Sei sulla pagina 1di 14

La prassi del giurisdizionalismo negli Stati italiani

ISBN 978-88-548-8599-8
DOI 10.4399/97888548859983
pag. 51–63 (settembre 2015)

Vescovi e città in età comunale (secoli XII–XIII)


M R

Ringrazio gli amici Daniele Edigati e Lorenzo Tanzini per avermi


proposto di contribuire con il primo saggio di questo volume: un
onore che, più che dalle mie personali competenze, ritengo motivato
dall’idea che il tema dei rapporti fra Comune e vescovo nei secoli XII
e XIII possa fornire alle discussioni di questo volume, se non proprio
il punto di partenza, un riferimento utile, benché lontano nel tempo
rispetto al « giurisdizionalismo » di età tardomedievale e moderna.
Quando, all’inizio del secolo XIII, vi furono vescovi che uscirono
dalla città dopo avere scagliato l’interdetto su di essa e la scomunica
sui reggitori del Comune, una siffatta, traumatica separazione fra la
civitas e la sua ecclesia vescovile sembrò mettere in discussione un
assetto che risaliva addirittura al tardoantico e, nei secoli seguenti, era
stato progressivamente caricato di significati certo non prevedibili al
momento dell’impianto delle sedi vescovili nelle città . D’altronde,
come è ben noto, gli episodi di quel genere furono relativamente rari,
e soprattutto si risolsero nel giro di qualche mese (o al più di qualche
anno). Più che sotto il segno del conflitto, i rapporti fra Comune e
vescovo si svolsero infatti sotto quello della “compresenza”; e tale
situazione “normale” fu il risultato di processi dipanatisi in modi e
tempi diversi a seconda della città, e perciò assai difficili da sintetizzare
e generalizzare in qualche frase. Al riguardo, il tentativo più lucido e
suggestivo resta quello operato da Giovanni Tabacco in una lezione
trentina del , pubblicata nel  in calce al volume che diede più
larga diffusione e risonanza all’interpretazione del Medioevo italiano

. Questo contributo conserva il carattere “cursorio” della relazione esposta al conve-


gno, con un apparato di note ridotto all’essenziale. Per un primo inquadramento è molto
utile il volume di taglio didattico di M. P, Vescovi e città. Una relazione nel Medioevo
italiano, Bruno Mondadori, Milano .


 Mauro Ronzani

elaborata dall’autore per la « Storia d’Italia Einaudi » . Non mi sembra


inutile partire da un riepilogo puntuale dei nodi argomentativi di
questo denso saggio.
Riferendosi proprio all’esempio di Bergamo, e in particolare al noto
diploma con il quale, nel , il re Berengario I assegnò alla Chiesa ve-
scovile bergamasca — e al vescovo che la presiedeva in quel momento
— il « potere pubblico nella città », Tabacco notò che in questa e in
altre concessioni simili dei secoli X e XI, « il potere viene inserito nella
sfera patrimoniale dell’ente [. . . ]: donde, nella formula di immunità,
l’introduzione della città in parallelo con i fondi ecclesiastici » . Egli
aggiunse subito, però, che una tale connotazione puramente spaziale
e “materiale” della urbs non poteva « mutare » gli abitanti stabili di essa,
i cives (che nel diploma del  erano anzi definiti, significativamente,
concives del presule), « in una pertinenza patrimoniale », giacché la
« potestà » assegnata al vescovo « conservava, nel suo trasferimento
dalla res publica alle res ecclesiae, la peculiarità di un rapporto con uo-
mini compiutamente liberi, non di rado garantiti nella loro libertà
individuale di azione da un possesso di beni in allodio » . Non ne
risultò perciò una sottomissione, ma piuttosto una « simbiosi diversa,
in cui l’orizzonte culturale della città, come centro di interessi di uo-
mini liberi, spontaneamente sollecitava la Chiesa vescovile a ritrovare
nella sua propria tradizione culturale l’idea di un governo esercita-
to al servizio di uomini liberi e in collaborazione con essi » . Tale
situazione vigeva ancora « quando fra XI e XII secolo spontaneamente
si andarono enucleando organi cittadini funzionanti con crescente
stabilità, secondo norme loro proprie, estranee all’apparato del vesco-
vo » . In « quella prima fase comunale », d’altronde, « la città, quando
si atteggiava a res publica, non già intendeva ancora qualificarsi come
una sorta di città–stato, operante nel quadro inerte del regno, bensì

. G. T, La sintesi istituzionale di vescovo e città in Italia e il suo superamento nella


res publica comunale, in I., Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano, Einaudi,
Torino , pp. –.
. Cfr. I diplomi di Berengario I, a cura di L. Schiaparelli, ISIME, Roma , p. , nr.
.
. G. T, La sintesi istituzionale, cit., p. .
. Ivi, p. .
. Ivi, p. .
. Ivi, p. .
Vescovi e città in età comunale (secoli XII–XIII) 

affermare la propria esistenza come momento locale, espresso da for-


ze locali, di un ordinamento pubblico culminante razionalmente nel
regno » ; e « la Chiesa vescovile venne, sì, utilizzata come istituzione
robustamente riconosciuta, in molti episodi di sistemazione politica e
di espansione territoriale del primo comune, ma fu simultaneamente
via via esautorata nell’esercizio del potere politico–giurisdizionale, a
favore di organi concettualmente inquadrabili nel regno inteso come
schietta res publica » .
Come si vede, la riflessione di Tabacco si svolge soprattutto su
un piano storico–culturale; ma non mi sembra arbitrario tradurla
in termini più strettamente istituzionali, notando che nella seconda
metà del secolo XII si arrivò appunto, sia pure in modi assai diversi
(basti pensare alle differenze fra la « Langobardia » e la « Tuscia ») al
riconoscimento imperiale del godimento dei regalia da parte della
cittadinanza organizzata in corpo politico (e identificata di preferenza
con il termine, carico di reminiscenze antiche, di populus). Ciò che
forse si potrebbe aggiungere qui al ragionamento di Tabacco, è che
tale riconoscimento — culminato ovviamente con la pace di Costanza
— non pose in alcun modo fine all’attitudine dell’Impero a rapportarsi
con le sedi vescovili e i relativi presuli, in tanto in quanto le prime e i
secondi continuavano ad essere considerati gli interlocutori ordinari
del potere imperiale allorché esso voleva rivolgersi alle singole città.
Questo doppio collegamento di ogni città con il potere imperiale —
attraverso la comunità dei cives da una parte e la sede vescovile dall’altra
— poteva essere un fattore di equilibrio, tale cioè da permettere una
“compresenza” sostanzialmente pacifica delle due entità.
Non nego che nel dire queste cose ho in mente soprattutto il “mio”
esempio pisano, quello che credo di conoscere un po’ meno male
degli altri. Esso, fra l’altro, consente di uscire dall’ambito lombardo
privilegiato dalle riflessioni di Tabacco (e prima di lui da quelle di
Gerhard Dilcher) . A Pisa, come in buona parte della Toscana, non vi

. Ivi, p. .
. Ivi, p. .
. G. D, Bischof und Stadtverfassung in Oberitalien, in « Zeitschrift der Savigny–
Stiftung für Rechtsgeschichte. Germanistische Abteilung »,  (), pp. –: Id., Die
Entstehung der lombardischen Stadtkommune. Eine rechtsgeschichtliche Untersuchung, Aalen
. Questi lavori sono stati ripresi con grande finezza da L. F, Vescovi, città e signorie
(secc. VIII ex.–XV), in Chiesa e società. Appunti per una storia delle diocesi lombarde, a cura di A.
 Mauro Ronzani

furono nei secoli X e XI concessioni imperiali di potere pubblico alla


sede vescovile, perché esso era esercitato regolarmente dal marchese
di Tuscia. Il potenziamento del ruolo di coordinamento politico cit-
tadino del presule fu provocato (nel penultimo decennio del secolo
XI) dalla crisi dell’autorità di Matilde, e quindi accettato dalla stessa
marchesa all’inizio del secolo XII, con il presupposto di una regolare
collaborazione con il populus. Ma se Enrico IV, nelle particolari cir-
costanze del , aveva accettato di elargire sostanziose concessioni
ai cives per guadagnarsene il sostegno, Enrico V e i suoi immediati
successori considerarono la sede vescovile (divenuta nel , e poi
stabilmente dal , sede arcivescovile) come il proprio interlocutore
normale: nel  fu ad essa (guidata allora dal presule Baldovino) che
Corrado III riconobbe la proprietà dei diritti pubblici di amministra-
zione della giustizia e prelievo fiscale (placitum et fodrum) su alcuni
importanti castelli del comitatus, che fino alla morte di Matilde erano
rimasti nelle mani della Marca. Con Federico I, come è noto, cambia-
rono molte cose, e il  aprile  l’imperatore « diede e concesse a
titolo di feudo » al console Lamberto e agli altri ambasciatori pisani re-
catisi da lui a Pavia, e « riceventi a nome della civitas, tutto quel che dei
beni del regno la civitas stessa o ogni sua persona già aveva o deteneva,
e tutto quel che apparteneva al regno e all’impero per via della Marca
o in qualunque altro modo [. . . ] o era appartenuto da trenta anni o
sarebbe appartenuto in futuro nella civitas pisana e nel suo districtus,
sulla terraferma e sulle isole » . Peraltro, il contesto politico generale
in cui questo diploma fu emanato tramontò con l’estate . Alla fine
del decennio successivo, dopo che la pace di Venezia ebbe chiuso gli
ultimi strascichi dello scisma papale apertosi nel , il Barbarossa non
ebbe difficoltà a concedere tre diplomi di conferma di beni e diritti alla
facies ecclesiastica della città, ossia alla sede arcivescovile, al Capitolo
della cattedrale e all’Opera del Duomo, come organo dipendente
dall’arcivescovato (nonostante che i Brevia consulum, ossia le formule

Caprioli, A. Rimoldi e L. Vaccaro, La Scuola, Brescia , pp. –.


. Mi permetto di rinviare al mio saggio L’affermazione dei Comuni cittadini fra impero e
papato: Pisa e Lucca da Enrico IV al Barbarossa (–), in Poteri centrali e autonomie nella
Toscana medievale e moderna, a cura di G. Pinto e L. Tanzini, Olschki, Firenze , pp. –.
Il diploma federiciano si legge in Die Urkunden Friedrichs I. –, a cura di H. Appelt
(MGH, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, X/), Hannover , nr. , pp. –:
.
Vescovi e città in età comunale (secoli XII–XIII) 

del giuramento d’ingresso del nuovo collegio consolare, redatti nel


 e nel , avessero cominciato a rivendicare al Comune l’autorità
di controllarne l’amministrazione) .
Certo, l’arcivescovo Ubaldo che ricevette l’imperatore in città nel
gennaio  (e lo ospitò nel palazzo arcivescovile) non era più il Benin-
casa, che lo aveva accolto alla fine di agosto del , fresco di elezione
da parte dei consoli (che non avevano esitato ad « espellere » dalla città
Villano, l’arcivescovo in ufficio sin dal , rimasto incrollabilmente
fedele ad Alessandro III) e consacrato da Pasquale III. Se, negli anni ’,
Pisa poté ritenere che le proprie ambizioni di egemonia sulla Sardegna
si sarebbero realizzate grazie alla concessione dell’Isola « in feudo »
ricevuta dall’imperatore, nel  era di nuovo ben chiaro che esse
dipendevano dalle prerogative di « primazia » e « legazia » assegnate
alla sede arcivescovile cittadina dal papato (anche perché Alessandro III
fu così lungimirante da confermarle immediatamente, ampliandole
addirittura rispetto al passato, al successore “legittimo” di Villano, co-
me a premiare i Pisani per aver lasciato cadere l’opzione « scismatica »
del ) .
Nel caso di Pisa (come anche di Genova, e naturalmente di Milano),
si può ben dire, insomma, che già nel secolo XII l’ecclesia arcivescovile
cittadina, oltre ad essere tradizionalmente protetta dall’Impero, poteva
vantare un legame diretto con la sede apostolica, che ne rafforzava
molto la posizione rispetto al Comune, in tanto in quanto il più alto
grado di attribuzioni ecclesiastiche che esso assicurava era considerato
di grande valore e utilità anche dalla collettività organizzata dei cives .
Questo spiega, forse, perché in queste città la brusca interruzione della
capacità di “presa” dell’Impero determinata dalla morte prematura di

. Die Urkunden Friedrichs I. –, a cura di H. Appelt (MGH, Diplomata regum et
imperatorum Germaniae, X/), Hannover , nr. –, pp. –. Cfr. I Brevi dei consoli
del Comune di Pisa degli anni  e , a cura di O. Banti, ISIME, Roma , pp.  e .
. Su Villano si veda M. L. C L, Un presule tra politica comunale e fedeltà
pontificia. Villano, arcivescovo di Pisa (–), in Päpste, Privilegien, Provinzen. Beiträge zur
Kirchen–, Rechts– und Landesgeschichte. Festschrift für Werner Maleczek zum . Geburtstag, hg.
von J. Gießauf, R. Murauer und M. P. Schennach, Wien–München , pp. –. Per il
privilegio concesso da Alessandro III al nuovo arcivescovo Ubaldo l’ aprile : Italia
pontificia, III, a cura di P. F. Kehr, Berlino , p. , nr. .
. Riprendo qui osservazioni già fatte in Vescovo e città nell’Italia comunale del Duecento:
qualche riflessione, in Il vescovo, la Chiesa e la città di Reggio in età comunale, a cura di L. Paolini,
Patron, Bologna , pp. –: –.
 Mauro Ronzani

Enrico VI non portò gli scossoni e i veri e propri conflitti riscontrabili


in altre situazioni, soprattutto a nord degli Appennini.
Tuttavia, almeno a Pisa, qualcosa di nuovo successe. Colpisce, in-
fatti, che già pochi anni dopo il , ossia intorno al passaggio di
secolo, un podestà (di estrazione cittadina) si arrogasse l’autorità di
nominare e insediare il nuovo capo dell’Opera del Duomo (chiamato
a Pisa, allora come oggi, l’« Operaio »), recidendo così i legami che
ancora univano l’ente alla sede arcivescovile cittadina. Si aprì allora
una controversia, che si mantenne — a quanto sembra — sui binari
del confronto dialettico fra le rispettive ragioni, sfociando in un arbi-
trato affidato a due giurisperiti laici, « electi concorditer » dal presule
Ubaldo « pro pisano archiepiscopatu » e dal podestà Gerardo Cortevec-
chia « pro pisano Comuni ». Il  aprile , gli arbitri respinsero la
richiesta della parte arcivescovile di invalidare l’elezione dell’Operaio
in carica, e quindi riconobbero la liceità della prassi instauratasi da
qualche anno . A Pisa, la “comunalizzazione” dell’Opera del Duomo
fu dunque cosa fatta già all’inizio del Duecento, anche se il succes-
sore di Ubaldo (morto poco dopo la sentenza del  aprile), ossia il
Lotario inviato a Pisa da Innocenzo III, intenzionato a sottoporre le
sedi vescovili toscane ad un controllo simile a quello messo in atto
in Lombardia e nella Marca veronese–trevigiana, cercò di riaprire la
questione, approfittando anche — la cosa è per noi significativa — del
momentaneo “vuoto di governo” verificatosi in città nel  .
Nella Genova studiata in modo davvero esemplare da Valeria Polo-
nio, un segnale vistoso di rottura dell’equilibrio instauratosi nel secolo
XII si avverte nel , in relazione ai diritti temporali goduti dalla
sede arcivescovile cittadina su Sanremo: « al culmine della contesa il
podestà congela tutti gli introiti della cattedra provenienti dalla parte
civile; il presule lascia Genova, su cui scaglia l’interdetto ». Il conflitto
si chiuse qualche tempo dopo, « con soddisfazione della parte eccle-
siastica »; ma, secondo la studiosa, « il segnale non lascia dubbi: sono
finiti i tempi in cui l’autorità laica vedeva nella sede vescovile una
sfaccettatura della propria esistenza e anche una propria utile espres-

. La sentenza è edita in appendice al mio saggio Dall’edificatio ecclesiae all’« Opera
di S. Maria »: nascita e primi sviluppi di un’istituzione nella Pisa dei secoli XI e XII, in Opera.
Carattere e ruolo delle fabbriche cittadine fino all’inizio dell’età moderna, a cura di M. Haines e
L. Riccetti, Olschki, Firenze , pp. –.
. M. R, Vescovo e città, cit., p. .
Vescovi e città in età comunale (secoli XII–XIII) 

sione; ora mal si sopporta ciò che può apparire una concorrenza e una
limitazione ai propri interessi e prerogative » .
Come vedremo fra poco, il conflitto genovese del  fu tutt’altro
che isolato, giacché negli stessi anni altri simili si presentarono in
diverse città; si può dire, anzi, che nella prima metà del secolo XIII i
diritti “pubblici” detenuti dai vescovi su terre e castelli del territorio
costituirono il principale motivo di scontro fra Comune e chiesa
vescovile.
Prima di arrivarvi, mi piace però riprendere l’esempio di Bergamo,
perché il conflitto che qui oppose fra il  e il  il Comune e
il vescovo Lanfranco, documentato da alcune lettere di Innocenzo
III, ha di recente attirato l’attenzione degli studiosi, i quali vi hanno
dedicato osservazioni molto utili per il mio discorso. In particolare,
Dario Galli ha efficacemente riepilogato la situazione di fine XII se-
colo, in cui i tradizionali legami fra la sede vescovile bergamasca e
l’Impero erano ancora pienamente operanti. Così, « il vescovo Guala
non solo fu a Costanza in rappresentanza della città alla stipulazione
definitiva degli accordi di pace, ma se ne tornò con un privilegio che
confermava tutte le concessioni fatte dal Barbarossa nel  al vescovo
Gerardo e che riguardavano « omnes districtiones et publicas func-
tiones Pergamensis civitatis et villarum et castellorum »; come se,
cioè, per Bergamo quanto disposto dallo stesso Federico I e dal figlio
Enrico in favore delle città dei « Lombardi » e della loro Societas non
dovesse modificare in nulla lo status precedente. Lanfranco, succeduto
a Guala nel , fu molto legato a Enrico VI, che nel  gli affidò
un vero e proprio “missatico”, sia pure limitato, almeno inizialmente,
ad un triennio. La morte di Enrico privò bruscamente Lanfranco
della “copertura” imperiale; e quando, all’inizio del nuovo secolo, il
Comune introdusse un prelievo fiscale generalizzato sui patrimoni
ecclesiastici della città e della diocesi, il presule, non riuscendo a farsi
ascoltare dai reggitori, decise di rivolgersi a Innocenzo III, le cui lette-

. V. P, Tra universalismo e localismo: costruzione di un sistema (–), in Il


cammino della chiesa genovese dalle origini ai nostri giorni, a cura di D. Puncuh, Società ligure
di storia patria, Genova  (= « Atti della Società ligure di storia patria », n. s., XXXIX/),
pp. –), distribuito gratuitamente in formato digitale da www.retimedievali.it (ivi, p.
).
. D. G, Lanfranco di Bergamo: un vescovo tra due capitoli (–), in Il difficile
mestiere di vescovo, Cierre, Sommacampagna (Vr) , pp. –: p. .
 Mauro Ronzani

re, come dicevo, sono una fonte d’informazioni tanto preziosa quanto,
inevitabilmente, “tendenziosa”. Colpisce, ad esempio, l’insistenza del
pontefice sulla decisione dei magistrati civili di installare « communes
latrinas » proprio « accanto alle pareti della chiesa bergamasca » e « nel
cimitero »: un atto volutamente “sacrilego”, impensabile persino per
i Saraceni (come lo dipinge il papa), oppure un modo per rivendicare
la competenza comunale sugli spazi circostanti l’ecclesia, secondo un
ordine di idee non lontano da quello che ispirò l’atteggiamento del
Comune pisano riguardo all’Opera del Duomo?
In ogni caso, sembra chiaro che a Bergamo (come pure in altre
città lombarde) il duro e prolungato conflitto d’inizio Duecento fu
condizionato da due fattori: l’evidente “squilibrio” di legittimazio-
ne “pubblica” fra sede vescovile e Comune, mantenutosi per tutto
il secolo XII; e la nuova politica “interventista” attuata, soprattutto
in Lombardia, da Innocenzo III, che sottopose i vescovi ad un con-
trollo assai più stretto che nel passato, e ne accentuò la dipendenza
nei confronti della sede apostolica, sì da limitarne alquanto la libertà
d’azione. Così, dopo lunghi anni di conflitti (e di « interdetto » sulla
città), per accettare l’accordo proposto dal comune il vescovo Lanfran-
co ebbe bisogno dell’autorizzazione papale, che giunse nell’aprile .
Secondo Maria Pia Alberzoni, « diversi motivi indussero il pontefice
ad acconsentire a una soluzione probabilmente di compromesso pur
di terminare la questione: oltre agli oramai critici rapporti con Ottone
IV, già scomunicato e teso a mantenere il tradizionale consenso nell’I-
talia padana, non può essere sottovalutata sia la capacità di resistenza
mostrata dalle città colpite da così gravi sanzioni ecclesiastiche, che
permise nella sostanza di vanificare gli sforzi del papato, sia precedenti
esperienze negative nella politica intrapresa da Innocenzo III e dalla
curia a difesa della libertas ecclesiastica nell’Italia settentrionale, dove,
nel frattempo, si erano verificati altri casi analoghi » .

. « Preterea, ut ecclesia sepenominata fieret opprobrium hominum et abiectio plebis


et, que domus orationis fuerat, in sterquilinium verteretur, iuxta parietes eius in cimiterio
communes posuere latrinas [. . . ]. Non sic in ecclesias et loca religiosa deseviunt Sarraceni »:
Die Register Innozenz’ III, VI, a cura di O. Hageneder e A. Sommerlechner, Wien , nr.
, p. ; ampio esame della contesa in M. P. A, Innocenzo III e la difesa della
libertas ecclesiastica nei comuni dell’Italia settentrionale, ora in E., Città, vescovi e papato
nella Lombardia dei Comuni, Interlinea, Novara , pp. –: pp. –.
. Ivi, pp. –.
Vescovi e città in età comunale (secoli XII–XIII) 

Tornando in Toscana, è facile notare che anche qui i contrasti più


acuti e clamorosi fra Comune e vescovo avvennero laddove l’equi-
librio di potere stabilitosi nel secolo XII si rivelò improvvisamente
inadeguato e soprattutto immodificabile per vie diverse da quelle di
fatto. Lasciando da parte il caso particolare di Volterra (oggetto negli
ultimi tempi di ricerche innovative che daranno presto i loro frutti) ,
ben conosciuto e studiato è quello di Pistoia. Dopo che Federico I,
nel maggio , riconobbe la sede vescovile pistoiese come unica
legittima detentrice dei beni e diritti che fino al  erano appartenuti
ai conti Cadolingi e, per il Barbarossa, erano sempre rimasti beni
“pubblici”, di cui solo l’Impero poteva disporre , il legame privile-
giato fra l’Impero e il vescovato pistoiese di S. Zeno rimase operante
fino alla fine del secolo, di modo che l’ambito territoriale d’azione
riconosciuto alla civitas fu inteso come una sorta di enclave, racchiusa
fra i castelli vescovili (e quelli di altre famiglie comitali radicate nel ter-
ritorio pistoiese, come i Guidi e gli Alberti). D’altra parte, per la città
divenne ad un certo momento essenziale poter varcare il Montalbano,
e raggiungere così, attraverso Fucecchio, il Valdarno inferiore, via na-
turale di comunicazione verso Pisa e il mare. Quei luoghi erano stati
un tempo uno dei nuclei principali della potenza dei Cadolingi e ora,
almeno sui due versanti del Montalbano, erano nelle mani della sede
vescovile. Non appena questa si trovò priva della protezione assicurata
da Enrico VI, il Comune avviò una vera e propria offensiva, diretta a a
sottoporre le « terre » vescovili di Montemagno, Lamporecchio e Celle
alla stessa condizione giuridica vigente nel ristretto districtus cittadino.
Che all’inizio del Duecento i tempi fossero ormai cambiati, dimostra
il fatto che Ottone IV, pur confermando la tradizionale protezione im-
periale sui beni del vescovato pistoiese, accettò di rilasciare un diploma
anche al Comune (cosa che né Federico I né Enrico VI avevano mai
fatto). Il Comune si sentì così legittimato (almeno implicitamente) ad

. Segnalo intanto il saggio di S. M. C, Il principato vescovile di Volterra nel XII
secolo (in base ad alcune deposizioni testimoniali dell’ottobre ), in Studi di storia e archeologia
in onore di Maria Luisa Ceccarelli Lemut, a cura di M. Baldassarri e S. M. Collavini, Pacini,
Pisa , pp. –.
. Cfr. Die Urkunden Friedrichs I. –, nr. , pp. –. Per quanto segue mi
permetto di rinviare al mio saggio Lo sviluppo istituzionale di Pistoia alla luce dei rapporti
con il Papato e l’Impero fra la fine del secolo XI e l’inizio del Duecento, in La Pistoia comunale nel
contesto toscano ed europeo (secoli XIII–XIV), a cura di P. Gualtieri, Pistoia , pp. –.
 Mauro Ronzani

estendere oltre le quattro miglia del districtus federiciano i diritti di


prelievo fiscale e di amministrazione della giustizia. Il conflitto vero e
proprio scoppiò verso il  e fu contrassegnato, tipicamente, dalla
scomunica comminata dal vescovo contro il podestà e il suo consiglio;
ma ciò non poté impedire che si giungesse alla soluzione voluta dal
Comune, ed espressa plasticamente dalle parole pronunciate da un
testimone davanti al vescovo di Firenze (incaricato da Onorio III di
esaminare la denuncia fattagli pervenire dal presule pistoiese). Secon-
do il testimone, a Lamporecchio (castello del versante occidentale del
Montalbano) già da tempo « episcopus amasciat homines, sed civitas
punit maleficia »: come a dire che, se al vescovo spettavano i diritti del
proprietario fondiario (fra i quali quello di « amasciare », cioè installare
i capifamiglia nelle singole unità di coltivazione e nelle relative case
d’abitazione, riscuotendone la « entratura »), la « giurisdizione » vera
e propria era ormai nelle mani del Comune, e gli uomini di Lam-
porecchio obbedivano a questo « come facevano gli altri abitanti del
comitatus » .
Non si trattava di un esito scontato. A Firenze, ad esempio, il Co-
mune riconobbe e difese i poteri pubblici detenuti dal vescovato cit-
tadino su alcuni castelli del territorio, fra i quali Borgo S. Lorenzo
e S. Casciano. Eloquente, al riguardo, un’annotazione trasmessaci
dal « Bullettone », ossia il cartulario duecentesco in cui fu regestata la
documentazione relativa al patrimonio del vescovato di S. Giovanni.
Essa ricorda come il podestà di Firenze eletto per l’anno , Rolando
Rossi da Parma, subito dopo aver ricevuto il « regimen civitatis, iuravit
ad sancta dey evangelia, sibi prestito iuramento a domino Ardin-
gho episcopo florentino, et promisit eidem conservare ecclesiasticam
libertatem et homines et personas episcopatus » .

. Ivi, pp. –; si veda altresì G. F, “Episcopus amasciat homines, set civitas
punit maleficia”. Conflitti di potere e strategie insediative a Lamporecchio tra XII e XIII secolo, in
« Bullettino storico pistoiese », CVII (), pp.–, e ora anche in I., Districtus civitatis
Pistorii. Strutture e trasformazioni del potere in un contado toscano (secoli XI–XIII), Società
storica Pistoiese, Pistoia , pp. –.
. Cfr. Documenti dell’antica costituzione del Comune di Firenze, a cura di P. Santini, I,
Firenze , p. . Lo studio di riferimento è quello di A. B, Un vescovo, una
città: Ardingo nella Firenze del primo Duecento, ora in Ead., Pastori di popolo: storie e leggende di
vescovi e di città nell’Italia medievale, Arnaud, Firenze , pp. –: cfr. le osservazioni
di pp. –. Io però non interpreterei il passo della fonte in cui è menzionato il vescovo,
come se egli avesse pronunciato a sua volta un giuramento per riconoscere al podestà « la
Vescovi e città in età comunale (secoli XII–XIII) 

Nel secondo decennio del Duecento, la giurisdizione vescovile su


vari castelli del territorio fu fortemente contestata anche a Parma.
Come per Pistoia, ci è rimasto un ricco dossier di deposizioni testimo-
niali (egregiamente studiato nel dettaglio da Olivier Guyotjeannin) ;
ma ancor più interessante, almeno per me, è che alla fine fra le parti
si raggiunse un accordo (concordia et compositio), il cui dettato è par-
ticolarmente utile sia per cogliere le ragioni del contendere, sia per
vedere quel che ciascuno dei contendenti era disposto a concedere
alla controparte. Si nota, così, che i reggitori del Comune non eb-
bero difficoltà a lasciare al vescovo Opizzo (in ufficio sin dal !) i
diritti di tipo “comitale” che egli continuava a detenere sulla civitas
(e consistevano essenzialmente in due cose: l’autorità di « investire »
del governo cittadino il podestà o i consoli che via via entravano in
carica, e la competenza giuridica sui minorenni) . Al vescovo fu, altre-
sì, esplicitamente riconosciuta « iurisdictionem clericorum et ecclesie
et ecclesiasticarum personarum », con l’annullamento contestuale di
tutte le norme emanate negli ultimi tempi dal Comune « de clericis
et ecclesiasticis personis vel spiritualibus rebus contra ecclesiasticam
personam et libertatem ecclesiae » . In compenso, il presule accettò
che la civitas esercitasse sulle « terre » di proprietà vescovile « tutti » i
diritti e i poteri che aveva « in terris quae ad episcopum non pertine-
bant », con la sola eccezione (ancorché parziale) dei castelli montani
di Rigoso, Corniglio, Agrimonte e Mossale . A risarcimento di tale
realtà dell’assoggettamento dell’episcopio alle necessità del comune fiorentino » (ivi, p. 
con n.  di p. ), ma lo tradurrei semplicemente così: (il podestà) « giurò la formula di
giuramento sottopostagli dal signor Ardingo vescovo fiorentino ».
. O. G, Conflits de juridiction et exercise de la justice à Parme et dans son
territoire d’après une equête de , in « Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen–
age, Temps modernes »,  (), pp. – (ora anche distribuito gratuitamente
in formato digitale da www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/mefr_–
__num___).
. « Potestas, sive consules, recipiant investituram infra XV dies de regimine civitatis
postquam intraverint, sicuti antiquitus consueverunt. [. . . ] Emancipationes, curationes
generales minorum, dationes tutorum, interpositiones decreti in alienationibus rerum
pupillorum et productiones testium ad aeternam memoriam recipiendorum, et creationes
tabellionum dimittent episcopo, nec impedient, neque amodo de eis se intromittent ». Il
testo della concordia et compositio parmense del  ci è giunto inserito nello Statuto del
: cfr. Statuta communis Parmae digesta anno MCCLV, a cura di A. Ronchini, Fiaccadori,
Parma , pp.–: p. .
. Ivi, p. .
. Ibid.
 Mauro Ronzani

pressoché completa sottrazione dei diritti giurisdizionali e fiscali, il


Comune si dichiarò disposto a versare al vescovo « medietatem om-
nium proventuum placitorum et bannorum [. . . ] de quibuscumque
hominibus terrarum suarum, quacumque occasione ipsos banniet et
puniet civitas vel alii pro civitate »; ma fu prospettata anche la possibili-
tà di non procedere per versamenti singoli, bensì pagare una somma
forfettaria, una sorta di indennizzo una tantum, quantificato in .
lire imperiali, « de quibus [episcopus] teneatur emere terram in episco-
patu Parmae » . Come si vede, una volta riconosciuto il principio che,
salvo limitate eccezioni, gli homines delle « terre » di proprietà vescovi-
le erano sottoposti alla giurisdizione del Comune, quest’ultimo non
aveva motivo di opporsi ad un ulteriore accrescimento del patrimonio
fondiario del vescovato, e anzi probabilente lo auspicava, in quanto la
sede vescovile, radicata da sempre in città e dunque espressione costi-
tutiva di essa, era un proprietario con il quale si poteva interloquire
più facilmente che con altri (segnatamente le grandi famiglie signorili
del territorio).
La concordia et compositio stipulata a Parma nel  (e giuntaci
all’interno dello statuto comunale del ) sembra dunque prefigu-
rare una situazione in cui il vescovo, pur restando — formalmente —
depositario di un’autorità pubblica di derivazione imperiale in città,
rinuncia quasi del tutto ad esercitare la stessa autorità nell’ambito
extraurbano, mantenendo però la proprietà di intere « terre » (ossia
centri incastellati), da cui poteva trarre ingenti redditi in termini di
canoni fondiari e affitti immobiliari. Non bisogna ovviamente cedere
alla tentazione di sopravvalutare questo documento. In esso, nondime-
no, troviamo messe “nero su bianco” tanto l’accettazione della libertas
Ecclesiae da parte del Comune, quanto il riconoscimento vescovile
dell’assoluta liceità dell’aspirazione di questo ad esercitare per intero
il potere pubblico nel territorio esterno alla civitas .
Accanto ai conflitti, nel primo Duecento vi furono dunque occasio-
ni di composizione regolata e “pattuita” delle controversie fra Comune
e vescovo. È proprio su questo tipo di testimonianze che, a mio parere,

. Ivi, p. .


. Un utile contributo è stato apportato sulla questione da E. P, Comune e Vescovo
tra XII e XIII secolo: i casi di Parma e Modena, tesi di laurea magistrale, Università degli Studi
di Pisa, a.a. /, rel. prof. M. Ronzani; i principali risultati ivi raggiunti saranno presto
pubblicati.
Vescovi e città in età comunale (secoli XII–XIII) 

dovrebbero essere indirizzate di preferenza le ricerche future, al fine


di precisare sempre meglio i modi concreti in cui la organizzazione
politica della civitas e il vescovo seppero individuare i confini fra le
rispettive sfere di competenza, adeguando il portato della tradizione
agli scenari imprevedibili dell’attualità.

Potrebbero piacerti anche