato attuale degli studi e delle conoscenze sul problema, l’esposizione
del lavoro fatto in dialettica con la precedente letteratura e una valutazione del passo avanti fatto.
Non deve trattarsi però di una ricerca storica “quantitativa”, il lavoro non va ridotto a una serie
numerica di dati: è preferibile anzi esporre nella forma del racconto. Soprattutto negli ultimi anni si
sta affermando l’idea della storia come un romanzo vero (Le Roy). Ma la prevalenza di narrazione o
di analisi quantitative dipende comunque molto più che dalla volontà dell’autore dal tema trattato.
2; La storia moderna
Appunti La parola “moderno” viene dall’avverbio latino “modo”, che significa “modo” ma anche
“ora”, “adesso”; la storia moderna è quindi nata come “storia di quello che succede adesso”, storia
di un cambiamento, e difatti nasce nell’Umanesimo per sottolineare lo scarto nei confronti del
medioevo, altro termine coniato praticamente ad hoc (intorno al 1500) perché considerato (e
svalutato) come periodo di mezzo tra la modernità (adesso) e il tempo dei classici. Un valore
positivo quindi all’oggi rispetto a ieri, nella misura però in cui si riescono a recuperare i valori
dell’altroieri (la classicità). Questo naturalmente ha comportato la creazione di fortissimi miti
storiografici, tutti che usavano “medioevo” come termine peggiorativo per indicare un latino
scorretto che (gli umanisti) volevano combattere per ritornare alla purezza del latino classico. E
quando finisce l’età moderna e inizia quella contemporanea? La data ha subito un progressivo
slittamento, più o meno dal 1763 (come veniva considerata all’inizio del ‘900) al 1815. Il 1763 è
l’ultimo anno della guerra dei sette anni, il 1815 è il congresso di Vienna.
Il risultato di questo slittamento è che l’Ottocento non lo studia più nessuno, svalutato sia dai
modernisti che dai contemporanei, che lo delegano gli uni agli altri. Ma l’Ottocento è per eccellenza
il secolo della storia. Nascono nell’Ottocento i concetti di rinascimento, stato moderno, assolutismo,
feudalesimo. È dalla fine dell’Ottocento in poi che inizia a esistere la figura professionale dello
storico, e sorgono a tutti gli effetti dipartimenti, dottorati, associazioni sulla storia
(professionalizzazione della storia). Nasce come un’esigenza di ricostruire tutta la storia del proprio
Stato, per dimostrarne la superiorità (basi per lo sviluppo dei nazionalismi) e non a caso infatti è
questo il periodo in cui nascono gli archivi nazionali, archivi di Stato.
Un'altra invenzione vera e propria dell’Ottocento è il rinascimento: scoperta della natura,
individualismo, liberazione dall’autorità, Stato come opera d’arte (tutto è proporzionato, come in un
quadro, ogni cosa è al suo posto; Burckardt).
Ancien régime: questa espressione, usata per indicare la cosiddetta “società del privilegio”, fu
coniata dai rivoluzionari francesi. Un po’ come gli umanisti “hanno inventato” il medioevo, i
rivoluzionari hanno inventato l’ancien régime, per sottolineare come quello che era appena “finito”
era anziano, antico, e quanto nuovo era quello che stava accadendo.
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Il concetto di Storia moderna è molto malleabile e relativo. All’estero, si parla di età moderna per
i secoli che vanno dalla fine del Medioevo (fine del 1400 secolo) sino al Novecento inoltrato,
relegando la storia contemporanea solo come storia che riguarda direttamente le generazioni che
oggi vivono o sopravvivono. Si usa al massimo, nei paesi germanici, distinguere una prima età
moderna, sino alla Rivoluzione francese, e una tarda (o seconda) età moderna, che si promulga fino
alla Prima guerra mondiale e ha il suo perno nell’Ottocento. In Italia esistono suddivisioni diverse,
figlie soprattutto dell’impostazione universitaria del Settecento: subito dopo l’unificazione italiana
(per motivi politici, per sottolineare la funzione della storia come educazione civica e patriottica) si
diffonde infatti la “Storia del Risorgimento”, come “materia cuscinetto” per il periodo che va dai
primi moti per l’indipendenza sino al consolidamento dello Stato unitario, tra una Storia moderna
che arrivava sino al 1815 (congresso di Vienna) e una Storia contemporanea (dall’età fascista fino
ai nostri tempi). Questa definizione è stata ulteriormente rielaborata (con la progressiva perdita di
importanza della storia del rinascimento) e la periodizzazione oggi accettata (cercata solamente a
scopo convenzionale e didattico) definisce Storia moderna quella che va dalla fine del
Quattrocento all’inizio dell’Ottocento.
Perché? I secoli che vanno dalla fine del XV agli inizi del XIX sono quelli in cui è concentrata la
genesi del mondo che conosciamo oggi; è il periodo di “gestazione” del mondo che stiamo ancora
vivendo, caratterizzato da movimento e progresso continuo sotto tutti i punti di vista. Voltaire stesso
conferma questa definizione, sostenendo che si tratta del periodo in cui “la storia diventa veramente
interessante per noi [..] nella quale non si trovano né predizioni chimeriche, né falsi miracoli: in
essa tutto è vero, tutto ci riguarda, tutto è fatto per noi”. L’esaltazione dell’individuo, il progresso
senza fine della ragione, il dominio della natura, la conquista di tutta la terra da parte dell’Europa, lo
Stato come unico soggetto della politica internazionale sono solo alcune caratteristiche
fondamentali di questo terreno storico, in cui affondano ancora le nostre radici, nonostante
l’inevitabile allontanamento in corso (“la terra che stiamo abbandonando”).
Nonostante il termine a quo sia quindi più o meno concordemente trovato, e la fine del secolo XV è
considerato il punto di passaggio al moderno, per il termine post quem dell’età contemporanea, cioè
il punto di passaggio tra le due c’è meno concordanza: si può pensare alla rivoluzione industriale,
alla Rivoluzione francese, al congresso di Vienna; non c’è concordanza perché non c’è una cesura
fondamentale tra l’età moderna e quella contemporanea, e si usa fermarsi all’inizio dell’Ottocento
solo ed esclusivamente perché è il momento in cui il processo di modernizzazione sembra avere
coinvolto tutti i settori della società, da quello politico (con la maturazione dello Stato-nazione) a
quello della produzione, con la grande espansione della rivoluzione industriale. Questo processo di
cambiamento interessa in particolare questi versanti:
1. Il versante antropologico: individuo, famiglia, società
La nascita dell’individuo è stata vista come la prima grande manifestazione dei nuovi tempi, frutto
del rinnovamento portato dall’umanesimo. Iniziare a pensare l’uomo come al centro dell’universo è
alla base di tutti gli altri cambiamenti, dall’arte alla vita intellettuale e sociale.
Il passaggio importante che si realizza, parlando in termini adeguati, è quello dall’uomo
hierarchicus all’homo aequalis: si passa da una struttura sociale legata a una visione dell’uomo
come parte del cosmo, in cui quindi l’individuo ha una posizione fissa e determinata in un sistema
preordinato, a una nuova concezione di rapporti egualitari e mobili tra gli esseri umani. La prima
conseguenza di ciò è l’abbandono della concezione dei tre grandi ordini che caratterizzavano
l’umanità medievale: i preti, i militi (nobili), i lavoratori; si afferma dapprima una mobilità sempre
maggiore all’interno dei corpi sociali, o ceti, o stati, per poi arrivare alla frattura con la crescente
importanza dello stato fino a questo momento considerato ultimo in ordine di rilevanza: i lavoratori,
il popolo, il “terzo stato”: nasce quella che oggi chiamiamo la borghesia (termine nato per
sottolineare il suo sviluppo nei borghi e nelle città mercantili); alla presa di potere della borghesia
segue una mobilità sociale che annulla l’antico ordine. Di pari passo, vengono meno i privilegi
dell’aristocrazia, o quantomeno anche se non vengono a mancare del tutto essi si definiscono
sempre più come “privilegi” e l’accanimento che si manifesta nella loro difesa è rivelatore di come
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non si tratta più di cose date per scontate ma di qualcosa che va legittimato, e di come l’aristocrazia
tentasse inutilmente di opporsi al movimento inarrestabile dei cambiamenti.
Un altro fenomeno interessante sul versante antropologico è la nascita della famiglia moderna,
mononucleare, basata sulla coppia e sui figli – completamente diversa da quella allargata e
patriarcale. Con l’imporsi del potere dello Stato anche il ruolo antichissimo del pater familiae con la
sua patria potestas viene meno, e la famiglia si afferma nel suo significato moderno: cellula base
della sfera privata, svuotata di ogni significato politico.
Altri cambiamenti relativi al versante antropologico sono: il matrimonio formalizzato come
contratto di tipo particolare, pubblico e pubblicizzato, soggetto a riconoscimento da parte
dell’autorità politica e religiosa sia nei paesi che hanno aderito alla Riforma sia nei paesi cattolici;
una nuova considerazione dell’infanzia, che non vede più il fanciullo come un “piccolo uomo” ma
come un individuo soltanto potenziale che ha bisogno di un’attenzione particolare per poter
diventare adulto; aumenta la considerazione della donna, che potremmo definire un “individuo
dimezzato”: esce dalla passività totale del Medioevo, e conquista a poco a poco importanza come
soggetto giuridico nella sfera privata e patrimoniale.
2. Il versante religioso: de-magificazione, riforma, confessionalizzazione
Al di là di Martin Lutero, di Calvino e dei gesuiti, la modificazione del versante religioso nell’età
moderna in realtà inizia con la perdita dell’idea di un cosmo governato da un Dio supremo, nel
quale l’uomo era prigioniero di un universo immobile ma animato da potenze invisibili, spiriti
diabolici o angelici, in esso incorporati. Max Weber parla a riguardo di de-magificazione (o dis-
incantamento). più equivocamente si usa spesso anche il termine “secolarizzazione”, ossia il rifiuto
di ogni concezione trascendente di Dio come creatore e autore delle leggi della natura: in realtà
questa definizione è ormai rifiutata, assegnata più che altro alla cosiddetta “crisi della coscienza
europea” (‘500) e più adeguata persino ai nostri tempi.
La prima tappa di questo processo di de-magificazione in realtà si trova nel Medioevo, con la
graduale affermazione del cristianesimo occidentale: il legame tra le due cose è strettissimo (“il
culto dei santi infranse l’animismo”; “solo sgombrando il campo dalle ninfe e dagli spiriti l’uomo
ha potuto impadronirsi di acque e foreste”). Con il cristianesimo la gestione del sacro viene
attribuita esclusivamente alla Chiesa, e di conseguenza ciò finisce per restringere il suo campo,
relegandolo il sacro nel “sacramento”. Si è potuto quindi aprire la strada alla razionalità e
all’autonomia dell’agire umano – nonostante la Chiesa resti il punto di riferimento, della coscienza
collettiva ma anche della vita collettiva (il villaggio si costruisce intorno alla Chiesa, spesso con il
nome del Santo patrono, il cimitero accanto alla chiesa).
Da qui, naturalmente, intervengono numerosi altri fattori: le idee discordanti per quello che riguarda
i dogmi o comunque gli argomenti prettamente teologici, i difficili rapporti tra Chiesa e Stato, il
divagare della corruzione ecc. Nel 1517 Martin Lutero fa la sua proposta di una visione tutta nuova
(rispondendo in realtà a esigenze collettive e già da tempo diffusa) che poi sarà denominata
“protestantesimo”. Recentemente è stato proposto che tutti gli eventi di questi anni vanno
considerati non come rivoluzioni o fratture, ma come la conclusione di un lungo periodo di crisi
della cristianità medievale: non il punto di partenza ma il punto di arrivo, il culmine di un processo
di trasformazione sia nel nuovo rapporto dell’individuo con Dio sia nel rapporto pubblico tra il
sacro e il potere, tra la Chiesa e lo Stato. Addirittura, è stato proposto di considerare tutti questi
movimenti come momenti diversi di un’unica ondata di riforma, dove nella prima parte prevale
l’aspetto di rivoluzione rispetto alla Chiesa medievale (con la riforma protestante) mentre nella
seconda parte il rinnovamento è interno (riforma cattolica) e comprende l’azione repressiva nei
confronti dell’eresia (contro-riforma). Si tratta di risposte diverse al nuovo rapporto tra la coscienza
e il sacro. I rapporti tra Chiesa e potere si vanno organizzando in modi diversi:
• Nei paesi riformati, si tende a lasciare al potere politico (con varie commistioni) il governo della
disciplina ecclesiastica, il cosiddetto ius circa sacra (e si parla quindi di Chiese confessionali);
• In molti paesi nascono Chiese separate (come quelle d’Inghilterra, la Chiesa anglicana) che pur
mantenendo l’impianto dottrinale cattolico riconoscono come capo il sovrano;

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• Un caso particolare è costituito dal papato: con la controriforma si accentua lo sviluppo della
Curia romana e l’espansione dei nuovi ordini religiosi, e il papato assume una funzione sempre più
centrale e centralizzatrice all’interno del mondo cattolico. Particolarmente in Italia il papato
continua a mantenere nei secoli dell’età moderna un forte influsso sugli Stati della penisola,
formando una specie di “zona grigia” in cui l’autorità spirituale è profondamente intrecciata con
quella politica con indebolimento della sovranità statale.
Si apre quindi la strada a una serie di conflitti che si sviluppano durante i secoli dell’età moderna tra
i sostenitori del potere regio (regalisti) e i sostenitori del potere del papa e della curia romana
(curialisti).
Nell’età confessionale ci si avvicina pericolosamente al monopolio del potere (è il momento in cui
più pericolosamente il potere politico e quello religioso tendono a unirsi) rimane sempre una
concorrenza tra gli Stati, una distinzione di piani tra la sfera pubblica e la sfera privata, che permette
la crescita dell’individuo. Inoltre, venendo meno il dualismo tra papato e impero, si rischia di
perdere la tensione necessaria alla crescita; in realtà i punti di questa tensione semplicemente si
dislocano e adesso il confronto è tra gli Stati (o tra le Chiese).
3. Il versante politico: lo Stato moderno
La novità più visibile ed emergente nella storiografia dell’età moderna è la nascita dello Stato
moderno come unico soggetto politico collettivo dotato di piena sovranità (riconoscibile in un
territorio, dotato di una popolazione e il monopolio del potere legittimo). Prima di ogni altra cosa
bisogna chiarire che un conto è la nascita della dottrina dell’assolutismo, un conto è l’effettivo
esercizio della sovranità: gli storici delle dottrine politiche sono portati a coglierne i lineamenti già
nel Cinquecento, con una prima teorizzazione nel Principe di Machiavelli o le teorie di Bodin e
Hobbes; già nel Seicento quindi era pienamente formata la concezione impersonale dello Stato che
si distacca a poco a poco dalla persona fisica del monarco e viene concepito a sua volta come
artificio, come macchina o come organismo.
Esattamente come per ogni altro versante, è assolutamente convenzionale cercare di individuare
tappe rigide, fratture, momenti di strappo in quest’analisi: la costruzione dello Stato e più in
generale della vita politica si svolge in una continuità assoluta tra quello che viene chiamato “antico
regime” e il periodo successivo alla Rivoluzione francese, sino ai giorni nostri. Per pura
semplificazione possiamo cogliere nell’età moderna queste fasi distinte:
• Lo Stato confessionale; arriva più o meno fino al 1600, e può essere definita, in una frase sola,
nella famosa espressione cuius regio, eius et religio: il suddito deve seguire la religione del principe
e dello Stato a cui appartiene. Lo Stato incorpora in qualche modo la Chiesa nel suo sistema
amministrativo e delega alla Chiesa stessa molte delle funzioni che non è in grado di svolgere
direttamente in una simbiosi non certo priva di tensioni. In questa fase le confessioni religiose
servono da primo cemento dell’identità collettiva statale moderna in cui si identifica appunto il
suddito-fedele: paradossalmente è il papato che, unendo alla funzione di comando anche la funzione
di educatore dell’individuo, diventa una specie di prototipo dello Stato moderno e della nuova
politica che tende a formare e a controllare l’individuo;
• L’assolutismo illuminato; copre più o meno tutto il 1700; le strutture statali e il controllo
ideologico si sono abbastanza rafforzati per permettere l’affermarsi della ricerca dei fini propri dello
Stato nell’ordine e nella “felicità” pubblica, indipendentemente da ogni richiamo metapolitico e
religioso, e per sviluppare la demolizione dei corpi e dei poteri autonomi sopravvissuti all’interno
dello Stato stesso. Il sovrano perde la sacralità incorporata che aveva nei secoli precedenti e diviene
il primo servitore dello Stato, rimanendo assoluto ma mutando la giustificazione ideologica del
proprio potere. In questo quadro si afferma il principio della tolleranza religiosa non come “libertà”
religiosa, ma appunto come tolleranza;
• Lo Stato-nazione; quest’ultima fase si apre in modo traumatico, rivoluzionario, intorno alla
seconda metà del Settecento. Lo Stato diventa a tutti gli effetti un organismo, e riesce a penetrare e
a centralizzare tutte le funzioni delle società civile, prendendo le caratteristiche tipiche tutt’ora dello
Stato moderno. Emergono in particolare le nuove carte costituzionali: le costituzioni formalizzano
le norme fondamentali che sono oggetto di un patto collettivo e reggono tutto l’ordinamento statale:
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con garanzie per i diritti di libertà dei singoli nel quadro di una formale divisione dei poteri
(legislativo, esecutivo, giudiziario) ma all’interno dell’unico potere sovrano dello Stato, mentre a
poco a poco la democrazia si afferma come unica ideologia capace di sostenere questa costruzione
politico-costituzionale. Il cittadino viene consacrato sovrano attraverso il voto. A ciò si aggiunge
con il tempo l’idea di Nazione e di Patria come anima collettiva nella quale il cittadino-suddito è
inserito fin dalla nascita, e il concetto di amore per la patria.
Le caratteristiche dello Stato nel suo senso moderno sono individuabili su diversi fronti:
• Dal punto di vista economico: la definitiva separazione tra la sfera della proprietà privata e la
sfera del potere politico (con l’eliminazione delle situazioni miste di sovranità e proprietà, come i
diritti feudali o le terre delle città e delle comunità rurali); la formazione dei mercati nazionali; la
nascita della grande ricchezza mobiliare;
• Dal punto di vista giuridico: l’abbandono del pluralismo degli ordinamenti giuridici medievali
universalistici in funzione del monopolio da parte della legge positiva e la costituzione di una rete di
tribunali per l’amministrazione della giustizia;
• Dal punto di vista istituzionale: la nascita dell’apparato burocratico e del fisco; la nascita della
moderna diplomazia.
• Nella sfera privata dei sudditi; lo Stato porta avanti l’imposizione di un sistema sempre più
organico di norme giuridiche, di ordinanze di polizia, ma anche con l’imposizione o la proposta di
sistemi culturali e religiosi, di modelli di comportamenti; interviene nella vita sociale nei campi più
disparati un tempo riservati alla Chiesa o ai corpi intermedi: l’istruzione pubblica, l’assistenza agli
orfani o ai poveri, il costume, la moda.
Facendo un calcolo approssimativo, nel tramonto del Medioevo troviamo in Europa una quantità
innumerevole di soggetti di potere, è stato detto circa cinquecento; nel Settecento troviamo appena
una trentina di Stati sovrani. Questi soggetti sono in perenne lotta per il mantenimento
dell’equilibrio della nuova res publica europea (Voltaire).
I motivi che hanno portato a una tale “semplificazione” nello scenario politico sono diversi, ma
sicuramente il mezzo principale sono stati conflitti e guerre. Tra il 1500 e il 1700,
progressivamente, lo Stato assume una sorta di monopolio della violenza, vietando ogni violenza
tra privati, come il duello. La guerra a questo punto può essere definita una continuazione della
politica; essa, nella storia moderna, non è uno stato d’eccezione, ma anzi lo Stato è costruito in
funzione della guerra. Mentre nel medioevo le guerre erano endemiche ma avevano sempre un
carattere episodiche e in fondo non c’era una netta distinzione tra la violenza privata e quella
pubblica, ora la costruzione del monopolio della forza e il sistema dell’equilibrio tra gli Stati
portano alla formazione di eserciti permanenti e organizzati, a partire dal 1400: l’esercito
permanente si forma come elemento di continuità di potere, mentre il suo mantenimento pone
l’esigenza di tasse fisse provocando l’espansione burocratica del fisco (il più importante fattore di
deficit è sempre la guerra, e la necessità dello Stato di impossessarsi del monopolio della forza e
quindi disporre di un esercito stabile) e anche il passaggio alla coscrizione forzata di leva. Va
inoltre considerato che la prima età moderna sono anche i secoli di innovazioni senza precedenti
dell’arte militare.
Infine, l’ultimo settore importante di innovazione è quello legato direttamente alla politica estera:
nella res publica europea la priorità di ogni Stato è mantenere l’equilibrio, mediante un continuo
gioco di alleanze e contro-alleanze. Nel Medioevo le relazioni diplomatiche avevano un carattere
temporaneo e disomogeneo: quando nascevano problemi si inviavano temporaneamente
rappresentanti per le trattative (paci, matrimoni ecc). All’inizio dell’età moderna nasce la
diplomazia stabile, nascono le moderne ambasciate; i diplomatici risiedono stabilmente nei vari
paesi stranieri rappresentando il proprio sovrano come organi di collegamento e sono anche
osservatori attenti della situazione del paese in cui vivono.
Non esistono ancora in questa prima fase i concetti di patria e di nazione nel senso in cui li
intendiamo noi oggi: la nazione rimane a lungo un concetto relativo a un’appartenenza culturale o
etnica con limitato rilievo politico. L’identità collettiva si rispecchia nella dinastia, nel monarca.

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Soltanto con la Rivoluzione francese e nell’età romantica Stato e Nazione si fondono e la Patria
diventa nella coscienza collettiva la nuova religione dei tempi moderni.
4. Il versante culturale e scientifico: università, stampa, istituzioni educative
“Se il mondo antico non ha sviluppato il macchinismo e in generale non ha fatto progredire la
tecnica, ciò è accaduto perché esso aveva ritenuto che si trattasse di cose di nessuna importanza. E
se il mondo moderno l’ha fatto, è stato perché, al contrario, quella era la cosa più importante”.
Perché? Perché solo nell’età moderna l’uomo diviene capace di manipolare la natura e metterla al
servizio della scienza, e le altre civiltà, pur arrivando a livelli altissimi anche di conoscenza e abilità
tecniche, non hanno innescato quel meccanismo di progresso e di dialettica tra scienza e tecnica che
oggi si sviluppa senza fine? È probabile che la risposta vada cercata nei movimenti dell’umanesimo
e del rinascimento, che come sappiamo elaborano una nuova visione del mondo in cui l’uomo
diventa il centro di un universo che si dilata sempre di più e soprattutto quest’universo appare
regolato da leggi che coincidono con quelle della ragione. Di conseguenza, per la prima volta, si
crede che la conoscenza del mondo fornisca anche gli strumenti per
cambiarlo. Non si tratta di un processo omogeneo nello spazio e nel tempo, e dipende in maniera
diretta dai cambiamenti sul versante religioso, poiché muta lo stesso concetto di Dio e il modo di
rapportarsi a lui, e gli attributi alla divinità, finché Dio non arriva a essere pensato come creatore del
mondo dotato di leggi sue proprie, e che tocca all’uomo scoprire. La teologia e la scienza finirono
per fondersi in un linguaggio unico, espressione di una vera e propria teologia laica.
La città è il terreno in cui cresce questa nuova cultura, in rapporto con l’ascesa dei commercianti e
della borghesia. È nelle città che si stabilisce un circolo virtuoso tra le innovazioni e
l’organizzazione sociale. La stampa interviene in maniera significativa in questo processo, e nel
Cinquecento e Seicento il progresso dell’alfabetizzazione e dell’istruzione diviene già visibile e
palpabile in tutta l’Europa occidentale: l’istruzione diventa uno strumento di mobilità e di ascesa
sociale con l’introduzione di un sistema, basato sulla divisione delle classi di età e di
apprendimento, che inculca sin dall’infanzia il criterio della concorrenza e della competizione come
elemento essenziale per la formazione dell’uomo moderno. Occorreranno secoli prima che si arrivi
in Europa alla diffusione quasi universale della lettura e della scrittura: bisognerà arrivare al secolo
scorso perché sia diffusa in tutti i paesi l’istruzione elementare obbligatoria pur rimanendo presenti
costantemente sacche di analfabetismo. La cultura (dominata attraverso il controllo della stampa)
diviene anche uno strumento formidabile al servizio del potere: in senso negativo, con la censura
dei libri, ma anche in termini positivi, perché la lingua (non più latina) e la grammatica assumono
una funzione fondamentale nella costruzione della nuova identità collettiva della patria e della
nazione al servizio dello Stato, e lo Stato stesso viene coinvolto a poco a poco (dapprima con la
delega a istituzioni religiose e poi direttamente) nel grande processo di alfabetizzazione delle masse.
NB discorso sulle università
5. Il versante economico: la rivoluzione industriale
“La rivoluzione industriale è stata simile nei suoi effetti al gesto compiuto da Eva allorché gustò il
frutto dell’albero della conoscenza: il mondo non è mai più stato lo stesso”
C’è chi considera la rivoluzione industriale come la svolta più importante della società occidentale.
Con l’espressione rivoluzione industriale ci si riferisce a quel complesso di innovazioni
tecnologiche e organizzative che sostituendo al lavoro e alla fatica dell’uomo e degli animali le
macchine alimentate da energie naturali (dall’acqua al carbone, al petrolio, all’atomo) ha permesso
il passaggio dalla produzione contadina o artigianale alla produzione in serie in grandi quantità di
merci dando vita alla moderna civiltà dei consumi.
La rivoluzione industriale si sviluppa dapprima in Inghilterra, per poi diffondersi col ritardo di
alcuni decenni sul continente europeo e nell’America del Nord, e poi nel corso di Ottocento e
Novecento in tutti i paesi e tutti i settori della vita umana, dalla siderurgia alla chimica e poi via via
ai trasporti, sino all’attuale stagione che vede al centro di questa dinamica i grandi mezzi di
automazione e comunicazione elettronica (per questo è possibile anche parlare di prima, seconda,
terza rivoluzione ecc.).

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Il punto fondamentale che rende possibile questo cambiamento è la separazione avvenuta, tra il
medioevo e la prima età moderna, tra la ricchezza immobiliare (il possesso della terra) e il potere
politico, la cui unione aveva caratterizzato tutte le civiltà precedenti sulla faccia della terra:
caratteristica delle economie primitive era stata l’assenza di trarre dalla produzione e dello scambio
profitti non immediatamente traducibili in termini di potere. Così, il lavoro e la terra non erano
affidati al mercato, ma al monarca (inteso come generalmente il detentore del potere). Solo con la
fine di questo dualismo si può tracciare una distinzione chiara tra ciò che chiamiamo “politico” e
ciò che chiamiamo “economico”, e prende sempre più importanza la ricchezza legata alla moneta, al
commercio, al credito, cioè la ricchezza mobiliare, che diventa autonoma e forma un livello
superiore completamente distinto. Così la produzione viene organizzata dal mercante- imprenditore,
rompendo l’organizzazione corporativa, prima con il lavoro a domicilio e poi con l’invenzione
delle macchine e la rivoluzione industriale, con la fondazione della fabbrica sino alla costruzione di
un mercato che appare autoregolato e non elemento subordinato all’interno della vita sociale e
politica.
Il sovrano perde del tutto il diritto di disporre liberalmente delle ricchezze dei sudditi se non
attraverso la mediazione del fisco. La crescita di una ricchezza mobiliare non legata alla terra e
disponibile a essere investita ben lontano dalle sue radici e che si distacca anche dalle persone
fisiche con la nascita delle grandi banche, del capitale anonimo, delle Borse sono tutte le
conseguenze inevitabili di questo lento processo, che culmina con un aumento vertiginoso degli
scambi e la separazione della produzione delle materie prime dall’elaborazione dei prodotti finiti
destinati al consumo. Infine, l’impegno politico degli Stati a sostengo dei rispettivi apparati
economici concorrenti (la politica del mercantilismo). Tra il Cinquecento e il Settecento si
costruisce quella che in una grande opera di sintesi è stata chiamata l’economia-mondo europea.
Una delle conseguenze più significative di questa rivoluzione è lo sviluppo della popolazione, un
vero e proprio boom demografico: nella metà del Trecento (dopo l’epidemia di peste nera, e con
l’esclusione del mondo russo) la popolazione stima circa 74 milioni di abitanti; alla vigilia della
rivoluzione industriale, nel 1750, è di 111 milioni, per cominciare poi l’impennata che porterà agli
attuali circa 500 milioni. All’inizio dell’età moderna le città che superano i centomila abitanti si
contano sulla punta delle dita di una mano e sono quasi tutte in Italia (Napoli è la più popolata città
d’Europa): nel Settecento Parigi, Londra, Amsterdam hanno già alcune centinaia di migliaia di
abitanti.
Un secondo accenno può essere fatto all’organizzazione e alla distribuzione del lavoro nelle città
attraverso le associazioni di arti e mestieri, le corporazioni, che permettono il mantenimento e
l’elevazione continua degli standard di produzione. È all’interno di questa economia cittadina e
mercantile che si sviluppano le nuove forme di società di capitali (superando il divieto religioso del
prestito a interesse, considerato in base alle indicazioni della Bibbia come equivalente all’usura) e
nuove forme di organizzazione del lavoro con la nascita del primo proletariato moderno. Nascono
le grandi banche d’affari, le grandi compagnie di navigazione e infine le grandi manifatture
precedute dalle imprese di Stato per la flotta.
È noto che l’Italia sembra esclusa o quasi da questo processo di sviluppo con l’accumulo di un
ritardo che arriva sino ai nostri giorni: si è parlato per il Seicento italiano perfino di “ri-
feudalizzazione”. Tanti sono i motivi, alcuni più importanti di altri: la perdita dell’importanza del
Mediterraneo in seguito alle nuove scoperte geografiche, il maggior costo dei prodotti italiani, resi
non concorrenziali per gli alti salari e per i prezzi competitivi rispetto alle merci europee;
l’inflazione dovuta alla cosiddetta “rivoluzione dei prezzi”, cioè all’arrivo di tutti i metalli preziosi
dall’America; infine i fattori spirituali, per il peso che avrebbe esercitato per secoli la Controriforma
come freno e repressione dell’innovazione sulla società italiana rispetto alle più vivaci e inventive
società nordiche.
6. Il versante spaziale: l’espansione del modello europeo
La storia dell’età moderna è sostanzialmente una storia dell’Europa e della conquista del mondo da
parte dell’Europa. Alla fine del Quattrocento essa è ancora una piccola appendice del continente
asiatico in lotta continua per la sua sopravvivenza di fronte alla crescente potenza dell’impero turco:
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agli inizi del 1800 gli Stati europei con la loro estensione nordamericana dominano direttamente o
indirettamente oltre il novanta per cento delle terre emerse del globo. Le ragioni storiche di questo
successo non vanno cercate, banalmente, nel cliché dell’“uomo bianco” crudele e senza scrupoli che
si impone, in modo quasi sempre violento, sulle popolazioni che incontra: per quanto ci sia un
fondo di verità, la ragione principale è la capacità superiore di iniziativa e di organizzazione:
l’Europa possiede all’inizio dell’età moderna un potenziale economico, scientifico e tecnologico
enormemente superiore rispetto a quello di ogni altra società.
Non esiste, naturalmente, un metodo unico di colonizzazione: di paese in paese e di caso in caso
possiamo distinguere diverse situazioni:
• La conquista militare; i territori presi vengono visti come punti di appoggio e difesa,
probabilmente la forma di colonizzazione più antica (legata nella sua prima fase alla monarchia
portoghese);
• La conquista di veri e propri imperi; la Spagna in particolare, in continuazione con la tradizione
della riconquista dei territori arabi della penisola iberica, concepisce la conquista del Nuovo Mondo
come organizzazione politica ed economica dei territori conquistati: vengono fondati vicereami,
governatori distretti ecc. a imitazione della madrepatria. Si porta avanti lo sfruttamento sistematico
delle risorse e della manodopera indigena. Questo schema viene seguito soprattutto nell’America
latina ma verrà poi ripreso nell’Ottocento per l’Africa e l’Asia;
• La conquista per interessi commerciali; è gestita direttamente dalle Grandi Compagnie
commerciali. L’esempio più noto è quello delle colonie olandesi;
• Le colonie, di insediamento o di popolamento; soprattutto l’emigrazione verso il Nuovo Mondo di
minoranze politiche o religiose (oppresse o emarginate nella madrepatria) arricchisce le file dei
coloni che scelgono i nuovi territori come residenza stabile. È questo il caso delle colonie inglesi
fondate nell’America del Nord nel 1600, ed è lì che le istanze e i principi della libertà e della
democrazia trovano il loro terreno.
Si pone in ogni caso il problema dell’acculturazione, ossia di quel processo che si verifica quando
due culture si incontrano e una appare dominante e l’altra dominata. Sarebbe del tutto errato
fermarsi alle più superficiali seppur fondamentali conseguenze della colonizzazione, come la
sottomissione politica e lo sfruttamento economico: la distruzione delle società indigene anzi è
avvenuta più per l’imposizione del modello antropologico dell’individuo di tipo europeo che per lo
sfruttamento economico bestiale a cui gli indigeni sono stati certamente sottomessi o per le malattie
portate dall’Europa.
Un esempio di evidente acculturazione è quello legato al cristianesimo, ossia il difficile rapporto tra
colonizzazione e cristianizzazione: una grande esplosione missionaria si verifica nel Cinquecento a
opera della Chiesa cattolica: proprio mentre perde gran parte dell’Europa, con la Riforma essa tenta
di fare del cattolicesimo una vera religione universale. Non a caso quella dell’America latina è
additata come una “conquista spirituale”: gli indios sono visti come esseri umani, ma selvaggi e
inferiori, come perpetui minorenni non ancora arrivati alla maturità e in quanto tali da civilizzare e
convertire. Praticamente senza ritegno vengono sradicati i loro culti e imposti dogmi e sacramenti
cristiani; spicca in particolare l’imposizione del sacramento-contratto del matrimonio (con
l’abolizione della poligamia e della famiglia estesa, che erano di prassi nelle civiltà precolombiane).
Una situazione del tutto diversa si apre contemporaneamente nell’estremo Oriente: una delle pagine
più affascinanti di questa avventura umana è costituita dai tentativi effettuati per inserire il
cristianesimo in antiche civiltà come quella giapponese o cinese senza negarle, ma adattando il
messaggio evangelico, la teologia e tutto alle singole culture con un’incarnazione del vangelo nuova
ed esterna rispetto alla cultura europea. Basti pensare ai gesuiti, che tentano di tradurre il
cristianesimo nel confucianesimo.
A tutto questo il papato non assiste passivo ma anzi con la creazione della Congregazione “De
propaganda fide” cerca di controllare le missioni in concorrenza con i poter statali, anche se il suo
tentativo fallisce nel giro di pochi decenni sia per le opposizioni che trova all’interno della Chiesa
da parte dall’ala più conservatrice, soprattutto nei vecchi ordini religiosi, francescani e domenicani

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in particolare, che si oppongono alle audacie dei gesuiti dando luogo a quella che si chiama la
“controversia dei riti”, sia soprattutto per la prevalenza dei brutali interessi delle potenze coloniali.
Le modifiche sul versante spaziale non sono comunque solo quelle delle scoperte geografiche.
Nell’età moderna, sul versante scientifico e culturale, si ha per la prima volta anche la rivoluzione
copernicana che rimpicciolisce e definisce la terra nei confronti del sistema solare.
L’Italia diventa oggetto delle mire delle nuove monarchie europee (con la discesa di Carlo VIII di
Francia e l’inizio delle guerre d’Italia, appunto) perché con la sua organizzazione produttiva, con le
sue imprese commerciali, con le sue banche ecc. rappresenta un prototipo di quello che sarebbe stati
nei secoli successivi lo sviluppo dell’Europa: come tutti i prototipi sarà sopraffatto poi dal modello
finito, e sarà anche questa precocità di sviluppo sociale a influire sul ritardo nell’unificazione della
penisola.
L’Italia continuerà a partecipare alla storia europea soprattutto come ispiratrice degli sviluppi
economici, culturali, artistici e scientifici che avvengono altrove e segnerà tutta la storia della civiltà
europea sia pure in forma indiretta e con un ruolo marginale – una testimonianza di questo è il
“grand tour”, il viaggio di istruzione in Italia che i membri delle classi dirigenti europee
continueranno a ritenere nel Seicento e nel Settecento elemento fondamentale della loro
formazione.
3; Storia della storiografia moderna
Il nostro senso comune storiografico trae le sue origini da due formazioni culturali:
• La tradizione greco-romana, e in particolare il concetto della centralità e razionalità della politica;
• La tradizione giudaico-cristiana, o meglio il carattere fortemente provvidenzialistico del
monoteismo giudaico e del cristianesimo.
Da quest’unione nasce l’idea della storia come una continua ricostruzione e decostruzione,
interpretazione e reinterpretazione del passato in chiave eminentemente politica, razionale e
secolarizzata, che tuttavia aspira costantemente alla formulazione di una “filosofia” della storia che
conferisca a tutto un senso unitario e una comune direzione, al di là delle apparenti frammentazioni
e dell’apparente casualità.
La storia nel mondo classico Al di là delle occasionali narrazioni di carattere storico della Bibbia,
che è piena di racconti di eventi del popolo ebraico nel suo rapporto con un Dio che interviene
sistematicamente in essa, la prima opera storica in senso proprio è considerata
le Storie di Erodoto. Erodoto nasce ad Alicarnasso (una delle più fiorenti colonie ioniche dell’Asia
minore) tra il 490 e il 480 a.C. durante il periodo delle guerre persiane, che segnano inevitabilmente
il suo percorso, in quanto coinvolto in una congiura e sospettato di simpatie filopersiane Erodoto
viene costretto a fuggire da Alicarnasso e dopo alcune perigrazioni si stabilisce ad Atene. Viene qui
conquistato dalla bellezza della città, ed è proprio da questa profonda ammirazione che scaturisce la
voglia di raccontare e di scrivere le sue Storie, concepite “affinché non sbiadisca con il tempo il
ricordo di ciò che fu prodotto dagli uomini né rimangano prive di fama e di memoria le opere grandi
e meravigliose compiute sia dai greci che dai Barbari”. Le Storie di Erodoto sono piene di una
vivace curiosità per tutti gli aspetti della storia e della vita materiale, culturale e religiosa, di tutti i
popoli incontrati nel corso dei suoi viaggi; soprattutto i libri finali sono incentrati sulla ricostruzione
delle vicende delle guerre persiane, alo scopo di dimostrare la legittimità delle pretese di Atene di
imporre la propria egemonia sulle altre città greche. Ma il vero fondatore del modello storiografico
greco (ripreso dai romani e poi in un secondo momento dagli umanisti) è però Tucidide, più o
meno contemporaneo di Erodoto e quindi anche lui concentrato sulle guerre che si stavano
combattendo nel Peloponneso: la sua opera è tutta dedicata agli avvenimenti di questo tragico
conflitto, e risulta nel complesso migliore di quella di Erodoto perché rivela un’eccezionale lucidità
nel cogliere i nessi fra avvenimenti lontani nello spazio e nel tempo, nel mettere in luce i reali
moventi delle azioni. La sua è una storia pienamente razionale e tutta concentrata sulle dinamiche
politico-militari, senza concessioni (come aveva fatto Erodoto) al meraviglioso, al mito,
all’intervento divino o tantomeno alla cultura e alla vita umana nelle sue diverse sfaccettature.
Pienamente aderente al modello Tucidideo si dimostrò Polibio, uno storico greco adottato dalla
classe dirigente romana, in quanto era stato inviato tra i mille ostaggi richiesti da Roma dopo la
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pace con la Lega Achea. A lui fu affidata l’educazione di Scipione Emiliano. Egli, fin dal suo arrivo
a Roma, poté studiare dall’interno i meccanismi di funzionamento dello Stato e dell’organizzazione
militare e politica romana, fino
a convincersi della loro superiorità rispetto ai greci e che la sconfitta greca era ormai inevitabile e
definitiva. Le sue Storie espongono proprio queste riflessioni, sintetizzandole con la teoria del ciclo
costituzionale: ogni organismo politico, per una legge naturale, percorre tre forme di costituzione
politica, cioè monarchica, aristocratica e democratica, ciascuna delle quali degenera,
rispettivamente in tirannide, oligarchia e anarchia, aprendo le strade a quella successiva; lo
straordinario successo di Roma deriva dalla realizzazione di un governo misto, in cui convivevano
elementi monarchici (i consoli), aristocratico (il senato), democratico (i comizi e i tribuni della
plebe).
Al di là del successo di questa teoria, le storie di Polibio contribuirono non solo all’ellenizzazione
della cultura romana ma anche a fondare una concezione “pragmatica” della storia, ossia una storia
scritta per ammaestramento di uomini di stato da parte di altri uomini di stato che consegnano ai
posteri la memoria di avvenimenti cui hanno partecipato o comunque di cui hanno testimonianza
diretta.
La storiografia medievale La caduta dell’Impero Romano d’Occidente rappresentò la discontinuità
più profonda e drammatica nella storia dell’Occidente. È indubbio che per alcuni aspetti la
storiografia medievale rappresenti un impoverimento nei confronti del livello di capacità di analisi
razionale raggiunta dalla storiografia classica: si rafforzò molto il ricorso a spiegazioni
“irrazionali”, al sacro, al miracoloso e al meraviglioso. Allo stesso tempo però alla storiografia
medievale e soprattutto alla prima storiografia cristiana va dato il merito di aver eliminato
l’esclusiva della tematica politico-militare nei discorsi storici, introducendo anche argomenti come
le vite di uomini illustri (santi, martiri) o anche “la piccola storia”, di piccole comunità proposta
dalle cronache monastiche prima e cittadine poi. Il passo avanti più importante però è il paradigma
provvidenzialistico applicato a l’interpretazione della storia dell’umanità tutta: il Medioevo si
ritrova in una difficile posizione, diciamo ambivalente: non può ignorare il proprio passato classico,
anche se significa eleggere auctores autori pagani; anche personalità puramente cristiane come
Agostino, Gennodio, Sidonio Apollinare, Prudenzio e Draconzio, presuppongono come
indispensabili , la conoscenza degli autori classici (Agostino lo asserisce esplicitamente nel De
doctrina christiana) e in generale la storia classica. Allo stesso tempo però, una tradizione cristiana
non può accogliere senza intervenire un’eredità pagana. La soluzione a questo problema arrivò nella
scuola alessandrina con l’affermarsi del pensiero sincretistico, all’interno della quale cultura
pagana e cristiana non erano in antitesi, ma erano collegate e in armonia in quanto quella cristiana
rappresentava il coronamento perfetto di quella pagana (“senza dubbio Dio ci pose davanti questa
scienza mondana perché fosse per noi un gradino che ci sollevasse all’altezza della divina
scrittura”). In pratica tutta l’eredità classica fu reinterpretata in chiave cristiana. Ciò comporta, in
primo luogo, il superamento della concezione ciclica della storia in favore di una storia lineare e
universale,un’interpretazione unitaria della storia dell’intera umanità dalle origini del mondo, e
quindi la fine della concezione ciclica della storia (propria del mondo greco e romano) a favore di
una storia lineare, scandita dalle tappe della realizzazione del patto fra Dio e popolo eletto, sorretta
da un disegno provvidenzialistico che misteriosamente guidava gli uomini verso un destino
salvifico. In questo disegno l’Impero Romano, creazione umana, era lo strumento inizialmente
inconsapevole destinato a creare quelle condizioni di unità politica, linguistica e culturale necessarie
perché il messaggio di Cristo potesse raggiungere tutte le genti, estendendo il patto fra Dio e Israele
e tutta l’umanità.
Tale schema interpretativo, il cui nucleo centrale è già rintracciabile nelle opere di storici cristiani
del IX e X secolo come Paolo Orosio ed Eusebio di Cesarea, costituì la struttura portante delle
storie universali che conobbero una grande fortuna per tutto il medioevo.
In questa concezione della storia il potere politico era pur rappresentato, ma era descritto come una
sorta di “docile strumento” di Dio, tanto migliore quanto più assecondava il disegno divino. Si
fondò il mito della translatio imperii, ossiala trasmissione provvidenziale dell’Impero Romano
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all’impero carolingio, al sacro romano impero germanico e infine alle monarchie nazionali – tale
mito comunque non durò a lungo, e anzi lo Stato andò sempre più verso una laicizzazione completa.
La storiografia umanistica La parola “moderno” viene dall’avverbio latino “modo”, che significa
“modo” ma anche “ora”, “adesso”; la storia moderna è quindi nata come “storia di quello che
succede adesso”, storia di un cambiamento, e difatti nasce nell’Umanesimo per sottolineare lo
scarto nei confronti del medioevo, altro termine coniato praticamente ad hoc (intorno al 1500)
perché considerato (e svalutato) come periodo di mezzo tra la modernità (adesso) e il tempo dei
classici. L’umanesimo, e quindi anche la sua storiografia, si fonda sul presupposto che l’“oggi” è
meglio, rappresenta un “di più” rispetto a “ieri” (il Medioevo) ma solo nella misura in cui l’oggi
recupera e restituisce vita alla cultura e ai valori dell’“altroieri”, cioè del mondo classico (la famosa
teoria dei nani sulle spalle dei giganti). Al di là però di questi punti fermi in realtà l’umanesimo
manca di un’esplicita, coerente e articolata filosofia della storia, e anzi la posizione che gli umanisti
prendono sul “domani” è più vicina alla concezione classico- greca che mai: sembra essere infatti
fortemente presente il concetto di “limite”, l’idea cioè che sia possibile recuperare il livello di
civiltà raggiunto dal mondo antico e magari superarlo, ma che sia comunque impossibile andare al
di là di un certo limite, poiché la natura umana comunque non può essere cambiata e i rapporti tra
uomo e natura sono sempre gli stessi (e ciò appunto richiama alla dinamica ascesa/declino/
recupero).
L’umanesimo inoltre, facendo proprio il canone storiografico classico, finiva inevitabilmente per
proporre valori e modelli di comportamento non compatibili con il messaggio evangelico: si pensi
ad esempio al “medaglione”, ossia alla biografia di un personaggio storico illustre, proposto come
specchio di virtù e esempio da imitare: le virtù e i comportamenti che venivano esaltati erano quasi
sempre il coraggio, il valore, l’ambizione, l’astuzia e la forza – virtù e comportamenti non sempre
compatibili quindi con la tradizione cristiana.
Sarebbe comunque sbagliato non riconoscere nessun merito alla storiografia umanista: gli umanisti,
in particolare gli umanisti italiani, seppero arricchire il modulo storiografico classico in direzione di
una più raffinata capacità di analisi e di comprensione dei fattori economici, diplomatici e
psicologici nella lotta per il predominio. Gli italiani si concentrarono più di ogni altro su questi
argomenti poiché potevano toccarli con mano quotidianamente, in particolare per tutto il
Quattrocento, dato che l’Italia rimase a lungo un mosaico complesso di città-
stato/repubbliche/principati/signorie in equilibrio precario garantito solo dall’abilità nel variare le
alleanze e utilizzare le strategie giuste (nel commercio quanto in politica). Dopo il tragico
cinquantennio delle guerre d’Italia, come d’altronde spesso accade, la sconfitta militare e politica
sul piano culturale stimolò un ulteriore affinamento della capacità di analisi critica degli
avvenimenti storici. L’esempio migliore di ciò è la Storia d’Italia di Guicciardini, una ricostruzione
puntuale degli avvenimenti dal 1494 (discesa di Carlo VIII in Italia) al 1534 in cui spicca una
straordinaria capacità di cogliere i nessi causali e le interrelazioni fra vicende lontane e complesse –
che, pur avendo il loro epicentro in Italia, riguardano in realtà tutta l’Europa.
Ovviamente non si può concludere questo quadro generale senza accennare a Machiavelli. Egli è
ricordato come il fondatore della politica come disciplina, ma può a buon merito essere inserito
anche nel dibattito sulla storia e sul suo ruolo, poiché a questo argomento è lasciato un grande
spazio anche all’interno delle sue opere principali (Il Principe e ancor di più I discorsi): secondo
Machiavelli il passato costituisce uno sterminato campionario di exempla dal quale si possono trarre
utili insegnamenti per affrontare in maniera adeguata i problemi del presente, dal momento che la
storia si ripete continuamente identica a sé stessa poiché sempre identiche sono le “molle” che
fanno agire gli uomini (“historia magistrae vitae”, Cicerone). In lui, politica e storia sono
inscindibilmente connessi, o meglio, l’agire politico necessita obbligatoriamente delle indicazioni
date dalla “bussola della storia”.
La storiografia dell’età confessionale (dal 1500 al 1600) Nel contesto dei drammatici conflitti
religiosi dell’inizio del ‘500 fiorì una storiografia che possiamo definire ecclesiastica –
naturalmente divisa in protestante e cattolica. Uno degli aspetti della controversia fra cattolici

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e protestanti era infatti il diverso atteggiamento nei confronti della storia, e più nello specifico, nei
confronti del peso delle Sacre Scrittore e della Tradizione:
• Per i protestanti tutto ciò che un cristiano doveva sapere e credere era contenuto e
immediatamente ricavabile dalla lettura privata delle Sacre Scritture. Bisognava dunque riportare in
volgare i testi sacri; quest’operazione non si risolse però in una semplice traduzione perché il testo
conosciuto nel Medioevo (la vulgata di San Girolamo, del III secolo d.C.) in realtà era una
traduzione in latino fatta non dai testi originali in ebraico e aramaico ma da un testo greco (sempre
del III secolo a.C.): i protestanti dunque fecero un vero e proprio lavoro filologico, cercando di
restituire il testo autentico delle Sacre scritture – compito principale se non unico dei pastori e
dottori della comunità ecclesiastica.
• Anche la Chiesa cattolica credeva che la verità fosse contenuta nelle scritture, ma considerava
inaccettabile l’idea del “sacerdozio universale” poiché sosteneva che le Sacre Scritture andassero
continuamente “decodificate”: esse non sono un testo dato una volta per sempre, ma contengono
un’infinita potenzialità di significato che si disvela nel tempo (e in questo senso Cristo è come un
Maestro, che fa crescere i suoi allievi gradualmente e con pazienza, fornendo loro gli strumenti per
capire a poco a poco i suoi insegnamenti – atteggiamento pedagogico) che soltanto uomini colti e
preparati come appunto gli esponenti del clero possono cogliere per poi trasmettere al popolo – la
Chiesa deve attuare la parola e il comandamento divino nel modo più rispondente alle esigenze
della contingenza storica.
Sotto entrambe le prospettive però la storiografia ecclesiastica mirava ad essere una storiografia
“universale”, mirando a ricostruire la vicenda della Chiesa nella Storia (vista quindi come
un continuum di eventi lineari) e comprendendo nel suo discorso un po’ tutti gli aspetti dell’azione e
del pensiero umano – una storia definita quindi “onnicomprensiva”.
Anche dal punto di vista del metodo furono fatti dei passi avanti: com’è noto, l’umanesimo aveva
recuperato e perfezionato le tecniche filologiche trasformando la filologia in una vera e propria
disciplina autonoma, ma gli umanisti in realtà non si concentrano molto sulla prima fase – quella
della recensio, ossia l’analisi dettagliata di tutti i testimoni che tramandano per intero o in parte, in
modo diretto o indiretto – affidandosi quasi esclusivamente a testimonianze dirette. La storiografia
ecclesiastica doveva invece ricostruire una storia che molto spesso non aveva prodotto
testimonianze dirette e andava ricostruita a partire da fonti preterintenzionali e documentali del tipo
più diverso: diplomi, privilegi, atti notarili, vite di santi, monete, reperti archeologici. L’analisi e
l’interpretazione di tali fonti lo sviluppo e il perfezionamento di un gran numero di discipline che
nell’Ottocento saranno definite discipline ausiliarie della storia – paleografia, diplomatica,
cronologia, sfragistica.
La rivoluzione scientifica e il declino del mito delle origini Per quello che riguarda la storiografia
“laica”, il periodo che va dalla fine del 1500 agli inizi del 1700 non fu molto creativo: il grande
modello di storia politica della Storia d’Italia di Guicciardini trovò pochi continuatori, anzi, nella
“cultura alta” era diffuso un atteggiamento di esplicito scetticismo nei confronti della capacità della
storia di fornire insegnamenti utili, atteggiamento definito come pirronismo storiografico –che si
inserisce nella più generale “crisi della coscienza europea” dei decenni centrali del Seicento. Più
che altro i testi di questo periodo erano studi di storia giuridica e istituzionale accurati ed eruditi,
molto tecnici e settoriali, e ancora più spesso erano storie familiari o genealogie commissionate da
esponenti di casate di recente nobilitazione che volevano falsificare le proprie reali origini: pochi
sono i casi di opere serie e documentate del genere, perlopiù sono ricostruzioni fantasiose, che
riportano le famiglie addirittura alla tavola rotonda o agli eroi omerici e virgiliani. I grandi
intellettuali del Seicento non dedicarono la loro attenzione alla storia, ma alla riflessione e
all’indagine – ritenuta più urgente e utile – sui rapporti fra
religione e politica, sui fondamenti del patto sociale e del diritto sulle matrici razionali della morale
e del costume e sui meccanismi che muovono la grande macchina dell’universo. Al di là dei risultati
pratici però in questo periodo si colloca un passaggio importante, ossia la conclusione del dibattito
sulla superiorità degli antichi o dei moderni con la definitiva vittoria del “partito dei moderni”, che
dagli inizi del Cinquecento faceva discutere gli intellettuali europei; a tale vittoria seguì la generale
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accettazione di una periodizzazione storica che attribuiva a un’età moderna – iniziata con
l’umanesimo e le scoperte geografiche – un carattere peculiare e distintivo rispetto all’età antica e a
quella medievale nonché il superamento definitivo dell’atteggiamento mentale del “culto” delle
origini, ossia l’idea che esistesse un momento del passato in cui l’umanità aveva raggiunto un
livello di perfezione ormai irraggiungibile o comunque insuperabile. In parole semplici, fino alla
metà del Seicento prevalse l’idea che il tempo storico corrompe e distrugge, mentre in seguito si
diffuse l’idea che esso può anche creare e costruire; il concetto di “nuovo” riceve definitivamente
una connotazione positiva (scienza nuova, nuovo mondo).
La storia come materia d’insegnamento La storia come materia scolastica autonoma si afferma tra
la fine del 1500 e gli inizi del 1600. La spiegazione di questo apparente paradosso va ricercata nel
fatto che l’introduzione della storia/materia non ha niente a che vedere con l’ambiente culturale in
cui era inserita ma risponde soprattutto a esigenze di carattere politico e ideologico, e si inquadra in
un unico processo di “addomesticamento” della nobiltà guerriera e feudale: essa infatti fu insegnata
quasi esclusivamente nelle accademie militari e nei collegi specificamente destinati all’istruzione
dei giovani nobili, e fu scarsamente presente nelle università. In realtà però una qualche forma di
trasmissione della memoria del passato è presente in qualche modo in tutti i sistemi scolastici che si
succedettero dall’età classica in poi, perlopiù nell’ambito dell’insegnamento della retorica dove
venivano proposti in maniera costante i testi degli storici di tutte le età. Questa lettura serviva prima
di ogni altra cosa a impadronirsi dei moduli espressivi dello stile narrativo, e in secondo luogo
forniva una lunga rassegna di exempla di virtù e vizi da imitare o da evitare (coraggio e viltà, lealtà
e doppiezza, amor di patria e ambizione personale) e dunque da essa si potevano ricavare utili
insegnamenti pratici (historia magistra vitae). L’introduzione della storia/materia va attribuita ai
gesuiti (la Compagnia di Gesù, fondata nel 1534 e riconosciuta ufficialmente dal Papa nel 1540) che
individuò in questo insegnamento lo strumento essenziale per la riforma della cristianità. Fra il 1550
e il 1630 i gesuiti riuscirono a costruire una rete di istituzioni educative in quadi tutte le città
dell’Europa cattolica, tutte basate sul modello della Ratio studiorum: la Ratio riprendeva la proposta
umanistica di una formazione essenzialmente letteraria e retorica, veicolata dalla lettura e dallo
studio degli autori classici; più rivelanti erano le novità introdotte sul piano organizzativo e
didattico , con l’introduzione dei compiti, delle interrogazioni e degli esami per la costante verifica
dei progressi degli allievi; la disciplina, infine, era ferrea, ed era prevista anche l’applicazione di
pene corporali in casi di particolare gravità. In linea di principio la scuola gesuita era
“democratica”, ossia gratuita e aperta a tutti; nei fatti era molto elitaria, intanto perché presente
quasi esclusivamente negli ambienti urbani, poi perché l’ammissione presupponeva già il possesso
di un’istruzione elementare di buon livello – nonché perché il corso di studi era lungo e
impegnativo, quindi non compatibile con un’attività lavorativa. In realtà però, se la formula
didattico-educativa dei Gesuiti era molto gradite dal notabilato urbano o dall’alta borghesia, la
nobiltà vera e propria era recidiva all’idea di mandare i propri figli in scuole frequentate da giovani
di condizione plebea, dove fra l’altro avrebbe dovuto sottostare a una disciplina assai rigida.
Per risolvere questo problema, a partire più o meno dal 1580, furono creati i seminaria nobilium,
istituzioni educative destinate specificatamente ai giovani appartenenti alla nobiltà. Il collegio per
nobili differiva dalle normali scuole gesuitiche per diversi aspetti:
• Il sistema disciplinare, meno rigido;
• L’internamento: gli allievi mangiavano e dormivano in questi collegi, tornando alle proprie case
solo per brevi periodi di vacanze. Questa decisione dipendeva soprattutto dall’esigenza di
allontanare il più possibile i giovani aristocratici dall’ambiente d’origine, improntato a valori e
modelli di comportamento – orgoglio, arroganza, indocilità, propensione alla vendetta – ovviamente
incompatibili con gli obiettivi della Compagnia, che mirava alla formazione di sudditi e cristiani
devoti e obbedienti alla Chiesa e al sovrano, soprattutto tra i nobili.
• Un programma di studio diverso: poiché in generale i nobili erano giovani che non avrebbero poi
proseguito negli studi ma che erano destinati a intensa vita sociale e diplomatica, all’insegnamento
grammaticale/retorico si affiancavano (o talvolta si sostituivano) materie “socializzanti” come
canto, ballo, recitazione, musica e altre materie “professionalizzanti” come geografia, matematica,
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lingue straniere – che fornivano, rispettivamente, capacità di ben figurare a corte e nel mondo e basi
fondamentali anche per le mansioni nobiliari più specifiche;
• L’introduzione della storia/materia: lo studio della storia viene scorporato da quello della retorica,
configurandosi come una materia autonoma, con un programma specifico e strutturato.
L’ultimo punto è quello fondamentale ai fini del nostro discorso; non è possibile incasellare la
storia/materia né tra le materie socializzanti né fra quelle professionalizzanti. Essa infatti non
rispondeva a scopi immediatamente pratici ma faceva parte di un’azione educativa sottile e
pervasiva, tesa a rimodellare il sistema di valori dei giovani allievi e la percezione che essi avevano
del proprio ruolo sociale e dei propri doveri. In pratica, i seminaria nobilium perseguivano
un addomesticamento della nobiltà. Ovviamente si tratta di una materia completamente diversa
dalla storia che si impara oggi: gli allievi dovevano sostanzialmente imparare a memoria il
contenuto di manuali che elencavano i principali avvenimenti politici e militari e religiosi
succedutisi in Europa e nel bacino del Mediterraneo dalla creazione del mondo, scritti ovviamente
dai gesuiti. In questi manuali, così come in quelli attuali, la storia veniva rappresentata come un
processo lineare e continuo e dotato di senso; essi saldavano la storia sacra e profana applicando la
prospettiva provvidenzialistica, ossia mostrando come i momenti di grandezza e di gloria della
nazione erano stati il frutto dell’obbedienza del popolo e dei sovrani al volere di Dio e della fedeltà
della nobiltà e dei sudditi al monarca e alla Chiesa, mentre i momenti di decadenza e di sventura
erano stati causati dall’empietà, dalla superbia, dalla disobbedienza e della discordia.
La storiografia illuminista e Voltaire L’atteggiamento dell’Illuminismo nei confronti della storia è
abbastanza unitario: secondo gli illuministi la conoscenza del passato è certamente utile e istruttiva,
ma essa non è tanto funzionale alla comprensione del presente quanto in generale alla comprensione
della necessità di evitare di ripeterne gli errori e gli orrori; il passato è fondamentalmente tenebra,
solo fugacemente e occasionalmente raschiata dal lume della ragione. Bisogna “conoscere la storia
per liberarsi dal suo pesante fardello”.
La personalità più importante nella storiografia illuminista è senza subbio Voltaire. In lui questa
percezione essenzialmente negativa del passato è bilanciata da una rara curiosità e apertura mentale.
Nel 1756 Voltaire pubblica Il Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, considerato il suo
capolavoro: in esso il grande intellettuale francese portava alla piena maturazione il modo tutt’oggi
accettato di approcciarsi alla storia e soprattutto la considerazione della storia moderna, prendendo
le distanze dal modello storiografico classico- umanistico e dalle sue degenerazioni (da Voltaire
criticata poiché troppo nozionistica). Nel suo Saggio egli scrive:
“Io invece vorrei imparare qualcosa di più utile e di più importante. per far questo bisogna saper
inserire nel tessuto degli avvenimenti delle conoscenze utili. E l’unico modo per fare questo è di
scrivere di storia moderna in modo politico e filosofico. A me sembra che ci volesse mettere a
profitto il presente, non dovrebbe perdere le sue ore ad infatuarsi delle antiche favole. A un giovane
consiglierei di avere una tinta di quelle età passate ma vorrei che uno
studio serio della storia lo si cominciasse dal tempo in cui essa diventa veramente interessante per
noi: ossia, mi pare, verso la fine del XV secolo... Nello spirito umano e nel nostro mondo avvenne
una rivoluzione che cambiò ogni cosa”.
Il programma proposto quindi era una storia nuova, universale e laica (quindi finalmente priva di
quello stampo provvidenzialistico), nella quale gli avvenimenti politici non erano del tutto assenti
ma non erano nemmeno l’argomento principale. Molto spazio era dedicato a civiltà, popoli e aree
del mondo assenti o presenti in misura del tutto marginale nelle opere precedenti (Islam, l’Impero
ottomano, la Cina, il Giappone...) anche se naturalmente lo spazio maggiore era dedicato agli
sviluppi della civiltà europea negli ultimi secoli. Se lo scopo delle storie universali era stato quello
di sacralizzare la storia profana, lo scopo di Voltaire era quello di secolarizzare la storia, mettendo
in luce le tappe del percorso della ragione umana, costantemente ostacolata dal dogmatismo, dal
fanatismo religioso, dalla superstizione e dall’ignoranza. La filosofia della storia di Voltaire è
quindi il procedere, del tutto laico, della ragione.
I limiti della storiografia di Voltaire sono comunque notevoli:

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• Sotto il profilo metodologico Voltaire è ancora legato al modello classico e umanistico, e ricorre
soprattutto a fonti letterarie e testimonianze dirette;
• Mantiene la visione tradizionale del Medioevo come una lunga parentesi di “secoli bui”,
svalutando tutta la storia antica;
• Il Saggio non può essere definito una storia dell’umanità: per quanto vengano trattate le diverse
civiltà, resta pur sempre una storia delle civiltà, che entrano in contatto, interagiscono e
contribuiscono in maniera diversa all’affermazione della ragione umana ma le cui vicende non si
fondono in una storia unica e organica (passaggio che si realizzerà poi solamente con Hegel e il
positivismo).
La storiografia romantica e la filosofia della storia di Hegel Nel romanticismo si sviluppa una
concezione della storia completamente diversa da quella illuminista, che aveva come caratteristica
fondamentale quella di essere davvero universale: si diffuse l’idea che ogni popolo ha un suo
“spirito”, una sua identità collettiva che è soprattutto il prodotto della sua storia, intesa come una
forza vitale e creatrice che continuamente crea e plasma; ogni progetto politico e culturale che non
tenga in debito conto il retaggio della scuola è fatalmente votato al fallimento, e infatti era stata
proprio questa la pecca e la ragione ultima del fallimento dei progetti illuministi o della rivoluzione
francese: essi avevano cercato di imporre con la forza delle armi principi e valori prodotti dal
peculiare sviluppo della civiltà francese, ma estranei allo spirito degli altri popoli, sottovalutando
l’importanza della storia e della tradizione di una collettività. La cultura romantica inoltre
recuperava e conferiva dignità anche ai secoli bui del Medioevo.
Il romanticismo introdusse così il concetto di “coscienza storica”, una sorta di “io collettivo”
relativo a un popolo; questo merito va attribuito fondamentalmente ad Hegel, e alle sue Lezioni
sulla filosofia della storia (1837, postumo). In quest’opera egli fa una serie di significativi passi
avanti, tutti conseguenziali:
• Riesce a superare la frammentazione delle storie dei popoli e delle nazioni, ricomponendole in
un’unitaria storia dell’umanità – e quindi la storia come un continuum unico, naturalmente laico;
• Introduce una nuova logica interpretativa da applicare alla concezione storica, sostenendo che la
storia è un processo sempre razionale e intellegibile, privo di contraddizioni ed errori, e se finora è
apparso tale è solo perché è stata interpretata con i principi sbagliati (identità e non contraddizione):
la storia va indagata con un metodo a sé stante, fatto apposta, il metodo dialettico (tesi/antitesi/
sintesi). Solo così si può riunificare tutto in un unicuum e soprattutto solo così essa si rileva
razionale.
In questa assoluta razionalità sono espresse anche le manifestazioni di violenza, e così la guerra, che
per Voltaire e i lumi in generale era un “male” e un “errore”, per Hegel è solo “il mezzo per
conservare la salute etica dei popoli” – questa posizione avrebbe poi aperto la strada alla concezione
di guerra come “igiene dei popoli” nel pieno del Novecento;
• Il concetto di spirito del mondo: la storia è un processo unico, dialettico, in cui lo spirito del
mondo si manifesta e si realizza in forme sempre più perfette attraverso il succedersi di popoli
universali storici, ciascuno dei quali dà forma e sostanza a un’idea, “un principio” che rappresenta
come una tappa nello sviluppo dello spirito. Solamente il continuo cambiare del popolo universale
storico (che avviene quasi sempre in maniera violenta, con guerre e rivoluzioni) conferisce alla
storia la sua apparente discontinuità;
• Il concetto di Stato etico: le leggi dello Stato (o meglio, della forma statuale del popolo storica
universale) non sono l’espressione della volontà del sovrano o dell’oligarchia, ma sono
l’espressione della razionalità dello spirito, nella sua forma di autorealizzazione provvisoriamente
più alta, e dunque sono assolute e autoreferenti. Questo concetto di Stato etico costituirà poi una
delle più solide basi teoriche dei totalitarismi del XX secolo;
La storiografia positivista Con il positivismo, nella seconda metà dell’Ottocento, giunge a piena
maturazione l’elaborazione di una filosofia della storia “scientifica” e laica. La storia/materia si
diffonde nelle istituzioni universitarie e scolastiche di ogni ordine e grado e inoltre viene elaborato,
per la prima volta, un manuale di storia.

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Il positivismo riflette un mondo il cui volto sta cambiando con un ritmo che l’età moderna non
aveva conosciuto, per l’effetto combinato e cumulativo di una serie di fenomeni grandiosi: lo
sviluppo accelerato dell’economia industriale e agricola, delle scienze e della tecnologia; il
rivoluzionamento dei trasporti e delle vie di comunicazione; l’ascesa definitiva della borghesia; la
scolarizzazione di massa; la radicale scristianizzazione o comunque de-confessionalizzazione delle
classi dirigenti che non esitano a scontrarsi con la Chiesa per ridimensionarne peso e influenza. È il
trionfo definitivo della civiltà europea, e in generale l’atteggiamento mentale nei confronti del
mondo è improntato all’ottimismo e alla fiducia del futuro e nel progresso. Per progresso si intende
il prodotto di un meccanismo di selezione naturale determinato dalla necessità imprescindibile per
ogni collettività umana di rispondere alla sfida della storia (posta dall’ambiente naturale e dagli altri
popoli e civiltà).
Ciò non può che riflettersi anche nella storia, influenzata profondamente da un particolare aspetto
della cultura positivista, ossia la teoria evoluzionistica formulata da Darwin e Spencer: questi
antropologici, e in generale tutta la prima antropologia detta evoluzionista (con personalità
autorevoli come Comte o Morgan) sosteneva che ogni società nella sua evoluzione attraversasse un
certo numero di fasi prestabilite, di stadi di sviluppo diciamo, inserite però in un processo unico;
una sorta di continuum di diversi gradi di progresso della civiltà dove ovviamente la società
occidentale sta nel punto più avanzato. Tale modello si presta benissimo a legittimare e giustificare
l’egemonia planetaria esercitata dalla civiltà occidentale e la soppressione delle civiltà
precolombiane.
Infine, la storia acquista uno statuto di semi-scientificità, assicurato dalla ricostruzione “oggettiva”
dei fatti storici – cioè non condizionata dalla morale o dalle ideologie, né tantomeno dalla religione.
Il compito dello storico è raccontare come sono realmente andate le cose. Per fare ciò bisogna
naturalmente analizzare criticamente tutte le fonti disponibili, e soprattutto le fonti documentarie,
per stabilirne l’autenticità e attendibilità e ricavarne tutte le notizie possibili utilizzando le
procedure logicamente fondate e verificabili della filologia. Viene introdotto inoltre l’apparato
critico, modificando anche l’aspetto del testo storico; esso diviene la struttura portante del discorso,
e in esso l’autore deve dar conto delle fonti usate, del perché le ha ritenute attendibili o meno, dei
criteri usati per ricavarne notizie confrontandole con altre fonti parallele.
Lo Stato unitario: la storia come catechismo civico Nel corso dell’Ottocento, come detto, la
storia/materia perse quel carattere di elitarietà: prima in Germania e in Francia, più tardi
nell’Impero asburgico, in Inghilterra e in Italia, l’insegnamento della storia si conquistò no spazio
crescente negli studi universitari, fino a diventare una parte integrante dei programmi scolastici
anche nell’istruzione primaria. Nel 1800 la storia divenne uno degli strumenti più efficaci di
educazione civica e morale, di adesione ai valori e alle sorti dello Stato nazionale, della massa dei
cittadini che adesso erano chiamati a svolgere una funzione attiva nella vita politica.
Il caso italiano merita una particolare attenzione, in quanto proprio nel nostro paese la
Storia/materia nasce proprio con il compito di conferire agli italiani il senso di appartenenza a una
comunità nazionale che non era nata “dal basso” e dalla volontà comune del popolo ma soltanto con
fatica dopo anni e anni di azioni militari e diplomatiche. La prima legge a regolare l’insegnamento
in Italia fu la legge Casati, del 1859, che prevedeva l’obbligatorietà e gratuità dell’istruzione
elementare – anche se si trattava più che altro di un’affermazione di principio, visto che non erano
previste sanzioni per i renitenti. L’istruzione primaria, affidata ai comuni, era articolata in due
livelli della durata di due anni ciascuno e bastava anche il completamento del primo ciclo per
ottenere la licenza di voto. Nel ciclo inferiore c’era l’insegnamento della “Religione”, in quello
superiore l’insegnamento dei “doveri dell’uomo e del cittadino in relazione con lo Statuto
fondamentale del Regno” e “dei fatti più notevoli di una storia nazionali”; ancora una volta quindi
in primo piano c’era il catechismo e la storia sacra per impartire un’educazione morale e civica ai
cittadini del neonato Stato nazionale, ma comunque nonostante la marginalità della storia/materia
vera e propria la sua presenza va comunque considerata un passo avanti. Con i programmi Baccelli
del 1894 l’insegnamento del catechismo e della storia sacra scompare, e la storia/ materia di contro
acquista spessore importanza, comparendo fin dal primo ciclo e includendo anche argomenti di
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storia romana e medievale o di storia del risorgimento. Le ampie Istruzioni premesse ai programmi
si preoccupavano di chiarire l’impatto didattico e metodologico cui si ispirava l’insegnamento della
storia: far conoscere ed amare la patria e sviluppare un’adesione ai valori dello Stato nazionale e
liberale, con una particolare enfasi su “alcuni fatti e uomini più autorevoli”, analizzando i fatti
facendo leva sull’affettività e la fantasia (e questo è un tratto ancora un po’ romantico (ma
comunque con veridicità ed esattezza. La storia/materia ereditava il compito educativo finora avuto
dal catechismo e alla storia sacra. Lo studio della storia risorgimentale doveva mettere gli italiani in
grado di esprimere il proprio voto con piena consapevolezza, vale a dire con piena
immedesimazione nei valori dello Stato nazionale e liberale.
4; La storia nel tornante del millennio
In che prospettiva dobbiamo considerare, e studiare, gli anni di oggi? Dobbiamo partire dal
presupposto che abbiamo assistito alla chiusura di un secolo, il Novecento, per entrare nel 2000?
Oppure considerare che in effetti usciamo dal secondo millennio per entrare nel terzo millennio?
Secondo Prodi, un’analisi dal punto di vista del millennio è molto più ricca ed utile. Innanzitutto,
perché è una prospettiva che pone l’accento sull’inizio, il che ci libera dal rischio di considerare gli
“anni zero” come La fine della storia, in quanto il mondo si è ormai omogeneizzato in un’unica
società liberal-democratica.
“L’umanità finirà con il somigliare a un lungo convoglio di carri lungo una strada... La grande
maggioranza dei carri continuerà comunque il suo lento cammino verso la città e finiranno quasi
tutti per arrivarci.
I carri sono tutti uguali, anche se dipinti con colori diversi e costruiti con vari materiali hanno tutti
quattro ruote, sono tirati tutti da cavalli ed ognuno trasporta una famiglia che spera e prega che il
viaggio vada bene”.
Ma la storia non finisce affatto. Altri vedono questa fine in senso più apocalittico, prognosticando
(purtroppo con più fondamento) per il futuro non più guerre tra Stati ma scontri tra civiltà, scontri
tra culture – il che ci pone quantomeno nel quadro di un mondo che continua, ma è pur sempre
un’affermazione azzardata. La prospettiva del passaggio del secolo, inoltre, rischia di dare troppa
importanza al secolo che lasciamo: oggi come oggi si chiede allo storico di indagare e illustrare le
grandi tragedie del secolo breve per far riemergere dall’inconscio collettivo alla coscienza,
soprattutto nella gioventù, i traumi che la nostra società ha subito
(olocausto, disastri atomici, guerre mondiali): ricordare per non dimenticare e per non ripetere più
gli errori commessi. Studiare storia per educare ed educarsi alla convivenza pacifica, alla libertà e
alla democrazia. Per quanto questa funzione morale-didattica della storia abbia comunque una sua
validità, è comunque un discorso però molto più valido in teoria che in pratica: è utopistico pensare
che i giovani possano riscoprire, studiando la storia della seconda guerra mondiale o della
Resistenza, qualcosa che è davvero dentro di loro; gli eventi degli ultimi cinquant’anni, il boom di
trasformazioni che hanno cambiato tutto – dall’ambiente in cui viviamo al modo in cui viviamo –
rendono gli eventi del Novecento più vicini al passato remoto che ai nostri giorni: in un mondo
dove accade che interi quartieri corrispondenti alle nostre città nascano in un anno o due non ci si
deve stupire se in fondo fatti come la prima guerra mondiale e l’olocausto appaiono più vicini alla
scoperta dell’America o alle guerre di indipendenza che non a oggi. In secondo luogo, questa
prospettiva ha comunque fatto prevalere all’interno del lavoro storico il giudizio sulla
comprensione, ossia la funzione del giudice su quella del ricercatore. Non c’è alcun dubbio sulla
necessità di riflettere sul secolo che stiamo lasciando, ma porlo al centro della nostra attenzione
come se solo da esso dipendesse una nuova educazione civica per i nostri giorni potrebbe essere un
grave errore, nonché un rischio di compromettere la nostra comprensione della realtà.
Nella civiltà telematica la storia spesso è vista come un peso, qualcosa che frena la spinta delle
generazioni verso il futuro. In questo senso si orientano le opinioni di uomini come Nietzsche, ma
anche di uomini a noi quasi contemporanei come Negroponte (scienziato informatico di Boston)
che afferma che “la storia è un bagaglio pesante e inutile”. Ma si tratta di argomentazioni troppo
drastiche, nonché sbagliate: oggi più che mai la storia anzi è importante perché ci offre un quadro
completo della nostra civiltà, e soprattutto ci offre la certezza che le civiltà non crescono mai
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secondo un modello precostituito e non svaniscono mai, dato che ognuna porta in quella che segue
valori ed elementi. Se siamo dunque al tramonto dell’uomo occidentale in tutte le sue dimensioni, la
storia nel tornante del nuovo millennio ha essenzialmente il compito di capire qual è il mondo che
stiamo lasciando per poter anche comprendere quanto di esso portiamo dentro di noi nel nostro
passaggio; la sua funzione è più che mai quella di “custode della memoria dell’umanità”, ma non
perché serve a una ricostruzione sterile e nostalgica di un panorama passato a noi noto, ma per
sapere con quale “bagaglio” entriamo in questo nuovo mondo, per guardare avanti; è utile nella
misura in cui riesce a creare delle identità collettive: in reazione allo sradicamento degli anni
dell’esplorazione delle galassie e della globalizzazione, negli anni delle città cosmopolite, attraverso
la storia possiamo ricostruire le nostre identità collettive nelle loro radici lontane nel tempo.
Dunque, ricapitolando, se non sta finendo la storia e se la riflessione sul Novecento non è
sufficiente, considerando la fine del millennio studiare storia è fondamentale per costruirci delle
basi identitarie da cui partire e su cui costruire il futuro nonché per capire in che guado siamo. La
storia moderna (intesa, in questo caso, come la storia di oggi) parla di noi (de nobis loquimur).
Si tratta ovviamente di propositi molto ambiziosi, di disegni che come al solito saranno chiari solo
con una certa distanza di tempo, di cui ora si possono intravedere solo alcune linee. Ad esempio
sono adesso in dissoluzione alcune categorie che abbiamo visto costitutive del moderno, come la
centralità del progresso: soprattutto dopo il 1950 il mito del progresso è tramontato – essendo
bloccata per decenni l’evoluzione del sistema politico dalla guerra fredda e dal dominio delle super
potenze – e poi negli anni questa crisi si è estesa fino ad assumere l’aspetto di un mutamento
antropologico, ossia la fine dell’homo faber come dominatore della natura attraverso scienza e
tecnologia. Secondo Prodi, in questo quadro di dissoluzione generale il problema più grande è la
crisi del monopolio instaurato dello Sato-nazione – monopolio non solo del potere legittimo, ma
anche della formazione e della cultura sino alla religione della patria, al “pro patria mori”. Non
siamo certamente alla fine dello Stato, ma alla fine dello Stato sovrano moderno sì: gli elementi
costitutivi sono in gran parte spariti: il territorio (nel mondo telematico è spesso impossibile
stabilire dove sia stato commesso un reato, o nuove armi – armi chimiche, radiazioni come quelle di
Cernobyl – non rientrano certo nel rispetto dei confini); la popolazione come insieme culturalmente
omogeneo (data la grande migrazione dei popoli); il monopolio del potere legittimo (gran parte
delle decisioni che più influiscono sulla nostra vita vengono ormai prese altrove). Lo Stato non
muore poiché assume nuovi compiti, ad esempio come azienda di promozione di sistemi economici
territoriali e arbitro di conflitti sociali. Analoghi discorsi si potrebbero fare sulla chiesa, sul mercato,
sulla famiglia, sull’università ecc. Tutte le nuove tecnologie danno a queste trasformazioni un ritmo
sempre più accelerato: è un nuovo tempo che fa il suo ingresso nella storia. Al di là della perdita
delle identità politiche collettive a essere messa in discussione è anche la nostra identità come
uomini occidentali. I fattori sono tanti, e spicca sicuramente il cosiddetto “rimpicciolimento
dell’Europa”, che dopo aver conquistato il mondo ne è stata in qualche modo svuotata, ma anche la
fine del dualismo dialettico tra la coscienza del singolo e il potere – di origine antichissime, greche
ed ebraiche.
5; In biblioteca: l’informazione e la bibliografia
Chi intende condurre una ricerca storica di qualunque genere e a qualunque livello deve misurarsi
con le fonti, edite o inedite, narrative o documentarie, relative all’argomento prescelto e imparare a
costruirsi una bibliografia. Con il termine fonti si indicano in maniera generica tutte le
testimonianze, sia vicine che lontane nel tempo e nello spazio, cui lo storico riesce a risalire.
Bisogna prima di ogni altra cosa precisare che anche la presenza di tante fonti non è per forza una
garanzia di attendibilità e di riuscita, e che nella maggior parte dei casi (soprattutto per la storia più
antica) si tratta di una documentazione lacunosa, che ha subito distruzioni deliberate (per censura o
distruzione) o accidentali (per eventi bellici o naturali) o più semplicemente non curata; il lavoro
dello storico, volendo fare una metafora, è come quello di un uomo che vuole ricostruire la vita di
bordo di una nave naufragata e colata a picco di cui esistono relitti sparsi.
Le fonti possono suddividersi in: • Fonti narrative e cronachistiche; manoscritti di vario genere,
collocati di solito in biblioteche. La ricerca su questo genere di fonti è di solito facilitata da
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inventari e repertori generali. Città come Parigi, Londra, Washington ricevono per legge o per
accordo con gli editori tutte le opere pubblicate nel territorio nazionale, e curano moltissimo anche
l’aggiornamento riguardo le più significative produzioni straniere; in Italia, dove per le vicende
storiche del paese non esiste un’unica biblioteca nazionale centrale, i testi sono perlopiù divisi tra la
Biblioteca nazionale centrale di Firenze, quella di Roma e altre tra Torino, Milano e Napoli.
• Fonti documentarie; le fonti documentarie sono tutte quelle contenute negli archivi. L’archivio è
un complesso di documenti prodotti o acquisiti da un ente (che sia un ufficio privato o pubblico,
un’istituzione, anche una famiglia o una persona) nell’esercizio della propria attività. È
naturalmente abbastanza raro che i vari complessi archivistici siano giunti a noi mantenendo
inalterato l’ordinamento originario – soprattutto a causa del “passaggio” dall’antico regime all’età
napoleonica, nel quale si sono in pochissimo tempo succedute estrapolazioni e alteramenti vari. Le
situazioni sono molto differenziate, sia per quanto riguarda l’accesso al pubblico dei ricercatori sia
per lo stato della documentazione. Essendo le informazioni generali più utili agli storici di solito
inserite negli Archivi di Stato, un testo utilissimo per la ricerca è la Guida generale degli archivi di
stato, in cui sono elencati in ordine alfabetico gli archivi. Ogni voce è divisa in tre parti: la prima
descrive gli archivi di organi statali e di governo, di istituzioni e magistrature varie fino
all’unificazione (con le varie periodizzazioni); la seconda riguarda il periodo postunitario; la terza
riunisce gli archivi non statali (famiglie, corporazioni religiose ecc.). Una particolare importanza
hanno gli Archivi ecclesiastici (secolari e regolari), da quelli diocesani a quelli parrocchiali – i
cosiddetti “status animi” resi obbligatori dalla controriforma, registri di battesimi, matrimoni e
morti e ogni altro evento della sfera religiosa, utilizzati per studiare le caratteristiche demografiche
e sociali delle popolazioni. Un posto di rilievo ha anche l’Archivio segreto vaticano – il moderno
archivio della Sana Sede avviato con il concentramento degli archivi pontifici attraverso la riunione
del materiale archivistico ancora disperso e la costituzione per decisione di Paolo V di un unico
archivio centrale della Chiesa, che costituì a partire dagli inizi del Seicento il primo nucleo
dell’Archivio segreto vaticano.
Bisogna infine tenere conto di altro materiale a stampa, la cosiddetta stampa effimera: quella
destinata all’esposizione, a cui appartengono bandi, editti, ma anche avvisi, orazioni, componimenti
encomiastici, la stampa popolare e d’occasione come i pronostici, i discorsi pronunciati per
avvenimenti particolari, libretti di istruzione e devozione.
Soprattutto negli ultimi anni la diffusione di fonti storiche è resa più semplice grazie al supporto
della rete Internet, che offre un accesso remoto a materiale archivistico e bibliotecario. Molti
strumenti di informazione e consultazioni si presentano infatti, in alternativa alla forma stampata,
sotto forma di microformati (microfiche e microfilm) o su supporti elettronici locali (CD-rom,
floppy) o remoti (accesso diretto alla rete Internet). Il pregio più rivelante di queste tecniche è
ovviamente la possibilità di aggiornamento in tempo reale, anche se comunque manca ancora quasi
del tutto l’automazione per i cataloghi storici, ossia il trasferimento dal supporto cartaceo a quello
virtuale.
Il lavoro di ricerca storica quindi è soprattutto concentrato ancora nelle biblioteche, che contengono
strumenti bibliografici per lo studio e la ricerca relativi a qualsiasi materia e argomento. Pur nella
varietà di qualità e quantità del patrimonio bibliografico, i testi presenti in sala di consultazione
dovrebbero comunque consentire ad ogni studioso di storia di acquisire una primissima
informazione e di compilare una prima bibliografia su determinati argomenti (fatti, luoghi,
personaggi) o su determinati autori. Si tratta di un lavoro non facile, complicato soprattutto dal fatto
che non esiste un repertorio bibliografico internazionale esaustivo che segnali, anno dopo anno,
tutte le pubblicazioni e quindi non può essere mai effettuata una completa ricognizione dei materiali
utili agli studi – esistono solo censimenti parziali, settoriali. Nemmeno il ricorso a banche di dati
elettroniche ha finora garantito quel requisito di completezza desiderato. Gli strumenti di cui lo
storico deve servirsi, per qualunque genere di lavoro, sono:
• Le opere di carattere generale; nella fase iniziale bisogna usare soprattutto opere che permettono
un inquadramento generale del tema scelto, per farsi un’idea dei problemi da porsi, delle analisi e
delle connessioni, e delimitare meglio l’oggetto della ricerca e l’ambito dell’indagine. Il contributo
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più recente in lingua italiana è l’opera La storia. I grandi problemi dal medioevo all’età
contemporanea (10 volumi, di cui tre – dal terzo al quinto – sono dedicati all’età moderna). Si può
ovviamente ricorrere anche a opere meno generali, opere di sintesi su periodi storici specifici o
monografici su determinati problemi o personaggi. Ad un ulteriore livello di approfondimento ci
sono le storie nazionali, come ad esempio sull’Italia, che ne ripercorrono le vicende e i diversi
aspetti socioeconomici, o addirittura delle città d’Italia;
• Enciclopedie e dizionari; enciclopedie e dizionari sono utili ovviamente in relazione ad
approfondimenti e voci molto specifiche. Al di là della pura questione del significato lessicale,
esistono anche dizionari di tipo biografico: per l’Italia è tutt’ora in corso il Dizionario biografico
degli Italiani; dal 1960 al 1998 sono stati pubblicati 50 volumi, fino alla voce “Gabbi”, con voci
anche di personaggi di origine italiana ma attivi fuori dall’Italia, oppure stranieri che hanno preso
parte alla vita politica e culturale italiana;
• Bibliografie e repertori bibliografici; Sono entrambi elenchi di ciò (libri e/o articoli) che è stato
pubblicato su un determinato autore o su un determinato argomento: ma hanno delle differenze sia
strutturali che finalistiche. Un repertorio bibliografico è uno strumento che in genere copre una
intera disciplina, un intero ambito di interesse o parti specifiche di essi. Può contenere solo
monografie (libri), solo articoli o entrambi. Una volta erano soltanto a stampa (o su microforms):
ora sono anche su supporto elettronico (banche dati bibliografiche). Una bibliografia è un elenco
molto piu' limitato e selettivo e in genere
costituisce l’apparato di supporto ad una specifica pubblicazione (un saggio, un articolo, una tesi...).
Il repertorio bibliografico è dunque un elenco ampio e aperto, in continuo aggiornamento (solo
raramente concluso e chiuso) che è utile a costruire la bibliografia di base per una ricerca;
• Periodici; a seconda della ricerca e del periodo, può essere più o meno importante la
consultazione di riviste storiche. Si tratta di pubblicazioni perlopiù specializzate, che escono con
periodicità variabile, dove spesso sono previste anche rubriche di segnalazioni bibliografiche più o
meno strutturate e anche cronache di iniziative scientifiche e culturali. In ambito locale esistono le
deputazioni e società di storia patria, spesso di lunga tradizione, che hanno proprie pubblicazioni
periodiche, come ad esempio l’Archivio storico italiano (Firenze, dal 1842);
• Sussidi vari; vocabolari speciali (per i termini di latino medioevale, su terminologie specifiche
come quella giuridica o ancora semplicemente vocabolari costruiti in ottica diacronica), atlanti
geografici e storici e altri testi per approfondimenti in settori molto specifici.
La scheda bibliografica La scheda bibliografica è un valido strumento che consente la raccolta
ordinata di informazioni bibliografiche e di dati archivistici, e facilita la loro sistematizzazione
secondo criteri prestabilisti, per ordine alfabetico, gerarchie di importanza, parole chiave ecc. In
teoria, a ogni libro o manoscritto o documento dovrebbe essere dedicata una scheda apposita, utile
per identificare l’opera che si vuole consultare. Nel caso di monografie l’intestazione della scheda
deve indicare per ogni libro l’autore (cognome+nome) o gli autori, nel caso di più di tre autori si
indica soltanto il titolo oppure il primo autore seguito dall’espressione “et al.”; se l’opera è
anonima, va intestata direttamente al titolo (ovviamente completo di eventuale sottotitolo). Devono
essere contenuti anche i dati editoriali (luogo di pubblicazione in lingua originale, editore, data di
pubblicazione) specificando nel caso di edizione successiva alla prima, sia la data della prima
edizione sia quella delle successive. Se si tratta di una raccolta di saggi che ha uno (o più curatori)
va riportata prima o dopo il titolo l’indicazione dello studioso (o degli studiosi) che hanno curato
l’esposizione, con la locuzione “a cura di”. Per gli articoli di rivista o periodici l’indicazione
bibliografica deve riportare (oltre autore e titolo) anche la testata del periodico, il numero del
volume che contiene l’articolo, l’annata corrispondente, l’eventuale serie e numero del fascicolo e
le pagini iniziali e finali entro cui l’articolo è compreso. La scheda bibliografica può eventualmente
contenere indicazioni utili al reperimento dell’opera, quindi la sigla della biblioteca o delle
biblioteche in cui l’opera è disponibile e la segnatura di collocazione.

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