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LA VOCAZIONE DI MOSÈ

Esodo 3-4

Bibliografia

P. ROTA SCALABRINI, «Il Dio dell’Esodo», in P.L. FERRARI (a cura di) Il libro dell’Esodo,
Editrice Messaggero, Padova 2012, pp. 64-72.

P. VOGHERA, «Un roveto di fuoco (Es 3,1-6)», in P.L. FERRARI (a cura di), Il libro dell’Esodo,
Editrice Messaggero, Padova 2012, pp. 64-72.

B. N. WAMBACQ, «ʼehcyeh ʼašer ʼehcyeh», in Biblica 59 (1978) 317-338.

A.S. VAN DER WOUDE, šem (nome), in E. JENNI - C. WESTERMANN, Dizionario teologico
dell’Antico Testamento, vol. II, Casale Monferrato 1982, 845-869.

R. VIGNOLO, «Io sono nel Vangelo di Giovanni», in P.L. FERRARI (a cura di), Il libro
dell’Esodo, Editrice Messaggero, Padova 2012, pp. 299-303.

F. DALLA VECCHIA, «LA MISSIONE DI MOSÈ (ES 3.1-4-17)», P.L. FERRARI (a cura di), Il libro
dell’Esodo, Editrice Messaggero, Padova 2012, pp. 72-78.

P.L. FERRARI, voce «Fuoco», in Dizionario Biblico della Vocazione, Ed Rogate, Roma 2007,
pp. 338-346.

G. DE VIRGILIO, voce «Vocazione/ », in Dizionario Biblico della Vocazione, Ed Rogate,


Roma 2007, pp. 987-1005.

Si può dire che tutto ciò che precede questo capitolo abbia in un certo modo preparato
questo incontro decisivo di Mosè con Dio, che in questo contesto rivelerà il suo nome con il
tiolo di JHWH - Signore. La scena si svolge ai piedi del monte Sinai o Horeb: mentre le fonti
Jahvista (J) e Sacerdotale (P) usano il nome Sinai, quelle Elohista (E) e Deuteronomista (D)
usano il nome Horeb. Quest’ultima parola in ebraico significa «arido». Per i redattori del
Pentateuco i due nomi Sinai-Oreb finiscono per identificarsi. Per questo nella redazione
definitiva del libro dell’Esodo, quella che noi leggiamo, i due nomi sono ambedue presenti e
si inter-scambiano.
La scena rivela due dimensioni: da un lato essa mostra in che modo Dio manifesta la
propria preoccupazione per tutto il suo popolo, dall’altro presenta la chiamata di un solo uomo
– Mosè - perché se ne faccia carico e per dare a lui l’investitura come suo inviato e
rappresentante. Come avviene spesso nella Bibbia, un uomo solo viene svelto per una missione
in favore di tutti. Prima di intraprendere la sua missione Mosè è chiamato a fare un cammino
personale di scoperta di Dio e di se stesso. Egli non conosce ancora i suoi padri perché ormai
è lontano dal loro tempo; soprattutto non conosce il loro Dio.
Dal punto di vista del genere letterario, si tratta, secondo gli specialisti, di un «racconto
di vocazione». Quando sì parla di genere letterario o modello narrativo bisogna distinguere tra
«schema astratto» e «modello concreto». L’arte del narratore è la capacità dì utilizzare tutte le
possibilità dello schema astratto e di adattarlo al modello concreto creando di volta in volta un

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racconto. Per questo, nella Bibbia, ci sono diversi racconti di vocazione costruiti su un unico
modello ma con molte varianti creative. Pensiamo alla vocazione del giudice Gedeone (Gdc
6,11-24); alla vocazione di Isaia (Is 6,11-24); alla vocazione di Geremia (Ger 1,4-10), alla
vocazione di Ezechiele (Ez 2,1-3,11); alla vocazione di Maria (Luca 1,26-38). Una funzione
importante del «racconto di vocazione» è quella di legittimare o autenticare l’attività di colui
che è inviato da Dio, il soggetto che riceve da lui una missione. Da questi racconti possiamo
ricavare uno schema astratto. Ecco gli elementi essenziali:
1. introduzione qui vi sono le maggiori variazioni, secondo i contesti.
2. missione per una liberazione, per la profezia, per una salvezza.
3. obiezione consapevolezza della propria incapacità/impossibilità.
4. risposta Dio accompagna la vocazione con dei segni.
5. conclusione anche qui vi sono maggiori varianti secondo il contesto.

Nel caso di Es 3-4 la variante più importante è questa: abbiamo ben 5 obiezioni e
altrettante risposte da parte di Dio. In dettaglio abbiamo:

Richiesta: Perciò va'! Io ti mando dal faraone (3,10)


obiezione 1 Chi sono io per andare dal faraone (3,11)
risposta Io sarò con te. (3,12)
obiezione 2 Mi diranno: “Qual è il suo nome?” (3,13)
risposta “Io-Sono mi ha mandato avoi” (3,14-15)

Richiesta: Riunisci gli anziani d'Israele e di' loro (3,16-22)


obiezione 3 Ecco, non mi crederanno (4,1)
risposta Il Signore gli disse: "Che cosa hai in mano?” (4,2-9)
obiezione 4 “Non sono un buon parlatore (4,10)
risposta "Chi ha dato una bocca all'uomo o chi lo rende muto o sordo?” (4,11)

Richiesta: Ora va'! Io sarò con la tua bocca (4,12)


obiezione 5 "Perdona, Signore, manda chi vuoi mandare!" (4,13)
risposta Non vi è forse tuo fratello Aronne?” (4,14-17)

Accettazione Mosè partì, tornò da Ietro suo suocero e gli disse: «Lasciami andare, ti
prego: voglio tornare dai miei fratelli che sono in Egitto, per vedere se
sono ancora vivi!». Ietro rispose a Mosè: «Va’ in pace!» (4,18).

La scoperta della propria missione non avviene senza resistenza da parte di Mosè. Sono
anzi proprio le «obiezioni» che ritmano la sezione e ne determinano tutto lo sviluppo. Si tratta
di cinque obiezioni prive di un vero e proprio collegamento tra loro, ma che toccano i diversi
aspetti della missione che Dio intende affidargli. L’obiezione vuole dimostrare e documentare
che l’inviato parla e agisce nel nome di Dio: lui non voleva parlare né compiere questa azione
straordinaria. Ha obiettato perché la sua volontà era ben diversa. Dunque i motivi che

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guideranno la sua missione non sono
l’ambizione, l’interesse o qualche inclina-
zione della propria natura. Le 5 obiezioni
di Mosè autenticano in modo particolare
la sua missione.

Il mosaico riprodotto qui a fianco fa parte delle


stupende storie bibliche raffigurate nei mosaici
della Basilica di San Vitale a Ravenna. Rappre-
senta l’incontro di Mosè con il Signore al roveto
ardente. Il nome senéh, tradotto roveto, è un
cespuglio caratteristico della zona desertica
della penisola sinaitica che, sotto il sole cocente,
può anche prendere fuoco.
Nella figura Mosè è colto nell’atto di spogliare
i sandali: presentarsi in un luogo sacro a piedi
nudi è segno di rispetto e riverenza, come
avviene ancor oggi nelle moschee musulmane.
Il sacro esprime sempre una separazione.
L’uomo è attratto dal sacro, ne è come
affascinato; ma, al tempo stesso, consapevole
della propria indegnità e fragilità, ne è come
respinto (Mosè si copre il volto). Questa teoria
è stata sviluppata dall’antropologo Rudolf Otto
che definisce il sacro «fascinans et tremendum».

La composizione della scena


1
Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse
il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. 2L’angelo del Signore gli apparve
in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il
fuoco, ma quel roveto non si consumava.
3
Mosè pensò: "Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non
brucia?". 4Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: "Mosè,
Mosè!". Rispose: "Eccomi!". 5Riprese: "Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché
il luogo sul quale tu stai è suolo santo!". 6E disse: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo,
il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe". Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare
verso Dio. 7Il Signore disse: "Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto»

Per una corretta comprensione di questo racconto di vocazione è importante


decodificare alcuni simboli, qui usati intenzionalmente dal redattore e capaci di offrirci
interessanti chiavi di lettura. Osserviamo tutti i particolari di questo testo mettendo in evidenza
soprattutto alcune immagini simboliche.
1) Mosè pastore. Significa che Mosè vive ora come i patriarchi. È un ritorno alle origini,
situazione che lo prepara a incontrare il Dio dei suoi padri. Questo contesto pastorale sarà
richiamato anche a proposito dell’unzione di Davide a re d’Israele (1Sam 7,8).

2) Il deserto. È un luogo dove la vita è impossibile. Solo una potenza come quella di
Dio rende la vita possibile in un tale luogo (Is 35,6-7; 41,18; 43,20; 44,3). Perciò il deserto è
il luogo ideale per l’incontro con Dio, la sua nudità è il luogo per sperimentare il nulla e il
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La tradizione cristiana, a partire dal IV
secolo d.C., ha voluto identificare il
monte Sinai-Oreb con una delle cime che
sono nella zona montuosa a sud della
penisola del Sinai, quella chiamata in
arabo Gebel Musa, o Monte di Mosè, ai
cui piedi fu costruito il monastero si Santa
Caterina, che esiste ed è attivo ancor oggi.

tutto (“todo y nada” di San Giovanni della Croce). Se c’è vita è per pura grazia e dono: ecco
perché il deserto costituisce il contesto ideale per «la nuova creazione» e per la «tentazione»
(dedicheremo più avanti una apposita riflessione sul tema del «deserto»).
3) La montagna. È il luogo dove la terra orizzontale si eleva in un movimento
ascensionale per lambire il cielo che sembra attrarla. È un simbolo costante in quasi tutte le
religioni. Dio darà la legge a Mosè sulla montagna (Es 19-23); Elia, in fuga dalla persecuzione
di Gezabele, ha un singolare incontro con Jhwh sulla montagna (1Re 19,8ss); su una montagna
ideale Gesù pronuncia le beatitudini e dà la nuova legge (Mt 5-7); sul monte avviene la
trasfigurazione (Mc 9,2-8 e passi paralleli). Il nostro racconto qualifica la montagna dove
avviene l’incontro di Dio con Mosè come «il monte di Dio», il monte per eccellenza, e la
denomina «Horeb».
4) Il fuoco. In tutte le religioni, per le sue caratteristiche di luce, di calore, di
inaccessibilità, il fuoco è segno della presenza divina. È simbolo di trasformazione: il fuoco
trasforma tutto ciò che tocca in fuoco o in materia diversa da quella iniziale (vedi l’articolo di
P.L Ferrari, Il fuoco, citato nella bibliografia. Qui il fuoco brucia ma non consuma: è una
immagine dell’azione di Dio che incontra in Mosè il passato e il futuro di Israele. Dio brucia
Mosè-Israele non per distruggerli, ma trasformarli, cioè per farli passare dal loro passato al
futuro di Dio. Questo effetto del bruciare senza consumarsi è legato ad un roveto (in ebraico
seneh) che indica un arbusto spinoso (nome scientifico: «cassia obovata»). La sua
denominazione ebraica ha dato probabilmente il nome al “Sinai”.

5) I sandali. L’ordine di Dio di togliere i sandali esprime il significato che la Bibbia


attribuisce alla santità del luogo dove Dio si manifesta. Questa presenza della santità che
caratterizza il luogo visitato da Dio non è prodotto di una cultura primitiva, ma l’espressione
di un fortissimo senso della trascendenza divina. Togliendo i sandali Mosè riconosce di non
essere «padrone» in questo luogo: Dio lo ammette a una comunicazione con Lui, ma rimane
inaccessibile. La sua santità è comunione, ma anche separazione e trascendenza. Anche più
avanti nel libro dell’Esodo si racconta che Dio scende verso il suo popolo, ma il popolo deve
osservare un distacco (Es 19,12ss) e anche Mosè, che pure è il confidente di Dio, deve tenersi
a debita distanza (Es 33,18-23). Quando si annulla l’alterità si rischia di annullare l’altro nel
suo mistero. Ecco il punto: la distanza, l’alterità ha a che fare con il mistero: il mistero di Dio

139
e il mistero dell’uomo, come spiega il filosofo ebreo Emmanuel Levinas: «la tentazione
dell’uomo è di annullare la distanza per inglobare l’altro, mentre è virtuoso riconoscere che
l’altro in quanto altro esiste prima di ogni mia iniziativa e di ogni mio potere. La distanza è
l’unica condizione nella quale si dà comunione. La comunione non ci consente di disporre
dell’altro a nostro piacimento ma è relazione dialogica».

Gli elementi fondanti della vocazione di Mosè


Mosè è inviato al suo popolo per inserirsi da protagonista nella sua vicenda di schiavitù
e di liberazione. Suo compito sarà testimoniare la risposta divina e farla accogliere. Come già
abbiamo fatto per i primi due capitoli propongo una chiave di lettura di questo episodio basata
su una analisi del vocabolario o meglio dei «campi semantici».

A. Il campo semantico del «vedere» (3,1-9)


«Gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto
ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. 3Mosè pensò: "Voglio avvicinarmi a
osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?". 4Il Signore vide che si era
avvicinato per guardare […] Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare
verso Dio. 7Il Signore disse: "Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto»

Trattandosi di una teofania – cioè di una manifestazione sensibile del divino - non
meraviglia che, sotto il profilo letterario l’elemento di spicco sia costituito dal campo
semantico del «vedere». Incontriamo la radice verbale r’h = vedere per ben 9 volte con tutte
le possibili variazioni e la radice verbale nbt = guardare, assai più forte del semplice vedere.
Agli occhi di Mosè appare uno «spettacolo» (lett. = una visione, meglio un «farsi vedere», nel
senso che Dio gli si mostra); Mosè vede Dio; Dio vede che Mosè lo vede; Mosè si copre il volto
per non vedere; Dio dice di aver visto la condizione degli Ebrei. Mosè ha la faccia coperta,
d’ora in poi deve vedere con gli occhi di Dio.
Il movimento del brano porta alla duplice rivelazione di Dio, di fronte alla quale il
precedente vedere di Mosè diventa paura di contemplare. Mosè si copre il volto: tipico gesto
dell’uomo che viene a trovarsi davanti a Dio (1Re 19,13), riconosce di imbattersi nella frontiera
della morte e della vita: «l’uomo non può vedere Dio e restare in vita» (Es 33,20.23; Gen 33,31;
Giud 13,22; Is 6,5). Mosè capisce di non essere più lui padrone della sua vita e della sua morte.

B. Il campo semantico della «missione» (3,10-20)

«Dice la voce dal roveto: Ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue
sofferenze. 8Sono sceso per liberarlo dal potere dell'Egitto e per farlo salire da questa terra verso
una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si
trovano il Cananeo, l'Ittita, l'Amorreo, il Perizzita, l'Eveo, il Gebuseo. 9Ecco, il grido degli
Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto come gli Egiziani li opprimono. 10Perciò va'! Io
ti mando dal faraone. Fa' uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!". 11Mosè disse a Dio:
"Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall'Egitto?". 12Rispose: "Io sarò
con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo
dall'Egitto, servirete Dio su questo monte". 16Va'! Riunisci gli anziani d'Israele e di' loro: "Il
Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, mi è apparso per dirmi:

140
Sono venuto a visitarvi e vedere ciò che viene fatto a voi in Egitto. 17E ho detto: Vi farò salire
dalla umiliazione dell'Egitto verso la terra del Cananeo, dell'Ittita, dell'Amorreo, del Perizzita,
dell'Eveo e del Gebuseo, verso una terra dove scorrono latte e miele". 18Essi ascolteranno la tua
voce, e tu e gli anziani d'Israele andrete dal re d'Egitto e gli direte: "Il Signore, Dio degli Ebrei,
si è presentato a noi. Ci sia permesso di andare nel deserto, a tre giorni di cammino, per fare un
sacrificio al Signore, nostro Dio". 19Io so che il re d'Egitto non vi permetterà di partire, se non
con l'intervento di una mano forte. 20Stenderò dunque la mano e colpirò l'Egitto con tutti i
prodigi che opererò in mezzo ad esso, dopo di che egli vi lascerà andare.

In questo passo i verbi predominanti sono di movimento: andare (x 6), inviare (x 7),
entrare (x 2), far salire (x l), far uscire (3x). Il vocabolario esprime le varie tappe e i vari
protagonisti della missione: il movimento parte da Dio («sono sceso!»), Mosè deve far suo
questo movimento («và!») e finalmente esso diventerà il movimento del popolo («per farlo
uscire»). È il movimento di tutto l’Esodo: Dio - Mosè - Israele, che sarà fatto uscire dall’Egitto
e fatto salire verso la terra di Canaan. Dio cerca di conquistare Mosè con il suo disegno: il suo
piano di salvezza deve diventare il piano di Mosè. Per questo Mosè resiste: comprende che
questo disegno lo trascende.

C. Il campo semantico della “credibilità” (4,1-9)


«1Mosè replicò dicendo: "Ecco, non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce, ma
diranno: "Non ti è apparso il Signore!"". 2Il Signore gli disse: "Che cosa hai in mano?". Rispose:
"Un bastone". 3Riprese: "Gettalo a terra!". Lo gettò a terra e il bastone diventò un serpente,
davanti al quale Mosè si mise a fuggire. 4Il Signore disse a Mosè: "Stendi la mano e prendilo
per la coda!". Stese la mano, lo prese e diventò di nuovo un bastone nella sua mano. 5"Questo
perché credano che ti è apparso il Signore, Dio dei loro padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco,
Dio di Giacobbe". 6Il Signore gli disse ancora: "Introduci la mano nel seno!". Egli si mise in
seno la mano e poi la ritirò: ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve.
7
Egli disse: "Rimetti la mano nel seno!". Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata
come il resto della sua carne. 8"Dunque se non ti credono e non danno retta alla voce del primo
segno, crederanno alla voce del secondo! 9Se non crederanno neppure a questi due segni e non
daranno ascolto alla tua voce, prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l'acqua
che avrai preso dal Nilo diventerà sangue sulla terra asciutta".
In questi versetti le parole-chiave sono «credere» (x 4), «ascoltare la voce» (x 3),
«segno» (x 3). Mosè si preoccupa di sapere come la sua missione sarà accolta. Non si sente
«credibile» per svolgere un incarico tanto grande. Per questo Dio gli dà poteri speciali, «segni»
che dimostrano che la sua missione ha un’origine divina.

141
Il bastone trasformato in serpente.
Miniatura sec XIV,
Mancester, John Ryland library.

Nel capitolo precedente alla


domanda di Mosè: «Chi sono io per
andare dal faraone e per far uscire gli
israeliti dall’Egitto?» (3,11-12), Dio
aveva risposto con due verbi al
futuro: «Io sarò con te», cioè
l’assicurazione che egli non avrebbe
lasciato solo il suo inviato a svolgere
la sua missione; e «Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire questo
popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte». Ora, in questo nuovo passo Dio dà a Mosè
alcuni segni di credibilità, cioè lo abilita a compiere alcuni gesti che sono il contrassegno stesso
di Dio. Mosè diviene un altro personaggio, dotato di poteri nuovi. Il significato simbolico di
questi gesti è chiaro: ora il potere di Dio diventa il potere di Mosè.
Bastone e serpente: il serpente è il simbolo del caos delle origini, delle forze nascoste,
degli istinti, delle energie ambivalenti non ancora controllate e organizzate dalla libertà. Il
bastone è segno di potere, di autorità, di ciò che trasforma il «caos» in un cosmos ordinato, è
segno della libertà che organizza l’universo e gli dà «senso». Con la facoltà di trasformare il
bastone in serpente e viceversa Mosè riceve un potere speciale sul mondo creato.
La lebbra: il lebbroso è escluso dalla comunità, dal mondo della vita; deve persino
osservare i riti del lutto come se fosse morto civilmente (Lev 13,45-46). Mosè riceve il potere,
che è proprio di Dio, di far diventare lebbrosi e di guarire, cioè di passare dal mondo dei vivi
al mondo dei morti e viceversa.
Il sangue. Nella trasformazione dell’acqua in sangue ricorre lo stesso simbolismo.
Versare acqua nella terra è rito di fertilità e di vita; versare sangue nella terra (come aveva fatto
Caino) significa togliere la vita; nel caso di Mosè, l’acqua che entra nella terra e diventa sangue
significa il potere di restituire la vita al mondo dei morti.
Il potere che Mosè riceve in questo episodio è una prerogativa che appartiene soltanto
a Dio e che Dio concede al suo inviato. Questo stesso potere sarà manifestato attraverso le
cosiddette «piaghe d’Egitto»: è un potere sul cosmo, sulla natura, sulla vita umana, sul ciclo
della vita e della morte.

D. Il campo semantico del «parlare» (4,10-17)


10
Mosè disse al Signore: "Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono stato
né ieri né ieri l'altro e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono
impacciato di bocca e di lingua". 11Il Signore replicò: "Chi ha dato una bocca all'uomo o chi

142
lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non
sono forse io, il Signore? 12Ora va'! Io sarò con
la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai
dire". 13Mosè disse: "Perdona, Signore, manda
chi vuoi mandare!". 14Allora la collera del
Signore si accese contro Mosè e gli disse: "Non
vi è forse tuo fratello Aronne, il levita? Io so che
lui sa parlare bene. Anzi, sta venendoti incontro.
Ti vedrà e gioirà in cuor suo. 15Tu gli parlerai e
porrai le parole sulla sua bocca e io sarò con la
tua e la sua bocca e vi insegnerò quello che
dovrete fare. 16Parlerà lui al popolo per te: egli
sarà la tua bocca e tu farai per lui le veci di Dio.
17
Terrai in mano questo bastone: con esso tu
compirai i segni".

Aronne (a destra) e Mosè. Guazzo di M. Chagall

I poteri che Dio gli conferisce non convincono ancora Mosè. Egli perciò pone a Dio
un’ulteriore obiezione: «Non sono un buon parlatore» (4,10). In questi versetti le parole-chiave
sono «parlare» (x 6), «parola» (x 2), «bocca» (x 7), «lingua», «muto», «sordo» (x l). Alla
obiezione di Mosè, Dio risponde secondo l’usuale modello profetico: garantisce una assistenza
indirizzata specificamente all’organo della parola, cosi che l’abilità oratoria di Mosè sarà il
risultato dell’assistenza divina. Questa tematica è essenziale per il racconto: Mosè sarà infatti
l’uomo della parola. La sua bocca sarà la sua sola arma e la sua autorità sarà quella di proferire
una parola che è la parola stessa di Dio. Questo lo rassicura in questi tetmini: «Io sarò con la
tua bocca e metterò sulla tua lingua quello che devi dire» (v. 12). Mosè davvero, in tutta la
vicenda dell’esodo e di quarant’anni di cammino nel deserto, dovrà fare le veci di Dio. Come
farà in seguito con i profeti (cf. le vocazioni di Isaia, Is 6, di Geremia, Ger 1, di Ezechiele, Ez
2) Dio prende possesso del linguaggio di Mosè. Quando egli parlerà o insegnerà, la sua parola
sarà la Parola di Dio.

Dio risolve questo ultimo problema di Mosè anche con un’altra modalità: gli associa
il fratello Aronne (4,14-16), che rappresenta il sacerdozio. Al momen-to della redazione finale
dell’Esodo, uno dei ruoli più importanti del sacerdozio levitico era relativo all’insegnamento
della Torah, quindi una funzione del «parlare».

143
LA RIVELAZIONE DEL NOME DI DIO
Esodo 3,13-15

Bibliografia

B. RENAUD, «Mosè e il monoteismo», in Il Mondo della Bibbia 27, ElleDiCi Leumann (To)
1995, 14-15;
B. LANG, «Jhwh soltanto! Origine e configurazione del monoteismo biblico», in Concilium
21,1 (1985), 63-74.

All’interno del racconto della vocazione di Mosè, il redattore inserisce il celebre passo
sulla rivelazione del «nome divino». Si tratta della risposta alla seconda obiezione di Mosè:
«Ecco, io arrivo dagli Israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi
diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?» (3,13). Alla base della domanda di
Mosè sta la concezione tipica dell’Antico Vicino Oriente circa l’efficacia del nome divino. Ma
qui l’accento è posto sulla «garanzia» della missione: Quale garanzia Mosè chiede è conoscere
il nome di Colui che lo ha inviato.

Questo è il mio nome per sempre (3,13-15)


13
Mosè disse a Dio: "Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: "Il Dio dei vostri padri mi ha
mandato a voi". Mi diranno: "Qual è il suo nome?". E io che cosa risponderò loro?". 14Dio disse
a Mosè: "Io sono colui che sono!". E aggiunse: "Così dirai agli Israeliti: "Io-Sono mi ha
mandato a voi"". 15Dio disse ancora a Mosè: "Dirai agli Israeliti: "Il Signore, Dio dei vostri
padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi". Questo è il mio
nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione.

I nomi più ricorrenti nella Bibbia ebraica per indicare la divinità sono
fondamentalmente due: ‘Elohȋm e JHWH. Ve ne sono altri, ma sono utilizzati in misura minore
e come titoli. Concentriamo l’attenzione sui due principali distinguendo la questione filologica
dalla questione teologica.

1) ‘Elohȋm ricorre 2.600 volte nella Bibbia ebraica e, nella forma semplificata ‘El 240
volte. Questo duplice appellativo, con cui Israele parla della divinità e si rivolge ad essa, ha
una valenza di universalità e serve a indicare «Dio» in maniera generica, il proprio Dio e il Dio
degli altri popoli. Quando nelle nostre Bibbie tradotte nelle lingue moderne incontriamo la
denominazione Dio (sia esso il Dio di Israele oppure il Dio/gli dei di altri popoli) dobbiamo
pensare che all’origine, nella lingua ebraica dell’Antico Testamento, vi sia la parola ‘Elohȋm.
Possiamo aggiungere che ‘Elohȋm equivale a Deus latino, Theos greco, Allah arabo, Dio
italiano, Dios spagnolo, Dieu francese, God inglese ecc.

2) JHWH è invece il nome proprio che Dio ha rivelato


a Mosè. Come le divinità di altri popoli si chiamano
Zeus, Ba’al, Atȏn, Marduk ecc., così il Dio di Israele
ha rivelato di chiamarsi JHWH. Questa parola – detta

144
anche tetragramma sacro perché composto di quattro consonanti senza vocali

JHWH - ‫יהוה‬
– ricorre 6.830 volte nell’Antico Testamento. Quando gli scribi, nella lettura del testo ebraico,
incontravano questo tetragramma, per rispetto della proibizione fatta nel secondo
comandamento, non lo pronunciavano, ma lo sostituivano con ‘Adȏnaj che significa «il mio
padrone, oppure il mio Signore, o anche Signore mio».

Quando poi la Bibbia ebraica verrà tradotta dai cosiddetti «Settanta» nel greco
ellenistico, allora tradurranno sempre il tetragramma sacro JHWH con la parola KYRIOS (=
SIGNORE), che era la tradizione greca di ‘Adȏnaj, cioè della parola che veniva pronunciata in
sostituzione di JHWH. Il termine ‘Adȏnaj, sotto il profilo grammaticale è un plurale maiestatis
del termine semitico adon, “signore”, con suffisso pronominale di 1a persona plurale, “i miei
signori”. Il termine adon, comunemente usato in ebraico per indicare relazioni interumane,
dovette essere attribuito a Dio dapprima come semplice indicatore dei suoi rapporti nei
confronti degli uomini (Dt 10,17: adon ha-adonim, “Signore dei signori”) allo stesso modo in
cui veniva attribuito a un re, a un profeta o a qualche altro personaggio preminente quando si
voleva evidenziare il suo ruolo nella società. In un secondo tempo la forma si cristallizzò
nell’uso fino a diventare un vero e proprio nome di Dio. Questo nome divino veniva sostituito
nella lettura e nella vocalizzazione del Tetragramma sacro.
A sua volta San Girolamo, quando alla fine del IV secolo tradurrà la Bibbia ebraica in
Latino – la cosiddetta Vulgata - ad uso delle Chiese cristiane di occidente, si adeguerà alla
traduzione greca e tradurrà sempre il Tetragramma sacro con Dominus (Signore). Dunque
quando nelle nostre Bibbie tradotte nella lingua italiana incontriamo la denominazione Signore
dobbiamo pensare che all’origine, nella lingua ebraica dell’Antico Testamento, vi sia la parola
JHWH. Quando invece troviamo la denominazione “Dio” dobbiamo pensare che nel testo
originale greco vi sia la parola ‘Elohȋm.

A livello filologico, JHWH viene fatto derivare dal verbo essere ebraico (hyh) con il quale
ha in comune tre consonanti. Qui non è importante la pertinenza scientifica di tale derivazione,
ma la sua portata teologica. Dio, comunicando il suo nome, lo determina come

‘eheyeh ‘asher ‘eheyeh, che significa «Io sono quel che sono» o meglio ancora «Io sarò quel
che sarò». Vedremo poco più avanti il significato teologico di questa espressione, ma
dobbiamo segnalare che l’omiletica e la catechesi cristiana hanno dato un significato un po’
riduttivo di questa espressione. Infatti, riferendosi alla traduzione greca dei Settanta, che ha
reso la frase con l’espressione “ego eimi o ȏn = Io sono l’essente, ha attribuito un significato
filosofico a questo nome, e ne ha fatto una speculazione in termini di filosofia dell’essere che
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ha avuto grande fortuna, trasferendo concetti filosofici greci su una denominazione
essenzialmente estranea a tale contesto culturale.

Cosa significa eheyeh ‘asher ‘eheyeh


Per una più corretta interpretazione dobbiamo procedere a un’analisi esegetica del v.
14, che contiene la risposta di Dio alla domanda di Mosè: «Mi diranno: come si chiama? E io
che cosa risponderò?». Dio risponde «eheyeh ‘asher ‘eheyeh» (pronuncia eié ascèr eié). Il verbo
essere è impiegato al futuro e quindi la traduzione corretta è: “Io sarò quel che sarò”. Facciamo
alcune riflessioni.

Dio nasconde il suo nome


Se qualcuno alla domanda «Come ti chiami?» rispondesse «Io sono quel che sono»
non avremo dubbi che costui non vuole rivelarci la propria identità. Tutto questo non deve
sembrare banale, ma significativo, visto che spesso nelle religioni antiche (o anche oggi?) il
nome segreto del dio serviva nelle formule magiche per ottenere dalla divinità i favori
desiderati. Ricordiamo il rifiuto di dire il proprio nome da parte del personaggio misterioso
(alla fine risulterà essere Dio!) che ha lottato nella notte con Giacobbe presso il torrente
Jabbok: «Perché mi chiedi il nome?» (Gn 32,28ss); oppure ricordiamo la risposta del visitatore
misterioso venuto ad annunciare ai genitori la futura nascita di Sansone: «Perché mi chiedi il
mio nome? Esso è misterioso» (Gdc 13,18).
La risposta, «Io sono quel che sono» è dunque solo apparentemente evasiva. Essa
ribadisce in primo luogo a Mosè che Dio non può essere manipolato dall’uomo, che rimane
irraggiungibile per l’uomo se non è lui a farsi conoscere. La frase conserva un sapore
enigmatico: anche se Dio rivela qualcosa di sé il suo nome rimarrà comunque «indisponibile».
La libertà di agire liberamente
Dall’analisi sintattica vediamo
che si tratta di una frase nella quale si
ripete - nella secondaria relativa - lo
stesso verbo, alla stessa persona, tempo e
modo della principale. Per spiegarci
meglio è una frase del tipo “Io faccio
grazia a chi voglio far grazia; uso
misericordia a chi uso misericordia, vado
dove vado ...”. Questo tipo di linguaggio
circolare, idem per idem, frequente nella
Bibbia, corrisponde a un modo di parlare
nel quale si vuole significare che si fa
liberamente una determinata azione.

Figura. Mosè parla con JHWH.


Miniatura sec. XI. nze Biblioteca Laurenziana

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Riferendoci a un testo preciso come Es 33,19: “Io faccio grazia a chi faccio grazia”, significa
“Io faccio grazia a chi ho voglia di fare grazia”.
Tornando alla nostra espressione, possiamo riassumere: il nome di Dio che viene
rivelato a Mosè indica che Dio è quello che lui vuole essere, che cioè Dio non è determinato
nel suo essere se non da se stesso, dalla sua “volontà”, dalla sua libertà. A differenza
dell’uomo, la cui libertà è sempre paradossalmente condizionata e determinata, Dio ha
esclusivamente nella sua libertà il proprio fondamento. Egli è veramente libero di essere
quello che vuole essere!

È poi necessario comprendere il significato del verbo essere in ebraico. Esso non indica
uno stato o una condizione, ma una azione, e per questo è grammaticalmente nella categoria
dei verbi «attivi» e non dei cosiddetti verbi «stativi». Il verbo essere indica quindi una presenza
fattiva. Dio si rivela allora a Mosè come Colui che è veramente attivo, a differenza degli idoli
che non sono e perciò non valgono o non possono nulla. Se il «nome» nel concetto semitico
non è un vuoto appellativo, ma la realtà stessa della persona, Dio rivela che la sua realtà
profonda è quella d’essere sempre presente con il suo popolo e di contare realmente nella sua
vita.

Un nome carico di speranza


Se poi ci riferiamo all’intero contesto del cap. 3 e in particolare al v.15, quando Dio si
auto-proclama Signore e Dio dei padri: «Dirai agli Israeliti: JHWH, il Dio dei vostri padri, il
Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi: questo è il mio nome
per sempre, questo è il titolo con il quale io sarò ricordato di generazione in generazione»,
allora si può vedere come l’auto-rivelazione di Dio fa del suo nome non è una sterile
definizione filosofica, ma una splendida promessa di impegno. E se si pensa che in ebraico il
verbo è al futuro, si può anche interpretare in questo modo l’enigmatica frase: “Io sono chi
sono”: “Io sono colui che liberamente sarà accanto a te per liberarti”.

La parte finale del v.15 trae le conseguenze teologiche della rivelazione del Nome. Esso
è tale per sempre in quanto designa una disposizione di Dio verso il popolo, disposizione che
non può mutare, perché la sua fedeltà è indefettibile. Il Nome sarà amato, celebrato, santificato
da Israele, sarà oggetto perpetuo di adorazione.

***

APPELLO PER IL NOME DI DIO


Può risultare interessante ricordare come nel 1995 un gruppo di studio ha firmato un
appello su come scrivere e pronunciare il nome rivelato di Dio. Credo sia utile portarlo a
conoscenza anche degli studenti dell’ISSR. Nell’appello si scrive tra l’altro:
«Preghiamo le Case editrici, le Redazioni di giornali e riviste di sostituire il termine
«JAHWEH» (offensivo per gli Ebrei che considerano impronunciabile il nome di Dio)
con il tetragramma «JHWH». J (jod) H (he) W (waw) H (he) sono le consonanti che
indicano il nome di Dio nel testo biblico ebraico. Nel caso in cui si debba parlare del

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nome di Dio, consigliamo di sostituire il tetragramma con la parola «Signore», come già
fatto dalla traduzione greca dei Settanta, nella traduzione latina della Volgata di
Girolamo, e come si trova in ogni aggiornata traduzione della Bibbia ... Tale uso si è
mantenuto senza interruzione, fino alla lettura ebraica in uso fino ad oggi ...».
L’appello è firmato da intellettuali e Professori cattolici, protestanti ed ebrei: Sofia
Cavalletti; Ari Crollius sj; Paolo De Benedetti; Tommaso Federici; Alessandro Galluzzi;
Edward Kaczgnok o.p.; Roger Le Déaut s.p.p.; Jorge Mejfa; Reinhard Neudecker sj; Clemente
Riva; Pietro Rossano; Lea S'estieri; Alberto Soggin; Giuseppe Sorani; Bartolomeo Sorge sj;
Elio Toaff.

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