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Anna Salvaje
Independently published
Copyright © 2015 Anna Salvaje
In copertina:
Foto di Engin Akyurt da Pixabay
A noi due
Contents
Title Page
Copyright
Dedication
Capitolo Zero
Capitolo 1- Fuori dalla stanza
Capitolo 2- Valeria e la Primavera
Capitolo 3- Una proposta indecente
Capitolo 4 - L’aperitivo
Capitolo 5- A passo di danza
Capitolo 6 - La prima volta
Capitolo 7 - Dirottamenti
Capitolo 8 - Don Jon
Capitolo 9 - Quel giorno al parco
Capitolo 10 - Una nuova letizia
Capitolo 11 - Il suo odore
Capitolo 12 - Un giro di giostra
Capitolo 13 - Risvegli
Capitolo 14 - Natale
Capitolo 15 - Miele
Capitolo 16 - Julija sui tubi
Capitolo 17- Il bacio
Capitolo 18 - Patrizia
Capitolo 19 - La radiografia
Capitolo 20 - Palla di vetro
Capitolo 21- Gocce
Capitolo 22 - Profumo di troia
Capitolo 23 - Decisioni
Capitolo 24 - Fari d’estate
Capitolo 25 - Il ragno
Capitolo 26 - Mare e navigante
Capitolo 27 - Il violino
Capitolo 28 - Rafaela oltre la soglia
Capitolo 29 - Legata
Capitolo 30 - Un po’ pornodiva
Capitolo 31 - La camera bianca
Capitolo 32 - Favole
Capitolo 33 - In volo
Capitolo 34 - Nuda
RINGRAZIAMENTI
About The Author
Capitolo Zero
La 110 era al piano terra. A pochi metri dal banco della reception.
Entrammo.
Andrea aveva un fare impacciato, perfino indeciso. Decisi di
imbarazzarlo ulteriormente assumendo un’espressione seria, quasi
scocciata, e mi mossi nella stanza ostentando disinvoltura. Eravamo
in silenzio, c’era solo il rumore dei miei tacchi sul pavimento.
«Vado al bagno», dissi.
Mi chiusi nella toilette. Sentivo i suoi movimenti al di là della porta.
Me lo immaginavo che vagava nella stanza, chiedendosi se fossi
arrabbiata e perché, se avesse sbagliato qualcosa o detto una frase
fuori posto. Fumai una sigaretta sorridendomi sorniona allo
specchio.
Quando uscii la stanza era al buio. Andrea si era seduto sul letto
davanti alla tv sintonizzata su nessun canale.
«È bello quello che stai guardando?», gli chiesi chiamandolo per
cognome. Poi mi piazzai in piedi fra lui e il televisore, col culo
all’altezza del viso, ripetendogli: «È bello quello che stai guardando?
È meglio di questo?».
Lui balbettò qualcosa che non capii mentre io, come se fosse la
cosa più naturale del mondo, mi toglievo vestito, reggiseno e
mutandine.
Mi sdraiai sul letto supina con solo la sottoveste addosso.
«Non vieni?», gli dissi.
Lui mi venne accanto. Poi tornò seduto, si tolse le scarpe e si
distese di nuovo, coricandosi su un fianco e volgendo il viso verso di
me. Cazzo quanto era emozionato! Mi sembrava di sentire tutto il
suo turbamento.
Avvicinò il suo viso al mio. Rimasi sospesa, immobile. Poi mi
scostai repentinamente.
«Scusa, non è che stavo per baciarti. Volevo solo sentire il tuo
odore. Scusa», mi disse.
La sua voce che tremava mi entrò dentro. “Hai capito il ragazzo”,
pensai. “Voleva annusarmi…” Mi misi lentamente a cavalcioni su di
lui e avvicinai le dita al suo viso. Ne percorsi i contorni, la fronte, le
sopracciglia, le palpebre, il naso, la curva delle labbra, le guance,
l’osso della mascella. Poi mi chinai ad annusarlo, col suo fiato che
mi solleticava il collo. Lo annusai dovunque.
Andrea era ancora interamente vestito. Nelle parti di corpo che
aveva scoperte (viso, mani, braccia, collo, piedi) lo annusavo piano,
dolcemente. Sul torace e le gambe, dove aveva maglietta e
pantaloni, annusavo energicamente, strofinando naso e labbra
contro il tessuto, come un cane che fiuta un indizio. Per ultima gli
annusai la patta. Spingevo col naso in prossimità dell’inguine,
facendo tendere il tessuto dei pantaloni che ricopriva l’uccello,
appoggiando lì la guancia per sentire, sotto, il rilievo del cazzo già
duro. Stetti per un po’ ferma e allungai le mani verso l’alto,
mettendogli le dita in bocca.
Poi mi tirai su, mi rimisi a cavalcioni su di lui e gli presi la faccia fra
le mani. Lo guardai negli occhi. Aveva le pupille dilatate.
Sembravano due laghi neri. Mi poggiò le sue mani sulla fronte, sulle
tempie, e io fui investita da una sensazione dolcissima. Scesi a
baciargli la bocca. Un bacio morbido e profondo.
“Troppo dolce. Troppo dolce”, pensai. Era una sensazione strana,
tanto nuova e insolita che ne ebbi timore. Resistetti alla tentazione di
chiudere gli occhi e scivolarci dentro. Mi staccai e cominciai a
spogliarlo con foga, come a riprendere in mano la situazione. E così,
via la maglietta, in azione le mie dita frenetiche sui bottoni dei jeans.
Lui ogni tanto mi fermava, tornava ad appoggiarmi le mani sulle
tempie, a guardarmi con gli occhi immensi. E ogni volta venivo
inghiottita da quella sensazione di dolcezza mista a meraviglia. Non
potevo fare a meno di sorridergli e baciarlo ancora sulla bocca.
Eravamo in un fermo immagine di miele. “Troppo dolce. Troppo
dolce”, pensai di nuovo. E di nuovo provai resistere, riprendendo a
spogliarlo freneticamente. Via i pantaloni, via le mutande.
Era completamente nudo adesso, disteso, il cazzo svettante e
bene in tiro. Ci abbracciammo e rotolammo sul letto a invertire le
posizioni. Adesso era lui sopra di me. Quanta vita nei suoi occhi,
quanta dolcezza, quanto desiderio. Era bello in modo commovente.
Mi resi conto che lo stavo desiderando troppo, quel ragazzo, come
non mi accadeva da tempo. Poggiai le mani sulle sue natiche e lo
chiamai per cognome.
«Dammelo in bocca», gli dissi, invitandolo con le mani e con i
movimenti a mettersi a cavalcioni sul mio seno e a puntarmi il cazzo
sul viso. I laghi neri ebbero un guizzo. Mi assecondò
immediatamente. Avevo il suo uccello gonfio davanti agli occhi.
Cominciai a passare le dita fra i peli, a percorrere con i polpastrelli le
linee delle vene gonfie sull’asta, poi la cappella. Intanto lo respiravo
forte, mi nutrivo dell’odore di lui.
Sollevai la testa per sfregarmi perbene il membro sulla faccia,
sulle palpebre, sulle guance, sulle labbra chiuse. Sfregavo e
annusavo. Andrea mi guardava, eccitatissimo e un poco smarrito,
poi tornava a tenermi le tempie con le mani, a tuffare gli occhi nei
miei, a scivolare e farci scivolare nel fermo immagine di miele.
Di nuovo mi obbligai a scrollarmi di dosso la sensazione di
dolcezza che mi investiva. Alzai le braccia, strinsi con le mani la
testiera del letto e l’invitai a bloccarmi le braccia con le mani.
«Scopami la bocca», ordinai.
Mi avvicinò la punta del cazzo alle labbra e io le dischiusi per
accoglierlo. Cominciò lentamente ad andare dentro e fuori la mia
bocca, sempre più dentro a ogni spinta. Muovevo la lingua in modo
da accarezzargli cappella, filetto e asta a ogni affondo, piegavo il
collo per favorirlo, per farlo scorrere fra lingua e palato, perché
arrivasse in gola fino a farmi lacrimare. Poi, quando sentii le palle
che mi sbattevano sul mento, cominciai a succhiarlo in maniera
ritmica, accompagnando il movimento con la lingua. Mi piaceva così
tanto che spalancai le gambe e presi a muovere il bacino. Non
smettevo di guardagli gli occhi: c’erano momenti in cui li spalancava,
e momenti in cui li socchiudeva rovesciando indietro la testa. Poi
tornava a cercare i miei. Il cazzo gli pulsava forte e compresi che
stava per venire. Colsi una certa ritrosia, forse era insicuro. Forse
non sapeva se poteva venirmi in bocca, se doveva spostarsi o altro.
Staccai le mani dalla testiera del letto e cercai le sue che mi
bloccavano le braccia. Gliele strinsi forte. Col cazzo che mi riempiva
la bocca feci per un paio di volte cenno di sì con la testa,
incoraggiandolo a godere senza preoccupazione. I due laghi neri
mostrarono uno scintillio mentre il cazzo cominciava a pulsare più
potente e a stillare sborra nella mia gola. Succhiavo, assecondando
l’ondata dei fiotti di sperma caldo e dolce, succhiavo e bevevo,
succhiavo e premevo la lingua sull’asta a placarne e accarezzarne i
fremiti, succhiavo e ingoiavo mentre con le mani stringevo le sue che
tremavano. Mi sembrava di succhiargli l’anima.
Fu una lunga notte. Lo feci mio e fui sua più volte. In silenzio. Ero
sempre io che decidevo momenti e posizioni. Mi misi a quattro
zampe davanti allo specchio e lo incitai a montarmi da dietro,
invitandolo a guardare la mia faccia riflessa nello specchio. Lo
cavalcai stando sopra, impalandomi su di lui e dondolandomi avanti
e indietro col cazzo piantato bene nella fica. Lo feci mettere in piedi:
«Ti voglio succhiare il cazzo stando in ginocchio e voglio che ti
guardi allo specchio. Devi renderti conto di quanto sei bello».
Avevo deciso tutto io. Di farmelo. Come farmelo. In quanti modi e
quante volte farmelo. Ma non avevo vinto. Lo capii dal suo abbraccio
dopo che avevamo goduto insieme, io ancora a quattro zampe e lui
pesante dietro di me. Abbracciati furiosamente, quasi
dolorosamente, come due sopravvissuti a un naufragio, certi di
essersi salvati, vivi e felici.
Capitolo 7 - Dirottamenti
Come è possibile che ogni volta che mi avvicino a lui, che sento il
suo odore, la fiamma nel mio bassoventre si accende e mi fa
sciogliere? Ogni volta, varcata la soglia di una nuova stanza, l’aria si
accende e si fa elettrica, viva e vibrante. Lui è con me. E ci sono i
colori. Non c’è cappa di grigio che tenga: il grigio e ogni sua
sfumatura restano fuori dalla porta.
Mi piace avvicinarmi quando siamo ancora vestiti, gli dico di stare
fermo, di dischiudere la bocca e restare immobile. Siamo in silenzio,
ascolto il rumore dei miei movimenti, dei miei abiti, dei tacchi sul
pavimento. A occhi chiusi mi faccio più vicina, sento il suo odore
sempre più forte e cerco il suo respiro. Lui è così alto che devo
inarcarmi sulla punta dei piedi e sollevare il viso per trovargli le
labbra. Rimango per un po’ così, ferma e sospesa, le bocche vicine,
a gustarmi il fiato dolcissimo e caldo. Poi apro gli occhi e ogni volta
mi ritrovo sorpresa e stupita per quanto mi incanta. Che madornale
errore credere che l’amore sia progetto e certezza. L’amore è
soprattutto stupore.
Vorrei abbracciarlo, stringerlo e schizzare oltre, per un secondo o
mille anni, staccare i piedi da terra, fargli da pipistrello e farmi
portare via da me, dalla vita che ho fuori di lui e che resiste
nonostante tutto. Nonostante quell’avanzamento veloce del nastro
che il mio desiderio vorrebbe. Quel nastro di noi così bello da volerlo
riavvolgere in fretta solo per poterlo iniziare da capo.
Lo guardo. È immobile. Ha occhi chiusi e bocca dischiusa, come
avevo ordinato.
«Sei proprio un bravo e ubbidiente ragazzo», gli sussurro
compiaciuta all’orecchio.
Stiamo respirando più forte, le bocche vicine. Chiudo gli occhi, tiro
fuori la lingua e gli sfioro le labbra, ne seguo i contorni, ne palpeggio
carnosità e pienezza. Con la punta faccio capolino dentro la sua
bocca, dapprima esitante e quasi timida, poi sempre più determinata
e sicura, strappandogli piccoli mugolii. Adoro respirare dentro la sua
bocca, bere ogni suo gemito. Adoro leccargli labbra e denti. Ficcargli
la lingua in bocca e frugargliela tutta, solleticare e succhiare la sua.
Siamo immobili entrambi, solo la mia lingua si muove mentre resto
protesa verso lui, tutta quanta, tutta intera, mentre il suo odore mi
inebria e il fuoco fra le cosce divampa. Lo attizzo ancora, aggiungo
altra voglia alle voglie e inarco il bacino, a strofinarmi sul cazzo che
diventa sempre più duro sotto i jeans. Percepisco i suoi sussulti,
sento le sue mani tremare, fremere e resistere a toccarmi.
Allora cedo e per un po’ lo lascio fare, gliele lascio avvicinare ai
miei fianchi, al culo. Giusto il tempo di sentire i miei brividi. Talvolta
alzo il vestito e lo assecondo, gli lascio palpare le natiche calde, la
pelle nuda delle cosce. Oppure mi dondolo, divarico un po’ le gambe
in modo che la sua mano a palmo aperto tocchi la fica, ne avverta il
calore e il bagnato attraverso le mutandine. Mi dondolo con
progressiva frenesia, fino al punto che quasi non si capisce se è lui
ad accarezzarmi la fica o se è la mia fica a cercare e accarezzare la
sua mano. Poi mi blocco e lo blocco, avvicino le labbra al suo
orecchio e sussurro decisa: «Fermo ragazzo. Fermo. Ti voglio
immobile. E mio. E nudo».
E lui di nuovo ubbidisce.
Solo allora apro gli occhi e trovo sempre i suoi che mi cercano. Ha
gli occhi magnifici quando è eccitato: gli si annacquano di piacere e
diventano brillanti. Guizzano di gioia e di vita come gli guizza e gli
pulsa il cazzo, quell’incantevole cazzo che di lì a poco mi pulserà
nella fica, nel culo, nella bocca…
Respiro più forte e comincio a spogliarlo.
Capitolo 12 - Un giro di giostra
Gli uomini del mio passato, quelli amati davvero, intendo, avevano
sempre fatto di tutto per rendermi diversa da quella che ero, più
simile alla donna che loro desideravano fossi. Lo avevo capito
prestissimo, ancor prima del mio matrimonio numero uno,
sostanzialmente accettandolo.
Il mio “profumo di troia”, quello che i maschi trovano irresistibile,
l’avevo riservato ai rapporti disimpegnati, nascondendolo ai due
matrimoni e ad altre poche relazioni importanti. Lo facevo perché
sapevo che se mi fossi mostrata autentica, nuda, con tutta la mia
curiosità di osare, di provare emozioni nuove, anche a rischio di
rimanerne delusa, l’uomo che amavo e che mi amava a un certo
punto si sarebbe irrigidito e piano piano, di nuovo, avrebbe provato a
forzarmi, a cambiarmi, a trasformarmi in una sua proiezione.
Rinunciavo alla mia ricerca di completezza, ma ero determinata a
prendermi tutto lo stesso. Ero anche quello: voglia d’intrigo e di
libertà. Negarlo sarebbe stato da stupida, e anche da ipocrita.
Meglio troia che stupida ipocrita. Così mi prendevo entrambe le
cose, separatamente. L’amore, la relazione “seria e profonda”, da
una parte e il sesso pienamente libero, senza alcuna implicazione
sentimentale, altrove.
A volte succedeva che nel mondo reale qualche uomo
particolarmente attento, o solo semplicemen-te simile a me,
percepisse quel profumo di troia anche attraverso la mia patina di
irreprensibilità. Insomma, "sentisse" che io ero anche quello. Me ne
accorgevo da un guizzo nello sguardo durante una riunione, un
convegno o un’altra qualunque situazione formale, mentre seria e
impeccabile procedevo nel mondo. Era un attimo. Un brevissimo
scambio di sguardi che diceva: “Io lo so come sei”. I simili si
riconoscono, forse si fiutano. Chissà. Poi entrambi distoglievamo lo
sguardo e facevamo finta che quella consapevolezza non ci fosse
mai giunta.
Con Andrea non era andata così. “Educarlo” al sesso e in qualche
modo all’amore era un poco educare me stessa. O forse erano la
sua schiettezza, la sua sincerità disarmante, il suo amore per me,
solo per me e davvero, in qualunque modo mi rivelassi a lui, a farmi
dimenticare la mia diffidenza, il mio cinismo e la mia disillusione.
Con Andrea ero rinata.
Certo, il resto della mia vita non era cambiato, fuori dalla bolla di
noi c’erano i miei figli, la mia vita di madre, di moglie, la mia
professione, che fortunatamente riuscivo a gestire come volevo,
ammazzandomi di lavoro nei giorni in cui non ci vedevamo per
ritagliarmi le giornate per noi.
Un pomeriggio che stavamo rientrando in albergo dopo aver preso
un aperitivo mi incantai di fronte una vetrina a guardare una borsa.
Andrea fece per entrare nel negozio.
«Che fai?» gli chiesi prendendolo per il braccio.
«Te la voglio regalare», rispose.
«Aspetta» gli dissi trattenendolo. «Non mi piace così tanto, in
fondo».
La borsa mi piaceva moltissimo ma non volevo spendesse altri
soldi per me. Gli alberghi, le cene, i pranzi costavano, e lui non
voleva che pagassi io. Inutilmente provavo a spiegargli che a me
quelle spese non cambiavano la vita, che avevo un lavoro che
rendeva parecchio, che lui si era laureato da poco e aveva un
impiego saltuario e precario e che era giusto che ciascuno
spendesse in proporzione alle proprie entrate. Niente. Andrea s'era
incaponito che dovessimo fare una volta per uno. E nemmeno il
giochino di farmi venire la voglia di pizza o di un kebab la sera che
doveva offrire lui mi riusciva sempre. Spesso non mi dava retta e mi
portava in uno dei ristoranti dove ero solita portarlo io.
Con i regali era uguale. Mi regalava cose che mi piacevano molto,
di ottimo gusto, ma che sapevo essere costose e fuori dalla sua
portata.
«Perché non posso regalarti qualcosa se voglio?».
«Non mi piace tantissimo» mentii. E poi: «Però un regalo lo vorrei.
Vuoi farmelo?
«Vieni» Lo presi per mano e attraversammo la strada.
Andrea guardò l'insegna del sexy shop e sorrise con aria
interrogativa.
«Entra», gli dissi. «Prendi delle Ben Wa. Rosa. Fatti spiegare dalla
commessa come sono e come si usano. Poi in camera me le regali e
me le fai indossare»
Ebbe un attimo di esitazione, quell’imbarazzo che precedeva ogni
nuova soglia che lo invitavo ad oltrepassare e che trovavo
straordinariamente eccitante. Poi entrò nel negozio.
Lo spiavo attraverso lo spiraglio che la moltitudine dei completini
da infermiera zoccola e da mistress sadica lasciava libero in vetrina.
Lo vidi dapprima aggirarsi impacciato fra le scaffalature, poi
avvicinarsi al bancone, quindi scomparve dalla mia visuale.
Qualche minuto dopo uscì con un pacchetto, mi prese per mano e
rientrammo in albergo.
In camera mi baciò sulla bocca e timidamente mi porse il regalo.
Lo scartai eccitatissima. Conteneva due sfere in lattice rosa, grandi
quanto le palline da ping pong ma più pesanti, unite da un cordino di
seta, con un anello all’estremità. Presi in mano il cordino facendo
ciondolare le palline. Erano cave. Ciascuna conteneva all’interno un
piccolo peso metallico che urtando contro le pareti delle sferette le
faceva vibrare.
«Bellissime!», esclamai sollevandole fino all’altez-za dei suoi
occhi. «Proprio quelle che desideravo! Me le fai provare?».
Gliele misi in mano, mi tolsi le mutandine, sollevai il vestito e mi
sdraiai sul letto aprendo appena le gambe.
Andrea si avvicinò, un poco imbarazzato. Ma il rigonfiamento del
cazzo sotto i pantaloni mi rassicurava che anche quel gioco gli stava
piacendo. Spalancai le gambe, invitandolo a “giocare” con uno
sguardo spudorato. Lui si inginocchiò e prese a muovere le palline
davanti la mia passera, con gesti lenti e delicati. I suoi movimenti
con quell’ oggetto in mano a lui così poco familiare erano impacciati,
in netto contrasto con il desiderio e l’eccitazione che mi rivelavano i
suoi occhi e il suo respiro.
«Dai!», lo incitai. «Gioca con me».
Cominciò a inserire timidamente le palline nella fica, spingendole
una alla volta con le dita. Quel contatto mi fece gemere. Ero
bagnatissima. La prima scivolò dentro facilmente. La seconda
incontrò più attrito, perché parte dei miei umori era stata asciugata
dal passaggio dell’altra.
Mi sollevai sulle braccia e lo baciai sulla bocca. Lui mi abbracciò
forte e rotolammo sul letto. La sensazione che mi procurava
quell’oggetto estraneo che tremava nella fica era bellissima. La
consapevolezza che era stato lui a mettermelo dentro, lui che fino a
quel mattino nemmeno sapeva dell’esi-stenza di quel giocattolo mi
faceva impazzire.
I nostri movimenti mentre rotolavamo abbracciati sollecitavano
ancora più le vibrazioni, facendomi provare un piacere infinito.
Gli sussurrai all’orecchio «Ora tirale fuori». Quindi tornai a
sdraiarmi aprendo le gambe. Andrea prese il cordino dall’anello e
cominciò a tirare piano. Era eccitato ed emozionato, conoscevo il
suo sguardo. Lo conoscevo e lo adoravo.
Le palline fuoriuscirono lucide, bagnate dalla mia rugiada
vischiosa e trasparente.
«Succhiale», gli ordinai.
Lui lo fece guardandomi negli occhi.
Stavo sollevandomi per baciarlo quando mi sorprese: con una
mano mi bloccò sul letto e con l’al-tra tornò a ficcarmi un’altra volta
le palline dentro. Le tirò fuori nuovamente piano e poi ancora le
introdusse. Stavo per abbandonarmi al piacere quando si staccò da
me e mi disse di uscire, di andare a cena, di tenere il suo regalo lì,
bene al caldo nella fica dove l’aveva messo e che ci avremmo
giocato dopo.
Ero sbalordita.
Stavo ancora là, sdraiata a gambe aperte, la fica esposta e farcita
di quelle due palline, incantata a guardare il mio ragazzo così bello e
così straordinariamente maschio e sicuro di sé mentre mi aspettava.
«Andiamo a cena», sollecitò.
Recuperai in silenzio le mutandine dal pavimento, le indossai e mi
avvicinai a lui lentamente, contraendo i muscoli della vagina per
trattenere le palline perché, pure se non potevano uscire, la
sensazione che potessero farlo da un momento all'altro era
fortissima. Ad ogni passo il peso all’interno delle palline le faceva
oscillare facendo entrare in risonanza tutto il mio corpo.
Andai a cena così. Con la fica piena e il profumo di troia che
sicuramente diffondevo.
Avevo avuto il regalo più bello che potessi desiderare, ma non
stava nella mia fica o almeno, non solo lì. Non erano state le palline
il regalo, ma quel suo prendere in mano le redini del gioco che avevo
iniziato, la sua idea di farmi andare a cena in quel modo.
Quel regalo, lui sì che mi faceva girare la testa.
Altro che borsa.
Capitolo 23 - Decisioni
Lasciai mio marito il primo giorno di quella nuova estate. Era finita
da tempo, da molto prima di Andrea, non so dire esattamente
quando e come. Era finita lentamente: un amore non finisce mai
d’improvviso, siamo noi che, distratti, non ci accorgiamo di quando
piano piano ci lasciamo le mani. E il cuore che avevamo donato ci
torna indietro, senza avvisare né spiegare.
Adesso so quanto a quell’amore, che pure era stato bello e forte,
non avessi dato abbastanza fiducia. La fiducia indispensabile se ci si
vuole abbandonare del tutto. Si ha più paura da giovani che da
adulti, è normale, e allora non ero abbastanza matura per riuscire ad
aprirmi così tanto. Non ero riuscita con lui e neanche con i miei
precedenti amori. È solo oggi che ne sono consapevole. Vent’anni fa
non ne avevo idea ed è per questo forse che non posso dire di
essere pentita: ho fatto quel che potevo. Avevo avuto paura di
essere giudicata, paura di aprirmi, paura di venire manipolata, e la
paura mi aveva impedito di confessare a chi amavo e mi amava
quanto desiderio, quanta curiosità, quanta vita mi bruciasse dentro.
Non so nemmeno, adesso che tutto è spento, se lui e i pochi amori
importanti che c’erano stati prima di lui sarebbero stati disponibili ad
accogliermi lo stesso. Il fatto che a questa domanda non esista
possibile risposta è la cosa della quale ogni tanto continuo a sentire
il peso.
Comunque, dicevo, quell’amore, come un milione di altri, si era
consumato piano e noi non ce n’eravamo accorti. Forse è naturale
che vada così. In fondo è la felicità che ci sorprende: del nostro
cuore quando d’improvviso trabocca gioia ci avvediamo subito, ma
non succede lo stesso per la tristezza, che ci avvolge piano,
spegnendoci.
La decisione di chiudere la maturai in fretta. E ancora più in fretta
gliela comunicai. Non mi rammaricai pensando che forse avrei
dovuto prendermi più tempo e fu meglio così, di tempo averne avuto
niente, perché pure il brivido che provai quando così rapidamente
scelsi mi fece sentire potentemente viva.
I sensi di colpa c’entravano poco con la mia decisione,
c’entravano poco i miei “peccati” e in fondo c’entrava poco pure
Andrea. Non pensavo affatto di andare a vivere con lui, prendere
casa insieme, cominciare un percorso. Avevo i figli da seguire. I miei
figli, che se anche avessero accettato un giorno l’idea di un nuovo
compagno per me, sarebbero rimasti di certo spiazzati all’idea di un
ragazzo con una età più vicina alla loro che alla mia.
E poi sapevo benissimo che la nostra storia non aveva un futuro,
che sarebbe finita, che Andrea si sarebbe inevitabilmente
innamorato di una donna più giovane, una con cui poter progettare,
viaggiare, fare dei figli. Lo sapevo: era nell’ordine delle cose. Ma
quanto era dolce vivere pienamente quell’adesso, nutrire la sua
forza… Perché l’amore va fatto volare: l’amore non si spreca. È
questo l’unico peccato.
Capitolo 24 - Fari d’estate
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