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Esodo 3-4
Bibliografia
P. ROTA SCALABRINI, «Il Dio dell’Esodo», in P.L. FERRARI (a cura di) Il libro dell’Esodo,
Editrice Messaggero, Padova 2012, pp. 64-72.
P. VOGHERA, «Un roveto di fuoco (Es 3,1-6)», in P.L. FERRARI (a cura di), Il libro dell’Esodo,
Editrice Messaggero, Padova 2012, pp. 64-72.
A.S. VAN DER WOUDE, šem (nome), in E. JENNI - C. WESTERMANN, Dizionario teologico
dell’Antico Testamento, vol. II, Casale Monferrato 1982, 845-869.
R. VIGNOLO, «Io sono nel Vangelo di Giovanni», in P.L. FERRARI (a cura di), Il libro
dell’Esodo, Editrice Messaggero, Padova 2012, pp. 299-303.
F. DALLA VECCHIA, «LA MISSIONE DI MOSÈ (ES 3.1-4-17)», P.L. FERRARI (a cura di), Il libro
dell’Esodo, Editrice Messaggero, Padova 2012, pp. 72-78.
P.L. FERRARI, voce «Fuoco», in Dizionario Biblico della Vocazione, Ed Rogate, Roma 2007,
pp. 338-346.
Si può dire che tutto ciò che precede questo capitolo abbia in un certo modo preparato
questo incontro decisivo di Mosè con Dio, che in questo contesto rivelerà il suo nome con il
tiolo di JHWH - Signore. La scena si svolge ai piedi del monte Sinai o Horeb: mentre le fonti
Jahvista (J) e Sacerdotale (P) usano il nome Sinai, quelle Elohista (E) e Deuteronomista (D)
usano il nome Horeb. Quest’ultima parola in ebraico significa «arido». Per i redattori del
Pentateuco i due nomi Sinai-Oreb finiscono per identificarsi. Per questo nella redazione
definitiva del libro dell’Esodo, quella che noi leggiamo, i due nomi sono ambedue presenti e
si inter-scambiano.
La scena rivela due dimensioni: da un lato essa mostra in che modo Dio manifesta la
propria preoccupazione per tutto il suo popolo, dall’altro presenta la chiamata di un solo uomo
– Mosè - perché se ne faccia carico e per dare a lui l’investitura come suo inviato e
rappresentante. Come avviene spesso nella Bibbia, un uomo solo viene svelto per una missione
in favore di tutti. Prima di intraprendere la sua missione Mosè è chiamato a fare un cammino
personale di scoperta di Dio e di se stesso. Egli non conosce ancora i suoi padri perché ormai
è lontano dal loro tempo; soprattutto non conosce il loro Dio.
Dal punto di vista del genere letterario, si tratta, secondo gli specialisti, di un «racconto
di vocazione». Quando sì parla di genere letterario o modello narrativo bisogna distinguere tra
«schema astratto» e «modello concreto». L’arte del narratore è la capacità dì utilizzare tutte le
possibilità dello schema astratto e di adattarlo al modello concreto creando di volta in volta un
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racconto. Per questo, nella Bibbia, ci sono diversi racconti di vocazione costruiti su un unico
modello ma con molte varianti creative. Pensiamo alla vocazione del giudice Gedeone (Gdc
6,11-24); alla vocazione di Isaia (Is 6,11-24); alla vocazione di Geremia (Ger 1,4-10), alla
vocazione di Ezechiele (Ez 2,1-3,11); alla vocazione di Maria (Luca 1,26-38). Una funzione
importante del «racconto di vocazione» è quella di legittimare o autenticare l’attività di colui
che è inviato da Dio, il soggetto che riceve da lui una missione. Da questi racconti possiamo
ricavare uno schema astratto. Ecco gli elementi essenziali:
1. introduzione qui vi sono le maggiori variazioni, secondo i contesti.
2. missione per una liberazione, per la profezia, per una salvezza.
3. obiezione consapevolezza della propria incapacità/impossibilità.
4. risposta Dio accompagna la vocazione con dei segni.
5. conclusione anche qui vi sono maggiori varianti secondo il contesto.
Nel caso di Es 3-4 la variante più importante è questa: abbiamo ben 5 obiezioni e
altrettante risposte da parte di Dio. In dettaglio abbiamo:
Accettazione Mosè partì, tornò da Ietro suo suocero e gli disse: «Lasciami andare, ti
prego: voglio tornare dai miei fratelli che sono in Egitto, per vedere se
sono ancora vivi!». Ietro rispose a Mosè: «Va’ in pace!» (4,18).
La scoperta della propria missione non avviene senza resistenza da parte di Mosè. Sono
anzi proprio le «obiezioni» che ritmano la sezione e ne determinano tutto lo sviluppo. Si tratta
di cinque obiezioni prive di un vero e proprio collegamento tra loro, ma che toccano i diversi
aspetti della missione che Dio intende affidargli. L’obiezione vuole dimostrare e documentare
che l’inviato parla e agisce nel nome di Dio: lui non voleva parlare né compiere questa azione
straordinaria. Ha obiettato perché la sua volontà era ben diversa. Dunque i motivi che
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guideranno la sua missione non sono
l’ambizione, l’interesse o qualche inclina-
zione della propria natura. Le 5 obiezioni
di Mosè autenticano in modo particolare
la sua missione.
2) Il deserto. È un luogo dove la vita è impossibile. Solo una potenza come quella di
Dio rende la vita possibile in un tale luogo (Is 35,6-7; 41,18; 43,20; 44,3). Perciò il deserto è
il luogo ideale per l’incontro con Dio, la sua nudità è il luogo per sperimentare il nulla e il
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La tradizione cristiana, a partire dal IV
secolo d.C., ha voluto identificare il
monte Sinai-Oreb con una delle cime che
sono nella zona montuosa a sud della
penisola del Sinai, quella chiamata in
arabo Gebel Musa, o Monte di Mosè, ai
cui piedi fu costruito il monastero si Santa
Caterina, che esiste ed è attivo ancor oggi.
tutto (“todo y nada” di San Giovanni della Croce). Se c’è vita è per pura grazia e dono: ecco
perché il deserto costituisce il contesto ideale per «la nuova creazione» e per la «tentazione»
(dedicheremo più avanti una apposita riflessione sul tema del «deserto»).
3) La montagna. È il luogo dove la terra orizzontale si eleva in un movimento
ascensionale per lambire il cielo che sembra attrarla. È un simbolo costante in quasi tutte le
religioni. Dio darà la legge a Mosè sulla montagna (Es 19-23); Elia, in fuga dalla persecuzione
di Gezabele, ha un singolare incontro con Jhwh sulla montagna (1Re 19,8ss); su una montagna
ideale Gesù pronuncia le beatitudini e dà la nuova legge (Mt 5-7); sul monte avviene la
trasfigurazione (Mc 9,2-8 e passi paralleli). Il nostro racconto qualifica la montagna dove
avviene l’incontro di Dio con Mosè come «il monte di Dio», il monte per eccellenza, e la
denomina «Horeb».
4) Il fuoco. In tutte le religioni, per le sue caratteristiche di luce, di calore, di
inaccessibilità, il fuoco è segno della presenza divina. È simbolo di trasformazione: il fuoco
trasforma tutto ciò che tocca in fuoco o in materia diversa da quella iniziale (vedi l’articolo di
P.L Ferrari, Il fuoco, citato nella bibliografia. Qui il fuoco brucia ma non consuma: è una
immagine dell’azione di Dio che incontra in Mosè il passato e il futuro di Israele. Dio brucia
Mosè-Israele non per distruggerli, ma trasformarli, cioè per farli passare dal loro passato al
futuro di Dio. Questo effetto del bruciare senza consumarsi è legato ad un roveto (in ebraico
seneh) che indica un arbusto spinoso (nome scientifico: «cassia obovata»). La sua
denominazione ebraica ha dato probabilmente il nome al “Sinai”.
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e il mistero dell’uomo, come spiega il filosofo ebreo Emmanuel Levinas: «la tentazione
dell’uomo è di annullare la distanza per inglobare l’altro, mentre è virtuoso riconoscere che
l’altro in quanto altro esiste prima di ogni mia iniziativa e di ogni mio potere. La distanza è
l’unica condizione nella quale si dà comunione. La comunione non ci consente di disporre
dell’altro a nostro piacimento ma è relazione dialogica».
Trattandosi di una teofania – cioè di una manifestazione sensibile del divino - non
meraviglia che, sotto il profilo letterario l’elemento di spicco sia costituito dal campo
semantico del «vedere». Incontriamo la radice verbale r’h = vedere per ben 9 volte con tutte
le possibili variazioni e la radice verbale nbt = guardare, assai più forte del semplice vedere.
Agli occhi di Mosè appare uno «spettacolo» (lett. = una visione, meglio un «farsi vedere», nel
senso che Dio gli si mostra); Mosè vede Dio; Dio vede che Mosè lo vede; Mosè si copre il volto
per non vedere; Dio dice di aver visto la condizione degli Ebrei. Mosè ha la faccia coperta,
d’ora in poi deve vedere con gli occhi di Dio.
Il movimento del brano porta alla duplice rivelazione di Dio, di fronte alla quale il
precedente vedere di Mosè diventa paura di contemplare. Mosè si copre il volto: tipico gesto
dell’uomo che viene a trovarsi davanti a Dio (1Re 19,13), riconosce di imbattersi nella frontiera
della morte e della vita: «l’uomo non può vedere Dio e restare in vita» (Es 33,20.23; Gen 33,31;
Giud 13,22; Is 6,5). Mosè capisce di non essere più lui padrone della sua vita e della sua morte.
«Dice la voce dal roveto: Ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue
sofferenze. 8Sono sceso per liberarlo dal potere dell'Egitto e per farlo salire da questa terra verso
una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si
trovano il Cananeo, l'Ittita, l'Amorreo, il Perizzita, l'Eveo, il Gebuseo. 9Ecco, il grido degli
Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto come gli Egiziani li opprimono. 10Perciò va'! Io
ti mando dal faraone. Fa' uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!". 11Mosè disse a Dio:
"Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall'Egitto?". 12Rispose: "Io sarò
con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo
dall'Egitto, servirete Dio su questo monte". 16Va'! Riunisci gli anziani d'Israele e di' loro: "Il
Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, mi è apparso per dirmi:
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Sono venuto a visitarvi e vedere ciò che viene fatto a voi in Egitto. 17E ho detto: Vi farò salire
dalla umiliazione dell'Egitto verso la terra del Cananeo, dell'Ittita, dell'Amorreo, del Perizzita,
dell'Eveo e del Gebuseo, verso una terra dove scorrono latte e miele". 18Essi ascolteranno la tua
voce, e tu e gli anziani d'Israele andrete dal re d'Egitto e gli direte: "Il Signore, Dio degli Ebrei,
si è presentato a noi. Ci sia permesso di andare nel deserto, a tre giorni di cammino, per fare un
sacrificio al Signore, nostro Dio". 19Io so che il re d'Egitto non vi permetterà di partire, se non
con l'intervento di una mano forte. 20Stenderò dunque la mano e colpirò l'Egitto con tutti i
prodigi che opererò in mezzo ad esso, dopo di che egli vi lascerà andare.
In questo passo i verbi predominanti sono di movimento: andare (x 6), inviare (x 7),
entrare (x 2), far salire (x l), far uscire (3x). Il vocabolario esprime le varie tappe e i vari
protagonisti della missione: il movimento parte da Dio («sono sceso!»), Mosè deve far suo
questo movimento («và!») e finalmente esso diventerà il movimento del popolo («per farlo
uscire»). È il movimento di tutto l’Esodo: Dio - Mosè - Israele, che sarà fatto uscire dall’Egitto
e fatto salire verso la terra di Canaan. Dio cerca di conquistare Mosè con il suo disegno: il suo
piano di salvezza deve diventare il piano di Mosè. Per questo Mosè resiste: comprende che
questo disegno lo trascende.
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Il bastone trasformato in serpente.
Miniatura sec XIV,
Mancester, John Ryland library.
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lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non
sono forse io, il Signore? 12Ora va'! Io sarò con
la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai
dire". 13Mosè disse: "Perdona, Signore, manda
chi vuoi mandare!". 14Allora la collera del
Signore si accese contro Mosè e gli disse: "Non
vi è forse tuo fratello Aronne, il levita? Io so che
lui sa parlare bene. Anzi, sta venendoti incontro.
Ti vedrà e gioirà in cuor suo. 15Tu gli parlerai e
porrai le parole sulla sua bocca e io sarò con la
tua e la sua bocca e vi insegnerò quello che
dovrete fare. 16Parlerà lui al popolo per te: egli
sarà la tua bocca e tu farai per lui le veci di Dio.
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Terrai in mano questo bastone: con esso tu
compirai i segni".
I poteri che Dio gli conferisce non convincono ancora Mosè. Egli perciò pone a Dio
un’ulteriore obiezione: «Non sono un buon parlatore» (4,10). In questi versetti le parole-chiave
sono «parlare» (x 6), «parola» (x 2), «bocca» (x 7), «lingua», «muto», «sordo» (x l). Alla
obiezione di Mosè, Dio risponde secondo l’usuale modello profetico: garantisce una assistenza
indirizzata specificamente all’organo della parola, cosi che l’abilità oratoria di Mosè sarà il
risultato dell’assistenza divina. Questa tematica è essenziale per il racconto: Mosè sarà infatti
l’uomo della parola. La sua bocca sarà la sua sola arma e la sua autorità sarà quella di proferire
una parola che è la parola stessa di Dio. Questo lo rassicura in questi tetmini: «Io sarò con la
tua bocca e metterò sulla tua lingua quello che devi dire» (v. 12). Mosè davvero, in tutta la
vicenda dell’esodo e di quarant’anni di cammino nel deserto, dovrà fare le veci di Dio. Come
farà in seguito con i profeti (cf. le vocazioni di Isaia, Is 6, di Geremia, Ger 1, di Ezechiele, Ez
2) Dio prende possesso del linguaggio di Mosè. Quando egli parlerà o insegnerà, la sua parola
sarà la Parola di Dio.
Dio risolve questo ultimo problema di Mosè anche con un’altra modalità: gli associa
il fratello Aronne (4,14-16), che rappresenta il sacerdozio. Al momen-to della redazione finale
dell’Esodo, uno dei ruoli più importanti del sacerdozio levitico era relativo all’insegnamento
della Torah, quindi una funzione del «parlare».
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LA RIVELAZIONE DEL NOME DI DIO
Esodo 3,13-15
Bibliografia
B. RENAUD, «Mosè e il monoteismo», in Il Mondo della Bibbia 27, ElleDiCi Leumann (To)
1995, 14-15;
B. LANG, «Jhwh soltanto! Origine e configurazione del monoteismo biblico», in Concilium
21,1 (1985), 63-74.
All’interno del racconto della vocazione di Mosè, il redattore inserisce il celebre passo
sulla rivelazione del «nome divino». Si tratta della risposta alla seconda obiezione di Mosè:
«Ecco, io arrivo dagli Israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi
diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?» (3,13). Alla base della domanda di
Mosè sta la concezione tipica dell’Antico Vicino Oriente circa l’efficacia del nome divino. Ma
qui l’accento è posto sulla «garanzia» della missione: Quale garanzia Mosè chiede è conoscere
il nome di Colui che lo ha inviato.
I nomi più ricorrenti nella Bibbia ebraica per indicare la divinità sono
fondamentalmente due: ‘Elohȋm e JHWH. Ve ne sono altri, ma sono utilizzati in misura minore
e come titoli. Concentriamo l’attenzione sui due principali distinguendo la questione filologica
dalla questione teologica.
1) ‘Elohȋm ricorre 2.600 volte nella Bibbia ebraica e, nella forma semplificata ‘El 240
volte. Questo duplice appellativo, con cui Israele parla della divinità e si rivolge ad essa, ha
una valenza di universalità e serve a indicare «Dio» in maniera generica, il proprio Dio e il Dio
degli altri popoli. Quando nelle nostre Bibbie tradotte nelle lingue moderne incontriamo la
denominazione Dio (sia esso il Dio di Israele oppure il Dio/gli dei di altri popoli) dobbiamo
pensare che all’origine, nella lingua ebraica dell’Antico Testamento, vi sia la parola ‘Elohȋm.
Possiamo aggiungere che ‘Elohȋm equivale a Deus latino, Theos greco, Allah arabo, Dio
italiano, Dios spagnolo, Dieu francese, God inglese ecc.
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anche tetragramma sacro perché composto di quattro consonanti senza vocali
JHWH - יהוה
– ricorre 6.830 volte nell’Antico Testamento. Quando gli scribi, nella lettura del testo ebraico,
incontravano questo tetragramma, per rispetto della proibizione fatta nel secondo
comandamento, non lo pronunciavano, ma lo sostituivano con ‘Adȏnaj che significa «il mio
padrone, oppure il mio Signore, o anche Signore mio».
Quando poi la Bibbia ebraica verrà tradotta dai cosiddetti «Settanta» nel greco
ellenistico, allora tradurranno sempre il tetragramma sacro JHWH con la parola KYRIOS (=
SIGNORE), che era la tradizione greca di ‘Adȏnaj, cioè della parola che veniva pronunciata in
sostituzione di JHWH. Il termine ‘Adȏnaj, sotto il profilo grammaticale è un plurale maiestatis
del termine semitico adon, “signore”, con suffisso pronominale di 1a persona plurale, “i miei
signori”. Il termine adon, comunemente usato in ebraico per indicare relazioni interumane,
dovette essere attribuito a Dio dapprima come semplice indicatore dei suoi rapporti nei
confronti degli uomini (Dt 10,17: adon ha-adonim, “Signore dei signori”) allo stesso modo in
cui veniva attribuito a un re, a un profeta o a qualche altro personaggio preminente quando si
voleva evidenziare il suo ruolo nella società. In un secondo tempo la forma si cristallizzò
nell’uso fino a diventare un vero e proprio nome di Dio. Questo nome divino veniva sostituito
nella lettura e nella vocalizzazione del Tetragramma sacro.
A sua volta San Girolamo, quando alla fine del IV secolo tradurrà la Bibbia ebraica in
Latino – la cosiddetta Vulgata - ad uso delle Chiese cristiane di occidente, si adeguerà alla
traduzione greca e tradurrà sempre il Tetragramma sacro con Dominus (Signore). Dunque
quando nelle nostre Bibbie tradotte nella lingua italiana incontriamo la denominazione Signore
dobbiamo pensare che all’origine, nella lingua ebraica dell’Antico Testamento, vi sia la parola
JHWH. Quando invece troviamo la denominazione “Dio” dobbiamo pensare che nel testo
originale greco vi sia la parola ‘Elohȋm.
A livello filologico, JHWH viene fatto derivare dal verbo essere ebraico (hyh) con il quale
ha in comune tre consonanti. Qui non è importante la pertinenza scientifica di tale derivazione,
ma la sua portata teologica. Dio, comunicando il suo nome, lo determina come
‘eheyeh ‘asher ‘eheyeh, che significa «Io sono quel che sono» o meglio ancora «Io sarò quel
che sarò». Vedremo poco più avanti il significato teologico di questa espressione, ma
dobbiamo segnalare che l’omiletica e la catechesi cristiana hanno dato un significato un po’
riduttivo di questa espressione. Infatti, riferendosi alla traduzione greca dei Settanta, che ha
reso la frase con l’espressione “ego eimi o ȏn = Io sono l’essente, ha attribuito un significato
filosofico a questo nome, e ne ha fatto una speculazione in termini di filosofia dell’essere che
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ha avuto grande fortuna, trasferendo concetti filosofici greci su una denominazione
essenzialmente estranea a tale contesto culturale.
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Riferendoci a un testo preciso come Es 33,19: “Io faccio grazia a chi faccio grazia”, significa
“Io faccio grazia a chi ho voglia di fare grazia”.
Tornando alla nostra espressione, possiamo riassumere: il nome di Dio che viene
rivelato a Mosè indica che Dio è quello che lui vuole essere, che cioè Dio non è determinato
nel suo essere se non da se stesso, dalla sua “volontà”, dalla sua libertà. A differenza
dell’uomo, la cui libertà è sempre paradossalmente condizionata e determinata, Dio ha
esclusivamente nella sua libertà il proprio fondamento. Egli è veramente libero di essere
quello che vuole essere!
È poi necessario comprendere il significato del verbo essere in ebraico. Esso non indica
uno stato o una condizione, ma una azione, e per questo è grammaticalmente nella categoria
dei verbi «attivi» e non dei cosiddetti verbi «stativi». Il verbo essere indica quindi una presenza
fattiva. Dio si rivela allora a Mosè come Colui che è veramente attivo, a differenza degli idoli
che non sono e perciò non valgono o non possono nulla. Se il «nome» nel concetto semitico
non è un vuoto appellativo, ma la realtà stessa della persona, Dio rivela che la sua realtà
profonda è quella d’essere sempre presente con il suo popolo e di contare realmente nella sua
vita.
La parte finale del v.15 trae le conseguenze teologiche della rivelazione del Nome. Esso
è tale per sempre in quanto designa una disposizione di Dio verso il popolo, disposizione che
non può mutare, perché la sua fedeltà è indefettibile. Il Nome sarà amato, celebrato, santificato
da Israele, sarà oggetto perpetuo di adorazione.
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nome di Dio, consigliamo di sostituire il tetragramma con la parola «Signore», come già
fatto dalla traduzione greca dei Settanta, nella traduzione latina della Volgata di
Girolamo, e come si trova in ogni aggiornata traduzione della Bibbia ... Tale uso si è
mantenuto senza interruzione, fino alla lettura ebraica in uso fino ad oggi ...».
L’appello è firmato da intellettuali e Professori cattolici, protestanti ed ebrei: Sofia
Cavalletti; Ari Crollius sj; Paolo De Benedetti; Tommaso Federici; Alessandro Galluzzi;
Edward Kaczgnok o.p.; Roger Le Déaut s.p.p.; Jorge Mejfa; Reinhard Neudecker sj; Clemente
Riva; Pietro Rossano; Lea S'estieri; Alberto Soggin; Giuseppe Sorani; Bartolomeo Sorge sj;
Elio Toaff.
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