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Nuda

Anna Salvaje

Independently published
Copyright © 2015 Anna Salvaje

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Codice ISBN: 9798580622804


Casa editrice: Independently published

In copertina:
Foto di Engin Akyurt da Pixabay
A noi due
Contents

Title Page
Copyright
Dedication
Capitolo Zero
Capitolo 1- Fuori dalla stanza
Capitolo 2- Valeria e la Primavera
Capitolo 3- Una proposta indecente
Capitolo 4 - L’aperitivo
Capitolo 5- A passo di danza
Capitolo 6 - La prima volta
Capitolo 7 - Dirottamenti
Capitolo 8 - Don Jon
Capitolo 9 - Quel giorno al parco
Capitolo 10 - Una nuova letizia
Capitolo 11 - Il suo odore
Capitolo 12 - Un giro di giostra
Capitolo 13 - Risvegli
Capitolo 14 - Natale
Capitolo 15 - Miele
Capitolo 16 - Julija sui tubi
Capitolo 17- Il bacio
Capitolo 18 - Patrizia
Capitolo 19 - La radiografia
Capitolo 20 - Palla di vetro
Capitolo 21- Gocce
Capitolo 22 - Profumo di troia
Capitolo 23 - Decisioni
Capitolo 24 - Fari d’estate
Capitolo 25 - Il ragno
Capitolo 26 - Mare e navigante
Capitolo 27 - Il violino
Capitolo 28 - Rafaela oltre la soglia
Capitolo 29 - Legata
Capitolo 30 - Un po’ pornodiva
Capitolo 31 - La camera bianca
Capitolo 32 - Favole
Capitolo 33 - In volo
Capitolo 34 - Nuda
RINGRAZIAMENTI
About The Author
Capitolo Zero

Benvenuta sul sito Numero Uno


di incontri tra persone sposate
Che tu stia cercando un'avventura extraconiugale vicino a te o un
amante a migliaia di chilometri durante i tuoi viaggi, ti proponiamo
uno spazio protetto per poter contattare gli infedeli di tutto il mondo
in totale sicurezza.
Desideri un incontro extraconiugale?
È arrivato il momento

Un sito di incontri. Dichiaratamente per clandestini. Mi


interessava? Forse. Di avventure extraconiugali ne avevo sempre
avute. Per una bella donna è facile. Eppure era da un po’ che non
succedeva. Mi avevano stancato l’inevitabilità del corteggiamento, la
gestione appiccicosa della fine e in fondo, lo confesso, il fastidio del
giudizio. Perché a qualsiasi uomo, anche al più infedele, piace
pensare che tu stia tradendo tuo marito per lui. Perché lui, maschio,
ti ha travolto e tu, femmina, avresti voluto resistere ma il suo fascino
ti ha fatta capitolare. Non possono farci niente, gli uomini. Quasi tutti
sono fatti così. Si beano della conquista. E quando si accorgono che
avevi deciso tutto tu, perché sei libera abbastanza da poter
scegliere, prima e al di là dell’ego al quale vivono aggrappati, ci
rimangono male. E giudicano.
Di ricorrere alla rete per un’avventura non avevo mai pensato.
Eppure, perché no? Un sito apposta. Giocare a carte scoperte, tutto
in chiaro e da subito, senza recite e ambiguità.

Pensato ogni giorno da un team 100% al femminile


Offriamo il potere alle donne sposate
in cerca di incontri extraconiugali
in totale discrezione
In totale discrezione… Mah. Pensato da un team femminile? Dai,
figurati se dietro non ci sta un uomo. Poi mi sono detta: “Che motivo
hai per non provare? Magari funziona. Certo, ti serve uno
pseudonimo… Che so, Anna Rosselli. No, Anna Rosselli non sa di
niente. Selvaggia Rosselli? Nemmeno questo. Anna Selvaggi va già
meglio. Anzi, Anna Selvaggia. Però sembrano due nomi, non va
bene. Aspetta aspetta, sì, ecco, ci sono. Anna Salvaje”.
È stato così che mi sono iscritta, per provare, senza aspettative né
pentimenti. Era un gioco, una scorciatoia. E devo ammettere che
funziona.
O meglio, ha funzionato. Con uomini come me. Sposati, tra i
quaranta e i cinquanta, affermati, eleganti, brillanti. Evasione e
complicità giocati seguendo il solito copione, con minime variazioni:
aperitivo, cena, gite in magnifici alberghi e scopate di ottimo livello.
Funzionava... Anche se è vero che tutto durava qualche
settimana, al massimo due o tre mesi. Poi, regolarmente, mi
stancavo. E quell’amante finiva nel dimenticatoio insieme agli altri,
tutta gente di cui ricordo vagamente il nome, ma non un’immagine,
un sogno, un’idea.
Nonostante questo, non posso negare che funzionasse. Ed è
andata bene, tra un’avventura e l’altra, per due anni.
Finché non è arrivato Andrea.
Capitolo 1- Fuori dalla stanza

Le donne sanno tutto dell’amore ma non capiscono gli uomini.


Fanno fatica ad accettare i meccanismi dei loro desideri. Peraltro,
tendono a rifiutare i propri: ogni donna se li trova addosso da
bambina, i desideri, cuciti in una tela ordinata, e ne è spaventata
tutte le volte che provano a far capolino fuori dal recinto.
Viviamo in una stanzetta avendo a disposizione una reggia. Anche
se il sesso ci piace, riusciamo a goderne senza ripensamenti solo
quando è santificato dalla coppia o, quanto meno, dall’amore.
“Vissero insieme felici e contenti”: ma quante se n’era scopate,
prima, il Principe Azzurro? E dopo? La storia mica lo racconta. Non
ne ha bisogno. Perché agli uomini, si sa, un divertissement può
sempre capitare, mentre alle donne appiccica addosso la lettera
scarlatta.
Ma come? Allevate e nutrite con mille “non si fa” e si permettono
di esplorare e accettare quelle parti di sé che dovevano tenere
spente e zitte? Senza nemmeno sentirsi in colpa?
Certo, nessuno le condanna più al rogo, ma in quanti si sentono
ancora disturbati dalle loro scelte quando sono visibili e “diverse”?
Neppure è un caso che a guardarle con malevola compassione
siano soprattutto le altre donne. Donne ingrugnite, livorose, che nel
chiuso della loro stanzetta giudicano, distinguono, sottolineano le
differenze che separano loro, quelle “per bene”, dalle altre, le
“streghe”, le donne “per male”, che hanno avuto il coraggio di aprire
le porte e scorrazzano nella reggia.
Cambierà mai? Cambierà, sì. Pianissimo, eppure sta cambiando.
Salta agli occhi esplorando il sito, è evidente nei numeri degli utenti
di sesso femminile. Professioniste del settore? E basta? Non è
credibile: le donne iscritte sono tantissime, troppe per pensare che
facciano tutte la puttana di mestiere…
Il sistema è facilissimo. Funziona così: sei iscritta tu e un sacco di
altra gente. Chiunque contatta qualunque altro utente, che decide se
rispondere o no. Insomma, si saltano i passaggi che solitamente
intercorrono tra il primo contatto e il sesso: approccio,
corteggiamento, resipiscenze, dubbi, equivoci. Ti scrive qualcuno e
se ti piace la sua scheda (foto, descrizione, frase di presentazione)
rispondi, sennò non rispondi e nessuno se la prende; o se pure se la
prende, pazienza. Vi sembra immorale? Cinico? Comunque la
pensiate, il sito un vantaggio innegabile lo offre: è comodo.
Ciascuno lo usa come gli pare, ma di solito perché ci si incontri
passano parecchie settimane. Prima di concordare un
appuntamento gli utenti chattano a lungo, raccontandosi segni
zodiacali e colori preferiti, insoddisfazioni coniugali e desideri segreti.
Io, da subito, avevo deciso di utilizzarlo senza perdite di tempo;
star lì a chattare non mi andava: preferivo incontrarlo il prima
possibile, l’uomo cui avevo deciso di rispondere. Ci vedevamo in un
caffè e lo sottoponevo a una sorta di esame. “Casting per il mio
letto”, così chiamavo quegli incontri preliminari descrivendoli a
Valeria, l’unica amica che sapeva della mia doppia vita.
Non puoi mai affidarti alla sola conoscenza virtuale, se vuoi
scopare. Se vuoi scopare con gusto, voglio dire. Ci si può filmare,
inviare foto, file vocali, telefonarsi, fare video chat. E la persona
all'altro capo del telefono o in foto può sembrarti pure
straordinariamente attraente, ma per quanto virtualmente ci si possa
raccontare, perfino con onestà e ricchezza di dettagli, resta
un’esperienza unilaterale; l'altro è solo una rappresentazione che ci
siamo fatti di lui, vive nella nostra mente. Perché non c'è strumento
in grado di sostituire lo sguardo fra due persone, o la voce che arriva
all’orecchio direttamente dalla bocca dell'altro, senza essere filtrata
da un microfono. Ma soprattutto, nel virtuale non c'è l'odore. E
l’odore, beh, quello sì che è tutta un’altra storia.
Un buon odore corrisponde quasi sempre a un buon sapore. Ma lo
stesso odore può non esser buono per tutti. Scopare una persona
sconosciuta non è come assaggiare un nuovo frutto? Io per esempio
del mango vado pazza, eppure conosco gente che avvicinandolo al
naso trova sentore di cherosene, e a mangiarlo non ci pensa
nemmeno. Lo capisco: chi metterebbe volentieri in bocca qualcosa
dall’odore sgradevole?
L'odore è sempre la prima cosa che deve piacermi di un uomo, se
voglio portarmelo a letto. Con il tempo e l’esperienza ho affinato un
certo talento: mi accorgo subito, dall'odore, dallo sguardo e dalla
voce se un uomo, per quanto esteticamente attraente, può essere o
no un buon compagno di giochi sessuali.
Ecco perché incontrarsi subito: se l’uomo non mi fosse piaciuto (e
accadeva spesso) avrei perso solo il tempo di un caffè, alla peggio di
un pranzo.
Del resto, quel sito si dichiarava non ipocrita. Allora che lo fossimo
anche noi, e del tutto. Che senso aveva star lì a menare storie prima
di annusarsi? Se le chiacchiere fossero state interessanti, sai la
delusione a non ritrovarsi con gli odori? Cercavo amanti, mica amici.
Quando l’uomo superava il casting, al secondo appuntamento
quasi sempre si scopava. Se il sesso era soddisfacente venivano
altri appuntamenti per qualche settimana o mese. Fino a quando mi
annoiavo. A quel punto bastava chiudere con quell’amante e
ricominciare.
In realtà mi ricollegavo al sito in anticipo, non appena la voglia si
affievoliva, e cominciavo a vedere altri uomini per il caffè o il pranzo
di prova, iniziando una nuova relazione prima ancora di chiudere la
precedente. Non mi si addicono le perdite di tempo. L’ho già detto.
Mi piacevano, le mie avventure. Ero arrivata a un’età tale da
sapere esattamente che cosa volevo e che cosa no. E in quel
momento della mia vita desideravo soltanto sesso. Sesso nudo.
Sesso entusiasta e spensierato, libero e senza legami, bello fin
quando durava. Scopate assaporate con calma, nella penombra di
una camera d'hotel, oppure consumate di fretta, in piedi, alla toilette
di un ristorante, con la voglia di mangiarsi più forte di quella di
mangiare. Scopate ripetute o episodiche.
Sesso senza complicazioni, senza problemi, senza intralci o
fraintendimenti. Solo piacere, nessuna paranoia di possesso o
sdilinquimenti amorosi. E la consapevolezza di potere, in qualunque
momento, alzarmi, rivestirmi e girare i tacchi, senza spiegare o dare
giustificazioni. Che gli uomini che incontravo fossero sposati era una
garanzia di sicurezza, rendeva tutto più semplice e fluido: potevo
accettare, rifiutare, rimandare e loro non facevano storie.
Aprivo e chiudevo relazioni quando volevo e quando mi andava.
Non sapevo resistere, o meglio, non volevo resistere alla smania
di provare emozioni nuove. Ero affamata di emozioni. E vi cedevo.
L'importante era stare attenta. Adottare le giuste precauzioni per
preservare la salute e le opportune cautele per proteggere il mio
reale quotidiano.
Evitare luoghi in cui potevo essere riconosciuta, non rivelare il mio
vero nome, indirizzo, numeri di telefono, usare un cellulare
"dedicato" e avere sempre l'accortezza di cancellare da quello
ufficiale la cronologia dei luoghi visitati (inoltre, e a questo non tutti
pensano, disattivare la ricerca automatica wifi: avere in elenco fra le
connessioni recenti quella di un Motel in periferia o un albergo in
centro risulta imbarazzante…)
Avevo di ché essere soddisfatta: il sito si era rivelato un’ottima
fonte di generosi amanti. Peraltro, chiarire da subito che non
nascondevo un fine diverso da quello di scopare mandava in orbita i
prescelti. Non solo. Il fatto che li avessi selezionati fra migliaia di
utenti li portava a impegnarsi per continuare ad apparirmi i più
desiderabili, i più seducenti, i più maschi. Di solito erano uomini con
un passato ricco di storielle varie, che conoscevano bene le donne
(difficilmente un uomo che nel proprio passato ha solo un paio di
fidanzate e la moglie si rivolge a un sito del genere), quasi tutti
maschi alfa che a un certo punto della loro vita avevano deciso di
sposare la fidanzata di sempre o comunque una “che non dà
problemi”, una di quelle cresciute giocando “a fare la mamma”, con
le casette da arredare e i bambolotti da vestire. Uomini ipocriti che
non sapevano rinunciare a una moglie con cui frequentare gli amici e
andare in vacanza, una buona madre per i figli, tranquilla, che
difficilmente avrebbe fatto portar loro le corna (beata presunzione!
Sapeste quante di quelle donne ho conosciuto nei privé…)
Ottimi amanti insoddisfatti sessualmente, sostanzialmente
indifferenti al fatto che la compagna delle loro esistenze non fosse
porca a letto. Pazienza: i nuovi culi e tette da toccare se li sarebbero
cercati altrove. Ecco, io ero l’altrove perfetto: una troia vera,
intrinsecamente priva della maligna tentazione di mettere a rischio la
loro situazione familiare.
Ottimi amanti, dicevamo, che di fastidioso in fondo avevano solo
una cosa, l’ego gonfio come un pallone, accompagnato da un
atteggiamento ridicolo di superiorità paternalistica (il vizio di
“spiegarmi le cose” o di chiamarmi “Piccola” per esempio, quasi a
dirmi “Vedi quanto ci so fare, quanto sei fortunata, bimba?”). Ma era
un dettaglio: se avevano un bel cazzo e lo sapevano usare, li
perdonavo volentieri. Cercavo amanti, non anime gemelle.
Peraltro, li guardavo e il pensiero mi faceva sorridere. Ero quasi
certa che molte di quelle mogli “per nulla porche”, con i figli cresciuti
e l’arrivo delle prime rughe, avrebbero cominciato a fantasticare
porcaggini a loro volta, e perché no, magari a viverle per conto
proprio.
Gli uomini navigati che dopo il matrimonio avevano provato a
“mettere la testa a posto” costringendosi a un lungo periodo di
fedeltà (ma, si sa, non si sfugge alla propria intima natura...) erano i
più generosi di parole, mi colmavano di attenzioni e complimenti, ma
anche loro restavano dei fanfaroni, del tutto scontati e prevedibili.
Capivo subito che cosa gli passava per la testa prima ancora che lo
dicessero o facessero. Non immaginavano nemmeno che “se” e per
quante volte li avrei rivisti dipendeva esclusivamente dalla loro abilità
di scopatori.
C’era pure una piccola percentuale di “timidoni”, uomini con meno
esperienze che avevano puntato tutto sulla carriera e ora si
ritrovavano all’affacciarsi della mezza età profondamente
insoddisfatti, ma incapaci o troppo timorosi di avventurarsi in un
corteggiamento o in un approccio vero. In genere, dopo avere
provato a distrarsi e appagarsi con gli hobby più variegati,
approdavano al sito sperando di evitare quei “due di picche” che nel
reale tanto li atterrivano e che, almeno da me, regolarmente
prendevano, perché raramente con loro andavo oltre il caffè. I
pochissimi che avevano superato il “casting” lo dovevano non tanto
alla prestanza fisica (che comunque doveva esserci, e tanta) quanto
al fatto che abitassero in un'altra regione. Avevano il vizio di
“attaccarsi”, di mandarmi “messaggini” di buongiorno e buonanotte,
di fingere una relazione stucchevole; insomma, di giocare ai
romantici, fare gli amanti anni ‘70, tipo “Buonasera dottore”. Tutta
roba inutile che, per quanto scopassero bene, potevo sopportare
solo le rare volte, una al mese e non di più, in cui passavano per
Milano.
E poi c’erano quelli che evitavo come la peste, i peggiori. Non solo
ipocriti ma anche cattivelli e piagnoni. Uomini che, con poche o tante
esperienze di tradimento, non conoscevano affatto le donne e
immediatamente ti parlavano – rigorosamente male – delle mogli.
I più adatti erano i miei simili, disinibiti e liberi (purtroppo non
esiste il termine “puttana” al maschile), che cercavano desiderio e
gioco senza il bisogno di recitare un rapporto amoroso né la voglia di
viverne uno per davvero. Uomini onesti, che mi scopavano con
gusto, senza raccontarsi o raccontarmi storie. Sesso appassionato,
attento e generoso. Piacere senza pudore. Erezione immediata e
prolungata. Qualcuno prendeva pasticche per tenerselo duro? A
tante donne il fatto crea imbarazzi e cali di stima, a me no. Il cazzo
barzotto non è allegro neppure se sei innamorata, figurarsi quando
lui ti è sentimentalmente indifferente: fa venire da piangere.
A quegli uomini mi davo col medesimo slancio, senza chiedere
altro se non la reciprocità. Ero la donna ideale, cui nulla davano
tranne delle grandi sbattute, ma dalla quale nulla potevano
pretendere, in un rapporto di assoluta parità.
In ogni caso, qualunque fosse la categoria dell’amante di turno, il
mio mondo segreto restava assolutamente distinto da quello della
vita quotidiana, come se una barriera impermeabile li dividesse e
nessuno dei due potesse contaminare l'altro. Così dormivo tranquilla
la notte, non avevo sensi di colpa, e nessun bisogno di analisti o
confessori. Transitavo fra i miei mondi paralleli come dal sonno alla
veglia, ma ero reale in entrambi. Uno sdoppiamento in due me
stesse, altrettanto vere e autentiche, tanto da non sapere quale delle
due sognasse l’altra.
Era andata bene per due anni quando una sera di fine maggio mi
scrisse Andrea. Non so perché lo fece e sinceramente nemmeno so
dire per quale motivo gli risposi: non corrispondeva affatto al target
che mi ero prefissata di frequentare. Anzi, un tipo del genere non
avrebbe neanche dovuto starci, in quel sito di sposati fedifraghi. Con
i diversi da te può essere difficile scopare anche una volta sola,
giusto? E Andrea era troppo giovane, venticinque anni, single,
studente. A quel tipo di utente non rispondevo mai…
Mi aveva scritto una battuta ingenua e io non avevo resistito alla
tentazione di sottolineare la banalità della sua osservazione. In
qualche modo, volevo mortificarlo. Invidiamo la gioventù, e quando
possiamo ci prendiamo gioco di lei. Ma lui si era scusato per la
battuta e lo aveva fatto in italiano corretto. Ah, l’italiano corretto...
Quanto è sexy l’italiano corretto. Dalla chat passammo ai messaggi
al telefono, quindi alle chiamate vocali.
Credetemi, non avevo nessuna intenzione di incontrarlo: troppo
fuori dai miei schemi. Però chiamarlo ogni tanto mi piaceva, mi
metteva allegria imbarazzarlo, inviargli qualche mia foto (la
scollatura, una caviglia, il dettaglio di una coscia). E lo invitavo a
mandarmi file vocali, frasi contenenti la lettera “r” (Andrea ha un
modo tutto suo di pronunciare la “r”). Gli dicevo di essere curiosa
della sua lingua mentre emetteva il suono della erre in quel modo.
Ora, generalmente Andrea dopo queste battutine restava zitto al
telefono. Capivo che non era abituato a conversazioni cariche di
doppi sensi (che io invece adoro) e allora per giocare alzavo il tiro.
Lo immaginavo diventare rosso quando intenzionalmente
equivocavo, adombrando significati sessuali in parole e circostanze
comuni. Insomma, mi divertivo.
Capitolo 2- Valeria e la Primavera

Valeria mi vuole bene da tanti anni. Abbastanza da potersi


permettere d’essere curiosa di me senza invidia né giudizio.
Eravamo al Martini di corso Venezia, sedute a un tavolo all’aperto,
nel cortile interno pieno di piante. Adoravo quel posto in primavera.
Sembrava di andare a trovarla, la primavera: indossavi un vestito
leggero, le gambe nude, senza calze, ti sedevi nella luce, fra quel
verde, con Milano appoggiata sull’asfalto grigio dell’inverno e tu già
cominciavi a vederla come sarebbe cambiata. Era solo uno spiraglio
attraverso il portone.
«Con chi ti stai incontrando adesso? Ancora con l'architetto?».
Uscivo. Pardon. Scopavo da un paio di mesi con Roberto,
architetto romano quarantasettenne, che si era trasferito a Milano
da qualche anno. Ci stavo bene. Uno dei migliori incontri che il
database del pec-cato, come lo chiamava Valeria, mi avesse
regalato.
«Sì. Certo».
«Fammelo vedere che non me lo ricordo», chiese indicando il mio
smart.
Valeria era stata il mio confessore di ogni scopata segreta degli
ultimi due anni, solo che, invece di darmi la penitenza da scontare, a
ogni nuovo peccato mi tranquillizzava. Una sorta di prete onesto.
«Sei stata bene? Ti ha fatto stare bene? Fottitene, ti assolvo».
Avevo aperto il cellulare per mostrarle una fotografia dell'architetto
quando arrivò un nuovo messaggio. Era il "buongiorno" del ragazzo.
«Guarda che dolce!», mi scappò di dire mostrandole la foto del
suo profilo nella messaggistica.
Lei aggrottò le sopracciglia.
«Ma gli fai doposcuola o viene a giocare la play con tuo figlio?».
Scoppiai a ridere.
«Chi è? Ma è maggiorenne?».
«Ha quasi ventisei anni e vive a Cremona. Ci cazzeggio solo al
telefono. Figurati se vedo i ragazzini!», ci tenni a specificare con un
finto tono da signora offesa.
Valeria mi prese il telefono, rimirò un altro po' la foto di Andrea e
aggiunse: «Però! È bello il giovane. Promette bene…».
«Sì. È bello».
«E allora dai!», fece lei. «Se è maggiorenne e non rischi la galera
perché non lo incontri?».
«Figurati! Mi diverte, ma non ci penso nemmeno. Non è il mio
target.», dissi riprendendo il telefono.
«Vorrei trovare il coraggio di iscrivermi pure io a ‘sto sito,
mannaggia quanto ti invidio. Ma lo sai, io se non amo non riesco a
farci niente con un uomo».
Valeria era infelicemente sposata da molti anni e da due viveva
una relazione clandestina ancora più infelice con un suo ex
compagno di scuola. Una storia che non la esaltava né
sessualmente né sentimentalmente. Era diventata noiosa e
problematica come un altro matrimonio.
«Quando vuoi ti dico come fare per iscriverti, così chiudi con
quella specie di amante morto che ti ritrovi… Se devi accontentarti di
un morto, tanto vale che ti trombi quello che tieni a casa».
Ridemmo complici. Sapevamo entrambe che Valeria non si
sarebbe iscritta mai: era di quelle convinte che il sesso si fa solo per
amore, pronte a raccontarsi continuamente la favola che sia giusto
così.
Io invece pensavo che il sesso dovesse praticarsi
fondamentalmente per due ragioni: orgasmi o soldi. E pazienza se il
mondo (almeno ovunque ci sia un Dio uomo) da sempre chiama
puttane le donne che lo fanno per questi motivi. Non che io
sottovalutassi la meraviglia di scopare per amore, ma pensateci
bene: quanto a lungo può essere ragionevole avere rapporti sessuali
che non portino in dote almeno una delle due cose?
Quante volte noi donne, a furia di ritrovarci con la bocca e la fica
piene di sborra senza avere avuto né piacere né soldi, accusiamo la
vita di averci usate e maltrattate, e diventiamo represse, astiose,
velenose? Anni e anni trascorsi a fare tutto quello che altri –
genitori, fidanzati, mariti, figli – si aspettano da noi, ad accontentare
il mondo facendo mille rinunce, solo per scoprire alla fine – quando
indietro non si torna e tempo non ce n’è più – che non ci sono premi
ad aspettarti, e nessun 10 in pagella.
È brutto dirlo, ma la nostra esistenza perbene, ordinata e
tranquilla, spesso non ce la fa a cancellare il retrogusto che resta in
bocca alla fine, quello amaro della routine di madri e nonne, e non
riusciamo nemmeno a riconoscerlo, perché farlo significherebbe
ammettere che invidiamo le altre, quelle che per una vita abbiamo
chiamato puttane, quelle che lo hanno fatto per soldi oppure, peggio,
guidate dal calore, come le cagne.
Valeria si alzò per andare alla toilette e io chiesi il conto. Poi,
facendo in modo che nessuno se ne accorgesse, scattai una foto
alle mie gambe nude accavallate sotto il tavolo. La inviai ad Andrea
con «Buongiorno ragazzo!» e rimasi a guardare il display. Poi sorrisi:
le spunte blu mi avvisavano che il messaggio, e la foto, erano stati
visualizzati.
Subito. Come sempre.
Guardai Valeria mentre tornava verso il tavolo. Aveva un
meraviglioso punto vita, stretto sopra il culo abbondante ma ancora
alto nonostante i quarant’anni passati da un pezzo. Quanto avrei
voluto saperla felice. Ci vuole un attimo perché la forza di gravità, il
metabolismo, la pigrizia, facciano il loro corso inevitabile, e dopo non
resta che rimpiangere tutte le volte che ci siamo arenate fra il
coraggio di osare e quello di rinunciare, che non ci siamo chieste
cosa davvero vogliamo, e illudendoci di essere belle solo se buone –
brave donne, donne perbene, assennate madri di famiglia –
dimentichiamo che siamo davvero belle solo nel coraggio di essere
noi stesse.
Uscendo, le feci l’occhiolino e la presi sottobraccio, mentre ci
incamminavamo verso San Babila. Ci mise un attimo a capire che
stavo per confessarle qualcos’altro.
«Non mi dire che ce ne sta un altro…»
Annuii sorridendo.
«Racconta» fece lei, eccitata come una bimba di fronte alla
prossima favola.
Le raccontai di Massimo. Un avvocato di Firenze che avevo
conosciuto la settimana prima. Intelligente, bello, di un’eleganza
raffinata, con ogni accessorio – orologio, cravatta, calzini – che ne
rivelava l’ottimo gusto.
«Pensa che ho studiato sui testi scritti da suo padre! Mi dà l’idea di
un uomo cui non è mancato mai nulla, né denaro, né appoggi, né
clientela, eppure non si è adagiato a vivere nel riflesso della fama
paterna. Anzi. Credo sia dominato dalla voglia di dimostrare di
essere il migliore. Ecco perché penso che anche a letto non si
risparmierà e ho deciso che domani pomeriggio me lo scopo».
«Ma non finiscono mai questi uomini del sito?» scherzò Valeria.
«Quando finiranno comincerò ad affidarmi a quel che il destino
metterà sulla mia strada. Sono certa che il sito degli infedeli non se
la prenderà, se diverrò infedele pure a lui».
Ridemmo insieme. Poi le schioccai un bacio sulla guancia e ci
salutammo.
Capitolo 3- Una proposta indecente

L’avevo raggiunto nell’hotel in centro dove era solito fermarsi


quando aveva udienze a Milano. Era davvero un bell’uomo. Lo
guardavo mentre stava nudo, bocconi sul letto, in silenzio. Lo
smartphone in versione aereo appoggiato sul comodino accanto
all’orologio: entrambi, nelle ultime due ore, non erano stati fatti
oggetto di uno sguardo.
Anche io ero nuda, con le spalle appoggiate alla spalliera, le
gambe distese sulle lenzuola mentre sfioravano quelle di un uomo
che conoscevo da pochi giorni. Fumavo e lo guardavo. Lui respirava
piano, rilassato. Aveva ottenuto quel che voleva e non aveva più
bisogno di fingere.
Gli uomini si comportano più o meno sempre allo stesso modo
quando vogliono assicurarsi qualcosa: fanno gli stessi discorsi,
assumono le stesse pose, seguono lo stesso schema. Del resto
sono loro che “spiegano le cose” alle donne, no? Credono di sapere
e ci spiegano persino quello che una donna vuole. Puoi conoscerli
su un sito di incontri, a un party, magari te li presenta un’amica: se
vogliono raggiungere il traguardo senza spendere soldi, mettono in
atto la loro recita interpretando, ciascuno a suo modo, lo stesso
copione. Solo dopo il sesso diventano sereni, distesi, contenti. Quasi
veri.
Tutto sommato, nel complesso era andata bene. Massimo si era
impegnato parecchio. Un po’ troppo concentrato, all’inizio, a seguire
il “Manuale del perfetto scopatore”, a proporre il ciclo delle posizioni
base di ogni buon porno che si rispetti (sopra lui, sopra io, di fianco,
a pecora, io di nuovo sopra, ma girata di spalle), tanto che aveva
finito diverse volte per farmi perdere la concentrazione, cambiando
coreografia proprio nel momento in cui stavo per venire. Insomma,
sembrava sotto tensione, più attento a mostrarmi le acrobazie di cui
era capace che a godersi la scopata. Più di una volta ero stata sul
punto di fermarlo e dirgli: “Guarda, carino, che non c’è un regista
nascosto nell’armadio che devi convincere a scritturarti”; oppure: “Se
gemo significa che mi piacerebbe continuare così, non è un modo
per chiederti di mostrarmi dell’altro”. Ma se lo avessi fatto il buon
cazzo che aveva fra le gambe – un arnese che peraltro avrebbe
potuto dare di più – si sarebbe irrimediabilmente ammosciato.
Per carità, lo conoscevo pochissimo, ma Massimo non aveva l’aria
di uno che ti lascia a bocca asciutta, e mi avrebbe portato alla meta
con la lingua o con le mani, però non era quello che volevo. Del
resto, non si può offrire un regalo di Natale splendidamente
impacchettato e poi impedire di scartarlo e goderselo, no?
Così, mentre stava scopandomi un’altra volta alla missionaria,
quando capii che stava per cambiare di nuovo posizione pensai:
“Vuole dimostrarmi che è bravo? Diciamoglielo…”. Lo serrai forte fra
le gambe e gli sussurrai un paio di oscenità all’orecchio. Un “Mi fai
sentire così troia” o “Quanto ce l’hai grosso” sono paroline magiche,
da evitare sicuramente con i tipi timidi e impacciati, ma dall’effetto
clamoroso per gli uomini come Massimo.
E difatti da quel momento cominciò a darci dentro perbene,
scordandosi copioni da seguire e registi immaginari da convincere,
mentre io gli mordevo ogni tanto il collo incoraggiandolo con altre
paroline magiche. Mi mise le mani sotto il culo conficcandomi le dita
nelle natiche e prese a stantuffarmi a lungo, nel modo che
desideravo e che anche lui voleva, libero di dirmi indecenze, libero di
farmele e di gustarsi l’effetto che producevano su di me, fino a
scavarmi un solco di piacere. Venni più volte. Poi venne anche lui e
sono certa che di tutto il repertorio di posizioni che mi aveva
riservato l’ultima missionaria era quella che gli era piaciuta di più.
Ora se ne stava lì in silenzio, finalmente rilassato. Adoro l’attimo di
verità che c’è nei silenzi. Me lo gustavo fumando piano, perché, lo
sapevo, sarebbe finito prima della mia sigaretta.
«Sei straordinaria», sussurrò Massimo con voce da seduttore,
allungando la mano ad accarezzarmi la pancia.
Ecco. Nella migliore delle ipotesi da lì a poco mi avrebbe chiesto
quando ci saremmo rivisti o, nella peggiore, avrebbe cominciato a
raccontarmi della sua vita, del suo bisogno di calore e colore (una
tiritera che, in pratica, si sarebbe potuta tradurre in: “Voglio succhiare
colore e calore dalla tua”).
Spensi la sigaretta e gli passai la mano fra i capelli, invitandolo a
mettersi supino.
«Ceni con me?», mi chiese.
Risposi di sì e gli montai sopra. Avremmo cenato insieme, certo,
poi non lo avrei più rivisto. Non ne avevo voglia, ma prima della cena
avrei scartato e mi sarei goduta almeno un’altra volta il suo regalo di
Natale.
Più tardi andammo a Brera. Il locale scelto da Massimo, il tono
della voce, i gesti gentili ma affettati, mi dicevano che era tornato in
modalità “conquistatore”. E naturalmente aveva preso a parlare di
sé. Non la verità sulla vita che viveva, ovviamente, ma la sua
interpretazione di essa. Una versione benevola che, a furia di
ripetersela, per lui poteva perfino essersi trasformata nell’immagine
del reale. Mi sarebbe toccato cenare sorbendomi i soliti argomenti: i
successi, il lavoro, i viaggi, la moglie che non lo comprendeva, il
bisogno di passione. Il tutto ovviamente condito da una serie di
considerazioni su quanto gli mancasse una donna come me.
Chissà che cosa gli prende, agli uomini. Credono di poterci
affascinare solleticando il nostro presunto desiderio di sentirci
fortunate solo perché un uomo tanto importante e speciale ci ha
scelte; e noi dovremmo sentirci uniche per averli fatti godere,
consentendo loro di sentirsi ancora più importanti e speciali…
Era un desiderio presunto. Appunto. Massimo non lo sapeva e si
crogiolava nel suo racconto narcisistico: era tornato il bell’uomo
attraente e elegante che non lasciava spazio al mistero,
all’immaginazio-ne, a un finale non scontato.
Meno male che non lo avrei più rivisto.
Parlava e parlava e io faticavo a seguirlo. Oltre tutto avevo un
leggero mal di testa, inesorabilmente in aumento. Poi di botto
realizzai: era della sua voce la colpa! Erano i discorsi infiniti che mi
stava propinando su sua moglie, con un accento e una cadenza
insopportabili. Stava straparlando da quasi mezzora di quanto fosse
un mostro di donna, un mostro di madre, un mostro di moglie.
Arricchiva il discorso raccontandomi dettagli della loro vita coniugale
e familiare. E non era attenta ai bambini. E non era attenta alla casa.
E non era attenta a lui. Fu un lampo. Pensai a lei, alla vita vuota che
doveva condurgli accanto, e mi divertì immaginare che potesse
essere “Nuvola79”, o qualunque altro nick femminile del mio sito di
incontri. Pensai che per l’esasperazione si fosse iscritta anche lei e
stesse scopando a destra e a manca. Trattenendo un risolino finsi di
dover andare.
«Oddio, mi dispiace, scusami tanto, non mi ero accorta di quanto
fosse tardi», dissi mentre lo salutavo.
«Ma che peccato, però dai, appena torno a Milano ti avverto.
Voglio rivederti. È stato bellissimo oggi», rispose mentre gli davo un
bacio sulla guancia.
«Certo, è stato bellissimo. Chiamami in settimana», feci mentre
andavo via.
Cinque minuti dopo, sul taxi che mi riportava a casa avevo già
bloccato il suo profilo nel sito e inserito il numero telefonico nella mia
lunga lista di “chiamate e messaggi da rifiutare in automatico”. Posai
il telefono in borsa, riflettendo su quanto quell'incontro mi avesse
infastidita e messo addosso voglia di freschezza. Poco dopo ripresi il
telefono e contattai il ragazzo. «E se ti facessi una proposta
indecente?» gli scrissi. «Accetterei» rispose senza aggiungere altro.
«Prendi una camera in un albergo domani sera. Scrivimi la via e il
numero della stanza. Io vengo da te e mi prometti che ti lasci
annusare tutto. Poi magari ci vediamo un film insieme». «Va bene.
Lo faccio».
Mi aveva sorpreso. Non credevo che fosse disposto ad
assecondare senza condizioni una proposta tanto folle, in qualche
modo perfino rischiosa (in fondo, ero una totale sconosciuta). Ma
siccome sorprendermi era tra le emozioni che preferivo e succedeva
raramente che qualcuno riuscisse a farlo, sorrisi al nuovo gioco che
avevo iniziato.
Capitolo 4 - L’aperitivo

Avevo indossato un vestitino elegante molto scollato, tacco 12,


capelli freschi di parrucchiere e mi ero abbondantemente truccata.
Appena scesa dal taxi di fronte all’albergo immaginai che il portiere
avrebbe potuto scambiarmi per una escort, ma il pensiero, invece di
imbarazzarmi o intimidirmi, mi accese.
“Se deve prendermi per una puttana, che almeno mi trovi una
puttana bellissima”, pensai. Mi misi un altro strato di rossetto,
allargai la scollatura del vestito ed entrai nella hall con passo liquido.
Dissi che dovevo andare alla stanza 110, che ero attesa da un
ragazzo e che avrei pagato io. Il pensiero “È una puttana” passò
senza dubbio nella mente del portiere, ma quell’indizio (mica ci
pensano le puttane a pagare la stanza, no?) insieme alla voce, al
vestito, alla fede al dito, gli stavano suggerendo che forse ero una
Signora... Una Signora? Adorai averlo imbarazzato. Non si trattano
nello stesso modo, le Signore e le puttane. Andrea guardava la
scena dal salotto antistante la reception. Si avvicinò, e con tono
interrogativo e la voce insicura chiese «Sei tu Anna?».
Il portiere trasalì. Quale donna dall’identità incerta viene attesa in
un albergo se non fa la puttana? Trovai l’equivoco in cui si dibatteva
il suo cervello dannatamente eccitante. E poi mi eccitava Andrea,
quel ragazzo tanto attraente, più bello di persona rispetto alle foto
che mi aveva inviato, così diverso dai miei soliti amanti. Giovane,
alto, un corpo magnifico, gli occhi intensi e intimiditi.
«Sono io», risposi.
Mi avvicinai con la bocca al suo orecchio, alzandomi leggermente
sui tacchi, strofinando appena il culo sul bancone quasi in faccia al
portiere.
«Prima di salire in camera voglio prendere un aperitivo nel bar qui
davanti», sussurrai.
Poi poggiai con sicurezza il documento sul banco della reception.
Il portiere lesse la mia età e lo stato civile di coniugata, guardò la
scollatura, non ci capì un cazzo, farfugliò qualcosa su fotocopie,
dopo, sì, grazie… E sono pronta a giurare che da un presumibile
letargo qualcosa gli si stesse risvegliando all’altezza dell’inguine.
Ci spostammo al tavolo del bar di fronte l’Hotel.
Il mio dito percorreva lentamente il bordo del bicchiere di Campari.
Freddo. Rosso. Brillante. Il ragazzo era seduto rigido, le gambe
ancorate alla sedia. Nervoso, quasi diffidente. Lo guardavo fisso.
Smisi di guardarlo e presi a seguire con gli occhi il movimento del
mio dito sul bordo del bicchiere, con l’unghia rossa che grattava il
vetro. Volevo apparirgli annoiata ma ero attentissima. Percepivo il
suo sguardo e la sua emozione. Ogni tanto sollevavo il viso e gli
piantavo gli occhi negli occhi. Occhi di donna quarantenne,
spudorata, sicura, dentro gli occhi di un ragazzo emozionato.
Che scena, me la vedevo da fuori. Avrei voluto essere da un’altra
parte a guardarla, ed eccitarmi.
Andrea era completamente diverso dagli uomini che avevo
conosciuto sul sito di incontri. E non solo per l’età. Era diverso
perché, evidentemente e senza possibilità di mascherarlo, non
aveva alcuna esperienza di quel genere di appuntamenti. Percepivo
imbarazzo nei suoi poco brillanti tentativi di conversazione e ne ero
divertita. Cominciai a studiarlo nel dettaglio. Era moro, con la
carnagione chiara, gli occhi scuri, un magnifico sorriso. E spalle
grandi, braccia muscolose, mani ferme. Cambiai posizione. M’inarcai
in avanti per guardarlo meglio. Lo feci senza curarmi di essere
discreta, in maniera volutamente sfacciata. E più lo guardavo più mi
piaceva. Più lo guardavo più mi piacevo.
E io piacevo a lui.
Nonostante la lieve diffidenza che gli si affacciava ogni tanto sul
viso, nonostante l’incredulità per l’evolversi dell’appuntamento, gli
occhi e la voce non riuscivano a nascondere l’emozione.
Un paio di volte lo sorpresi a fissarmi le gambe. Un paio di volte gli
sorrisi. Ogni volta lui arrossiva e io, cazzo, mi ritrovai a pensare “Ti
voglio”. Anzi, no. “Ti voglio tantissimo”.
Non lo avevo assolutamente previsto: mi aspettavo di giocare a
flirtare con un ragazzino e non avevo messo in conto di quanto sa
essere irresistibile il candore, quando ci si mette. Realizzai che ecco,
era quello ad attrarmi così tanto: il candore misto all’eccitazione, la
timidezza che aveva ceduto alla voglia di osare accettando una
proposta tanto insolita. Perché forse lui si aspettava di farsi solo
annusare, oppure di vedere un film, magari di restare con le palle
gonfie, e altro non sperava...
Presi a raccontare di qualche mio incontro con gli uomini del sito,
senza risparmiare i dettagli scabrosi, sorseggiando il Campari,
accompagnando le storie con uno sguardo sfrontato. Regolarmente,
Andrea arrossiva e abbassava gli occhi. Era tenero. Io ridevo e lo
incalzavo di domande, in modo frivolo e disinvolto, buttandoci dentro
qualche parola “forte”.
“Hai già incontrato altre donne del sito?”. “Ma le hai scopate?”.
“Perché ti piacciono quelle più grandi?”. “Ti sei masturbato al
telefono con qualcuna di loro?”. “E pensando a me?”. “Hai mai
scopato con due donne insieme?”.
Lo costringevo a guardarmi se abbassava gli occhi. Quando ero
certa di avere nuovamente catturato il suo sguardo mi zittivo,
rimanevo seria, facevo assumere alla mia bocca un’espressione
imbronciata e passavo distrattamente la punta della lingua sul labbro
inferiore. Lui tornava ad abbassare gli occhi e aveva un fremito nel
respiro, come se l’emozione che fino a quel momento aveva in gola
d’improvviso si spostasse giù a gonfiargli il cazzo. Mi piaceva da
morire pensare che si sentisse così, emozionato dalla gola al cazzo.
Erano stati i movimenti della lingua? I racconti e le domande? Il mio
seno e le mie gambe? O era solo la sua poca esperienza con le
donne? Era delizioso gustarmi il suo imbarazzo, e assaporai la mia
decisione inattesa: di lì a poco gli avrei strappato ogni cellula di
diffidenza e di vergogna con la lingua.
Capitolo 5- A passo di danza

Non lo immaginavo, lo giuro. Avviandomi con lui verso la camera


110, quasi in silenzio, io sapendo benissimo che cosa fare, lui
visibilmente no, a tutto potevo pensare tranne come sarebbe andata
a finire. Camminavo appena dietro di lui, intenzionalmente: volevo
che sentisse il mio sguardo addosso, che avesse chiara la
consapevolezza di trovarsi a un ballo dove ero io a condurre anche
se era lui a farmi strada.
Ho avuto due mariti, il primo che ancora non avevo finito
l’università. Ho tre figli, uno grande, adulto e meraviglioso, fatto
allora senza pensarci un attimo, due piccoli, desiderati e luminosi di
possibilità. Mi sono laureata a ventidue anni. Poi la solita trafila di
corsi, esami, concorsi, abilitazioni.
Studio in centro, clienti enormi, e dieci ore al giorno di lavoro.
Sorpresi? Mica ho sempre solo scopato, nella vita. Ho studiato e
studio ancora, perché la benedizione del mio lavoro sta tutta lì: mi
obbliga ad aggiornarmi in continuazione; per capire e crescere non
basta studiare, lo so, ma stare con la mente accesa aiuta a farsi
domande, ad accogliere la curiosità, a esplorarsi dentro, a scoprire
ogni parte di noi. E ci evita di rimbambirci.
Oggi Andrea è un uomo libero, ma allora non aveva neanche idea
delle possibilità meravigliose cha ha un corpo se impara ad
apprezzare il piacere partendo dal cervello. Però aveva un dono
naturale, una caratteristica rara: la genuinità, quella che manca a
tanti quaranta o cinquantenni, tutti presi dalle loro recite, dai loro
egoismi, dai rancori per qualche ex, da granitiche certezze, e da
autoimposti, invalicabili limiti.
In un mondo di uomini che indossavano maschere, il ragazzo
imbarazzato che camminava davanti a me verso la 110 aveva il
coraggio di restare se stesso anche mettendosi in gioco. Era
autentico.
Mi ha sempre affascinata, la genuinità: il mio esplorare, la mia
smania di sesso senza implicazioni sentimentali, non era forse una
ricerca di autenticità? Offrirmi così non era il solo modo che avevo
per non rinnegare quel “qualcos’altro” che, comunque mi
guardassero gli altri, ero?
Forse pure gli occhi di Andrea mi videro così: vera. Magari le sue
coetanee erano troppo impegnate a impersonare la parte delle
donne adulte, sicure e disinvolte, mentre in realtà avevano solo
bisogno di rassicurazioni. Rassicurazioni su loro stesse, sul loro
aspetto, sulla coppia, impegnate a vivere sesso e relazioni come
funzionali alla progettazione del futuro, invece di godersi la
spensieratezza dei loro ventanni. Donne giovani perennemente
preoccupate dal fatto che gli uomini “volessero solo scopare”,
mentre io... Beh, io volevo solo scopare.
Chissà, forse la genuinità e il coraggio di essere noi stessi si
riconoscono. E si attraggono. Pure in età diverse. O almeno, mi
piace pensare che sia questo che è successo a me con Andrea e a
lui con la donna che ero. E con la donna che sono.
Capitolo 6 - La prima volta

La 110 era al piano terra. A pochi metri dal banco della reception.
Entrammo.
Andrea aveva un fare impacciato, perfino indeciso. Decisi di
imbarazzarlo ulteriormente assumendo un’espressione seria, quasi
scocciata, e mi mossi nella stanza ostentando disinvoltura. Eravamo
in silenzio, c’era solo il rumore dei miei tacchi sul pavimento.
«Vado al bagno», dissi.
Mi chiusi nella toilette. Sentivo i suoi movimenti al di là della porta.
Me lo immaginavo che vagava nella stanza, chiedendosi se fossi
arrabbiata e perché, se avesse sbagliato qualcosa o detto una frase
fuori posto. Fumai una sigaretta sorridendomi sorniona allo
specchio.
Quando uscii la stanza era al buio. Andrea si era seduto sul letto
davanti alla tv sintonizzata su nessun canale.
«È bello quello che stai guardando?», gli chiesi chiamandolo per
cognome. Poi mi piazzai in piedi fra lui e il televisore, col culo
all’altezza del viso, ripetendogli: «È bello quello che stai guardando?
È meglio di questo?».
Lui balbettò qualcosa che non capii mentre io, come se fosse la
cosa più naturale del mondo, mi toglievo vestito, reggiseno e
mutandine.
Mi sdraiai sul letto supina con solo la sottoveste addosso.
«Non vieni?», gli dissi.
Lui mi venne accanto. Poi tornò seduto, si tolse le scarpe e si
distese di nuovo, coricandosi su un fianco e volgendo il viso verso di
me. Cazzo quanto era emozionato! Mi sembrava di sentire tutto il
suo turbamento.
Avvicinò il suo viso al mio. Rimasi sospesa, immobile. Poi mi
scostai repentinamente.
«Scusa, non è che stavo per baciarti. Volevo solo sentire il tuo
odore. Scusa», mi disse.
La sua voce che tremava mi entrò dentro. “Hai capito il ragazzo”,
pensai. “Voleva annusarmi…” Mi misi lentamente a cavalcioni su di
lui e avvicinai le dita al suo viso. Ne percorsi i contorni, la fronte, le
sopracciglia, le palpebre, il naso, la curva delle labbra, le guance,
l’osso della mascella. Poi mi chinai ad annusarlo, col suo fiato che
mi solleticava il collo. Lo annusai dovunque.
Andrea era ancora interamente vestito. Nelle parti di corpo che
aveva scoperte (viso, mani, braccia, collo, piedi) lo annusavo piano,
dolcemente. Sul torace e le gambe, dove aveva maglietta e
pantaloni, annusavo energicamente, strofinando naso e labbra
contro il tessuto, come un cane che fiuta un indizio. Per ultima gli
annusai la patta. Spingevo col naso in prossimità dell’inguine,
facendo tendere il tessuto dei pantaloni che ricopriva l’uccello,
appoggiando lì la guancia per sentire, sotto, il rilievo del cazzo già
duro. Stetti per un po’ ferma e allungai le mani verso l’alto,
mettendogli le dita in bocca.
Poi mi tirai su, mi rimisi a cavalcioni su di lui e gli presi la faccia fra
le mani. Lo guardai negli occhi. Aveva le pupille dilatate.
Sembravano due laghi neri. Mi poggiò le sue mani sulla fronte, sulle
tempie, e io fui investita da una sensazione dolcissima. Scesi a
baciargli la bocca. Un bacio morbido e profondo.
“Troppo dolce. Troppo dolce”, pensai. Era una sensazione strana,
tanto nuova e insolita che ne ebbi timore. Resistetti alla tentazione di
chiudere gli occhi e scivolarci dentro. Mi staccai e cominciai a
spogliarlo con foga, come a riprendere in mano la situazione. E così,
via la maglietta, in azione le mie dita frenetiche sui bottoni dei jeans.
Lui ogni tanto mi fermava, tornava ad appoggiarmi le mani sulle
tempie, a guardarmi con gli occhi immensi. E ogni volta venivo
inghiottita da quella sensazione di dolcezza mista a meraviglia. Non
potevo fare a meno di sorridergli e baciarlo ancora sulla bocca.
Eravamo in un fermo immagine di miele. “Troppo dolce. Troppo
dolce”, pensai di nuovo. E di nuovo provai resistere, riprendendo a
spogliarlo freneticamente. Via i pantaloni, via le mutande.
Era completamente nudo adesso, disteso, il cazzo svettante e
bene in tiro. Ci abbracciammo e rotolammo sul letto a invertire le
posizioni. Adesso era lui sopra di me. Quanta vita nei suoi occhi,
quanta dolcezza, quanto desiderio. Era bello in modo commovente.
Mi resi conto che lo stavo desiderando troppo, quel ragazzo, come
non mi accadeva da tempo. Poggiai le mani sulle sue natiche e lo
chiamai per cognome.
«Dammelo in bocca», gli dissi, invitandolo con le mani e con i
movimenti a mettersi a cavalcioni sul mio seno e a puntarmi il cazzo
sul viso. I laghi neri ebbero un guizzo. Mi assecondò
immediatamente. Avevo il suo uccello gonfio davanti agli occhi.
Cominciai a passare le dita fra i peli, a percorrere con i polpastrelli le
linee delle vene gonfie sull’asta, poi la cappella. Intanto lo respiravo
forte, mi nutrivo dell’odore di lui.
Sollevai la testa per sfregarmi perbene il membro sulla faccia,
sulle palpebre, sulle guance, sulle labbra chiuse. Sfregavo e
annusavo. Andrea mi guardava, eccitatissimo e un poco smarrito,
poi tornava a tenermi le tempie con le mani, a tuffare gli occhi nei
miei, a scivolare e farci scivolare nel fermo immagine di miele.
Di nuovo mi obbligai a scrollarmi di dosso la sensazione di
dolcezza che mi investiva. Alzai le braccia, strinsi con le mani la
testiera del letto e l’invitai a bloccarmi le braccia con le mani.
«Scopami la bocca», ordinai.
Mi avvicinò la punta del cazzo alle labbra e io le dischiusi per
accoglierlo. Cominciò lentamente ad andare dentro e fuori la mia
bocca, sempre più dentro a ogni spinta. Muovevo la lingua in modo
da accarezzargli cappella, filetto e asta a ogni affondo, piegavo il
collo per favorirlo, per farlo scorrere fra lingua e palato, perché
arrivasse in gola fino a farmi lacrimare. Poi, quando sentii le palle
che mi sbattevano sul mento, cominciai a succhiarlo in maniera
ritmica, accompagnando il movimento con la lingua. Mi piaceva così
tanto che spalancai le gambe e presi a muovere il bacino. Non
smettevo di guardagli gli occhi: c’erano momenti in cui li spalancava,
e momenti in cui li socchiudeva rovesciando indietro la testa. Poi
tornava a cercare i miei. Il cazzo gli pulsava forte e compresi che
stava per venire. Colsi una certa ritrosia, forse era insicuro. Forse
non sapeva se poteva venirmi in bocca, se doveva spostarsi o altro.
Staccai le mani dalla testiera del letto e cercai le sue che mi
bloccavano le braccia. Gliele strinsi forte. Col cazzo che mi riempiva
la bocca feci per un paio di volte cenno di sì con la testa,
incoraggiandolo a godere senza preoccupazione. I due laghi neri
mostrarono uno scintillio mentre il cazzo cominciava a pulsare più
potente e a stillare sborra nella mia gola. Succhiavo, assecondando
l’ondata dei fiotti di sperma caldo e dolce, succhiavo e bevevo,
succhiavo e premevo la lingua sull’asta a placarne e accarezzarne i
fremiti, succhiavo e ingoiavo mentre con le mani stringevo le sue che
tremavano. Mi sembrava di succhiargli l’anima.
Fu una lunga notte. Lo feci mio e fui sua più volte. In silenzio. Ero
sempre io che decidevo momenti e posizioni. Mi misi a quattro
zampe davanti allo specchio e lo incitai a montarmi da dietro,
invitandolo a guardare la mia faccia riflessa nello specchio. Lo
cavalcai stando sopra, impalandomi su di lui e dondolandomi avanti
e indietro col cazzo piantato bene nella fica. Lo feci mettere in piedi:
«Ti voglio succhiare il cazzo stando in ginocchio e voglio che ti
guardi allo specchio. Devi renderti conto di quanto sei bello».
Avevo deciso tutto io. Di farmelo. Come farmelo. In quanti modi e
quante volte farmelo. Ma non avevo vinto. Lo capii dal suo abbraccio
dopo che avevamo goduto insieme, io ancora a quattro zampe e lui
pesante dietro di me. Abbracciati furiosamente, quasi
dolorosamente, come due sopravvissuti a un naufragio, certi di
essersi salvati, vivi e felici.
Capitolo 7 - Dirottamenti

Su un sito di incontri extraconiugali ci si va per scopare. Ci si va


per noia, per voglia o quel che pare a voi. E perlopiù ci si va da
sposati. Con la convinzione di volerci restare, sposati. Sennò si
cercherebbe altrove.
Sposata ero e sposata rimanevo, convintamente. Le ragioni non le
devo spiegare, credo. Ciascuno ha le sue, che alla fine sono sempre
le stesse. Figli, affetto, convenienza, complicità, gratitudine, pigrizia.
Giudicare è inutile, e comunque non rientra tra le mie abitudini: non
mi giudicavo, quel che pensano gli altri sono affari loro e la vita è
troppo breve per complicarsela con troppe masturbazioni mentali.
Avevo continuato a vedere altri uomini pescati sul sito quell'estate,
aprendo e chiudendo brevi relazioni. Andrea era ancora, nelle mie
intenzioni, uno fra tanti. Eppure, dei rapporti che ebbi nel periodo tra
il primo incontro con il ragazzo e lo stabilizzarsi della nostra
improbabile storia quasi non conservo memoria, come se la
relazione con lui assorbisse totalmente la mia attenzione ancora
prima che ne divenissi consapevole.
Se uno lo ricordo bene è perché fu imbarazzante. Credo di essere
stata io a prendere un abbaglio: non avevo mai sbagliato in maniera
così drammatica un “casting”. Com’è inevitabile in casi del genere,
m’era rimasto da tenermi il pentimento a giochi fatti, e nient’altro.
Gianluca era un quarantenne molto attraente, brillante
conversatore, intelligente e spiritoso. Ma a letto, un vero disastro.
Non tanto per via di un cazzo che rientrava, a essere generose,
appena nella media (a parte rare eccezioni fuori misura – in un
senso o nell’altro – tutti i cazzi possono portare felicemente a
termine il loro compito), quanto perché non ci sapeva proprio fare: mi
toccava e baciava con foga e desiderio ma senza minimamente
ascoltare e seguire le risposte del mio corpo.
E poi concludeva subito.
La prima delle due volte che scopammo, nell’unico pomeriggio
trascorso insieme, venne praticamente quaranta secondi dopo
essermi entrato dentro.
«Ero troppo emozionato, mi piaci tanto», disse abbracciandomi.
Ricambiai l’abbraccio, mostrandomi comprensiva e rassicurante.
Non che mi interessasse particolarmente rincuorarlo: mi premeva
soprattutto non avere sacrificato a vuoto tutto quel tempo sottratto al
lavoro, e speravo che la modalità materna fosse efficace per
placargli l’ansia e migliorarne le prestazioni.
La seconda volta durò forse appena un minuto più della prima.
«Ti desideravo troppo», si giustificò. Ma fu quando aggiunse
tronfio: «Però è andata meglio della prima, dai», che capii:
considerava la questione come un fatto di poco conto, come se il
mio piacere fosse secondario o, almeno, non essenziale quanto il
suo.
Qualche volta c’ero cascata perfino io: la prima reazione di una
donna in casi del genere non è mai di fastidio, di autotutela. Anzi, va
nella direzione esattamente opposta. Per carità, andrebbe bene – va
bene – in una relazione stabile, serena, paritaria. Ma il mostrarci
“politicamente corrette”, pazienti e comprensive con certi uomini che
non si preoccupano minimamente di noi, è sbagliato. È frutto di una
cultura patriarcale e non fa altro che rinforzare ego ed egoismo di
uomini che continueranno a pensare al nostro piacere come
qualcosa “in più”, che se accade, bene, ma se non accade, in fondo,
è lo stesso.
Ecco perché non ascoltai una terza scusa. Mi divertii a stuzzicarlo
lucidamente con le mani, portandolo vicinissimo a un nuovo punto di
non ritorno per interrompere il tutto sul più bello, alzarmi dal letto,
rivestirmi e andarmene, lasciandolo lì, nudo e a cazzo dritto, a finire
da solo, se proprio voleva. Con altri era andata sessualmente
meglio, almeno per quanto riguardava durata del rapporto e
dimensioni del cazzo (che poi sono gli unici due parametri in base ai
quali molti uomini valutano la loro sessualità). Ma che fossero buone
o meno, nessuna di quelle esperienze aveva scalfito il mio desiderio
dell’inten-sità sperimentata con Andrea. Anzi, o meglio, nonostante
dentro di me rimanesse acceso il campanello del pericolo, mi
accorgevo di frenarmi, di non chiedergli un incontro tutte le volte che
lo desideravo. Dirottavo - spesso intenzionalmente - le mie voglie da
quel ragazzo dolce e timido verso l'amante di turno, più esperto e
abile. Mi forzavo a farlo. Scopavo con uno qualsiasi per sostituire lui,
reprimendo una voglia di candore a me del tutto estranea.
Di tanto in tanto però non ce la facevo, e ci vedevamo. Che fosse
rischioso continuare lo sapevo benissimo. Me lo diceva l’urgente
voglia di lui che stravolgeva i miei piani di peccatrice efficiente e
organizzata. E immaginavo che forse sarebbe stato difficile, a un
certo punto, doverci rinunciare, com’era giusto e inevitabile.
“Qualche altra volta”, mi dicevo. Perché negarmela?
Un’altra volta ancora. Solo un’altra volta.
Capitolo 8 - Don Jon

Era piena estate. Io trattenuta in città dal lavoro. Marito e figli al


mare. La sera, Milano usciva da una giornata torrida, una di quelle
che solo l’idea di stare per strada ti dà l’angoscia, e se proprio devi
uscire, per tutto il tempo sogni un ufficio, un negozio, un ristorante,
un’automobile, un qualunque posto con l’aria condizionata dove
rifugiarti.
Cominciava a far buio, eppure l’asfalto sembrava avere
imprigionato il calore del giorno per rilasciarlo tutto insieme proprio a
quell’ora. Mentre camminavo verso casa sentivo i tacchi affondare
nel marciapiede, il piede che scivolava nei sandali senza presa,
senza attrito, il vestito aderente tutto appiccicato addosso, le tette
imperlate di sudore.
Avevo un appuntamento con Fabio, il mio amante milanese, bello
e un po’ infelice, anche lui trattenuto in città dal lavoro, moglie e figli
in vacanza. Era meno “libero” di me per le sue scappatelle, e se la
sognava da settimane, la prima notte intera che avremmo passato
insieme. Saremmo andati a mangiare qualcosa e poi a rinchiuderci
in un hotel a scopare, con l’aria condizionata a palla. Anch’io ero
contenta di vederlo: era un uomo piacevolissimo di quarantotto anni,
alto e biondo, a letto attento e generoso. Ma ci ripensai: la giornata
era stata così calda e Milano tanto vuota che avevo dentro una gran
voglia di vacanza. E non riuscii a farci niente: più di ogni altra
scappatella con un qualsiasi amante, magari più esperto o dotato,
pensando a una vacanza fu quel ragazzo a venirmi in mente, e il mio
gioco con lui. Così, senza riflettere, nonostante l’entusiasmo di Fabio
e i suoi due centimetri in più, chiamai Andrea.
«Vieni a casa mia. Ordiniamo una pizza e ascoltiamo musica», gli
dissi solo.
«Il tempo della strada e arrivo», rispose.
Era spiazzato per l’invito, lo so, ma non ci aveva pensato un
attimo. Ne ero felice, e allo stesso tempo mi sentivo spiazzata
quanto lui: mai avevo nemmeno pensato di portare un amante
qualsiasi nel posto del mio reale, la casa che aveva visto i miei
ragazzi piccoli e me giovane e bella. “Questa volta e poi basta”,
pensai mettendo a tacere una vocina dentro che mi diceva: “A chi la
racconti questa bugia, agli angeli?”.
Disdissi l’appuntamento col milanese, che ci restò di merda. Non
l’ho più visto da allora, né mai gli ho dato spiegazioni. Erano le mie
regole: chiarezza nel dare e nel ricevere, nessun impegno e nessun
obbligo. Eppure oggi mi dispiace di avergli procurato un piccolo
dolore. Forse si era innamorato un po’. Io però no, per niente. Quindi
pazienza…
Mi infilai in doccia. Andrea arrivava da Cremona, avevo poco più
di un’ora per prepararmi.
Quando citofonò gli aprii senza rispondere, scala e piano glieli
avevo già dati per telefono. Mi piaceva tenerlo sulle spine e volevo
che arrivasse da me emozionato e un po’ in soggezione.
Avevo addosso solo le mutandine e un négligé nero aderente e
corto a mostrare le gambe, lisce e abbronzate, il culo rotondo e
sodo, la vita stretta e in trasparenza il seno con i capezzoli grandi.
Indossavo sandali coi tacchi altissimi e avevo truccato solo la bocca.
Dallo stereo si diffondeva l’allegro iniziale della Piccola serenata
notturna di Mozart.
Quando sentii l’ascensore aprii di poco la porta e misi fuori
soltanto un braccio. Lo strinse. Lo tirai dentro casa e fra le mie
braccia. Volevo che fosse investito di botto dal mio odore, dal mio
profumo, dal mio calore. Mi addossai a lui, cercando di aderire il più
possibile al suo corpo. Andrea mi stringeva forte (lo fa sempre,
quando ci vediamo, sembra voglia stritolarmi). Ci baciammo a lungo,
continuando a sussurrarci “Ciao” a ogni bacio.
«Ti piace Mozart?», gli chiesi. «Credi anche tu che la sua musica
dilati le vene?».
Mi guardò con una smorfia dispiaciuta: «Non è il mio genere…».
«Ah no?», dissi fingendomi sorpresa.
Figurati se non lo immaginavo, non l’avevo mica scelto a caso di
mettere su Mozart… Sapevo di piacergli perché ero così diversa,
così lontana da lui, dal suo mondo e dalle ragazze che gli giravano
attorno. E accentuare queste differenze mi dava un punto di
vantaggio.
Lo presi per mano e lo portai in salotto, tra le scaffalature cariche
di libri, le fotografie, il divano rosso e il pianoforte. Eravamo in
penombra: faceva caldo, le finestre erano aperte e nonostante le
tende non potevo rischiare che dai palazzi vicini qualcuno ci
vedesse. Presi due bicchieri e versai del whisky. Lo invitai a un
brindisi con modi quasi formali, come fosse un rituale. Bevemmo e
scoppiammo a ridere. Poi riprendemmo a baciarci, ad abbracciarci e
sussurrarci: “Ciao”.
Ero nel salotto di casa mia, priva del popolo che solitamente
l’abitava, priva delle voci, dei rumori, delle risa, dei litigi fra i
ragazzini, del consueto disordine. Ero lì ad abbracciare un ragazzo
tanto più giovane di me e a desiderarlo perdutamente. Versai un
altro giro di whisky. Bevemmo e ridemmo. Tolsi il cd di Mozart e ne
misi uno di Edith Piaf. Altro giro di whisky, di baci e di sorrisi. Poi
chiesi di farmi ballare sulle note di Je ne regrette rien. Rispose che
non sapeva ballare, che non era capace. Risi. Gli dissi: «Tu puoi fare
tutto ragazzo!».
Lo abbracciai e cominciammo a dondolare formando una figura
che solo da lontano e con molta buona volontà avrebbe potuto
essere scambiata per la sagoma di due che ballavano. Mi girava la
testa. Per il whisky e per il suo profumo, per le sue spalle forti, il suo
respiro sulla fronte e i lievi baci che ci appoggiava, le mani che mi
scorrevano dolcemente sulla schiena. Quando rovesciavo la testa
all’indietro ci guardavamo negli occhi, poi lo baciavo sulla bocca e lui
mi stringeva forte. Era un mix di tenerezza e di desiderio, di dolcezza
e di smania di lui e del suo cazzo. Ancora e ancora.
Lo invitai ad accomodarsi sul divano, mi sedetti su di lui e gli dissi
che volevo bere dalla sua bocca. Si riempì la bocca di whisky,
avvicinò le labbra alle mie e bevvi così. Mi tremavano le gambe. Gli
tolsi il bicchiere dalle mani e lo posai sul tavolino accanto. Gli
sbottonai i pantaloni, mi leccai il palmo della mano, gliela infilai nelle
mutande e gli strinsi forte il cazzo. Era già duro, la pelle morbida e
caldissima. Tenendo l’uccello stretto in una mano dentro le mutande
gli sollevai il mento con l’altra.
«Tu adesso non molli i miei occhi», ordinai.
Glielo tirai fuori e cominciai a menarglielo. Andavo su e giù con la
mano ritmicamente senza lasciargli gli occhi. E accompagnavo la
carezza al cazzo con piccole smorfie del viso, moine di
compiacimento e approvazione, come a dirgli “Così va bene, sì?
Così ti piace? Bravo… Gustatelo”.
Sentivo la sua eccitazione montare: la vedevo crescere nei suoi
occhi che si annacquavano, la sentivo gonfiarsi nella mia mano. Poi
mi fermai stringendogli forte l’uccello, assaporando le vene dell’asta
che mi palpitavano sul palmo. Lui respirava forte. Aveva il viso teso,
le sopracciglia aggrottate, mascella serrata e labbra contratte. Gli
accarezzai piano il viso, le spalle ampie, le braccia, il torace che si
abbassava e sollevava. Con quella carezza volevo liberare la forza
che, forse per pudore o inesperienza, stava trattenendo. Ma che era
lì, sotto la sua pelle, pronta a esplodere. La sentivo e la volevo. Se
ne accorse. Si accorse che sentivo il suo imbarazzo e forse se ne
vergognò, perché arrossì e chiuse gli occhi.
«Guardami, non lasciare i miei occhi», gli sussurrai materna
all’orecchio mentre gli stringevo forte il cazzo. Lui mi obbedì. Gli feci
indossare il profilattico, poi mi sollevai leggermente e scostai le
mutandine. Erano fradice. Diressi la sua cappella sulla mia fica e
cominciai a strofinarla fra le piccole labbra. Il rumore che il cazzo
faceva sfregandosi in quel lago era osceno ed eccitantissimo.
«Lo senti? Lo senti quanto ti voglio?» gli dissi dolcemente «Io non
mi vergogno, vedi? Non farlo neanche tu. Fammelo prendere,
dammelo».
Mi mise le mani sulle tempie, esercitando una lieve pressione
verso il basso, e io mi abbassai a prenderlo tutto. Nell’istante in cui
entrò totalmente nella mia fica Andrea sospirò e cominciò a gemere
piano. Era la prima volta che succedeva: si era sempre trattenuto dal
manifestare il piacere che provava, e ora si stava finalmente
lasciando andare. Godetti di quella piccola vittoria e pensai che se
era così eccitante sentire i suoi gemiti chissà quanto sarebbe stato
bello sentire la sua voce sussurrare sconcezze. Anch’io mugolavo e
gemevo. Gli accarezzavo il viso, le sue mani accarezzavano il mio e
non avevamo smesso per un istante di tenerci negli occhi. Avvicinai
il mio viso al suo, la bocca alla bocca e cominciammo a respirarci
dentro, a baciarci e respirarci, a leccarci le labbra.
Andavo su e giù sul cazzo. A ogni affondo mi sembrava di sentirlo
più potente, più grosso. Gemevo forte e anche lui. Poi cominciai a
dondolare avanti e indietro accelerando il ritmo. Edith Piaf, i miei
gemiti e i suoi. Vidi il mio orgasmo che arrivava nei suoi occhi. E
sono certa che anche lui sentì arrivare il suo nei miei.
Godemmo insieme guardandoci. Godemmo e ci perdemmo, io in
lui e lui in me.
Quando sul letto molte ore dopo stavamo per addormentarci
abbracciati, mi disse: «È stato bellissimo prima sul divano… Mi ha
ricordato un film, Don Jon, una scena in cui il protagonista e Julianne
Moore lo facevano così, sopra un sofà». Gli dissi che non conoscevo
il film, che lo avremmo visto in futuro insieme ma che ne ero certa:
quella scena noi l’avevamo sicuramente girata meglio.
Poi lui si addormentò e io rimasi per un po’ sveglia a guardarlo.
Averlo nel mio letto mi faceva girare la testa. Credevo fosse per via
della sua bellezza, della sua gioventù, oppure per il rischio che stavo
correndo per averlo invitato a casa e farlo dormire lì. Fu quando
stavo per chiudere gli occhi che mi resi conto che la testa mi girava
per il piacere che avevo provato quella sera a “insegnargli”.
Sorrisi e mi addormentai.
Capitolo 9 - Quel giorno al parco

Non è così difficile gestire un amante. A patto che si verifichino


due circostanze, anzi tre. La prima: darsi delle regole e non
trasgredire mai; la seconda: non perdere la testa. Poi c’è la terza,
ovvero che la testa non la perda nemmeno lui. E la terza, beh, quella
non la controlla nessuno.
Nei miei anni da infedele di amanti ne avevo gestiti anche due o
tre nello stesso periodo. Li incontravo conciliando la mia agenda e la
loro, incastrandoli fra riunioni e pranzi di lavoro, scegliendo uno o
l’altro non seguendo il desiderio ma in base alla maggiore comodità
che in quel momento ciascuno poteva offrire, come fossero
interscambiabili. E in fondo sì. Lo erano.
Con Andrea stava andando tutto diversamente. Per prima cosa,
da dopo l’estate avevo cominciato a vedere solo lui. Insomma, in
qualche modo gli ero fedele. Non era una scelta, e neppure una
fatica ragionata. Accadeva. Inevitabilmente. E, strano a dirsi, quella
esclusività aveva il sapore della trasgressione. Non è un dettaglio,
perché il fatto stesso, la fedeltà voglio dire, di per sé rappresentava
una deroga alla prima regola, e una spia evidente di pericolo per il
superamento della seconda. Stavo perdendo la testa?
Di certo avevo cominciato a perdere di vista cautele e prudenze.
Continuavo a ripetermi “È solo un ragazzo. Ci faccio un altro giro e
poi lo saluto”. Ma ogni volta mi sorprendevo a pensarlo, ad avere
una voglia pazza di rivederlo. “Devo solo saziarmi” mi dicevo
provando a rassicurarmi.
Per una sposata il telefono è un bel problema. Insomma, mica
puoi sempre star lì a fare moine. Anche se lo vorresti da morire,
esagerare non va bene. Ed è rischioso. Come dicevo, con lui avevo
già contravvenuto a tutte le mie regole: mai sentirsi al telefono da
casa, mai far sapere cognome, indirizzo eccetera. Andrea aveva
dormito nel mio letto, il cellulare “dedicato” non lo accendevo
praticamente più, conosceva il mio cognome e il mio numero ufficiale
e talvolta accadeva che ci sentissimo quando ero a casa. E se
succede quest’ultima cosa vuol dire che per quante bugie possiamo
raccontarci il limite si è superato di una misura incolmabile…
Mi chiamò una sera che avevo dei buoni conoscenti a cena. Tutte
care persone, piene delle certezze consolidate medio borghesi che
tanto rassicurano gli animi dei benpensanti. Non fraintendetemi. Non
solo non ho l’abitudine di giudicare, ma credo che loro mi
considerassero esattamente allo stesso modo. Una cara persona,
cortese e amichevole. Ma la nostra realtà spesso è tutta una facciata
e magari anche la mia compagnia di quella sera si mostrava al
mondo nascondendosi dietro una patina, come me, mentre nel
profondo, nell’intimo dei desideri, eravamo uguali.
Stavamo prendendo l’aperitivo in salotto quando squillò il telefono.
Guardai il display, lessi che era lui e rifiutai la chiamata. Sorrisi ai
miei ospiti servendo altro Martini, ma sudavo freddo: con quel
ragazzo stavo davvero perdendo di vista ogni prudenza. Non c’erano
senso di colpa o pentimento: non sentivo di dover giustificare le mie
azioni e i miei comportamenti con nessuno, né con una qualche
divinità né con mio marito, tantomeno con quegli amici. Anzi. Stare lì
a conversare amabilmente ricordandomi benissimo come sullo
stesso divano avessi scopato con Andrea mi eccitava da pazzi. Ero
solo nervosa perché mi rendevo conto di aver abbassato la
guardia… Insomma, le precauzioni che avevo fissato, rispettato e
rigorosamente fatte rispettare dai miei amanti per due anni, erano
andate clamorosamente a farsi fottere. E il brutto (il bello, in realtà,
ma di questo sono stata consapevole solo molto dopo) era che stava
succedendo praticamente senza che me ne accorgessi. Fu per
questo che quando il telefono squillò nuovamente non andai in
cucina per rispondere e spiegargli dolcemente, come altre volte
avevo fatto, che non era il momento e che lo avrei richiamato più
tardi. Risposi secca.
«Ciao. Scusa ma adesso sono impegnata. Ne parliamo domani in
studio».
Qualche minuto dopo ricevetti il suo messaggio con “Scusami”.
Il giorno dopo me lo ritrovai alle otto del mattino alla fermata del
tram dove sono solita scendere per andare in studio. Doveva aver
preso il primo treno, per essere lì a Milano a quell’ora.
«Mi dispiace» gli sussurrai.
«Non te ne andare» fece lui.
Solo questo. Non ci fu bisogno di dirsi altro.
Chiamai la mia segretaria, rimandai degli appuntamenti riuscendo
a guadagnare un paio d’ore. Ci spostammo di qualche isolato,
facemmo colazione in un bar e lo portai ai giardini di Villa Reale. Mi
era venuta voglia di gustarmelo così, all’aperto, come
un’adolescente. L’idea che ci potessero vedere e i suoi occhi
spalancati quando gli dissi che volevo fargli una pompa lì erano un
mix di eccitazione micidiale. Era così erotico prendere atto di quanto
quel ragazzo mi si “affidasse”. Vederlo strabuzzare gli occhi per le
cose “estreme” che gli facevo – e gli facevo fare – moltiplicava la mia
voglia di lui.
I giardini di Villa Reale erano un incanto che Andrea non
conosceva. Passeggiavamo mano nella mano vicino al laghetto,
percorrendone il perimetro. Gli raccontavo di quanto sarebbe stato
più bello quel posto più avanti, col rosso, giallo e arancio
dell’autunno inoltrato, e intanto mi sentivo un ragno che tesse,
perché intenzionalmente imboccavo i sentieri che sapevo condurre
al boschetto appartato dove volevo gustarmelo.
Quando ci arrivammo lo invitai a sedersi su una panchina e mi
sdraiai con la testa sul suo pacco. Cominciai a soffiare attraverso il
tessuto dei pantaloni per fargli arrivare il fiato fino al cazzo. Glielo
tirai fuori e lo presi in bocca. Non tutto. Solo la cappella. La
stuzzicavo con lingua e labbra cercando di dare al movimento della
lingua lo stesso ritmo del suo respiro, che diventava sempre più
forte. Poi la tenni ferma tra palato e lingua sentendola ingrossare. La
tirai fuori e la guardai. Era così bella, calda, pulsante, tutta lucida
della mia saliva. Sembrava brillare sotto la luce del sole.
«Guardati, guarda quanto sei bello!» mormorai chiamandolo per
cognome. Mi divertiva chiamarlo in quel modo soprattutto quando
invadevo la sua intimità: mi sembrava accentuasse il mio essere
“signora” e il suo essere ragazzo, rimarcando così la distanza tra
noi, le nostre differenze, in gustoso contrasto con quello che gli
stavo facendo o dicendo.
Lui guardò il suo uccello grosso e duro nella mia mano destra, con
la punta del cazzo a pochi centimetri dalle labbra dischiuse, poi mi
guardò negli occhi, leggendo tutta la voglia che avevo. Cacciai fuori
la lingua e lo leccai. Andrea spalancò gli occhi mentre io spalancavo
la bocca e prendevo tutto il cazzo, fino in gola. Rimasi per un
momento infinito così, ferma, con la bocca piena di lui. Sentivo che
si costringeva a rimanere immobile, che era eccitato e imbarazzato,
combattuto fra il timore che ci vedesse qualcuno e il desiderio
dell’attimo in cui avrei cominciato a pompare come si deve. Gli presi
le mani e le portai sulla mia testa, assicurandomi di fargli intrecciare
bene le dita fra i capelli. Aveva le sopracciglia inarcate e le labbra
imbronciate. La stessa espressione di sempre quando è eccitato,
un’espressione che ha su di me un effetto devastante.
Anche io mi obbligavo a stare ferma, ma con il cazzo caldo e
pulsante piantato in gola non era facile: impazzivo dalla voglia di
sbattermelo su e giù. Lo guardavo negli occhi stando lì, a bocca
piena, le labbra serrate a circondare la base, muovendo piano la
lingua sull’asta ma senza farlo scorrere di un solo millimetro. Ed ero
decisa a non farlo se prima non avessi capito dal suo sguardo che la
voglia di sborrarmi in gola vinceva l’imbarazzo per il timore di essere
visti.
Non so se furono più convincenti la mia lingua o i miei occhi
prepotenti, ma finalmente Andrea ebbe un sussulto, strinse forte le
dita fra i miei capelli tirandoli leggermente, invitandomi ad andare su
e giù.
Nonostante il desiderio di obbedire all’invito resistetti ancora,
trattenendo con fatica la voglia di amarlo con la bocca e stringendo
le gambe per placare il desiderio di lui che nel bassoventre urlava.
Fu solo quando lo vidi chiudere gli occhi e rovesciare la testa
all’indietro, emettendo il gemito solito che mi mandava in orbita, che
cominciai avida a pompare.
Capitolo 10 - Una nuova letizia

Ci vedevamo da mesi. Regolarmente. Almeno una volta alla


settimana, chiusi tutto il giorno in un hotel a saziarci di noi. Uscivamo
solo per mangiare. Più spesso ci portavamo dei panini, che venivano
consumati direttamente sul letto, per non perdere tempo.
Scopavamo fino a tarda sera, quando prendevo il taxi che mi
riportava a casa, spossata e indolenzita, con la pelle gravida delle
sue impronte e la voglia di rivederlo che si rinnovava già
nell’ascensore di casa mia.
Era un sesso meraviglioso e potente, ma tecnicamente molto
semplice. L’unico “azzardo” era stato smettere di usare il profilattico.
Cominciai a domandarmi perché Andrea non mi chiedesse mai
niente di diverso. Insomma, tanto per partire dalle cose di base, mi
domandavo perché non m’avesse ancora chiesto di scoparmi nel
culo né si fosse provato ad accennare un seppur debole approccio
durante gli amplessi. Avrebbe dovuto venirgli naturale, no? (ci sono
uomini che non te lo chiedono: tu stai lì a pecora, convinta che
stiano per farti la fica, quando senti il cazzo che preme forte lì… In
quei casi, voltarmi e mollare una sberla al cafone di turno era un
tutt’uno).
Me lo chiedevo avendo già la risposta, ma di cose del genere una
non è mai certa. Non gli piaceva? Non gli piacevo abbastanza io?
Non lo aveva mai fatto? Possibile? Era solo timoroso e inesperto?
Ho un bellissimo culo, e praticamente tutti i miei amanti me lo
hanno chiesto, prima o poi. L’ho concesso a pochissimi, possono
contarsi sulle dita di una mano. E credetemi, per il numero di amanti
che ho avuto quelli che hanno goduto del mio culo sono una
percentuale davvero bassa. Non perché non mi piacesse, anzi.
Quando lo facevo godevo come una matta. Ma era necessario che
lo volessi forte, che quell’amante mi avesse coinvolta veramente,
fino a desiderare di esserne totalmente invasa, di essere “forzata” e
violata, fino a desiderare che lui divenisse mio signore, nel corpo e
nello spirito, come se dal buco del culo si potesse arrivare a
prendermi l’anima. Di uomini che mi sono piaciuti così tanto ce ne
sono stati pochissimi.
«Non vuoi farmi il culo?», gli chiesi al telefono un pomeriggio
piovoso. Ero in studio, alla fine di un incontro complicato, durante il
quale era stato necessario mostrarmi più determinata, risoluta e
fredda del solito, e m’era venuta voglia di calore. Al lavoro sono
sempre distaccata e razionale, una fortezza che non cade neanche
sotto assedio, e scommetto che in parecchi mi definirebbero
inaccessibile e “poco propensa” alle relazioni con l’altro sesso.
Comprimo le mie curve in abiti irreprensibili e mi pettino i capelli
lunghi – quelli che adoro farmi tirare quando sto a pecora – in
impeccabili chignon. Insomma, pago il prezzo che ogni donna deve
pagare se non vuol perdere autorevolezza. Perché poi si diffidi della
competenza di una donna che apre, e spesso, le gambe per godere
(quando si tratta di una fra le cose più naturali e sane del mondo)
non l’ho mai capito. Agli uomini non accade. Anzi. Essere anche un
tombeur de femmes contribuisce al fascino di ogni leader maschio.
L’incontro di lavoro mi aveva snervata, avevo voglia di gioco e
leggerezza, così mi stavo rilassando semisdraiata sulla poltrona di
pelle nera della mia scrivania e decisi di stuzzicare Andrea al
telefono.
«Non hai mai scopato nessuna nel culo? Dai, dimmi la verità»,
tornai a chiedergli facendo finta di non saperlo già. Lo immaginai
arrossire.
«Mai? Davvero? Allora è arrivato il momento, ragazzo» e aggiunsi
con voce più bassa, sospirandolo quasi, «La prossima volta che ci
vediamo porto dell’olio e lo facciamo».
Ci incontrammo la settimana successiva nella camera dell’hotel
dove andavamo più di frequente. Avevo in borsa un flacone di olio di
mandorle dolci, che appoggiai sul comodino. Cominciammo a
baciarci, a toccarci, a stringerci con la frenesia di sempre, arricchita
dalla letizia di quella cosa nuova che avremmo fatto insieme. Ancora
vestiti ci buttammo nel letto a rotolarci, sorriderci, strusciarci,
spogliandoci velocemente. A ogni indumento che volava sul
pavimento c’era un bacio profondo, una lingua infinitamente
succhiata, una carezza alla fronte, un sorriso negli occhi. Eravamo
nudi, caldi, sudati, con la febbre d’amore addosso. Era pieno
autunno ma avevamo ancora l’estate dentro.
Mi sedetti sul bordo del letto, andai indietro con la testa e
spalancai oscenamente le cosce con la fica bene esposta. Andrea si
accovacciò sul pavimento con la testa fra le mie gambe e cominciò a
leccare e succhiare. Mi misi un cuscino sotto la testa: adoravo
guardarlo mentre mi leccava la fica. Vedevo la parte superiore del
suo volto e gli occhi brillanti fissi nei miei. Cercavo di mantenere
fermo lo sguardo ma non ce la facevo: il piacere era così forte che i
miei occhi si chiudevano, si riaprivano, si annacquavano, si
rovesciavano indietro seguendo i movimenti della sua lingua, dei
suoi baci e dei fiotti di nettare che stillavano dalla mia passera. Venni
diverse volte, mugolando in modo indecente, fottendomene se di là,
fuori, altrove, qualcuno poteva sentirmi.
Si tirò su e si posizionò su di me, stava per entrarmi dentro e io
morivo dalla voglia di essere sbattuta quando gli sgusciai da sotto e
mi misi a quattro zampe.
«Inculami», gli dissi. Lo volevo disperatamente e lo volevo in quel
momento, con tutto il desiderio di cazzo che avevo nella fica. Volevo
stare a quattro zampe e volevo che mi scopasse il culo mentre dalla
mia passera colava il desiderio di essere riempita. Volevo essere
inculata così, con la fica orfana e vogliosa, privata del suo incanto.
Udii che si muoveva dietro di me. Pensai che stesse armeggiando
con il tappo della bottiglietta... Poi un dito scivoloso si introdusse
piano nel mio culo. Mi rilassai. Lui teneva il dito fermo, forse aveva
paura di farmi male. Spostai dolcemente il bacino e sospirai:
«Muovilo amore».
Cominciò a muovere il dito dentro e fuori, con un movimento
circolare. Quanto era delizioso sentirlo. Quanto era dolce stare lì,
totalmente esposta, indifesa, fragile e viva, con la consapevolezza
che tra poco il mio magnifico ragazzo mi sarebbe entrato nel culo a
toccarmi l’anima.
Tolse il dito e avvicinò la punta dell’uccello. Ero così vogliosa e
rilassata che lui riuscì quasi subito a mettere dentro la cappella. Il
pensiero di lui che si era cosparso tantissimo d’olio per non farmi
male, il pensiero dell’emozione che sicuramente stava provando mi
commosse fino a riempirmi gli occhi di lacrime. Singhiozzai. Lui
equivocò, e smise di spingere. Allora cominciai a muovermi io, piano
e dolcemente, avanti e indietro, sospirando.
«Parlami, parlami», cominciai a ripetere. M’era venuta voglia di
sentirgli dire che ero una troia, la sua troia. Che mi stava sfondando
il culo, entrando fin dove si poteva. E glielo chiesi. Gli chiesi di
dirmelo, di chiamarmi a quel modo, di descrivermi che cosa stava
facendo. Andrea smise per un attimo di respirare, poi mormorò con
voce profonda e densa di emozione: «Ti sto inculando amore, sono
dentro il tuo culo».
Quella frase ebbe un effetto devastante nella mia mente e forse
anche in lui, perché non l’aveva mai detta a nessun’altra donna
prima. Mi mise le mani sui fianchi e cominciò a scoparmi perbene, a
incularmi alla grande. Andava dentro e fuori sempre più forte e ogni
volta si conficcava più in fondo, a ogni spinta affondava e mi dava un
altro centimetro di cazzo.
Puntai le mani sul materasso cercando di assumere una posizione
più stabile e rigida, per offrire più resistenza a quell’assalto, per
gustarmelo meglio. Cominciai a sentire a ogni colpo le palle di lui
che colpivano la mia fica fradicia e sentivo come ad ogni spinta si
bagnavano.
Chiusi gli occhi ed ebbi una visione: un primo piano del mio culo e
del suo cazzo che lo scopava, un’immagine da film porno che si
ripeteva come un loop e cominciai a venire. Godevo e ansimavo,
godevo e ripetevo: «Sì amore». Godevo e gemevo senza vergogna.
Era un piacere fortissimo, intenso e particolare, che si insinuava fin
dentro il cervello, in ogni sua piega, un orgasmo che sembrava non
finire più, sconquassandomi dentro.
Stavo ancora venendo quando udii la sua voce dirmi: «Vengo
amore, ti sto venendo nel culo». Affondò in me fino alle palle
rimanendo lì fermo. Io godetti nuovamente e stavolta con la fica, col
grilletto, stando immobile. Non so come fu possibile. Forse per via
degli spasmi del cazzo che stava stillando zucchero liquido o per via
delle sollecitazioni che le palle sbattendo avevano regalato alla mia
passera… So solo che fui sua tantissimo, intensamente,
infinitamente.
Capitolo 11 - Il suo odore

Come è possibile che ogni volta che mi avvicino a lui, che sento il
suo odore, la fiamma nel mio bassoventre si accende e mi fa
sciogliere? Ogni volta, varcata la soglia di una nuova stanza, l’aria si
accende e si fa elettrica, viva e vibrante. Lui è con me. E ci sono i
colori. Non c’è cappa di grigio che tenga: il grigio e ogni sua
sfumatura restano fuori dalla porta.
Mi piace avvicinarmi quando siamo ancora vestiti, gli dico di stare
fermo, di dischiudere la bocca e restare immobile. Siamo in silenzio,
ascolto il rumore dei miei movimenti, dei miei abiti, dei tacchi sul
pavimento. A occhi chiusi mi faccio più vicina, sento il suo odore
sempre più forte e cerco il suo respiro. Lui è così alto che devo
inarcarmi sulla punta dei piedi e sollevare il viso per trovargli le
labbra. Rimango per un po’ così, ferma e sospesa, le bocche vicine,
a gustarmi il fiato dolcissimo e caldo. Poi apro gli occhi e ogni volta
mi ritrovo sorpresa e stupita per quanto mi incanta. Che madornale
errore credere che l’amore sia progetto e certezza. L’amore è
soprattutto stupore.
Vorrei abbracciarlo, stringerlo e schizzare oltre, per un secondo o
mille anni, staccare i piedi da terra, fargli da pipistrello e farmi
portare via da me, dalla vita che ho fuori di lui e che resiste
nonostante tutto. Nonostante quell’avanzamento veloce del nastro
che il mio desiderio vorrebbe. Quel nastro di noi così bello da volerlo
riavvolgere in fretta solo per poterlo iniziare da capo.
Lo guardo. È immobile. Ha occhi chiusi e bocca dischiusa, come
avevo ordinato.
«Sei proprio un bravo e ubbidiente ragazzo», gli sussurro
compiaciuta all’orecchio.
Stiamo respirando più forte, le bocche vicine. Chiudo gli occhi, tiro
fuori la lingua e gli sfioro le labbra, ne seguo i contorni, ne palpeggio
carnosità e pienezza. Con la punta faccio capolino dentro la sua
bocca, dapprima esitante e quasi timida, poi sempre più determinata
e sicura, strappandogli piccoli mugolii. Adoro respirare dentro la sua
bocca, bere ogni suo gemito. Adoro leccargli labbra e denti. Ficcargli
la lingua in bocca e frugargliela tutta, solleticare e succhiare la sua.
Siamo immobili entrambi, solo la mia lingua si muove mentre resto
protesa verso lui, tutta quanta, tutta intera, mentre il suo odore mi
inebria e il fuoco fra le cosce divampa. Lo attizzo ancora, aggiungo
altra voglia alle voglie e inarco il bacino, a strofinarmi sul cazzo che
diventa sempre più duro sotto i jeans. Percepisco i suoi sussulti,
sento le sue mani tremare, fremere e resistere a toccarmi.
Allora cedo e per un po’ lo lascio fare, gliele lascio avvicinare ai
miei fianchi, al culo. Giusto il tempo di sentire i miei brividi. Talvolta
alzo il vestito e lo assecondo, gli lascio palpare le natiche calde, la
pelle nuda delle cosce. Oppure mi dondolo, divarico un po’ le gambe
in modo che la sua mano a palmo aperto tocchi la fica, ne avverta il
calore e il bagnato attraverso le mutandine. Mi dondolo con
progressiva frenesia, fino al punto che quasi non si capisce se è lui
ad accarezzarmi la fica o se è la mia fica a cercare e accarezzare la
sua mano. Poi mi blocco e lo blocco, avvicino le labbra al suo
orecchio e sussurro decisa: «Fermo ragazzo. Fermo. Ti voglio
immobile. E mio. E nudo».
E lui di nuovo ubbidisce.
Solo allora apro gli occhi e trovo sempre i suoi che mi cercano. Ha
gli occhi magnifici quando è eccitato: gli si annacquano di piacere e
diventano brillanti. Guizzano di gioia e di vita come gli guizza e gli
pulsa il cazzo, quell’incantevole cazzo che di lì a poco mi pulserà
nella fica, nel culo, nella bocca…
Respiro più forte e comincio a spogliarlo.
Capitolo 12 - Un giro di giostra

Sono sempre stata curiosa. E certe curiosità non si soddisfano


leggendo, guardando o facendosi raccontare da qualcuno com’è.
Per essere capite e soddisfatte devono viversi sulla pelle. Con
qualcuno dei miei amanti più intraprendenti avevo sperimentato
giochi a tre; due donne e lui, oppure lui, un altro uomo e me.
Vi confesso, non era stato granché. O meglio, erano state
esperienze forti, e mi erano piaciute, sì, ma le avevo vissute come in
solitaria. Erano solo mie. L’amante che mi accompagnava era
sempre stato solo un compagno di viaggio, uno che faceva lo stesso
giro di giostra. Ma in quella giostra ero da sola.
Cominciai ad avere voglia di viaggiare con Andrea. Di
avventurarmi con lui in terreni dove le coppie in genere non vanno.
Un po’ perché mi chiedevo se con quel ragazzo sarebbe stato
diverso, se nella giostra proibita che tanto mi attraeva mi sarei
sentita sola o lui sarebbe stato con me; un po’ perché volevo
rimanergli marchiata nella mente. Volevo essere la prima donna con
cui si spingeva oltre, denudandosi senza vergogna o remore.
«Non ti andrebbe di portarmi in un privé?».
Quando glielo chiesi la prima volta quasi si offese.
«Dai, guarderemo e basta, curioseremo in giro e se saremo a
disagio andremo via» insistevo.
Ce ne volle, di opera di persuasione, per convincerlo… Alla fine
accettò.
Era anche questo che mi piaceva da morire di Andrea, la sua
capacità di mettersi in gioco nonostante l’emozione, un candore che
sapeva diventare sfrontato senza perdere mai un briciolo dell’intima
innocenza di cui pareva impastato. E mi piaceva da morire essere
“la prima”. La prima che aveva inculato, la prima che lo aveva
bevuto, la prima cui aveva detto sconcezze, la prima con cui andava
a un privé. Adoravo essere il suo battesimo porno.
Andammo.
Era un bel locale, di classe, elegante. Molte coppie di bella
presenza e pochi uomini soli. Ero elettrizzata e tesa, di quella
tensione che ti fa respirare vita nell’aria.
Andrea era imbarazzato ma eccitato. Non so esattamente cosa mi
aspettassi o cercassi, né quanto in là ci saremmo “spinti”. Il solo fatto
che avesse ceduto al mio desiderio e alla sua curiosità mi esaltava.
Bevevamo e ridevamo. Eravamo come in attesa. Probabilmente
pensavamo che da un momento all’altro una coppia si sarebbe
avvicinata a noi iniziando una conversazione stuzzicante…
Invece, d’improvviso la sala si svuotò, come se fosse suonata la
campanella della ricreazione.
Anche noi, dopo i primi istanti di perplessità, ci avvicinammo alla
zona privata, dove verosimilmente erano andati tutti.
Un’accozzaglia di corpi nudi, sconosciuti e anonimi si stava
accoppiando senza regole geometriche. Non c’erano sguardi di
intesa, assonanze, armonie, nulla di nulla. Non avvertii nessuno
stimolo erotico. Semmai una sensazione di “interscambio” asettico,
di privazione totale di individualità e sessualità. La scena aveva pure
un nonsoché di surreale e comico, dal momento che questo
“carnaio” di corpi era circondato di uomini singoli, tutti con dei
cazzetti mosci in mostra che si masturbavano inutilmente (perché
continuavano a rimanere mosci) vagando attorno alla massa
indistinta di carne.
Andrea era sperduto, fuori posto. Stavo per dirgli di andar via
quando, nell’ultima stanza di quel labirinto, la mia attenzione fu
catturata da una coppia che brillava fra le altre. Un ragazzo e una
ragazza intorno ai trent’anni, lei bionda e bella, lui bruno e attraente.
«Li vedi quelli?», dissi ad Andrea. «Sono gli unici “veri” qui
dentro».
Entrammo nella stanza. Era stretta e lunga, i due seduti su un letto
singolo addossato al muro, completamente vestiti, parlottavano
concitatamente. Lui l’abbracciava, l’accarezzava, la baciava sul viso
e le parlava. La bionda per un po’ si abbandonava ai baci stando
zitta a occhi chiusi, poi li riapriva, sembrava scuotersi dal torpore,
ricopriva freneticamente ogni lembo di pelle (una spalla, una coscia)
che le mani di lui scoprivano di continuo, e gli mormorava qualcosa
facendo di no con la testa.
Evidentemente, eravamo di fronte a un lui che vuole osare e a una
lei che si frena. Percepivo l’ec-citazione di lui e il turbamento di lei.
Feci sedere Andrea sul divano più vicino a loro, mi sedetti in braccio
a lui e cominciai a baciarlo sulla bocca appassionatamente, come se
intorno non ci fosse nessuno, senza pudori, emettendo quei gemiti
che non riesco a trattenere ogni volta che la mia lingua viene a
contatto con la sua.
I due cessarono la loro schermaglia e cominciarono a guardarci.
Intanto, nella stanza erano entrati alcuni uomini soli, che si
fermarono a contemplare noi quattro. Il silenzio era rotto solo dai
miei mugolii. Smisi di baciare Andrea, mi sistemai sulle sue
ginocchia dandogli le spalle e rivolsi il viso alla coppia. Andrea mi
abbracciava, era ancorato a me, mentre io dondolavo avanti e
indietro guardando la bionda. L’uomo riprese ad accarezzare e
baciare la donna, a sussurrarle parole e, quando lei non lo guardava,
mi faceva cenno di raggiungerlo, di avvicinarmi a lui. Probabilmente
pensava che di lì a poco mi avrebbe scopata.
Io allungai un piede e toccai con la mia scarpa tacco dodici la
caviglia di lei, che mi guardò sorpresa. Diedi un bacio ad Andrea e
gli dissi all’orecchio: «Guarda e goditelo, amore».
Mi avvicinai alla coppia. I due erano stupiti. Guardai la bionda e le
sorrisi. Era bella. Avvicinai l’indice alla sua bocca e le accarezzai
lentamente le labbra. Lei mi guardava con due occhioni meravigliati
e timorosi.
«Sei bella», le dissi.
Le misi l’altra mano sulla fronte facendole chiudere gli occhi, mi
avvicinai al suo orecchio e glielo dissi ancora.
«Sei bella».
La ragazza rovesciò un poco la testa all’indietro. Avvicinai le
labbra alle sue e le sussurrai di nuovo sulla bocca: «Sei bella».
Fu scossa da un brivido e accelerò il respiro, vedevo il suo seno
tendersi e sollevarsi. Allontanai con una mano l’uomo che stava
provando a toccarmi e mi girai verso Andrea con uno sguardo
complice. Poi tornai alla bionda.
C’era un silenzio enorme. Tutti stavano immobili e zitti. Andrea,
l’uomo, gli altri uomini che guardavano stando in piedi in fondo alla
stanza. Cominciai a leccarle le labbra, il collo, la piega tra i seni. Lei
tremava e sussultava a ogni tocco di lingua: le vedevo i brividi sulla
pelle. Era bellissimo gustarla mentre stava per cedere. A me, alla
mia bocca. Era bellissimo guidarla dolcemente ad arrendersi.
«Apri gli occhi e guardami», le ordinai.
Ubbidì. Aveva uno sguardo eccitato e ancora sorpreso, ma sono
certa che adesso era sorpreso da se stessa, dalla reazione che
stava avendo alle mie carezze. La baciai sulla bocca. Dapprima
dolcemente, poi sempre più forte. La bionda ebbe un fremito,
mugolò e cominciò a rispondere al bacio. Aveva una lingua
dolcissima e soffice. Mi abbracciò e l’abbracciai, continuando a
baciarci, le lingue che si cercavano e si intrecciavano confuse.
Dovetti nuovamente allontanare l’uomo che nel frattempo aveva
riprovato ad avvicinarsi.
Mi staccai e cominciai ad accarezzarle il seno, abbassai la
scollatura del vestito e le scoprii le tette. Erano bellissime, piene e
rotonde. Le presi i piccoli capezzoli rosei turgidi fra le dita e li
pizzicai. Cominciò a gemere.
«Brava», le dissi. «Miagola gattina, miagola».
Mi girai verso Andrea mostrandogli il seno della bionda che tenevo
tra le mani. Gli feci cenno di avvicinarsi. Lui sorrise e si negò
scuotendo la testa. Affondai il viso fra le tette di lei, gliele leccavo, le
baciavo, le succhiavo, le mordicchiavo piano. Ansimava sempre più
forte. L’uomo riprovò ad avvicinarsi. Stavolta fu lei a scacciarlo. Lo
fece con un gesto noncurante, indolente e stizzito.
Ci sorridemmo e ricominciammo a baciarci. La bionda cominciò a
toccarmi il seno e mi accorsi che anch’io avevo cominciato a
miagolare. Le sollevai il vestito e infilai la mano fra le cosce, sotto le
mutandine. Aveva la fica depilata ed era bagnatissima. Poggiai le
dita sul grilletto, gonfio e pulsante, e presi ad accarezzarglielo piano,
con un movimento circolare, lento e dolce. La stanza era sovrastata
dai nostri gemiti. Ansimavamo al medesimo ritmo. Lei cominciò a
muovere il bacino, ondeggiava, seguiva il movimento della mia
carezza e cercava di accelerarlo. Sentivo la sua voglia di essere
riempita. Quando inarcò il bacino contro la mia mano – una, due, tre
volte – decisi di accontentarla e le ficcai indice e medio nella fica,
mentre col pollice continuavo a titillarle il grilletto. La bionda emise
un gridolino, mi prese il viso fra le mani e cominciò a succhiarmi la
lingua. Era così bagnata che il rumore del cic ciac delle mie dita che
si muovevano dentro e fuori di lei superava quello dei nostri sospiri.
Mi staccai dal bacio della bionda e guardai Andrea, continuando a
tenere le dita dentro di lei. La toccavo, le frugavo perbene la fica e
intanto guardavo lui. Era bellissimo, affascinato ed eccitato, e
immaginai il suo cazzo duro sotto i jeans.
«Vieni, dai», gli feci di nuovo. Anche la bionda glielo disse, lo
invitò a raggiungerci, ma Andrea scosse ancora una volta la testa.
Tornai a guardare lei, tolsi la mano dalla fica e la misi fra i nostri visi,
le avvicinai alla bocca le dita bagnate dei suoi umori e la invitai a
succhiarle.
«Assaggiati. Senti quanto sei dolce».
Lei le succhiò. Intanto mi abbracciava convulsamente.
Mi staccai dalla bionda e mi alzai. Lei provò a trattenermi ma
dolcemente tolsi la sua mano dal mio braccio. Mi rivolsi al suo uomo
che stava in un angolo del letto, immobile e sbigottito.
«Abbine cura: è una donna magnifica», gli soffiai.
Andai da Andrea che mi abbracciò.
«Perché non ti sei avvicinato?», gli chiesi all’orecchio dopo averlo
baciato.
«Eravate bellissime, temevo di rovinare la magia» rispose.
«Lo sai che prima o poi ti vorrò vedere scopare un’altra? Lo sai,
ragazzo? Lo sai?» aggiunsi. Lo ribaciai e gli morsi le labbra.
«Sì, lo so», disse arrossendo.
Ci prendemmo per mano e uscimmo. Gli uomini sull’uscio si
spostarono quasi con riverenza per farci passare.
Facemmo l’amore tutta la notte.
Ero felice. Su una giostra con una donna bionda, da sola, Andrea
non aveva lasciato per un attimo la mia mano.
Capitolo 13 - Risvegli

Quando è disteso con gli occhi chiusi, dopo un giorno intero


passato a farci l’amore, e si addormenta, mi piace stare nuda
addossata a lui, al suo corpo rilassato, pelle contro pelle. Mi piace
guardarlo da vicino, guardargli il viso, le ciglia che vibrano un poco
se sta sognando, la bocca appena dischiusa, la barba che si è fatto
crescere per me, per sembrarmi più grande, i capelli neri e lunghi,
tenuti così perché io adoro toccarglieli, passarci le dita.
«Che cosa vuoi?», gli dico piano per non svegliarlo. «Vuoi la mia
mente? Te la do. Il ventre che ha dato la vita? Il seno che ha
allattato? Te li do. Vuoi il cielo? Lo prendo e te lo do. Ti do tutto. La
mia follia, le mie rughe, i miei segreti, la passione, l’incanto…».
Lui non si sveglia perché gli parlo piano, il mio è appena un
sussurro. Però in qualche modo la voce gli arriva, perché lentamente
si muove: sposta un braccio, una gamba o muove appena un poco
la testa e mormora: «Amore mio».
È solo un attimo. La sua coscienza, la sua percezione si
affacciano a me solo per un attimo. Io me ne sto zitta, immobile e
regolo il respiro facendo finta di dormire. Lui mi stringe e si
riaddormenta.
Sorveglio il suo respiro. Quando sono certa che dorme, mi sollevo
e mi metto in ginocchio a guardarlo, a gustarmi con gli occhi il suo
corpo perfetto. Vorrei mangiarlo. Vorrei avere i denti negli occhi per
la voglia che ho di guardarlo.
Poi mi abbasso a prendergli dolcemente l’uccello in bocca. Adoro
farlo quando è così moscio e rilassato, perché non accade mai:
quando ci vediamo, e si spoglia o lo spoglio, è sempre tanto eccitato
che glielo prendo in bocca che è già in tiro. Quando lo faccio così,
mentre dorme, riesco a gustarmelo in questa forma tenera, indifesa
e per me nuova, lo accolgo piccolo e morbido tutto facilmente nella
bocca, subito. Posso adagiarlo sulla lingua, dargli dei piccoli colpetti
per farlo aderire bene al palato, tenermelo stretto lì e coccolarmelo
come in un nido, lui e la sua fragilità, la sua delicatezza.
Devo restare concentrata perché il tutto dura poco: dopo i primi
colpetti e massaggi di lingua sento la sua pelle tendersi e
l’animaletto che ricopre svegliarsi, divenire sempre più consistente.
Quanto amo in quel momento fermarmi e tenerlo così schiacciato,
assaporare come aumenta in spessore e durezza, ingrossandosi e
allungandosi, tanto da premere sui lati interni delle mie guance e
giungere a solleticarmi la gola. È un inno alla vita, alla tenerezza che
si fa forza, e potenza, e bellezza.
Allora con le labbra gli tengo stretta la pelle e scendo più giù, la
faccio scorrere insieme alle labbra che vanno a spingere le palle,
così che la sua cappella si scopre direttamente nella mia gola, dove
la sento ingrandirsi mentre io torno ferma. È una danza, la nostra.
Una danza che la mia bocca fa col suo uccello, fatta di soste e
movimenti, di richiami e di risposte. Riprendo a muovermi. Succhio e
provo a deglutire, in modo che i muscoli della gola gli massaggino la
cappella.
Ho la bocca piena adesso, le guance gonfie e tese, le labbra
contratte e strette alla base dell’asta, la cappella in fondo alla gola.
Ed è in questo momento che Andrea si sveglia, il suo respiro da
regolare si fa rapido, mi parla in un crescendo di “Amore mio” e mi
porta le mani sulla testa.
L’uccello cresce ancora. Sono svegli in due ora, lui e il suo cazzo,
ed è ormai così grosso e duro che per quanto mi sforzi non ce la
faccio più a tenerlo tutto in bocca. Mi lacrimano gli occhi e respiro
affannata col naso.
Mi stacco e gli dico la mia urgenza. Lui mi tira su e mi abbraccia
forte, mi stringe, le sue mani si muovono prepotenti sulla mia
schiena, sulle natiche, sul collo, sulla testa. Un abbraccio che non
trova forma, che ne inventa di nuove.
«Voglio che vibri fra le mie braccia, voglio che mi senti forte qui»,
mi sussurra all’orecchio mentre mi poggia la mano sul bassoventre,
premendo forte fino a sentirne le contrazioni. E poi dice: «E qui, e
qui», toccandomi il petto e la gola. Ma è solo quando ripete: «E qui,
amore», premendo forte la mano aperta sulla mia fronte, che io mi
rendo conto che sto già sfrenatamente tremando senza ritegno.
Capitolo 14 - Natale

Milano è sempre più bella a Natale. E la gente sembra felice. Io e


Valeria eravamo state a prendere gli ultimi regali. Camminavamo fra
le bancarelle di corso Vittorio, le braccia colme di pacchetti e
sacchetti.
«Ma agli amanti che regaliamo?» le chiesi.
«Al mio forse una borsa per la palestra. Tu al tuo che prendi? Lo
porti a Disneyland?», scherzò.
«Io gli compro un anello. Mi accompagni a prenderlo? Anzi.
Regalane uno anche al tuo!».
«Per carità» fece lei «Mi rompe già come un marito, figuriamoci se
gli regalo un anello! No No. Ti accompagno, ma al mio prenderò la
borsa per la palestra».
«Invece un anello potrebbe ravvivartelo. Vieni, prendiamo la
metro».
La presi per mano e accelerai il passo, facendomi spazio fra la
gente che affollava le bancarelle oltre le improbabili palme di piazza
Duomo.
«Aspetta» disse lei cercando di non far cadere i sacchetti. «Dai,
prendiamo un taxi».
Salimmo sulla prima macchina libera. Diedi un indirizzo al tassista.
Arrivammo dopo un quarto d’ora buono. Non era un posto solito per
Valeria. Nemmeno per me, ma insomma, ecco, io qualche volta c’ero
già stata.
«Entriamo», le feci indicando l’ingresso del sexy shop.
«Ma tu sei matta. Mi vergogno. Ma poi, scusa, non dovevi
prendere un anello?».
«Certo! Un anello vibrante per il cazzo, così il regalo è pure per
me…».
Lei scoppiò a ridere.
«Dai, entriamo», la incitai.
«Aspetta… Mi vergogno».
«Devo assolutamente fidanzarmi col suo cazzo. Ho bisogno
dell’anello!», dissi seria e buffa.
Valeria rise ancora ma ormai sapevo che sarebbe entrata: se le
donne ridono a quel modo si rilassano e diventano audaci.
Lei cercò in uno dei sacchetti, prese il berretto di lana che aveva
comprato per un collega e se lo calzò sulla testa, nascondendo ogni
ciocca di capelli
«Mi rovinerò la piega», sospirò.
«Quante storie», sbuffai. La presi per un braccio e la trascinai
dentro il negozio.
All’interno c’erano tre uomini soli, che si aggiravano tra le
scaffalature, e una giovane coppia al bancone che stava facendo un
acquisto.
Ci avvicinammo alla sezione sex toys. La mia amica restò appena
dietro di me, forse si vergognava un po’, teneva lo sguardo basso e
continuava a calarsi il berretto sulla fronte, ma era incuriosita: me ne
accorgevo dalle occhiate divertite che mi lanciava e dai risolini che
reprimeva quando le indicavo qualche oggetto. C’erano parecchi
dildo e vibratori, alcuni riproducenti falli, altri dalle forme più
variegate, che lasciavano intuire singolari modi di utilizzo. E poi
palline vaginali, plug anali, manette, frustini, morsi, strap on... Io ne
commentavo forme e colori, immaginando situazioni sconce, con
voce sufficientemente alta da farmi sentire. E la mia amica si
divertiva. Era bello vederla così allegra. Fantasticai di portarla a
cena una sera con Andrea, di farli conoscere, ero certa che si
sarebbero piaciuti.
«Ma quello cos’è, un rasoio elettrico?», chiese d’improvviso
Valeria avvicinandosi a un giocattolo con gli occhi socchiusi, come
per mettere meglio a fuoco.
«No. È un succhiaclitoride, cara», le precisai con tono
professionale.
«Uggesù», fece lei. «Quasi quasi me lo prendo come amante fisso
e mollo il mio!».
Scoppiammo a ridere. La risata fu liberatoria, perché anche lei
cominciò a commentare i giochi e a immaginare situazioni.
Facevamo quasi a gara.
La coppia al bancone concluse l’acquisto, così ci avvicinammo
noi. Chiesi al commesso di mostrarmi degli anelli fallici.
L’uomo me ne mostrò diversi, di vibranti e non, semplici o con
accessori. Li guardai accuratamente, leggendone a voce alta
caratteristiche e dimensioni, gustandomi l’imbarazzo di Valeria. Ne
scelsi uno liscio, rosso e vibrante e chiesi al commesso di farmi un
pacchetto regalo.
«Ah però! Hai preso il modello più grande», mi disse sottovoce
Valeria.
«Eh. Non ha mica solo la gioventù in dote il ragazzo!».
«Devo decidermi a cambiare il mio tipo con uno più giovane.
Oppure a sostituirlo col rasoio elettrico di prima», scherzò lei.
Il commesso mi consegnò il pacchetto, pagai e uscimmo.
Ridevamo ancora per strada quando Valeria si fece seria.
«Anna, non è che ti stai facendo prendere troppo da questa
storia? Sei diversa, cambiata. Vedi sempre e solo lui, parli sempre e
soltanto di lui. Non sei mai stata così con nessuno di quegli altri del
“database del peccato”. Lo sai che è una storia che non potrà
durare?».
Non le risposi e lei rincarò la dose.
«È troppo più giovane di te. Si stancherà e tu soffrirai. E anche se
non si stancasse è una storia che non ha futuro. Fra qualche anno la
differenza di età si vedrà, e poi i tuoi figli…».
«Ma va là, tranquilla. Guarda che io mi sono fidanzata col suo
cazzo, mica con lui!», la interruppi con tono strafottente
«Ecco! Brava. Così ti riconosco».
Ecco. Già. In quella frase la mia amica mi riconosceva. Il problema
era che non mi ci riconoscevo più io. Ma non glielo dissi.
Capitolo 15 - Miele

Ricordavo tutte le volte che c’eravamo visti. Il primo momento di


ogni volta. Di tutte le volte. Il suo titubante: “Sei tu Anna?”, nella hall
dell’albergo, la prima volta. Il tuffo della sua bocca fra i miei capelli la
seconda volta, quando lo avevo costretto ad aspettarmi in camera.
Lo sguardo eccitato del terzo incontro: stavolta io ad attendere con
una tuta nera di pizzo che mi ricopriva per intero (mani e piedi
compresi) con soltanto un foro all’altezza di fica e culo. Una Eva
Kant in versione porno.
Ricordavo tutti gli slanci nelle braccia l’uno dell’altra, nelle stazioni
ferroviarie, sulle banchine della metro, nelle camere di albergo. E la
sua sorpresa per il mio primo regalo di Natale, l’anello vibrante come
“dichiarazione di fidanzamento” al cazzo; la sua eccitazione quando
glielo feci indossare.
Era fine gennaio e faceva freddissimo. Avevo deciso che
avremmo giocato a non toccarci, il più a lungo possibile. Lui aveva
accettato. Come sempre.
Appuntamento alla stazione di Lambrate. Stavo percorrendo il
tunnel del sottopassaggio controcorrente, destreggiandomi
nonostante i tacchi fra le onde dei pendolari che si affrettavano.
Volevo stare al binario prima che arrivasse. Arrivai alla banchina
appena in tempo, mentre il treno da Cremona stava aprendo le
porte. Avevo le mani gelate nonostante i guanti, le portai alla bocca
soffiandoci contro il fiato. I viaggiatori scendevano invadendo la
banchina, affollando le scale verso il sottopassaggio.
Lo vidi avvicinarsi da lontano. Eravamo quasi soli quando mi
raggiunse. Ci salutammo senza sfiorarci nemmeno, ma io lo
“sentivo”.
Lo avvertivo in ogni fibra del mio corpo, attraverso la sottoveste,
l’abito pesante, il cappotto, la sciarpa. Nonostante l’aria fredda nello
spazio che ci teneva distanti e i vestiti di lui, il mio corpo percepiva
intensamente il suo, ne sentiva la vita. Era uno sforzo immane
resistere e non colmare la breve distanza che ci separava con un
abbraccio. Riuscimmo a non farlo.
“È molto che aspetti?”, “Che freddo oggi!”, “Facciamo colazione?”.
Ci nascondemmo dentro un dialogo irreale, in contrasto evidente
con l’esplosione sospesa dei corpi, i respiri concitati, il tremore delle
voci. Ci incamminammo lungo il tunnel verso il bar della stazione
senza darci la mano.
«Io prendo un caffè e una brioche, mio nipote non so. Tu cosa
prendi?», dissi quando il cameriere si avvicinò al nostro tavolo.
Come sapevo, Andrea ordinò succo e brioche.
«Ah già, dimenticavo… mio nipote non prende il caffè», aggiunsi
distrattamente al cameriere.
Ero su di giri, non ce la facevo più a non toccarlo.
«Hai le mani fredde. Dammele, te le riscaldo».
«Non sono questi i patti», fece finta di protestare.
Sbottonai il cappotto, mi tolsi lentamente i guanti e gli tesi le mani.
Lui mi diede le sue. Io come se niente fosse le infilai dentro la mia
scollatura, sotto il reggiseno, sulle tette nude. Gliele posizionai
perbene e sospirai soddisfatta godendomi la sua sorpresa.
Dal rossore di Andrea capii che il cameriere stava tornando, e gli
bloccai i polsi. Mollai la presa un attimo prima che l’uomo arrivasse.
Poi, mentre lui apparecchiava sul tavolo la colazione, mi alzai, mi
avvicinai ad Andrea, gli ficcai la lingua in bocca e gliela esplorai
perbene, smettendo solo quando la battaglia che le nostre lingue
avevano ingaggiato stava per farmi gemere. Mi staccai
compostamente e tornai a sedermi. Il cameriere era rimasto lì,
sbigottito, a guardarci.
Facemmo colazione mangiandoci con gli occhi.
Quando arrivammo in camera, la voglia che avevamo l’una
dell’altro era enorme. Andrea si avvicinò per abbracciarmi ma lo
bloccai. Tirai fuori dalla borsa un foulard di seta nero, gli dissi di
starsene zitto e fermo e lo bendai.
Quindi cominciai a spogliarlo. Gli tolsi sciarpa e giaccone. Quando
gli sfilai il maglione il suo odore mi fece impazzire. Mi morsi le labbra
per non gemere, incantata a guardargli il ventre, le spalle, le braccia.
Slacciai la cintura e gli sbottonai i pantaloni. La vista del
rigonfiamento del cazzo sotto le mutande mi fece sussultare, e
cominciai a respirare affannosamente.
Lo feci sedere sul letto. Gli sfilai scarpe, calzini e pantaloni, lo feci
sdraiare e gli tolsi le mutande, scoprendogli il cazzo già duro.
Quanto era bello. Nudo e bendato. Esposto e mio. Respiravo a pieni
polmoni per riempirmi dell’odore di lui.
Iniziai a svestirmi senza perderlo di vista un attimo. Lo guardavo
come si guarda un frutto pesante che sta per cadere, continuando a
pensare: “È mio. Sarà mio”.
Rimasi nuda.
Vedevo quasi palpitare l’uccello di Andrea fra i peli, il suo torace
abbassarsi e sollevarsi sempre più rapidamente. Avevo la fica
fradicia.
Era pazzesco: non ci eravamo fatti ancora una carezza eppure
eravamo prontissimi a scoparci e scoparci e scoparci.
Avevo portato un barattolo di miele. Lo tirai via dalla borsa. Lo
aprii e intinsi il dito indice portandomelo alla bocca più volte fino a
riempirla quasi. Avvicinai il mio viso al suo, le mie labbra alle sue,
dischiuse. Stetti per un po’ così, sospesa sul suo fiato. Poi gli misi la
lingua in bocca, lasciando scorrere dentro miele e saliva. Andrea
trasalì e cominciò a succhiarla.
Mi scostai. Intinsi nuovamente il dito, e stavolta non lo portai alla
bocca, lo tenni sospeso sul cazzo finché il miele cominciò a
gocciolare sulla cappella. L’uccello fece un guizzo. Ripetei
l’operazione più volte. Quando la cappella fu completamente
ricoperta e rivoli di miele scorrevano sull’asta, gli ficcai il dito in
bocca e mi abbassai a leccarlo. Passavo la lingua dovunque, su ogni
millimetro quadrato di uccello, sul filetto, sulla piega sotto la
cappella, nella fessura sulla punta, sull’asta, sulle palle, tra i peli…
Leccavo e ciucciavo cazzo e miele, mentre lui ansimava e mi
mordeva il dito.
Mi spostai. Intinsi ancora il dito nel barattolo e mi cosparsi il miele
sulla fica, avendo cura di riempirla tutta, labbra, piccole labbra e
grilletto. Restai qualche secondo a guardarlo, ammaliata
dall’immagine del mio ragazzo che attendeva fiducioso e bendato la
mossa successiva. A lui ignota.
Mi misi a cavalcioni sul suo viso, con la parte anteriore del corpo
rivolta verso i suoi piedi, e mi accovacciai, portandogli la fica
spalmata di miele alla bocca. Andrea cominciò a leccarmi
voracemente, a baciare, a mordicchiare... Tremavo. Miagolavo. Mi
godevo e assecondavo la leccata di fica strofinandogliela sulla
faccia, sulla bocca, sul naso. Ogni volta che il piacere si faceva più
intenso sussultavo e mi sollevavo, per poi riabbassarmi a sfregargli
ancora la passera in faccia.
Era più forte di me: a ogni ondata di piacere non resistevo e mi
sollevavo. A un certo punto Andrea si tolse con foga la benda dagli
occhi e mi strinse i fianchi. Mi tenne così sospesa sulla sua bocca,
poi mi soffiò sulla fica e la abbassò di forza sulla sua faccia,
riprendendo a baciare e leccare. Sussultavo, ma ormai, con le sue
dita conficcate nelle natiche, non ero più in grado di sollevarmi.
Mugolavo, ansimavo e cedevo alle ondate di godimento che mi
facevano strabuzzare gli occhi e smarrire i confini. Venivo e venivo.
Non avevo più miele nella passera, adesso: Andrea lo aveva
mangiato tutto e ora beveva succo di fica. Mi abbassai in avanti a
ciucciargli l’uccello, tenendo lo stesso ritmo delle sue leccate. Ogni
volta che sentivo arrivare il piacere aprivo di più la bocca per farmi
arrivare il cazzo in gola e rimanevo ferma a godermi ogni orgasmo
così, con la bocca e la gola pieni di lui, del suo cazzo che pulsava.
Quando capii che non ce la faceva più, che stava per venire, gli
chiesi di mettermi un dito nel culo.
«Ti voglio dappertutto. Ti voglio in ogni buco», dissi.
Mi ficcò un dito in culo e affondò la lingua nella fica nello stesso
momento in cui dal cazzo cominciò a stillarmi sborra calda in gola.
La ingoiai tutta senza sprecarne una goccia, come avevo fatto col
miele. Perché era più dolce del miele.
Rimanemmo avvinghiati nel sessantanove fino a quando i sussulti
dei nostri corpi cominciarono lentamente a placarsi e i respiri si
fecero finalmente regolari. Ci abbracciammo forte e ci baciammo a
lungo.
Ero sopra di lui, il viso affondato nel collo, quando mi sussurrò
all’orecchio con voce bassa e profonda: «Ti voglio bene Anna».
Trattenni il respiro. Mi sollevai sugli avambracci, puntai il viso
contro il suo e lo guardai negli occhi. Occhi negli occhi, come
facciamo noi, nei nostri fermi immagini di miele.
«Dimmelo bene», chiesi.
«Ti amo Anna».
Ero commossa. Lo abbracciai forte mordendomi le labbra per non
farmi sfuggire quanto anch’io lo amassi. Non volevo dirlo. Non ero
così coraggiosa come credevo. Perché ci vuole più coraggio a
mostrarsi fragili che forti.
Capitolo 16 - Julija sui tubi

Ci vedevamo sempre più spesso. Qualche volta andavo a trovarlo


a Cremona, quasi sempre era lui a venire a Milano. Passavamo
insieme giornate intere. E le notti, talvolta, quando potevo,
inventando a casa viaggi di lavoro.
Andrea non si negava mai. E meno male, perché non sarei più
riuscita a dirmi “Bon. Se non può questa settimana vedo quell’altro
che me la leccava così bene”. Non era interscambiabile, lui. Lo
sapevo.
Non era più solo voglia del suo cazzo, era voglia di me e di lui
insieme, di guardarlo negli occhi e sentirmi guardata, di scambiarci il
fiato, di gustarlo finché il suo odore non diventava il mio. Era
soprattutto dopo il sesso, quando i corpi smettevano di parlarsi, dopo
i baci e gli orgasmi, che mi accorgevo di quanto tutto fosse diverso
rispetto a ogni mia avventura passata.
Avevamo cominciato a uscire. A cena, al cinema, a teatro, nei
locali. E nel mondo, tra la gente, portavamo in giro le nostre
differenze. Non eravamo – non siamo – diversi solo per via dei miei
vestiti eleganti e dei suoi casual. Agli occhi degli altri, accanto a lui
che pure con la barba sembrava un poco più grande, la mia età
smetteva di essere invisibile. C’era chi ci guardava con simpatia, chi
severamente, chi incuriosito, e le diverse reazioni che le persone
avevano verso noi (che invece eravamo sempre gli stessi) ci
divertivano.
Una sera, fuori dal San Babila dove avevamo visto una commedia
che ci era piaciuta moltissimo, gli dissi: «Andiamo a vedere un altro
spettacolo? Tanto abbiamo tempo, stanotte mi fermo a dormire».
«Andiamo», fece lui senza nemmeno chiedermi che cosa avessi in
mente.
Fermai un tassì e salimmo. L’autista, un milanese verace
sessantenne o giù di lì, chiese dove dovesse accompagnarci.
«Veramente non lo so. Volevo portare mio nipote in un locale di
lap dance, ma non ne conosco nessuno. Lei può aiutarci?», dissi
con voce cantilenante e un poco da cretina.
«Vent’anni che faccio il tassista a Milano ed è la prima volta che
una donna mi chiede di andare in un locale di lap dance! Ok signora.
Vi ci porto io!», rispose il tassista scrutandomi nello specchietto
retrovisore con uno sguardo interessato.
«Grazie», dissi. Poi, mentre prendevo la mano un po’ fredda di
Andrea e me la mettevo sotto il vestito fra le gambe, nel tepore fra le
mie cosce, aggiunsi: «Lei è davvero gentilissimo. Ah sa? Lui non è
mio nipote…».
Il tassista scoppiò in una fragorosa risata e Andrea arrossì. Risi
anch’io e chiesi: «Lei non ha mai avuto una nipote?».
Il tassista si sciolse. Per tutto il tragitto ci raccontò che era stato
con una ragazza russa di vent’anni più giovane, una ballerina di lap
dance. Raccontò che erano molto innamorati, che avevano vissuto
insieme quattro anni, e che un giorno d’improvviso lei era sparita nel
nulla e lui non ne aveva saputo più niente.
«Sarà impazzito dalla disperazione», mi lasciai scappare con voce
comprensiva. «Per il pensiero di quel che può esserle accaduto…».
«Ma no. Non le è accaduto nulla. Le russe sono così. Sono strane.
D’improvviso spariscono», minimizzò il tassista.
«Ma ci avrà sofferto, quattro anni insieme e poi d’improvviso
sparire così. Insomma… ci sarà stato male», incalzai.
«Ma no. Giusto un paio di giorni. L’avevo messo in conto: le russe
sono strane…».
Non so dire perché, ma mi convinse. Dovevano essere stati
innamorati davvero, e davvero lui poteva aver messo in conto che
finisse così. Le russe sono strane…
Arrivammo al locale. Era una grande sala estesa
longitudinalmente; nella parte mediana si sviluppava una pedana
rialzata con tre tubi verticali. Addossati alle pareti c’erano tanti
divanetti e tavolini. Le luci erano basse e la musica gradevole. Sui
divani sedevano uomini, uomini e basta, per la gran parte soli e di
mezza età. In un angolo c’era un gruppo di quattro trentenni dall’aria
fuori posto. Sulla pedana si davano il cambio delle ragazze
bellissime, tutte molto giovani e poco vestite, che ballavano
strofinandosi sui tubi e spogliandosi piano.
Altre ragazze si muovevano fra il bar e gli uomini. Con un sorriso
vacuo stampato sul volto e gli occhi assenti, si sedevano vicino a un
cliente, consumavano – meglio, fingevano di consumare quel che il
cliente offriva loro – ridevano frivole e si strusciavano sull’uomo,
lasciandosi toccare cosce, culi e seni. Dopo una decina di minuti di
questa recita, le ragazze poggiavano il loro bicchiere ancora colmo
sul tavolino vicino, abbandonavano il cliente di turno salutandolo con
bacino sulla guancia e si spostavano altrove, avvicinandosi a un
altro per ripetere lo stesso teatrino. Di tanto in tanto salivano sulla
pedana e si mettevano a ballare, dando il cambio a un’altra ragazza.
Fra i clienti ero l’unica donna e un po’ tutti ci guardavano con aria
incuriosita. Andrea era decisamente meno imbarazzato di quanto
avessi previsto. Cominciai a sussurrargli all’orecchio, invitandolo a
guardare i dettagli delle ragazze che mi piacevano. Il culo di una, le
tette di un’altra, le labbra di un’al-tra ancora che sembravano, così
gli dicevo, “fatte per i pompini”. Oppure gli indicavo i clienti.
«Guarda quello, l’ha fatta sedere sulle sue ginocchia e se la sta
facendo oscillare addosso… Secondo te, a lui sta tirando l’uccello?».
Alternavo queste comunicazioni a colpetti di lingua all’orecchio,
baci e piccoli morsi sul collo. Andrea ogni tanto arrossiva, ma alla
mia domanda se fosse a disagio sorrideva e rispondeva di no, che
anzi si stava divertendo.
«Adesso ti faccio divertire di più», gli dissi.
Osservai le ragazze del locale e tra tutte mi colpì una biondina
poco più che ventenne, che ballava appoggiata a un tubo, vestita
con un abitino cortissimo bianco, occhi azzurri e tette magnifiche.
Quando smise il suo “numero” la chiamai. Le chiesi di venire a
bere qualcosa con noi battendo la mano più volte sulla coscia di
Andrea, invitandola a sedersi sulle ginocchia di lui. Lei, dopo un
attimo di esitazione, venne a sedersi in braccio al mio ragazzo.
La cosa che più mi piacque in quel momento fu percepire,
distintamente, come quel mio invito – insolito, tanto quanto insolita
probabilmente doveva sembrarle la presenza di una donna in quel
posto – avesse eliminato di colpo dal volto della biondina il sorriso
statico che tutte le ragazze del locale avevano. I suoi occhi, prima
assenti e distratti, erano diventati di colpo vivaci.
Ordinammo da bere. La ragazza, seduta sulle ginocchia di
Andrea, cominciò a raccontarsi. Era russa. Aveva ventidue anni e si
chiamava Julija. Era piacevole ascoltarla. Parlava con un accento
slavo che dava alla sua vocina un colore sexy. Cominciai ad
accarezzarle piano le braccia, a dirle quanto fosse morbida la sua
pelle. Lei parlava e parlava, ma gli occhi azzurri tradivano una
curiosità crescente.
Andrea era bellissimo. Quella meravigliosa ragazza sulle
ginocchia lo faceva splendere ancora di più. Aveva un’aria
frastornata e mi sorrideva con la bocca e con gli occhi. Guardava
me, ci scambiavamo un’occhiata di intesa, poi seguiva con gli occhi i
movimenti delle mie mani sulle braccia di lei. E tornava a guardarmi.
«Hai delle tette bellissime, lo sai?», dissi a Julija percorrendo con
l’indice il bordo della sua generosa scollatura. Lei mi disse che
anch’io ero bella. Mi prese le mani e le accompagnò sui suoi seni in
modo che ciascuna potesse accoglierne uno. Sorridemmo tutti e tre.
Poi Julija riprese a raccontare. Del suo lavoro, di un suo ragazzo
geloso che avrebbe voluto mollare (“anche solo per poco” disse) e
delle tette che avrebbe voluto ridurre.
«Ridurle?», dissi io. «Ma no. Sono bellissime. Senti amore».
Presi le mani di Andrea e, vincendo una sua iniziale resistenza, le
portai sul seno di Julija. Continuai a tenere le mie mani su quelle di
lui, muovendole sulle tette della russa, invitandolo a palpare, a
toccare, a tastare facendogliele strizzare appena. Julija si era zittita,
ma era chiaro che la situazione le piaceva parecchio, perché aveva
uno sguardo divertito ed eccitato. Quando mi accorsi che Andrea
avrebbe continuato da solo le carezze, tolsi le mie mani dalle sue e
mi incantai a guardarlo.
Andrea era magnifico: toccava quelle tette belle, grandi e rotonde
con un’espressione spudorata e sfrontata che lo rendeva sexy e
affascinante. Anche Julija lo guardava ammaliata. Poi guardò me e
mi sorrise, maliziosa e complice. Mi prese per mano e
cominciammo un gioco di dita e di unghie smaltate di rosso che si
toccavano, si intrecciavano, si allontanavano, per poi riavvicinarsi e
ricominciare.
Con l’altra mano io le accarezzavo le cosce bianche, mentre lei
faceva altrettanto con le mie, scure e abbronzate, sorridendoci a
ogni brivido che la carezza di una strappava all’altra.
Andrea era eccitatissimo, lo vedevo imbronciare le labbra a ogni
strizzata di tette che le faceva, a ogni sospiro che sfuggiva a me o a
lei. Lo sentivo respirare più forte quando si perdeva a inseguire con
gli occhi quel gioco di mani confuse. Quando il cameriere portò da
bere ci accorgemmo che eravamo diventati noi tre l’attrattiva del
locale. Ci guardavano tutti: il gruppo di trentenni, il gestore, gli
uomini soli; persino le ragazze sulla pedana, che avrebbero dovuto
essere lo spettacolo…
Poco dopo Julija sembrò svegliarsi. Ci disse che non poteva
trattenersi oltre, che per accordi col gestore del locale poteva
rimanere solo dieci minuti con ogni cliente. Ma ci tenne ad
aggiungere che voleva rivederci e che, se si fosse mollata col
ragazzo, avrebbe voluto far l’amore con noi. Però bisognava
aspettare che si mollasse “almeno per poco”, perché lei era seria e
“non tradiva”. Raccontò che ogni tanto le accadeva di mollarlo
“apposta”, che anche quando era andata in un privé ad Amsterdam
aveva avuto cura di prendersi una pausa di riflessione nel rapporto
col suo ragazzo di allora perché, precisò di nuovo, lei era seria e non
tradiva.
«Appena mi mollo voglio rivedervi. Dopo magari mi ci rimetto
insieme», concluse.
Mi diede il suo numero di telefono e ci salutammo con un lieve
bacio sulla bocca.
«Che strana filosofia quella di Julija…», mi disse Andrea in
ascensore, tornati in albergo.
«Che vuoi farci?” dissi imitando la voce del tassista, «Le russe
sono strane!».
Scoppiammo a ridere e ci fiondammo in camera a fare l’amore,
affamati l’uno dell’altra come sempre, con quella fame che si
rinnova, si reinventa ogni volta, si riscopre più potente e non si sazia
mai.
Ci spogliammo freneticamente, lo feci sdraiare e mi impalai quasi
subito sul suo uccello, stringendo le pareti della vagina per
assaporarlo meglio e farlo più mio, dondolandomi lentamente avanti
e indietro, dondolandogli il cazzo e l’anima.
Stavo per venire quando Andrea mi poggiò la mano sul collo e
cominciò a stringerlo, nel modo che gli avevo insegnato. Ero sempre
stata io a prendergli le mani e a portarmele al collo. Stavolta aveva
preso l’iniziativa lui. Stringeva forte, come tante volte lo avevo
pregato di fare, ma fino ad allora non aveva mai osato per il timore di
farmi male.
Stringeva e ripeteva «Godi amore».
La sua voce mi scatenò. Cominciai a soffiare e a cavalcarlo più
forte, fino ad esplodere in un piacere che mi attraversò e mi scosse
tutta. Poi crollai, esausta e appagata, fra le sue braccia.
Eravamo in silenzio a goderci quel momento magico quando mi
venne in mente una cosa del mio passato.
«Sai che un mio amante francese una volta mi ha detto che
quando faccio l’amore stando sopra mi muovo come le russe?».
Andrea mi prese il viso fra le mani e tutto serio mi sussurrò: «Tu
sei sempre stata un po’ strana, amore mio…».
Scoppiammo a ridere.
«Ora abbassati e succhiami il cazzo, perché voglio sborrarti in
gola», disse.
Quel linguaggio osceno in bocca ad Andrea mi fece girare la testa.
Ubbidii e mi abbassai senza esitare sul suo uccello. Glielo presi in
bocca, chiusi gli occhi e in cuor mio ringraziai commossa Julija e
tutte le russe del mondo, perché se quella sera il mio ragazzo era
stato capace di dirmi il termine “sborrare” senza arrossire, forse un
pochino di merito era pure loro.
Capitolo 17- Il bacio

È primavera. Siamo a Cremona nella casa dei suoi genitori, che


sono in vacanza in montagna. I suoi genitori. Una coppia di una
manciata d’anni più grande di me. E io sono in camera loro, pronta a
farmi scopare.
Lui è di là in cucina, gli chiedo di portarmi del vino mentre mi sto
spogliando. Lancio vestiti e lingerie sulla cassapanca addossata alla
parete di fronte e mi sdraio sul lettone, rotolandomici sopra,
annusando l’odore di bucato fresco, immaginando lui quella mattina
che stende lenzuola pulite per noi sul letto dei suoi.
Sono eccitata da impazzire, le mie gambe non hanno quiete: le
apro, le chiudo, le accavallo e poi torno ad aprirle mentre mi tocco il
seno, mi titillo i capezzoli e continuo a rotolarmi sul letto.
Andrea arriva. È bello, emozionato come sempre, ha due calici di
vino bianco nelle mani e si avvicina piano guardandomi.
«Fermati», dico.
Mi metto seduta e spalanco le cosce.
Lui si ferma. Lo guardo. Vorrei cominciare a masturbarmi, a fargli
uno spettacolino sconcio, ma poi ci ripenso: voglio che mi prenda
ora, subito. Voglio trascinarlo immediatamente sul letto – su quel
letto – e tra le mie gambe per fargli capire l’entità del mio desiderio,
voglio che mi scopi subito con vigore, con rabbia, quasi a urlarmi che
non è un sogno, che non siamo un sogno.
Gli tolgo i bicchieri dalle mani, li poggio sul comodino e comincio
freneticamente a spogliarlo.
Finalmente è sopra di me, fra le mie gambe aperte, le fronti unite.
Quanto lo voglio. Respiro forte il suo odore mentre sento l’uccello
duro guizzarmi fra le cosce, colpire la loro faccia interna, come un
animale cieco che avanza cercando la sua strada. La cappella mi
tocca l’inguine, poi le grandi labbra, poi finalmente trova l’ingresso
alla fica. Si sente il rumore del cic-ciac dei miei umori che i colpetti
del cazzo provocano battendomi la passera. Lui piano fa scorrere la
cappella contro la fica scivolosa. Ci guardiamo, ci respiriamo sul
viso. Andrea rimane immobile: non mi affonda il cazzo dentro. Mi
guarda sornione mentre io impazzisco di desiderio. Caccio fuori la
lingua a cercargli le labbra. Lui risponde al mio bacio, mi respira
nella bocca ma non si decide a piantarmi il cazzo nella fica. Mi sento
tendere tutta, tremo per la voglia di cazzo e per come mi sta facendo
sentire: femmina, fica, cagna in calore al guinzaglio, al guinzaglio
delle sue stesse voglie, o del suo cazzo, che poi è la stessa cosa. È
lì, sento la sua cappella palpitare all’ingresso della fica, ci stiamo
guardando negli occhi mentre le nostre lingue danzano
oscenamente. È questo che si intende per “scoparsi la mente”?
Penso di sì, perché sto godendo dentro al cervello. Inarco la
schiena, sollevo il bacino e mi prendo tutto il cazzo. Lui si discosta
un poco, quasi a negarmelo, quasi a fuggire. Gli metto le mani sui
fianchi e sollevo il bacino più in alto fino a farmelo affondare tutto
dentro e sentire le palle che mi colpiscono. Poi mi abbasso per farlo
scorrere un po’ fuori e torno su, con lui che continua a tentare di
ritrarsi appena. Voglio essere sbattuta, chiavata.
Lui lo sa. So che ormai sa cosa voglio e come lo voglio, e so che
vuole farmi impazzire di desiderio. Mi sento sperduta io, stavolta.
Alla successiva mia risalita del bacino per accoglierlo non torno più
giù: mi ancoro saldamente con le braccia alle sue spalle e contraggo
i muscoli delle pareti della vagina a serrargli il cazzo. Andrea geme
forte. Sto vincendo: quando gli strizzo l’uccello con la fica diventa
matto. Lo so bene. E allora continuo. Col bacino sollevato comincio
ritmicamente a rilasciare e contrarre i muscoli, un abbraccio infinito
di fica che gli sta mungendo il cazzo. Andrea mugola e comincia a
ripetere “Oddio”. Il cazzo pulsa sempre più forte. Lo sento. Continuo
a restare con la schiena inarcata e il bacino sollevato. E stringo e
rilascio, contraggo e distendo la fica.
Poi finalmente succede: Andrea mi urla che sono sua, mi afferra
con i palmi le natiche, mi tiene ferma e comincia a sbattermi. Mi sta
scopando come sa fare e come volevo. Il sudore inonda i nostri
ventri incollati. Adesso sono io a gemere forte e a socchiudere gli
occhi mentre rovescio indietro la testa.
Lui mi morde sul collo.
«Guardami», mi dice.
Obbedisco. Lo guardo e miagolo e gemo. Le sue spinte sono
sempre più potenti, precise, intense, favorite dalle mani che mi
tengono ben fermo il culo e assecondano ogni suo affondo.
Mi parla nella bocca. «Godi amore mio. Godi».
Lo ripete sempre più forte. Sento la sua voce e le molle del
materasso che cigolano. Poi vengo. Il mio grido di sillabe
disconnesse ricopre ogni altro suono. Una lunga lallazione che pian
piano da incomprensibile si fa chiara e distinta. Sto ripetendo
all’infinito: «Ti amo». Finalmente glielo dico.
«Ti amo».
Quante volte le molle dei materassi hanno ceduto, sotto le spinte
dell’amante del momento? Quanti morsi e baci e graffi sulla mia
pelle? Quante parole, uguali e identiche, sussurrate e urlate fra i miei
capelli? Quante braccia aperte e mani strette e lingue confuse?
Centinaia forse. Ma così non è stato mai. Un così che a ogni
orgasmo ti do il mio cuore e non lo rivoglio indietro, perché ogni volta
me lo raddoppi, me lo rinnovi. Un così che è un dono di amore
magico, perché più te ne do e più ne ho. Un così che è insieme
porco e dolce, qualcosa che rende ancora più intensa la sensualità,
arriva fino in fondo al cuore e dà un senso a sospiri e orgasmi, li
sorregge e li tonifica, ne aumenta l’intensità e la gioia. Andrea
vorrebbe scoparmi ancora ma gli sguscio da sotto. Lo faccio mettere
in piedi sul letto e mi accovaccio sotto di lui.
Com’è bello... Gli faccio scorrere le mani, le unghie sui fianchi,
sulle natiche e non smetto di guardargli l’uccello. Forse lui si aspetta
un pompino ma io lo guardo e basta. Lo fisso. Mi avvicino di più con
gli occhi per colpirgli la cappella con le ciglia, sbattendo le palpebre.
Poi torno a guardarlo, senza smettere di accarezzargli fianchi e
natiche con le mani. Ogni tanto avvicino le labbra al suo cazzo e gli
dico che lo amo. Glielo sussurro da vicino, vicinissimo. Faccio
dichiarazioni d’amore al suo cazzo come se potesse sentirmi.
Alzo lo sguardo. Lui ha quell’espressione a metà fra l’orgoglioso e
l’imbarazzato che adoro. Comincio a sfiorargli piano l’uccello, un po’
con le dita e un po’ con la lingua. Lo percorro, ne disegno i contorni,
le vene pulsanti in rilievo. C’è il sapore di me sul suo cazzo. Andrea
geme e gemo anch’io. Sto gustandomi e appagando il desiderio di
esplorarlo, di appropriarmi di ogni singolo fremito a ogni tocco di dita,
di lingua o di ciglia. Una voglia che non avevo mai provato per
nessuno. Vorrei avere mille mani, cento bocche e dieci lingue per
trasmettergli tutta la forza, tutta la tenerezza e sincerità del mio
desiderio.
Mi sposto, gli dico che ho sete e prendo un calice di vino dal
comodino. Lo avvicino al cazzo. Gli immergo il cazzo nel bicchiere.
Lui rabbrividisce e rovescia indietro la testa. Prendo l’uccello in
bocca e comincio a succhiare… Sapore di lui, di vino e di me.
Quando il cazzo torna caldo ripeto l’immer-sione, poi torno a
pomparlo. E poi di nuovo. E di nuovo. Una doccia scozzese al suo
cazzo fatta col vino freddo e la mia bocca calda.
Poi mi dedico totalmente a lui. Lo amo con la bocca, lingua,
labbra, respiro e gola. Ormai lo conosco totalmente, riconosco ogni
brivido, ogni palpitazione, ogni sussulto del suo uccello. Ascolto il
fremere delle sue vene in rilievo e vario la pompa nel modo che più
gli piace. Quando percepisco le pulsazioni che preannunciano
l’orgasmo vado su e giù lentamente ma più energicamente. Stavolta
però non lo faccio venire in gola: quando lui esplode io serro le
labbra appena sotto la cappella e metto la lingua a conca ad
accogliere lì tutta la sua sborra, lo succhio con accortezza in modo
da stillarne ogni goccia.
Andrea sta tremando e gemendo. Io ho la bocca piena e non
ingoio. Mi sollevo, mi metto in piedi sul letto e gli poggio le mani sulle
guance, costringendolo ad abbassare la testa che aveva rovesciato
all’indietro, poi avvicino le labbra alla sua bocca imbronciata e lo
bacio. La sua lingua si ferma solo un attimo quando si rende conto di
trovare la mia bocca piena di lui. Vacilla e vacillo anch’io. Poi mi
serra forte fra le braccia e prende a baciarmi con passione. Un bacio
infinito e scandalosamente squi-sito, un lungo bacio con cui ci
passiamo e succhiamo dalle lingue sborra e saliva. Un bacio intimo,
spudorato e profondo, di un tipo che non avevo mai dato.
Poi stremati crolliamo sul letto.
Siamo in silenzio, stiamo galleggiando nel nostro dopo che è
sempre nuvola. Apro gli occhi, allungo il braccio sul lenzuolo bianco
e col polpastrello dell’indice raccolgo tre ciglia che vedo lì sparse.
Avvicino il dito agli occhi, le guardo e penso che quelle ciglia sono
tutto quello che restava degli amplessi coi miei passati amanti: un
“dopo” fatto di nulla, e tre ciglia sparse sul lenzuolo.
Soffio via le ciglia dal dito. Gli parlo con voce da bambina.
«Il vino e il dolce li abbiamo bevuti. Andiamo a fare il caffè?».
Capitolo 18 - Patrizia

Quando vado nel mondo reale, coi miei tailleur, l’aspetto


professionale, il distacco calcolato, a volte mi sorprende prepotente
un pensiero sconcio, e allora me lo chiedo: come sono diventata
così? Ho avuto la fortuna di nascere libera, senza paura di niente.
Qualche volta l’ho incontrata, una libera come me. Una in grado di
godere del suo corpo come vuole e con chi vuole. La differenza tra
me e lei – tra me e loro – è sempre passata dal modo in cui
avevamo imparato. Molto spesso c’è un uomo libero dietro una
donna intimamente puttana, uno che ti insegna. Ecco, io no. Io sono
un’autodidatta assoluta. Non c’è un maestro di cerimonie, dietro la
mia sessualità. Certo, a volte era accaduto che mi fossi fatta
sottomettere, rendendomi disponibile a tutto, ma era solo una recita
per dare sapore al gioco.
Era anche capitato che a sottomettere l’amante di turno fossi io.
Ma in ogni caso si era trattato di ricreazione, divertimento, svago.
Lo so solo ora, dopo anni di onorabilissime scopate, quanto per un
essere umano possa avere importanza incontrare un maestro. In
qualsiasi campo, e il sesso non fa differenza…
Andrea era il mio allievo. Occuparmi della sua educazione
sessuale e sentimentale mi esaltava. Mi eccitava persino pensare
che le sue future donne mi sarebbero state grate. Me le immaginavo.
E immaginavo lui con loro, un giorno. Un lui diventato, anche grazie
a me, libero, abile e generoso amante. Fantasticavo di vederli
scopare e godere. Mi eccitavo orgogliosa evocando quelle fantasie.
Qualche volta mi toccavo.
Ma come sarebbe stato vederlo scopare con un’altra, adesso e
finalmente? In quel giro di giostra saremmo rimasti ancora mano
nella mano?
Avevo già diviso un uomo mio con un’altra donna. Perfino con una
più bella e giovane di me. Ma mai era capitato con un partner di cui
fossi innamorata. Sarei riuscita ad appropriarmi di quel momento
come fantasticavo? Sarei stata in grado di sentire Andrea mio, tutto
mio, anche in quel modo?
Avevo conosciuto Pat quasi tre anni prima, grazie a Dario, un mio
amante fantasioso, uno dei primi conosciuti nel sito di incontri. Era
stato un pomeriggio deliziosamente erotico. Patrizia era una
trentaduenne bellissima e sexy, sorrideva sempre e aveva sempre
una voglia matta di giocare e fare l’amore. Quel mio amante era
finito presto nel dimenticatoio insieme agli altri, ma con Pat ero
rimasta in contatto. Un contatto leggero, fatto di sporadici sms
giocosi o vignette simpatiche in messaggistica. Un paio di volte
l’avevo pure coinvolta in gustosi giochini a tre con qualche altro
amante di dopo. Mi piaceva fare l’amore con lei e anche lei adorava
far l’amore con la “signora bella” (è così che mi chiama). Le telefonai
quella primavera. Le chiesi se aveva voglia di far impazzire insieme
a me un bellissimo ragazzo. La risposta di Pat fu quella che
prevedevo: “Certo signora bella”.
Andrea aprì la bottiglia e versò il vino, ostentando una disinvoltura
che sapevo non essere vera. Guardavo la sua mano ferma che
versava da bere, eppure lo vedevo tremare dentro i suoi occhi
smarriti, consapevoli di avere due donne per sé e nessuna idea di
come gestirle. D’altronde, io a mia volta ero consapevole che di lì a
poco lo avrei visto scopare un’altra. Avevo fantasticato quel
momento più volte, io, lui e la mia amica, a giocare. Ma chissà come
sarebbe stato viverlo davvero.
Patrizia era fra di noi, bella, alta, grandi tette, capelli neri corti,
occhi grandi e una bocca perennemente atteggiata al sorriso.
Avevamo brindato e bevuto. Eravamo in piedi davanti al letto. Io e
Pat l’una di fronte all’altra e Andrea al nostro fianco. Avvicinai il viso
a quello di lei. Sentii l’odore del suo rossetto e lo leccai. Le passai
languida la lingua sulle labbra, lentamente. Intanto tenevo Pat negli
occhi grandi e lei guardava dentro i miei. Quando le sue labbra
furono umide cominciai a colpirle con la lingua, dei colpetti rapidi e
vicini che le fecero dischiudere la bocca. Io non staccavo gli occhi da
quelli di Pat, ma sentivo lo sguardo di Andrea su di noi, l’odore di lui
che mi arrivava alle narici fra il profumo di lei. Respirai più forte per
assaporarli entrambi, poi chiusi gli occhi e ficcai la lingua in bocca a
Pat. Lei portò la mano alla mia nuca e mi rovesciò la testa
all’indietro. Chiusi gli occhi per godermi quel bacio mentre sentivo
Andrea che respirava più forte e immaginai il suo cazzo che si stava
indurendo.
Ci staccammo e sorridemmo. Misi una mano tra le tette di Patrizia
e guardai lui.
«Hai visto che belle? Sentile», sussurrai accompagnandogli una
mano sul seno di Pat.
Andrea cominciò ad accarezzarla mentre io e lei, come se
avessimo un tacito accordo, prendemmo a guardarlo con la stessa
espressione di attesa. Gli occhi di Andrea guizzavano dagli occhi di
Pat ai miei, alla sua mano che palpava il seno di lei.
Patrizia mi guardò e riprese a baciarmi sulla bocca facendo
scivolare la mano dalla mia nuca alle mie spalle. Era una carezza
dolce, lunga. Mi avvicinava a sé, premeva le sue tette alle mie,
schiacciando nel mezzo la mano di Andrea. Io presi l’altra mano di
lei, la strinsi e insieme andammo a toccargli la patta, seguendo con
le dita il percorso del cazzo duro che premeva contro il tessuto.
Andrea ci si addossò. Avvicinò il viso ai nostri chiudendo gli occhi.
Non appena io e lei avvertimmo il suo respiro sulle guance
smettemmo di baciarci. Continuando ad accarezzargli il cazzo
attraverso i jeans e tenendo serrata la sua mano tra le nostre tette,
cominciamo insieme a leccargli le labbra. Era tutto un guizzare di
lingue, di baci e morsetti, di saliva che si mischiava, di confini che si
oltrepassavano, di labbra, di denti e palati che si assaporavano. Un
bacio infinito. Il cazzo di Andrea sembrava voler esplodere dentro i
pantaloni: lo sentivo pulsare. Mi sciolsi dall’abbraccio e mi buttai sul
letto.
«Tesoro, dì al ragazzo che si spogli e ci raggiunga» dissi a Pat
ridendo.
«Credo l’abbia sentito signora bella, adesso il ragazzo ci
raggiunge», rispose lei sedendosi sul letto vicina a me.
Io e Pat ci spogliammo e cominciammo a limonare. Eravamo
nude, avvinte, gambe e braccia intrecciate e lingue confuse. Quando
lei si abbassò a succhiarmi i capezzoli, io le misi le mani tra i capelli
e sollevai lo sguardo a cercare Andrea, che era rimasto in piedi
immobile a guardarci estasiato.
«Spogliati», gli ordinai.
Lui cominciò a farlo, io chiusi gli occhi, rovesciai la testa all’indietro
e cominciai a mugolare piano, gustandomi le labbra e la lingua di
Patrizia che mi stava mangiando le tette.
Riaprii gli occhi e tesi la mano aperta, il palmo rivolto verso l’alto,
al mio splendido ragazzo ormai nudo, invitandolo e accogliendolo fra
me e la mia amica, accogliendo il suo corpo, la sua erezione e la sua
emozione.
Cominciammo a dar vita a un armonioso fluire geometrico, a un
triangolo mutevole che cambiava forma, vertici e lati ma manteneva
intatta la sua perfezione. Andrea era vorace, affamato, incredulo.
Forse prima immaginava, come la gran parte degli uomini, che fare
l’amore con due donne avesse a che fare con le scene ridicole che ti
propinano i porno. E ora scopriva che era un magico scorrere senza
soluzione di continuità… Un dolce scivolare di respiri e di mani, di
lingue, di fiche, di cazzo e sorrisi. Non c’era nulla di osceno o
indecente. Solo un gioco eccitante e sensuale che pareva una
danza. Intensa. Immensa. Perfetta.
Diverse volte dovetti fare uno sforzo per riprendermi da quel fatato
languore e afferrare la lucidità che volevo per gustarmelo appieno.
Per guardarlo incantata leccare la fica di Pat mentre lei leccava la
mia. O tenerlo negli occhi mentre Pat a quattro zampe gli ciucciava
l’uccello e io le baciavo la passera.
Poi volli vederli scopare. La mia bocca prese il posto di quella di
Pat e cominciai a succhiarlo mentre con la mano frugavo la fica della
mia amica, strappandole miagolii deliziosi.
«Te la sto preparando amore mio, così te la scopi»
Gli calzai il preservativo sul cazzo bagnatissimo della mia saliva e
dolcemente, con carezze e baci, spinsi Pat a montargli sopra.
Patrizia si impalò su di lui e cominciò ad andare su e giù. Mi
avvicinai col viso a guardare i loro sessi uniti e iniziai a leccargli le
palle mentre lui la scopava. Le mani di Andrea andavano dai fianchi
di Patrizia ai miei capelli. Mi sollevai e montai anch’io a cavalcioni
sulle cosce di lui, posizionandomi dietro Pat con le tette appoggiate
alla sua schiena, abbracciandola e accogliendo le sue nelle mie
mani.
La mia bella amica gemette sospirando “Signora bella” e rovesciò
la testa poggiandola nell’incavo della mia spalla. Guardai
compiaciuta Andrea negli occhi. Mi spostai e andai a sussurrargli
all’orecchio.
«Bravo amore mio, ora falla godere».
Il mio ragazzo sollevò le ginocchia e iniziò a muoversi come un
cavallo imbizzarrito. Quando sentii che Patrizia stava per venire mi
avvicinai a lei e la baciai profondamente sulla bocca.
Quel pomeriggio variammo più volte la danza e la forma del nostro
armonioso triangolo. Fuori era ormai buio. Andrea era in piedi e io e
Pat eravamo inginocchiate davanti al suo uccello a baciarci e a
baciarlo. Gli succhiavamo alternativamente il cazzo e ci
succhiavamo le lingue mentre lui ci teneva le mani sulle teste.
Avevamo una sincronia perfetta!
Mi tirai in piedi perché ebbi l’urgenza di parlargli mentre Pat
continuava a pomparlo. Respirai forte e gli alitai sull’orecchio. Gli
narrai di quanto era bello, di quanto fosse un incanto guardarlo. Gli
chiesi quanto gli stesse piacendo, se stesse gustandoselo. Andrea
mi ascoltava, gemendo e soffiando. Poi Pat mi prese per mano e mi
tirò giù, ancora in ginocchio. Fu lei a piantarmi il cazzo pulsante in
bocca, a spingermi la testa fino a farlo affondare tutto, a tenermi
ferma e strizzarmi le tette mentre lui mi sborrava in gola.
Qualche ora dopo che Pat se ne fu andata, facemmo ancora
l’amore, con calma, lentamente, con una totale sensazione di
complicità e di appartenenza l’uno all’altra come non avevamo
ancora sperimentato.
Fu allora che accadde.
Avevo avuto tanti amanti e avevo tanto amato, ma non lo sapevo.
Dovevo aspettare tutti quegli anni per scoprire che le donne si
possono sciogliere nella gioia infinita di un liquido chiaro. Un liquido
che adesso stava praticamente allagando il letto, regalandomi un
piacere inedito, forte e violento. Nonostante i fremiti dell’orgasmo
volli guardarlo, toccarlo. Tremavo, gemevo e chiedevo sorpresa:
«Cos’è?».
Andrea vi intinse un dito e se lo portò alla bocca. Assaporò in
silenzio, poi sorrise e mi disse: «Sa di mandorla, però sa più di
magia».
Capitolo 19 - La radiografia

Sono in piedi davanti allo specchio. Nuda. Le gambe divaricate.


Anche lui è nudo, dietro di me, il viso affondato fra i miei capelli, il
braccio sinistro attorno al collo, il destro che mi circonda la vita e con
la mano accarezza la fica.
Che posso squirtare lo abbiamo scoperto insieme, per caso e
senza cercarlo. È una magia solo nostra. La sperimentiamo
accogliendola come un miracolo nuovo ogni volta che ci vediamo.
Lui è ormai abilissimo a farmi sciogliere così e ne è felice e
orgoglioso.
Mi parla all’orecchio e me lo dice.
Lui parla e io tremo. Cos’è? La sua voce sfrontata? La
spudoratezza di quello che dice? O il fatto che lo dice consapevole
dell’effetto che le sue parole hanno su di me? Mi sussurra quello che
provo, mi descrive quello che sento quando il grilletto si gonfia. Mi
dice quando arriveranno i brividi e dove mi daranno la scossa,
anticipa nel dettaglio ogni mia sensazione.
E la cosa pazzesca è che lo sa davvero! La sua voce mi conferma
che “sente” quello che provo. Quel che dice è esattamente quello
che sento: è la radiografia del mio piacere.
Nello specchio siamo uno spettacolo magnifico, sconcio e
purissimo.
Mi piace da morire sentirmi in quel modo totalmente nuovo,
completamente esposta, nuda e denudata nelle mie voglie fino
all’osso. E adoro che lui mi veda e mi sappia così.
«Dov’eri?», gli domando. «Dove sei stato, che ti ho cercato da
sempre? Dov’eri?».
Rovescio la testa all’indietro, poggiandola sul suo torace.
«È per quello che sei tanto più giovane di me: ti farneticavo
immaginandoti. E così, a furia di desiderarti, ti sei avverato».
Si ferma. Nello specchio fissiamo la signora e il ragazzo nudi,
immobili, con gli occhi sgranati. Poi la sua mano vorace e veloce
comincia a darmi con il palmo dei colpetti ritmici e vigorosi sulla fica.
Andrea riprende a parlarmi con voce roca, a raccontarmi del mio
piacere, di quanto conosce la mia fica e le sue voglie, di come sa
farla godere mentre io inizio a squirtare.
Mi sento esplodere. Oscillo, mi cedono le gambe e gocciolo in
modo indecente. Tremo di desiderio e di gioia.
Ogni tanto accelera i colpetti della mano e allora il mio squirt cola
a fiotti. Il suono del liquido che colpisce il pavimento mi eccita da
impazzire e i miei ansimi si fanno a ogni ondata più intensi.
Sono totalmente persa e priva di confini: sento solo il suo braccio
al collo che mi regge e la sua voce all’orecchio.
«Goditelo amore. Sono con te. Goditelo».
Continuo a sciogliermi e a disciogliermi, a perdermi in lui e in noi.
Sono me stessa come non ero stata mai, mentre la pozzanghera sul
pavimento fra le mie gambe si allarga fino a bagnarci i piedi.
Dopo, esausta, appoggiata a lui che mi regge ancora, giro la testa
a cercargli la bocca e dopo essermelo domandato cento volte,
finalmente lo so. So il perché di tutto.
Fiducia. Sarebbe stato impossibile, altrimenti. Sentirmi viva
davvero, l’anima senza porte, annullare la mia strada, lasciarmi
sorprendere ancora dal mondo. Affidarmi a quel ragazzo tanto
diverso e improbabile. Fiducia. Una cosa così piccola ed enorme.
Sentirmi finalmente nuda e fragile, perché a essere forte c’ero
sempre riuscita da sola.
Capitolo 20 - Palla di vetro

Adoravo le notti con lui. Il calore nell’aria e nel letto, allungare la


mano e trovarlo. E amarlo fino a quando faceva giorno. Io e lui. E il
desiderio. Un desiderio che non accennava a placarsi o affievolirsi.
Anzi. Diventava sempre più urgente e potente. Di una cosa ero
assolutamente sicura: che non avrei rinunciato a quella gioia, a quei
piccoli morsi di vita, anche a costo di rischiare il reale del mio
quotidiano, perché, ormai lo sapevo, la felicità è riservata a chi non
teme d’essere imprudente.
Era bello partire insieme per qualche giorno. Lo facevamo sempre
più spesso: tre o quattro giorni via, lontani dall’invadenza e l’ipocrisia
delle cose del mondo. Avevamo preso quattro giorni per noi. Quattro
giorni a Firenze, solo nostri, a fare i turisti, a coccolarci di arte e di
sesso.
Ci svegliavamo la mattina presto, facevamo l’amo-re, poi
colazione. E uscivamo. L’albergo era centralissimo, fra piazza della
Signoria e la Casa di Dante. Noi, a piedi, i palazzi e le chiese, le
piazze. Sembrava di star dentro una di quelle palle di vetro piene di
cose, con la neve che cade se le capovolgi.
L’ultimo giorno, mentre salivamo i 463 scalini che portano in cima
alla cupola del Brunelleschi, Andrea scherzando disse che non era
stata una scelta felice lasciare per ultimi il campanile e il Duomo:
eravamo sfiniti dai giri di quei giorni e dal troppo sesso la notte.
«Vuoi dirmi che stanotte non mi scopi?», chiesi.
«Può darsi», fece lui.
«Ok», risposi distrattamente.
Salendo le scale davanti a lui cominciai ad ancheggiare
vistosamente, a fermarmi e abbassarmi d’improvviso facendo finta di
leggere le scritte demenziali lasciate da scolaresche incivili sui muri.
Insomma, facevo in modo che la sua attenzione si concentrasse sul
mio culo.
«Tranquilla. Ti scopo. Ti scopo», disse dandomi una pacca. «Ma
cammina, altrimenti finisce che cadiamo».
In cima alla cupola ricevette un messaggio. Era Francesca, la sua
ex ragazza. Voleva sapere come stesse. Non si vedevano da più di
un anno, ma sapevo che di tanto in tanto lei gli scriveva. Messaggi
brevi. Qualche “Come va?” o un augurio per le feste comandate.
Andrea rispondeva in maniera altrettanto semplice, concisa: un
“Bene e tu?” o “Grazie anche a te”. Lo sapevo perché me lo
raccontava e questi dettagli erano sempre occasione di gioco fra di
noi, un motivo nuovo per mettergli la mano sul pacco, dirgli quanto
difficilmente le donne riuscissero a dimenticarsi del suo uccello.
Mi capitava, ciucciandolo, di smettere d’improvviso per
sussurrargli all’orecchio: «Ormai sei un esperto: sono sicura che se
tu e Francesca finiste di nuovo a letto la convinceresti a bere la tua
sborra».
Il fatto che ci fossero messaggi sporadici fra lui e la sua ex
ragazza non mi disturbava. O meglio, non mi aveva mai disturbato.
Fino ad allora. Quel messaggio che irrompeva nella nostra vacanza
mi ricordò che c’era una donna più giovane di me che ogni tanto
pensava a lui e lo cercava; mi fece riflettere sul fatto che Andrea
viveva gran parte della sua vita distante da me, che andava nel
mondo senza di me, e chissà quante donne incontrava, quante
possibili amanti… Provai una fitta forte, un senso di oppressione al
petto che mi infastidì. E ancora più fastidio mi diede prendere atto di
quella nuova emozione, che si poteva definire quasi… Che cosa?
Gelosia? Cos’era quella sgradevole sensazione che provavo?
Gelosa io? Io che bastava che qualcuno pronunciasse la parola
“legame” per esserne disturbata? Quel ragazzo mi faceva scoprire di
continuo parti nuove di me, ma quella volta non mi stava piacendo.
Allora recitai. Per la prima volta finsi con lui un’allegria che non
provavo.
«Posso risponderle io?», chiesi giocosa.
Lui rispose che sì, certo che potevo. Mi passò il telefono.
Cominciai a scrivere e via via che scrivevo mi sembrava di respirare
meglio, la fitta al petto si alleggeriva e il mio sorriso da finto diveniva
autentico. Scrissi: “Ciao cara. Sono Anna, la donna di Andrea da
quasi un anno. Lui al momento è in doccia, ma gli dirò che hai
scritto. Sei molto carina a preoccuparti per lui e voglio rassicurarti
che sta bene. Mi occupo personalmente del suo benessere e ti
assicuro che gode come un matto. Grazie per aver chiesto, stai
tranquilla: sta più che bene, sta da favola. Ciao. Anna”.
Quando premetti l’invio del messaggio mi resi conto di goderne
come una pazza. Quel ragazzo era mio. Solo mio, perché così lo
volevo. Avere riconosciuto questa verità a me stessa e averla detta,
scritta, sia pure a un’estranea, mi procurò un’ilarità febbrile. Andrea
lesse il messaggio e rise. Anch’io ridevo e non riuscivo a smettere.
Francesca ovviamente non rispose e non gli scrisse più.
Capitolo 21- Gocce

Siamo in sauna. Seduti sulla panca di legno, nudi e con un


asciugamano ai fianchi.
Mi avvicino a lui che ha gli occhi chiusi e forse nemmeno se ne
accorge. Guardo le gocce di sudore che gli imperlano la fronte
aumentare di dimensioni e poi, seguendo la linea di gravità,
scorrergli sulle tempie e lungo la mascella, per perdersi fra i peli
della barba. Guardo le gocce di sudore e vapore sul suo corpo, sulle
spalle grandi, sul torace, il ventre, le braccia e le gambe.
Mi faccio più vicina e con la punta della lingua fermo l’ennesima
goccia di sudore che gli sta scendendo rapida dal sopracciglio,
seguendo la scia lasciata dalle altre. È calda e salata. Chiudo gli
occhi e immagino le gocce che di certo gli stanno impregnando il
cazzo e le palle, i suoi peli bagnati. Purtroppo non posso vederlo:
l’asciugamano ai fianchi occulta e custodisce il mio paradiso.
Anch’io sono sudata, per i vapori e per il desiderio che l’odore di
lui e il sapore del suo sudore mi stanno accendendo.
Dicono che quando si è innamorati senti le farfalle nello stomaco.
Penso che devo essere innamoratissima, perché il mio ventre si
contrae come se contenesse un essere che si dibatte.
«Andiamo di sopra, che voglio farti l’amore», mi dice.
In camera ci liberiamo dagli accappatoi e ci gettiamo sul letto.
Andrea mi è subito addosso mentre io spalanco le gambe. Comincia
a scoparmi piano, ficcandomi il cazzo in fica lentamente,
facendomelo assaporare centimetro dopo centimetro. Quando è
tutto dentro di me gli circondo i fianchi con le gambe e lo supplico di
stare fermo.
«Tienimi e stai fermo, amore. Tienimi e stai fermo» ripeto piano.
È sopra di me, le bocche vicine, i respiri caldi e concitati, in
contrasto con la nostra immobilità. Sono così piena di lui, il suo
cazzo è così conficcato dentro che mi lacrimano gli occhi. Andrea si
abbassa e lecca quelle lacrime. Poi riprende ad andare su e giù
piano, ma sempre bene in fondo. Un dentro e fuori con metodo, a
lungo, senza fine.
Il suo sudore mi gocciola sul seno, sul viso, sul collo. Con la lingua
cerco di raccogliere le gocce che mi cadono sulle labbra. Le mie
labbra, che lui non smette di leccare. Lecca labbra, lingua e denti,
esattamente come io facevo con lui durante i nostri primi incontri. È
un contrasto micidiale, la dolcezza e la morbidezza della sua lingua
che fa l’amore con la mia bocca e la potenza del cazzo che intanto
mi pompa la fica.
Gli chiedo di darmi la sua saliva. Lui mi bacia.
«Non così. Voglio vederla» dico
Si solleva sugli avambracci e fa cadere un po’ di saliva sulla mia
bocca. L’assaporo. Con la lingua me la spalmo sulle labbra.
«Ancora».
Stavolta apro di più la bocca e lascio che la saliva mi scorra
lentamente, trasparente e zuccherata, fino in gola. Quando i suoi
colpi si fanno più potenti e rapidi, inarco il bacino verso le spinte, per
prendermele tutte, per prendermele meglio. A ogni spinta si pianta
così dentro che il piacere porta con sé una nota di dolore, un dolore
sottile che si fa sempre più intenso e vivido. Amo anche quello,
perché significa che mi sto aprendo più di ogni volta, che lo sto
accogliendo di più. E oggi voglio davvero inghiottirlo. Godo così, con
la fica che mi brucia e gocce di lacrime che mi sgorgano dagli occhi.
Sto ancora godendo quando lui cambia ritmo. Avverto le
pulsazioni forti del suo uccello.
«Vienimi addosso», lo prego.
Non l’abbiamo mai fatto, ancora. Vuole sempre venirmi dentro,
godere di me e con me. Il suo sperma è sempre schizzato in vagina,
nel culo o è stato accolto e ingoiato dalla mia bocca, come se non
volesse mai essere sprecato al di fuori del mio corpo. Stavolta voglio
vederlo, voglio guardarlo disciogliersi sulla mia pelle. È un desiderio
nuovo: voglio di più, voglio diluirlo, voglio che oltrepassi la barriera
della pelle per mischiarsi alla polpa custodita sotto. Perché ora più
che mai mi rendo conto che di tutti i corpi che avevo conosciuto
avevo desiderato solo la scorza e loro si erano dovuti accontentare
della mia. Mi viene addosso, sulla pancia, sul seno… Con il cazzo
spalma sborra sulla mia pelle che inventa nuovi brividi per dirgli “ti
amo”.
Poi mi crolla addosso, scivolandomi sul corpo bagnato e lucente
per i sudori e lo sperma. Galleggiamo. È intollerabile staccarci,
nonostante il caldo e una posizione che, se non stai facendo
l’amore, è inevitabilmente scomoda. Andrea ha il viso affondato sul
mio collo e io la bocca immersa fra i suoi capelli umidi.
Comincio ad avvertire che i liquidi fra noi perdono calore, mentre i
nostri corpi rimangono bollenti. Percepisco il freddo umido degli
umori della mia fica fra le cosce, del nostro sudore sul corpo, della
sborra sul ventre, delle lacrime agli angoli dei occhi.
«Voglio altre stille di te. E le voglio calde», sussurro.
Andrea solleva il viso e mi guarda. Il mio dolce ragazzo non
capisce. Mi alzo, lo prendo per mano e lo porto in doccia. Sta per
azionare la manopola dell’acqua ma io gli blocco la mano con la mia
e lo guardo seria.
«Pisciami addosso».
Sul suo viso si affaccia la stessa espressione un poco sperduta e
stupita che aveva all’inizio della nostra relazione, ogni volta che gli
proponevo un nuovo gioco.
Siamo l’uno di fronte l’altra. Andrea si fa più vicino, mi mette le
mani sui fianchi e mi poggia l’uccello sul ventre. Io gli tengo le mani
sulla testa, gli passo le dita fra i capelli, come se volessi sollecitarne
le radici.
«Pisciami addosso», ripeto
Sento il suo corpo irrigidirsi, i muscoli contrarsi, e comincio ad
accarezzargli il viso con dolcezza. Voglio che la tenerezza che mi
trabocca dentro esca dalle mie dita e giunga a lui, ad alleviargli e
placarne la tensione.
Trascorre qualche istante, poi lui si addossa a me, mi abbraccia
forte e, rilassando i muscoli del corpo, mi dice sospirando: «Non ce
la faccio, Scusa».
Rispondo morbida all’abbraccio, lo bacio, sto per dirgli che non è
importante, che ci proveremo un’altra volta, quando d’improvviso un
piccolo rivolo di liquido caldo mi arriva sul ventre. Una volta. Poi di
nuovo. Due piccole ondate della sua pipì. Prendiamo a baciarci,
profondamente ma con calma, quasi al rallentatore. Un bacio
profondo senza la foga, l’impeto che in genere hanno questo tipo di
baci. Un bacio appassionato, alla moviola.
E con la stessa lentezza Andrea riprende a pisciare. Stavolta
senza ondate o sbalzi. Un lungo fiotto lento e caldo mi inonda la
pancia, mi scorre sulla fica e cola gocciolando fra le cosce. Faccio
pipì anch’io. Pisciamo insieme senza smettere di baciarci.
Dopo, una volta lavati e asciugati, distesi sul letto, abbracciati e
con le gambe intrecciate, Andrea poggia la mano sul mio monte di
Venere.
«Voglio discioglierti ancora, amore, voglio farti squirtare».
«Finiremo col disidratarci» sospiro aprendo le cosce.
«La prossima volta ci organizziamo con delle flebo» scherza lui.
Poi mi sorride e comincia a darmi sulla fica gli schiaffetti imperiosi
che richiamano magici il mio succo di mandorla.
Capitolo 22 - Profumo di troia

Gli uomini del mio passato, quelli amati davvero, intendo, avevano
sempre fatto di tutto per rendermi diversa da quella che ero, più
simile alla donna che loro desideravano fossi. Lo avevo capito
prestissimo, ancor prima del mio matrimonio numero uno,
sostanzialmente accettandolo.
Il mio “profumo di troia”, quello che i maschi trovano irresistibile,
l’avevo riservato ai rapporti disimpegnati, nascondendolo ai due
matrimoni e ad altre poche relazioni importanti. Lo facevo perché
sapevo che se mi fossi mostrata autentica, nuda, con tutta la mia
curiosità di osare, di provare emozioni nuove, anche a rischio di
rimanerne delusa, l’uomo che amavo e che mi amava a un certo
punto si sarebbe irrigidito e piano piano, di nuovo, avrebbe provato a
forzarmi, a cambiarmi, a trasformarmi in una sua proiezione.
Rinunciavo alla mia ricerca di completezza, ma ero determinata a
prendermi tutto lo stesso. Ero anche quello: voglia d’intrigo e di
libertà. Negarlo sarebbe stato da stupida, e anche da ipocrita.
Meglio troia che stupida ipocrita. Così mi prendevo entrambe le
cose, separatamente. L’amore, la relazione “seria e profonda”, da
una parte e il sesso pienamente libero, senza alcuna implicazione
sentimentale, altrove.
A volte succedeva che nel mondo reale qualche uomo
particolarmente attento, o solo semplicemen-te simile a me,
percepisse quel profumo di troia anche attraverso la mia patina di
irreprensibilità. Insomma, "sentisse" che io ero anche quello. Me ne
accorgevo da un guizzo nello sguardo durante una riunione, un
convegno o un’altra qualunque situazione formale, mentre seria e
impeccabile procedevo nel mondo. Era un attimo. Un brevissimo
scambio di sguardi che diceva: “Io lo so come sei”. I simili si
riconoscono, forse si fiutano. Chissà. Poi entrambi distoglievamo lo
sguardo e facevamo finta che quella consapevolezza non ci fosse
mai giunta.
Con Andrea non era andata così. “Educarlo” al sesso e in qualche
modo all’amore era un poco educare me stessa. O forse erano la
sua schiettezza, la sua sincerità disarmante, il suo amore per me,
solo per me e davvero, in qualunque modo mi rivelassi a lui, a farmi
dimenticare la mia diffidenza, il mio cinismo e la mia disillusione.
Con Andrea ero rinata.
Certo, il resto della mia vita non era cambiato, fuori dalla bolla di
noi c’erano i miei figli, la mia vita di madre, di moglie, la mia
professione, che fortunatamente riuscivo a gestire come volevo,
ammazzandomi di lavoro nei giorni in cui non ci vedevamo per
ritagliarmi le giornate per noi.
Un pomeriggio che stavamo rientrando in albergo dopo aver preso
un aperitivo mi incantai di fronte una vetrina a guardare una borsa.
Andrea fece per entrare nel negozio.
«Che fai?» gli chiesi prendendolo per il braccio.
«Te la voglio regalare», rispose.
«Aspetta» gli dissi trattenendolo. «Non mi piace così tanto, in
fondo».
La borsa mi piaceva moltissimo ma non volevo spendesse altri
soldi per me. Gli alberghi, le cene, i pranzi costavano, e lui non
voleva che pagassi io. Inutilmente provavo a spiegargli che a me
quelle spese non cambiavano la vita, che avevo un lavoro che
rendeva parecchio, che lui si era laureato da poco e aveva un
impiego saltuario e precario e che era giusto che ciascuno
spendesse in proporzione alle proprie entrate. Niente. Andrea s'era
incaponito che dovessimo fare una volta per uno. E nemmeno il
giochino di farmi venire la voglia di pizza o di un kebab la sera che
doveva offrire lui mi riusciva sempre. Spesso non mi dava retta e mi
portava in uno dei ristoranti dove ero solita portarlo io.
Con i regali era uguale. Mi regalava cose che mi piacevano molto,
di ottimo gusto, ma che sapevo essere costose e fuori dalla sua
portata.
«Perché non posso regalarti qualcosa se voglio?».
«Non mi piace tantissimo» mentii. E poi: «Però un regalo lo vorrei.
Vuoi farmelo?
«Vieni» Lo presi per mano e attraversammo la strada.
Andrea guardò l'insegna del sexy shop e sorrise con aria
interrogativa.
«Entra», gli dissi. «Prendi delle Ben Wa. Rosa. Fatti spiegare dalla
commessa come sono e come si usano. Poi in camera me le regali e
me le fai indossare»
Ebbe un attimo di esitazione, quell’imbarazzo che precedeva ogni
nuova soglia che lo invitavo ad oltrepassare e che trovavo
straordinariamente eccitante. Poi entrò nel negozio.
Lo spiavo attraverso lo spiraglio che la moltitudine dei completini
da infermiera zoccola e da mistress sadica lasciava libero in vetrina.
Lo vidi dapprima aggirarsi impacciato fra le scaffalature, poi
avvicinarsi al bancone, quindi scomparve dalla mia visuale.
Qualche minuto dopo uscì con un pacchetto, mi prese per mano e
rientrammo in albergo.
In camera mi baciò sulla bocca e timidamente mi porse il regalo.
Lo scartai eccitatissima. Conteneva due sfere in lattice rosa, grandi
quanto le palline da ping pong ma più pesanti, unite da un cordino di
seta, con un anello all’estremità. Presi in mano il cordino facendo
ciondolare le palline. Erano cave. Ciascuna conteneva all’interno un
piccolo peso metallico che urtando contro le pareti delle sferette le
faceva vibrare.
«Bellissime!», esclamai sollevandole fino all’altez-za dei suoi
occhi. «Proprio quelle che desideravo! Me le fai provare?».
Gliele misi in mano, mi tolsi le mutandine, sollevai il vestito e mi
sdraiai sul letto aprendo appena le gambe.
Andrea si avvicinò, un poco imbarazzato. Ma il rigonfiamento del
cazzo sotto i pantaloni mi rassicurava che anche quel gioco gli stava
piacendo. Spalancai le gambe, invitandolo a “giocare” con uno
sguardo spudorato. Lui si inginocchiò e prese a muovere le palline
davanti la mia passera, con gesti lenti e delicati. I suoi movimenti
con quell’ oggetto in mano a lui così poco familiare erano impacciati,
in netto contrasto con il desiderio e l’eccitazione che mi rivelavano i
suoi occhi e il suo respiro.
«Dai!», lo incitai. «Gioca con me».
Cominciò a inserire timidamente le palline nella fica, spingendole
una alla volta con le dita. Quel contatto mi fece gemere. Ero
bagnatissima. La prima scivolò dentro facilmente. La seconda
incontrò più attrito, perché parte dei miei umori era stata asciugata
dal passaggio dell’altra.
Mi sollevai sulle braccia e lo baciai sulla bocca. Lui mi abbracciò
forte e rotolammo sul letto. La sensazione che mi procurava
quell’oggetto estraneo che tremava nella fica era bellissima. La
consapevolezza che era stato lui a mettermelo dentro, lui che fino a
quel mattino nemmeno sapeva dell’esi-stenza di quel giocattolo mi
faceva impazzire.
I nostri movimenti mentre rotolavamo abbracciati sollecitavano
ancora più le vibrazioni, facendomi provare un piacere infinito.
Gli sussurrai all’orecchio «Ora tirale fuori». Quindi tornai a
sdraiarmi aprendo le gambe. Andrea prese il cordino dall’anello e
cominciò a tirare piano. Era eccitato ed emozionato, conoscevo il
suo sguardo. Lo conoscevo e lo adoravo.
Le palline fuoriuscirono lucide, bagnate dalla mia rugiada
vischiosa e trasparente.
«Succhiale», gli ordinai.
Lui lo fece guardandomi negli occhi.
Stavo sollevandomi per baciarlo quando mi sorprese: con una
mano mi bloccò sul letto e con l’al-tra tornò a ficcarmi un’altra volta
le palline dentro. Le tirò fuori nuovamente piano e poi ancora le
introdusse. Stavo per abbandonarmi al piacere quando si staccò da
me e mi disse di uscire, di andare a cena, di tenere il suo regalo lì,
bene al caldo nella fica dove l’aveva messo e che ci avremmo
giocato dopo.
Ero sbalordita.
Stavo ancora là, sdraiata a gambe aperte, la fica esposta e farcita
di quelle due palline, incantata a guardare il mio ragazzo così bello e
così straordinariamente maschio e sicuro di sé mentre mi aspettava.
«Andiamo a cena», sollecitò.
Recuperai in silenzio le mutandine dal pavimento, le indossai e mi
avvicinai a lui lentamente, contraendo i muscoli della vagina per
trattenere le palline perché, pure se non potevano uscire, la
sensazione che potessero farlo da un momento all'altro era
fortissima. Ad ogni passo il peso all’interno delle palline le faceva
oscillare facendo entrare in risonanza tutto il mio corpo.
Andai a cena così. Con la fica piena e il profumo di troia che
sicuramente diffondevo.
Avevo avuto il regalo più bello che potessi desiderare, ma non
stava nella mia fica o almeno, non solo lì. Non erano state le palline
il regalo, ma quel suo prendere in mano le redini del gioco che avevo
iniziato, la sua idea di farmi andare a cena in quel modo.
Quel regalo, lui sì che mi faceva girare la testa.
Altro che borsa.
Capitolo 23 - Decisioni

Lasciai mio marito il primo giorno di quella nuova estate. Era finita
da tempo, da molto prima di Andrea, non so dire esattamente
quando e come. Era finita lentamente: un amore non finisce mai
d’improvviso, siamo noi che, distratti, non ci accorgiamo di quando
piano piano ci lasciamo le mani. E il cuore che avevamo donato ci
torna indietro, senza avvisare né spiegare.
Adesso so quanto a quell’amore, che pure era stato bello e forte,
non avessi dato abbastanza fiducia. La fiducia indispensabile se ci si
vuole abbandonare del tutto. Si ha più paura da giovani che da
adulti, è normale, e allora non ero abbastanza matura per riuscire ad
aprirmi così tanto. Non ero riuscita con lui e neanche con i miei
precedenti amori. È solo oggi che ne sono consapevole. Vent’anni fa
non ne avevo idea ed è per questo forse che non posso dire di
essere pentita: ho fatto quel che potevo. Avevo avuto paura di
essere giudicata, paura di aprirmi, paura di venire manipolata, e la
paura mi aveva impedito di confessare a chi amavo e mi amava
quanto desiderio, quanta curiosità, quanta vita mi bruciasse dentro.
Non so nemmeno, adesso che tutto è spento, se lui e i pochi amori
importanti che c’erano stati prima di lui sarebbero stati disponibili ad
accogliermi lo stesso. Il fatto che a questa domanda non esista
possibile risposta è la cosa della quale ogni tanto continuo a sentire
il peso.
Comunque, dicevo, quell’amore, come un milione di altri, si era
consumato piano e noi non ce n’eravamo accorti. Forse è naturale
che vada così. In fondo è la felicità che ci sorprende: del nostro
cuore quando d’improvviso trabocca gioia ci avvediamo subito, ma
non succede lo stesso per la tristezza, che ci avvolge piano,
spegnendoci.
La decisione di chiudere la maturai in fretta. E ancora più in fretta
gliela comunicai. Non mi rammaricai pensando che forse avrei
dovuto prendermi più tempo e fu meglio così, di tempo averne avuto
niente, perché pure il brivido che provai quando così rapidamente
scelsi mi fece sentire potentemente viva.
I sensi di colpa c’entravano poco con la mia decisione,
c’entravano poco i miei “peccati” e in fondo c’entrava poco pure
Andrea. Non pensavo affatto di andare a vivere con lui, prendere
casa insieme, cominciare un percorso. Avevo i figli da seguire. I miei
figli, che se anche avessero accettato un giorno l’idea di un nuovo
compagno per me, sarebbero rimasti di certo spiazzati all’idea di un
ragazzo con una età più vicina alla loro che alla mia.
E poi sapevo benissimo che la nostra storia non aveva un futuro,
che sarebbe finita, che Andrea si sarebbe inevitabilmente
innamorato di una donna più giovane, una con cui poter progettare,
viaggiare, fare dei figli. Lo sapevo: era nell’ordine delle cose. Ma
quanto era dolce vivere pienamente quell’adesso, nutrire la sua
forza… Perché l’amore va fatto volare: l’amore non si spreca. È
questo l’unico peccato.
Capitolo 24 - Fari d’estate

Un’altra volta estate. Un’altra estate con lui.


Ero in viaggio per Cremona. Gli avevo mandato un messaggio
appena salita sul treno: «Vieni in stazione. Ho solo un paio d’ore ma
devo vederti».
Ero stata due settimane in Sardegna coi ragazzi e mi era mancato
tantissimo. Avevo una voglia pazza di incontrarlo, anche se
saremmo stati insieme solo il tempo di una birra. Volevo dirgli che
avevo lasciato mio marito. Gliel’avevo taciuto per due mesi senza
nemmeno sapere perché. Quell’omissione era stata l’ultimo tentativo
di tenerlo separato da me, dalla mia vita senza di lui, e stava per
crollare inesorabilmente. Non ce la facevo a tenergli nascosto nulla.
Non per molto, almeno.
Mi guardavo riflessa nel vetro del finestrino e quasi non mi
riconoscevo, con gli occhi concitati e febbrili da adolescente.
Indossavo un vestito scuro, aderente, scollato ma elegante, e tacchi
alti. Non ce la facevo ancora a negarmi un abbigliamento “da
signora” quando lo incontravo. Un po’ da troia ma pur sempre
signora.
Ormai era più di un anno che stavamo insieme, che il vizio di lui mi
divorava. Fino ad allora le mie passioni amorose, per quanto
intense, avevano seguito un ciclo prevedibile. Scintilla, incendio,
cenere. Se il rapporto si trascinava un altro po’ succedeva per
abitudine, per convenienza, per intesa intellettuale.
La febbre per il ragazzo invece non si placava. Pensavo
continuamente a lui. A noi. Alla sua voce che sussurrava “Noi due”,
alle sue parole che sapevano farmi tremare.
Andrea stava diventando abilissimo a incarnare le mie fantasie
uditive, stuzzicando perfino quelle che non sapevo di avere,
sconosciute a me e a lui. Parole, centro del mio centro, che dalla sua
gola giungevano alla mia. Scioglievano i fili delle mie voglie e ne
inventavano di nuove.
Guardavo fuori dal finestrino e intanto mi perdevo a ricordare la
nostra armonia, quel tutto che eravamo cui non mancava nulla e che
pure non era mai uguale. Pensavo a me e lui quando facevamo
l’amore. Al dopo che non è mai un dopo. Alla bolla di noi quando
stavamo fra la gente.
Chiusi gli occhi per immaginare meglio il suo viso, la festa del suo
sguardo, e mi poggiai la mano sul bassoventre. Stavo palpitando. La
mia fica stava animandosi, estranea alla mia volontà: percepivo il
calore fra le gambe, il solletico dietro le ginocchia.
Era uguale, sempre uguale ogni volta che mi abbandonavo al
pensiero di lui. È il desiderare la vera droga, quella più potente.
L’essere desiderati è esaltante, ti fa andare su di giri, solletica la tua
vanità, ma è desiderare che ti fa sussultare e tremare, che ti fa
diventare un grumo pulsante e voglioso di vita.
Riaprii di scatto gli occhi. Chissà se gli altri passeggeri del vagone
si accorgevano che quella elegante signora non stava facendo altro
che pensare a quando veniva scopata dal suo giovane amante. La
smania che sentivo era così potente, così intensa che mi sembrava
impossibile non venisse avvertita dagli altri. Dall’uomo che attraversò
il corridoio passandomi accanto; dai due ragazzi seduti due poltrone
oltre me che ogni tanto mi sbirciavano le gambe. I cani capiscono
quando una cagna è in calore. Forse per gli umani un tempo era lo
stesso, e secoli di buona educazione ci hanno semplicemente
costretti a dimenticarlo.
Era quasi sera ma faceva caldissimo, passai un dito nella
scollatura ad asciugare le gocce di sudore che imperlavano l’incavo
tra le tette e respirai forte. Ma nessuna aria mi sarebbe bastata:
volevo la nostra, l’aria che c’è fra me e lui quando siamo insieme,
elettrica, trepidante, carica di tensione.
Il treno arrivò. Scesi e mi avviai verso il sottopassaggio.
Camminavo a mezzo metro da terra, il cuore gonfio, la fica
romantica e vogliosa, gli occhi indagatori a cercarlo. Quando
finalmente lo vidi, nel sottopassaggio della stazione che conduceva
all’uscita, sorrisi e gli corsi fra le braccia. Ci baciammo e restammo
abbracciati, dondolando lentamente.
«Andiamo a farci una birra», gli dissi.
Mi portò in un locale carino. Gli avventori erano tutti molto più
giovani di me e io con la mia età, il mio vestito, il mio trucco e i miei
tacchi, mi sentivo fuori posto.
Bevemmo birra ghiacciata cianciando. Andrea era bellissimo. Ogni
tanto perdevo il filo della conversazione perché m’incantavo a
guardagli la bocca. Lui se ne accorgeva e rideva.
«Sei il mio vizio più bello», gli dissi d’improvviso, seria.
Anche lui si fece serio. «Lo so», mormorò. «Ti sento».
Poi, quasi distrattamente, come fosse una cosa di poca
importanza, gli dissi che avevo lasciato mio marito. Non volevo che
si spaventasse oppure, peggio, che cominciasse a fantasticare. Ebbi
la sensazione che stesse per dire qualcosa di irrimediabile. Allora
aggiunsi che non sarebbe cambiato nulla, che i nostri destini erano
diversissimi e tali sarebbero rimasti. E che nel nostro presente
progressivo saremmo stati insieme, per vocazione o per desiderio,
ma sempre senza serrare i nodi, senza temere fughe o cambiamenti,
lontanissimi da ogni scacco matto.
Poi gli dissi che dovevo andare via. Gli chiesi di accompagnarmi
fuori, da qualche parte, per fumare una sigaretta prima di ripartire. In
realtà non volevo altro che trovare un posto tranquillo dove mettergli
le mani addosso. Uscimmo e salimmo nella sua macchina. Fuori era
già buio.
Non so dove volesse portarmi. Ma quando sulla strada poco
frequentata che stavamo percorrendo scorsi sulla destra un grande
spiazzo vuoto gli chiesi di fermarsi. Parcheggiò e scendemmo dalla
macchina. Ero in piedi, il culo appoggiato al cofano, Andrea era di
fronte a me.
«Mi sei mancata», mi disse, e mi abbracciò forte accarezzandomi i
capelli.
Gli presi il viso fra le mani, poi avvicinai la bocca al suo orecchio.
«Non così tenero, ragazzo».
Andrea capì, e prese a parlare del rischio che avremmo corso, del
fatto che chi passava in macchina sulla strada avrebbe potuto
vederci. Ma più parlava più mi eccitavo. Era straordinario sentire
quel potente desiderio. E ancora più straordinario, lo sapevo,
sarebbe stato esprimerlo, viverlo e soddisfarlo.
Cominciai a toccarlo, a leccarlo con lentezza, una lentezza
esasperante. Dapprima le dita delle mani, una ad una. Le mani, le
braccia, il collo, il volto. Ricoprii ogni parte esposta del suo corpo di
baci e di lingua, con calma. Volevo che non ne potesse più, che
quella attesa amplificasse il desiderio, che quei bacetti lo
affamassero fino a bramare i miei morsi. Lo guardai negli occhi,
accorgendomi che si erano annacquati di voglia.
«Scopami qui», gli dissi «Non ce la faccio a tornare a casa senza
averti».
Andrea mi poggiò la mano sul ventre, premendo forte. Sapeva che
posso essere completamente vestita, ma se mi sfiora il bassoventre
mi sento denudata, esposta, scoperta.
«Vuoi che ti vedano?», sussurrò guardandomi negli occhi. «Vuoi
che vedano quanto sa essere troia la mia donna? Perché sei la mia
troia adesso. Solo mia»
Ebbi un brivido. La sua voce era dominante e decisa come non
era mai stata. Mi girai, piegandomi a novanta sul cofano e
divaricando un poco le gambe. Lui mi poggiò le mani sui fianchi.
Spinsi un po’ indietro il culo, in modo che lo colpisse. Percepii tra il
tessuto del mio vestito e quello dei suoi jeans il rigonfiamento del
cazzo.
Lui strinse più forte. Sollevai il vestito arrotolandomelo sulla
schiena. Le macchine passavano a una trentina di metri da noi.
Affrontando la curva poco prima dello spiazzo i fari ci illuminavano
per un istante. Era inevitabile che ci vedessero. Anche Andrea
dovette pensarlo, perché percepii una sorta di titubanza nelle mani
che mi stringevano. Feci roteare i fianchi strofinandomi contro di lui,
gustando la sensazione di freddo che mi dava il contatto con la fibbia
metallica della cintura e quella caldissima della forma del cazzo duro
sotto i pantaloni. Andrea inarcò il bacino in avanti colpendomi il culo
e subito una vampata di calore mi inondò la fica spargendosi in tutte
le direzioni.
Poggiai le ginocchia sul paraurti della macchina e mi abbassai di
più sul cofano. Lui si spostò un attimo e sentii il suono familiare della
cerniera della patta che si apriva. Poi una sua mano tornò sul mio
fianco sinistro mentre con l’altra mi scostava le mutandine.
Mi fu dentro con un unico colpo deciso, ben assestato, e rimase
fermo. Cominciai a tremare e a mugolare, mentre lui mi percorreva
con le mani il corpo, le spalle, la vita, le braccia, le cosce. Poi
cominciò a stringermi le natiche, massaggiandole e tendendo la
pelle per aprirmele. Rimaneva immobile con il cazzo ben piantato.
Aspettava un mio cenno per iniziare l’assalto: sapeva che prima mi
piace gustarmi quel momento di pienezza, sapeva che la mia fica
vuole prima assaporare la sensazione di essere completamente
farcita.
«Sono totalmente tua». Lo pensavo e lo dissi.
«Siamo nostri», disse lui cominciando a scoparmi.
Era vero. Eravamo nostri. Le macchine che passavano mi
sembravano lontane, eppure ebbi l’impres-sione che alla nostra
altezza qualcuna rallentasse. La possibilità che rallentassero per
guardarci non fece altro che aumentare la mia eccitazione. E forse
anche quella di lui, perché intensificò i movimenti della sbattuta, che
da regolari si fecero più frenetici.
Cominciai a muovermi anch’io, perfettamente sincrona a lui, al suo
avanzare e ritrarsi, tanto da non capire più quale fosse il suo corpo e
quale il mio. Era lui che spingeva? O ero io a piegarmi per
accoglierlo? Avevo la sensazione di essere io a comandare i suoi
muscoli e che i miei fossero comandati da lui. Una chiavata che
sembrava non dover finire mai. Poi Andrea rallentò. Prese a far
scorrere il cazzo dentro e fuori nel modo lento e totale che precede il
suo orgasmo. Affondava lentamente fino a colpirmi con le palle le
labbra. Poi usciva piano, lasciandomi dentro solo la cappella. E
riavanzava nuovamente, prepotente e arrogante. Smisi di ansimare
perché volevo sentirlo soffiare. Soffia sempre quando sta per godere
e vuole ritardare il momento. Si abbassò su di me e mi sussurrò
all’orecchio: «Lo vorresti un altro cazzo a riempirti la bocca adesso
amore mio? Lo vorresti? Lo so che lo vorresti».
Era davvero il ragazzo imbarazzato dell’estate prima, che mi stava
parlando in quel modo? Chiusi gli occhi e cominciai a venire
contorcendomi sul cofano, miagolando e a tratti gridando. Come
rispondendo al mio richiamo Andrea mi strinse più forte ai fianchi
con la mano sinistra e con la destra mi prese i capelli,
costringendomi a sollevare il viso verso la strada. Poi cominciò a
sbattermi forte continuando a ripetere «Lo vorresti. Lo so che lo
vorresti. Ti conosco. Sei tutta mia. Mia è la tua fica e mia è la tua
mente».
Mi scopava così forte da farmi quasi male ma la nota di dolore non
faceva che rendere irresistibile il piacere che si impadroniva di nuovo
di me. E ancora. E ancora. I fari delle auto ci illuminavano di tanto in
tanto. E lui spingeva, sborrava, godeva e gemeva. Mi lasciò i capelli
per circondarmi la vita con entrambe le braccia e si piegò in avanti,
aderendo completamente col torace alla mia schiena.
Era ancora dentro di me. Il cazzo gli era rimasto duro. Continuò a
darmi delle spinte piccole. Piccoli affondi per spremermi dentro ogni
goccia di sborra.
Restammo avvinti a lungo, fermi, a goderci quella sensazione di
unità, di completezza, di totale appartenenza. Se vai oltre la forma e
sperimenti l’auten-tico, non torni più indietro. E se torni indietro
smetti di accontentarti.
Come avrei potuto accontentarmi di altro dopo questo? Dopo di
lui? Come avrei potuto sopportare di far sesso altrove, con la mia
anima appollaiata su un lampadario, su un armadio, distante e fuori
di me? Lontana a guardare il mio corpo contorcersi e godere: tanto,
magari, ma mai completamente; tanto, ma comunque senza di lei.
La mia anima sul-l’armadio.
«Ci avranno visti?», gli chiesi.
«Forse», rispose.
«Non me ne frega niente. Chiedevo così. Magari un’altra volta
possiamo trovare il modo di far pagare loro il biglietto».
Capitolo 25 - Il ragno

Ero schizofrenica stanotte, a furia di guardare i nostri messaggi di


quel giorno che ha seguito la notte – oggi lo so – in cui mi hai tradita.
Sono schizofrenica stamattina, schiacciata sotto una cappa di vetro
affumicato. “Oro e Luce”. Ti cantavo così un tempo, ricordi?
Nessuna lacrima e milioni di sorrisi per gli infiniti voli che ci hanno
portato sulla nostra nuvola. Ma stamattina, dopo il temporale, mi
sono svegliata conscia della stupenda inutilità delle mie canzoni.
Offro uno stupito e silenzioso applauso a te e alla tua amica, che
forse ti ha capito più di me. “Grazie per la considerazione”. So di
essere tragica e so di essere comica, ma la mia mente complicata
continua a rimbalzare di specchio in specchio. Sai cosa mi fotte? Mi
fottono sempre in tanti: la passione, che mi spinge a ragionare coi
suoi verbi; la mente, che mi rigira come in una giostra e il cuore, che
si ostina a credersi uno scoglio. Sono io il problema. Ma quelle
parole che prima brillavano stamattina mi sembrano insetti usciti
dalla bocca, caduti a terra cercando una via di fuga per evitare di
essere schiacciati.
Come hai potuto – ma davvero ci sei riuscito? – consentire ai
ragni di avvicinarsi tanto a quel che eravamo? (Chissà quanto era
importante alla loro sopravvivenza suggerci in un solo boccone). Il
violino che ho dentro non controlla più le sue corde e genera suoni
tanto alti da farmi sanguinare le tempie. E io? Ero davvero così
invisibile dentro di te? A remare dentro di te? A remare contro la
corrente del tuo bisogno d’amore e di conforto? Sto navigando
sottoterra oggi, ma il sottoterra è per talpe e lombrichi. Non eravamo
fatti per le nuvole, io e te? Tutto passa, sfoca, si modifica. Vorrei
crederci ancora. Ma ho il terrore che anche il nostro possa diventare
solo amore di parte – teatrale e ragionevole –, uguale agli altri che
non dissetano del tutto. Lo sarà da oggi? Da domani? Lo era già da
prima di quella notte e non lo sapevo? Domande e risposte, materia
vuota da stirare. Vorrei crederci ancora, ma la speranza è un cerotto
troppo piccolo e sento che le mie domande hanno avuto risposta:
quella tua pur unica bugia è già una risposta. Perché io c’ero. Io
c’ero e ti tenevo la mano. Hai ragione, i tuoi armadi non sono poi
così pieni di mostri. Forse è davvero solo un piccolo ragno ma mi ha
punta e ormai mi avvelena la mente. Diventerei cattiva, così cattiva,
se solo non mi sentissi così vuota.
Capitolo 26 - Mare e navigante

Me lo aveva scritto di notte. Era stato con un’altra. “Ho paura di


avere rovinato tutto” scriveva. “Ho paura di avere incrinato qualcosa
che era incredibilmente perfetto”.
Ecco. Era arrivata la notizia che stordisce. Un dolore potente che
mi inondava e intontiva. Come un pugile al tappeto vedevo i contorni
del reale sfumare e sentivo, lontana, una voce scandire il tempo.
Ci vedemmo. Volevo sapere, volevo conoscere i dettagli. Lui si
rifiutava.
«Non voglio parlarne. Voglio dimenticare. È stato un errore.
Qualcosa di sbagliato. Di freddo. Di alie-nante e distante».
Eravamo in macchina e mi guardava tristissimo.
«Dimmi che non ho rovinato tutto», ripeteva. «Dimmi che
possiamo dimenticare. Non voglio perderti».
Io stavo zitta, schiacciata sotto la cappa di vetro affumicato che
aveva reso grigio l’azzurro del cielo.
Ero il pugile crollato al tappeto la notte prima, con la voce lontana
che contava, arrivava a dieci e ricominciava da capo. Un pugile al
tappeto con un KO che non veniva mai dichiarato e restava lì,
sospeso e infinito.
«Il tuo profumo, Anna. Il tuo profumo. Ho rovinato tutto», sospirava
affondandomi il viso fra i capelli.
Aveva rovinato davvero tutto? Erano state cosi stupendamente
inutili le mie canzoni? Mi scoppiava la testa. Lo guardavo e stavo
zitta.
«Vorrei che non fosse mai accaduto. Vorrei poter tornare indietro».
«Ma è accaduto» gli dissi. «E indietro non si torna. Possiamo
continuare a vederci, certo. Ma non saremo più gli stessi di prima.
Quelli di prima non esistono più».
«Possiamo, invece».
«Raccontami tutto», incalzai. «Raccontami come è accaduto».
«Non voglio parlarne» rispose lui irrigidendosi.
Insistetti. Volevo sapere. Lo pretendevo. Gli dissi che me lo
doveva, per quello che eravamo stati. Non per quello che eravamo
adesso, perché adesso stavamo navigando sottoterra e il sottoterra
è per talpe e lombrichi. Me lo doveva per i noi due di ieri, quelli fatti
per le nuvole.
Alla fine si arrese. Si appoggiò esausto allo schienale e mi
raccontò. Tutto. Della sera in cui l’aveva conosciuta e delle due
dopo, quando erano usciti e avevano fatto sesso nella macchina di
lei. Era accaduto il mese prima.
Quell’unica volta. E non si erano più rivisti. Raccontava. Con voce
atona e inespressiva, il volto spento. Rispondeva esausto a ogni mia
richiesta di dettagli. Probabilmente pensava che volevo saperli per
farmi male e riuscire a odiarlo di più. Raccontava arrendendosi.
Raccontava accettando la fine di noi. Nella mia mente il suo
racconto prendeva corpo e forma. Mi sembrava di vederlo, al
bancone del bar, parlare e flirtare con lei, scambiarsi il numero di
telefono. Lo vedevo nella sua stanza l’indomani, a messaggiare e
prendere accordi per vedersi. E li vedevo in macchina, insieme,
mentre scopavano di notte.
Volli sapere tutto, le posizioni esatte, le cose che avevano fatto,
come si erano parlati. Gli chiedevo di specificare, di essere preciso
nel descrivere i particolari e la cronologia di come tutto si fosse
svolto. Esattamente.
«Esattamente, hai capito?».
Avevo bisogno di sapere se era emozionato o nervoso prima di
vederla, come lei lo aveva pompato, se era stata brava, se le aveva
leccato la fica. Dettagli su dettagli, sempre più osceni e crudeli.
Andrea rispondeva senza più mostrare resistenza: ormai parlava
come in trance, come se la sua voce monotona stesse celebrando
con quel racconto la nostra fine.
Io ascoltavo e mi sorprendevo a pensare che avrei voluto vederli.
Le immagini di lui e di lei che creavo nella mia mente, dopo avermi
incupita e addolorata, stavano lasciando piano il posto a una
tenerezza ambigua, insinuante e dolciastra, che più mi raccontava i
particolari di quella scopata e più diventava desiderio. Di essere con
loro, a guardarli. Di farmi scopare anche io da lui, quella notte, in
quella macchina insieme a lei.
Allungai la mano e gli toccai il viso. Andrea sembrò scuotersi.
Forse i miei occhi avevano tradito il desiderio che mi percorreva,
perché il suo sguardo era meravigliato, incredulo. Diffidente, perfino,
come se gli fosse impossibile credere alla sincerità di quella carezza,
e attendesse una battuta cattiva, una reazione sarcastica al suo
racconto crudele.
Lo baciai lievemente sulle labbra.
«Voglio che mi scopi. Adesso», gli sussurrai.
Mi abbracciò forte e mi baciò. Risposi a quel bacio furiosamente,
mordendogli le labbra e la lingua. Lo volevo da impazzire. Volevo
che mi scorresse ancora una volta dentro, volevo dirgli che l’amavo
e che ave-vo scoperto che potevo – e posso – amarlo di più.
Scendemmo dalla macchina e ci infilammo nel primo hotel vicino
la stazione che vedemmo. In camera tutto fu frenetico. Era come se
non lo avessi mai avuto. Lingue che si cercavano, labbra che
succhiavano, la fica fradicia, il cazzo fremente. Baci famelici. Baci
affamati di baci che sembravano non saziarsi mai, che non avevano
inizio o fine. E lui che ripeteva il mio nome. Me lo sentivo
rimbombare nella testa, fra le cosce e nel midollo. I flash di lui e di
quella donna impegnati a scopare in macchina facevano capolino
nella mia mente, col sorprendente risultato di farmi bagnare ancora
di più, di farmi sentire la fica ancora più vuota e smaniosa di essere
riempita.
Quando finalmente Andrea mi strinse i fianchi e mi tirò giù,
facendomi impalare sul suo cazzo, tutto scomparve. Eravamo di
nuovo mare e navigante, sull’acqua piatta dopo una tempesta
spaventosa. Lui fuori e dentro me, impetuosamente, il nostro viaggio
l’incanto consueto e il mio cuore sparpagliato dappertutto.
Venni, prima gemendo, poi gridando, percorsa da brividi. Gli
dicevo che lo amavo, lo gridavo per tutte le volte che mi ero morsa le
labbra per non dirglielo. Venni mentre godeva anche lui, che
respirava forte fra i miei capelli ansimando il mio nome. Eravamo
belli, belli come il cielo, con la stessa voglia di non far ritorno.
Forse occorre finire a terra, vedere il reale sfumare, sporcarsi di
paura, per capire davvero che alla fine conta solo l’amore. E io non
avevo più paura di cadere di nuovo.
Capitolo 27 - Il violino

Era passata. La crisi che avevamo vissuto, la mia gelosia, la paura


di perderci. L’aver accolto tutto dell'altro, anche le parti oscure, e
aver scoperto di amare pure quelle, ci aveva resi più forti. Per
accogliere il bello, le luci e i colori, non serve amarsi per davvero: è
naturale che attraggano. Si ama davvero quando abbracci tutto il
resto, tutte le stanze della reggia, anche le più buie. Mi sentivo forte.
Balzata in avanti di cento mosse, con la consapevolezza di essere
fortunata, mille passi avanti agli altri.
Ero in metropolitana. Guardavo i miei compagni di viaggio via via
che salivano, la loro ricerca con lo sguardo di un sedile libero, prima
quasi distratta, con il treno non ancora pieno, quindi frenetica,
quando di sedute disponibili ne restavano pochissime. Chi si
accaparrava un posto prendeva lo smart e si “connetteva”,
scollegandosi dal resto. Chi saliva alle fermate successive, nei
vagoni affollati, si preoccupava di affiancarsi a qualcuno urtandolo il
meno possibile e dirigeva gli occhi verso zone neutre, lontane dagli
altri.
Mi piaceva guardare la gente. I volti assonnati, le espressioni
assenti, una ruga fra gli occhi. In silenzio, tra il rumore del dondolio e
delle ruote sui binari, sotto la voce registrata che annunciava le
fermate, ero sicura di intuire chi stesse vivendo un amore. Me lo
diceva ogni sguardo vivo, perché non importa il colore e la forma:
l’amore ha sempre gli occhi belli.
Se qualcuno di quei viaggiatori mi fosse capitato accanto nella
corsa della sera, lo avrei riconosciuto; da quando vivevo di passione
ero attenta alle persone, agli uomini e alle donne della mia età,
soprattutto. Mi piaceva immaginarne la vita, cercare di capire se
fossero felici, rassegnate, deluse, arrabbiate, soddisfatte, perdute.
Avrei voluto chieder loro se le cose che avevano visto o vissuto
erano state belle come nei sogni. Se erano stati fortunati abbastanza
da sognare. Le loro ansie, i loro batticuori, se li ricordavano ancora?
E di quella giornata sarebbe valsa la pena di conservare l'odore o
sarebbe andata via e basta, distrattamente come tutte le altre?
Io degli ultimi mesi ricordavo ogni giorno, ogni emozione. Dopo
tutti gli anni passati a sperimentare, anni che si erano inseguiti,
nascosti, aggrovigliati, sovrapposti, finalmente riuscivo a leggere, a
distinguere, a dare peso. Ero sempre vigile, attenta, vitale.
Era merito di Andrea, che mi scorreva nelle vene anche quando
andavo nel mondo senza di lui. A casa, coi figli, in studio, nelle cene
di lavoro, per strada. Anche se non ci vedevamo da giorni avevo la
sensazione costante che ci fossimo appena staccati: sentivo l'eco
dei nostri respiri concitati come alla fine d’una corsa, e nel petto mi
pulsava la voglia di correre ancora. Non era con me ma c’era lo
stesso: la sua voce dentro, le sue mani addosso, il suo fiato sul
collo. E se chiudevo gli occhi c’era ancora di più perché riuscivo a
sentirne lo sguardo, quello in cui mi ero specchiata scoprendo una
nuova me stessa.
La vecchia me, che di tutti gli anni vissuti aveva accettato
l’imbroglio, era rimasta dormiente, si era sempre sbagliata. Perché ci
si può sbagliare a qualunque età: non sono gli anni che passano a
salvarci dagli errori. Semplicemente, i vecchi sbagliano da più
tempo. E io avevo sempre pensato, sbagliandomi, che non si
potesse amare in quel modo, amarsi tanto e “tutti”, in ogni singolo
pezzetto. C’era voluto lui, quel ragazzo, per svegliarmi, fare luce.
Ed ero diventata unica, molteplice, infinita.
E, pur se consapevole che un giorno vicino quella storia sarebbe
finita, ero altrettanto certa che sarebbe rimasta sempre con me.
Come quei sogni bellissimi, tanto intensi che la luce del giorno non
riesce a cancellare, e che la mattina dopo ti lasciano dentro
un’emozione, una dolcezza che permane e che ti porti in giro. Così
lo amavo e vivevo: come un sogno bellissimo che mi sarebbe restato
dentro e che nessun’alba sarebbe stata capace di violare.
Quando arrivai a San Babila, quelli scesi con me, come destati dal
torpore che li aveva resi immobili nel vagone, parevano aver
impostato l'avanti veloce. Mi sorpassavano spediti, diretti verso la
giornata che li attendeva a bocca aperta, come se avessero
desiderio di esserne inghiottiti o comunque fossero rassegnati a
subirlo.
Camminavo calma, ondeggiando appena per via dei tacchi alti. Mi
piaceva il senso di vulnerabilità che il tacco dodici regala, la
consapevolezza di non potere correre in caso di necessità. E mi
piacevano le folate d'aria fredda che nel passaggio da un tunnel
all'altro si intrufolavano sotto la mia gonna andando a colpire la
striscia di pelle nuda fra mutandine e autoreggenti. Percepire quel
brivido proprio lì, portare in giro la voglia di Andrea, ancheggiare sui
tacchi fra persone che non sospettavano minimamente quali pensieri
sconci popolassero la mia mente, mi faceva sentire
meravigliosamente viva.
Ricordo di essermi sorpresa a rallentare, a fermarmi davanti a una
ragazza che suonava il violino, riempiendomi per la prima volta di
una bellezza che doveva star lì da sempre. La gente che mi passava
accanto a ondate frenetiche, in corrispondenza di ogni nuova corsa,
era indifferente a me e alla violinista, e si perdeva quella musica. Io,
ieri, ero come loro.
Immaginai di avere accanto Andrea. Anzi, immaginai di essere
magica, di poter prestare a lui i miei occhi perché riuscisse a vedere
la ragazza che suonava. Riuscisse a vedere me accanto alla
musica. E mi misi a piangere guardandomi dall’alto, perché prima di
lui non ero mai stata così bella.
Capitolo 28 - Rafaela oltre la soglia

È bella di una bellezza ambigua, accattivante, misteriosa. Alta,


bionda, occhi scuri, zigomi sporgenti e viso triangolare.
Sta inequivocabilmente battendo per strada. Ma non sono i vestiti
indecenti o i tacchi vertiginosi a rivelarlo. E nemmeno il trucco
esagerato. Lo racconta il modo compito e formale con cui si è mossa
dal marciapiede per avvicinarsi a noi che stiamo salendo in
macchina di ritorno da una cena al ristorante. Si è avvicinata con un
piglio normale, senza ancheggiare. Segno evidente che
l’atteggiamento di prima, sul marciapiede, era adescatore per
professione.
«Mi fai accendere signora?», fa con voce profonda e accento
sudamericano.
Mi avvicino. Prendo l’accendino ma non glielo do: accendo e lo
accosto alla sigaretta che tiene fra le labbra piene e rosse, mentre
mi colpisce il suo profumo, intenso e fruttato.
Lei accende la sigaretta ma io non spengo l’accendino. Con la
fiamma che le illumina il viso le dico: «Che bella che sei».
Solleva gli occhi neri a guardarmi e sorridendo mi sussurra: «Pure
tu».
Soffia piano sulla fiammella, indica Andrea in piedi vicino alla
macchina e aggiunge: «Anche lui è bello. L’avevo notato prima,
quando stavate salendo in macchina. Se non era con te gli avrei
offerto uno sconto per un lavoretto».
È un lampo.
«Facciamo così», le dico. «Il lavoretto glielo fai lo stesso, ma
invece dello sconto mi lasci guardare. A te va bene, amore?».
Andrea mi guarda disorientato. Ho la sensazione che con gli occhi
si stia chiedendo se mi sono accorta che è una trans. Gli sorrido
mordendomi il labbro inferiore. La mia risposta è chiara e fuga ogni
dubbio: sì. Sì che me ne sono accorta, sì che mi piace, sì che voglio
guardare mentre ti fa il lavoretto.
«Va bene per te, amore?», ripete lei facendomi da eco, con un
accento che apre tutte le vocali e ammorbidisce le consonanti.
Andrea annuisce. E io lo amo. Lo amo per come sa seguirmi e
inseguirmi, per come sa ispirarmi fantasie, per come accoglie ogni
nuova sconcezza. Porcate che mi fa immaginare prima ancora,
forse, di rendermi conto di desiderarle. Io e lei ci accordiamo sul
prezzo e la pago, mentre Andrea ci guarda, tra l’attonito e
l’incuriosito. Saliamo tutti in macchina. Io nel sedile posteriore, lei su
quello del passeggero vicino ad Andrea che guida.
«Dove andiamo?», le chiedo.
Lei dice che conosce un posto e che indicherà la strada ad
“amore”. Chiacchieriamo. Si chiama Rafaela ed è brasiliana. Vive a
Milano da quattro anni. È allegra, impastata di una sensualità
pazzesca. Il contrasto fra la spigolosità del viso con la bocca
carnosa e piena, le curve del seno e dei fianchi, l’al-tezza esagerata
e la morbidezza della voce creano un mix straordinariamente
seducente. È meravigliosa non perché sembra una donna
(inequivocabilmente, lo sembra) ma perché non si cura di
mascherare quel che porta addosso: una mescolanza ambigua e
indefinibile, ammaliante come un’opera d’arte.
Mentre ci avviciniamo al “posto”, Rafaela mi prende la mano
destra e comincia a farmi i complimenti per “amore”; dice che ho un
ragazzo molto bello, “muy lindo”, e che è contenta che di lì a poco gli
succhierà il cazzo. Io allungo l’altra mano sulla spalla di Andrea:
voglio sentirlo e voglio che mi senta con lui, voglio percepire il calore
della sua pelle sotto la camicia, quella pelle che quando la tocco mi
fa sentire a casa, nel giusto posto mio. Voglio che senta che non gli
lascerò la mano per quel giro di giostra. È tutto cosi surreale. Lei
sorride a entrambi, provocante e ammiccante.
Sono eccitata, curiosa, intrigata. Di quale genere d’amore è
capace quel corpo? Come sente? Come desidera?
Siamo arrivati. È un parcheggio isolato, ben nascosto fra gli alberi.
Rafaela si è messa in ginocchio sul sedile. Si toglie il corpetto,
mostrando orgogliosa due splendide tette bianche e rotonde. Dal
sedile posteriore dove sono ancora seduta mi piego in avanti,
allungo le mani e le tocco. Ha una pelle liscissima, di seta.
«E “amore”, non tocca?», chiede. Ridiamo tutti e tre.
Il fatto che Andrea rida mi incoraggia. Gli prendo la mano e gliela
appoggio sul seno di Rafaela, lasciando la mia sulla sua.
Sento la mano di lui che l’accarezza. La sento farsi da timida e
inerte, come quando l’avevo appoggiata, viva e curiosa, prepotente.
Le afferra una tetta, gliela strizza, le titilla un capezzolo, poi passa a
gustarsi l’altra. Lascio la sua mano a giocare da sola con quelle tette
e abbasso nella posizione massima la spalliera del sedile guida.
Io e Rafaela ci guardiamo e ci intendiamo: all’unisono, come fosse
una scena più volte provata, poggiamo le mani sul torace di Andrea,
invitandolo a stendersi. Poi insieme gli sbottoniamo la camicia, gli
scopriamo il petto e cominciamo a baciarlo. Lei sul torace, io sulla
bocca. Rafaela è a quattro zampe, tra il sedile del passeggero e
quello di guida. È Andrea ora a prendermi la mano e a invitarmi a
toccarla insieme a lui. Le nostre mani sollevano la minigonna e le
scoprono il culo coperto solo da un perizoma. Intrecciamo le mani.
Senza staccarci accarezziamo le natiche di lei, sode e lisce. L’idea
che fra quelle morbide cosce bianche Rafaela abbia un cazzo mi
eccita moltissimo. E mi eccita l’idea che quel pensiero baleni nella
mente del mio giovane amante mentre lei gli sta leccando il torace:
mi eccita che lui si stia spingendo oltre quella soglia insieme a me,
mentre io lo bacio.
Rafaela scende più giù. Ho sentito il rumore dei suoi spostamenti,
apro gli occhi e smetto di baciarlo per sporgermi in avanti al di sopra
della spalla di Andrea e guardarla. Lei con mani abili gli sfibbia la
cintura, apre la patta e gli tira fuori l’uccello.
Al contatto con quelle mani Andrea sussulta. Abbasso il viso verso
lui e lo sorprendo che mi sta fissando. Gli sorrido. Poi torno a
guardare le mani di Rafaela. Ha il cazzo di Andrea fra le dita, lo
stringe perché le vene l’irrorino di sangue. Sono incantata. Lei si
accorge della mia curiosità e, compiaciuta, tenendo sicura il cazzo
stretto fra le dita, si sposta un pochino per consentirmi una maggiore
visuale. Poi comincia ad andare su e giù con la mano, con un ritmo
lento e costante. Tira giù la pelle, poi torna su fino alla cappella. E
ancora. E ancora. Con rigore scientifico. E intanto mi guarda e
sorride sorniona. Con lo stesso rigore scientifico il cazzo di Andrea
risponde alla carezza, s’indurisce e ingrandisce. Sono io a sorriderle
adesso.
«Che lindo», esclama lei.
Andrea mi guarda, eccitato e intimorito. Lo bacio e gli sussurro
all’orecchio.
«Dice che sei lindo…».
Lui sospira. Rafaela ci guarda senza interrompere la carezza.
Sono affascinata dal talento delle sue mani, da quel preciso va e
vieni che sta dando i suoi frutti.
Rafaela si abbassa e avvicina il viso al cazzo di Andrea tenendolo
ancora stretto fra le dita. Solleva solo un attimo il viso verso me,
come per assicurarsi che io la stia guardando, poi si dedica
totalmente a lui. Comincia piano con la lingua, la fa volteggiare
attorno alla cappella, la gira, la colpisce. Finalmente dischiude le
labbra e lo prende tutto in bocca. Non riesco più a vedere: i capelli
biondi si sono rovesciati in avanti e coprono tutto. Vedo solo la sua
testa andare su e giù, con lo stesso ritmo lento e costante della
prima carezza. Andrea è fermo. Non muove i fianchi come in genere
fa quando sono io a pompargli il cazzo. Sta subendo quella carezza.
Sembra inerte, ma io so che gli piace: lo sento e lo vedo. Lo vedo
nello sguardo serio e negli occhi annacquati, nelle labbra dischiuse e
contratte.
Mi avvicino al suo viso e comincio a leccargli piano le labbra. Il
suo respiro si fa sempre più forte. Intanto salgono i suoni osceni
della pompa perfetta che Rafaela gli sta facendo. Rumori di saliva, di
succhio e risucchio, di cazzo che sbatte nella gola. Suoni
deliziosamente indecenti interrotti solo dal respiro di lei, che ogni
tanto si stacca per riprendere fiato e mormorare: «Che lindo!».
Andrea è sudato. Gli accarezzo e asciugo con le mani la fronte
senza smettere di sorridergli. Non voglio perdermi nessuna delle
micro-espressioni di godimento sul suo volto: le narici che si
allargano a inspirare più profondamente, le labbra che vibrano, la
ruga sulla fronte che ogni tanto si fa più profonda. Me le gusto tutte,
una per una. Lucidamente. Come non riesco a fare quando lui è
dentro di me, in culo, in bocca o in fica: sono sempre troppo smarrita
nel mio piacere per godermele. Allungo una mano e la faccio
scorrere sul suo torace, fra i peli bagnati, sulla pancia fino al
bassoventre. La premo e la lascio ferma lì, a seguire e sentirne i
sussulti, a gustarmi i suoi tremiti. Perché tremi quando hai paura, se
piangi o se hai freddo. Tremi di desiderio o di gioia. Oppure per la
rabbia che vuol diventare vulcano, o se godi. Ma tremi sempre e
comunque di vita.
Lo sento così mio. Abbandonato. Fiducioso. La consapevolezza
che sta oltrepassando la soglia insieme a me mi fa girare la testa. E
sono io adesso che avrei voglia di girarlo e rigirarlo, di percepire di
più calore e vene, di aprirgli nuovi incantesimi, di consumarlo con la
mia lingua e coi miei canti, e averlo di più, più bello e più mio, a
respirare e risplendere.
Gli bacio il viso, gli occhi, la bocca. Gli lecco le goccioline di
sudore sulla fronte. Rafaela continua a succhiare e Andrea ha
l’espressione seria di quando sta per venire. La mia mano sulla sua
pancia coglie e distingue i piccoli scatti che precedono il suo piacere
e che ormai conosco benissimo. Sento nel suo corpo la corrente
accumularsi ma non esplodere, fermarsi un attimo prima del punto di
non ritorno. Una. Due volte. Tre volte.
Anche Rafaela percepisce che lui non riesce ad abbandonarsi, e
aumenta il ritmo, che da lento e sincrono si fa frenetico, una bocca
sfrontata che lo incita ad abbandonarsi, una spudorata sirena che
canta e lo invita a una danza sensuale. Ma Andrea rimane lì, sulla
soglia. Temo che qualcosa si stia incrinando e allora gli prendo il viso
fra le mani.
«Possiamo smettere se vuoi».
«No. Voglio venire e voglio che mi guardi. Ti amo».
Lo bacio, emozionata e piena di struggimento, con quel fervore
intenso e calmo che hanno le passioni che senti definitive.
Ed è così che lui esplode nella bocca di Rafaela, mentre io gli
bacio la sua. Esplode oltre la soglia, smarrito nel suo e nel mio
desiderio, mentre lo bacio. E chissà, forse è proprio quando ci si
sente smarriti che si ama per davvero, perché l’amore interrompe le
nostre certezze e ci governa lui.
Capitolo 29 - Legata

Avevo tenuto un diario, dal giorno in cui ci eravamo conosciuti.


Qualche volta poche righe, più spesso un fiume. State leggendo quel
diario, raccolto e sfrondato delle mille ripetizioni, ma sostanzialmente
integro. L’ho riletto molte volte, sorprendendomi ogni volta
dell’identica frenesia che il mio amore per Andrea ha prodotto e
produce ancora.
Lo avevo pubblicato online all’inizio della nostra storia, un blog
pornografico che raccontava di noi: mi eccitava l’idea che molti, del
tutto sconosciuti, sapessero. Avevo aperto dei profili sui social per
amplificarne le pagine e scrivevo pensieri, raccontavo della mia
passione per lui, dei giochi che facevamo o che volevo fargli,
dell’elettrica letizia di quando lo avrei visto, del languore e del senso
di vuoto quando lo lasciavo. Raccontavo ad estranei la voglia,
costante e potente, di averlo con me. E lui silente leggeva le mie
pubbliche dichiarazioni d’amore. Forse scrivevo pure per lasciare
una traccia di noi: volevo che il diario testimoniasse al mondo che io
ero anche quella, la me stessa nuova che avevo scoperto con lui,
una me stessa che sarebbe rimasta cristallizzata nel web.
Lo so, passerà, com’è inevitabile, forse com’è giusto, eppure per
descrivere quello che sento, quello che è successo, quello che il mio
cuore vorrebbe rimanesse per sempre, arrogante e ingenuo come le
speranze dei ragazzi, non so usare parole diverse da queste.
Fame, crampi alla bocca dello stomaco, voglia uguale di sole e di
pioggia, indifferenza al dove, sapore dei minuti, di ogni singolo
minuto.
Avevamo affittato un piccolo appartamento, vicino al centro, in un
palazzo senza portineria. Quando i miei figli erano con i padri,
Andrea lasciava Cremo-na, io riempivo il mio trolley e ci
trasferivamo. “Casa nostra” la chiamavamo, e pian piano lo stava
diventando. Già a fine ottobre non era più necessario che riempissi
la valigia: avevo lì vestiti, scarpe, borse, trucchi. A ogni weekend che
passavamo lì l’appartamento si riempiva: i nostri libri, il nostro PC, i
nostri quadri, lo stereo, la biancheria. Armadi e cassetti si
colmavano, il frigorifero era sempre pieno e la casa si colorava. Agli
occhi di un visitatore, dall’evidente garçonnière dell’inizio sarebbe
sembrata l’abitazione di una coppia, vissuta in pianta stabile.
“Casa nostra”.
Lo ripetevamo continuamente: “casanostra”, anche quando nel
discorso non era necessario. “Pranziamo a casanostra?”, “Non
usciamo, restiamo a casanostra stasera”.
Vivere insieme era il solo possibile passo successivo. Lo
volevamo entrambi, ma non me la sentivo ancora.
Per prima cosa avrebbe significato venire allo scoperto con i miei
figli, e il mio più grande era solo di una manciata d’anni più giovane
di Andrea. In secondo luogo, beh… Vivere insieme fa una differenza
enorme.
È vero. Nella vita conta solo l’appassionarsi, solo così si vive e
vibra perché tutto il resto, senza passione, è un arrancare stanchi.
Ne ero – e sono – sinceramente convinta. Ma il mio passato, una
convivenza e due matrimoni, mi avevano insegnato che se scegliere
l’amore, perdere la testa, non è mai una scelta sbagliata, quella di
vivere insieme può esserla. Soprattutto per gli amori fragili, come
capita che siano, a volte, i più preziosi e belli, perché rari. Come
eravamo io e lui, tanto diversi e improbabili.
Quante diversità. Stile di vita, amici, passioni, il modo di affrontare
e gestire i conflitti. Il mio bisogno di sviscerare, di parlare per
risolvere le incomprensioni e la sua convinzione che bastasse
starsene un po’ ciascuno a cuocere nel proprio brodo per superare
tutto con un abbraccio, smaltiti i malumori. E poi la sua montagna e
le mie spiagge del sud, i suoi concerti rock e la mia opera lirica, i
miei vestiti e i suoi jeans.
E c’erano gli altri, quelli del mondo fuori, quelli dei: “Fra dieci anni
la differenza di età si vedrà moltissimo” e dei: “E se lui desiderasse
dei figli?”. E le battute inconsapevoli per quanto in buona fede dei
suoi amici quando, in mia presenza, parlando di qualcuno della mia
generazione sembrava parlassero di un vecchio. E io mi sentivo così
dannatamente fuori posto, di troppo. Peggio, in un posto non mio.
Non era meglio continuare in quel modo? Sentire "casa" la pelle
dell’altro? Sentirsi a casa, sentirsi al posto giusto solo negli
abbracci?
Vivere insieme vuol dire legarsi mani e piedi con una corda
invisibile. Volevo davvero farlo sentire legato a me? Noi che ci
eravamo scelti in totale libertà, noi così belli a quel modo,
nonostante tanti non avrebbero scommesso sulla nostra possibilità
di funzionare… Non eravamo magici già nella bolla di “casanostra”?
E io? Volevo davvero legarmi a lui?
«Vorrei che mi legassi» gli dissi al telefono qualche giorno prima
del nostro appuntamento. «Avevo già deciso di farlo» rispose con
una sicurezza inedita e nuova.
Andrea era arrivato a “casanostra” prima di me. Appena entrata mi
avventai addosso a lui con la ferocia di sempre. La bocca che lo
cercava, la lingua che lo inseguiva, le mani che gli percorrevano il
corpo insinuandosi sotto il maglione, le dita che frugavano,
tastavano, scostavano tessuti a cercare pelle e calore. E intanto gli
sussurravo frasi concitate fra un bacio e l’altro, fra un morso e l’altro.
Per un po’ mi assecondò abbandonandosi al desiderio di me, mi
teneva le mani sui fianchi per farmi sentire il cazzo già duro contro il
bassoventre, si muoveva incoraggiando e favorendo gli spasmi del
mio corpo che voleva aderire il più possibile al suo, rispondeva ai
miei baci, lasciandosi succhiare la lingua e succhiando la mia.
Poi d’improvviso si fermò e mi fermò, bloccandomi i polsi con le
mani. Io lo guardai sorpresa e imbronciata, come una bimba cui
hanno appena sottratto il gelato che sta per gustarsi.
«Che c’è, amore?», gli chiesi.
«Tu adesso stai zitta, ragazza. Vai in bagno e aspetti. Esci da lì
solo quando ti chiamo».
Rimasi immobile a fissarlo per qualche secondo, poi mi ripresi
rendendomi conto di avere le labbra aperte in una smorfia di
stupore. Senza guardarlo, raccolsi la borsa che avevo gettato sul
pavimento e mi avviai lentamente in bagno, chiudendo la porta alle
mie spalle.
Stetti per un po’ ferma a sentire i rumori che Andrea faceva nella
stanza, cercando di immaginare a cosa fossero riconducibili. Sentivo
zip che si aprivano, i suoi passi, rumore di oggetti, di mobili che
venivano spostati. Rinunciai a capire e mi avvicinai allo specchio.
Mi guardai. Ero spettinata e rossa in viso, eccitatissima. Lo vedevo
negli occhi, nella mano che tremava mentre provavo a sistemarmi i
capelli, nella lingua che insistentemente andava a leccare le labbra
ormai prive di qualsiasi traccia di rossetto. Mi sentivo una gatta in
calore.
Mi tolsi l’abito, il reggiseno, le mutandine e restai solo in
autoreggenti e stivali.
«Posso uscire?» chiesi.
Lui mi disse di no, che dovevo ancora aspettare. Sentire la sua
voce acuì il mio desiderio e febbrilmente mi accesi una sigaretta
prestando ascolto ai rumori oltre la porta. Niente. Non capivo un
cazzo di quello che stava facendo. Rinunciai ad immaginare o a
cercare di capire: avevo solo voglia di uscire di lì e gustarmi il mio
ragazzo. Mi appoggiai alla porta e gli dissi con voce dolcissima e
vogliosa di sbrigarsi. Ero certa che Andrea non avrebbe resistito al
mio richiamo mielato, che avrebbe immediatamente aperto la porta.
Invece no.
«Sta zitta. Esci quando te lo dico».
Questo cambio di battute nel copione che mi ero prefigurata mi
fece mettere una mano fra le gambe. Resistetti a infilare due dita
dentro la fica. Volevo aspettarlo. Riprovai un paio di volte ancora a
fare la sirena, invitandolo ad aprire, ma entrambe le volte lui mi
rispose che dovevo aspettare.
Spensi la luce e mi rintanai nell’angolo del bagno più distante dalla
porta, in un’attesa che sembrava infinita. Nel buio cominciai a
toccarmi le labbra, ad accarezzarmi il seno, a rivivere nella mente i
nostri giorni di passione, i fermi immagine di miele e quelli indecenti.
Ero accesissima e totalmente persa nei ricordi, concentrata per
evitare una masturbazione completa quando la porta si aprì e in
controluce vidi la sagoma magnifica del ragazzo che tanto amavo.
Era bellissimo, completamente nudo e col cazzo dritto. Si avvicinò
piano e io cominciai a bagnarmi, lo sentivo. E più sentivo che mi
bagnavo più mi eccitavo. Quando fu a pochi centimetri da me, senza
toccarmi, mi baciò appassionatamente sulla bocca e io mi sciolsi. Lo
baciavo oscenamente, cacciando fuori la lingua, ansimando,
mordendo e succhiando.
Anche stavolta d’improvviso lui si bloccò, si spostò alla mia destra
e mi chiese di andare in camera. Mi girava la testa per il desiderio e
cominciai ad avanzare piano verso la porta quando con le mani
dovetti appoggiarmi agli stipiti perché mi tremavano le gambe. Mi
fermai. Nel buio Andrea aveva continuato ad avanzare dietro di me e
quando sentii il suo cazzo duro che urtava contro le mie natiche, che
le colpiva ciecamente da una parte all’altra gemetti, puntai più forte
le mani sugli stipiti e mi piegai appena sulle ginocchia…
Avevo la passera fradicia. Andrea mi abbracciò da dietro, mosse
l’uccello pulsante contro le mie chiap-pe sussurrando: «Oggi ti scopo
come voglio io».
Emisi un gridolino e venni.
«Sto venendo… Sto venendo e non mi hai ancora sfiorato la fica»,
mormorai godendo.
Lui mi strinse più forte e accolse tutti i miei fremiti. Mi abbandonai
tra le sue braccia. Mentre mi toglieva calze e stivali facendomi
sdraiare sul letto mi accorsi che aveva fissato delle corde ai quattro
angoli. Mi legò a braccia e gambe spalancate, un cuscino sotto il
culo, completamente e oscenamente aperta, esposta, vulnerabile.
Rimase in piedi al lato del letto a guardarmi. Anch’io lo guardavo,
guardavo i suoi occhi, la bocca, il corpo nudo perfetto, l’uccello
svettante…
Poi iniziò a raccontarmi, a dirmi quanto ero bella, quanto e come
mi avrebbe baciata fra poco, come mi avrebbe sbattuta.
«Senti quanto sei bagnata?» sussurrava, «Senti quanta voglia di
cazzo hai? Quanta smania di essere montata? Lo sa la tua fica che
fra poco sarò dentro di lei? Lo sai che ti chiavo perbene fra poco,
amore mio?».
Non ero ancora abituata a sentirlo parlare così, padrone e signore
del mio desiderio. Chiusi gli occhi e cominciai a contorcermi.
Tremavo, muovevo la testa da una parte all’altra, sollevavo il bacino
e gemevo. Più mi contorcevo e più mi sentivo aperta e incompleta,
fragile, e, proprio per questo, potentemente viva. Lo volevo
disperatamente, urgentemente. Non ne potevo più. Riaprii gli occhi.
Si era seduto in ginocchio fra le mie cosce per strofinarmi il cazzo
sulla pancia.
«Lo vuoi amore mio? Lo vuoi?», diceva.
Cominciai a pregarlo, a supplicarlo di prendermi, gli dissi che lo
amavo, che ero la sua puttana o il suo amore, la sua troia o la sua
donna, che sarei stata tutto quello che poteva volere, ma lo
scongiuravo di scoparmi.
Mi venne vicino, mi strofinò il cazzo in faccia e mi ordinò «Lecca».
Ubbidii, col cuore che batteva forte e la fica che si inondava. Mi
poggiò una mano sul collo, il palmo aperto sulla gola, e prese a
scoparmi la bocca, imponendomi un ritmo vigoroso e strappandomi
un gemito ad ogni affondo. Si staccò d’improvviso, si abbassò e mi
diede la lingua. E poi ancora cazzo. E poi ancora lingua. Mi gustavo
quell’alternanza ad occhi chiusi, come su un’alta-lena. Boccheggiavo
e mi leccavo le labbra nel breve attimo che restavo a bocca vuota.
Poi si spostò e mi fu addosso, mi mise le mani sotto il culo
tirandolo in avanti e finalmente affondò nella mia fica. Assecondavo
le sue spinte il poco che mi permettevano le corde. Ci parlavamo
dentro la bocca. I miei “Sì. Sì” si ripetevano e confondevano con i
suoi ripetuti “Sono dentro di te…”
Venimmo insieme scambiandoci l’anima con le parole, sconnesse
e ingenue, identiche per tutti gli amanti e uniche per ciascuno,
sudicie e pure. Il piacere ci sorprese, con lui che sborrava in me
ansimando infiniti “Sì” e io che godendo ripetevo “Sei dentro di me”.
Quando mi sciolse, i segni ai polsi e sulle caviglie erano dolenti e
sublimi.
Dopo, mentre ci coccolavamo, gli chiesi: «Che ti è successo
ragazzo? È una nuova nuvola quella in cui mi hai portato o sono
state le corde a farti diventare chiacchierino?»
«Shhh… ragazza», mi disse. «Non guardare in basso, perché
potresti avere una vertigine. Alti così non siamo stati mai».
Era vero. Eravamo altissimi. Fino ad allora avevo pensato che
sarei stata io a insegnargli, a fargli sperimentare e scoprire. Lo
avevo fatto, eccome. Gli avevo insegnato posizioni, tecniche,
trucchi... Gli avevo ispirato fantasie. Ma alla fine era stato lui a
portarmi dove non ero mai stata, là in alto, perché l’amore non si
impara e non si insegna.
Capitolo 30 - Un po’ pornodiva

Il locale è davvero bello. Molto più bello ed elegante del privé


dell’altra volta. Siamo nella zona hot, un lungo corridoio in penombra
che comunica con molte stanze. Ci avviciniamo all’uscio di una
sicuramente occupata. È aperta. Sulla soglia stazionano uomini soli
che guardano; dall’interno si percepiscono strilli e gemiti.
Indosso un abito nero, scarpe décolleté con tacco alto e non porto
le mutandine. Il programma che abbiamo questa sera è “mostrare lo
squirt”, la nostra magia che rende eresia ogni scienza.
Andrea è contento e sicuro di sé, e io lo adoro. È stata sua l’idea:
«Voglio un pubblico per la nostra magia», aveva detto.
Mi bacia dolcemente, mi prende per mano, si fa spazio fra gli
uomini accalcati sull’uscio, mi porta dentro. Mi lascio docilmente
condurre, tengo gli occhi bassi, godo che sia lui a guidarmi. Entriamo
lentamente e ci addossiamo alla parete in fondo. Andrea rivolge le
spalle al muro e io mi piazzo davanti a lui volgendogli le mie.
Sento il suo corpo muscoloso e caldo, il bacino che spinge contro
le mie natiche, le braccia che mi circondano, il suo respiro fra i
capelli. Gli occhi si sono abituati alla penombra. La stanza è molto
grande. Alla nostra sinistra c’è un enorme letto sul quale due coppie
nude stanno scopando. Un quarantenne monta da dietro una
giovane mulatta a quattro zampe, che emette piccoli strilli a ogni
affondo di lui. L’altra coppia sta scopando nella posizione del
missionario.
Vicino al letto una terza coppia in piedi – un uomo e una donna
entrambi molto belli, seminudi – si abbracciano mentre guardano i
quattro che chiavano sul letto. Sulla porta continuano ad apparire
uomini; altri sono dentro, alla nostra destra.
Andrea mi circonda il seno con il braccio sinistro, mentre con la
mano destra preme sul pube massaggiandolo piano con movimenti
circolari. È padrone di me, del desiderio che mi fa nascere lì dove mi
tocca. È padrone della mia voglia. Lo sa. So che lo sa. Mi stringe più
forte, sicuro e prepotente. Poi mi morde l’orecchio.
«Sei pronta a dare spettacolo, amore?».
L’idea basta a bucarmi il cervello e il bassoventre. Mi mordo le
labbra e faccio di sì con la testa. Andrea mi bacia sul collo, preme
più forte la mano e la fa scendere giù ad afferrare l’orlo del vestito.
Me lo solleva fino al ciuffetto di peli che la depilazione lascia sulla
passera e comincia ad accarezzarla piano, continuando a baciare e
mordere il collo.
Chiudo gli occhi e mi gusto la carezza. Titilla piano il grilletto,
quindi comincia a frugarmi la fica con le dita. Prima l’indice, dentro e
fuori, dentro e fuori… Poi indice e medio insieme, ancora dentro e
fuori, senza smettere di premere con il palmo della mano contro il
monte di venere. Quanto mi conosce! La fisicità dell’emozione che
provo è così reale, intensa, vitale…
Adesso ho tre dita dentro che vanno su e giù. Il cic-ciac dei miei
umori è sempre più distinto e riconoscibile. Andrea si ferma e con la
mano ben aperta mi dà un piccolo schiaffo sulla fica. Sobbalzo e
mugolo. Lui mi morde l’orecchio.
«Godi la nostra magia, amore mio. Facciamola vedere».
E inizia a colpirmi la fica. Apro gli occhi. Ci stanno guardando
incuriositi. Il nostro abbraccio insolito ha catturato l’attenzione delle
coppie che stanno scopando, dell’altra coppia in piedi, degli uomini
soli fuori e dentro la stanza. Uno di loro si è avvicinato, ha tirato fuori
il cazzo e se lo sta menando. Quando incontro gli occhi dell’uomo
che si masturba di fronte a me, imploro la mia mente di restare
all’erta, di rimanere lucida, ma non ci riesco: la mano di Andrea,
calda ed esperta, mi sta già tastando la fica in quel modo che
nessuno prima di lui ha mai fatto, quel modo che neanche io sapevo
di volere e che ha spazzato via tutte le mani, tutte le bocche e tutti i
cazzi che mi hanno avuta o potranno mai avermi. I colpetti si
susseguono sempre più energici e i miei gemiti aumentano. Vacillo e
chiudo gli occhi. Le sensazioni di piacere diventano onde potenti,
spiriti liberi che mi percorrono e vogliono emergere, uscire da ogni
mio poro. Sto cedendo. Vibro nella mente. Palpito.
Apro di più le cosce e mi abbasso. Miagolo sempre più forte. Lui
mi sostiene stringendomi forte col braccio sinistro e accelera i colpi
con la mano destra. È dolce e selvaggio insieme. È potente e bello.
È mio. Non sento più gli strilli e i gemiti delle coppie che stavano
scopando: c’è solo il rumore degli schiaffetti sulla mia fica fradicia
che si gonfia, i miei mugolii e il respiro forte di Andrea sul collo che
mi sussurra: «Sei quasi pronta amore, fra poco qui ci sarà odore di
mandorla…».
Riapro gli occhi. Il tipo che se lo sta menando mi guarda, gli
uomini mi guardano, le coppie continuano a scopare ma ormai quasi
distrattamente, sembrano molto più interessate a guardare noi.
Provo vergogna ma non posso fermarmi. È troppo potente l’energia
ed è troppo sensuale ed eccitante quella vergogna.
«Sei mia», mormora Andrea. «Facciamolo vedere, quanto sei
puttana, quanto sei mia».
Lo voglio. Voglio squirtare davanti a questi estranei. Voglio che
vedano come lui sa sciogliermi per farmi affiorare più forte, viva e
trionfante. Voglio che vedano quanto in alto sa farmi volare. Voglio
che mi vedano totalmente sua.
Tutto prende a muoversi al rallentatore fino a fermarsi. Tutto
ammutolisce, in un silenzio irreale. Solo io e lui siamo animati e vivi.
Solo io e lui. I suoi colpi alla fica e i miei sospiri. Mi dimeno, mi inarco
e contorco.
Poi finalmente le stelle filanti esplodono… Squirto e il rumore
dell’abbondante getto di liquido che colpisce forte il pavimento
sorprende tutti. Vengo e squirto nello stesso momento. L’onda del
piacere mi travolge mentre mi sciolgo. Tremo violentemente, forse
grido.
Non era mai accaduto insieme: avevo sempre squirtato dopo gli
orgasmi, mai insieme. Godere contemporaneamente di quei due
diversi piaceri mi fa perdere di vista la realtà. Esiste soltanto il suo
abbraccio, il suo calore, la sua carezza e la sua voce. C’è solo lui e
tutto il mio amore per lui che trabocca. Giro il viso e lo bacio mentre
l’esplosione di stelle filanti continua. Squirto ancora, mi sciolgo e
disciolgo. Continuo a succhiargli la lingua mentre piano piano gli
spasmi diminuiscono e riemergo.
Mi stacco dal bacio, apro gli occhi e il quadro di spettatori ha
cambiato forma. I quattro non scopano più. Ci stanno guardando. La
coppia in piedi si è avvicinata. Il tipo che se lo stava menando
adesso è in ginocchio davanti a me, le mani sospese a conca fra le
mie cosce aperte, quasi in adorazione.
Anche altri uomini si sono avvicinati, hanno tirato fuori gli uccelli e
si stanno masturbando.
Guardo gli uomini negli occhi, uno ad uno, guardo i loro cazzi, le
mani che li menano, guardo le coppie. Mi sento sul set di un film
porno. Non provo vergogna. O meglio, provo una vergogna
dolciastra che mi eccita in maniera inaudita. Un imbarazzo che mi
rende audace e spudorata. Volgo ancora il viso, cerco gli occhi di
Andrea che mi sorride.
«Sei magica», dice. «Siamo magici».
Lo guardo negli occhi e sfrontata gli dico: «Ancora!».
Mi bacia sulla bocca e ricomincia a schiaffeggiarmi la fica. Io
riprendo a tremare e vacillare. Palpito e squirto di nuovo,
intensamente. D’improvviso non si sente più il rumore del liquido che
cade sul pavimento. Guardo in basso e vedo che l’uomo
inginocchiato lo sta raccogliendo nelle mani a conca e se lo porta
alla bocca. Lo beve con un’espressione rapita.
Ancora schiaffetti. Abili, esperti, padroni. Godo e squirto. Ancora e
ancora. Sono sfinita. Oscillo. Andrea mi sostiene stringendomi forte.
Mi riabbassa il vestito, poi mi prende per mano e mi porta fuori la
stanza. Ho le gambe tremanti, le cosce bagnate e la fica gocciolante.
Scendiamo le scale e ci infiliamo in un bagno. Ci abbracciamo e
ridiamo, ci baciamo senza smettere di ridere.
«Hai visto il tipo in ginocchio che ha raccolto il tuo succo e lo ha
bevuto?» mi dice Andrea. «Sembrava assistesse a un miracolo!».
«Sei tu che compi i miracoli, ragazzo: stasera mi hai resa un po’
pornodiva e un po’ acqua di Lourdes…»
Capitolo 31 - La camera bianca

Sulle nostre età tanto distanti mi aveva sempre divertito scherzare.


Il gioco di fare la zia nei ristoranti per lasciare camerieri e clienti a
guardarci attoniti quando poi ficcavo la lingua in bocca a mio
“nipote”; oppure in pubblico, nei tram, in un cinema o comunque fra
la gente, mentre gli bisbigliavo sconcezze all’orecchio. Adoravo farlo
arrossire alzando un po’ la voce, di un tono appena sufficiente a
fargli venire il dubbio che i più vicini avessero sentito. Perfino fra di
noi, a letto, quando prima di abbassarmi a succhiargli il cazzo
giocavo a fare la “signora”.
Forse in qualche modo la esorcizzavo, la nostra differenza di età.
Eppure quella differenza, come tutte le altre, nei gusti musicali, nelle
letture, nelle passioni, non era mai stata un problema nella nostra
bolla. E probabilmente non lo era nemmeno per i suoi amici e le
pochissime amiche mie che sapevano.
Almeno fino a che non lasciai mio marito. E ancor più dopo, via via
che gli amici seppero di “casanostra”. Fin quando agli occhi degli
altri la nostra storia era rimasta un fatto squisitamente sessuale, chi
ci voleva bene era in un certo modo dalla nostra parte. Finché
Andrea nella mente delle mie amiche era lo stallone giovane che mi
scopava in gran segreto, erano loro le mie più accanite sostenitrici,
curiose, affamate di dettagli piccanti e preziose complici delle mie
bugie, quando ancora ero sposata e mi servivano alibi per passare
notti e weekend fuori.
Tutto cambiò dopo la separazione. Cominciarono a guardarmi
come una pazza irresponsabile.
«Ma come fai con i tuoi figli, non ti senti a disagio con loro? Quel
ragazzo è più vicino all’età di tuo figlio che alla tua. Come farete in
futuro? Non hai paura che ti lasci per una più giovane?».
«No, per niente», rispondevo. «Perché dovrei? Io adoro i miei figli
e loro adorano me. La storia con Andrea è un’altra cosa: lui non
c’entra con loro né loro con lui».
Talvolta sdrammatizzavo, usando una battuta un po’ sconcia tipo
che con quel ragazzo non stavo cercando il bastone per la mia
vecchiaia ma solo il bastone che sapesse scoparmi fino a farmi
dimenticare come mi chiamavo.
Altre volte rispondevo sincera. Dicevo loro che non mi chiedevo
cosa sarebbe successo in futuro e che comunque quel che sarebbe
accaduto non era importante: m’importava solo prendermi la felicità
tutta intera, tutta in un boccone e non a piccoli morsi, come avevo
fatto da un anno e passa. Che importava solo quello: prendermi quel
dono inaspettato che la vita mi aveva fatto, godermelo finché durava,
perché ogni dono ti può essere strappato via all’improvviso, senza
avvisaglie o indizi.
Le mie amiche mi ascoltavano, facevano sì con la testa, dicevano
che capivano ma qualche giorno dopo tornavano a farmi le stesse
domande, cambiando magari il modo di dirle, le parole, ma il succo
era il medesimo, e dandomi così prova che no, non avevano capito
un cazzo.
Forse la stessa cosa accadeva ad Andrea e ai suoi amici. Forse
fin quando ero la milf infoiata che il loro amico si sbatteva erano
contenti per lui, magari lo invidiavano. Chissà le gomitate, le pacche
sulle spalle e i sorrisetti complici. Forse adesso non lo erano più.
Probabilmente ero diventata quella che gli stava frenando e gli
avrebbe frenato la vita, quella che non poteva vivere stabilmente con
lui perché di vita, di casa, aveva già la sua, quella che non avrebbe
potuto offrirgli un progetto, un futuro, dei figli. Quella che forse lo
stava solo usando.
E io, non è una contraddizione, lo amavo così tanto che ero
d'accordo con loro. Era un dato di fatto: stando con me Andrea
rinunciava a tanto... Costruire una casa, fare con la sua donna un
viaggio di un mese, progettare un legame, avere un bambino. Tante
prime emozioni che io avevo già vissuto e che non avrei potuto,
anche volendo, dare a lui. Mi commuovevo all'idea che anche lui un
giorno potesse viverle, respirarle per davvero e forse sì, forse lo
frenavo e lo tenevo sospeso nella bolla di noi.
Ma oltre la bolla di noi c'era il mondo e le sue leggi. E più
andavamo nel mondo, più pensavo che forse a quelle stavolta, per la
prima volta, non sarei sfuggita.
Mancavano pochi giorni a Natale, il secondo Natale da quando
stavamo insieme, ed eravamo a Trento, passeggiando mano nella
mano ai mercatini di Natale. Eravamo arrivati da poco e prima di
andare in hotel volevamo prendere dei dolci per la notte, gran parte
della quale, come al solito, l’avremmo passata svegli a scopare.
Era stata una sua idea. La sorpresa, quella vacanza, quei pochi
giorni insieme, il nostro “Natale anticipato”, come lo chiamava lui.
Eravamo fra le casette di legno di piazza Fiera, quando per l’enne-
sima volta gli feci una battuta stupida sulla necessità che si
riprendesse in mano la vita, che si cercasse una ragazza giovane.
Andrea si rabbuiò. «Andiamo in albergo» mi disse.
«E i dolci?»
«Vorrà dire che dormiremo stanotte, così non ci verrà fame» fece
lui secco.
Andammo. Dopo il check-in, al piano, davanti la porta della
camera, dovevo avere un’espressione triste. Insolitamente triste,
perché Andrea mi prese il viso fra le mani, sussurrandomi che
andava tutto bene, che eravamo forti e che tutto quello che il mondo
poteva dire di noi erano cazzate, che eravamo bellissimi e che
dovevo fottermene del resto. Che non voleva nessuna donna
giovane, che l’unica donna che voleva era la sua. E che ero io. Lo
abbracciai, rispondendo «Lo so».
In realtà non lo sapevo, non ne ero più così sicura come all’inizio.
Sì, ero ancora una bella donna, brillante, attraente, ma per quanto lo
sarei rimasta? Tutti quegli sguardi severi, le battutine che
immaginavo, col tempo sarebbero aumentati. Era inevitabile. Il
ridicolo sarebbe rimasto negli occhi di chi guardava? O me lo sarei
sentito addosso, come a volte accadeva quando le mie paure
facevano capolino nella mia mente? E come sarebbe stato scoprirlo
nei suoi occhi quando si sarebbe innamorato di una fresca
ventenne?
«Entriamo», lo incitai spingendo il mio bacino contro il suo.
Andrea sorrise e mi disse di aspettare. Poi mi avvolse attorno agli
occhi il foulard che avevo al collo e mi bendò. Entrammo. In una
stanza che per me era totalmente oscura. Lui cominciò a spogliarmi.
Mi svestiva lentamente, con una calma esasperante, in silenzio.
Accarezzando e sfiorando con un bacio ogni lembo di pelle che
scopriva. I suoi gesti erano di una dolcezza infinita, salvo divenire
imperiosi per farmi stare ferma, per bloccare le risposte che
inevitabilmente le mie mani, la mia bocca e tutto il mio corpo
volevano dare alle sue carezze, a quel lento denudarmi.
Finì di spogliarmi e si allontanò da me. Rimasi nuda, in piedi, gli
occhi bendati, la bocca dischiusa. Lo sentivo nell’aria: avvertivo i
suoi movimenti, annusavo il suo odore e tutta la mia pelle, nuda ed
esposta, percepiva la sua, il calore del suo corpo. Andrea avvicinò la
bocca alla mia. Non appena mi giunse il suo fiato, cominciai a
respirarlo forte, affannata, come ossigeno dopo una lunga apnea.
Con la lingua mi percorreva le labbra, la faceva guizzare per brevi
attimi dentro la bocca a stuzzicare la mia, a solleticare il palato, i
denti. Poi tornava alle labbra. Boccheggiavo, cercando di baciarlo. E
tremavo: lui non mi toccava e io impazzivo.
I capezzoli turgidi, i brividi che mi percorrevano, il bisogno quasi
insostenibile di aprire le gambe, lo stupore per quanta pressione
potessero contenere le mie vene.
«Ti desidero da morire», mormorai.
La sua bocca andò al mio orecchio e mi corresse, come tante
volte avevo fatto io con lui.
«Da vivere, mi desideri da vivere», sussurrò.
Era vero. “Ti desidero da morire” è fuorviante. Ci si desidera da
vivere. Desiderare è vita: è a non ascoltare il desiderio che ci si
ammala e ci si spegne.
Non ce la feci più. Tolsi il foulard dagli occhi e fui investita da
un’ondata di bianco. La camera era interamente bianca: muri,
pavimento, mobili, oggetti, infissi, biancheria.
Ero immersa in una nuvola candida. Andrea mi guardava, con gli
occhi annacquati dal desiderio. Respirai forte e mi imposi di vincere
la tentazione di strusciarmi a lui, di prendergli la mano e portarmela
tra le cosce, di ansimargli parole sconce e crude, come la verità,
come la passione che mi divorava.
Cominciai piano a spogliarlo, resistendo all’im-pulso di
accarezzarlo, di baciarlo, annusarlo. Era difficile sentire sotto le dita
la sua pelle nuda e non far scorrere i polpastrelli sopra, a percepirne
le vene e il calore.
Eravamo entrambi nudi adesso. Vicini senza toccarci. Salii sul
letto e gli tesi la mano.
«Vieni sulla nuvola», gli dissi.
Lui mi prese la mano e lentamente si fece addosso a me. Ci
abbracciammo, distendendoci, facendo ade-rire interamente i nostri
corpi nudi e cominciammo a rotolare sul letto.
Rotolavamo lentamente, tenendoci il viso fra le mani e
guardandoci negli occhi. Rotolavamo, scam-biandoci la posizione
sotto/sopra, fluidamente, come fossimo davvero sospesi in una
nuvola bianca. Poi la stessa immobilità di animali sorpresi da una
luce improvvisa, lo stesso guizzo di urgenza negli occhi, quel
riconoscersi carnale di noi e il tuffo in una passione non più
trattenuta o frenata, con l’ansia innescata nelle mani e nelle lingue.
Gli montai su, mi accovacciai su di lui rimanendo un poco sospesa
e, guardandolo negli occhi, mi leccai il palmo della mano. Gli presi
l’uccello in mano, duro, caldo, palpitante, e lo accarezzai con un
movimento va e vieni che gli strappò un gemito roco. Poi, tenendogli
stretta la base del cazzo, puntai la cappella verso la mia fica e scesi
giù lentamente.
Ero persa, completamente smarrita nei suoi occhi scuri che
splendevano dentro il bianco e in quel caz-zo che m’affondava piano
e sembrava non finire mai. Presi ad andare su e giù, puntandogli le
mani sul torace e sospirando “Sì” a ogni discesa. Andrea gemeva e
soffiava. Quando decise di averne abbastanza di quella tortura, mi
mise le mani sotto le natiche, stringendole e strizzandole, e cominciò
a muovermi lui, sbattendomi e facendomi impalare sul cazzo. Era la
mossa che volevo. Il mio ragazzo aveva ormai un sincronismo
perfetto con le mie voglie: in quel momento non chiedevo altro che
assecondarlo e farmi sbattere in quel modo, nella nuvola bianca. Gli
misi le mani sulla testa e gliela feci inclinare un poco in avanti,
perché vedesse meglio lo spettacolo squisitamente osceno del
nostro fottere.
Quanto lo amavo. E quanto mi sentivo “destinata” ad amarlo,
consapevole della mia ignoranza d’amore, di aver cominciato ad
amarlo senza saperlo fare. O forse avevo cominciato ad amarlo
nell’unico modo possibile: senza sapere amare. Perché le bufere
esplodono all’improvviso.
Stavo ancora godendo quando il pulsare del-l’uccello e il
movimento più lento e assestato con cui aveva preso a sbattermi mi
avvertirono che anche lui stava per venire.
Mi tirò giù per baciarmi la bocca, per scambiarci saliva e ansiti. Fu
allora che cominciai a squirtare, con lui che mi pompava e sborrava
dentro. Era uno squirt inedito: avevo sempre squirtato con i suoi
colpetti di mano e questa nuova sensazione, di sciogliermi mentre a
ogni affondo mi si farciva la fica, era divina. Stavo bagnando
dappertutto quando un lampo di pensiero lucido mi bloccò.
«Non possiamo qui sul letto», balbettai.
Andrea balzò giù, mi prese per mano e mi trascinò in bagno
baciandomi e ripetendomi che noi potevamo tutto.
Si inginocchiò sul pavimento fra le mie gambe aperte, il viso
all’altezza della fica e cominciò a colpirmi con la mano. E il succo di
mandorla riprese ad uscire, arrivando alla sua bocca che lo beveva,
schizzandogli la barba, gli occhi, il viso. Tremavo. Mi reggevo con le
mani al lavandino; se non l’avessi fatto sarei crollata sul pavimento.
Ero in paradiso ma ero lì con lui, stretta a lui, dentro lui. Come lui
era fuori e dentro me. Nessuno sdoppiamento, nessuna
frammentazione o scissione: eravamo perfetti. Era tutto perfetto, era
sconcezza e infinito insieme.
Qualche ora dopo, freschi di doccia e avvolti in accappatoi candidi,
restammo distesi e abbracciati sul letto. Io sopra di lui e il mondo
fuori dalla porta, lontano come lontani da noi erano gli sguardi degli
altri, i nostri anni di differenza.
Capitolo 32 - Favole

Aprii gli occhi. La finestra appena appannata di vapore, le


persiane spalancate. Fuori era tutto candido. Avevamo dormito nella
casa di montagna dei suoi, su un lettone di legno vecchio. Ero nuda
sotto al piumone azzurro, il corpo spossato, i capelli arruffati, calda
di sonno e di lui. Andrea doveva essersi appena alzato perché lo
spazio accanto a me era ancora tiepido.
Stavo per scendere dal letto quando lo sentii trafficare in cucina e
mi fermai, gustandomi i rumori di lui e l’odore di caffè che si
diffondeva. Passai la mano sulla parte di lenzuolo dove aveva
dormito. Perché avevo deciso di incontrarlo un anno e mezzo prima?
“Lo sai il perché: ha saputo sorprenderti”, mi dissi. Mi aveva
sorpreso e non aveva più smesso.
Scesi scalza tirandomi sulle spalle la trapunta e tolsi la panna dai
vetri. Doveva aver nevicato tutta la notte. La faccia della montagna
verso di noi brillava, colpita dalla luce radente. Intorno alla casa, il
paesaggio della sera precedente era scomparso. Si distinguevano
soltanto le sagome coperte di neve croccante. Della staccionata,
della vasca, degli alberi che a destra poco a poco si infittivano fino a
diventare bosco.
Andrea aprì la porta reggendo un vassoio con la colazione. Era
bellissimo in jeans e maglione blu.
«Stai bene amore? Hai freddo? Aumento la stufa?»
Sapeva che posti come quello mi erano ancora poco familiari: io
prima di lui la montagna non la apprezzavo affatto né avevo mai
avuto curiosità di conoscerla. Mi aveva insegnato Andrea a capirla e
un poco anche ad amarla. Talvolta a temerla, quando partiva per le
sue escursioni, le sue arrampicate, le sue sfide.
Insomma, io e la montagna non eravamo più estranee ma
neppure del tutto amiche. Lui lo sapeva, e durante quella vacanza
non aveva mai smesso di chiedermi se tutto andasse bene, se mi
trovassi a mio agio.
«Sto benissimo, amore… E non ho freddo! Però mi serve subito
un bacio».
Posò sul comodino il vassoio, mi venne accanto, mi passò un
braccio sulle spalle, mi accompagnò a sedere e mi accarezzò i
capelli. Si prendeva cura di me come una bambina piccola. Era
pazzesco che glielo lasciassi fare. Più sbalorditivo ancora, quanto mi
piacesse quando lo faceva.
«A dire la verità mi è parso di scorgere un lupo là tra gli alberi», gli
dissi bevendo il caffè. «Però dopo colazione facciamo una
passeggiata: non puoi vivere una favola se ti manca il coraggio di
andare nel bosco»
«La mia cappuccetto rosso…» fece lui.
«Forse la nonna di cappuccetto!» lo corressi ridendo.
Posai la tazza sul comodino, sgusciai dal piumone e gli saltai
addosso.
«Se fossi stata Cappuccetto rosso, al lupo, dopo i suoi “Per
guardarti meglio” e “Per sentirti meglio”, mica gli avrei chiesto della
bocca grande: gli avrei chiesto del cazzo!»
«E se fossi stata Biancaneve come sarebbe andata?» domandò
facendo la voce da lupo.
«Da Biancaneve avrei rotto il contratto con i Grimm. Gli avrei
detto: “Cercatevene un’altra: avevo accettato solo perché credevo
che con i nani uscisse una scena porno!”».
«Ah, Biancaneve aveva la fantasia della gang?» mi domandò
scherzando.
«Biancaneve non lo so. Io sì però» risposi allusiva.
Lo sapeva. Con lui non avevo mantenuto freni o ipocrisie. Che mi
fosse capitato di stare insieme a due uomini gliel’avevo raccontato.
E che ora mi sarebbe piaciuto provare con almeno tre, quella che nel
gergo del porno si chiama gang bang, glie-l’avevo detto più volte. Mi
sarebbe piaciuto, a patto che uno degli uomini fosse lui.
«Tu che ne dici? Lo facciamo?».
Andrea glissò. «E se fossi stata la piccola fiammiferaia?»
«Mi sarei messa a fare marchette invece di vendere fiammiferi e
poi morire di freddo… Allora? Che ne dici?»
«E se fossi stata la sirenetta?»
«Avrei messo in chiaro che le gambe le volevo solo per poterle
aprire… Lo facciamo?», tornai a chiedergli, strofinandomi nuda
contro di lui come una gatta che fa le fusa.
«Non lo so, Anna. Non so se ce la farei. Ma se è una tua fantasia
non voglio nemmeno limitarti. Facciamolo, ma io vi guardo e basta».
«No.» Dissi io.
Poi, a lungo tentai di spiegargli che non aveva senso, che la mia
fantasia non era farlo con più uomini e via. Con due uomini avevo
già scopato e non mi interessava più. Non erano la stimolazione
nervosa o la meccanica del sesso in una situazione del genere ad
attrarmi. Non la posizione, il numero di cazzi o le dimensioni, per
capirci. O almeno, non solo. Ero attratta dall’emozione che avrei
provato se lui fosse stato con me, se mi avesse vista, respirata e
avuta pure a quel modo, strappandomi di dosso l’ultimo strato di
intimità. Fui sincera: c’entravano anche la mia smania di libertà, il
vizio di portare le situazioni al limite, condurre il gioco fino al punto di
non ritorno, con i sensi che prendono il sopravvento sulla ragione e
sulla morale annientandole totalmente. Ma senza di lui, quella
fantasia estrema perdeva per me ogni richiamo.
Andrea mi lasciò parlare, poi tornò a deviare il discorso.
«Se fossi stata la bella addormentata?».
«Avrei preteso che il mondo sapesse che non dormivo per via di
un incantesimo, ma perché sfinita da una notte sfrenata di gang
bang».
«Temo di non farcela amore, scusa», ripeté.
«Se non ce la fai smettiamo e ce ne andiamo, mica ci obbliga
nessuno…» suggerii suadente.
«Non lo so, davvero…»
«Oppure ti bacio e ce la fai», aggiunsi.
Andrea scosse la testa con aria interrogativa.
«Ah… non lo sai? Il ranocchio viene baciato dalla principessa per
essere trasformato in porcello, mica in un principe!» gli feci.
Scoppiammo a ridere, rotolandoci sul letto. Si bloccò sopra di me,
il viso vicinissimo al mio. Restammo immobili a lungo. Poi con le dita
cominciò ad accarezzarmi le labbra, sempre più energicamente, me
le ficcò in bocca, una alla volta, facendomele succhiare, e le portò
giù fra le cosce a frugarmi. Ne infilò dentro due senza fatica.
«Raccontami una favola», mi chiese.
«Era quasi estate. E un giorno ti incontrai» risposi.
Mi guardò. Serio e consapevole.
«Va bene, facciamolo», disse.
Capitolo 33 - In volo

C’è Andrea. E ci sono altri quattro uomini. Uno di loro è Dario,


l’amante più intraprendente conosciuto sul sito, quello che mi ha
fatto conoscere Pat. L‘ho chiamato due settimane fa, spiegato quel
che volevo e lui ha organizzato. Siamo nella sua villa al lago. È un
venerdì, di pomeriggio. Ha invitato tre suoi amici, o conoscenti, non
so. Attraenti, giovani, meno di quarant’anni, appassionati del
“genere”.
Siamo arrivati da qualche ora. Abbiamo bevuto e chiacchierato.
L’atmosfera è elettrica: sappiamo tutti che cosa succederà di qui a
poco. Andrea mi sorride continuamente, quel sorriso sornione che
ormai ha sempre quando sa di leggere le porcate che mi passano
nella mente. Adoro che mi conosca così tanto. E adoro vederlo
disinvolto, sicuro, eccitato anche in questa situazione. La sua
eccitazione amplifica la mia.
Due uomini sono seduti sul divano. Un altro, il più giovane, forse il
più timido, sta sbirciando la grande libreria vicino al camino.
Io, Andrea e Dario siamo vicino alla finestra a chiacchierare, o
meglio, chiacchierano loro due, disinvolti come se si conoscessero
da sempre.
Poi Andrea mi toglie il bicchiere di whisky dalle mani e mi bacia
con passione, mettendomi una mano sul culo. Un bacio profondo, di
quelli che non ci si scambia in pubblico. La carezza sul culo si fa
sempre più energica, mi stropiccia la gonna fino a sollevarla e
scoprimelo, infila la mano sotto le mutandine a palpare la pelle
nuda. Gli uomini sul divano si sono zittiti. Io gemo senza vergogna.
Andrea si stacca.
«Spogliati», mi ordina.
Faccio qualche passo indietro e piano, lentamente inizio a
svestirmi. È indescrivibile il piacere che provo mentre lo faccio. Ho
indossato apposta un sacco di roba: gonna, corpetto, sottoveste,
camicia, giacchino, perché fosse impossibile “scartarmi” in pochi
gesti. Voglio farlo durare il più a lungo possibile.
Mi denudo lentamente, facendo scivolare un indumento dopo
l’altro, come se suonassi uno strumento, facendo affiorare la musica
che ho in testa in ogni lembo di pelle che scopro, nel “profumo di
troia” che si fa sempre più intenso.
Tutti mi guardano. Anche io li guardo, negli occhi, consapevole e
sfrontata. Andrea mi sorride, eccitato e complice. Anche Dario e gli
altri sono eccitati: sento il desiderio nel loro sguardo, un desiderio
che attraversa l’aria e che mi tocca. Vorrei sfiorare quel desiderio,
quell’energia, vorrei accarezzarla, succhiarla. Mi sento unica,
burattinaia delle mie emozioni e delle loro.
Rimango nuda con solo le scarpe. Nuda sui miei tacchi. Chiudo gli
occhi. Non mi servono. Sento gli uomini che si avvicinano a me, i
rumori di passi, di gesti, di vestiti. Alla fine non ascolto nemmeno più.
Sono cieca e sorda. Annuso. Sento i profumi.
Poi percepisco il tocco.
Sembra uno solo, singolo eppure evidentemente diviso. Sono
molte mani. Mani morbide e leggere, mani forti e rugose, mani
distratte, mani invadenti. Una mi sfiora la spalla, ha un tratto lieve, i
polpastrelli morbidi... Fra le tante che mi stanno toccando riconosco
la gemella: mi sta accarezzando la guancia, mi giro appena per
sentirne l’odore. Quella che mi stringe il fianco ha dita forti, che
premono. Mi concentro per riconoscerne la compagna, la sento, la
trovo: mi sta stringendo la caviglia. Dev’esserci un uomo
accovacciato ai miei piedi. Dalla posizione delle mani intuisco che
forse ha il viso, gli occhi, all’altezza della fica. Ho un fremito.
Mani si muovono sul seno. Annuso ancora. È Andrea? No, l’uomo
ora ha allargato il palmo a mas-saggiarmi il bassoventre. Ha la mano
più piccola e ruvida della sua. Altre mani sui fianchi, qualcuno mi
allarga le gambe e una lingua comincia a leccarmi il culo. Non riesco
più a individuare quali siano le coppie di mani e rovescio la testa
all’in-dietro. Un dito si infila nella mia bocca. Lo succhio.
Poi finalmente sento e riconosco le sue. Mi stanno massaggiando
il collo, come gli ho insegnato a fare quando gli ciuccio il cazzo.
Tendo le braccia e trovo il suo torace nudo. Muovo un po’ la testa e il
dito sconosciuto mi lascia la bocca. Stringo Andrea per le spalle e lo
tiro a me. Qualcuno si muove davanti alle mie gambe, si sposta,
sguscia via. Posso avvicinarmi a lui. Gli cerco la bocca e lo bacio.
Solo allora apro gli occhi. Quanto è bello. Non smetterò mai di
desiderarlo, di amarlo. Questa è l’unica vera certezza che ho nella
vita, e mi fa paura. Non ho paura di dimenticarlo: mi angoscia l’idea
di desiderarlo così, per sempre, anche quando lui si stancherà di me
e se ne andrà. Forse per lui è lo stesso. Se dovessi venirgli a
mancare ne morirebbe: me lo ha detto più volte.
Gli altri uomini mi stanno toccando e vedendo nuda, ma mai come
mi sta toccando e vedendo nuda lui, spogliata di ogni strato.
«Sei bellissima», mi dice con voce roca.
Sto per abbracciarlo, ma arrivano le lingue. Dario mi gira il viso
verso sé, mi bacia sulla bocca e io ricambio il suo bacio, nel modo
che ricordo piacergli, succhiando la lingua mentre gli passo una
mano fra i capelli. L’uomo più giovane sta baciando e mor-
dicchiandomi i capezzoli. Un’altra lingua mi percorre il collo. Piego la
testa a cercarla e assaporo pure lei, bacio l’uomo sconosciuto.
Gemo. Annuso. Lecco.
Poi a occhi chiusi mi abbasso in avanti verso Andrea, lo sbottono,
tiro fuori il cazzo e lo succhio. L’uomo dietro ne approfitta per
leccarmi culo e fica insieme. Mi faccio scivolare il cazzo di Andrea
fino in fondo alla gola. Sbatte, mi soffoca, lacrimo. Poi mani sulla
testa accompagnano il movimento della pompa, ma non sono le
mani di Andrea. Mi invitano a un ritmo diverso dal suo. Mi piace.
Altre mani si impadroniscono delle mie, le stringono
accompagnandole ciascuna verso un cazzo duro. Bei cazzi, grossi,
turgidi.
Sono piegata a novanta, sto succhiando Andrea, ho le braccia
aperte come in volo a menare due cazzi mentre l’uomo dietro mi
tiene aperte le natiche e mi affonda la lingua nella fica. Ho mani
dappertutto, sulla testa, sul seno, sul culo, non riesco più a contarle.
Sono sospesa. Sento il mio corpo fluttuare nel piacere, in balia di
qualcosa che non posso controllare. Alzo gli occhi e cerco lo
sguardo di Andrea. È un attimo ma capisco subito: non è più con
me, sono da sola sulla giostra, il suo cazzo è duro, è tremendamente
eccitato ma lui non è più con me.
Il tipo dietro smette di leccarmi e comincia a schiaffeggiarmi il culo
con l’uccello, me lo strofina sulle natiche. Percepisco che ha già
indossato il profilattico, fra poco mi sarà dentro. Andrea si abbassa e
mi parla all’orecchio.
«Non ce la faccio. Andiamocene», mi dice.
Smetto di succhiare e lo guardo. “Se ti dimenticassi non mi
spaventerebbe, è desiderarti per sempre, anche quando non mi
vorrai più, che mi atterrisce”, questo penso.
Con tutte quelle mani addosso penso alle mie che stanno
stringendo due uccelli. A tutte le volte che le ho guardate, belle,
curate, con le unghie rosse. Mani che nonostante tutte le cure del
mondo rivelano inequivocabilmente la mia età.
E allora decido. Dovrà dimenticarmi lui. Dovrò fare in modo che mi
dimentichi e smetta di volermi, adesso. Adesso che sono ancora
bella e desiderabile. Adesso che sono invincibile. Se smette di
volermi mi dimenticherà. Forse, almeno per lui, sarà indolore.
Questo è l’ultimo regalo che gli faccio. Il mio ultimo regalo.
«Andiamocene», mi ripete Andrea a voce alta, in modo che
sentano tutti.
Gli uomini si fermano, ma lasciano mani e lingue dove stanno.
Siamo un fermo immagine di un film porno. Sono io ad azionare il
play: con la mano avvicino uno dei cazzi che stringo alla bocca,
comincio a succhiare e chiudo gli occhi, mentre il tipo dietro mi
affonda nella fica.
Sento Andrea che si allontana, il rumore della zip che si alza, di
vestiti ricomposti, di passi, di una porta che si apre e si chiude. Solo
quando sento il rumore della sua macchina andare via la mia anima
va ad accovacciarsi sul lampadario e rimane lì, a guardarsi lo
spettacolo.
Capitolo 34 - Nuda

Mi mancava come l’aria, come se non l’avessi mai avuto. Come se


fosse stato mio da sempre e l’avessero strappato da me
tenendomelo accanto. Uno strappo peggiore della morte, che non
sapevo come ricucire.
Da quel venerdì non c’eravamo più visti. Non mi aveva cercata né
l’avevo cercato io. Avevo bloccato il suo numero sul telefono, un po’
per non essere tentata di chiamarlo, un po’ per evitare la frustrazione
che la certezza di non essere chiamata mi avrebbe dato.
Lavoravo come una matta, dimagrivo, mi consumavo. Non
dormivo, e se dormivo lo sognavo. Sognavo quell’anno e mezzo con
lui, quando la vita era un turbinio di musica e colori e io ridevo
sempre. Chissà se era stato Andrea a scendere un poco dal suo
tempo oppure ero stata io a sospendere il mio, ma in quell’anno e
mezzo e più, per tutto quel tempo – né suo né mio – ci eravamo
appartenuti.
C’erano momenti in cui pensavo che fosse giusto. Mi dicevo che
tanto prima o poi sarebbe successo. Almeno, così lo avevo deciso
io, ero stata io ad aver fatto in modo che accadesse. Era già capitato
che la nostra differenza di età mi avesse fatta scoprire insicura. Col
tempo sarei sembrata pure patetica, trasformandomi in quel che non
ero mai stata, una donnetta dubbiosa e gelosa, una rompicoglioni, e
lui si sarebbe stancato. Oppure, più semplicemente, d’improvviso
avrebbe conosciuto una più giovane e col culetto più sodo.
Più spesso mi disperavo: mi dicevo che mi ero arresa, che ero
stata codarda. Avevo fatto vincere quelli che ci guardavano diffidenti
e severi, la fetta di mondo che balbetta riunita in gregge.
Oppure gli davo la colpa. Che pensava di fare quel ragazzo? Di
venire a insegnarmi le cose della vita? Era solo l’ennesimo
sconosciuto cui piaceva la mia sessualità disinibita. Alla fine voleva
controllarmi anche lui, e non era riuscito ad amarmi nuda, con tutta
la mia smania di libertà. Era come tutti gli altri, solo un po’ più
giovane.
Eppure no, ci ripensavo. Nudo e senza difese si era mostrato lui
per primo, e mi aveva regalato il coraggio di amare, di amare di più,
di amare meglio. Il coraggio di appartenergli senza perdere me
stessa. Come aveva saputo amarmi lui, amarmi e appartenermi
senza perdere se stesso.
Così tornavo a disperarmi, in un loop invincibile. Era un dolore
lacerante e sleale, sembrava si divertisse a nascondersi, mi
ingannava per tornare d’im-provviso a saltarmi addosso e azzannare
meglio.
Avevo riacceso il telefono “dedicato” e ripreso a vedere altri
uomini, amanti che già conoscevo: non avevo voglia di “casting” o
volti sconosciuti. Sceglievo fra i pochi con cui avevo stabilito una
qualche sintonia, qualcosa che somigliasse vagamente a
un’amicizia. Li vedevo, ci scopavo e tornavo a casa senza averne
memoria. Godevo, sì, ma con l’anima seduta sopra l’armadio a
guardare.
Il corpo non è fatto di sapone: non si consuma a furia di usarlo, e
più lo usavo più rimaneva intatto, senza segni sulla pelle, né sogni in
testa. Quelli me li aveva lasciati solo lui e io, maledetto il cielo, li
portavo con me. Portavo con me la consapevolezza che non sarei
più tornata a com’ero prima di lui, prima di quella passione che mi
aveva cambiata, inesorabilmente e inevitabilmente. Nessuna
spiaggia resta uguale dopo un uragano.
Ero seduta al Diana Sheraton con Roberto, l’architetto romano,
stavamo prendendo un aperitivo in giardino. Vedere gente da
scopare era una medicina inutile, lo sapevo, e il poco sollievo che
riusciva a darmi scompariva subito, sempre prima ogni volta. Vedevo
Andrea dappertutto, anche dove ero certa che sarebbe stato
impossibile incontrarlo. Di proposito, i luoghi che solitamente
frequentavamo insieme cercavo di evitarli. Ma era una gran fatica.
Milano era zeppa di angoli, strade, locali, alberghi che mi parlavano
di noi. La mia Milano era piena di mine emotive…
Quando lo vidi mi salì il sangue in gola. Era lì, nello stesso posto
mio. Non ero pronta e non avevo previsto che potesse accadere.
Non lì, almeno. Non era un locale che frequentava prima di me, non
era il suo genere. Che cazzo ci faceva seduto al divanetto vicino al
glicine?
Gli innamorati scambiano il caso per il destino, vedono
congiunzioni astrali dove scherzano le coin-cidenze. Voi credete al
destino? Io no. O almeno, non fino a quel momento.
Andrea stava seduto al divanetto vicino al glicine, bellissimo, la
barba e i capelli più lunghi del solito, la maglia grigia che gli avevo
regalato, e io ero una bambina alla prima cotta di scuola, paonazza
nel cuore, sudata fredda, inadeguata e accartocciata sull’imbarazzo,
perché accanto al ragazzino del mio cuore c’era una bruna sui
vent’anni, bellissima ed elegante, che lo guardava con occhi
adoranti…
Era accaduto. Era andato oltre, mi aveva dimenticata, aveva
smesso di volermi. Che cosa credevo? Che non ci sarebbe stata
nessuna dopo di me? Non ne avevo forse fatto un amante attento e
generoso, uno che le donne mi invidiavano? Chissà se la bruna
squirtava, magari glielo aveva insegnato lui. L’ave-va già legata? Le
aveva già fatto provare giochini e brividi? E dove? A “casanostra”?
Nell’appartamento che, lo sapevo, non aveva mai disdetto?
«Tutto ok?» mi chiese Roberto.
«Sì, certo», risposi distogliendo lo sguardo da Andrea. Spostai un
po’ la sedia indietro, puerilmente, come se la fontana di pietra
potesse nascondermi.
Roberto mi stava raccontando della sua separazione. Assunsi
un’espressione comprensiva e interessata ma staccai l’audio.
Guardavo il mio accompagnatore tenendo negli occhi il fermo
immagine di Andrea e della donna. Erano una bella coppia, dovevo
essere contenta per lui. Non glielo avevo sempre augurato? Quante
volte gli avevo detto di prendersi una ragazza?
Ogni tanto buttavo l’occhio oltre la fontana, per guardarli ancora.
Erano bellissimi, insieme. Chissà di che parlavano. Di quello che
avrebbero fatto la prossima estate? L’aria di maggio e il giardino del
Diana facevano venire voglia di vacanza. E lei era una ragazza,
libera, senza figli. Certo che potevano progettare vacanze. Magari
con gli amici di lui e le rispettive compagne. Giovani fra giovani. E
nessuno si sarebbe sentito fuori posto.
Maggio. Fra poco sarebbero stati due anni di noi. E lui? Si
sarebbe ricordato? Ci pensava? Non resistetti. Mi sporsi in avanti e
lo sorpresi a guardarmi. Mi fissava immobile, serio e indecifrabile. Gli
feci un cenno di saluto con la mano e distolsi lo sguardo, come se
non mi importasse, come se mi fosse indifferente.
Avvicinai la sedia e presi a flirtare con Roberto toccandogli le mani
frivola. Volevo che Andrea mi fissasse nella memoria in quel modo,
felice e puttana.
La giovane donna gli parlava gesticolando. Li spiavo nel riflesso
della vetrata. Speravo che lui mi vedesse solo lì, in quello specchio,
e pensasse che ero ancora bella, confidando nel fatto che ogni cosa
sembra migliore se la si guarda da lontano.
Mentre civettavo con Roberto mi venne in mente la prima volta
che avevo portato Andrea al Diana. Lo avevo trascinato in bagno per
fargli una pompa. Sorrisi. Quante ne avevamo combinate. Chissà se
pure lui le ricordava, o ero solo io a ricordarle tutte: all’intensità non
ci si abitua, né te la dimentichi. E sì, forse oggi ci stavamo trovando
nello stesso posto fortuitamente e non c’entrava per nulla il destino,
ma di una cosa ero certa, in modo chiaro e definitivo: non ci
eravamo conosciuti per caso. Quel giorno di giugno di due anni
prima la vita aveva voluto dirmi che mi voleva bene.
Andrea non smetteva di fissarmi e io non smettevo di flirtare con
l’architetto mentre pensavo a lui, a noi due quando stavamo insieme.
Se ogni corpo ha il suo codice nascosto, visibile solo a una certa
luce da determinate mani, allora io di certo conoscevo il codice di
Andrea. E lui il mio. Ce li eravamo scambiati? E quando? Oppure i
nostri codici, a furia di farci tanto l’amore, avevano finito per
assomigliarsi fino a diventare uno solo. Magari era accaduto subito,
la prima volta: al primo sorriso il mondo aveva cambiato il suo asse,
e lui era diventato tutto quello che volevo, e io da quel che ero –
professionista, amante distratta, madre, padrona di casa – ero
diventata voglia pura di lui, di lui soltanto. Quanto era bello in quel
riflesso e quanto gli appartenevo, ancora di più adesso che non era
più mio.
Poi non ce la feci oltre.
«Devo andare», dissi a Roberto raccogliendo la borsa e il
soprabito.
«Ma cosa? Aspetta, ti accompagno…».
«No. Prendo un taxi. Scusami». Lo baciai sulla guancia e corsi
fuori.
Milano mi sembrò matrigna e grigia nonostante il sole di
primavera. Camminavo rapida verso la fermata dei taxi di Porta
Venezia quando sentii chiamarmi.
«Anna! Anna, aspetta…»
Andrea mi era corso dietro. Mi bloccai. Ebbi il terrore che la sua
voce affannata nascondesse solo un gesto di cortesia, un congedo,
la confessione di una felicità nuova. Mi chiesi che cosa potesse aver
raccontato di me a quella ragazza e ripresi a camminare. Le aveva
detto che voleva solo salutarmi, tranquillizzarmi? E lei, lei era ancora
lì ad aspettarlo? Mi avrebbero compatito insieme?
Sentii Andrea accelerare. Quasi correva.
«Se ti facessi una proposta indecente?» gridò. Mi fermai di nuovo.
La domanda mi esplose nel cuore, nella memoria e nel cervello.
Respirai forte. Chiusi gli occhi perché mi girava tutto. Non capivo,
avevo voglia di scoppiare a pian-gere, e lacrime abbastanza da
andare avanti un mese. Lo aspettai, ferma, senza girare la testa.
“Stai arrivando, vero?”, pensavo. Ma non sentivo più i suoi passi. “E
se mi volto e non c’è?”. “Che cazzo vuole chiedermi? Di scopare in
tre con quella? Di far godere anche lei? O vuole guardare me mentre
le lecco il buco del culo?”
Non so quanto stetti lì ferma. E non sapevo che altro pensare, non
mi riconoscevo. Io coraggiosa, io adulta, io padrona di me stessa, io
paralizzata. Stavo morendo o risorgendo? E che cosa davvero
volevo? Sognare o ricordare? Perché ormai lo sapevo che amare a
quel modo era, insieme, condanna e liberazione. No, Andrea mio, è
finita, niente ritorna uguale, non sarebbe mai la stessa cosa e io
voglio ricordare com’era, non vederla finire un’altra volta. E mi
chiedevo: “Che vuoi? Ci sei? Che mi dirai? Che cazzo ti rispondo?”
Andrea mi appoggiò una mano sulla spalla, leggera, come se
sapesse quanto fragile fossi in quel momento. Poi si avvicinò piano
con la bocca ai miei capelli e tra i capelli disse cinque parole. Cinque
parole soltanto.
«Ti prego, torna con me».
La sua voce giovane attraversò il mio sconforto, il mio desiderio, la
mia ansia di libertà, la mia consapevolezza, le mie rughe, arrivando
alla carne viva. E in un attimo, tutto mi fu chiaro.
Voltandomi, sapevo esattamente che cosa gli avrei risposto.
RINGRAZIAMENTI

Grazie a M.C., il mio editor

Grazie alle mie care amiche virtuali:


Lorena [@effettonotte_] e Silvia [@silviasplash]
Grazie al mio amico Karim [@karimkarabu]
per l’impostazione grafica
e ad Alessandro Lesa [@alessandro_lesa]
per i consigli sull’autopubblicazione
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Anna Salvaje
Anna Salvaje è uno pseudonimo.
Data la natura autobiografica di Nuda
l'autrice intende rimanere anonima.

annasalvaje@gmail.com

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