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Stefano Adami, Mario Baudino, Domenico Calcaterra

Gandolfo Cascio, Marco G. Ciaurro, Luciano Curreri


Angelo Favaro, Alberto Granese, Filippo La Porta
Matteo Palumbo, Renzo Paris, Aurelio Picca
Filippo Tuena, Graziano Versace

Gli archi e gli strali


Foscolo inattuale

a cura di Domenico Calcaterra


In copertina: Tommaso Minardi, Autoritratto, 1807, olio su tela, Firenze, Galleria
degli Uffizi. Fotografia: Raffaello Bencini. Crediti: Raffaello Bencini/Archivi Alinari,
Firenze. Per Concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

***

Progetto grafico e coordinamento redazionale: Raffaele Marciano.


Ufficio stampa: Davide Walter Pairone.

isbn/ean: 978-88-85803-69-5

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Premessa, di Domenico Calcaterra 7

Per cominciare

Domenico Calcaterra
«…e finché il Sole risplenderà sulle sciagure umane».
La compassione in Foscolo (quasi un’introduzione) 13

Mario Baudino
“Funzione-Foscolo” 23

Filippo La Porta
Foscolo: l’intellettuale pubblico dove tutto è (inesorabilmente)
pubblico. Miseria e nobiltà del poeta-vate: da Nievo a Gadda 33

Matteo Palumbo
Foscolo: una poesia della comunità 45

Approfondimenti

Gandolfo Cascio
Didimo «sapeva a memoria molti versi di antichi poeti» 57

Stefano Adami
Foscolo in Inghilterra. Un viaggio sentimentale 71

Angelo Favaro
«Ma un critico di questa fatta sarebbe un poeta»:
Ugo Foscolo per una teoria e critica della Letteratura 87
Marco G. Ciaurro
Il passato cambia. La semantica dell’impegno:
Foscolo, Pasolini, Magrelli 103

Alberto Granese
Lettera apologetica: Foscolo tra luci e ombre 127

Luoghi, memorie, racconti

Aurelio Picca
Ugo Foscolo, il Padre 157

Renzo Paris
L’autofiction di Ugo Foscolo 163

Filippo Tuena
Foscolo a Pavia 167

Graziano Versace
Il cimitero delle ombre 173

Foscolo oggi

Luciano Curreri intervista Guido Baldi 187


Mario Baudino

“Funzione-Foscolo”

S
erve uno sforzo di prospettiva, forse un salto mortale, per
Ugo Foscolo, dopo una bibliografia critica sterminata e
senza dubbio un certo silenzio militante che sembra averlo
abbandonato nei confini pure ampi della scuola, e dunque
di un canone accettato senza sforzo ma anche senza particolare
entusiasmo. Serve un potente anacronismo, che superi la conside-
razione per fasi storiche o di gusto, aprendo magari la forbice su
due giudizi che considereremo irriducibili l’uno all’altro, da legge-
re senza curarsi dei contesti in cui sono maturati e di tutte le ra-
gionevolissime considerazioni che in tal caso comporterebbero. E
dunque la domanda potrebbe essere ingenuamente posta in que-
sti termini: chi è oggi il poeta esaltato da De Sanctis e sbeffeggia-
to da Carlo Emilio Gadda? Che ne è della celebre definizione del
1871, quella in cui il critico napoletano lo ergeva a simbolo tutto
italiano del poeta: «Voi vi maravigliate che la gioventù italiana am-
miri Ugo Foscolo! Eh mio Dio! Ugo Foscolo non rappresenta per
noi alcun sistema politico, alcun ordine regolato d’idee. Egli è sta-
to un’espressione poetica de’ nostri più intimi sentimenti, il cuore
italiano nell’ultima sua potenza». E che ne è, parallelamente, del
“basetta” gaddiano, delle sue parodie in Accoppiamenti giudizio-
si dove il personaggio di Giuseppe Vernavaghi si consola del mal
di vivere leggendo i Sepolcri, dando modo all’autore di esibirsi in
parodie e sarcasmi sull’esule morto quarantanovenne per «cirrosi
epatica volgare» e sui debiti contratti a scapito della figlia Floriana,
fino a trasformarsi in Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poe-
sia nel verso immortale del Foscolo nell’emblema di ogni fanatico
24 Mario Baudino

e superficiale turgore, per certi aspetti antenato del “mascellone” di


Eros e Priapo, e in questo senso pienamente nel solco della condan-
na gramsciana che imputava com’è noto ai Sepolcri la fonte della
retorica «moderna», vale a dire fascista e bellicista?
Sarebbe troppo facile, oggi che rispetto ai «cuori italiani» e alla
passione risorgimentale lo scetticismo fa a gara con lo sciovinismo,
in un Paese che si sente bloccato, vecchio e soprattutto preda di un
dilagante rancore sociale, concludere che si tratta in entrambi i casi
di caricature. Perché se Foscolo non è in nessun modo il Basetta
né si può ragionevolmente ridurre al «narcisismo da torero» che
nella testimonianza di Alberto Arbasino gli rinfacciava un sempre
più iperbolico Gadda (in L’ingegnere in blu), a onta dei suoi ritratti
e autoritratti poetici, e del suo debito con Alfieri, lui sì basettone
impenitente e forse leggibile con scarsa empatia, a eccezione del-
la Vita, è ben vero che allo stesso modo non può essere più l’eroe
pubblico e politico di una gioventù «patriottica» – quella è svanita
davvero nei gorghi della storia per ripresentarsi da qualche tempo
sulla scena, semmai in una sua estrema degradazione qualunquista
e patriottarda, nella retorica sovranista e sciovinista. Ma Foscolo
resta. Resta uno di quegli ecrivains de combat che hanno segnato
il tempo, prendendo a prestito qui la definizione che fu usata per
Stendhal, autore in apparenza molto più vivo nella coscienza dei
lettori anche se tutto sommato da lui non troppo dissimile; e pure
in questo caso, per nemesi storica, un ecrivain combattente non del
tutto estraneo al genere tribunizio che pure miete successi nella no-
stra contemporanea situazione editoriale.
I due scrittori paiono agli antipodi, almeno per quanto riguarda
il loro punto di partenza, il loro porsi nei confronti della letteratu-
ra: in Stendhal, come è stato ampiamente notato, in particolare mi
riferisco all’analisi di Jean Starobinski, c’è già nell’assunzione dello
pseudonimo un evidente «rifiuto del padre», una sorta di uccisione
rituale. In Foscolo, al contrario, c’è evidentemente l’assunzione dei
padri nell’urgenza del presente, nella richiesta alla letteratura, di
«proteggerli», nell’innalzarli attraverso i Sepolcri a unica certezza
di futuro. Il suo culto degli antenati ha una valenza tutta inscritta,
com’è ovvio, nel presente. Ma leggerlo con la lente di Stendhal po-
trebbe rendercelo più vicino, più intimo, e soprattutto ancora una
“Funzione-Foscolo” 25

volta fonte di desanctisiana meraviglia, se solo provassimo a mette-


re tra parentesi il nostro nichilismo secolare.
L’impresa non è impossibile, visto che qualcuno l’ha fatto. Sem-
bra parlare (anche) di lui, ad esempio, Iosif Brodskij nel discorso
di accettazione del Nobel (correva il 1987, i muri non erano ancora
caduti) ricordando come «quanto più ricca è l’esperienza estetica di
un individuo, quanto più sicuro è il suo gusto, tanto più netta sarà la
sua scelta morale e tanto più libero» – anche se non necessariamente
più felice – «sarà lui stesso». Henri Beyle, nel primo libro in cui si
firma con lo pseudonimo in senso lato “bonapartista” (vale a dire
in Roma, Napoli, Firenze, uscito nel 1817) quando Napoleone era
confinato a Sant’Elena (sull’edizione originale il nome dell’autore
riportato nel frontespizio è “M. de Stendhal, Officier de cavalerie”),
chiarisce nella prefazione come «l’autore non voleva che divertirsi,
e il suo quadro finisce per essere affumicato dalle tristi tinte della
politica». Ora la dimensione del “divertimento” sembra estranea a
Foscolo, ma non certo quella della felicità – e della tristezza. Fu cer-
tamente libero nel suo culto della bellezza, anche se non neces-
sariamente più felice; basti pensare a una delle sue ultime lettere
londinesi (all’amico banchiere Hudson Gurney): siamo nell’agosto
1826 e il poeta rintanato in un quartiere popolare di Londra, «fra il
trambusto di uomini in rissa, di donne in litigio, di fanciulli sbrai-
tanti, di esecutori pignoranti, e di cani e gatti alle prese», scrive che
«continuai tranquillamente a tradurre l’Iliade, finché mi ritrovai
inabile ad altro che a rassegnarmi con pari tranquillità alla morte».
E fa larga giustizia degli anni folli, dei debiti accumulati, dell’illusio-
ne d’una vita inimitabile da cui non fu certo il solo scrittore italiano
sedotto e magari ferocemente ingannato.
Né è necessario un feroce scarto temporale per vedere deli-
nearsi in filigrana nella sua opera qualche personaggio di Roberto
Bolaño, magari un poeta dei Detective Selvaggi perduto fra Città
del Messico e il mondo. E non serve nemmeno uno sforzo gigante-
sco di incoerenza filologica per vederlo tornare, come un fantasma,
quando Cees Nooteboom si incammina nel suo pellegrinaggio di
Tumbas che eredita, pur senza citarla esplicitamente, la tradizio-
ne della poesia sepolcrale, ma nel caso sembra muoversi davvero
dentro una situazione narrativa – e lirica – che poco ha a che fare
26 Mario Baudino

con Thomas Gray, e di più coi Sepolcri. Anche Nooteboom selezio-


na tematicamente le sue tombe: non l’urne dei forti ma nel suo caso
quelle dei poeti (e «pensatori», aggiunge: per esempio Jean-Paul
Sartre). Il suo punto di partenza, il bastone da pellegrino che impu-
gna nel viaggio per i cimiteri, è tutto sul versante della modernità:
«Le tombe sono ambigue», leggiamo, «custodiscono qualcosa e non
custodiscono niente». Si va allora sulla tomba «di una persona che
non si è mai conosciuta» perché «dice ancora qualcosa, perché dice
qualcosa a te, qualcosa che ti risuona ancora nelle orecchie, che ti è
rimasta in testa e probabilmente non potrai mai dimenticare, qual-
cosa che conosci a memoria e che di tanto in tanto, a bassa od alta
voce, ripeti». Una poesia, soprattutto. È dunque vero che «qualsiasi
cosa che facciamo sulle tombe è irrazionale» (come portar fiori o
strappare le erbacce), ma perché «c’è ancora qualcosa che voglia-
mo dai morti». Lo schema non è per nulla lontano da quello dei
Sepolcri, a partire dall’interrogativo retorico se sia «il sonno / della
morte men duro» (ambiguità della tomba) per arrivare ovviamen-
te alle «egregie cose» cui «accedono» l’urne dei forti, alla funzione
rammemorante e ancora una volta «civilizzatrice» del sepolcro, al
ridestarsi della poesia con la quale ci si presenta al cospetto del-
la lapide, fino al prendersi cura dei defunti chiedendo loro, nello
stesso tempo, qualcosa: che cos’altro è se non un grido ambiguo e
contradditorio – ma del tutto necessario e inevitabile –, il «proteg-
gete i miei padri» di Cassandra in cui si chiude il corto circuito della
storia? Foscolo – e Nooteboom – sanno benissimo che cosa chiede-
re, o quantomeno lo scoprono nel loro viaggio. «Sacri poeti, / a me
date voi l’arte, a me de’ vostri / idiomi gli spirti, e co’ toscani / modi
seguaci adornerò più ardito / le note storie e quelle onde a me solo /
siete cortesi allor che dagli antiqui / sepolcri m’apparite, illuminan-
do / d’elisia luce i solitari campi», leggiamo nelle Grazie. La luce
che viene dalle tombe, dalla loro ambiguità metafisica, continua a
interrogarci, non da ieri. Come scrive Massimo Onofri in Benedetti
Toscani, «per noi, materialisti irriducibili o credenti in qualunque
forma dell’invisibile, il sepolcro continua a essere, foscolianamente,
una fonte misteriosa e irradiante, in cui si cela l’origine e la fine di
tutto»; e sarà quantomeno ovvio a questo proposito ricordarci come
il turismo cimiteriale, che ha i suoi punti di massima attrazione nel
“Funzione-Foscolo” 27

Père-Lachaise parigino, e in special modo nella tomba di Jim Mor-


rison, sia da tempo un fenomeno di massa.
Robert P. Harrison analizza il fenomeno in Il dominio dei morti,
tra letteratura e antropologia, facendo una distinzione interessan-
te: i turisti vanno a cercare non i cimiteri ma le tombe. Così se Jim
Morrison fosse stato cremato e le ceneri disperse, per i giovani che
vanno in pellegrinaggio a Parigi sarebbe stata comunque una «per-
dita culturale». O almeno come tale verrebbe vissuta. L’indicazione
è interessante. Potrebbe spingerci a ipotizzare che, tra poesia sepol-
crale, alto lirismo simbolista – ma sempre nell’ambito di una poe-
sia che andrebbe come “civile”, se il termine non fosse oggi come
ieri piuttosto ricattatorio – e cultura di massa sia ben presente nel
nostro tempo e quindi nella nostra modernità quella che prenden-
do a prestito Contini potremmo un po’ sciovinisticamente definire
una “funzione Foscolo”, ben presente almeno attraverso la tematica
dell’esilio e della perdita della terra – e altrettanto studiata in poeti
come Quasimodo e Gatto. Anzi, è possibile spingersi oltre, e ipo-
tizzare che nella poesia un «Foscolo apparentemente dimenticato»
(come scrive Anna Dolfi nel volume In libertà di lettura) agisca in
profondità, pur in assenza di riferimenti espliciti, quantomeno fino
a Novecento inoltrato, almeno prima di quella rottura – o oblio –
della tradizione che ad esempio mette a fuoco Giorgio Ficara in Let-
tere (non) italiane. Se ne potrebbero agevolmente seguire le tracce
per via di esempi, costruire catene poetiche: per esempio partendo
dai petrarcheschi «grandi occhi ridenti» che «arsero d’immortal
raggio il mio cuore» (nel quarto sonetto delle Poesie e transitando
va da sé per le Grazie: «e se alla luna e all’etere stellato / più azzur-
ro il scintillante Eupili ondeggia / il piè d’appresso a lei volgete o
Grazie / e nel mirarvi, dee, tornino i grandi / occhi fatali al lor natio
splendore») arrivare, con situazione rovesciata in una malinconia
simbolista e liberty, al D’Annunzio di Autunno («Ella taceva, chiusa
nella nera / veste ove sparsi erano fiori / pallidi, Autunno, come i
tuoi che indori sul vano stelo / e china alla ringhiera / guardava il
golfo silenzioso, china / come colei che un peso immane aggrava»).
O  spingersi fino al Pavese di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi:
«così li vedi ogni mattina / quando su te sola ti chini / nello spec-
chio», dove se pure non in un evidente calco ma in un altamente
28 Mario Baudino

possibile gioco di rimandi, emerge in un contesto ancora foscolia-


no quell’essere «china» che ci parla di una diversa introspezione
novecentesca. Non sappiamo in quale posizione la contessa Bigna-
mi delle Grazie in lacrime e «avvolta in lungo velo» guardi verso il
lago, icona neoclassica d’un dolore esemplarmente racchiuso in una
sublime e velata immagine sicuramente canoviana, e in apparenza
lontana ormai dalla nostra sensibilità. Ma sappiamo che è ancora
una volta questione di uno sguardo, anzi uno scambio di sguardi, di
occhi, di – che D’Annunzio a questo si riferisse? – un «muto verbo».
La bellezza civilizzatrice – la Bignami è nel poema una delle tre
sacerdotesse delle Grazie – non è tuttavia consegnata a un tempo
e quasi a una geografia poetica ben delimitata, semmai a una mito-
grafia, alla situazione archetipica dove si accampa l’occhio, lo sguar-
do, come qualcosa che brucia, arde, seduce. Fa parte dell’antropo-
logia più che della metafisica, e non si può che narrare come ben
sa Foscolo che crea al suo poema una cornice storico-cosmologica:
«Quando apparian le Grazie, i cacciatori / E le vergini squallide, e i
fanciulli / L’arco e il terror deponean, ammirando». Ovvero, come
leggiamo nella Dissertazione del 1822 (scritta in inglese, citiamo
qui dall’edizione del Chiarini, 1924), alla vista di Venere «i caccia-
tori, le donzelle, i fanciulli lasciarono cadersi di mano gli archi e gli
strali e d’un tratto passarono dal terrore alla meraviglia, dalla fero-
cia alla gentilezza: lasciarono la caccia e divenner pastori».
È questo archetipo della bellezza salvatrice ciò che resta pro-
fondamente vivo nella poesia foscoliana, letta oggi, da noi, figli del
secolo breve. Va da sé che è stato ampiamente sottolineato nella
critica a partire almeno da fine Ottocento, che si ricollega a una
tradizione antica, ha le sue radici nella latinità, rappresenta il fiero
innalzamento di una tradizione alta, ma si farebbe un errore a darlo
per scontato.
Senza di esso non si capisce – neppure oggi – il giovane ufficiale
bonapartista e nemmeno il grande seduttore, perennemente inna-
morato, perennemente ribelle.
Foscolo e Stendhal possono essere benissimo compresi nella
definizione tutta novecentesca di Iosif Brodskij, e torniamo al po-
eta russo e al suo discorso per il Nobel, quando invita a intendere,
in senso «applicato» piuttosto che «platonico», «l’osservazione di
“Funzione-Foscolo” 29

Dostoevskij… o l’affermazione di Matthew Arnold che la poesia ci


salverà. Probabilmente è troppo tardi per salvare il mondo, ma per
l’individuo singolo rimane sempre una possibilità». Arnold, critico
e poeta ottocentesco, scrisse nell’introduzione a una sua celebre an-
tologia di poeti inglesi, The English Poets, nel 1880: «The future of
poetry is immense, because in poetry, where it is worthy of its high
destinies, our race, as time goes on, will find an ever surer and surer
stay». Per il grande scrittore dell’esilio la poesia è, in accordo con
Arnold, «la meta della nostra specie» visto che «l’essere umano è
una creatura estetica più che etica». Siamo in pieno territorio fosco-
liano, di un Foscolo riportato a una concezione meno pre-romantica
e più illuminista (il «senso applicato» di Brodskij), in qualche modo
contemporanea. Va da sé che lo siamo in modo ancora più evidente
– a romanticismo dispiegato – con il P.B. Shelley della Difesa delle
poesia, quando afferma che «i poeti sono i non riconosciuti legi-
slatori del mondo». Il che può sembrare oggi derisorio, ma nulla ci
impedisce di pensarlo come squisitamente ironico.
30 Mario Baudino

Bibliografia

Arbasino, A.
2008, L’ingegnere in blu, Adelphi, Milano.
Arnold, M.
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Brodskij, I.
1988, Dall’esilio, Adelphi, Milano.
De Sanctis, F.
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Dolfi, A.
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1981, Opere, Volume II, a cura di F. Gavazzeni, Ricciardi, Milano-Napoli.
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Foscolo, U.
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Gadda, C.E.
2015, Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale
del Foscolo, Adelphi, Milano.
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“Funzione-Foscolo” 31

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Starobinski, J.
1975, Stendhal pseudonimo, in L’occhio vivente. Studi su Corneille,
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Stendhal
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