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Lezione 23/11/17

Le spese processuali

Il meccanismo delle spese processuali si basa essenzialmente su alcuni principi:

Originariamente era indicato dall’art. 90 c.p.c., rubricato onere delle spese. Esso diceva che, salvo
le disposizioni relative al gratuito patrocinio nel corso del processo, ciascuna parte deve provvedere
alle spese degli atti che compie e di quelli che chiede e deve anticiparle, quando l’anticipazione è
posta a suo carico dalla legge o dal giudice. Questa norma fissava il principio di anticipazione delle
spese cioè che la parte che compie un atto processuale deve in via preventiva e provvisoria
anticiparne il costo. Al tempo della vigenza della disposizione si usavano le marche da bollo (che
costavano cada una 22 mila lire ma se ne usavano generalmente quattro essendo quattro le facciate
di ogni foglio) infatti la parte che doveva scrivere un qualunque atto doveva essere in regola con
l’imposta di bollo. Nel 2001 questo sistema venne abbandonato. Oggi il sistema delle spese è
regolato dal testo unico spese di giustizia d.p.r. 215 del 2002 che prevede che chi agisce in giudizio,
ossia formula per primo una domanda o una domanda riconvenzionale o chiama un terzo in causa,
deve pagare un contributo proporzionale alla causa. Se A propone causa contro B e chiede 30 mila
euro, A paga un contributo unificato per 30 mila euro, B propone domanda riconvenzionale a sua
volta e pagherà il contributo unificato per quella domanda riconvenzionale. Il principio dell’art. 90
c.p.c. nella sua sostanza rimane comunque fermo nonostante non sia più vigente. I primi costi sono
infatti di chi li sostiene, cioè quindi la parte deve andare all’avvocato e deve pagarlo, quindi deve
sostenere provvisoriamente le spese. Può capitare che nel corso del processo poi, il giudice assegni
alcune spese per es. nomina di un consulente, il cui compenso viene posto a carico di entrambe le
parti. Anche in questo caso quindi comanda quello che ha detto il giudice. Alla fine del processo ci
sarà una parte che ha vinto e una che ha perso, entrambe avranno sostenuto delle spese.
Queste spese che sorte avranno? In effetti dobbiamo combinare diversi principi. Intanto è vero che
agire o resistere in giudizio non è un illecito in linea di principio però è anche vero che la parte che
ha vinto, se è accertato che avesse ragione, non deve essere onerata delle spese e dei costi che sono
stati necessari per ottenere il riconoscimento del suo diritto. In diritto civile in materia di
obbligazioni per esempio c’è una regola che prevede che le spese dell’adempimento sono a carico
del debitore. Chiovenda fu il primo ad elaborare una teoria concreta sulle spese processuali.
Secondo Chiovenda la parte vincitrice deve essere alla fine del processo tenuta indenne da quanto
ha dovuto sostenere per avere riconosciuto il suo diritto. Questa è in effetti la regola generale delle
spese. Le spese seguono la soccombenza.
L’art. 91 c.p.c., rubricato condanna alle spese, dice che il giudice con la sentenza che chiude il
processo davanti a lui condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra
parte e liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. Quindi la regola generale è che chi
perde paga chi ha vinto. Il giudice quando liquida l’ammontare degli onorari di difesa non entra nel
merito del rapporto avvocato-cliente. Tizio (vincente) dovrà pagare il suo avvocato secondo il
rapporto di opera professionale o in mancanza secondo i parametri previsti dalla legge, il giudice
stabilisce che percentuale di queste spese deve essere rimborsata da Caio (soccombente) a Tizio
(vincente). Quando si legge nelle sentenze “condanno la parte soccombente alle spese” questa
condanna non è in favore dell’avvocato ma in favore della parte che ha vinto.

Alla regola secondo cui le spese seguono la soccombenza vi sono delle eccezioni:

-se si guarda all’art. 92 c.p.c., esso ci dice che il giudice nel pronunciare la condanna alle spese può
escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice se le ritiene eccessive o
superflue (es. apparecchiatura di video sorveglianza di 30 mila euro per sorvegliare l’accesso del
vicino sul proprio fondo).
-inoltre sempre l’art. 92 c.p.c., ci dice che il giudice può condannare, indipendentemente dalla
soccombenza, al rimborso delle spese (anche non ripetibili) che essa ha causato per trasgressione
al dovere di cui all’art. 88 c.p.c. (dovere di lealtà e probità). Ad es. la parte che ha vinto aveva
sottratto il fascicolo dell’avversario costringendolo a fare la copia del fascicolo. In tal caso le spese
commesse per questa violazione possono essere a lui addossate anche se ha vinto.
-art. 91 comma 1 c.p.c., conciliazione. Il giudice se accoglie la domanda in misura non superiore
all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la
proposta al pagamento delle spese maturate dopo la formazione della proposta, salvo quando
disposto dal comma 2 dell’art. 92 (soccombenza reciproca); es. Tizio propone causa contro Caio,
Tizio chiede 50, Caio contesta e nella comparsa di risposta dice che è disposto a chiudere la lite
pagando 10 oggi, Tizio rifiuta, alla fine però il giudice con sentenza accoglie in parte la domanda di
Tizio per 10 anziché per 50. Però non sarebbe corretto porre in capo a Caio le spese successive al
momento in cui Caio stesso aveva proposto la conciliazione offrendosi di pagare subito 10. Per cui
se vi è un’offerta conciliativa le spese successive a questa offerta, se poi la sentenza condanna per
un importo inferiore a quello chiesto, vengono messe a carico della parte che ha rifiutato la proposta
senza giustificato motivo perché sono nate a causa del rifiuto di Tizio. La proposta conciliativa può
venire sia dalla parte, sia dal giudice che può perfino formulare la proposta (questa norma è un po’
al limite in quanto potrebbe venire meno la terzietà del giudice). In seguito la causa viene decisa. Se
il giudice condanna nella misura della proposta, può condannare alle spese la parte vittoriosa che
ha rifiutato ingiustamente la proposta conciliativa. Quindi il meccanismo è identico sia se la proposta
conciliativa viene fatta dalla parte, sia se viene fatta dal giudice.
-un’altra deroga è rappresentata dalla mediazione, che è una condizione di procedibilità di alcune
domande (diritti reali, diffamazione a mezzo web, condominio, responsabilità medico-sanitaria).
Prima di agire in giudizio è necessario proporre un tentativo di mediazione davanti a specifici
organismi accreditati presso il ministero. Questi organismi, se le parti non riescono a trovare un
accordo, possono formulare una proposta di mediazione. Se le parti rifiutano la proposta e se il
giudice poi nel futuro processo accoglierà la domanda nella misura corrispondente a quella stabilita
dal mediatore potrà condannare anche in questo caso la parte che ha rifiutato senza giustificato
motivo la proposta alle spese successive alla formulazione della proposta stessa.

Queste sono le deroghe principali, però minori perché in effetti la deroga maggiore è il caso della
possibile compensazione delle spese. La regola è la soccombenza salvo le deroghe appena viste,
però in alcuni casi il giudice può compensare le spese in tutto o in parte. Compensare le spese
significa che ogni parte paga le proprie spese. Es. di compensazione in parte -> nella causa tra
Sempronio e Mevio, il primo aveva chiesto 100, il giudice accoglie la domanda per 20, quindi sì
Sempronio ha vinto però il giudice gli riconosce 20; allora in questo caso il giudice potrebbe
compensare le spese in parte cioè stabilisce che per il 20% delle spese che liquida, nella misura di
20 sono a carico di Mevio, per il rimanente 80% le spese sono compensate.
Quali sono i casi di compensazione? Originariamente c’era una formulazione molto flessibile che
lasciava molto spazio al giudice, secondo cui il giudice poteva compensare le spese quando
sussistono gravi motivi. Poi il legislatore ha tentato di scoraggiare la pratica dei giudici perché
andavano a compensare troppo facilmente e la formulazione è diventata sempre più rigorosa. Il
testo attuale circoscrive l’ipotesi di compensazione in casi tassativi:
 Assoluta novità della questione trattata (es. causa sull’interpretazione di una norma appena
entrata in vigore, o anche una novità di fatto)
 Mutamento della giurisprudenza improvviso (anche di quella già vacillante)
 Soccombenza reciproca
NB
Tradizionalmente si distingue tra soccombenza reciproca e parziale. La soccombenza parziale è
quando la domanda viene accolta solo in parte (es. Tizio chiede 100 ma la sua domanda viene
accolta solo per 30). La soccombenza reciproca presuppone che ci siano state più domande rigettate
(es. Tizio propone causa contro Mevio, Mevio formula domanda riconvenzionale e il giudice le
rigetta entrambe). Però in effetti anche la soccombenza parziale in fondo è una soccombenza
reciproca perché Tizio aveva chiesto 100, Mevio aveva chiesto il rigetto della domanda e quindi è
come se avesse chiesto 0, quindi accogliendo per 30 è come se vi fosse una soccombenza reciproca.

Come funzionano le spese?


La legge dice solamente che le spese sono liquidate dal cancelliere, quelle della modificazione della
sentenza e del titolo esecutivo dall’ufficiale giudiziario.

Si può proporre reclamo contro la liquidazione delle spese, però dobbiamo coordinare la norma
sul reclamo. Si faccia il caso del c.t.u. (consulente tecnico d’ufficio) che ritiene di aver diritto ad un
compenso di 300 ma il giudice gliene liquida 100, il consulente può proporre reclamo e chiedere che
venga rivista la decisione. In realtà se nella causa tra Tizio e Sempronio il giudice condanna
Sempronio a 200 di spese questo è un capo della sentenza che doveva essere impugnato, quindi
non dovrà impugnare per reclamo ma dovrà impugnare la sentenza.

Se le parti si sono conciliate le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse non abbiano
diversamente previsto. Le parti preferiscono, anche per ragioni fiscali, trovare un accordo per i fatti
loro senza farlo sapere in processo e poi smettono di comparire in processo e se non compaiono
per due volte consecutive il processo si estingue, ma comunque loro si sono accordati. Può capitare
invece che le parti vogliano conciliarsi davanti ad un giudice e quindi il giudice stende verbale e
scrive le dichiarazioni delle parti e l’accordo conciliativo e in questo caso, se le parti non hanno
diversamente disposto, le spese si intendono compensate. Questi verbali conciliativi sono la regola
nelle cause di lavoro (mentre nelle cause civili ordinarie si fanno sempre stragiudiziali) dal momento
che esiste una norma del codice civile che prevede che tutti gli atti tramite i quali il lavoratore
rinuncia ai propri diritti sono nulli e possono essere impugnati a meno che non siano fatti davanti al
giudice.
In realtà la parte soccombente paga direttamente la parte che ha vinto, la quale poi dovrà pagare il
suo avvocato. Quindi la regola è che ognuno paga il suo avvocato, però vi è un’eccezione se la parte
chiede la distrazione delle spese, di cui all’art. 93 c.p.c. La distrazione delle spese può essere chiesta
dal difensore con procura nella stessa sentenza in cui il giudice condanna alle spese. Precisamente
si può chiedere che il giudice distragga in suo favore gli onorari non riscossi e le spese che dichiara
di aver anticipato. Il giudice condannerà la parte soccombente a pagare direttamente l’onorario
dell’avvocato della parte vincente (procuratore distrattario). L’art. 93 c.p.c. prevede che finché il
difensore non abbia conseguito il rimborso che gli è stato attribuito, la parte può chiedere al giudice
(con le forme stabilite per la correzione delle sentenze), la revoca del provvedimento, qualora
dimostri di aver soddisfatto il credito del difensore per gli onorari e le spese (è il caso del difensore
distrattario che nel frattempo è stato pagato dal suo cliente).

Articolo 96 c.p.c., Responsabilità aggravata.


Che significa responsabilità aggravata? La regola è quella che vi ho detto sull’onere delle spese. Di
che tipo di spesa si tratta? Nell’onere delle spese ordinarie quest’obbligo è un obbligo che possiamo
definire da fatto illecito, da contratto? Più probabilmente si tratta semplicemente di un caso di
obbligazione prevista direttamente dalla legge (‘’ogni altro o fatto idoneo a produrle in conformità
dell’ordinamento giuridico’’). Questa è la regola, però in alcuni casi ci sono delle eccezioni. Diverso
il caso della parte che abbia agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave. L’articolo 96
c.p.c. prevede due distinte famiglie di ipotesi:
1) Se risulta che la parte soccombente abbia resistito o agito in giudizio con malafede o colpa
grave, il giudice la condanna (questa parte), oltre che alle spese, al risarcimento del danno
che liquida d’ufficio con sentenza. Qui sì che è una responsabilità extracontrattuale.
Malafede significa dolo. Si parla di lite temeraria infatti quando un soggetto ha agito o
resistito in giudizio con malafede o colpa grave nella piena consapevolezza di avere torto.
Ma allora ci vuole un danno? In effetti la giurisprudenza oscillava un po' sul problema della
prova di questo danno. Il legislatore allora è intervenuto su questo punto introducendo il 3°
comma (stiamo saltando il secondo per ora) che prevede che in ogni caso quando pronuncia
sulle spese ai sensi dell’articolo 91 (in realtà su questo ci dobbiamo tornare) il giudice anche
d’ufficio può altresì condannare la parte soccombente al pagamento di una somma
equitativamente determinata. Di che si tratta? Parte della dottrina più tradizionalista
continua a dire che ha sempre una sorta di natura risarcitoria. Qualcuno tende a dire, forse
non a torto, che probabilmente è stato introdotto nel nostro ordinamento un danno
punitivo. In effetti una norma è stata proprio introdotta per risolvere i problemi relativi alla
prova di questo danno, però questa norma ne ha creato un altro di problema. Leggiamo la
formulazione: “ogni qualvolta in cui condanna alle spese ai sensi dell’art. 91”. Ma ai sensi
dell’art. 91 che significa? L’art. 91 parla di condanna alle spese tout court, e allora si è posto
il problema di capire a cosa si applica questa norma. Sicuramente si applica ai casi di
responsabilità aggravata (malafede e colpa grave non c’è dubbio). Ma siccome dice “in ogni
caso in cui condanna alle spese”, può darsi che questa norma debba trovare applicazione
anche fuori da questa ipotesi di lite temeraria e applicarsi in ogni caso, in ogni ipotesi in cui
il giudice condanni alle spese (quindi anche se non vi è la malafede o la colpa grave)? In
effetti viene lasciato il richiamo all’art. 91, quindi è possibile che questa norma abbia voluto
veramente scardinare il sistema? Di contrario si può affermare che è vero che fa riferimento
all’art. 91 ma dobbiamo anche, secondo i canoni dell’interpretazione sistematica, vedere
dove è collocata la norma. Essa, pur facendo riferimento all’art. 91, è collocata pur sempre
nell’ambito della responsabilità aggravata. Quindi anche se la norma fa un po' confondere
perché contiene questo rinvio all’art. 91, se fosse stata messa come norma a parte non ci
sarebbero stati dubbi, ma siccome è inserita nell’art. 96 (tra l’altro al 3°comma, neanche al
1°) la lettura suggerita qual è? Prima il 1° comma (malafede e colpa grave), poi il 2° comma
(casi tipici e tassativi, altre ipotesi di responsabilità aggravata), ci fanno quindi capire che si
applicherà soltanto in questi casi. Questa del resto è la giurisprudenza unanime. Cioè
quest’ultimo comma, che secondo qualcuno ha natura di risarcimento del danno, secondo
qualcuno è una vera e propria pena (un danno punitivo), comunque sia si applica solo ai casi
di responsabilità aggravata.
Responsabilità aggravata quindi ripeto: 1° malafede o colpa grave; avere agito o resistito;
tutti, attore o convenuto.

2) Andiamo all’ultima previsione di responsabilità aggravata: il 2° comma. Vediamo le


differenze con il 1°. Mi dice che il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato
eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta la domanda giudiziaria, o iscritta ipoteca
giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata su istanza della parte
danneggiata, condanna al risarcimento dei danni l’attore che ha agito senza la normale
prudenza; la liquidazione è fatta sempre ai sensi dell’art. precedente. Che differenze notate?
Prima differenza importante: mentre le ipotesi del 1° comma sanciscono dolo (malafede) o
colpa grave, questa invece è una responsabilità anche per colpa lieve, perché si dice “senza
l’ordinaria prudenza”.
Seconda differenza: nell’ipotesi del 1° comma la responsabilità per malafede o colpa grave
può gravare su chiunque abbia agito o resistito, mentre qui viene colpito non il soggetto che
abbia agito o resistito in giudizio, ma il soggetto che abbia compiuto specifici atti, per questo
c’è la colpa lieve. Facciamo un esempio: trascrizione della domanda giudiziale. A e B hanno
una lite sulla proprietà di un terreno, una casa. A notifica l’atto di citazione e trascrive la
domanda. La trascrizione della domanda comporta che per tutta la durata del processo B
questa casa non la potrà vendere. Oppure: A afferma di avere un credito di 500 mila euro e
ottiene un sequestro conservativo su tutto il patrimonio di B, gli blocca la casa, conto in
banca, gli fa un danno enorme. Con le esecuzioni forzate vale lo stesso discorso. Questi sono
tutti atti che hanno una particolare efficacia potenzialmente lesiva. Quindi mentre per il
semplice fatto che abbia agito, se c’è la colpa semplice non rileva ai fini della responsabilità
aggravata; invece se compie questi ulteriori atti, la legge gli impone di utilizzare una
prudenza adeguata. Ecco perché colpisce anche il caso di colpa lieve (non devi dimostrare la
malafede o colpa grave, ma per il fatto stesso che hai trascritto e non ti eri reso conto che
per es. il contratto era nullo, solo per questo il giudice ti potrà condannare alla responsabilità
aggravata).
Quindi:
- 1° ipotesi: agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave, quindi è richiesta
almeno la colpa grave;
- 2° ipotesi: ipotesi specifiche (trascrizione della domanda giudiziale, esecuzione forzata,
ecc). Tutti provvedimenti con una particolare efficacia lesiva. Per questi provvedimenti
basta la semplice colpa, avere agito senza adeguata prudenza.

Responsabilità di più soccombenti.


Se vi sono più parti soccombenti il giudice condanna ciascuna di esse alle spese e ai danni in
proporzione del rispettivo interesse alla causa. Cioè il giudice può diversificare la condanna, può
anche pronunciare condanna solidale di alcune o tutte le parti quando hanno un interesse comune.
Se la sentenza non statuisce sulla ripartizione delle spese e dei danni, questa si fa per quote uguali.

Facciamo un piccolo flashback. Quando una parte agisce in giudizio, abbiamo il rapporto di diritto
sostanziale. Collegata al rapporto sostanziale c’è l’azione, quindi il diritto d’azione, diretto a tutelare
appunto il diritto sostanziale. Al tempo stesso però, come si esercita questo diritto? Nel momento
in cui un soggetto va davanti al giudice, va ad instaurare un rapporto che è di diritto pubblico tra
l’attore e lo Stato, che deve culminare con una sentenza. Cioè in forza di questo rapporto, che
chiamiamo rapporto processuale, l’attore avrà diritto ad ottenere una pronuncia. Ora, secondo lo
schema iniziale di Chiovenda, questa pronuncia di condanna sarebbe stata sempre legata al diritto
sottostante, perché nessuno agisce mai in astratto, ma agisce sempre per far valere un diritto
concreto. Questa tesi entrò poi un po’ in crisi, perché i successori di Chiovenda spinsero a
conseguenze più estreme il ragionamento, cioè sostanzialmente loro dissero che in realtà i rapporti
sono totalmente scissi; non possiamo confondere il diritto di azione (il diritto sostanziale) con il
diritto al processo, perché in effetti succede che nel momento in cui l’attore agisce in giudizio, per
il solo fatto che sta avviando il processo, acquisisce il diritto ad una sentenza che in effetti è
autonomo rispetto al suo diritto di avere accolta la sua domanda sostanziale. Cioè ottiene un diritto
a una sentenza, e questo diritto ce l’ha sia che la domanda venga accolta, sia che la domanda venga
rigettata. Detto in termini più semplici: se l’attore ha ragione o torto lo sapremo solo al termine del
processo, ma il fatto che si venga a sapere solo al termine del processo non vuol dire che non avesse
a monte neanche il diritto di azione. Se ricordate era quella distinzione che avevamo fatto tra
“parte” e “giusta parte”. Questa elaborazione dottrinale porta a distinguere la parte sul piano
processuale, dalla giusta parte che è quella che ha effettivamente il diritto; a distinguere il rapporto
processuale che nasce tra l’attore e il giudice, dal rapporto sostanziale che è regolato dalle norme
del diritto sostanziale.
Precisamente, secondo lo schema di Chiovenda (su cui sono tutti d’accordo più o meno), il diritto a
ottenere la sentenza, quindi il diritto processuale, il diritto dell’attore ad ottenere una pronuncia
del giudice rientra nella famiglia dei diritti potestativi, perché ha il potere di ottenere una
conseguenza (l’emissione di una sentenza) anche se l’altra parte in realtà non lo vuole.
Nello schema di Chiovenda in realtà erano pur sempre collegati processo e diritto. Secondi i
successori si tratta di un errore concettuale, nel senso che lo sappiamo soltanto alla fine del
processo chi ha ragione e chi ha torto, ma il diritto ad ottenere la sentenza esiste lo stesso, tant’è
che la sentenza viene effettivamente emessa. Nelle sue varie versioni, questa CONCEZIONE
ASTRATTA (cioè che distingue il diritto dal processo) è stata scritta in diverse formulazioni. Una
prima dice che questo diritto potestativo al processo consiste nel diritto ad ottenere una pronuncia
“quale essa sia”, cioè indifferentemente, senza porsi il problema se sia di accoglimento o di rigetto.
In una versione più estrema si dice espressamente “anche di rigetto”. Ci furono delle critiche perché
sarebbe difficile immaginare uno che agisce in giudizio per dire “ho torto, rigettami la domanda “,
oppure “emettimi una sentenza quale essa sia”.
La parte agisce sempre IN CONCRETO, per avere diritto in qualcosa. Chi sta usando il Monteleone
leggerà commenti tipo “menti deboli”, che è una parte molto divertente del Monteleone che
sostiene appunto la teoria assolutamente concreta.
A me non interessa se vi piaccia più la teoria astratta o quella concreta, io vi dico come la penso su
questo punto. Secondo me è un problema di punti di vista. Chi segue la visione astratta sta
ragionando dall’astratto al concreto, dal generale al particolare. Se noi in effetti guardiamo la
fattispecie in astratto è vero che c’è un rapporto processuale ed è vero che questo rapporto
processuale lega le parti al giudice, ed è vero che questo rapporto processuale in una certa misura
è svincolato dal rapporto sostanziale, chiedo una sentenza quale essa sia, ed è vero in fondo. Certo
stiamo ragionando però in astratto. Se ragioniamo in concreto è chiaro che non mi posso
immaginare un soggetto che agisca in giudizio per ottenere una pronuncia quale essa sia, ma vorrà
per forza l’accoglimento della sua domanda. Cioè voglio dire che secondo me è un problema di
sistematica. È una questione che non ha secondo me una effettiva rilevanza, però ve la faccio fare
perché intanto da qui parte una distinzione storica che viene riportata in tutti i manuali: quella tra
condizioni dell’azione e presupposti processuali; dall’altro perché voglio che cominciate a cogliere
che esistono diverse visioni del processo, diversi modi di procedere e molto spesso il ragionare
dall’astratto al concreto, dal concreto all’astratto, il ragionare per categorie generali, avere una
visione astratta del processo o avere una visione concreta, potrà portare a conclusioni diverse.
Personalmente, ripeto, io credo che la visione astratta possa funzionare, però in astratto, cioè ci
serve per dare uno schema mentale. Però se pretendo di applicare una classificazione logica alla vita
reale, secondo me commetto un passo ulteriore sbagliato.
Quindi da questo schema della visione astratta nasce una distinzione: tra presupposti processuali e
condizioni dell’azione. I presupposti processuali attengono al rapporto processuale tra parte e
giudice; le condizioni dell’azione attengono ai rapporti relativi al diritto di azione sostanziale.
-CONDIZIONI DELL’AZIONE: Secondo Chiovenda le condizioni dell’azione sono le condizioni di
accoglimento della domanda. Sostanzialmente esse sono: la titolarità del diritto, l’interesse ad agire,
quella che parte della dottrina (Mandrioli) definisce “possibilità giuridica”. Quest’ultima è l’esistenza
della legge che attribuisca il bene della vita richiesto (es. esiste la norma che attribuisce la proprietà,
che riconosce il diritto all’adempimento, ecc).
-PRESUPPOSTI PROCESSUALI: n.b. la trattazione più completa al riguardo la fa Mandrioli, che in
effetti ha una visione più astratta del processo, mentre Balena e Monteleone hanno una visione
concreta. Mandrioli ritiene che presupposti processuali siano quelli che riguardano la regolarità del
processo in astratto, però più precisamente oggi la dottrina li distingue in 2 sottocategorie:
-presupposti di esistenza del processo (qui veramente Mandrioli esagera, devo essere sincero): sono
quegli elementi che devono sussistere prima della proposizione della domanda, affinchè il processo
possa venire in essere. Può sembrare una cosa scontata ed in effetti lo è. Essenzialmente la dottrina
ne individua solo 1: che la domanda venga proposta davanti a un giudice. Altrimenti non nasce alcun
rapporto processuale;
-presupposti processuali tout court (che sono i presupposti di validità o procedibilità del processo):
sono quelli che devono sussistere sempre prima della proposizione della domanda, però non perché
il processo possa nascere, ma affinchè possa giungere alla sua conclusione, quindi la sentenza. Sono
ad es. competenza, capacità, rappresentanza processuale, eventuali condizioni di procedibilità.
Allora, dovrebbero sussistere prima che la domanda nasca, però in molti casi Chiovenda stesso
diceva che se i presupposti processuali (non i presupposti di esistenza, ma i presupposti processuali
veri e propri) sopravvengono nel corso del processo, il processo è comunque regolare. Ricordo per
es. che l’art. 5 c.p.c. oggi sancisce l’irrilevanza dei mutamenti sopravvenuti, ricordate la perpetuatio
iurisdictionis? I mutamenti della giurisdizione e della competenza si determinano con riguardo alla
legge vigente e stati di fatto esistenti al momento della domanda. Non rilevano i mutamenti
successivi. Ma vi ho anche detto che, sulla scorta della corrispondente norma della legge 218/95
(diritto internazionale privato), la giurisprudenza ad un certo punto ha detto che questa norma parla
dei mutamenti che portano via la giurisdizione, non dei mutamenti sopravvenuti che la portano
dentro. Cioè se una causa inizia storta perché la giurisdizione era del giudice amministrativo e io l’ho
proposta per sbaglio davanti al giudice ordinario, ma nel corso del processo sopravviene la
giurisdizione del giudice ordinario, dice la giurisprudenza, viene sanata, si procede. La l.218/95 lo
dice espressamente.
RIEPILOGO
Possiamo quindi chiudere questa introduzione su teoria astratta e teoria concreta. La visione
originaria di Chiovenda era questa: dobbiamo distinguere il diritto di azione, che serve a tutela del
diritto sostanziale, dal rapporto processuale. Il diritto di azione riguarda essenzialmente
l’accoglimento della domanda. Condizioni dell’azione sono per Chiovenda le condizioni per
l’accoglimento della domanda.
Il rapporto processuale è quel diritto potestativo che si ha quando una parte propone domanda ad
un giudice e ha appunto un diritto potestativo ad ottenere una pronuncia del giudice.
I successori di Chiovenda rendono astratta la concezione e dicono che va svincolato il diritto
sostanziale dal rapporto processuale, perché il rapporto processuale mira a ottenere una sentenza
quale essa sia, anche sfavorevole. La critica ulteriore dice che non si possono invece svincolare
perché in realtà è solo un’illusione ottica perché prima del processo vi è solo incertezza, ed è
solamente nel momento in cui abbiamo la sentenza che sappiamo chi aveva ragione e chi aveva
torto, ma non dobbiamo confondere questo con un problema iniziale di “parte” e “giusta parte”; la
parte è quella che agisce, punto. Poi bisogna vedere chi ha ragione e chi ha torto e si saprà soltanto
alla fine. Ma è impensabile che un soggetto agisca in giudizio per chiedere il rigetto della propria
domanda.
La mia opinione, ripeto, è che abbiamo una tesi che guarda le cose in astratto e una tesi che guarda
ai casi concreti, tutto qui.

Capacità di essere parte e capacità processuale


Si tratta di elaborazioni della dottrina italiana sulla scorta di quella tedesca.
n.b: tutte queste discussioni fin qui, queste teorie mi interessano fino a un certo punto. Ve le ho
dovute dare perché in molti manuali ne parlano tanto, e per giungere alla distinzione tra condizioni
dell’azione e presupposti processuali. Però secondo me non hanno una grande rilevanza pratica.
Capacità di essere parte è la trasposizione della capacità giuridica in chiave processuale. La
possiedono tutti coloro che hanno il libero esercizio del diritto. I civilisti hanno la capacità di agire,
noi abbiamo la capacità processuale, che consiste nella capacità di compiere validamente atti
processuali ed è la trasposizione della capacità d’agire; però tendenzialmente coincide con la
capacità d’agire ma può anche non coincidervi, perché possono esserci dei soggetti che siano
incapaci di agire per il diritto civile, ma che possono avere una capacità specifica di compiere alcuni
atti processuali (ad es. il fallito può esercitare alcune azioni anche se in generale è rappresentato
dal curatore, ecc.).
Queste ipotesi da noi, tutto sommato, non hanno una grossissima importanza pratica, purtroppo
però sono nel lessico, ad es. nelle sentenze.
Oltre a questi primi 2 concetti (capacità di essere parte e capacità processuale), vi è un terzo
concetto: la legittimazione ad agire o contraddire. Questo è importante.

Legittimazione ad agire o contraddire


-legittimazione ad agire (o legittimazione attiva ad causam) : è legittimato ad agire in giudizio quel
soggetto cui la legge attribuisce il potere esplicito di agire;
-legittimazione a resistere (o legittimazione passiva).

La capacità di essere parte e la capacità processuale sono concetti in astratto, cioè non riguardano
quella causa specifica; la legittimazione invece riguarda quella causa specifica.
Se noi seguiamo una visione concreta, la legittimazione coincide con la titolarità del diritto.
Se seguiamo una visione astratta, questa coincidenza non c’è. Quindi dobbiamo distinguere la
legittimazione dalla effettiva titolarità del diritto che si potrà scoprire solo alla fine con la sentenza.
Sostenitori della teoria concreta: Chiovenda, Monteleone, un po’ Balena.
Io anche qui ho la mia visione personale, che è stata seguita dalle Sezioni Unite. Nella sostanza,
anche qui, la propensione verso una visione astratta ci porterà a scindere i concetti, mentre una
visione concreta ci porterà a confonderli.

Dove nascono le problematiche interpretative concrete? È una questione di merito o di legittimità?


Se è una questione di pura legittimità vale il principio iura novit curia, se è diversa distinguiamo: se
questa ipotesi specifica è un caso di difetto di legittimazione, siamo nell’ambito dei presupposti
processuali che devono sussistere perché la domanda venga in esistenza o si possa procedere. In
ogni caso, il giudice li potrà rilevare d’ufficio essendo dei presupposti. Se invece sono delle
condizioni per l’accoglimento, saranno soggetti all’onere della prova.
Ora per farvi capire un po’ la problematica, e comprendere in che termini va posta, io preferisco
partire sempre dal concreto (anche se non seguo una tesi concreta).
Ecco, immaginiamo due casi distinti:
- A è amministratore di una srl e B agisce in giudizio contro A per un credito, non considerando
A in qualità di amministratore e dunque rappresentante della società, ma come persona
fisica in proprio, vantando un credito. In questo caso A non sta spendendo il nome della
società durante la causa;
- Caso speculare è quello che vede un parroco stipulare un contratto con la parrocchia nella
qualità proprio di parroco. Ad un certo punto per un problema di adempimento fu citato in
giudizio proprio il parroco, non in qualità di parroco ma in qualità di sg. Tizio, che però intanto
si era spostato in altra parrocchia;
- Caso ancora più paradossale. C dichiara di essere la cugina di Steve Jobs e come cugina
pretende di avere diritto a tutte le azioni a tutela dell’eredità.

Abbiamo tutte ipotesi in cui c’è un vizio evidente, ed in un certo senso si sta verificando la situazione
paradossale che vede la parte affermare in effetti il proprio torto, perchè anche qualora fossero
vere le varie ipotesi sopra viste, come il primo esempio (il credito di B verso A) comunque la causa
la si sta ponendo non contro la società debitrice, ma contro l’amministratore persona fisica, e
pertanto anche nel caso in cui fosse vero tutto quello che afferma B, non esiste una norma che
consenta di attribuire la responsabilità all’amministratore in quanto tale per conto della società.
Dovrà pertanto essere chiamata in giudizio la società. Questo caso rientra nei casi di legittimazione
in senso proprio (legittimazione attiva o passiva).

Immaginiamo adesso quest’altro caso; tizio ha fatto causa a Sempronio (erede di Mevio), per via di
un credito vantato verso il de cuius. Benché il credito fosse esistente, però nel caso di specie
Sempronio aveva rinunciato all’eredità di Mevio. Qui non si discute tanto di legittimità, perché in
effetti l’erede di per sé è effettivamente responsabile per i debiti ereditari, ma il problema è che
Sempronio non è erede! La questione non è una questione di puro diritto, ma è una questione di
fatto. In questo caso durante il processo risulta che agisce un soggetto sicuramente legittimato ad
agire, ma nei confronti di un soggetto che non è titolare del diritto.
Si ha la legittimazione attiva o passiva quando un soggetto afferma di essere quel soggetto cui la
legge attribuisce il potere di agire o di resistere in giudizio. La titolarità del diritto invece attiene al
concreto. Se viene commesso un errore riguardo la qualità, allora a monte si presenta un problema
di legittimazione.
Nel caso dell’amministratore citato in proprio, non è lui il debitore, ma la società. In quanto non
sussiste la responsabilità dell’amministratore solidale, in questo caso è un problema di
legittimazione per via del fatto che non è lui il soggetto a cui la legge attribuisce quel determinato
debito.
Secondo il professore un problema di puro diritto lo chiamiamo legittimazione; mentre un problema
di fatto (o di merito) attiene alla qualità del diritto del rapporto stesso; cioè nella legittimazione
attiva, anche se fosse vero quello che dici, non sei il soggetto a cui la legge attribuisce quel
determinato potere (si rifà agli esempi sopra riportati). Quel determinato amministratore (vedi su)
non è legittimato passivamente, occorre chiamare in giudizio la società.
In questi casi di legittimazione ci ritroviamo dinanzi a pronunce di pura legittimità, ed in fin dei conti
è una pronuncia di rito, nel senso che se tu hai proposto la domanda verso l’amministratore persona
fisica, il tuo credito nei confronti della società è impregiudicato, perchè il giudice sta dicendo
semplicemente: ”guarda tu affermi di avere un credito verso la società ma lo stai indirizzando verso
una persona fisica diversa, quindi sostanzialmente quel debitore è privo di legittimazione. Vai a fare
causa alla società”. Queste sono questioni di qualità, quindi la questione è di merito. Si accerterà
l’inesistenza del credito verso quella determinata persona fisica (amministratore).
Chi segue l’impostazione pratica (credo il prof. intenda dire concreta) dice che la legittimazione
consiste nell’essere proprio il soggetto cui la legge attribuisce quello specifico diritto di azione, o al
contrario quella specifica posizione passiva; però secondo tale visione concreta questa coincide
sempre con la qualità del diritto.
Chi sostiene la teoria astratta invece scinde, e afferma che un conto è la titolarità (cioè se il diritto
c’è o non c’è), un conto è la legittimazione.
In effetti la legittimazione in senso proprio si riferisce a quello che la parte afferma, ad es. tu affermi
di essere amministratore e questo basta per dire che sei legittimato; se poi non lo sei è un altro paio
di maniche in quanto rientra la titolarità del diritto.
L’idea del professore è che è tutto un problema di prospettive, però tale schematizzazione (che non
va esagerata) ha una sua funzionalità perchè serve per distinguere, tutto sommato, un caso di puro
diritto da un caso di fatto.
Chi ha capito questo passaggio ne ha capito più della Cassazione.
Ora, il concetto di legittimazione in effetti non lo ritroviamo nel codice ma abbiamo quello
dell’interesse ad agire all’art. 100 c.p.c.: “Per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è
necessario avervi interesse”.
Una norma così piccola ha creato problemi infiniti. Ma per interesse cosa intendiamo?
Secondo una visione concreta del processo si intenderà sempre un interesse reale, effettivo
all’accoglimento della domanda; se invece partiamo da una visione meramente astratta, sarà un
interesse astratto, un interesse meramente processuale.
Può anche esistere un interesse a ricevere una sentenza qualunque essa sia; viene fatto un
ragionamento estremamente complesso al termine del quale uno studioso dei primi del novecento,
che si chiamava Redenti, affermò che si era trovata la quinta ruota del carro (nel senso che non
serve a nulla).
Insomma, l’interesse ad agire consiste nel fatto che dall’eventuale accoglimento della domanda
comunque si verificherebbe in capo all’attore un mutamento apprezzabile. Che significa mutamento
apprezzabile? Es. due parti stipulano un contratto e, anche in assenza di conflitti e in assenza di
inadempimenti, una parte agisce in giudizio e dice “ma nell’eventualità che Caio fosse inadempiente
questa determinata norma come si interpreterebbe”? Ovviamente si dice che la giurisprudenza non
deve dare pareri, per quello c’è l’avvocato; occorre cioè che il bene intanto sia soggetto ad una
minima lesione, che il bene oggetto di tutela sia effettivamente minacciato e che dall’accoglimento
della domanda si possa avere un mutamento apprezzabile nella sfera giuridica di chi agisce.
Quest’ultima questione ci pone un problema ulteriore; noi abbiamo tendenzialmente tre tipi di
azione:
- Accertamento: azioni con cui si chiede al giudice ad esempio di accertare la nullità di un
contratto;
- Costitutive: sono quelle che costituiscono un diritto (es. azione di annullamento/ azione di
risoluzione. Ma attenzione si discute di mera risoluzione. Qualora di discutesse di risoluzione
per inadempimento occorrerebbe un’azione di accertamento/costituzione come nel caso di
servitù coattiva in seguito ad un passaggio precluso);
- Condanna: azioni con cui si condanna ad esempio a pagare una somma di centomila euro;

Per le azioni di condanna l’interesse c’è sempre, non c’è dubbio. Il problema si pone per le azioni di
accertamento, soprattutto in relazione alla tematica dell’azione di accertamento in negativo.
Immaginiamo questo caso: Tizio richiede al giudice di accertare l’assenza di debiti nei riguardi di
Sempronio (Sempronio non ha posto in essere alcuna azione in tal senso).
In questo caso sussiste un interesse?
Si avrà un’azione di interesse in negativo. Che non è associata ad una richiesta di condanna.

Per fare un altro esempio il professore cita “l’importanza di chiamarsi Ernesto” (commedia teatrale
di Oscar Wilde). Abbiamo in tale commedia una donna che intende sposare soltanto qualcuno che
si chiami Ernesto. Si consideri anche il gioco di parole/suoni Earnest -Honest.
Insomma un altro personaggio innamorato della donna perdutamente si finge “Ernesto”; dopo una
serie di eventi dice di essere figlio adottivo e trova il suo atto di nascita da cui ha contezza del suo
vero nome, che è Ernesto. E a questo punto la donna felice disse che era sicura che lui in effetti non
poteva che essere Ernesto. Un altro personaggio ancora, ossia la signora Augustine mette in dubbio
la veridicità dell’atto di nascita, ma comunque il personaggio afferma che a quel punto aveva
compreso l’importanza di chiamarsi Ernesto.
Perché questo esempio? In questo esempio stiamo ovviamente discutendo del diritto al nome.
Immaginiamo che il soggetto pertanto richieda ad un giudice un accertamento al fine di verificare il
diritto a chiamarsi Ernesto e non Orazio. Di discute pertanto di diritti assoluti.
In questi tipi di diritti c’è una particolarità; che il fatto che un soggetto affermi di chiamarsi in una
determinata maniera prescinde dal come si sia arrivati a quel determinato risultato. Per i diritti
assoluti noi in effetti parliamo di diritti o domande cd. autodeterminate: sono quelle domande che
sono sufficienti a sé stesse, si determinano sulla base della sola domanda.
Nei diritti relativi invece vi è una strettissima correlazione: ad esempio se tizio richiede un
risarcimento dei danni perchè ha un contratto con Sempronio e gli viene attribuito un credito di
diecimila euro. Sempronio gli deve diecimila euro ma non per questo contratto, bensì per un’altra
motivazione. In questo caso non abbiamo lo stesso diritto azionato. In tal caso abbiamo diritti
eterodeterminati perché i diritti relativi sono strettamente collegati alla causa petendi, nel senso
delle ragioni di fatto con cui si è arrivati alla nozione di diritto.
Non solo, i diritti assoluti sono caratterizzati normalmente da un’altra circostanza; richiedono infatti
da parte della collettività semplicemente un obbligo di astenersi. Quindi la tutela riguardo
all’accertamento del diritto al nome è una tutela fine a sé stessa.
Nel caso invece dei diritti di credito non basta tutto questo, perché nei diritti di credito occorre che
qualcuno adempia una obbligazione. Ma se nessuno gli ha chiesto i soldi, hai un interesse oggettivo?
Nelle azioni di accertamento in negativo si ritiene tendenzialmente che se si propone un mero
accertamento negativo queste siano prive di interesse (con riguardo però ai diritti relativi di credito).
Quindi azioni di accertamento in negativo sono sempre ammissibili per i diritti reali assoluti, mentre
si ritiene di no per i diritti relativi (di credito). In certi casi, tuttavia, anche con riferimento a diritti
relativi può sussistere un interesse, e pertanto l’azione sarebbe perfettamente ammissibile.

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