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Dallo Stato etico allo “Stato minimo”

di GIUSEPPE ROTONDO

Lo spirito anti-hegeliano del liberismo ai tempi del coronavirus

Nella sua lirica “La Ginestra” Giacomo Leopardi aveva preso atto del fatto che gli uomini
potessero unirsi in “social catena” solo comprendendo la loro strutturale infelicità ed
identificando nella natura il vero nemico dell’umanità. Certo, ad oggi, non si sa con certezza se
l’attuale emergenza covid-19 sia stata determinata artificialmente o se sia stata frutto di un
mero caso della natura. Ma si può sostenere che l’insegnamento leopardiano non abbia
attecchito più di tanto nell’immaginario comune, né soprattutto nella volontà dei principali
governi occidentali, europei in primis. La pandemia sarebbe dovuta essere una prova del nove
per le principali istituzioni europee, nazionali e sovranazionali: la vastità di una crisi senza
precedenti avrebbe dovuto condurre ad un riorientamento delle linee politiche ed economiche
degli Stati occidentali e della stessa Unione europea. Invece, i dogmi del neoliberismo si sono

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rilevati incrollabili e la situazione italiana è in tal senso più che mai emblematica: in virtù delle
“sacre formule” dello “Stato minimo” e del “laissez-fare” si è deciso di prostrare una buona parte
di popolazione, specie quella delle partite iva e della piccola impresa, costringendola ad uno
stato di indigenza. E se da una parte la destra del denaro ha rimarcato in modo chiaro e
virulento la necessità di non “statalizzare” l’economia, lasciando completamente libera
l’iniziativa privata. Dall’altro, la sinistra del capitale, ha nascosto sotto le mentite spoglie di una
congerie di propagandistiche iniziative e di decreti ministeriali, l’intento tipicamente neo-liberale
di lasciare che il corso economico funzioni da sé e che non vi sia alcun sostegno da fornire alle
imprese e ai ceti in difficoltà. E’ infatti evidente che la maggior parte dei fondi stanziati dal
governo per sostenere famiglie, imprese, lavoratori siano nient’altro che prestiti che i cittadini
dovranno ricevere da banche private, innescando una spirale del debito destinata a peggiorare
una situazione già incredibilmente grave. Inoltre buona parte dei soldi da immettere
nell’economia sarà derivata da coperture ottenute tagliando altre spese sociali, aumentando
tasse già esistenti o introducendone nuove (è recente infatti la notizia di una possibile nuova
patrimoniale). Se dunque gli interventi dell’attuale governo giallo-fucsia possono avere la
parvenza di misure di stampo sociale, in realtà dietro a questa apparente forma si nasconde
tutt’altro contenuto: vi è infatti, nella modalità in cui le manovre economiche si stanno
realizzando, quel preciso intento neo-liberista fin ora tratteggiato. D’altra parte questo intento
politico è figlio di un orizzonte ideologico-culturale ben preciso, che si fonda su una antropologia
fortemente individualistica ed atomistica e su una filosofia politica che difende la libertà
individuale, come pura libertà economica. In base all’esaltazione di quest’ultima si considera
totalitaria ed anti-democratica qualsiasi filosofia che proponga una diversa concezione della
comunità sociale e conseguentemente dell’essere umano. E’ il caso del pensiero hegeliano:
fortemente comunitario ed universalista esso si snoda sul rifiuto dei risultati disgregatori prodotti
dalla cultura illuministica, che ha nella filosofia empirista la sua massima espressione.
Dell’empirismo di Locke, Hume e Smith, Hegel rifiuta l’assolutizzazione su sé stessa della
società civile borghese, caratterizzata dal cinico egoismo dei suoi agenti sociali. Per gli empiristi
e soprattutto per Smith, non vi è alcun’altra entità che possa essere posta al di sopra del
mercato. Quest’ultimo deve essere in altri termini lasciato funzionare liberamente, perché solo
in tal modo la libertà individuale e il benessere collettivo verrebbero magicamente ad
identificarsi. Questa tesi coincide, dal punto di vista teorico, con l’ascesa della economia politica
britannica a teoria sociale di riferimento: la pretesa degli economisti inglesi, di cui Smith è
capostipite, è quella di spiegare e legittimare la società borghese capitalistica sulla base delle
sole leggi di mercato e delle teorie economiche. Ma per Hegel, se è vero che l’economia politica
abbia prodotto acquisizioni teoriche non indifferenti, è anche vero che la scienza economica
non può essere considerata il fondamento ultimo della società. Il primato dell’economico sul
politico, principio non troppo mascherato dell’economia politica, crea per Hegel “tragedie
nell’etico”, ossia contraddizioni sociali e miseria, con la concentrazione della maggior parte delle
ricchezze nelle mani di pochi. In questo senso, come teorico del primato del politico e dello
Stato sull’economico e sulla società civile, Hegel può essere considerato un pensatore
anti-liberale. Ciò però non significa che egli rifiuti l’idea della libertà individuale e negativa: anzi,
per il filosofo di Stoccarda, la proprietà privata è ad esempio un diritto inalienabile dell’individuo,
come sancito dalla Rivoluzione francese e dalla politica napoleonica. Ma è l’idea di ridurre lo
Stato ad un semplice prolungamento dell’economia assolutizzata e divinizzata ad essere
rifiutata e a costituire la linea di demarcazione tra il filosofo idealista e i fautori del liberismo.
Quest’ultima è una contrapposizione che si è pian piano sgretolata fino ad essere, nei giorni

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nostri, quasi completamente annullata, con la vittoria definitiva del liberalismo politico e del
liberismo economico e della loro idea di uno Stato minimo, perfettamente coincidente con quella
criticata a suo tempo da Hegel. Se alcune delle ragioni storiche che hanno portato alla vittoria
dell’ideologia liberal-democratica sono innegabili: basti pensare alle conseguenze disastrose
dei regimi totalitari, da ultimo quello sovietico. Vi sono però una serie di ragioni, per certi versi
anche pratiche (si pensi alle contraddizioni economiche e sociali oggi esplose oltremodo con il
coronavirus)  che dovrebbero condurre ad una sincera autocritica da parte delle elitès
attualmente al potere e della stessa opinione pubblica. E tale autocritica può essere sostenuta
anche, dal punto di vista teorico, da una ripresa della concezione hegeliana dello Stato etico,
vista non già come archetipo di un regime totalitario e poliziesco, ma come momento etico in
grado superare le contraddizioni della società, portando alla realizzazione di un’idea più
completa di libertà, intesa non esclusivamente come libertà economica: “Nel nesso simbiotico,
già codificato da Fichte, di sviluppo individuale e della comunità, diventa possibile
un’universalizzazione veramente umana, che non sia solo la caricatura mercatistica che
universalizza unicamente la forma merce, uniformando tutti gli esseri umani al solo modello
reificato del produttore e del consumatore.” [1]

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[1] Diego Fusaro, Minima Mercatalia, Bompiani, P.335

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