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SULLA DIGNHA
DELLUQMQ
A cum di Francesco Bami

F dazione Pietro Bembo / Ugo Guanda Ed


BIBLIOTECA DI SCRITTORI ITALIANI
diretta da Dante Isella e Giovanni Pozzi
Collezione già diretta da
Dante Isella, Giorgio Manganelli, Giovanni Pozzi

Questo volume è stato pubblicato


con il contributo della
FONDAZIONE CARIPLO

Coordinazione redazionale: Luca Carlo Rossi


Redazione: Luca Carlo Rossi, Davide Profumo

ISBN 978-88-8246-455-4
© 2003 Fondazione Pietro Bembo
Seconda edizione marzo 2007
Terza edizione aprile 2014
GIOVANNI
PICC)
DELLA MIRANDQLA

Dlsconso \
SULLA DIGNITA
DELL*uoMo
A cum di Fmncesfo Bmw'

Fd Pfßmø/Ugc; 454
INTRODUZIONE
La fortuna e la fama di Pico in età moderna riposa-
no in gran parte sulla cosiddetta Oratío de /øomims dz'-
gmìfate, che - tra le opere del Mirandolano - è di gran
lunga Ia più letta, studiata e tradotta; in definitiva,
l'unica (accanto alla grande epistola a Ermolao Bar-
baro sullo stile del discorso filosofico) capace di im-
porsi anche al di fuori della ristretta cerchia degli spe-
cialisti. Destino invero singolare, questo, per uno
scritto cui, a quanto si può capire, Pico non doveva
attribuire un rilievo paragonabile a quello di altre sue
opere di ben maggiore impegno e respiro, quali
Iifieptaplus, il Commento az' Salmi, il De ente et uno e
le Dz'sputatz`one.r adversus astrologíam dz'z›z'mztrz'cem.
L'Omtío venne stesa tra la fine del 1486 e l'inizio del
1487 perché fungesse da solenne prolusione alla di-
sputa romana che, progettata dallo stesso Pico per il
gennaio 1487, avrebbe dovuto sottoporre aIl'esame
di un ampio consesso di dotti le novecento tesi filoso-
fiche redatte per I'occasione dal Mirandolanoz ma il
fallimento deII”ambizioso disegno (determinato dalla
decisa opposizione di teologi e uomini di Chiesa, e
daII'intervento del papa Innocenzo VIII) travolse an-
che l'orazione, che Pico - dopo averne riutilizzata Ia
seconda parte nel proemio deII`/lpologia, composta
nella primavera del 1487 per difendere le tredici tesi
messe sotto accusa dalla commissione pontificia -
non volle né pubblicare, né altrimenti divulgare. La
circolazione deII'operetta, infatti, sembra essere stata
molto limitata, e non oltrepassò, verosimilmente, la
X INTRODUZIONE

cerchia dei più stretti amici delI”autore:1 i contempo-


ranei di Pico non la citano (ad eccezione del Polizia-
no, che la ricorda nella prima centuria dei Miscella-
nea, del 1489)2 e non la copiano (ad eccezione di
Giovanni Nesi, trascrittore di una precedente reda-
zione dell'Oratz'o);3 lo stesso Pico, alI'umanista bolo-
gnese Filippo Beroaldo il Vecchio - che nel 1491 gli
aveva richiesto l'invio di alcune sue opere - si limitò a
spedirgli le due epistole al Barbaro (1485) e a Loren-
zo de' Medici (1486), che già allora andavano affer-
mandosi come gli scritti pichiani più noti e diffusi.
Non solo: quando, appena giunto a Roma, nel di-
cembre 1487 Pico fece stampare le sue novecento

' Così afferma anche il nipote Giovan Francesco, presentando il


testo dell”Oratz'o all'interno della stampa da lui curata delle opere
di Pico (Cofnmenlalíoncr, Bologna, Benedetto Faelli, 1496): «hanc
domi semper tenuerit, nec nisi amicis comunem fccerit›› (citato in
Discorso .tulla dígnílà dcll'u0mo, a cura di G. TOGNON, prefazione
di E. GARIN, Brescia, Editrice La Scuola, 1987, p. 1).
2 L'Orazi0 è ricordata dal Poliziano in chiusura del primo capi-
tolo dei primi Miscellanea, a proposito dell'accordo tra la filosofia
di Platone e quella di Aristotele: «quod et Picus hic Mirandula
meus in quaclam .tuarum dz'.t]›utatz`0nu/n praefatzbne tractavit» (Ope-
ra omnia, p. 227).
I Di mano del Nesi (come segnalato da B/\(I(1I IELLI, Gz'oz/anm'P1'-
co, p. 56) è infatti la copia dell`Oratz`0 contenuta nel ms. Palatino 885
della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, che ospita una reda-
zione anteriore a quella definitiva (cfr. qui la Nola al te_vl0): lo confer-
ma senza ombra di dubbio il confronto con altri mss. autografi del
medesimo Nesi, come il 384 e il 2962 della Biblioteca Riccardiana di
Firenze, contenenti rispettivamente l”Oraculufn de novo saeculo e le
rime. Sul Nesi (145 6-dopo il 1522) cfr. VASOLI, Giovanni Nesi. Va ri-
cordato che l'Oraculum de novo saecalo (datato settembre 1496,
uscito a stampa nel maggio 1497 e parzialmente edito ibid., pp. 1 1o-
28) introduce Pico quale «apologista del Savonarola e annunziatore
del mirabile destino di Firenze, della Cristianità e di tutto il genere
umano›› (z`bid., p. 54), ed è ricco di reminiscenze pichiane (dall'Ora-
tio e, soprattutto, dall'epístola a Ermolao Barbaro del 1485).
INTRODUZIONE XI

Conclusione: (sulle quali avrebbe dovuto vertere la


pubblica discussione organizzata per il mese successi-
vo), egli non si curò di farle precedere dall”Oratz'0, al-
la quale, evidentemente, non annetteva una specifica
e particolare valenza teorica, ma solo una retorica
funzione introduttiva, secondo le regole e le consue-
tudini delle prolasíones solitamente scritte e pronun-
ciate in simili circostanze. L`orazione, insomma, non
avrebbe dovuto essere oggetto di dibattito: e infatti,
né su di essa si concentrò in alcun modo l'interesse
dei membri della commissione d'inchiesta istituita
dal papa (ai quali, con ogni probabilità, il testo rima-
se sconosciuto), né Pico la chiamò mai in causa quan-
do, per difendersi dalle accuse rivoltegli, stese la sua
densa e agguerritissima /lpología. All›interno della
quale, per di più, egli recuperò, come si diceva, solo
la seconda parte dell'Oratz'0 (quella, appunto, pole-
mica e apologetica), trascurando completamente la
prima, quella incentrata sull'esaltazione della dignità
e della libertà umana che tanto ha entusiasmato i mo-
derni interpreti. Solo due anni dopo la morte di Pico,
nel 1496, l'orazione vide la luce, all'interno della sil-
loge delle opere pichiane curata e pubblicata a Bolo-
gna dal nipote Giovan Francesco; il quale le impose
l'anodino titolo di Oralio quaedafn clcgantz'ssz'fna, e la
inserì, insieme alle epistole, fra gli scritti prettamente
letterari e filosoficamente meno impegnati di Pico
(«lucubrationes levioris curae opera››), assegnandone
la stesura - e quella, connessa, delle novecento tesi -
all'età giovanile, dominata, a suo dire, da quel gusto
della disputa che presto avrebbe lasciato il posto a
studi più approfonditi e a opere più meditatef'

I Da ricordare anche il giudizio che, nella Vita dello zio, lo stes-


so Giovan Francesco dà dell'Oratz'o, prcscntandola come un testo
XII INTRODUZIONE

Questi meri ma pur significativi dati di fatto già


dovrebbero, anche a prescindere da ogni altra consi-
derazione, mettere in guardia contro le interpretazio-
ni indebitamente modernizzanti e attualizzanti cui
l'Oratio è stata più volte sottoposta nel diciannovesi-
mo e nel ventesimo secolof da parte di chi ha voluto
fare di questo testo ora il manifesto del Rinascimento,
ora l`atto di nascita di una moderna (ossia laica e im-
manentistica) concezione dell'uomo, ora il punto di
partenza della rivoluzione scientifica di Copernico,
Keplero e Newton, ora la prima espressione di una
concezione pluralistica della cultura, ora - nienteme-
no - l'anticipazione della critica marxista o delliesi-
stenzialismo sartriano. Certo, dopo studi fondamen-

«quae non tam iuvenis, quartum et vicesimum annum nondum na-


ti, perspicacissimum ingenium et doctrinam uberrimam redolet
(quod et cunctae ipsius scriptiones faciunt), quam fertilissimae
ipsius eloquentiae locupletissimum nobis testimonium praebet››
(z'l›z'd., p. 54).
5 Particolare fortuna ebbe l'Oratío, soprattutto, negli anni tra le
due guerre mondiali, quando una risonanza tutta speciale acquista-
vano, naturalmente, i temi della dignità e della libertà umana: cfr.
C. C/\RIìNA, ll .tignzficam a'ell'0razi0nz' .falla dignità clell'a0mo, in-
troduzione a De hoininir dignilate. La dignzhì dell'u0m0, a cura di
C. CAREN/\ e V. BR/\N(I/\, Milano, Silvio Berlusconi Editore, 1995,
p. XXIX; e E. GARIN, Introduzione a Oratio dc /pomini; dignitale,
Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1994, p. XXIII; II)., Prolurione,
pp. XLV e LI («Fra il 1936 e il 1942 escono in Italia due edizioni
complete c una parziale del testo latino della Oratio sull`uomo, tut-
te con traduzione a fronte, due traduzioni inglesi e una tedesca,
per non dire delle edizioni e traduzioni che si affollano negli anni
successivi. E questo dopo un`assenza secolare. E difficile non ri-
cordare che sono gli anni del trionfante razzismo nazista e fascista,
della seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze. Sarà stata
un`illusione di spiriti ingenui, come dicono avvertiti critici d'oggi.
Allora colpì quell'impetuosa difesa dell`uomo come punto di asso-
luta libertà, quella volontà di pace universale, quella fede nei valori
della cultura, quella sdegnosa condanna di ogni mistificazione re-
torica››).
INTRODUZIONE XIII

tali come quelli di Di Napoli, De Lubac, Craven,


Roulier e Reinhardt (per citare soltanto i maggiori),
appare chiaro che le gracili spalle di un testo come
l'Oratz'o mal sopportano simili oneri; e che la fortuna
moderna dell'orazione, nonché il successo riscosso
dalle sue interpretazioni più arditamente attualizzan-
ti, si devono in buona parte (ma in modo del tutto
improprio, visto che - ripeto - l'Oratio non venne
colpita dalla censura della commissione pontificia, né
anzi fu mai oggetto di discussione) all'aspro contrasto
che oppose Pico alle autorità ecclesiastiche, facendo-
ne agli occhi di alcuni tra i moderni il «primo di tanti
campioni del laicismo e del progresso, vittima della
libertà di pensiero e di espressione>›.(°
Per accostarci a una considerazione storica dell'0-
ratio bisogna in primo luogo tenere presenti le sue vi-
cende redazionali ela sua destinazione originaria. Co-
me si diceva, il testo fu concepito da Pico per essere
recitato in apertura della disputa filosofico-teologica
da lui organizzata a Roma per l°inizio del 1487, e ap-
partiene al fortunato genere umanistico della prolu-
sione, solitamente strutturata in due parti: la prima di
carattere generale (imperniata su un tema di ampio
respiro scelto dallloratore), la seconda più specifica-
mente dedicata a illustrare le finalità, il metodo e l'ar-
gomento del corso universitario o della discussione
pubblica che ci si accingeva a inaugurare.7 Il testo del-

I* Sono parole di CARENA, Ilsignzfieato dellbrazione, Cit., p. XXVIII.


7 Cfr. KRlS'I`I;LLIiII, Sources, pp. 52-53; DE LUBAC, Pico, p. 49;
CRAVEN, Un caro, pp. 82-83. In generale sulla prolusione umanisti-
ca cfr. SABBADINI, Il metodo, pp. 35-38; FLIIA, Prolzlemz', pp. 536-
38. Significative, sotto questo aspetto, sono ad esempio le prolusio-
ni redatte dall'umanista fiorentino Bartolomeo Fonzio per i corsi
da lui tenuti presso lo Studio fiorentino negli anni ”8o del Quattro-
cento (cfr. al riguardo TRINKAUS, /l Ilumanirtfv Image).
XIV INTRODUZIONE

l'orazione che oggi noi leggiamo si conforma solo par-


zialmente a questo schema, giacché Pico, arrivato a
Roma alla fine di novembre del 1486, decise nelle set-
timane seguenti di aggiungere alla primitiva e già con-
clusa stesura dell'Oratío (passata anch°essa almeno at-
traverso due fasi redazionali) una lunga appendice -
tale da costituire circa la metà del testo attuale, e cor-
rispondente ai §§ 143-268 della presente edizione -
per replicare alle critiche prontamente mossegli da al-
cuni suoi avversari: occuparsi di filosofia, aver orga-
nizzato una disputa filosofica pubblica, essere troppo
giovane per un'impresa tanto ardua, aver proposto al-
la discussione un numero eccessivo di tesi.8 L°inseri-
mento di questa sezione - che, come già abbiamo det-
to, venne poi inclusa da Pico, con poche modifiche,
nella parte iniziale dell'/lpologia - alterò sensibilmen-
te lo studiato equilibrio e il compatto impianto origi-
nario dell'operetta, snaturandone la struttura di pro-
lusione divisa in due parti: una prima, più ampia, de-
dicata alla proclamazione della dignitar bofninir e alle
lodi della filosofia (§§ 1-1 Io della redazione palatina,
trasmessa dal già ricordato ms. Palatino 885 della Bi-
blioteca Nazionale Centrale di Firenze e corrispon-
dente a una fase anteriore a quella definitiva); una se-
conda, più breve (§§ 111-134 della medesima reda-
zione), occupata da una sintetica esposizione del cri-
terio seguito da Pico per stendere le tesi sottoposte al-
la discussione (spaziare per tutti i pensatori e per tutte
le scuole filosofiche) e dell'obiettivo da lui assegnato
alla disputa (avvicinarsi alla verità attraverso il con-
fronto e lo scontro, anche aspro, delle opinioni).

8 Per la storia redazionale dell`Oratz'o cfr. qui la Nota al texto,


pp. 176-81.
INTRODUZIONE XV

Ricondurre l'Oratz'o al suo primitivo genere di ap-


partenenza (la prolusione umanistica) non significa
ridimensionarne l'importanza, né ridurla, come talo-
ra è stato fatto, ad una semplice e vuota esercitazione
retorica; ma consente di evidenziarne quel carattere
occasionale che agli occhi di Pico - evidentemente -
essa non cessò mai di avere, tanto da rimanere per
sempre chiusa nel suo cassetto una volta tramontato
il progetto della disputa romana. A questo progetto,
in effetti, l'orazione è inscindibilmente legata: da ciò
derivano le sue peculiari caratteristiche, che non sono
quelle di un trattato filosofico, ma piuttosto quelle di
un discorso eloquente e solenne, in cui lo svolgimen-
to del pensiero è affidato a una forma letterariamente
e stilisticamente accattivante, ad un”esposizione più
brillantemente poetica che teoricamente rigorosa e
serrata. L'Oratz'0, insomma, non è (e non era per il
suo autore) un testo dotato di una propria autonomia
teorica; è un testo pensato per la pubblica recitazio-
ne, in un°occasione di particolare solennità, che per
Pico avrebbe dovuto tradursi anche nella consacra-
zione ufficiale della sua prodigiosa competenza lette-
raria, filosofica e teologica. Di qui l`esordio immagi-
nifico dell'orazione (con le parole di Dio ad Adamo,
e la singolare, ardita rivisitazione della scena iniziale
del Genesi), di qui la densa elaborazione stilistica e
retorica del dettato, di qui il ricchissimo apparato di
fonti dispiegato nel corso dell'operetta. Ma altro è
apprezzare questi aspetti, altro è sopravvalutare -tra-
scinati dallI«alato messaggio››9 di Pico - la portata e
la novità filosofica dell'Oralz'o.
Come è noto, il titolo Oratio de /ao/ninir dignitate

9 La definizione è del DI NAPOLI, Giovanni Pico, p. 292.


XVI INTRODUZIONE

non è originale, e compare perla prima volta nell”edi-


zione di Strasburgo del 1504.10 Esso, per di più, non
corrisponde esattamente al contenuto dell'intera ope-
retta, ma solo a quello della sua parte iniziale (§§ 1-5o
della redazione definitiva), in cui Pico esalta la libertà
delliuomo come possibilità, concessagli da Dio, di
plasmare autonomamente la propria natura e il pro-
prio destino;“ il resto dell`orazione sviluppa invece
l'elogio della filosofia (§§ 51-142), per poi lasciare
spazio all'autodifesa dalle accuse dei detrattori, all'in-
terno della quale vennero inseriti, con qualche modi-
fica, anche i passi che nella stesura originaria illustra-
vano i modi e i fini della disputa. E proprio la parte
iniziale quella che ha attirato maggiormente l'atten-

'° Cfr. ancora la Nota al testo, p. 174.


" Ciò non toglie che il tema della digní/ai /aominix rivesta una
notevole importanza nella riflessione di Pico, e torni più volte nei
suoi scritti, dall'Heptaplux (IV 5; V 6-7; VII prooemium, p. 332:
«Audiamus igitur sacros theologos dignitatis nostrae nos admo-
nentes››) al Commento aiSal/ni (cfr. ad esempio p. 74: <<Hosti pe-
percisti, Domine, et inter terrestris tuae militiae munera nos iterum
collocasti, poenitentiae sacramento in pristinam libertatem dignita-
temque restitutos››; e p. 164: «ad id cohortans, ut integram retinea-
mus humanam dignitatem››), dall'epistolario (lettera al nipote Gio-
van Francesco del 15 maggio 1492: «obliti propriae dignitatis››:
Commentationes, f. RR iii U = Opere complete, epistole di Pico, I)
alle Duodeei/n arma _rpiritualir pugnae (VIII: «hominis dignitas et
natura») c all'esposizione del Padre noslro («Si ergo consideraveri-
mus quod magna dignitas est ct felicitas vivere sine peccato, [...]
erit hoc nobis magnum incitamentum, ne aut propter momenta-
neam voluptatem, aut rem aliquam huius mundi, in quo nihil pote-
st esse quod non sit parvum et breve et nobis commune cum bru-
tis, tantam dignitatem et felicitatem amittamus››). Questi ultimi
due scritti (insieme al commento al salmo XV e alle altre operette
spirituali di Pico: le Duodecim regulae, le Duodeeim conditioner
amanti: e - par di capire - la Deprecaloria ad Deum) sono ritenuti
apocrifi - ma su fragilissimi fondamenti - da FARMER, Syneretirm,
pp. 166-69 (cfr. qui anche nota 75).
INTRODUZIONE XVII

zione dei lettori moderni, propensi in molti casi a ve-


dervi l'espressione di un'antropologia tutta terrena e
immanentistica; ma basterebbe, a mettere in guardia
da una simile interpretazione, osservare non solo che
(come rilevò il Kristeller) le parole di Dio ad Adamo
si collocano anteriormente alla caduta di quest'ulti-
mo (e quindi non riguardano l`uomo menomato dal
peccato originale),12 ma anche e soprattutto che la li-
bera scelta di cui tratta Pico comporta l'assunzione di
una precisa reponsabilità morale. In altri termini, è
evidente che la scelta presuppone una norma, una
legge divina cui l'uomo ha la liberta di ottemperare o
di ribellarsi: non ogni scelta è ugualmente buona e le-
gittima (qualunque relativismo etico è estraneo a que-
sta pagina come all'intera opera di Pico), buona e le-
gittima essendo solo quella che porta l'uomo alla
conoscenza di Dio e alla piena identificazione con
lui.'3 L”uomo può scegliere di non conformarsi al

'2 KR1sTi:LLE11, Sources, p. 5 3.


'I Cfr. ad es. R()ULIER,]ean Pic, pp. 444-45, 448 (dove si afferma
che l'uomo «n`est pas sa propre norme, et sa volonté ne crée pas la
valeur; elle l'actualise seulement››). E già KIIISTELLILII, La dignità
delfuomo, p. 18, sottolineava che per Pico «scegliere la propria na-
tura fra molte potenzialità non significa che tutte le scelte siano
ugualmente buone e desiderabili. Al contrario c'è un chiaro ordine
e rango fra queste possibilità, ed e compito e dovere dell`uomo sce-
gliere la forma più alta di vita a lui accessibile. La dignità dell`uo-
mo consiste nella sua libertà di scelta, perché le diverse possibilità
che gli si aprono includono la più alta; la sua dignità è perciò pie-
namente realizzata soltanto quando è scelta la più alta possibilità››;
e pp 18-19: «È evidente che egli [reil Pico] non intende suggerire
che la natura umana - in ognuna delle sue forme date - 0 la scelta
umana - in ognuna delle sue varietà - siano ugualmente valide e
capaci di accrescere la dignità umana. Il pensiero di Pico si svolge
piuttosto nei termini di alternative morali e intellettuali. L'eccellen-
za dell'uomo si realizza soltanto quando egli sceglie le forme più al-
te di vita morale e intellettuale a lui offerte, e questa eccellenza ap-
XVIII INTRODUZIONE

progetto divino, e di assecondare la parte vegetativa o


sensuale del suo essere: ma così facendo uscirà dal-
l'0rbita a lui assegnata (§ 81), ossia peccherà, e ne pa-
gherà tutte le conseguenze, abbassandosi al livello di
una pianta o di un animale bruto.“ La libertà umana
consiste dunque nel libero arbitrio, che consente al-
l'uomo di accettare volontariamente quell'ordine di-
vino cui tutte le altre creature sono invece rigidamen-
te vincolate. 15

pàrticne alla sua natura soltanto nel senso che questa natura inclu-
de fra le sue potenzialità quelle forme più alte di vita››. Cfr. anche
PICO, Commento sopra una canzona, II 26, p. 530: «nell”anima no-
stra, la quale è per natura libera, e puossi volgere e alla sensibile
bellezza e alla intelligibile».
"I Cfr. I-Ieptaplus, IV 5, p. 280: <<[propheta] ad eas se transfert,
quorum opus appetere, irae videlícet et libidinis, idest concupi-
scentiae, sedes. Has per bestias designat et irrationale genus viven-
tium, quia sunt nobis cum bestiis communes et, quod est infelicius,
ad brutalem saepe nos vitam compellunt [...] ut non sit creditu dif-
ficile paradoxon Pythagoricorum, si recte intelligatur, improbos
homines migrare in bruta. Intus enim atque in nostris adeo visceri-
bus bruta sunt, ut non procul peregrinandum sit ut migremus in il-
la››; e Commento ai Salmi, p. 152. Alla luce di tutto questo, ROU-
L1ER,]ean Pie, p. 493, osserva giustamente che la dignitas non è una
prerogativa e una proprietà data all'uomo una volta per tutte, ma
una realtà che egli deve conquistare giorno per giorno, esercitando
rettamente il suo libero arbitrio e lottando contro le forze che osta-
colano la sua unione con Dio.
'5 Cfr. O. BOULNOIS, Humanixme et dignité de l'/øomme selon
Pic de la Mirandola, in JEAN Plc DE LA Min/\NDoLE, Oeuvrm- phila-
rop/aiz/uer, p. 336: «La dignité de l'homme atteint paradoxalement
son comble lorsque cet être atteint librement la destination qui lui
a été assignée par la nature». Si tratta, in fondo, del paradosso cri-
stiano della `libera servitù) (l'uomo è veramente libero - perché li-
bero dal peccato, che è la vera schiavitù - quando si assoggetta
spontaneamente e senza riserve alla volontà divina e all`ordine na-
turale delle cose), recuperato e riproposto, in àmbito neoplatonico,
da Marsilio Ficino, da Lorenzo de' Medici e dallo stesso Pico nel
Commento sopra una eanzona (I 24, p. 517): «Di qui si può inten-
dere che al fato non sono sottoposte se non le cose temporali, e
INTRODUZIONE XIX

Sono, queste, considerazioni quasi ovvie, su cui


non sarebbe neppure il caso di soffermarsi se intere
generazioni di interpreti, forzando la mano al testo
(e, insieme, al complesso dell'opera pichiana), non
avessero proposto letture inopportunamente attualiz-
zanti di una pagina in sé trasparente, anche se am-
mantata dei veli di una retorica che può trarre in in-
ganno il lettore meno avvertito. Identiche riflessioni
possono farsi a proposito del ruolo riservato da Pico
alla grazia nel processo di innalzamento dell'uomo
verso Dio; a quanti ne hanno negato o comunque ri-
dimensionato l'importanza, vedendo teorizzata nel-
l'Orati0 una sorta di titanica e prometeica (o addirit-
tura pelagiana)“” capacità di autodeterminazione,

queste sono quelle che sono corporee; e però, essendo l'anima ra-
zionale incorporea, non è sottoposta al fato, anzi domina a quello,
ma bene è sottoposta alla providenzia e serve a quella; il quale .rer-
vire e una vera liberta, perché, sc la voluntà nostra obbedisce alla
legge della providenzia, e da lei guidata sapientissimamentc alla
consecuzione del suo desiderato fine; e ogni volta che da questa
servitù si vuole liberare, si fa di libera veramente serva, e fassi
schiava del fato, del quale prima era padrona, perche il deviare dal-
la legge della providenzia non è altro che lasciare la ragione e se-
guire il senso e l'appetito irrazionale, el quale è sottoposto al fato
per essere di natura corporeo; e però chi a lui si sottopone, molto
più si fa servo di colui di cui esso è servo›› (e anche III 2, p. 537:
«né mai ritiene la natura inferiore la sua libertà, se non quando del-
la superiore a sé è interamente serva; però convenientemente si
sottopone el nostro poeta alla violenzia dello amor celeste, cogno-
scendo in lei libertà grandissima»). Sulla questione cfr. M/\R'l`I-ILLI,
Proodor ea' epirtrop/né, pp. 1247-56.
If' Cfr. da ultimo BUCK, Ifantropologia, p. 10, che parla, riguardo
all'Omti0, di «una deifica'/.ione <lell'uomo che non tiene conto del-
la macchia del peccato originale e della necessità della grazia divi-
na», e di «una redenzione ad opera dell'uomo fondata [...] sulla fi-
ducia umanistica nella perfettihilità della natura umana attuabile
con le proprie forze» (ma basti, al riguardo, rinviare al coevo Com-
me///o .ro/mi una eanzona, III 4, p. 540, dove la caduta di Adamo è
imputata alla sua «cupidità di assomigliarsi perla scienzia del bene
XX INTRODUZIONE

basterebbe ricordare il proemio al settimo libro


dell'Heptaplus (il commento ai primi ventisette ver-
setti del primo capitolo del Genesi, composto e dato
alle stampe nel 1489), in cui Pico distingue tra la feli-
cità naturale (raggiungibile dall”uomo con le forze
della sua sola ragione) e la felicità soprannaturale, alla
quale soltanto Dio può elevarci." Ma è sufficiente
anche considerare un breve passo della stessa Orario,
appartenente al discorso rivolto da Dio ad Adamo:
«Poteris in inferiora, quae sunt bruta, degenerare;
poteris in superiora, quae sunt divina, ex tui animi
sententia regenerari» (§ 23). Passo ove non sfuggirà
la distinzione sottile ma fondamentale fra l'attivo de-
generare e il passivo regenerari, che presuppone l”in-
dispensabile intervento della grazia per la rigenera-
zione dell'uomo,"* come lo stesso Pico ribadisce
tanto nell'Heptaplur,'9 quanto nel Commento ai Sal-

e del male a esso Dio, e quasi per questa via dal suo governo, come
di quello non più bisognoso, liberarsi››). Il pelagianesimo era la set-
ta eretica che negava la necessità della grazia per la salvezza del-
l”uomo (cfr. il mio commento a U. VERINO, Epigrammi, Messina,
Sicania, 1998, pp. 249-51: epigr. Il 8, intitolato Qi/od bominer libe-
ro arbitrio, .tine Dei gratia, Coelum mereri neø/ueant, et quomodo
procedatur).
'I Cfr. Ileptaplui', VII, prooemium, pp. 324-26: «Est autem feli-
citas (ut theologi praedicant) alia quam per naturam, alia quam per
gratiam consequi possumus. Illam naturalem, hanc supernatura-
lem appellant››, E cfr. al riguardo DI NAPOLI, Giovanni Pico, pp.
411-12, e DF. LUBAC, Pico, pp. 118-19; e qui anche le note 18 e 2o.
I” Cfr. V/\I.(lKE-G/\LIB()IS, Le periple intelleetuel, pp. 1 1o-12,
170, 175-76; e già DE LUBAC, Pico, p. 116. Cfr. inoltre MAILSILIO FI-
CINO, De raptu Pauli (in Prosatori latini, p. 966): «Ama ante omnia
Patrem illum quo feliciter generaris, felicius regenerarir». La rige-
nerazione è anche un tema ermetico: cfr. Corpus Her/neticum, XIII
1-7.
19 <<Verum sicut omnes in primo Adam, qui oboedivit Sathanae
magis quam Deo, cuius filii secundum carnem, deformati ab homi-
ne degeneramur ad brutum, ita in Adam novissimo Iesu Christo
INTRODUZIONE XXI

mi.2° E ancora nell'Heptaplus si possono rintracciare


altre analoghe e non meno chiare formulazioni del
medesimo concetto, fondate sull”antitesi fra la possi-
bilità dell”uomo di degenerare autonomamente in un
animale bruto, e l'impossibilità per lui di innalzarsi
verso Dio senza il suo gratuito intervento."
D”altronde, l`idea chela dignità dell'uomo consista
essenzialmente nella sua libertà (cristianamente inte-
sa nel modo qui sopra sommariamente esposto) con-
ta numerosi precedenti nella tradizione patristica e

qui voluntatem Patris implevit et suo sanguine debellavit nequitias


spiritales, cuius filii omnes secundum spiritum, reformati per gra-
tiam regeneramur ab homine in adoptione filiorum Dei, si modo ut
in illo ita in nobis princeps tenebrarum et mundi huius nihil inve-
nerit>> (I-Ieptaplux, IV 7, p. 286).
2° «Tum vero id maxime facit theologica scientia ad maiora nos
provehens et non solum ad id cohortans ut integram retineamus hu-
manam dignitatem neve ab homine degenerefnur in brutum, sed ut
sancta aemulatione divinarum mentium [...] ex terrenis hominibus
in coelestes homines regenereønum (Coznmento aiSal/ni, p. 1 64).
2' «Ad hanc [cioe alla felicità soprannaturale] angeli attolli qui-
dem possunt, sed non possunt ascendere. Quare peccavit Lucifer
dicens: “Ascendam in caelum”. /ld hanc ire homo non potert, tra/91
poteri; unde Christus de se, qui est ipsa felicitas, dixit: “Nemo ve-
nit ad me nisi Pater meus traxerit illum". Bruta autem et quae infra
hominem, nec ire nec trahi ad illam possunt. Ideoque solus homo
et angelus ad eam sunt facti felicitatem, quae est vera felicitas. Po-
test vapor conscendere in altum, sed non nisi attractus radio solis;
lapis et corpulenta omnis substantia neque radium usque quaquam
admittere neque per illum tolli in sublime potest. Ilunc radium,
hanc vim divinam, hunc influxum, gratiam appellamus, quia Deo
et hominem et angelum gratos efficiat›› (Heptaplui, VII prooe-
mium, pp. 332-34); «Tales enim sumus natura, ut non circumagere
nos et reflectere, sed eireumagi motrice vi gratiae et reflecti in
Deum possumus. I-Iinc illud: “Qui aguntur Spiritu Dei filii Dei
sunt”. Qui aguntur dixit, non au/em qui agunt» (i/aid., pp. 334-36);
«Ab hac [ici/. dalla felicità soprannaturale] cecidit daemon, quo-
niam ad illam ascendere, non rapi, voluit›› (ibid, p. 336). Aggiungi
anche Commento ai Sal/ni, p. 128: «tu es qui trahes ad me te per
gratiam tuam››.
XXII INTRODUZIONE

medioevale;22 accenni alla natura indeterminata del-


l'essere umano (passibile per questo delle più diverse
metamorfosi) si rintracciano - oltre che, ancora, nella
letteratura patristica - nel pensiero ermetico e in
Marsilio Ficino;23 e la stessa celebrata scena iniziale
dell'Oratio, con le parole rivolte da Dio ad Adamo
(dove si proclama il libero arbitrio dell'uomo), trova
un precedente importante in un passo degli Stromaia
di Clemente Alessandrino (IV 23, 150), di cui l`esor-
dio del discorso pichiano può essere considerata la
drammatizzazione:

22 Cfr. GARIN, La dignitax hominis; DE LUBAC, Pico, pp. 179-82;


DALES, A Medieval View; ROULIER, jean Pie, pp. 450-51; BOUL-
NOIS, Humanisme et dignite, cit., pp. 319-23.
ZI Cfr. ./lrelepiut, VI, p. 302: «omnia illi licent››; FI(:IN(›, T/oeol.
Plat., XIII 2: «facultas illa rationalis, quae propria est animae verae
natura, non est ad aliquid unum determinata, nam libero motu sur-
sum deorsumque vagatur». E, anche per il tema delle metamorfosi,
i/Jid., XIV 3: «Vitam siquidem [animus] agit plantae, quatenus sa-
ginando indulget corpori. Vitam bruti, quatenus sensibus adulatur.
Vitam hominis, prout de humanis negotiis ratione consultat. Vitam
heroum, quantum naturalia investigat. Vitam daemonum, prout
mathematica speculatur. Vitam angelorum, prout divina inquirit
mysteria. Vitam Dei, quantum Dei gratia omnia operatur. Omnis
hominis anima haec in se cuncta quodammodo experitur, licet ali-
ter aliae, atque ita genus humanum contendit omnia fieri, cum om-
nium agat vitas» (il passo precede immediatamente la citazione del
detto di Ermete «magnum miraculum est homo», riferito anche da
Pico al § 2 dell'Oratio); e sempre del Ficino, cfr. il commento all'./l-
tele/:ius (Opera, vol. II, p. 1860), dove si afferma che la «divinae in-
telligentiae obumbratio [...] malitiam parit, et transformat homi-
nem, natura quidem optimum et tlivinum animal, in naturam fere
moresque bestiarum››. Da ricordare anche il passo del De eoniectu-
ris di Niccolò Cusano citato dal DE LUBAC, Pico, pp. 214-15: «Re-
gio ipsa humanitatis Deum atque universum mundum humanali
sua potentia ambit. Potest igitur homo esse humanus Deus atque
Deus humanatus potest esse humanus angelus, humana bestia, hu-
manus leo aut ursus aut aliud quodcumque. Intra enim humanita-
tis potentiam omnia suo existunt modo›>. Per il Ficino cfr. VASOLI,
Il/Iarrilio Fieino e la «dignitas hominis», pp. 74-89.
INTRODUZIONE XXIII

Dunque l`uomo, genericamente, è foggiato secondo la


rappresentazione dello «spirito innato››: poiché non sen-
za rappresentazione o senza forma avviene la creazione
nella «officina della natura››, ove si compie misteriosa-
mente la generazione dell'uomo, e dove sono una cosa
sola l`arte e l'essenza, ma il singolo uomo è caratterizzato
dall'impronta, che si forma nell'anima, delle sue scelte.
Così noi diciamo che anche Adamo, per quanto attiene
alla sua formazione fu un essere perfetto, perché nulla gli
mancò di ciò che caratterizza la rappresentazione e la
forma dell'uomo. Ma quello che nel nascere riceveva la
sua forma perfetta ed era giustificato dall'obbedienza,
era il suo libero volere che doveva farsi adulto: per la
«responsabilità di chi sceglie», e ancor più se sceglie ciò
che è vietato, «Dio è senza colpa».24

Considerazioni non diverse sono suggerite dal pro-


sieguo dell”Oratio, dove Pico, come si diceva, tesse le
lodi degli studi filosofici. Anzi, è stato da più parti
giustamente osservato come il vero tema del discorso
sia proprio l'elogio della filosofia, rispetto al quale la
celebrazione della dignitas e della libertas dell'uomo
costituisce solo il necessario preambolo. La natura
multiforme e composita dell'essere umano (nodo e
vincolo di tutte le nature e di tutte le creature, sintesi
mirabile del mondo terrestre o sublunare, di quello
celeste e di quello intelligibile o angelico),25 se costi-
tuisce una delle principali ragioni della sua eccellen-
za, è altresì fonte di dissidi e discordie interiori,
secondo quanto Pico, citando Empedocle, afferma
nell'Oratio (§§ 85-87):

24 Ila attirato per primo l'attenzione su questo passo Dlì LUB/\(1,


Pico, pp. 181-82; secondo BOULNOIS, I-Iuinanirnze et dignité, cit.,
pp. 308-309, si tratta probabilmente della fonte diretta di Pico.
25 Cfr. Oratio, § 3; Heptaplus, aliud prooemium, p. 192.
XXIV INTRODUZIONE

I-Iic duplicem naturam in nostris animis sitam, quarum


altera sursum tollimur ad celestia, altera deorsum trudi-
mur ad inferna, per litem et amicitiam, sive bellum et pa-
cem, ut sua testantur carmina, nobis significat. In quibus
se lite et discordia actum, furenti similem, profugum a
diis in altum iactari conqueritur. Multiplex profecto, pa-
tres, in nobis discordia; gravia et intestina domi habe-
mus, et plusquam civilia bella.

Il libero arbitrio, contrassegno supremo dell'umana


dignitas, recando con sé la responsabilità etica della
scelta, acuisce la drammaticità di quest'intimo con-
flitto, dal quale viene a dipendere il destino mondano
e oltremondano dell”uomo.2° A tale conflitto soltanto
la filosofia, nelle sue varie parti, può porre fine, se-
dando con la morale gli appetiti dei sensi, vanifican-
do con la dialettica gli inganni del discorso e del ra-
gionamento, placando con la scienza della natura i
dissensi delle vane e molteplici opinioni; il tutto nella
consapevolezza che solo il quarto e ultimo gradino
della conoscenza, la divina teologia, può - innalzan-
doci dalla terra al cielo - donarci la piena e autentica
pace dell'animo (§§ 88-93). Per elevarsi dalla terra al
cielo, l'uomo, scrive Pico, deve prendere a modello le
più alte gerarchie angeliche (Troni, Cherubini e Sera-
fini), giungendo infine a quell'ardente amore serafico
che consente l'immediata identificazione con la divi-
nità; ma poiché nessuno può amare ciò che non co-
nosce, viene nuovamente ribadito il ruolo centrale
della filosofia, e soprattutto - in quest'ottica - di
quella naturale (da cui scaturisce la conoscenza del
mondo in quanto opera di Dio, e di quel microcosmo

28 Cfr. ROULIER, ]ean Pie, pp. 448-49.


INTRODUZIONE XXV

che è l'uomo) e della teologia (che nell'Oratz'o, come


meglio vedremo più avanti, sembra comunque rien-
trare nel più generale dominio della filosofia).27 Da
qui l'esaltazione dell'ordine cherubico, «nodus pri-
marum mentium, ordo Palladicus philosophiae con-
templativae preses›› (§ 66), dalla cui imitazione - con-
sistente appunto nella contemplazione, ossia nella
conoscenza filosofica e teologica - l'uomo riceve tan-
to lo stimolo a dedicarsi con retto giudizio ai compiti
della vita attiva (rappresentata dai Troni), quanto, so-
prattutto, la spinta a elevarsi verso l'immedesimazio-
ne con Dio attraverso il fuoco dell'amore (rappresen-
tato dai Serafini).
L'elogio della filosofia, e il quadruplice itinerario
gnoseologico tracciato da Pico, vengono poi confer-
mati e ribaditi attraverso la citazione di molteplici e
variegate testimonianze, attinte alle più diverse tradi-
zioni filosofiche e ai più disparati teologi antichi: da
Mosè ai sacri misteri bacchici, dai furori socratici ai
precetti delfici, da Empedocle a Pitagora e ai Caldei,
non senza accennare di passaggio alla sapienza caba-
listica e a quella araba. Nella sua struttura e nella sua
impostazione, questo ampio brano (§§ 98- 141) antici-
pa ed esemplifica il motivo dominante nell›ultima
parte dell'Oratio (ma già presente fin dalla redazione
originaria: cfr. i §§ 112 e 127 del testo palatino): il di-
segno pichiano di prendere in esame e di mettere a
frutto - nel dibattito romano e, in genere, nel suo
cammino di ricerca - pressoché tutti gli scritti di tutti
i filosofi di ogni epoca e latitudine, nella convinzione
che da ognuno possa provenire un contributo al rag-

27 Per questo cfr. DI NAPOLI, Giovanni Pico, p. 299; RASPANTI,


I*`ilo.\'oƒia, teologia, religioni', pp. 181-82.
XXVI INTRODUZIONE

giungimento della verità, e con l'obíettivo di concilia-


re (evidenziandone i tratti comuni) le dottrine appa-
rentemente contrastanti, così instaurando una pace
filosofica che si ponga come il corrispettivo, e la con-
seguenza, della pace interiore cui, come dicevamo
poc'anzi, solo la filosofia può condurre l'uomo.28
L'analisi obiettiva di questa sezione del discorso
suggerisce le medesime considerazioni scaturite dal-
l'esame della sua prima parte (quella costituita, si ri-
pete, dall'esaltazione della libertà umana e dall'elogio
degli studi filosofici). Parlare - come è stato fatto e si
continua a fare - di eclettismo, di sincretismo,29 0 ad-
dirittura di pluralismo culturale (nel senso moderno
dell'espressione),3° sembra del tutto fuori luogo. Co-
me la liberta dell'uomo non toglie (anzi, prevede ne-
cessariamente) che solo una delle sue possibili scelte
sia buona e giusta, così l`apertura a tutte le scuole fi-
losofico-teologiche e a tutte le tradizioni religiose non
toglie (anzi, implica preventivamente) che solo una,
quella cristiana, sia depositaria della piena e unica ve-
rità, comunicata all'uomo per mezzo della Rivelazio-
ne.3' L'affermazione - di sapore oraziano - di non vo-

ZI' Contemporanea alla stesura dell`Oratio è quella della Depre-


eatoria ad Deum ut bella tollat, quae per totam fremunt Italiam (=
Carmina latina, pp. 49-50), che Pico definisce, in una lettera a Bal-
do Perugino - non datata, ma assegnabile all'autunno del 1486 -
«pro pace extemporaneum carmen›› (cfr. BAUSI, Nec rlaetor, pp. 94-
96). La tormentata situazione politica italiana di quegli anni è de-
scritta e deprecata anche nel sonetto Míxera Italia e tutta Europa in-
torno, assegnabile al 1488 (Sonetti, pp. 91-92).
2° Cfr. al riguardo la rapida rassegna di RASPANTI, Filorofia, teo-
logia, religione, pp. 1 1-21; e in particolare F/\RMIiR, Syneretirm, so-
praqtåutto pp. 59-'95. v `
(_.fr. in particolare BORI, Pluralita, pp. 85-94.
I' Così anche nel Commento sopra una eanzona, I 3, pp. 464-65:
«La prima opinione è più conforme a Dyonisio Areopagita ed a'
INTRODUZIONE XXVII

ler giurare sulle parole di nessun maestro (§ 180) ri-


guarda esclusivamente, come il contesto chiarisce
senza possibilità di equivoco, l'àmbito filosofico, e
non impedisce a Pico di definire Gesù Cristo «vitae
magister›> (§ 243); la sapienza precristiana sta alla Ve-
rità rivelata come il «fictus›› al «verus›› Apollo (Cri-
sto: §§ 1 15 e 1 19),” e il ruolo dei teologi e dei filosofi
antichi (fra i quali Pico annovera anche i poeti, come
Omero: § 224) è - e solo in alcuni casi - quello di
oscuri e inconsapevoli precursori del cristianesimo,
nel cui alveo possono e debbono essere ricondotti,
una volta spogliate le loro dottrine dai favolosi am-
manti che le avvolgono (e depurate dagli errori che
inevitabilmente le macchiano).
Che questa sia l'impostazione autentica dell'Oratio
non può dubitarsi. Nel profluvio di autorità e di fonti
prodotte da Pico, le citazioni scritturali e patristiche
non solo prevalgono nettamente, ma, si può dire, in-
nervano il discorso quasi in ogni sua parte; l'ampia
sezione dedicata all'elogio della filosofia (§§ 51-141)
mette sì in campo, come si diceva, Empedocle e Pita-
gora, Bacco e Zoroastro, Socrate e Apollo, la sapien-
za ebraica e quella araba, ma si apre con le testimo-
nianze di Dionigi Areopagita, di Asaf profeta, di san
Paolo, di Giobbe, di Mosè e di Giacobbe, concluden-
dosi poi nei nomi di Davide, di Agostino, e degli ar-

teologi cristiani, e' quali pongono un numero d'angeli quasi infini-


to. La seconda e più filosofica e più conforme ad Aristotele e Pla-
tone e da tutti e' Paripatetici e migliori Platonici seguitata. E però
noi, avendo proposto di parlare quello che crediamo essere comu-
ne sentenzia di Platone e di Aristotele, lasciata la prima, bene/ae .to-
la per .té vera, seguiremo questa seconda via».
*Z Anche nella Epirtola a Ermolao Barbaro, § 62: «Apollincm
caelestem» (contrapposto al «terrestrem I\/larsìam»).
XXVIII INTRODUZIONE

cangeli Raffaele, Gabriele e Michele, i cui poteri ven-


gono delineati sulla scorta di un passo delle Omelie di
Gregorio Magno. Né è corretto sostenere, come da
più parti si è fatto, che le novecento tesi si occupano
de omni re scibili: tanto le Conclusione: quanto l'Ora-
tio operano in realtà una significativa selezione nel
campo del sapere filosofico, tralasciando, ad esem-
pio, gli stoici, gli scettici e gli epicurei, nonché - tra le
scuole moderne - il nominalismo occamistico.” E
non per nulla Pico, a quanti avevano biasimato l'ec-
cessiva quantità di tesi proposte al dibattito, replicava
di avere, al contrario, limitato quanto più possibile il
numero delle sue eonclusioner, che, se solo egli avesse
voluto, avrebbero potuto raggiungere una cifra ben
più consistente (§§ 264-266). Né risponde a verità
che tutte le auctoritater vengano poste sullo stesso
piano, e che tutte siano coinvolte nel progetto di pax
pbilosopbica: solo le quattrocentodue tesi della secon-
da sezione delle Conclusione: sono definite infatti da
Pico «secundum opinionem propriam», mentre le
quattrocentonovantotto della prima sezione concer-
nono opinioni espresse da filosofi e teologi del pas-
sato, e non necessariamente condivise dal Miran-
dolano. Anzi, alla fine dell'./lpologia Pico prende
apertamente le distanze da queste conclusioni, affer-
mando che tra di esse se ne annoverano alcune mani-
festamente empie e sacrileghe (quali quelle desunte
da Averroè e da Alessandro di Afrodisia), e come tali
da lui mai approvate o condivise, ma semplicemente

Il Cfr. per questo KRISTELLER, Sources, pp. 55, 61, 83; DE LU-
BAC, Pico, pp. 95-97, 109. Anche nella lettera al Barbaro del 1485,
Pico contrappone il 'sapiente` Giovanni Scoto al `sacrilego' Lucre-
zio (§§ 126-34).
INTRODUZIONE XXIX

enunciate per essere discusse” Quanto poi alla con-


cordia p/oilosop/aorum, l'orazione ne limita la portata a
tre coppie di pensatori (Platone e Aristotele in primo
luogo, cui si aggiungono, ma in subordine, Averroè e
Avicenna, Giovanni Scoto e Tommaso d'Aquino: §§
200-205).
Anche la struttura delle novecento tesi - rispec-
chiata nel catalogo dei filosofi contenuto nella secon-
da parte dell'Oratio - conferma l'esistenza di una
precisa gerarchia del sapere filosofico e teologico. Ca-
povolgendo l'ordine storico, infatti, Pico apre la pri-
ma sezione delle Concluriones con novantaquattro te-
si desunte dai teologi medioevali, che costituiscono il
punto d'approdo della speculazione filosofico-teolo-
gica iniziata con la rivelazione a Mosè dei misteri ca-
balistici: e due gruppi di tesi cabalistiche concludo-
no, rispettivamente, la prima e la seconda sezione
delle Conclusione; (quarantasette tesi «secundum
doctrinam sapientum Hebraeorum Cabalistarum››;
settantadue «conclusiones Cabalisticae››). Ora, Pico
propone esplicitamente la qabbalali come mezzo per
smascherare le menzogne giudaiche e come strumen-

I* «Nam ct ibi plurima sunt impia dogmata veterum philo-


sophorum, Averois et Alexandri et aliorum quam plurium, quae
nos, et si semper professi sumus, asseruimus, predicavimus publice
et privatim non minus a vera rcctaquc philosophia quam a fide cs-
se aliena, scolasticam tamen exercitationem meditantes, de more
achademiarum inter paucos et doctos secreto congressu disputan-
da suscepimus. Qui vero ipsum leget libellum propositionum di-
sputàndarum, ut ex ipso poterit titulo admoneri, dum quae ex no-
stra dicuntur sententia, quae item ex aliorum discerno, non
proponi illas a me ut meas, ut veras opiniones, sed ut creditas ah il-
lis, ita et suspicari poterit, et si aliorum dicantur dogmata et inven-
ta, visa tamen mihi, et haec et illa vera et probabilia» (./lpologia,
XIII, in Coinmentationer, f. KK i r = Opere complete, XIII 5).
XXX INTRODUZIONE

to di conversione degli ebrei (§ 234):-35 e questa fi-


nalità apologetica della scienza cabalistica viene riba-
dita tanto nelle Conclusione: (dove le settantadue tesi
cabalistiche che concludono l›opera sono definite «ex
ipsis Hebraeorum sapientum fundamentis Christia-
nam religionem maxime confirmantes») quanto nel-
l'Oratio (§§ 253-257), tanto nell”Apologia3(” quanto
nell”I-Ieptaplu: (dove Pico si propone di combattere
gli ebrei con le loro stesse armi).37
La pace filosofica e la concordia teologica possono
e devono dunque realizzarsi, per Pico, nel segno di
Cristo, «principio di discernimento, perché il Cristo è
“la Verità stessa”; principio di sintesi, perché è il lega-
me di tutta la creazione»;38 e come l°uomo racchiude
in sé tutte le nature e tutte le creature, così il cristia-
nesimo invera e armonizza i singoli frammenti di ve-
rità reperibili nelle dottrine e nelle religioni del passa-
to. Sotto questo aspetto, è significativa anche la data
fissata da Pico per la disputa romana: in calce alla
stampa delle Conclusione: (7 dicembre 1486) si legge
infatti che «conclusiones non disputabuntur nisi post
Epiphaniam›>; e, come ha acutamente osservato il
Farmer, «the Epiphany celebrated in part the submis-
sion to Christ of the gente: in the persons of the Magi

” «Venio nunc ad ea quae, ex antiquis Hebreorum mysteriis eruta,


ad sacrosanctam et catholicam fidem confirmandam attuli: quae ne
forte ab his, quibus sunt ignota, commentitiae nugae aut fabulae cir-
cumlatorum existimentur, volo intelligant omnes quae et qualia sint,
unde petita, quibus et quam claris auctoribus confirmata, et quam re-
posita, quam divina, quam nostris hominibus ad propugnandam reli-
gionem contra I-Iebreorum importunas calumnias sint necessaria».
If” Cfr. qui il commento a Oratio, § 256 In condant.
II Cfr. ancora il commento a Oratio, § 234 quam nostri: nece:-
saria.
3** DE LU1›.,\<:. Pim, p. 322.
INTRODUZIONE XXXI

- the ideal symbol for the submission of Pico°s “na-


tions” to a restored Christian philosophy and theo-
logy in his debate››.”
Eleganza e forza della lingua e dello stile, ampiezza
di erudizione, abilità combinatoria nell'impiego delle
più svariate fonti letterarie e filosofiche, fascino e
suggestione delle metafore ardite e delle immagini
poetiche: questo e ciò per cui si distingue, essenzial-
mente, l'Omtz'0 pichiana, soprattutto nella sua prima
sezione, quella occupata - ripeto ancora - dall'affer-
mazione della dignità dell`uomo e dalle lodi della filo-
sofia.4° ljaggiunta della sezione conclusiva modificò
radicalmente non solo, come si è detto, la struttura,
ma anche il tono complessivo dell`operetta: stesa pre-
sumibilmente in tempi rapidi, questa parte finale non
presenta infatti lo slancio lirico, l'elaborazione stilisti-
co-retorica e la vertiginosa erudizione della prima
metà delliorazione, e mostra piuttosto i caratteri netti
e precisi di una apologia, redatta per esigenze di na-
tura eminentemente pratica e difensiva. Inoltre, l”in-
serimento di questa seconda parte ebbe conseguenze
rilevanti anche sulla struttura letteraria del testo, alte-
rando, soprattutto, la stringata compattezza e la geo-
metrica organicità della redazione originaria, parzial-
mente conservate nella sezione iniziale della stesura

W F/\RMER, Syncreükm, p. 43.


*° Cfr. V/\1.<:|<|;-G/\1.|iso1s, Le périplv imc/lt›czm›/, pp. 86-87; «si
par sa forme littéraire, le Dz'.rwur.r fait figure d`exception dans l`cn-
scmble de l'oeuvre mirandolicnnc, quant à son contenu propre,
par contre, il s'inscrit dans une lignée qui rcmont à la patristique et
qui a été transmise sans interruption tout au long dcs siècles. Vue
dans cette perspective, l'Oratio pcrd son caractèrc particulier, au
point que, quant à son contenu et au genre dont elle relève, elle en
devient presque banale». E anche DE LUBAC, Pico, p. 62.
XXXII INTRODUZIONE

definitiva. Dopo un attacco che recupera la movenza


d'esordio dell'epistola a Lorenzo de' Medici (<<Legi,
Laurenti Medice, rythmos tuos››; e qui <<Legi, patres
colendissimi, in Arabum monumentis››) e riecheggia,
subito dopo, il celeberrimo attacco del ciceroniano
De oratore («Cogitanti mihi saepe numero››; e qui
<<Horum dictorum rationem cogitanti mihi››), il testo
risulta interamente scandito da una studiata e sapien-
temente variata successione di tre serie anaforiche; le
prime due in forma di interrogativa diretta, la terza in
forma di esortazione:

Cur enim non ipsos angelos et beatissimos caeli choros


magi: admíremur? (§ 5)
Quír hunc nostrum chamaeleonta non admiretur? Aut
omnino quis aliud quicquam admíretur magis? (§§ 31-
32)
Ecquir hominem non admíretur? (§ 41)

Sed quorsum haec? (§ 45)


Sad qua ratione, aut quid tandem agentes? (§ 51)
Sea' quo nam pacto vel iudicare quisquam vel amare po-
test incognita? (§ 63)

[...] consulamus Iacob patriarcham (73)


Percontemur et iustum Iob (§ 83)
Citemus et Mosen ipsum (§ 98)
Audiemus venerandum iudicem (§ 99)
Consulamus et Pythagoram sapientissimum (§ 120)
Recenseamus et Chaldeorum monumenta (§ 130)

Finché l'ultima parte si apre con un periodo


(«Haec sunt, patres colendissimi, quae me ad philo-
sophiae studium non animarunt modo, sed compule-
runt››: § 142) che, a mo” di reddítío, si ricollega all°ini-
zio dell'orazione, donde riprende l'invocazionc ai
INTRODUZIONE XXXIII

«patres colendissimi» (§ 1) e il costrutto haec quae


(«Magna haec quidem, sed non principalia, idest
quae summae admirationis privilegium sibi iure ven-
dicent›>: § 4). Una struttura, si diceva, solida e cali-
brata, che fa leva sul numero tre: tre le grandi anafore
che scandiscono il testo, e tre o multipli di tre le oc-
correnze di ciascuna successione anaforica. Ciò, se
collegato anche alla prevalenza, nella complessa tessi-
tura retorica dell,Oratz'o, di strutture triadiche (cfr. ad
esempio i §§ 3, 11, 12, 14, 16, 18, 54, 81, ecc.), non
dovrà considerarsi casuale, e potrà anzi legittimamen-
te essere messo in relazione con il significato simbo-
lico che il numero tre riveste (a tutti i livelli: etico,
gnoseologico, ontologico) all'interno del pensiero
esposto da Pico nell'operetta.““
Diverso, fra le due sezioni del testo attuale, è anche
il grado di elaborazione e di impegno letterario e teo-
rico. Nell'Oratz'o, Pico si produce - certo, in qualche
misura, anche per colpire il suo uditorio e per fare
sfoggio della sua vastissima cultura - in un vero e
proprio fuoco d›artifieio linguistico, stilistico ed eru-
dito, mettendo a frutto un gran numero di fonti attin-
te da molteplici àmbiti letterari e filosofici. Questo
procedimento raggiunge vertici di assoluto rilievo so-

"' Cfr. DI NAPOLI, Giovanni Pico, p. 406: <<l_.`orizzontc della con-


/errlplalíu doveva giustificare la grandiosa disputa che Pico inten-
deva tenere; e nell`Oralí0 egli intendeva rilevare che “ad cxemplar
vitae cherubicae vita nostra formanda est". Lo schema di tale pro-
cesso di contemplazione è dato dai tre stadi ascetici dello pseudo-
Dionigi: purgalío, illuminata), pcøƒeclío. lfascesa sapienziale, che si
realizza secondo quei tre stadi, è vista da Pico come raggiungimen-
to della pace universale attraverso l`azione “sedativa” della dialetti-
ca, della p/Jz`lo.r0/7/:fia naluralir c della t}Jco/og1`a››. Sulla simbologia
numerologica che caratterizza la struttura di molte delle opere pi-
chiane cfr. FARMER, Syacretzk/az, p. 30.
XXXIV INTRODUZIONE

prattutto nella prima parte, in cui Pico non si limita a


citare e a impiegare una ricchissima varietà di testi,
ma li sovrappone eli combina senza sosta, sfruttando
tutte le possibilità insite nel metodo di intepretazione
metaforico-allegorica, e operando continui, arditi
collegamenti fra tradizioni culturali diverse: così, per
fare solo alcuni esempi, Giobbe è spiegato con Ern-
pedocle, la scala di Giacobbe viene accostata al mito
egizio di Iside e Osiride, i riti di purificazione degli
Ebrei a quelli dei sacerdoti tessali, i furori socratici al-
la Gerusalemme celeste e ai misteri bacchici, Zoroa-
stro a Platone, il gallo di Giobbe a quelli di Pitagora,
di Pietro e di Esculapio, e, nel gran finale di questa
prima sezione, la lettura allegorica del mito caldaico
dei quattro fiumi paradisiaci (visti come corrispettivi
della filosofia morale, della dialettica, della filosofia
naturale e della teologia) rievoca prima le conoscenze
mattutine, meridiane e vespertine di cui trattano Da-
vide e Agostino, poi la luce divina che illumina Se-
rafini e Cherubini, e ancora il pellegrinaggio di A-
bramo, la sapienza cabalistica e araba, fino (dopo
una citazione da Geremia) al significato allegorico dei
tre arcangeli Raffaele, Gabriele e Michele, definiti ri-
spettivamente coelestís medícus, robur Del' e sacerdos
summus.
La giustificazione filosofica profonda di un simile
procedimento risiede nell'idea, già ficiniana, dell'esi-
stenza di una pbílosopbía perenni: che, sostanzial-
mente immutata, avrebbe assunto nel corso dei mil-
lenni le più diverse forme esteriori e le più svariate
manifestazioni simboliche, anticipando sotto alcuni
aspetti, come una sorta di prisca tbeología, le verità
poi rivelate dal cristianesimo. Ma, dal punto di vista
squisitamente letterario, Pico sembra in queste occa-
sioni far tesoro della tecnica messa a punto da Angelo
INTRODUZIONE xxxv

Poliziano nelle coeve Si!vae,42 dove spesso vengono


allusivamente e oscuramente compendiati, nel breve
giro di un sintagma o di un aggettivo (talora raro o
nuovamente coniato), molteplici e complessi signifi-
cati di natura mitologica o filosofica.43 Ad esempio,
alludendo al mito di Iside e Osiride (<<nunc unum
quasi Osyrim in multitudinem vi Titanica discerpen-
tes descendemus, nunc multitudinem quasi Osyridis
membra in unum vi P/øebea colligentes ascendemus››:
§ 82), Pico parla di vir Títaníca e di vis P/aebea, allu-
dendo, rispettivamente, a Seth (che smembrò Osiri-
de, e che i Greci identificarono col titano Tifone) e a
Horos (che vendicò il padre Osiride, e che era identi-
ficato con Apollo, il quale a sua volta veniva identifi-
cato dai pitagorici con.l'Unità).44 Ancora più elo-
quente il caso offerto da un passo del § I 12, dove si
tratta del furore iniziatico, ispirato da Bacco:

Tum Musarum dux Bacchus, in suis mysteriis (idest visi-


bilibus naturae signis) invisibilia Dei philosophantibus
nobis ostendens, inebriabit nos ab ubertate domus Dei,
in qua tota si uti Moses erimus fideles, accedens sacratis-
sima theologia duplici furore nos animabit.

Il «Musarum dux›› (Musagetes) è propriamente


Apollo, e solo raramente l”appellativo veniva assegna-
to anche a Mercurio, a Ercole e, appunto, a Bacco.
Ma Pico non fa qui di Bacco la guida delle Muse solo

*Z La Man/0 e del 1481, il Ruylicus del 1483, l'/lm/ara del 148;, i


Nulricza (prima stesura) del 1486. Le Silvae erano presenti nella bi-
blioteca di Pico (cfr. KIBRE, 'I'/ac Library, n. 77 3).
43 Cfr. la mia Introduzione ad A. PULIZIANO, Si/vae, a cura di F.
BAUSI, Firenze, Olschki, 1997, pp. X1-XXXL
4* Cfr. il commento a Oratio, § 82 nunc unu/n eollígenmt.
XXXVI INTRODUZIONE

per arricchire la sua pagina di un preziosismo erudi-


to; l'indicazione, anzi, è funzionale a una precisa e
complessa simbologia orfica, implicita fra le pieghe
del testo.45 L'ebbrezza bacchica (inebriabit) coincide
col delirio mistico e col rapimento soprannaturale, di
cui parlano anche i Salmi (35, 9: «[filii hominum] ine-
briabuntur ab ubertate domus tuae››), citati alla lette-
ra qui e in una della Conclusione; Cabalz'.rtz'cae;““° e
proprio per simboleggiare l'approdo della conoscen-
za umana (le Muse) all`estasi della visione divina, ne-
gli Inni orfiei ciascun Bacco in preda all`ebbrezza vie-
ne associato a una Musa (Conclusione: de modo
intelligendi /øynznos Orp/Jei, 24: «Non inebriabitur
per aliquem Bacchum, qui suae Musae prius copula-
tus non fuerit»).47 Tutto questo - ma senza le implica-
zioni cabalistiche aggiunte da Pico - era già, peraltro,
nella ficiniana Tbeologia Platonica, IV 1, dove si sot-
tolinea anche la non casuale coincidenza del numero
delle Muse (nove) con quello dei Bacchi invocati ne-
gli Inni orfici:

apud Orpheum singulis Musis praeest Bacchus aliquis,


quo vires illarum divinae cognitionis nectare ebriae desi-
gnantur. Ideo Musae novem, cum Bacchis novem circa
unum Apollinem id est circa splendorem solis invisibilis
debacchantur.

Anche sotto questo aspetto, la seconda parte


dell'Oratio risulta meno ricca e meno elaborata: man-

" Per quanto segue cfr. WIND, Misteri, pp, 336-37.


4° 17: «Qui sciverit quid est vinum purissimum apud Cabalistas,
sciet cur dixerit David “inebriabor ab ubertate domus tuae”, et
quam ebrietatem dixerit antiquus vates Musaeus esse felicitatem, et
quid significent tot Bacchi apud Orpheum›› (Conclusiones, p. 1 30).
47 Ibid., p. 124.
INTRODUZIONE XXXVII

cano le ardite contaminazioni culturali, le fonti usu-


fruite sono meno numerose, le citazioni, spesso,
tutt'altro che peregrine (e provengono in prevalenza
da autori quali, ad esempio, Cicerone, Properzio,
Orazio, Seneca, Plutarco, Plinio il Vecchio, Apuleio),
mentre abbondano gli aneddoti, attinti sia da testi-
monianze letterarie (come le vite di Aristotele e di
Plotino: §§ 226 e 242), sia dall”esperienza personale
(come l”episodio di Dattilo ebreo ricordato al § 257).
Ciò dipende senza dubbio, almeno in parte, dalla ra-
pidità con cui questa seconda sezione dell'operetta
venne composta, per controbattere alle critiche e alle
accuse che cominciarono a essere mosse a Pico all'in-
domani della stampa delle Conclusiones: una rapidità
che spinse Pico, fra l'altro, a riutilizzare ai §§ 143-145
(onde rispondere a quanti gli rimproveravano la sua
dedizione agli studi filosofici) un passo della lettera
inviata all'amico Andrea Corneo, da Perugia, il 15 ot-
tobre 1486, e a recuperare nel finale (§§ 238-45), ta-
lora traducendolo alla lettera, un ampio brano del
suo recentissimo Commento sopra una eanzona de
ainore di Girolamo Benizaieni (del 1486).48 Per le me-
desime ragioni, certi brani - in particolare, quelli sul-
la magia e sulla qabba/ab - appaiono frettolosamente
redatti, e sono costituiti in buona parte da citazioni
letterali: nel brano sulla magia (§§ 214-233), spiccano

4” Cfr. B/\US1, Nec r/aetor, pp. 113-14; e qui il commento a Ora-


/io, ai §§ 145, 240 e 243-45. Da rilevare il fatto che, nello stesso
Commento sopra una canzona, si rintracciano ben tre rinvii all`im-
minente disputa romana, definita da Pico conci/io: I 12, p. 479
(«come nel concilio nostro proveremo››); I 13, p. 480 (secondo la
redazione della stampa giuntina del 1519: «nel nostro concilio [...]
ne parleremo»); III 1o, p. 568 («il che nel nostro concilio dimon-
streremo››).
XXXVIII INTRODUZIONE

quelle da testi non certo esoterici quali il lessico bi-


zantino Suda (donde deriva la distinzione fra goetia e
magia, ossia fra 'necromanzia° e magia `buona'), la
Naturali: loistoria di Plinio” e il De magia di Apuleio;
mentre nel brano sulla qabbala/9 le principali pezze
d`appoggio sono rappresentate da un testo medioeva-
le come il Tractatus in Psalmo: di sant'Ilario e da un
apocrifo come il quarto libro di Esdra.5°
Anche nella prima sezione del discorso, comun-
que, non è tutto oro quello che luccica; e non solo
perché Pico utilizza ampiamente certi opuscoli
morali di Plutarco (soprattutto La E di Delfi e Iside e
Osiride), o perché fa largo uso di spunti ficiniani,
desunti in particolare dalla recente T/aeologia
Platonica, del 1482 (nonostante gli attacchi al Ficino
cui egli aveva fatto posto nel Commento sopra una
canzona de amore di Girolamo Benivieni, e che sem-
brano riecheggiare anche nell°Oratio).51 Non si trat-

49 Senza contare che, come osservano V/\L(1KE-GALIBOIS, Le pe-


riple intelleetuel, pp. 227-28, Plinio è fortemente critico contro
ogni sorta di pratica magica.
58 Cfr. le osservazioni di VALCKE-GALIBOIS, Le périple intellec-
luel, pp. 170 (dove si afferma che nella seconda sezione dell`Oratio
«la maitrise du latin reste la même, mais le savoir authentique est
intermittent››) e 173 (dove si sottolinea «la pauvreté, pourtant, phi-
lologique, critique, scientifique du discours même de Pic, tante sur
l'ésotérisme en général que sur la magie en particulier››).
51 Per i complessi rapporti tra Pico e Ficino, e per i motivi fici-
niani rintracciabili nell'opera pichiana, cfr. KRISTELLER, Sources,
pp. 64-69; S. _]/\YNE, Introduction to Com/nentarjv on a Canzone of
Beniuieni, translated by SJ., New York-Berne-Frankfurt am Main,
Peter Lang, 1984, pp. 1-73; S. GENTILE, Pico e Ficino, in Pico, Poli-
ziano, pp. 1 39-41. Nell'Oratio, oltre ai «many covert attacks on Fi-
cino›› contenuti nelle sessantadue Conclurionex in doctrinam Plato-
ni: (cfr. FARMER, Syncretirm, p. 207), va sottolineata l'affermazione
del § 195, dove Pico proclama (precisando, col pensiero certo ri-
volto al Ficino: «verbo absit invidia››) di essere il primo a riportare
INTRODUZIONE XXXIX

ta, dicevo, solo di questo, ma anche dell'ostentata


esibizione di competenze linguistiche e filosofiche
nei settori- ben poco familiari agli umanisti, per non
parlare dei teologi della curia pontificia - della cultu-
ra ebraica, araba e caldaica. Pico aveva intrapreso lo
studio di queste lingue, sotto la guida di Flavio
Mitridate, nelliautunno del 1486, e quindi contem-
poraneamente alla stesura dell”Oratio e delle Conclu-
:ione:. In una lettera inviata da Fratta a Marsilio
Ficino, presumibilmente nel novembre di quell'an-
no, Pico afferma di aver studiato l'ebraico giorno e
notte per un mese, e di essersi da poco interamente
vòlto anche allo studio dell`arabo e del caldaico:52 la
sua conoscenza di queste lingue doveva quindi esse-
re, all'epoca dell'Oratio, piuttosto modesta, come il
testo sembra d°altronde confermare.
Le citazioni in ebraico si limitano infatti a poche e
isolate parole, mentre quelle in caldaico (ossia, in ara-
maico), oltre ad essere altrettanto sporadiche, sono -
stando almeno alla copia palatina, eseguita dal Nesi e
portatrice di una primitiva redazione del discorso -

alla luce, e a sottoporre a pubblica disputa, la filosofia platonica. A


proposito delle Conclurione: :ecunelu/n doctrinam p/ailosop/aorum
qui Platonici alicuntur, lo stesso FARMER, Syneretirin, p. 296, osserva
comunque che «translations of none of the Greek Neo-Platonist
covered in this section [cioe Plotino, Adelando Arabo, Porfirio,
Giamblico, Proclo] were published by Marsilio Ficino before the
nine hundred theses went to press, supporting Pico's boasts in the
Oration and /lpology that he was the first philosopher in centuries
to publicy debate their views».
52 «Postquam enim Ilebraicae linguae perpctuum mensem dies
noctesque invigilavi, ad Arabicae studium et Chaldaicae totus me
contuli, nihil in eis veritus me profecturum minus quam in Hebrai-
ca profecerim, in qua possum nondum quidem cum laude, sed ci-
tra culpam epistulam dictare» (Com/nentationer, f. TT i v = Opere
eo/nplete, epistole di Pico, XX).
XL INTRODUZIONE

vergate in modo alquanto approssimativo e incerto”


D'altra parte, è sicuro che, almeno in questa fase, Pi-
co si servisse prevalentemente di traduzioni latine,
per lui approntate dal suo 'precettore” Flavio Mitri-
date. Né minori problemi sollevano le fonti arabe e
caldaiche prodotte da Pico, con una certa compiaciu-
ta abbondanza, nel corso dell'operetta: nella maggior
parte dei casi, infatti, queste fonti non sono state indi-
viduate, neppure da studiosi esperti nei relativi cam-
pi. Chaim Wirszubski ha potuto affermare, con ragio-
ne, che «the sources of Pico's Chaldean quotations
are still an unsolved puzzle››:54 in effetti, oscuri resta-
no per noi i riferimenti ad <<Abdala Saracenus››, a
«Evantes Persa››, agli interpreti Caldei, a Zoroastro,
ad Avenzoar babilonese. Nella lettera al Ficino ora ri-
cordata, Pico scrive con entusiasmo di esser venuto
da poco in possesso di numerosi e rarissimi testi arabi
e caldaici, e di apprestarsi a studiarli;” ma non è
escluso che almeno in parte si trattasse di falsifó ma-
nipolati e confezionati da quell'ambiguo personaggio
di Flavio Mitridate,” per mezzo del quale Pico entrò
in possesso di tali testi.

si Cfr. qui la Nota al texto. Le competenze ebraistiche di Pico


aumentarono sensibilmente negli anni successivi (cfr. FARMER, Syn-
cretism, p. 138), soprattutto grazie all'incontro, avvenuto a Firenze
nel 1488, con Yohanan Alemanno (cfr. LELLI, Un collaboratore).
54 WIRSZUBSKI, Encounter, p. 242.
P Cfr. qui il commento a Oratio, § 130.
56 Cfr. al riguardo la Nota al testo. Anche BACCHELLI, Giovanni
Pico, p. 59, è incline a vedere «un po' di impostura›› nell'elenco di
testi incluso nella lettera al Ficino, e ritiene che il catalogo pichiano
sia, «se non tutto menzognero, certo compilato per buttare un po'
di fumo negli occhi di Marsilio».
57 Su Mitridate (l'ebreo convertito Guglielmo Raimondo de
Moncada) cfr. qui ancora la Nota al testo; la sua menzione, presen-
te nella stesura palatina dell”Oratio (cfr. § 113 e nota), venne sop-
pressa nella redazione definitiva.
INTRODUZIONE XLI

L'Oratio - almeno nella sua prima parte - è senza


dubbio il capolavoro del Pico umanista, e come tale
fu presentata dal nipote Giovan Francesco fin dalla
prima edizione; d”altronde, anch'essa - al pari delle
epistole a Lorenzo de' Medici e a Ermolao Barbaro -
appartiene a quella prima fase dell”attività pichiana in
cui l'«umanista›› convive (non senza contraddizioni e
conflitti) con il «filosofo››. E tuttavia, per Pico la reto-
rica non è il semplice rivestimento esteriore del con-
cetto. Straordinaria è la ricchezza linguistica, stilistica
e letteraria dell'Oratio, in cui si fondono arcaismi
plautini e termini del latino cristiano e medioevale,
reminiscenze poetiche e tecnicismi filosofici, locuzio-
ni terenziane e voci post-classiche, loapax apuleiani e
neologismi;58 in cui Pico cita i Caldei e i Greci, i pita-
gorici e i padri della Chiesa, i profeti e Maometto, gli
Ebrei e gli Arabi, i precetti delfici e i filosofi medioe-
vali, i vangeli e i poeti classici; in cui si susseguono ci-
tazioni in lingua greca, ebraica e caldaica: una ric-
chezza che, lungi dall'esaurirsi in una semplice prova
di bravura, sembra proporsi di fornire un corrispetti-
vo formale delle due idee-portanti dell'operetta (la
natura multiforme e camaleontica dell'uomo, e la
concordia - nel senso di cooperazione nella ricerca
del Vero - delle filosofie e delle religioni), quasi a vo-
ler idealmente ricomporre la frantumazione babelica
delle lingue e i conflitti tra le innumerevoli scuole fi-
losofiche nell'ottica della molteplice natura umana e
dell'unità profonda della conoscenza.
D'altra parte, l'interesse professato da Pico nei
confronti di qualsiasi filosofo (di qualunque epoca e

58 Per un”analisi del latino dell`Oratio cfr. BAUSI, Nec r/Jetor, pp.
117-41.
XLII INTRODUZIONE

nazione, e qualunque sia la lingua e lo stile in cui egli


si esprime) presuppone, con tutta evidenza, la con-
vinzione - chiaramente espressa nell”epistola a Ermo-
lao Barbaro del 1485 - secondo cui ciò che importa
non è l'eleganza dell”espressione, ma la sostanza del
pensiero (e quest'ultima è del tutto indipendente dal-
la forma letteraria). Non a caso, nell'elenco di pensa-
tori incluso da Pico nell'Oratio, accanto ai greci e agli
arabi troviamo proprio alcuni di quei «Germani» e di
quei «Teutones» che il Barbaro aveva raccomandato
all'amico di mettere da parte: Giovanni Scoto (elogia-
to, in contrapposizione a Lucrezio, anche nell'episto-
la alliumanista veneziano), Francesco di Meyronnes,
Alberto Magno, Enrico di Gand. Né si fa cenno alcu-
no alla maggiore o minore eleganza, alla maggiore o
minore rozzezza con cui i pensatori delle varie epo-
che e delle varie scuole hanno scritto le loro opere. Si
tratta di un punto della massima importanza (anche
per la retta interpretazione dell'epistola al Barbaro),
benché il rapporto tra svalutazione dell'eloquenza e
universalità del sapere non costituisca una novità in-
trodotta da Pico, che poteva trovarlo posto con chia-
rezza, ad esempio, in un'opera a lui certamente nota,
la Graecarum afifectionum curatio del vescovo greco
Teodoreto di Ciro (IV-V sec. d.C.).59
Tuttavia, nonostante la sua scarsa originalità e la
mancanza di un autentico sviluppo concettuale, l'O-
ratio presenta un suo indubbio e peculiare fascino:
fascino che risiede in buona parte (oltre che nell'ele-
ganza della forma) nel giovanile entusiasmo che la
anima, e che i più solidi e ponderati scritti successivi,
sotto alcuni aspetti, provvederanno a moderare e a

5° Cfr. ibid., pp. 62-65.


INTRODUZIONE XLIII

correggere. L°antropologia dell›Oratio, ad esempio,


non viene sostanzialmente smentita dall'I-Ieptaplu:
(1489), dove però l'accento non cade tanto sulla li-
bertà e sull'autodeterminazione dell”uomo, quanto
piuttosto sulla sua natura di medium e di sintesi dei
tre mondi (e quindi di tutte le creature), con una vi-
sione, pertanto, più statica che dinamica;(°° mentre
l'interesse per la prisca tbeologia (da Ermete Trisme-
gisto a Zoroastro, da Pitagora a Orfeo), per la cultura
araba, per la qabbala/J e per la magia viene progres-
sivamente meno, fino a lasciare il posto, nelle Di-
:putatione: adverrus astrologiarn, a un atteggiamento
- certo favorito dalla familiarità col Poliziano -filolo-
gicamente molto più rigoroso nei riguardi delle fonti,
e al conseguente rifiuto di quelle tradizioni e di quel-
le scienze che, prima tenute nella massima considera-
zione (anche in virtù dell'esempio e dell'influsso fici-
niano), verranno infine ripudiate da Pico come forme
di falsa sapienzafi' Ma è il più generale e più profon-
do cambiamento prodottosi in Pico dopo i dolorosi
eventi del 1487 (llannullamento della disputa, il pro-
cesso, la condanna delle tredici tesi, la fuga in Fran-
cia)(°2 che marca un sensibile distacco fra l'Oratio e gli
scritti successivif”
Si parla spesso, da parte degli studiosi, di una con-

"*° Cfr. al riguardo DI NAPOLI, Giovanni Pico, pp. 375 e 379; Dli
Lula/xe, Pico, p. 85; C1:/WEN, Un caso, pp. 68-69; (loromuu, Micro-
cosrno, p. 295.
“I Cfr. i luoghi delle Dirputationer citati qui nel commento a
Oratio, S 193 quando manavit; e cfr. DI NAPOLI, Giovanni Pico,
pp. 285-86; FARMER,Syncreti.1m, pp. 142-45.
62 Per questi avvenimenti cfr. ora BIONDI, La doppia inc/aierta.
63 Per quanto segue cfr. il mio Giovanni Pico della Mirandola: fi-
losofia, teologia, religione, in «Interpres», XVIII, 1999, pp. 74-9o.
XLIV INTRODUZIONE

versione pichiana seguìta a questi episodi. Se il termi-


ne 'conversione' è senza dubbio eccessivo e inesatto
(giacché sembra presupporre l'esistenza di una prima
fase non cristiana di Pico),64 è comunque certo che
quegli avvenimenti lasciarono una traccia profonda
nell'animo del Mirandolano, spingendolo a riflettere
sulle sue scelte intellettuali e ad abbandonare gra-
dualmente - almeno sotto certi aspetti - le strade da
lui battute negli anni precedenti. E intorno al 1491
che questa svolta sembra giungere a compimento,
trovando piena e inequivocabile espressione nelle ce-
lebri parole della lettera ad Aldo Manuzio dell'1 1
febbraio 1491: <<la filosofia cerca, la teologia trova, la
religione possiede››.°5 Pico è giunto ormai alla con-
clusione che a niente giova la :apientia disgiunta dalla
pietas; o, per dirla altrimenti, che filosofia e teologia
non sono che gradini intermedi, fasi preparatorie di
un incontro con Dio cui l'uomo può giungere solo
per mezzo dell'amore e della volontà, nella consape-
volezza che il quaerere e l”invenire a ben poco servo-
no senza il possidere, senza l'immedesimazione piena
e incondizionata con la divinità. Persino una discus-
sione in apparenza astrattamente filosofica come
quella De ente et uno si conclude con unlesortazione
alla perfezione della vita e alla purificazione dei co-
stumi; il sapere - Pico lo aveva scritto al carmelitano
Battista Spagnoli il 13 gennaio 1491 - ha come suo

64 DE LUB›\(1, Pico, p. 406, preferisce giustamente parlare, piutto-


sto, di «maturazione intellettuale» e di «approfondimento morale».
65 «Tu, quod te scribis facturum, accinge ad philosophiam, sed
hac lege, ut memineris nullam esse philosophiam quae a mysterio-
rum veritate nos avocet: philosophia veritatem quaerit, theologia
invenit, religio possidet>› (Commentationer, f. SS iiii r = Opere com-
plete, cpistole di Pico, VI).
INTRODUZIONE XLV

unico fine quello di predisporre nel migliore dei mo-


di l'uomo <<ad certamen purgandi animi››.6(°
Alcuni studiosi (che non vedono una sostanziale
evoluzione nelllitinerario intellettuale e spirituale di
Pico) hanno ricollegato la lettera al Manuzio alla pri-
ma parte dell,Oratio de hominis dignitate, composta
cinque anni primaf” Anche lì, infatti, si parlava di un
innalzamento verso la conoscenza di Dio articolato in
tre momenti, esemplati sui tre stadi ascetici dello
pseudo-Dionigi (purgatio, illuminatio, perfectio) e
simboleggiati dai tre ordini angelici (Troni, Cherubi-
ni, Serafini): la filosofia morale e la dialettica, per
mezzo delle quali l'uomo si purifica dalle passioni e si
libera dai lacci dell'ignoranza, costituiscono il primo
stadio; il secondo è rappresentato dalla filosofia natu-
rale, che ci conduce alla conoscenza dell'opera di
Dio; l'ultimo si identifica con la teologia, ossia con la
comprensione delle cose divine. Ma questa posizione
appare caratterizzata da una sfumatura intellettuali-
stica che risulta estranea agli ultimi scritti pichiani: i
tre gradini, di fatto, potrebbero ridursi a due (filoso-
fia - nelle sue varie branche - e teologia), e la stessa
teologia - nonostante che Pico accenni al fuoco dell'a-
more :erafico e alla pace cui tende la contemplazione
dei misteri divini - si configura nella sostanza come

M* Cfr. rispettivamente De ente et uno, V, p. 418 («Sed vide, mi


Angele, quae nos insania teneat! Amare Deum dum sumus in cor-
pore plus possumus quam vel eloqui vel cognoscere. Amando plus
nobis proficimus, minus laboramus, illi magis obsequimur. Malu-
mus tamen semper quaerendo per cognitionem numquam invenire
quod quaerimus, quam amando possidere id quod non amando
frustra etiam inveniretur››; il passo è riportato per intero anche da
Giovan Francesco nella Vita, p. 70); e Co/nmentationex, f. TT v v
(= Opere complete, epistole di Pico, XXXIV).
87 Cfr. ad esempio DI NAPOLI, Giovanni Pico, pp. 406-408.
XLVI INTRODUZIONE

una forma di conoscenza intellettuale. Non sarà così,


ad esempio, nella più tarda esposizione del Salmo
XVII, dove Pico afferma che l'uomo giunge al bene
sotto la guida della ragione e della virtù divina: nel
dominio della ragione rientrano la filosofia morale, la
filosofia naturale e la scienza teologica; ma a un livel-
lo più alto - non attingibile con gli strumenti della
conoscenza razionale - si colloca la virtù divina, che
l'uomo consegue solo attraverso le sacre orazioni, i
digiuni e i sacramenti, ossia per mezzo della religione,
che consente all'uomo la più intima compenetrazione
col Cristo.('8
Ben diverso rispetto a quello dell'Oratio, dunque,
sembra l'orientamento di Pico nelle sue ultime opere
(compreso l'Heptaplu:, dove già si può riscontrare
un'anticipazione di queste posizioni):(*9 la teologia
trova, è vero, ma, se non si ama (e dunque se non si
po::iede), anche trovare è inutile. Muta, di conse-
guenza, anche l'impostazione del rapporto con la sa-
pienza pagana e genericamente non cristiana. Nel-
l'Heptaplu:, nel Commento ai Salmi, nel De ente et
uno Pico continua a citare e a utilizzare i filosofi greci
e arabi, la qablmlala, i mistici e i commentatori ebraici;

(18
Cfr. Commento ai Salmi, pp. 162-64.
6° Heptaplur, III 2, p. 252: «Domini Spiritus quid erit, potius
quam spiritus amoris? Neque enim spiritum scientiae ita proprie
Domini Spiritum dicemus, quoniam et scientia quandoque abducit
a Deo. Amor autem ad Deum semper adducit››; VII, prooemium,
p. 338: «Quare postquam Christus est agnitus, si qui Christum non
induuntur, non solum prima felicitate, sed et secunda, idest natu-
rali, iure privantur, quia gratiam nolle non nisi corruptae est et la-
befactae naturae. [...] Ad hanc felicitatem religio nos promovet,
dirigit et impellit, quemadmodum ad naturalem duce utimur phi-
losophia; quod si natura rudimentum est gratiae, utique et philo-
sophia inchoatio est religionis, neque est philosophia quae a reli-
gione hominem semovet››.
INTRODUZIONE XLVII

ma llatteggiamento nei confronti di queste tradizioni


culturali e religiose è ora mutato rispetto a quello che
traspariva dalle pagine dell'Oratio de bomini: dignita-
te, dove - pur nella sempre salda consapevolezza del-
la superiorità della fede rivelata - Pico si spingeva di
fatto fino ad ammettere e a ricercare la presenza di
una scintilla della verità in qualunque pensatore del
passato, e ad affermare che, come ogni sapienza è
passata dai barbari ai Greci e dai Greci a noi, così an-
che per lo studio delle sacre Lettere e dei misteri reli-
giosi è necessario muovere in prima istanza dai Cal-
dei e dagli Ebrei, e secondariamente dai Greci.7°
Gli ultimi scritti pichiani, invece, rivelano una posi-
zione ben diversa: e non solo perché, come si è detto,
si attenua ora in Pico, fino a scomparire, l'interesse
per certi settori della sapienza antica (l'orfismo, l'er-
metismo, la teologia poetica, con le annesse compo-
nenti magico-astrologiche), ma anche e soprattutto
perché i pagani e i non cristiani non appaiono più a
Pico come depositari di verità assimilabili a quella cri-
stiana (in quanto precursori, sia pur ignari, della Rive-
lazione), bensi, semplicemente, come ingiusti posses-
sori di conoscenze che è dovere del cristiano sottrarre
loro e impiegare a maggior gloria di Dio. Proemiando
alla terza esposizione dell'Heptaplu:, Pico accenna al

7° Cfr. in particolare la redazione palatina dell`Oratio, §§ 114-


16: «Ferme enim omnis sapientia a barbaris ad Graecos, a Graecis
ad nos manavit. Ita nostrates semper in philosophandi ratione pe-
regrinis inventis stare et aliena cxcoluisse sibi duxerunt satis; :acra:
omnino Littera: et my:teria :ecretiora ab Hebrei: prirnum atque
Cbaldeir, tum a Greci: petere necexxarium. Reliqua: arte: et omnzfa-
riam pbiloropbiam cum Graeci: Arabe: partiuntur» (nella redazione
definitiva risulta soppresso il brano qui stampato in corsivo, con la
relativa allusione alla «sapienza» religiosa e filosofica degli Ebrei,
dei Caldei e degli Arabi; cfr. qui Appendice, I).
XLVIII INTRODUZIONE

suo progetto di esporre, e di vagliare alla luce del cri-


stianesimo, l'intera dottrina ebraica. L'opera avrebbe
dovuto probabilmente costituire una delle sette parti
del grande trattato Adversus bortes Eccle:iae;7l in essa,
afferma Pico, «quicquid [:cil. nella dottrina degli
Ebrei] alienum ab evangelica veritate deprehende-
mus, confutabimus pro virili, quicquid sanctum et ve-
rum a synagoga, ut ab iniusto possessore, ad nos, legi-
timos Israelitas, transferemus››.72 Ab iniusto po::e::o-
re: Pico sta qui citando un ben noto passo del De doc-
trina Cbrixtiana di Agostino, nel quale si proclama
che, se presso i filosofi pagani è dato per avventura
rinvenire qualche verità consona ai dogmi delle fede
rivelata, il cristiano deve rivendicarne - come unico e
legittimo “proprietario” - l”uso e il possesso:

Philosophi autem qui vocantur, si qua forte vera et fidei


nostrae accommodata dixerunt, maxime Platonici, non
solum formidanda non sunt, sed ab ei: tanquam iniu:ti:
po::e::oribu: in usum nostrum vindicanda.73

Questo sarà il Pico della seconda stagione fiorenti-


na; questo, soprattutto, sarà il Pico degli ultimissimi

7' Di qucsrbpera dà notizia G1ovAN FRAN<:ßs(:o Pico 1)1:L1.A


MIRANDOLA nella Ioanni: PiciMirandulae vita, a cura di T. SOR-
BELLI, Modena, Aedes Muratoriana, 1963 (rist. anastatica, ivi,
1994, p. 54), affermando che, di essa, lo zio aveva quasi portato a
termine solo la parte dedicata alla confutazione della scienza astro-
logica, le Diiputationer adver:u: artrologiam divinatricem.
77 I-Ieptaplus, pp. 246-48. E cfr. anche VII 4, dove Pico si ripro-
mette di combattere gli Ebrei con strali sottratti ai loro stessi arse-
nali: «Unde et vobis potentissima tela contra lapideum cor He-
braeorum de armamentariis eorum petita subministrabuntur»
(ibid., p. 348).
73 De doctrina C/Jristiana, II 40 (spunto analogo anche a II 18; e
cfr. inoltre Confe.r.rione:, V 6 e VII 9; Contra littera: Petiliani Dona-
tistae, II 30).
INTRODUZIONE XLIX

anni, tra il 1491 e il 1494, dopo un”ulteriore svolta in-


tellettuale e al tempo stesso esistenziale, in cui senza
dubbio giocò un ruolo di primo piano Girolamo Sa-
vonarola, che Lorenzo de' Medici richiamò a Firenze,
proprio a istanza di Giovanni Pico, nel 1490. E furo-
no Savonarola, Lorenzo e Pico, in questo estremo
scorcio del Quattrocento, a orientare larghi settori
della cultura fiorentina verso gli studi religiosi e teo-
logici, determinando una ricca fioritura di commenti
biblici, di traduzioni patristiche, di poesia sacra latina
e volgare, e in genere di letteratura devozionale. An-
che la produzione di Pico, dopo il suo ritorno a
Firenze, si muove quasi esclusivamente in questa di-
rezione, con i commenti alla sacra Scrittura (l'I-Iep-
taplus, il commento ai Salmi, le ancora inedite anno-
tazioni al libro di Giobbe),74 con le operette e le
epistole spirituali, con il grande trattato contro l”a-
strologia divinatrice, con i versi latini della Deprecato-
ria ad Deum, e - non va dimenticato - col definitivo
abbandono di qualunque ricercatezza stilistica e for-
male. Certamente si trattò anche, come ormai è asso-
dato, di un'operazione di politica culturale (basti ri-
cordare che fu proprio Lorenzo a commissionare a
Pico il commento ai Salmi, nel 1489, e che al medesi-
mo Lorenzo - presentato come un assiduo lettore
della Bibbia - è dedicato nello stesso anno l'Hepta-
plus): un'operazione che vide impegnati pressoché
tutti i maggiori intellettuali del momento, da Pico a

7* Cfr. \)(/IRSZUBSKI, Pic(/.r book of]ob. Sembra, comunque, che


Pico abbia redatto, o almeno abbozzato, annotazioni e commenti
(in buona parte, a quanto sembra, andati smarriti) anche ad altri li-
bri della Scrittura: cfr. al riguardo la testimonianza di GIOVAN
FRANCESCO nella Vita, cit., p. 47, e A. RASPANTI, Introduzione a
IOANNIS PICI MIRANDULAE Expoxitioner in Psalmos, pp. 15-16.
L INTRODUZIONE

Poliziano, da Ugolino Verino a Giovanni Nesi, da Gi-


rolamo Benivieni allo stesso Lorenzo. Ma sarebbe ri-
duttivo, e anzi profondamente errato, ricondurre la
svolta pichiana di questi anni esclusivamente all'osse-
quio nei confronti delle direttive del Magnifico: vice-
versa, bisognerà supporre che Lorenzo, sul finire de-
gli anni '80, scegliesse di circondarsi di uomini -
quali Pico e Savonarola - di sincera spiritualità e di
provata preparazione teologica, onde trasformarli nei
nuovi fari della cultura fiorentina (a fianco e in sosti-
tuzione dell'ormai declinante stella ficiniana), così
imprimendo un ulteriore impulso a quegli studi e a
quegli interessi religiosi e teologici che a Firenze, e
anche nella famiglia Medici (basti pensare a Lucrezia
Tornabuoni), erano stati sempre vivissimi lungo tutto
l'arco del Quattrocento.
In quest'ottica di lungo periodo, l`itinerario cultu-
rale e spirituale di Pico, pur nell'indubbia evoluzione
che lo caratterizzò (e che trova negli eventi del 1487
uno dei decisivi punti di svolta), appare sostanzial-
mente coerente, omogeneo e privo di autentiche frat-
ture interne. Certo, l'epoca dell'Oratio de bomini: di-
gnitate, con i suoi giovanili fervori e le sue smisurate
ambizioni, tramontò rapidamente: e, con essa, si af-
fievolì e poi scomparve l'interesse per i prisci tbeologi,
per la magia, per la qabbalab e per le tradizioni cultu-
rali non cristiane (quella caldaica, quella ebraica e
quella araba), e insieme venne meno il gusto umani-
stico della bella forma letteraria, della ricercata elabo-
razione linguistica e stilistica. Ma sarebbe storica-
mente semplicistico e fuorviante vedere nella con-
clusiva apertura all'esperienza savonaroliana un ritor-
no all'indietro, un ripiegamento di Pico (e, con lui,
dell'intero umanesimo fiorentino) verso posizioni or-
todosse e medioevali; così come è fuori luogo parlare
INTRODUZIONE LI

- a proposito degli ultimi anni del Mirandolano - di


una «dolente (cristianamente dolente) maturità».75
L`approdo di Pico (come di molti umanisti fiorentini
del secondo Quattrocento) a Savonarola fu in realtà il
logico coronamento di un percorso segnato da pro-
fondi interessi teologici e da una intensa spiritualità
cristiana, che già nell'Oratio emergono con tutta evi-
denza, e che le opere successive non fecero che affi-
nare e perfezionare, liberando gli uni e l'altra - in un
processo di graduale rastremazione e decantazione -
da quelle componenti allotrie (magico-esoteriche, in-
tellettualistiche, retoriche) che tanto spazio avevano
ancora negli scritti giovanili.

75 Cosi BIONDI, La doppia incbierta, p. 212: «Le vicende romane


del 1487 [...] scolorirono il mondo di Pico; ed egli fu spinto nella
sua dolente (cristianamente dolente) maturità». E anche ID., Intro-
duzione all`edizione da lui curata delle Conclurionex, p. XXXVI: «Il
Pico che ci parla dalle postume Dirputatione: adversui a_rtrologo: è
un brillante razionalista disincantato, più saggio forse, certo più
triste». Partendo dai medesimi presupposti, il FARMER, Syncreti:/n,
pp. 166-69 (cfr. qui sopra, nota 11), è giunto a negare la paternità
pichiana delle sue operette spirituali, nella convinzione che il savo-
narolismo di Pico sia stato enfatizzato ad arte dal nipote Giovan
Francesco e dall'apologetica piagnona.
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Il rinvio in forma abbreviata consiste nel cognome dell'edi-


tore critico e/o del commentatore.

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cura di A. BIONDI, Firenze, Olschki, 1995 (da cui si cita,
ma rivedendo il testo sulla base dell'ediz. del FARMER,
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DISCORSO SULLA DIGNITA DELL'UOMO
Legi, patres colendissimi, in Arabum monumcntis,
interrogatum Abdalam Sarracenum quid in hac quasi
mundana scena admirandum maxime spectaretur,
nihil spectari homine admirabilius respondisse. Cui
sententiae illud Mercuríi adstipulatur: <<Magnum, 0
Asclepi, miraculum est homo». Horum dictorum ra-
tionem cogitanti mihi non satis illa faciebant, quae

1. patres: sono così designati i dotti che avrebbero dovuto parte-


cipare alla disputa romana organizzata da Pico nel 1486 per discu-
tere le sue novecento tesi (al § 154 si parla al riguardo di «amplissi-
mus doctissimorum hominum consessus›› e di «apostolicus sena-
tus», ossia del collegio cardinalizio). - Legi respondisse: fonte
non individuata. Alcuni hanno identificato il personaggio in que-
stione (Abd Allàh = “servo di Dio') con 'Abd Allah ibn al-Muqaffà,
«scrittore arabo di origine persiana del secolo VIII, traduttore ara-
bo di opere medo-persiane» (TOGNON, p. 62, e già CICOGNANI, p.
97); altri con Anselmo Turmeda, frate francescano spagnolo che,
convertito all'islamismo, assunse appunto il nome di Abdallah
(1352-1425 ca: cfr. B()RI, I tre giardini, pp. 551-64). Molto più pro-
babilmente, anche alla luce dell'espressione pichiana «in Arabum
m0numentis››, si tratterà però di `Abdallah ibn Salam, ebreo di
Medina, che si converti all'Islam due anni prima della morte di
Maometto (nel 630) per aver constatato l'identità di contenuto fra
il Corano e la Torah (cfr. Corano, sura XLVI 10). Secondo la tradi-
zione, avrebbe collaborato con Maometto alla stesura del Corano,
e sarebbe stato uno dei quattro giudei che interpellarono lo stesso
Maometto intorno a cento questioni teologíche (cfr. NI(ìCOI.(`) CU-
SANO, Cribratio /llcborani, prologo primo, p. 718; I 1, p. 733). Re-
soconto di questo dialogo fra Maometto e i quattro giudei È lo
scritto noto come Doctrina Macbumeti, latinizzato da Hermann
Dalmata e normalmente accluso, in età medioevale e umanistica, ai
Ho letto, reverendissimi padri, negli antichi libri I

degli Arabi, che il saraceno Abdallah, interrogato su


quale cosa gli apparisse massimamente degna di me-
raviglia in questa - per dir così - scena mondana, ri-
spose che niente vi appare di più meraviglioso
dell'uomo. Alla quale opinione si accorda il celebre 2
detto di Mercurio: «Grande miracolo, o Asclepio, è
l'uomo››. Riflettendo sul significato di simili afferma- 3
zioni, non mi soddisfacevano gli argomenti che da

codici che trasmettevano il Corano latinizzato (è a stampa in TII.


BIBLIANDER, Mac/Jumetis Saracenorum principis eiusque successo-
rum vitae ac dottrina ipseque Alcoran, s.n.t. [ma Basilea, ex officina
Ioannis Operini, 1543 cal, vol. I, pp. 189-200). Un «Abdala» è ci-
tato da Pico anche nelle Conclusiones, p. 38 (= Conclusiones secun-
dum Adelanduin Arabem, 6: «sicut dixit Abdala»).
2. Magnum bomo: cfr. Asclepius, VI, p. 301: «Propter haec, o
Asclepi, magnum miraculum est homo» (citato da Pico anche nel-
l'Heptaplus, V 6, p. 304). Si tratta tuttavia di un luogo comune, già
recuperato da AGOSTINO (De civ. Dei, X 12: «omni miraculo [...]
maius miraculum est homo››) e ripreso poi, fra gli altri, dal FICINO
nella Tbeologia Platonica (XIV 3) e da ANTONIO DEGLI AGLI nel
De immortalitate animae (citato in GARIN, La cultura filosofica, p.
1 13). Mercurius è Ermete Trismegisto (`tre volte grandissimo'), il
leggendario filosofo egiziano cui era attribuito il corpus degli scritti
ermetici (risalenti in realtà alla tarda epoca alessandrina): cfr. § 199
e nota Propterea mysteriis. Dell'/lsclepius ci è giunta solo una tra-
duzione latina, inclusa tra le opere di Apuleio.
3. Horum mi/ai: ricorda l'attacco di CICERONF., De orat., I 1:
«Cogitanti mihi saepe numero››. L`incipit del De finibus sarà invece
ripreso al § 151 (cfr. nota relativa). - esse inferiorum: cfr. TOM-
4 DISCORSO SULLA DIGNITA DELL'UOMO

multa de humanae naturae praestantia afferuntur a


multis: esse hominem creaturarum internuntium, su-
peris familiarem, regem inferiorum; sensuum perspi-
cacia, rationis indagine, intelligentiae lumine naturae
interpretem; stabilis evi et fluxi temporis interstitium,
et (quod Persae dicunt) mundi copulam, immo hy-
meneum, ab angelis, teste Davide, paulo deminutum.
4 Magna haec quidem, sed non principalia, idest
quae summae admirationis privilegium sibi iure ven-
S dicent. Cur enim non ipsos angelos et beatissimos
6 caeli choros magis admiremur? Tandem intellexisse
mihi sum visus cur felicissimum proindeque dignum
omni admiratione animal sit homo, et quae sit de-
mum illa conditio quam in universi serie sortitus sit,

MASO D'AQUINO, Exp. Etb., VII 1, 8: «anima humana media est in-
ter superiores substantias et divinas [...] et animalia bruta». E cfr.
FICINO, Tbeol. Plat., III 2, dove si dice che l`anima umana «talis
existit ut superiora teneat, inferiora non deserat, atque ita in ea su-
pera cum inferis colligantur››. La duplice natura dell'u0mo è sotto-
lineata anche nell'Asclepius (VIII e IX), dove pure si insiste sulla
'parentela' fra uomini e dei (XXIII, p. 325: «de cognatíone et con-
sortio hominum deorumque››). - sensuum lumine: nel suo com-
mento all'Asclepius, Ficino esalta l'«acumen mentis», la «sagacitas»
e la «intentio animi» dell'uomo (Opera, vol. II, p. 1860). - stabilis
bymeneum: nel FICINO, Tbeol. Plat., III 2, l”anima dell'uom0 è
definita «universorum connexio», «vinculum››, «Centrum naturae,
universorum medium, mundi series, vultus omnium nodusque et
copula mundí›› Le locuzioni mundi copula e mundi bymeneus sono
sinonimiche. Cfr. ancora ibid., X 3: «[rationales animae] secun-
dum Chaldaeos in confinio sunt aeternitatis et temporis›› (per que-
sto concetto cfr. anche ibid., III 2). «Imene››, «membrana» (greco
upfiv) è in effetti termine tecnico degli oracoli caldaici (Oracula
Cbaldaica, fr. 6 des Places), dove designa il principio intellettivo di
separazione tra gli esseri (cfr. le note dell'ed. des Places, pp. 124-
25). - ab deminutum: cfr. Ps., 8, 6: «minuisti eum paulo minus
ab angelis›› (e DANTE, Conv., IV 19, 7: «Tu l'hai fatto poco minore
3-6 5
molte parti vengono addotti a proposito dell'eccel-
lenza della natura umana: essere, cioè, l'u0mo mes-
saggero tra le creature, affine a quelle superiori, so-
vrano di quelle inferiori; interprete della natura, in
virtù dell'acutezza dei sensi, della capacità analitica
della ragione, della luce dell'intelletto; interstizio tra
l`immobile eternità e il fluire del tempo, e (come di-
cono i Persiani) vincolo, anzi imeneo del mondo, di
poco meno grande - secondo quanto afferma David
- rispetto agli angeli.
Queste ragioni sono certo di grande rilievo, ma 4
non sono le più importanti: non sono tali, cioè, da
poter rivendicare a sé stesse il privilegio di una supre-
ma ammirazione. Perché infatti, allora, non ammiria- 5
mo maggiormente gli stessi angeli, oppure i beatissi-
mi cori celesti? Alla fine mi parve di aver compreso 6
perché felicissimo tra gli esseri viventi, e quindi de-
gno di ogni ammirazione, sia l”uomo; e quale vera-

che li angeli››); PICO, Commento sopra una canzona, III 1, pp. 539-
40: «rettamente dice David che gli uomini sono poco diminuiti
dalla natura angelica [...] e noi dalla dignitate angelica poco dimi-
nuiti>>; Commento ai Salmi, XVII, p. 166: <<[Deus] qui et nos paulo
minus ab angelis minuit››; Heptaplus, III 7: «hominem deminu-
tum ab angelis›› (c qui il § 97). Per la diffusa idea dell'uomo come
“piccolo mondo), nel quale sono racchiuse, insieme allo spirito di-
vino, le diverse nature di tutto ciò che esiste, cfr. ancora /l.sclepiu.t,
VI, p. 302; NI:MEsIo, De natura boininis, I 63-64; BON/\vnNru1</\,
Itinerarium mentis in Deum, II 2-3; MANE'I`TI, De dignitate, I, p. 30;
e anche PICO, Commento sopra una canzona, I 12, p. 478 («la natu-
ra dell'uomo, quasi vinculo e nodo del mondo, è collocata nel gra-
do mezzo dell”universo; e come ogni mezzo participa de gli extre-
mi, Così lluomo per diverse sue parte con tutte le parti del mondo
ha communione e convenienzia, per la quale cagione si suole chia-
mare Microcosmo, cioè uno piccolo mondo»); Heptaplus, aliud
prooemium, p. 192, e V 7, p. 304; e qui il § 1 17.
6 DISCORSO SULLA DIGNITA DELLYUOMO

non brutis modo, sed astris, sed ultramundanis men-


-s tibus invidiosam. Res supra fidem et mira! Quidni?
Nam et propterea magnum miraculum et admiran-
dum profecto animal iure homo et dicitur et existi-
matur. Sed quae nam ea sit audite, patres, et benignis
auribus pro vestra humanitate hanc mihi operam
condonate.
IO Iam summus Pater architectus Deus hanc quam vi-
demus mundanam domum, divinitatis templum au-
gustissimum, archanae legibus sapientiae fabrefece-
II rat. Supercelestem regionem mentibus decorarat;
ethereos globos aeternis animis vegetarat; excremen-
tarias ac faeculentas has inferioris mundi partes om-
Il nigena animalium turba complerat. Sed, opere con-
sumato, desiderabat artifex esse aliquem qui tanti
operis rationem perpenderet, pulchritudinern ama-

8. Nam existimatur: Pico recupera qui il passo dell`Aselepius


citato in apertura, ampliandolo con una parafrasi delle parole ad
esso immediatamente successive: «animal adorandum atque hono-
randum» (VI, pp. 301-302).
Io. arc/:ianae fabrefecerat: per le arcbanae leges sapientiae cfr.
Sap., 11, 21, dove alla divina sapienza si dice: «omnia in mensura,
ct numero, et pondere disposuisti››. E cfr. anche ibid., 9, 9 («sa-
pientia tua, quae novit opera tua, quae et affuit tunc cum orbem
terrarum faceres››); Ps., 103, 24.
I I. excrementarias acfaeculentas: dei due aggettivi, il primo non è
attestato dai lessici, mentre il secondo ricorre nel latino cristiano e
nel Temistio di ERMOLAO BARBARO (f. II0r: «sanguinem feculen-
tum››), e tornerà - con identico significato figurato - nell'Heptaplus
(I 3, p. 2 14: «ex foeculenta crassioreque parte mundani corporis››) e
nel Commento aiSalmi (p. 168: «terrcnum [...] et foeculenturn››). -
omnigena: l`agg. omnigenus (che torna ai §§ 27 e 192, nonché
nell`Heptaplus, VII 5, p. 364) è in Ausonio e negli autori cristiani.
Pico lo trovava però anche in LUCREZIO, V 428 («omnigenos coe-
tos››), dove Lachmann corresse in omne genus.
6-12 7

mente sia quella condizione che egli ha avuto in sorte


nell'ordine dell'universo, invidiabile non solo dagli
animali bruti, ma anche dagli astri e dalle intelligenze
ultramondane. Cosa incredibile e meravigliosa! E 7-
perché no, dal momento che proprio per questo l'uo-
mo viene a buon diritto definito e considerato un
grande miracolo e un essere senza dubbio degno di
ammirazione? Ma quale mai sia questa sua condizio-
ne, o padri, ascoltate, e, in grazia della vostra benevo-
lenza, con benigne orecchie perdonatemi questo di-
scorso.
Già Dio, sommo Padre e architetto, aveva fabbri- IO

cato con arte, secondo le leggi della sua arcana sa-


pienza, questa dimora mondana che vediamo, augu-
stissimo tempio della divinità. Aveva adornato con le II

intelligenze angeliche la regione iperurania; aveva


animato le sfere celesti con gli spiriti beati; aveva po-
polato queste parti sozze e fangose del mondo infe-
riore con una multiforme turba di animali. Ma, una 12

volta compiuta l'opera, l'artefice desiderava che ci


fosse qualcuno capace di intendere il senso di una
creazione così magnifica, di amarne la bellezza, di

12. Sed admiraretur: che l'uomo sia stato creato da Dio per-
ché ne ammiri l'opera afferma, ad esempio, L/\TT/\NZI(), De ira Dei,
XIV 1: «Sicut mundum propter hominem machinatus est [Deus],
ita ipsum propter se tamquam divini templi antistitem, spectato-
rem operum rerumque caelestium››. E cfr. anche MANI;'I'TI, De di-
gnitate, III, p. 96: «Fecit igitur Deus hominem ut per quandam ad-
mirabilium operum suorum intelligentiam certamque cognitionem
eorum opificem recognosceret et coleret››. Si tratta di un motivo
anche ermetico; vedi Corpus Hermeticum, III 3 («Dio ordinò poi
che fossero creati gli uomini, perché conoscessero le opere divine
[...]. Dio creò gli uomini perché contemplassero il cielo, la corsa
degli dei celesti, le opere divine››) e X 15; /lsclepius, VIII-IX.
8 DISCORSO SULLA DIGNITA DELL,UOMO

ret, magnitudinem admiraretur. Idcirco iam rebus


omnibus (ut Moses Timeusque testantur) absolutis,
de producendo homine postremo cogitavit. Verum
nec erat in archetipis unde novam sobolem effinge-
ret, nec in thesauris quod novo filio hereditarium lar-
giretur, nec in subselliis totius orbis ubi universi con-
templator iste sederet. Iam plena omnia; omnia sum-
mis, mediis infimisque ordinibus fuerant distributa.
Sed non erat paternae potestatis in extrema faetura
quasi effetam defecisse; non erat Sapientiae consilii
inopia in re necessaria fluctuasse; non erat benefici
Amoris ut qui in aliis esset divinam liberalitatem lau-
daturus, in se illam damnare cogeretur.
Statuit tandem optimus opifex ut cui dari nihil
proprium poterat, ei commune esset quicquid priva-
tum singulis fuerat. Igitur hominem accepit, indiscre-

13. Idcirco cogitavit: cfr. Gen., I 26-28; PLATONE, Tim., 41b-


d; ID., Protag., 320c-322d; TIMEO DI LOCRI, De natura mundi et
animae, 43-44 (p. 54). Dell'operetta di Timeo (citata più volte an-
che dal Ficino nella T/Jeologia Platonica: III 2; V 13-14; XVII 4) Pi-
co possedeva due copie nella sua biblioteca (KIBRE, Tbe Library, n.
2 1 8 e 949).
14. Verum sederet: cfr. ancora PLATONE, Protag., 320d-321c,
dove si narra che gli dei affidarono ad Epimeteo il compito di asse-
gnare e distribuire agli esseri viventi le varie facoltà, e che egli «non
si accorse di aver esaurite tutte le facoltà per gli animali: e a questo
punto gli restava ancora la razza umana non sistemata, e non sape-
va come rimediare».
16. Sed cogeretur: l'andamento ternario che caratterizzava i §§
precedenti (I I-12 e 14-15) e che tornerà anche in seguito (§ 18)
culmina qui nell'evocazione delle tre persone della Trinità: il Padre
ovvero la Potenza («paternae potestatis››), il Figlio ovvero la Sa-
pienza, lo Spirito Santo ovvero l'Amore. Da notare anche la figura
etimologica faetura / effetam. Per faetura nel senso di 'atto del par-
torire, del generare', cfr. PLINIO, Nat. bist., praef. 1: «proxima fe-
tura»; in PICO, Epistola a Lorenzo de' Medici, p. 22 («legitimam fe-
turam››) il termine ha il senso traslato di `creazi0ne', 'prodotto'.
12-18 9

ammirarne la grandezza. Per questo, dopo aver ormai 13


(come attestano Mosè e Timeo) portato a termine
tutte le cose, meditò infine di creare l`uomo. Ma non 14
c”era tra i modelli uno sul quale esemplare la nuova
stirpe, non ciera negli scrigni qualcosa da donare in
eredità alla nuova creatura, non c'era tra i seggi di
tutto il mondo uno sul quale potesse trovare posto
codesto contemplatore dell'universo. Tutti erano or- IS
mai occupati; tutti erano stati assegnati, ai gradi som-
mi, ai mezzani e agli infimi. Ma non sarebbe stato de- 16
gno della potenza del Padre venir meno, quasi sfinita,
nel suo estremo parto; non della sua Sapienza esitare
per pochezza d”ingegno di fronte a un'opera necessa-
ria; non del suo benefico Amore, che colui che avreb-
be dovuto lodare nelle altre cose la divina liberalità
fosse costretto a biasimarla in ciò che lo riguardava.
L'ottimo artefice stabilì infine che a colui al quale 17
nulla poteva esser dato di proprio fosse comune tutto
quanto era stato concesso di particolare alle singole
creature. Prese dunque l'uomo, questa creatura di 18

Per effeta nel senso di `sfinita dai parti' cfr. la «effeta tellus» di LU-
(IREZIO, II 1150. Che «non è proprio di Dio [...] lo stancarsi» si leg-
ge nel Corpus I-Ierinetieum, XVIII 1 (e anche 3: «Dio è un soffio in-
stancabile››); che il mondo sia «divinitatis partum›› afferma l'Ascle-
pius, VIII, p. 305.
17. opifex: il termine, per designare il creatore dell'universo, E-:
già impiegato dai poeti classici (OVIDIO, Met., I 79; LUGANO, X
267), e ricorre con frequenza negli autori cristiani. Qui cfr. in par-
ticolare CALCIDIO, In Timaeum, 26, p. I 86, dove si afferma che Dio
edificò il mondo «tanquam opifex aliquis manibus ceterarumque
artiurn molitione». E cfr. anche il § 56 (e la nota relativa), oltre a
PICO, Commento sopra una canzona, I 9, p. 473 («opefice del mon-
do››) e III 10, p. 570 («l'opifice del mondo»); Commento ai Salmi,
pp. 170, 188, 220.
18. indiscretae imaginis: indiscretus vale qui indeterminato',
IO DISCORSO SULLA DIGNITA DELL›UOMO

tac opus Imaginis, atque in mundi positum meditullio


sic est alloquutus: «Nec certam sedem, nec propriam
faciem, nec munus ullum peculiare tibi dedimus, o
Adam, ut quam sedem, quam faciem, quae munera
tute optaveris, ea pro voto, pro tua sententia habeas
et possideas. Definita caeteris natura intra praescrip-
tas a nobis leges cohercetur. Tu, nullis angustiis
cohercitus, pro tuo arbitrio, in cuius manu te posui,
tibi illam prefinies. Medium te mundi posui, ut cir-
cumspiceres inde comodius quicquid est in mundo.
Nec te celestem neque terrenum, neque mortalem
neque immortalem fecimus, ut, tui ipsius quasi arbi-
trarius honorariusque plastes et fictor, in quam ma-
lueris tute formam effingas. Poteris in inferiora, quae
sunt bruta, degenerare; poteris in superiora, quae
sunt divina, ex tui animi sententia regenerari››.

`incerto', indefinito', ossia potenzialmente capace di assumere


qualunque forma e natura (greco dôtdicpurog). ALLEN, Cultura bo-
minis, pp. 177-79, ricollega questa nozione a quella platonica
(P/øil., 23c e sgg.) di äitatpov (`infinito', indeterminato', nel senso
“potenziale” del termine). -in meditullio: cfr. GIROLAMO, Adv.
Pelag., I 12: «semper hominem in meditullio positum›› (altri luoghi
paralleli in BAUSI, Nec rbetor, pp. 127-28). La rara voce meditul-
lium (attestata in Apuleio e negli autori cristiani) torna anche
nell'Heptaplus, I 3, p. 214. Nell'Asclepius, VI, p. 301, si sottolinea
la medietas della specie umana, e si afferma (p. 302) che l`uomo
«sic ergo feliciore loco medietatis est positus, ut quae infra se sunt
diligat, ipse a se superioribus diligatur›› (e commentando queste
parole, Ficino scrive che l'uomo è «in mundi medio positus››: Ope-
ra, vol. II, p. 1860). Lo stesso FICINO, Tbeol. Plat., I 1, scrive che
l'anima umana, «inter gradus huiusmodi medium obtinens, vincu-
lum naturae totius apparet››; e «cum media omnium sit, vires pos-
sidet omnium» (III 2). - Nec possideas: nel secondo proemio
dell'Heptaplus (p. 194) si afferma che «naturae [...] discretas tamen
proprias sedes et peculiaria quaedam iura sortitae sunt›› (mentre
qui sopra l”uomo è stato definito «indiscretae opus imaginis››). Ha-
beas et possideas è dittologia sinonimica.
18-23 11

aspetto indefinito, e, dopo averlo collocato nel centro


del mondo, così gli si rivolse: «O Adamo, non ti ab-
biamo dato una sede determinata, né una figura tua
propria, né alcun dono peculiare, affinché quella se-
de, quella figura, quei doni che tu stesso sceglierai, tu
li possegga come tuoi propri, secondo il tuo desiderio
e la tua volontà. La natura ben definita assegnata agli
altri esseri è racchiusa entro leggi da noi fissate. Tu,
che non sei racchiuso entro alcun limite, stabilirai la
tua natura in base al tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho
consegnato. Ti ho collocato come centro del mondo
perché da lì tu potessi meglio osservare tutto quanto
è nel mondo. Non ti creammo né celeste né terreno,
né mortale né immortale, in modo tale che tu, quasi
volontario e onorario scultore e modellatore di te
stesso, possa foggiarti nella forma che preferirai. Po-
trai degenerare negli esseri inferiori, ossia negli ani-
mali bruti; o potrai, secondo la volontà del tuo ani-
mo, essere rigenerato negli esseri superiori, ossia nel-
le creature divine».

20. pro posui: cfr. Eccli., 15, 14: «Deus ab initio constituit ho-
minem, et reliquit illum in manu consilii sui» (V/\Lt:I<I-1-G/\LII1oIs,
Le périple intellectuel).
22. arbitrarius fictor: nel senso di `volontario`, arbitrarius è at-
testato in Plauto e in Gellio; qui la fonte è però M/\I<zI/\No C/\I›uI.-
LA, I 68, dove Giove è definito «fictor arbitrarius [mundi]›› (ed è
notevole che l`espressione sia riferita da Pico all”uomo). L'aggetti-
vo bonorarius è invece tecnicismo giuridico, applicato di norma ai
magistrati designati dal pretore; qui vale `straordinario', ossia “reso
tale da Dio', che è invece plastes et fictor ordinarius (o naturalis).
Cfr. anche la lettera di Poliziano a Pico del 2 maggio 1494: <<non
quidem ut iudex, sed ut arbiter honorarius» (POLIZIANO, Opera
omnia, p. 164). La fonte dell”immagine è PLOTINO, Ennead., l 6
[1], 9, 13: «Non smettere di costruire la statua di te››.
23. Poteris regenerari: per la contrapposizione degenerare / re-
generari (e per i rinvii ai luoghi paralleli dcll'I-Ieptaplus e del Com-
I2 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLYUOMO

O summam Dei patris liberalitatem, summam et


admirandam hominis foelicitatem, cui datum id ha-
bere quod optat, id esse quod velit! Bruta, simul at-
que nascuntur, id secum afferunt (ut ait Lucilius) e
bulga matris quod possessura sunt. Supremi spiritus
aut ab initio aut paulo mox id fuerunt, quod sunt fu-
turi in perpetuas aeternitates. Nascenti homini omni-
faria semina et omnigenae vitae germina indidit Pa-
ter. Quae quisque excoluerit, illa adolescent, et fruc-
tus suos ferent in illo. Si vegetalia, planta fiet; si sen-
sualia, obrutescet; si rationalia, caeleste evadet ani-
mal; si intellectualia, angelus erit et Dei filius. Et si,
nulla creaturarum sorte contentus, in unitatis cen-
trum suae se receperit, unus cum Deo spiritus factus,
in solitaria Patris caligine, qui est super omnia consti-
tutus omnibus antestabit.

mento ai Salmi) cfr. Introduzione, pp. XX-XXI. E cfr. qui anche l'an-
titesi reformant / deformant al § 35.
25. Bruta sunt: cfr. LUCILIO, 623 Marx (citato in NONI() MAR-
CELLO, De compendiosa doctrina, p. 109 Lindsay): «ita uti quisque
nostrum e bulga est matris in lucem editus» (dove bulga, `borsa`, è -
così come nella nostra traduzione - metafora per `utero'). La cita-
zione tornerà nelle Disputationes adversus astrologiam, IV 5, p. 4 5 8.
26. Supremi aeternitates: come osserva DE LUBAC, Pico, pp.
63-64, la precisazione paulo mox (`poco dopo') si riferisce qui alla
caduta di Lucifero e degli angeli suoi seguaci, che - esercitando un
libero arbitrio analogo a quello dell'uomo - si ribellarono a Dio
all'indomani della creazione.
27. omnifaria: il rarissimo aggettivo omnifarius, attestato in po-
chi autori cristiani (cfr. BAUSI, Nec rbetor, p. 136), ricorre inoltre
nell'I-Ieptaplus (aliud prooemium, p. 186) e nella precedente reda-
zione dell`Oratio (§ 27). Lo impiega anche il Poliziano nei Miscella-
nea, I 74 (Opera omnia, p. 284): «omnifariae historiae».
29. Si filius: cfr. GIAMBLICO, Protrepticus, V, p. 35 Pistelli:
«Privato dei sensi e dell'intelletto, l'uomo diventa simile a una
pianta; privato del solo intelletto, diventa una bestia; privato
dell'irrazionalità, ma restando in possesso della ragione, diviene af-
24-39 13
O somma liberalità di Dio Padre, somma e mirabile
felicità dell'uomo, cui è concesso di ottenere ciò che
desidera, di essere ciò che vuole! Gli animali bruti, ap-
pena vengono alla luce, recano con sé (come dice Lu-
cilio) dalla borsa della madre ciò che sono destinati a
possedere. Le intelligenze supreme furono sin dall”ini-
zio, o da poco dopo, ciò che saranno per l'eternità sen-
za fine. Nell'uomo, all'atto della nascita, il Padre infu-
se i semi di ogni specie e i germi di ogni genere di vita.
Cresceranno, e in lui produrranno i loro frutti, quelli
che ciascuno coltiverà. Se coltiverà quelli vegetali, di-
venterà una pianta; se quelli sensuali, abbrutirà; se
quelli razionali, riuscirà un essere celeste; se quelli in-
tellettuali, sarà un angelo e un figlio di Dio. E se, non
accontentandosi di alcuna delle sorti assegnate alle
creature, si raccoglierà nel centro della sua unità, di-
ventato un solo spirito con Dio, lui che fu stabilito so-
pra tutte le cose sarà superiore a tutte le cose, nella so-
litaria caligine del Padre.

fine a Dio››. E anche /lsclepius, V, p. 301 («prope deos accedit, qui


se mente, qua diis iunctus est, divina religione diis iunxerit, ct dac-
monum, qui his iunctus est; humani vero, qui mcdietate generis sui
contenti sunt; et reliquae hominum species his similes erunt, quo-
rum se generis speciebus adiunxerint››) e VII, p. 303; FICINO,
Tbeol. Plat., XIV 3.
30. in caligine: per la caligine di Dio, cfr. Ex., 20, 21 («Moyses
autem accessit ad caliginem in qua erat Deus››) e 24, 16; Deut., 4,
11; Ps., 17, 10-12 e 96, 2; Hebr., 12, 18. Cfr. anche GREGORII) DI
NISSA, Vila di Mosè, II 162-65, per il quale la caligine (greco
Yvó¢0c_,) simboleggia l°inconoscibilità della natura divina (164:
«Perciò Mosè, dopo essere diventato più grande per la conoscen-
za, afferma allora di conoscere Dio nelle tenebre, cioè egli ha cono-
sciuto che per natura la divinità è ciò che trascende ogni conoscen-
za e ogni comprensione››); e soprattutto lo PSEUDO-DIONI(;I AREO-
PAGITA, De mystica tbeologia, I 1 (PG III, 997a-10o0b), dove il mi-
stero di Dio è designato come caligine ('Yvód›0<;) e come tenebra
14 Dlscokso SULLA DIGNITA DELL'UoMo

Quis hunc nostrum chamaeleonta non admiretur?


Aut omnino quis aliud quicquam admiretur magis?
Quem non immerito Asclepius Atheniensis, versipel-
lis huius et se ipsam transformantis naturae argumen-
to, per Protheum in mysteriis significati dixit. Hinc
illae apud Hebreos et Pythagoricos methamorphoses
celebratae. Nam et Hebreorum theologia secretior
nunc Enoch sanctum in angelum divinitatis, quem

(oicótog). Sulla scia di Dionigi si muovono poi BONAVENTURA, Iti-


/ierarium mentis in Deum, VII 5-6 («Moriamur igitur et ingredia-
mur in caligine»: cfr. I DENG-SU, La mistica) e lo stesso Pico nel De
ente et uno, V, pp. 412-14 («ad caliginem ascendentes quam Deus
inhabitat»; «Dionysius Areopagita [...] quasi qui iam in caligine es-
set et, ut poterat, de Deo sanctissime loqueretur [...]»).
31. cbamaeleonta: cfr. FICINO, Translatio simul et explariatio in
Prisciani Lydi interpretationem .super Tbeopbrastum de pbantasia et
intellectu (1489 ca, in Opera, vol. II, p. 1825): «Imaginatio est tan-
quam Protheus vel cameleon» (cit. da GARIN, P/øantasia, p. 351). E
Proteo compare qui sùbito dopo (§ 3 3). Nelle Disputationes adver-
sus astrologiam (VI 2, p. 583), sulla scorta di Aristotele (Etb. Ni-
com., I 1 1, 1 Ioob), il camaleonte diventa simbolo negativo di inco-
stanza: «versipellis mutatio, et instar chamaleontis incostantia».
PLUTARCO, Quomodo adulator ab amico internoscatur, 53d, parago-
na l'adulatore al camaleonte.
3 3. Quem dixit: Proteo era un dio marino dotato di virtù pro-
fetiche, capace di assumere le più diverse forme per sfuggire a
quanti lo interrogavano (OMERO, Od., IV 383-570; VIRGILIO,
Georg., IV 387-527; POLIZIAN(), Commento alle Selve diStazio, p.
230). Negli Inni orjfici, XXV 2-3, Proteo è colui «che della natura
svelò tutti i principii I e trasformò la sacra materia in molteplici for-
me››; e per FICINO, T/reol. Plat., XI 3, «theologia orphica Protheum
appellat essentiam tertiam, animarum rationalium sedem›› (e l'ani-
ma umana, giacché contiene in sé le nature di tutte le cose, può
dunque essere paragonata a Proteo: cfr. anche ibid., IV, 2). Secon-
do CLEMENTE ALESSANDRINO, Paedag., III 1, 1, l'anima concupisci-
bile dell`uomo è più mutevole e incostante del multiforme Proteo.
Sconosciuta è l'identità dell'«Asclepio ateniese» citato da Pico: cfr.
CICOGNANI, p. 97, che a ragione esclude trattarsi di Asclepio di
Tralle (in Lidia), filosofo neoplatonico del VI sec. d.C.
3 5. Nam |1¬InIaD: cfr. PICO, Commento sopra una canzona, III 4,
31'35 15

Chi non ammirerà questo nostro camaleonte? O, 31-32


in generale, chi maggiormente ammirerà qualcos'al-
tro? Di lui, non senza ragione, Asclepio ateniese disse 33
che nei misteri, a causa della sua natura mutevole e
capace di assumere le fogge più diverse, era simbo-
leggiato da Proteo. Donde quelle ben note meta- 34
morfosi celebrate presso gli Ebrei e i Pitagorici. Infat- 35
ti anche la più segreta teologia ebraica trasfigura ora
il santo Enoch in un angelo della divinità, che essi

p. 554: «quando nell`uomo niuna umana operazione appare è vera-


mente morto quanto all`essere umano e, se da quello passa all`essere
intellettuale, è per tale morte di uomo in angelo trasformato; né al-
trimenti el detto si debbe intendere de` sapienti cabbalisti quando 0
Enoch in Matatron, angelo della divinità, 0 universalmente alcuno
altro uomo in angelo dicono trasf0rmarsi››; AVRAIIAM ABULAFIA, De
secretis Legis, citato da WIRSZUBSKI, Encounter, p. 232: «et dicunt
quod I-Ienoch est Mattatron et sic dixit Ionethes Chaldeus››. Per la
parola ebraica citata da Pico (]'I¬t:tnD = *Metatron`) cfr. qui la Nota al
testo, pp. 171-72; Me_ta_tron «is sometimes identified, notably by
Abulafia, with the Active Intellect, and is also called son›› (WIRSZUR
SKI, Encounter, p. 200, e anche PICO, Commentary, p. 231 n. 20,
nonché Conclusiones, p. 34 = Conclusiones .secundum Tliemistium,
2: «Intellectus agens illuminans tantum credo sit illud apud Themi-
stium, quod est Me_ta_tron in Cabala»; e le note del CICOGNANI, p. 98,
e del FARMER, Syncretism, p. 295, oltre a COPIìNIIAVIiR, Llocculto,
pp. 231-232). Secondo lo stesso \)(/IRSZUBSKI, Encounter, pp. 198-
200, il termine Metatron deve leggersi anche nella decima delle Con-
clusiones Cabalisticae (p. 128): «Illud quod apud Cabalistas dicitur
glràtàb [= Me_ta_tron], illud est sine dubio quod ab Orpheo Pallas, a
oroastre materna mcns, a Mercurio Dei filius, a Pythagora sapien-
tia, a Parmenide sphaera intelligibilis nominatur›› (la prince/is reca
uno spazio bianco in luogo della parola ebraica; e cfr. anche FAR-
MILR, Syncretisrn, p. 70). Per Enoch, patriarca figlio di lared e discen-
dente di Set, cfr. Gen., 5, 1 8-23; 1Crori_, 1, 3; per la sua assunzione al
cielo cfr. Eccli., 44, 16 e 49, 16 (e LELLI, Un collaboratore, p. 424: «il
patriarca Enoch, già nella letteratura apocalittica intertestamenta-
ria, venne considerato il primo uomo ad avere conosciuto mistica-
mente Dio o l'angelo Metatron, interpretato filosoficamente come
lllntelletto Agente››; M. IDEL, T/ae Image of Man ITI. tbe Sefirot [in
ebraicol, in «Da`at», IV, 1980, pp. 41-55; ID., Enocb Is Me_ta_tron [in
I6 DISCORSO SULLA DIGNITA DELLYUOMO

vocant ]'I¬tmI:, nunc in alia alios numina reformant; et


Pythagorici scelestos homines et in bruta deformant
et, si Empedocli creditur, etiam in plantas. Quos imi-
tatus Maumeth illud frequens habebat in ore, qui a
divina lege recesserit brutum evadere. Et merito qui-
dem: neque enim plantam cortex, sed stupida et nihil
sentiens natura; neque iumenta corium, sed bruta
anima et sensualis; nec caelum orbiculatum corpus,
sed recta ratio; nec sequestratio corporis, sed spirita-
lis intelligentia angelum facit. Si quem enim videris
deditum ventri, humi serpentem hominem, frutex

ebraico], in Early Jewisb Mysticism [«Jerusalem Studies in Jewish


Thought», VI, 1-2, 1987], a cura diJ. DAN, pp. 151-170). La «He-
breorum theologia secretior›› è la qabbalab (cfr. qui il S I 99, e anche
i §§ 23 5-37, con le note relative). - nunc reformant: secondo il CI-
(IOGNANI, p. 98, qui si allude all'ascensione al cielo di Elia (cfr.
4Regg., 2, 11). - Pytbagorici deformant: cfr. DIOGENE LAERZIO,
Vitae, VIII 14 e 36; e il passo di Calcidio citato alla nota seguente
(oltre a PICO, Heptaplus, IV 5, p. 280: «ut non sit creditu difficile pa-
radoxon Pythagoricorum, si recte intelligatur, improbos homines
migrare in bruta››). Da rilevare l”antitesi (in figura etimologica)
reformant / deformant, chiasticamente parallela a quella del § 23 (de-
generare/ regenerari). -si plantas: cfr. EMPEDOCLE, frr. 117 e 127
Diels-Kranz (il primo desunto da DIOGENE LAERZIO, Vitae, VIII 77,
il secondo da ELIANO, Nat. bist., XII 7); e anche frr. 35, 16-17 (da
SIMPLICIO, De caelo, 528, 30) e 115, 7-8 (da IPPOLITO, Ref, VII 29).
E cfr. inoltre lo stesso DIOGENE LAERZIO, Vitae, VIII 77: «Per Em-
pedocle [...] l'anima riveste qualsiasi specie di animale e di pianta»;
nonché - anche per Pitagora - CALCIDIO, In Tim., 195, p. 222: «Em-
pedocles tamen, Pythagoram secutus, ait eas [cioè le anime di chi vi-
ve seguendo i sensi] non naturam modo agrestem et feram sortiri,
sed etiam formas varias, cum ita dicit: “Namque ego iamdudum vixi
puer et solida arbos, l et tali sexu inde animal, tum lactea virgo”››.
Da ricordare anche PICO, Conclusiones, p. 1 I4 (Conclusiones de in-
telligentia dictorum Zoroastris, 4), dove si afferma che Empedocle
«ponit transanimationem etiam in plantis».
36. Quos evadere: cfr. Corano, ad esempio sura II 65 e 171;
sura VII 166, 176 e 179 (per la trasformazione degli infedeli e degli
increduli in scimmie, cani e animali in genere). Pico ebbe in presti-
ss-38 17
chiamano Metatron, e ora chi in un nume e chi in un
altro; mentre i Pitagorici riducono gli uomini scelle-
rati in animali bruti e, se crediamo a Empedocle, an-
che in piante. Maometto, sulla loro scia, era solito ri- 3
petere che chi si è allontanato dalla legge divina fini-
sce col diventare un animale bruto. E giustamente, in 37
verità: non è infatti la corteccia che fa la pianta, ma la
sua natura inintelligente e insensibile; non il cuoio
che fa i giumenti, bensì la loro anima bruta e sensua-
le; non la forma circolare che fa il cielo, ma la sua per-
fetta razionalità; non la separazione dal corpo che fa
l'angelo, bensì la sua intelligenza spirituale. Se per- 3

to una copia del Corano - in traduzione latina - dal Ficino, che


gliela richiese con una lettera dell'8 settembre 1486 (FICINO, Epist.,
VIII 19 = Opera, vol. I, p. 879, c PICO, Opere complete, epistole a
Pico, XXVIII; per la data cfr. Supplementum Ficinianum, vol. I,
pp. 34-35); Pico rispose che gliela avrebbe presto restituita, poi-
ché, grazie all'assiduo studio dell'arabo che andava conducendo in
quel periodo sotto la guida di Flavio Mitridate, di lì a poco sarebbe
stato in grado di leggere il Corano in lingua originale (lettera da
Fratta, non datata, in PICO, Commentationes, f. TT i v - TT ii r =
Opere complete, epistole di Pico, XX). Per gli studi arabi di Pico
cfr. \)(/IRSZUBSKI, Encounter, pp. 3-4, 241; perle copie del Corano -
in arabo, in ebraico e in latino - da lui possedute, cfr. PIEMONTESE,
Il Corano, pp. 236-38, 252-55, 264-69, 271-72 (c anche Marsilio Fi-
cino e il ritorno di Platone, pp. 78-79).
37. Et facit: da questo, e dai tre seguenti paragrafi, appare
chiaro che Pico non aderisce qui alla dottrina della metempsicosi,
ma (come FICIN(), Tbeol. Plat., XVII 4) interpreta in chiave pura-
mente metaforica e morale le trasformazioni dell'uomo in animale
0 in pianta di cui parlano Empedocle e i pitagorici (cfr. al riguardo
anche DE LUBAC, Pico, pp. 195-21 8). Così anche nell`IIeptaplus, IV
5 e 7 (cfr. qui Introduzione, note 14 e 19), nel De ente et uno (X, p.
440) e nella lettera a Giovan Francesco del 15 maggio 1492 («Cir-
ceis ebrios poculis in prodigiosas brutorum species illecebrosa [ca-
ro] deformat››: Commentationes, f. RR iii v = Opere complete, epi-
stole di Pico, I).
38. bumi bominem: il gioco di parole bumi/ bomineni è certo
I8 DISCORSO SULLA DIGNITA DELL'UOMO

est, non homo, quem vides; si quem in phantasiae


quasi Calipsus vanis praestigiis cecutientem et, sub-
scalpenti delinitum illecebra, sensibus mancipatum,
39 brutum est, non homo, quem vides. Si recta philo-
sophum ratione omnia discernentem, hunc venereris:
40 caeleste est animal, non terrenum. Si purum contem-
platorem corporis nescium, in penetralia mentis rele-
gatum, hic non terrenum, non caeleste animal: hic au-
gustius est numen, humana carne circumvestitum.
41'42 Ecquis hominem non admiretur? Qui non immeri-

allusione alla diffusissima pseudo-etimologia che faceva derivare


bomo da bumus (per la quale cfr. ad esempio ISIDORO, Etym., XI 1,
4 e De difl rer., XVII 47; EUSEBIO, Praepar. evang., XI 6 = PG
XXI, 856-57; GREGORIO MAGNO, Moralia, XII 32; MANETTI, De
dignitate, I, p. 5), accolta da Pico anche nell'I-Ieptaplus, IV 1, p.
270: «Quare et de humo factum, ut scribit Moses, homini dedit ap-
pellationem››. - quem cecutientem: secondo quanto narra OME-
RO (Od, V 55-269), Ulisse fu trattenuto per sette anni dalla ninfa
Calipso sulla sua isola; Pico interpreta allegoricamente le lusinghe
della ninfa (Od., I 55-57: «la figlia sua Iscil. Calipso, figlia di Atlan-
te] trattiene quel misero, afflitto, I e sempre con tenere, maliose pa-
role I lo incanta, perché scordi Itaca››) come le attrattive dei sensi,
che catturano e accecano la ragione (già, ad esempio, per BOCCAC-
(ZIO, Genealogie, XI 60, p. 1 146, Ulisse è allegoria del «bonus vir»;
e cfr. qui § 224 e nota Homeras probabimus). Calipsus è genitivo
greco (Calipso, -us) da legare a pbantasiae; mentre caecutire, in sen-
so translato, è del latino cristiano, e torna di frequente in Pico (cfr.
BAUSI, Nec rbetor, p. 133; è anche nel MANETTI, De dignitate, III,
p. 66). - subscalpenti: subscalpere ('solIeticare`) è un bapax, e si tro-
va - anche lì al participio, e in un contesto analogo -in MARZIANO
CAPELLA, I 7: «ne ullum tempus sine illecebra oblectamentisque
decurreret, pruritui subscalpentem circa ima corporis apposuerat
voluptatem››. - sensibus: per I'accostamento dei sensi' e della fanta-
sia (la facoltà deputata a giudicare le immagini ricevute dalla sensa-
zione: KRISTELLER, Il pensiero, p. 251) cfr. FICINO, T/ieol. Plat., IX
2: «Quando circa corporalia occupamur, intellectus aut nihil cernit
omnino aut non sincere discernit, sensibus et phantasia deceptus».
Anche I'immagine delle praestigiae della fantasia deriva da FICINO,
38-42 19

tanto vedrai un uomo che, schiavo del ventre, striscia


al suolo, quello che vedi è un vegetale, non un uomo;
se vedrai chi, servo dei sensi, brancola nei vani ingan~
ni della fantasia (come in quelli di Calipso) e si fa se-
durre dalla solleticante lusinga, quello che vedi è un
animale bruto, non un uomo. Se invece vedrai un fi- 39
losofo che tutto considera con retta ragione, venera-
lo: è una creatura celeste, non terrena. E se vedrai un 40
puro contemplatore, dimentico del corpo e rinchiuso
nei penetrali della sua mente, costui è creatura né ter-
rena né celeste: costui è un nume più santo, rivestito
di carne umana.
Chi dunque non ammirerà l'uomo? Lui che non a 41'42

z7?z'd., IX 3: «Sed ratio interim e summa mentis specula dcspiciens


phantasie ludos, ita proclamat: “Cave animula, cave inanis istius
sophistae praestz`gz'ar”››. E aggiungi Asclepíur, VII, p. 303: «Non
omnes, o Asclepi, intelligentiam veram adepti sunt, sed imaginem
temerario inpetu nulla vera inspecta ratione sequentes decipiuntur,
quae in mentibus malitiam parit et transformat optimum animal in
naturam ferae moresque beluarum».
39. Si terrenum: cfr. (anche per il § seg.) SENECA, Epzfirl., XLI
4-5: «Si hominem videris interritum periculis, intactum cupiditati-
bus, inter adversa felicem, in mediis tempestatibus placidum, ex
superiore loco homines videntem, ex aequo deos, non subibit te
veneratio eius? Non dices: ista res maior est altiorque quam ut cre-
di similis huic in quo est corpusculo possit? Vis isto divina descen-
dit; animum excellentem, moderatum [...] caelestis potentia agi-
tat». E inoltre ARIST()'I'liLE, Et/:_ Nícom., VII 1, r145a, da cui DAN-
TE, Conu., III 7, 6: «noi veggiamo molti uomini tanto vili e di sì
bassa condizione, che quasi non pare essere altro che bestia; e così
è da porre e da credere fermamente, che sia alcuno tanto nobile e
di si alta condizione, che quasi non sia altro che angelo».
4o. rzrcumvertitumz peri §§ 37-4o cfr. FICINO, Theo/. Plat., XIV
3 (citato qui nell'Im'r0duzí0ne, nota z3)›
42. Qui desígnatur: cfr. ad esempio Gen., 6, 12; Num., 27, 16;
Mc., 16, 15; 1Pezr., z, 13. Le «litterae Mosaycae» e quelle «Cl1ri~
20 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLIUOMO

to in sacris Litteris Mosaycis et Christianis nunc «om-


nis carnis››, nunc «omnis creaturae» appellatione de-
signatur, quando se ipsum ipse in omnis carnis fa-
ciem, in omnis creaturae ingenium effingit, fabricat et
transformat. Idcirco scribit Evantes Persa, ubi Chal-
daicam theologiam enarrat, non esse homini suam ul-
lam et nativam imaginem, extrarias multas et adventi-
tias. Hinc illud Chaldeorum [...], idest «homo variae
ac multiformis et desultoriae naturae animal››. Sed
quorsum haec? Ut intelligamus (postquam hac nati
sumus conditione, ut id simus quod esse volumus)
curare hoc potissimum debere nos, ut illud quidem
in nos non dicatur, cum in honore essemus non co-
gnovisse similes factos brutis et iumentis insipienti-
bus, sed illud potius Asaph prophetae: «Dii estis et fi-
lii Excelsi omnes››; ne, abutentes indulgentissima Pa-
tris liberalitate, quam dedit ille liberam optionem e

stianae›› sono, rispettivamente, l'Antico e il Nuovo Testamento. -


quando lranrforfnalz cfr. GIOVANNI SCOTO, De dz'z1z'.rz'0ne naturae
(PL CXXII, 536): «Non enim ulla creatura est, quae in homine in-
telligi non possit: unde etiam in sacris Scripturis omnis creatura
nominati solet››_
43. Idcirco aa'uentítz'as: fonte non individuata. Per queste sco-
nosciute `esposizioni' della teologia caldaica cfr. la lettera di Pico a
Ficino, citata in nota al § 259; e in generale per le fonti 'caldaiche'
di Pico cfr. Introduzione, p. XL.
44. Per questa lacuna, cfr. la Nola al testo, pp. 172-73; e WIR-
SZUBSKI, Encounter, pp. 241-42. - Hinc animal: cfr. forse Oracu-
la Cbaldaíca, fr. 106 des Places: «O uomo, prodotto di una natura
audace!›› (citato e tradotto dal FICINO nella 'I'/Jeo/. Plal., XIV 1:
«O homo, naturae audentissimae artificium››). L'aggettivo dexulto-
rin; è riferito solitamente ai dexultorex, ossia ai cavalieri che, duran-
te le corse, saltavano acrobaticamente da un cavallo all'altro. In
senso figurato, ricorre in Varrone e Apuleio; qui allude alla capa-
cità dell'uomo di assumere le più diverse nature, quasi `saltando”
dall'una all'altra. Poliziano (Nulrzcia 106-107) designa come «de-
sultoria Venus» l`amore libero degli uomini primitivi, prima
dell`istituzione del vincolo matrimoniale.
42-46 21

torto nelle sacre Scritture mosaiche e cristiane viene


designato col nome ora di «ogni carne», ora di «ogni
creatura», giacché modella, foggia e trasforma sé stes-
so nell'aspetto di ogni carne, nel carattere di ogni
creatura. Per questo il persiano Evante, là dove espo- 4
ne la teologia caldea, scrive che l'uomo non possiede
alcun aspetto proprio e originario, bensì numerosi
aspetti estranei e avventizi. Da qui il noto detto cal- 44
deo, secondo cui l”uomo è un essere di natura varia,
multiforme e cangiante. Ma perché dire tutto questo? 45
Perché comprendiamo come (essendo nati in questa 46
condizione, quella cioè di poter essere ciò che voglia-
mo) nostro principalissimo dovere sia fare in modo
che riguardo a noi non si dica che, pur essendo collo-
cati in grado onorevole, non ci siamo accorti di essere
diventati simili agli animali bruti e agli stolti giumen-
ti, ma piuttosto si ripetano le celebri parole di Asaf
profeta: «Voi siete dei, e tutti quanti figli dell'Altissi-
mo››; affinché noi, abusando della clementissima libe-
ralità del Padre, non trasformiamo da benefica in
perniciosa quella libertà di scelta che Egli ci ha con-

46. cum z'nrz`pic›nlz`/aus: cfr. Ps., 48, 21; <<IIomo, cum in honore
esset, non intellexit. Comparatus est iumentis insipientibus, et si-
milis factus est illis››. Citato anche nell'Hepraplus, IV 6, p. 284, e
nel Co/nƒnento supra una canzona, III 1o, p. 574: «né può essere se
non debile e inferma l`anima che sempre sopra il corpo prostrata
mai in sé non si diriza e in sé stessa rivolgendosi e' sua tesauri mai
riconosce, ma, come dice Asaf, essendo in dignità e onore posta,
non si conosce e simile diventa a' bruti insipienti›› (dove Pico attri-
buisce ad Asaf il salmo 48: cfr. la nota seguente). - .red 0mnv_v:
cfr. Pr., 81, 6: «Ego dixi: Dii estis, et filii Excelsi omncs»; Iob., 1o,
34. Il Salmo 81 reca l'intitolazione «Psalmus Asaph››; Asaf, cantore
e poeta sacro, era il direttore dei musici del tempio (cfr. 1Cr0n., 6.
39; 16, 5 e 7; 25, 1, 2 e 6; 2Cr0n., 5, 12); a lui la tradizione attribui-
sce dodici salmi. Cfr. anche la nota precedente.
22 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLIUOMO

47 salutari noxiam faciamus nobis. Invadat animum sa-


cra quaedam et Iunonia ambitio, ut mediocribus non
contenti anhelemus ad summa, adque illa (quando
possumus, si volumus) consequenda totis viribus eni-
48 tamur. Dedignemur terrestria, caelestia contemna-
mus, et, quicquid mundi est denique posthabentes,
ultramundanam curiam eminentissimae divinitati
49 proximam advolemus. Ibi, ut sacra tradunt mysteria,
Seraphin, Cherubin et Throni primas possident; ho-
rum nos, iam cedere nescii et secundarum impatien-
§O tes, et dignitatem et gloriam emulemur. Erimus illis,
cum voluerimus, nihilo inferiores.
51'$l Sed qua ratione, aut quid tandem agentes? Videa-
S3 mus quid illi agant, quam vivant vitam. Eam si et nos
vixerimus (possumus enim), illorum sortem iam
54 equaverimus. Ardet Saraph charitatis igne; fulget
Cherub intelligentiae splendore; stat Thronus iudicii

47. Invadat ambítío: cfr. la lettera di Pico al nipote Giovan


Francesco del 15 maggio 1492: «invadat te sancta quaedam ambi-
tio›› (Comznentatíoner, f. RR iiii r = Opere complete, epistole di Pi-
co, I). L”ambizione è qui detta «giunonica» perché Giunone - se-
condo le più comuni interpretazioni allegoriche dei miti greci - era
considerata regina e dea dei regni e delle ricchezze (cfr. ad esempio
B()(;(lAC(;I0, Genealogia, IX 1, pp. 876, 878-8o e XIII 1, p. 1280;
Esporzzzbní sopra la Cofnedia, p. 12). Sintagma analogo («ordo Pal-
ladicus››) al S 66; Pico aveva d'altronde progettato di comporre
una «poetica theologia›› (cfr. qui § 224 e nota Homerus probabi-
/nus). Per la lezione Iunonia (attestata dal solo ms. F) cfr. qui la No-
la al testo, pp. 167-68.
48. ultramundanam curiam: è l'Empireo, sede di Dio e degli an-
geli (cfr. ad esempio DANTE, Cono., II 3, 8-11).
49. Ibi pomdent: cfr. PSEUDO-D1oN1(;1 A1<1;o1>A(;1TA, De mel.
/Jícr., VI 2-VII 1 (PG III, 199-201 e 203-205). I nove ordini angeli-
ci sono distinti dallo Pseudo-Dionigi in tre gerarchie: Serafini, che-
rubini e troni; potestati, dominazioni e virtù; angeli, arcangeli e
principati (cfr. anche DANTE, Par., XXVIII 98-1 31; PICO, Conclu-
ríones, p. 56 = Conclusíones secundum doclrinam sapientum He-
46-S4 23
cesso. Pervada il nostro animo una sorta di sacra e
giunonica ambizione, sì che noi, insoddisfatti delle
cose ordinarie, aspiriamo alle più alte, e ci impegnia-
mo con tutte le forze (giacché possiamo, se vogliamo)
per conseguirle. Disdegniamo i beni della terra, di-
sprezziamo quelli del cielo, e, volgendo insomma le
spalle a tutto ciò che appartiene al mondo, voliamo
rapidi verso la curia ultraterrena, prossima all'eccelsa
divinità. Qui, secondo quanto testimoniano i sacri
misteri, i Serafini, i Cherubini e i Troni occupano i
primi posti; e noi, ormai incapaci di cedere e insoddi-
sfatti dei secondi seggi, emuliamo la loro dignità e la
loro gloria. Se lo vorremo, non saremo in niente infe-
riori a loro.
Ma in qual modo, e insomma come operando?
Consideriamo che cosa essi facciano, quale vita viva-
no. Se anche noi la vivremo (possiamo farlo, infatti),
già avremo uguagliato la loro condizione. Arde il Se-
rafino del fuoco dell'amore; rifulge il Cherubino del-
lo splendore dell'intelletto; sta il Trono nella saldezza

braeorurn Cabalirtarum, 2). La prima gerarchia (troni, cherubini e


serafini) è quella più immediatamente vicina a Dio.
54. Arde/ firmímze: più che sullo Ps|:UD<›-D1oN|(;| A1<uo1›/\c;1-
TA, Dc coel. bícr., VII 1 (PG III, zojb), dove i Serafini sono inter-
pretati come incantare: o calefacicntes, e i Cherubini come copia/n
cognzhonzk' 0 rapz'cntíae dzflurioncm (mentre il nome dei Troni «in-
dica il loro perfetto distacco da ogni soggezione terrestre e la loro
tendenza sovramondana verso ciò che è elevato››), Pico si fonda
qui su GREGORIO MAGNO, Hofnzl. in Evang., II 34, 10 (PL LXXVI,
1252), che attribuisce ai Troni il “giudizio divino": «Throni illa ag-
mina sunt vocata, quibus ad exercendum iudicium semper Deus
omnipotens praesidet. Quia enim thronos Latino eloquio sedes di-
cimus, throni Dei dicti sunt hi qui tanta divinitatis gratia replentur,
ut in eis Dominus sedeat, et per eos sua iudicia decernat» (e oltre:
«Cherubim quoque plenitudo scientiae dicitur. Et sublimiora illa
agmina idcirco cherubim vocata sunt, quia tanto perfectiori scien-
24 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL,UOMO

firmitate. Igitur si actuosae addicti vitae inferiorum


curam recto examine susceperimus, Thronorum stata
soliditate firmabimur. Si ab actionibus feriati in opifi-
cio opificem, in opifice opificium meditantes, in con-
templandi ocio negociabimur, luce Cherubica undi-
que corruscabimus. Si charitate ipsum opificem so-
lum ardebimus, illius igne, qui edax est, in Saraphi-
cam effigiem repente flammabimur. Super Throno,
idest iusto iudice, sedet Deus iudex seculorum. Super
Cherub, idest contemplatore, volat atque eum quasi
incubando fovet. Spiritus enim Domini fertur super
aquas, has - inquam - quae super caelos sunt, quae
apud Iob Dominum laudant antelucanis hymnis. Qui

tia plena sunt, quanto claritatem Dei vicinius contemplantur; [...]


Seraphim etiam vocantur illa spirituum sanctorum agmina quae ex
singulari propinquitate conditoris sui incomparabíli ardent amore.
Seraphim namque ardcntes vel incendentes vocantur››; Gregorio
per questo dipende a sua volta dallo Pseudo-Dionigi, espressamen-
te citato a II 34, 1 2). Cfr. anche PICO, Commento ai Salmi, pp. 164-
66; e inoltre DANTE, Par., IX 61-62: «Su sono specchi, voi dicete
Troni, / onde refulge a noi Dio giudicante», LANDINO, Cemento
sopra la Comedia, ff. D i r, I iv - I ii r.
55. actuosae vitae: il sintagma acluom vita proviene da SENE-
(IA, De lranq. animi, IV 8, ed è ripreso da Pico anche nella Epirlola
a Lorenzo ile' Medici del 15 luglio 1486 (p. 30) e nell'epistola ad
Andrea Corneo del 15 ottobre 1486 (PICO, Commentaliones, f. TT
vi r = Opere complete, epistole di Pico, XXXVI).
56. Si medilanlesz cfr. Commento ai Salmi, p. 170: «in opificio
prius opificem intuentes››; e p. 220: «opificem in suo opere, ubi est
multiplex et varius, potius quaerit, quam in se ipso, ubi est unus et
simplex». Subito dopo, si noti il prezioso ossimoro con figura eti-
mologicaz «in [...] ocio negocia/9i'mur››.
57. Si c/Jarilate ardebimus: ardere col semplice accusativo (`ar-
dere d'amore per') È poetico e raro (cfr. BAUSI, Nec rlaetor, p. 1 19). -
Igitur flammabimur: peri §§ 55-57, cfr. PICO, Expat. in Pralmos,
XVII, p. 166: «Troni, qui tertii sedent in supercoelestibus subselliis,
sua nos firmitate corroborant ne quam per imbecillitatem ruamus
vel deturbemur ex sede nostrae dignitatis. Cherubin, medii in eo or-
54-61 25

del giudizio. Se dunque, votati alla vita attiva, assu-


meremo con rettitudine la cura delle cose inferiori,
saremo resi saldi dalla stabile solidità dei Troni. Se, li-
beri dall'agire, considerando nella creazione il creato-
re, nel creatore la creazione, opereremo nell'ozio
contemplativo, brilleremo da ogni parte di luce che-
rubica. Se arderemo d'amore per il solo creatore, del
suo fuoco, che tutto divora, sùbito fiammeggeremo, a
immagine dei Serafini. Sul Trono, ossia sul giusto
giudice, siede Dio, giudice dei secoli. Sul Cherubino,
ossia sul contemplatore, Egli vola, e quasi covandolo
lo scalda. Lo Spirito del Signore, infatti, trascorre sul-
le acque, le acque - dico - che si trovano al di sopra
dei cieli e che, nel libro di Giobbe, lodano Dio con
inni antelucani. Chi è Serafino, ossia amante, è in

dine (his enim scientiarum plenitudinem ascribimus) dant ne veri


ignorantia decipiamur. Dat primus et supremus Seraphinorum or-
do, qui amatorio igne voluntatem purgat penitus et emundat, ne
malitia et motu propriae electionis peccemus». - Super /(met: cfr.
Pr., 17, 1 1: «Et ascendit super cherubim, et volavit››.
60. Spiritus' aquas: cfr. Gen. 1, 2: «et Spiritus Dei ferebatur su-
per aquas››. Nell'Heptaplus, III 3, p. 254, Pico afferma che la prima
gerarchia angelica «merito per aquas figurata est, quae super caelos,
idest super omnem circa mundana sive caelestia sive terrena actio-
nem, sunt constitutae». Cfr. anche la nota seguente. -/mx /Jymnis:
i commentatori rinviano a Iob, 38, 7: «Cum me laudarent simul astra
matutina, et iubilarent omnes filii Dei?»; ma qui Pico cita per errore
Giobbe in luogo di Davide: cfr. infatti Pr., 148, 4: «et aquae omnes
quae super caelos sunt, laudent nomen Domini›› (e PICO, Commen-
to .ropra una canzona, II 19, p. 510, dove queste acque sono identifi-
cate con gli angeli: «né altro è da intendere per l`acque che sono so-
pra i cieli, delle quali dice David che esse laudano continuamente
Iddio, se non essa mente angelica››). Per le preghiere antelucane cfr.
PICO, Concluriones, p. 60 = Conclurioner secundum aloctrínam Xa-
pientum Hebraeorum Cabalislarum, 37: «Per secretum orationis an-
telucanae, nihil aliud intelligere, quam proprietatem pietatis».
61. immo sunt: cfr. Iob. 10, 30 («Ego et Pater unum sumus››);
17, 11 («ut sint unum, sicut et nos››) e 21 («ut omnes unum sint, si-
26 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLIUOMO

Saraph, idest amator est, in Deo est, et Deus in eo,


immo et Deus et ipse unum sunt. Magna Thronorum
potestas, quam iudicando, summa Saraphinorum su-
blimitas, quam amando assequimur.
Sed quo nam pacto vel iudicare quisquam vel ama-
re potest incognita? Amavit Moses Deum quem vidit,
et administravit iudex in populo quae vidit prius con-
templator in monte. Ergo medius Cherub sua luce et
Saraphico igni nos praeparat, et ad Thronorum iudi-
cium pariter illuminat. Hic est nodus primarum men-
tium, ordo Palladicus philosophiae contemplativae
preses; hic nobis et emulandus primo et ambiendus,
atque adeo comprehendendus est, unde et ad amoris
rapiamur fastigia, et ad munera actionum bene in-
structi paratique descendamus. At vero operae pre-
cium, si ad exemplar vitae Cherubicae vita nostra for-
manda est, quae illa et qualis sit, quae actiones, quae
illorum opera, prae oculis et in numerato habere.
Quod cum nobis per nos, qui caro sumus et quae hu-

cut tu Pater in me, et ego in te, ut et ipsi in nobis unum sint››) e 22


(«ut sint unum, sicut et nos unum sumus››).
63. Sed inmgnila: cfr. AGOSTINO, De trin., X 1, 3: «illud enim
fieri potest, ut amet quisque scire incognita, ut autem amet inco-
gnita non potest››; FICINO, Comm. in Coni/., VI 7 («cum incognita
nemo desideret››) e VI 12 («optat autem nullus incognita››).
64. /lmauit monlez cfr. Ex., 24, 15-18. Da notare il chiasmo
che si instaura col § precedente: iuzlicare - amare / amavi! - admi-
nislravil iudex.
66. nodux mentium: Pico definisce l'ordine dei Cherubini «no-
dus primarum mentium» perché i Cherubini svolgono appunto una
funzione mediatrice fra l`ordine inferiore dei Troni e quello supe-
riore dei Serafini. Le primae menter sono ovviamente gli angeli. - or-
clo Palladicus: è ancora l'ordine dei Cherubini; il sintagma vale `ordi-
ne sapienziale' (essendo Pallade, o Minerva, dea della sapienza: cfr.
qui anche il § 146 e la nota Quin exxi/Jilare, nonché pugni; Palladi-
cir nella redazione palatina, § 132, detto delle dispute filosofiche),
61-es 27
Dio, e Dio è in lui, anzi Dio e lui sono una sola cosa.
Grande è la potenza dei Troni, che noi possiamo rag-
giungere col giudicare; somma l'altezza dei Serafini,
che noi possiamo raggiungere con l'amare.
Ma come è possibile giudicare o amare ciò che non
si conosce? Mosè amò il Dio che vide, e, in veste di
giudice, mise in atto nel suo popolo ciò che prima,
contemplando, aveva visto sul monte. Perciò il Cheru-
bino, che sta nel mezzo, con la sua luce da una parte ci
predispone al fuoco serafico, dall'altra, nello stesso
tempo, ci illumina verso il giudizio dei Troni. Questo è
il nodo delle intelligenze prime, l'ordine palladico che
presiede alla filosofia contemplativa; questo noi dob-
biamo innanzitutto imitare, ricercare e per di più com-
prendere, come il luogo da cui e possiamo essere rapi-
ti ai fastigi dell'amore, e possiamo discendere, ben di-
sposti e preparati, verso gli oneri della vita attiva. Ma
in verità è opportuno, se la nostra vita deve confor-
marsi al modello della vita Cherubica, avere davanti
agli occhi e conoscere con chiarezza quale e di che na-
tura questa vita sia, quali le loro azioni e le loro opere.
E poiché a noi, che siamo carne e abbiamo il sapore

ed è analogo a Iunonia ambilio del § 47. Secondo quanto Pico scrive


nelle C(›ncluxione.s' Ca/øalixlicae, 1o (p. 128, qui citate al § 35, nota
Nam ]'I'\t¦t:b), la Pallade degli Inni or/ici corrisponde al Melatrnn
dei cabalisti, alla «materna mens›› di Zoroastro, al «Dei filius» di
Mercurio, alla «sapientia›› di Pitagora e alla «sphaera intelligibilis»
di Parmenide. - Nel Commenlo ai Salmi, p. 164, si afferma che l`or-
dine cherubico «maxime contemplantibus praeest».
67. prae babere: cfr. BARBARO, Epixtolae, I, p. 15 (pref. del Te-
mixtio a F. Tron): «habenda omnia prae oculis, prae manibus, in
numerato››. Cfr. anche BAUSI, Nec rlae/or, p. 126, e qui il § 145.
68. qui .rapimurz cfr. Rom., 8, 5: «qui enim secundum carnem
sunt, quae carnis sunt sapiunt››; P/:/ilipp., 3, 19: «qui terrena sa-
piunt››.
28 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL'UOMO

mi sunt sapimus, consequi non liceat, adeamus anti-


quos patres, qui de his rebus utpote sibi domesticis et
cognatis locupletissimam nobis et certam fidem face-
re possunt. Consulamus Paulum apostolum, vas elec-
tionis, quid ipse, cum ad tertíum sublimatus est cae-
lum, agentes Cherubinorum exercitus viderit. Re-
spondebit utique, Dyonisio interprete, purgari illos,
tum illuminari, postremo perfici. Ergo et nos, Cheru-
bicam in terris vitam emulantes, per moralem scien-
tiam affectuum impetus cohercentes, per dialecticam
rationis caliginem discutientes, quasi ignorantiae et
vitiorum eluentes sordes animam purgemus, ne aut
affectus temere debacchentur, aut ratio imprudens
quandoque deliret. Tum bene compositam ac expia-

69. uar electionir: *strumento eletto'. Così Dio, parlando ad


Anania, definisce san Paolo (/let., 9, 15). ~ quid uiderit: cfr.
2Cor., 12, 2-4: «Scio hominem in Christo ante annos quatuorde-
cim, sive in corpore nescio, sive extra corpus nescio, Deus scit,
raptum huiusmodi usque ad tertíum caelum. [...] quoniam raptus
est in paradisum, et audivit arcana verba, quae non licet homini lo-
qui». Pico aveva progettato di scrivere un”operetta sul rapimento
di Paolo al terzo cielo (cfr. Commento sopra una canzona, II 25, pp.
529-530: «Paulo apostolo non prima al terzo cielo elevato fu rapto,
che dalla visione delle cose divine li occhi suoi alle cose sensibile
fur fatti ciechi, del rapto del quale qualche volta forse parleremo»);
forse abbandonò l”idea perché un analogo trattatello era stato steso
nel 1476 dal Ficino, che lo aveva anche volgarizzato (De raptu Pau-
li ad tertium caelum, in Prosatori lalini, pp. 932-69, con edizione
del testo latino e del volgarizzamento).
7o. Respondebit perƒici: cfr. PSEUDO-DIONIGI AREOPAGITA,
De coel. hier., III 2 (PG III, 165b-c): «dal momento che l'ordine
della gerarchia consiste nel fatto che gli uni siano purificati e gli al-
tri purifichino, che gli uni siano illuminati e gli altri illuminino, che
questi siano portati alla perfezione e quest'altri rendano perfetti,
secondo tale modo a ciascuno converrà l'imitazione divina›› (e VII
3 = PG III, 2o9a); PICO, nel Commento aiSalmi, p. 164, dice che
l'ordine cherubico «nos purgat ab erroribus, illuminat veri cogni-
tione, et sacro iam cognitae divinitatis amore perficit››. Dionigi
68-72 29

delle cose della terra, non è concesso arrivare a tanto


con le nostre forze, rivolgiamoci agli antichi padri, che
di queste cose, come a loro ben note e familiari, posso-
no darci autorevolissima e certa testimonianza. Chie-
diamo all'apostolo Paolo, strumento eletto, che cosa, 6
quando fu innalzato al terzo cielo, egli vide che faces-
sero le schiere dei Cherubini. Ci risponderà senz”altro, 7
per il tramite di Dionigi, che quelli prima si purificava-
no, poi si illuminavano, e infine diventavano perfetti.
Quindi noi, imitando in terra la vita cherubica, repri- 7
mendo attraverso la filosofia morale gli stimoli delle
passioni, disperdendo la nebbia della ragione attraver-
so la dialettica, purghiamo l'anima lavando via, per co-
sì dire, la sporcizia dell'ignoranza e dei vizi, affinché
né le passioni imperversino furiosamente, né di quan-
do in quando la ragione sconsideratamente vaneggi.
Poi colmiamo della luce della filosofia naturale l'ani- 7

Areopagita fu convertito da san Paolo ad Atene (cfr. /let., 17, 34);


e alla visione paolina egli si richiama esplicitamente nella sua trat-
tazione delle gerarchie angeliche (cfr. De coel. /aier., VI 2 = PG III,
2o3a; e anche DANTE, Par., XXVIII 136-39). PICO, Heptaplus,
prooemium, p. 176, lo definisce «discipulus Pauli» (e così anche il
PI(ìINO nella Tbeol. Plat., XIII 2); analogamente nel Commento ai
Salmi, pp. 170-72.
71. Ergo delirelz il periodo presenta una doppia strutturazio-
ne chiastica: «per moralem scientiam aflectuum impetus cohercen-
tes›› _ «per dialecticam rationis caliginem discutientes›› / «quasi
ignorantiae» - «et vitiorum eluentes sordes›› / «ne aut af/eclu.\' te-
mere debacchentur» - «aut ratio imprudens quandoque deliret››.
Per la funzione `catartica' della dialettica cfr. PLATONE, Sop/2., 230
(in part. 230d: «la confutazione è la più grande e la più potente
delle purificazi0ni››, giacché consente di eliminare quelle `opinioni`
che sono di ostacolo all'apprendimento).
71-72. Ergo perficiamus: questi due paragrafi sono ricchissimi
di artifici retorici; degni di nota gli omeoteleuti (emulantes, cober-
center, a'ircutienter, cluenter; peiƒundamur, perfida/nur), le allitte-
razioni (zlialectíca/n - dircutienter; debate/øentur - øleliret; perfunda-
3O DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL'UOMO

tam animam naturalis philosophiae lumine perfunda-


mus, ut postremo divinarum rerum eam cognitione
perficiamus.
Et ne nobis nostri sufficiant, consulamus Iacob pa-
triarcham, cuius imago in sede gloriae sculpta corru-
scat. Admonebit nos pater sapientissimus in inferno
dormiens, mundo in superno vigilans; sed admonebit
per figuram (ita eis omnia contingebant) esse scalas
ab imo solo ad caeli summa protensas, multorum gra-
duum serie distinctas, fastigio Dominum insidere,
contemplatores angelos per eas vicibus alternantes
ascendere et descendere. Quod si hoc idem nobis an-
gelicam affectantibus vitam factitandum est, queso,
quis Domini scalas vel sordidato pede, vel male mun-
dis manibus attinget? Impuro, ut habent mysteria,

mus - postremo - perƒiciamur), la paronomasia perfundamur / perfi-


ciamus, e il chiasmo (giacché bene coinporitam e expiatam si riferi-
scono rispettivamente all'effetto della dialettica sulla ratio e della
filosofia morale sugli affectur). Il cammino che dalla filosofia mora-
le conduce alla teologia attraverso la dialettica e la filosofia natura-
le sarà ribadito in termini analoghi anche più avanti (§§ 80-82, 87-
97); e cfr. anche Commento ai Salmi, XVII, p. 164 (dove però le
tappe sono tre, costituite dalla moralis p/Jilorop/Jia, dalla naturalis
p/zilosop/Jia e dalla t/øeologica rcientia, e tutte preparatorie a
quell'intima unione col Cristo che solo la carità e la religione pos-
sono consentire: cfr. qui l'Inlroduzione, p. XLVI).
74. /la'monebit vigilans; Giacobbe, quando ebbe la visione del-
la scala celeste (cfr. la nota seguente) dormiva sulla terra («in infe-
ro››, rcil. «mundo››), ossia quanto al corpo e alle cose terrene, ma era
ben vigile quanto all'anima e alle cose ultraterrene, ossia «mundo in
superno››. L”aggettivo supernux potrebbe nascondere un ricordo
dantesco (cfr. ancora la nota seguente). - erre dercendere: per que-
sta visione di Giacobbe cfr. Gen., 28, 12-13: «Viditque in somnis
scalam stantem super terram, et cacumen illius tangens caelum: an-
gelos quoque Dei ascendentes et descendentes per eam, et Domi-
num innixum scalae». All'interpretazione allegorica di questo so-
gno FILONE ALESSANDRINO dedica gran parte del I libro del suo De
romniir (I 2-3 e 1 33-88), che è tra le fonti dei §§ seguenti; come sim-
72-76 3I

ma adeguatamente ricomposta e purificata, sì da con-


durla finalmente a perfezione con la conoscenza delle
cose divine. '
E, per non accontentarci solo dei nostri, interro- 7
ghiamo il patriarca Giacobbe, la cui immagine ri-
splende scolpita nella sede della gloria. Quel sapien- 74
tissimo padre, che nel mondo inferiore dormiva, ma
vegliava in quello superiore, ci istruirà; ma ci istruirà
parlando per figura (in tal modo tutto appariva a
quegli uomini), dicendo che vi sono scale protese
dall'infimo suolo alla sommità del cielo, suddivise in
una serie di numerosi gradini, e che Dio siede sulla
loro cima, mentre gli angeli contemplanti, alternan-
dosi vicendevolmente, salgono e scendono lungo di
esse. E se questo è proprio ciò che noi, se aspiriamo 75
alla vita angelica, dobbiamo sempre sforzarci di fare,
chi mai, di grazia, vorrà accostarsi alle scale del Si-
gnore o con piede sozzo, o con mano immonda? Al- 7
l'impuro - come impongono i misteri - non è lecito

bolo della graduale ascesi verso la contemplazione di Dio, l'immagi-


ne della scala di Giacobbe ricorre con frequenza nella letteratura
cristiana (cfr. ad esempio BONAVENTURA, Itinerarium mentis in
Deum, I 9), e compare anche in due passi del Paradiso dantesco
(XXI 29-33 e- nelle parole di san Benedetto - XXII 7o-75: «Infin là
sù la vide il patriarca | Iacobbe porger la superna parte, | quando li
apparve d'angeli si carca. I Ma, per salirla, mo nessun diparte I da
terra i piedi, e la regola mia | rimasa è per danno de le carte››). Cfr.
inoltre LANDINO, Commento sopra la Comedia, f. G iiii r: «chome
per scala si sale da basso in alto di grado in grado, chosì per la virtù
contemplativa si monta di cielo in cielo insino a Dio›› (e f. G vii r).
75. aflfeclantibux factitandum: bisticcio imperfetto.
76. Impuro nepbar: cfr. PLATONE, P/aaedo, 67b: «a chi è impu-
ro non è lecito accostarsi a ciò che è puro››; cit. anche da PLUTAR-
CO, De Iride et Osiride, 352d; Conxol. ad/lpoll., 108d. E dal LANDI-
NO, Dirputationes Camala'ulen.re.r, III, p. 119: «cum Socrates ipse
purum impuro attingere fas esse neget».
32 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLIUOMO

purum attingere nephas. Sed qui hi pedes? Quae ma-


nus? Profecto pes animae illa est portio despicatissi-
ma, qua ipsa materiae tanquam terrae solo innititur:
altrix - inquam - potestas et cibaria, fomes libidinis
et voluptariae mollitudinis magistra. Manus animae
cur irascentiam non dixerimus, quae appetentiae pro-
pugnatrix pro ea decertat, et sub pulvere ac sole pre-
datrix rapit quae illa sub umbra dormitans helluetur?
Has manus, hos pedes, idest totam sensualem partem
in qua sedet corporis illecebra quae animam obtorto

78. per innititur: per il piede dell`anima cfr. FILONE ALESSAN-


DRINO, De romniir, I 146: «il suo piede [.rcil. dell'anima] è la perce-
zione sensibile, vale a dire la sua componente terrena››; AGOSTINO,
Enarr. in Pralmor, IX 15 (PL XXXVI, 124): «Pes animae recte in-
telligitur amor, qui cum pravus est, vocatur cupiditas aut libido», e
XCIV 2 (PL XXXVII, 1217): «Pedes enim nostri in hoc itinere, af-
fectus nostri sunt››; DANTE, Purg., XVIII 43-44: «che s”amore è di
fuori a noi offerto, | e l'anima non va con altro piede». Il FICINO
(T/øeol. Plat., XIII 2) definisce animae per la parte inferiore
dell'anima (da lui detta idolum), comprendente la fantasia, la sen-
sazione e la facoltà nutritiva (KRISTELLER, Il pensiero, pp. 401-402).
Per derpieatirrimur (`vilissimo”, 'spregevolissimo') cfr. anche Hep-
taplur, pp. 206 (I 1: «materia despicatissima››), 258 (III 4: «despi-
catissimae notae››), 364 (VII 5: «despicatissimum genus››).
79. quae rapit: per l'appetito umano come icacciatore' cfr.
ARISTOTELE, Et/1. Nicom., VI 2, 1139a; DANTE, Cona., IV 26, 5:
«Questo appetito mai altro non fa che cacciare e fuggire». - ru/2
pulvere umbra: per la contrapposizione tra sul) pulvere ac .role e
sub umbra cfr. CICERONE, De leg., III 14: «doctrinam ex umbracu-
lis [...] in solem atque in pulverem [...] produxit». L'ombra è asso-
ciata alla lussuria, secondo l'interpretazione di Iob, 40, 16 fornita
da Is1Do11o D1 S1v1c;1.1A, Sentem., II 39 (PL LXXXIII, 641): «prin-
cipaliter his duobus vitiis diabolus humano generi dominatur, id
est superbia mentis et luxuria carnis. Unde et Dominus in ]ob lo-
quitur de diabolo dicens: Sub umbra clormit in secreto calami in lo-
cir /aumenti/Ju; [Iob, 40, 16]. Per calamum enim inanis superbia,
per loca vero humecta carnis demonstratur luxuria›› (Progetto Pico
[Papio]). Qui i piedi e le mani sono simboli delle facoltà inferiori e
irrazionali dell'anima (cfr. al § seguente: «has manus, hos pedes,
76-8° 33
toccare ciò che è puro. Ma quali sono questi piedi,
quali queste mani? Senza dubbio il piede dell'anima è
quella spregevolissima parte con cui essa si appoggia
alla materia come al suolo terrestre, la sua facoltà -
dico - alimentatrice e nutritiva, fomite del desiderio
carnale e maestra di mollezza sensuale. E mani
dell'anima perché non definire la sua facoltà irascibi-
le, che, combattendo dalla parte degli appetiti, lotta
per quelli, e come una predatrice arraffa sotto la pol-
vere e sotto il sole ciò che essi divorano poi sonnec-
chiando nell'ombra? Queste mani, questi piedi, cioè
tutta la parte sensuale dell'anima, nella quale risiedo-
no gli allettamenti del corpo, che la tengono (come

idest totam sensualem partem››), ossia, rispettivamente, della sua


parte concupiscibile e della sua parte irascibile, secondo la dottrina
esposta da PLATONE, Tim., 69c-71a (e Resp., 439b-441c, nonché
D1o(;I:NE LAF.Rz1o, Vi/ae, III 67), e ripresa fra gli altri da Ciccao-
NE, Ture., I 20 (e II 47; IV 10) e dallo stesso Pico nel Commento ai
Salmi, p. 68. Pico, nel simboleggiare la parte concupiscibile con i
piedi, e quella irascibile con le mani, si attiene a Platone, che collo-
ca l”una sotto il diaframma e l`altra nel petto (ma, nel considerare
la parte irascibile affine a quella concupiscibile, è più vicino alla
formulazione cíceroniana, giacché per Platone l'ira è, piuttosto, al-
leata della ragione). Più avanti (§ 123 e nota Turn cavenala inci-
piamus), in riferimento a due .rymbola pitagorici, all`ira saranno as-
sociate le unghie, e all'appetito concupiscibile l'urina.
80. Has collo: cfr. /lrelepiur, XII, p. 311: «res enim dulcis est
in hac corporali vita, qui capitur de possessionibus fructus. Quae
res animam obtorto, ut aiunt, detinet collo, ut in parte sui, qua
mortalis est, inhaereat››. Nello stesso /lrclepiur, XI, p. 310, si dice
che l'uomo è conformato in modo che «manibus et peclibus [...]
inferiori, id est terreno, mundo deserviat››. _ morali abluamur:
l`immagine del `lavacro' delle anime è anche in FILONE ALESSAN-
DRINO, De romniir, I 148: «ma negli intelletti che si stanno purifi-
cando, e che non hanno ancora del tutto lavato la loro vita insozza-
ta e imprigionata nel peso del corpo, camminano gli angeli, parole
divine, ripulendoli con pensieri di bellezza e di bontà».
§4 DISCORSO SULLA DIGNITA DELLIUOMO

(ut aiunt) detinet collo, ne a scalis tanquam prophani


pollutique reiciamur, morali philosophia quasi vivo
flumine abluamus.
At nec satis hoc erit, si per Iacob scalam discursan-
tibus angelis comites esse volumus, nisi et a gradu in
gradum rite promoveri, et a scalarum tramite deorbi-
tare nusquam, et reciprocos obire excursus bene apti
prius instructique fuerimus. Quod cum per artem
sermocinalem sive rationariam erimus consequuti,
iam Cherubico spiritu animati, per scalarum idest na-
turae gradus philosophantes, a centro ad centrum
omnia pervadentes, nunc unum quasi Osyrim in mul-
titudinem vi Titanica discerpentes descendemus,
nunc multitudinem quasi Osyridis membra in unum
vi Phebea colligentes ascendemus, donec, in sinu Pa-

81. øleor/aitare: nel senso figurato di “uscire fuori', `deviare',


deorbi/fare è solo in LUCIFERO, /lt/aan., I 40 («deorbitasse a via rec-
ta››) e Non pare., II («a via deorbitasse veritatis››: Lucifero è un ve-
scovo del IV sec.). Cfr. anche Heptaplur, pp. 306 (V 7: «per legis
praevaricationem de orbita defecerimus››) e 332 (VII proem.:
«cum a fine a natura statuto [...] homo quasi semper exorbitet»);
Commento ai Salmi, p. 152: «qui etiam se ipsum obliqua et perver-
sa proprii arbitrii exorbitatione praecipitat in vitium»); e DI NAPO-
LI, Giovanni Pico, p. 419: «tale legge [divina] impegna l'uomo in
quella `orbita› che è naturalmente lo `universae caritatis ordo',
scritto “in tabulis naturae`: l`uomo, peccando, si pone fuori dell`or-
bita (de orbita defeeerimus), delínquendo contro l'ordine onto-eti-
co posto da Dio››.
82. artem rationariam: la ari' .rermocinalir rive rationaria è la
dialettica (cfr. sopra, § 71), che procede con un doppio metodo
d”indagine, divisivo e compositivo, muovendosi ora dall'uno ai
molti, ora dai molti all'uno; cfr. PICO, Commento sopra una canzo-
na, III 10, p. 567, con riferimento alla scala di Giacobbe: «modo da
pochi inteso e conosciuto, ed è quello che Platone nel Filebo [15e,
16c-17a] chiama dedurre la unità in multitudine e la multitudine
nella sua unità redurre, il che chi bene sa fare, meritamente, come
Platone scrive, tamquam Deus eu/n sequi ileliemur, uomo certamen-
80-82 35

suol dirsi) a suo dispetto, dobbiamo lavarli con la fi-


losofia morale quasi nelllonda viva di un fiume, per
non essere cacciati dalle scale come profani e impuri.
Ma, se vogliamo unirci agli angeli che si muovono 81
lungo la scala di Giacobbe, neanche questo sarà suffi-
ciente, se prima non saremo stati ben preparati e
istruiti ad avanzare convenientemente di gradino in
gradino, e a non fuoriuscire dal tracciato delle scale, e
a percorrere quegli alterni cammini. E quando avre- 8
mo ottenuto questo grazie all'atte discorsiva ovvero
raziocinante, animati ormai dallo spirito cherubico,
filosofando lungo i gradini delle scale, ossia della na-
tura, tutto penetrando dal centro al centro, ora di-
scenderemo, lacerando con forza titanica l'uno nel
molteplice, quasi fosse Osiride, ora ci innalzeremo,
ticomponendo con forza febea il molteplice nelliuno,
come le membra di Osiride, finché, riposando alfine

te divino e angelo terrestre, atto, perla scala di Iacob, in compagnia


delli altri contemplativi angeli, pro arbitrio ad ascendere e descen-
dere›› (e anche Heptaplur, IV 4, p. 280). L'aggettivo ralionariu.\^ (at-
testato solo in Pico da I-IOVEN, p. 310) è gia nel Te/nistio del Barba-
ro, f. 10811 («rationariam [...] naturam››). - nunc unum colligen-
tes: secondo il mito, Osiride, re degli Egiziani, venne ucciso e
smembrato (in quattordici pezzi, o - secondo altre versioni - in
ventisei) dal fratello Seth, ma fu poi vendicato dalla moglie (nonché
sorella) Iside, che con l`aiuto del figlio Horos uccise Seth e ricom-
pose il corpo del marito (cfr. PLUTARCO, De I.ria'e et Oririrle, 355d-
358e; DIODORO SICULO, Bibliotheca Hirtorica, I 21 ). Per l'interpre-
tazione allegorica fornita qui da Pico, cfr. ancora PLUTAR( 10, De Isi-
de et ()1'iride, 375b: «Nel cielo, nelle stelle, la ragione delle cose e le
loto forme, ossia in sostanza tutto quello che emana dal dio, certo
permangono immutabili; e invece ciò che si è disperso in mezzo alla
realtà sensibile, e cioè nella terra, nel mare, negli essere vegetali e
animali, ebbene, questo muore e si corrompe e lo seppelliamo, an-
che se poi spesse volte di nuovo riluce e ricompare fra le creature»
(e EMPEDOCLIT., fr. 17 Diels-Kranz, vv. 1-2: «Duplice cosa dirò: è
36 D1scoRso SULLA DIGNITA DELL'UoMo

tris - qui super scalas est - tandem quiescentes, theo-


logica foelicitate consumabimur.
3 Percontemur et iustum Iob, qui fedus iniit cum
Deo vitae prius quam ipse edetetur in vitam, quid
summus Deus in decem illis centenis millibus qui as-
sistunt ei potissimum desideret: pacem utique re-
spondebit, iuxta id quod apud eum legitur: «Qui fa-
4 cit pacem in excelsis». Et quoniam supremi ordinis
monita medius ordo inferioribus interpretatur, inter-
pretetur nobis Iob theologi verba Empedocles philo-
Ss sophus. Hic duplicem naturam in nostris animis si-
tam, quarum altera sursum tollimur ad celestia, altera

che ora s'accresce fino ad essere uno solo da molti, ora all'incontro
sua natura scinde a esser molti da uno»; e W. 16-17). Pico parla di
vir Titanica e di vir Phebea alludendo, rispettivamente, a Seth (che
smembrò Osiride, e che i Greci identificarono col titano Tifone) e a
Horos (che, come si è detto, vendicò il padre Osiride, e che eta
identificato con Apollo): cfr. PLUTARCO, De Iride et Oriride, 371b
(«Tifone invece rappresenta quella parte dell'animo vitale soggetta
alle passioni, priva di ordine e di intelligenza, titanica, insomma››),
373c, 375f. Inoltre, l'unità era identificata dai pitagorici con Apol-
lo: cfr. ibid., 354f, 38 1f; ID., De E apud Delp/vor, 388f; PL()TINO, En-
nead., V 5, 6; F1c1No, T/øeol. P/ar., IV 1.
83. iustum Iob: per il «giusto›› Giobbe cfr. Iob, 1, 1: «erat vir ille
simplex, et rectus, ac timens Deum, et recedens a malo». - qui
vitam: i commentatori rinviano qui a Iob, 31, 18: «ab infantia mea
crevit mecum miseratio, et de utero matris meae egressa est me-
cum››; ma forse qui Pico ha confuso Giobbe con Geremia (cfr. in-
fatti Ier., 1, 5: «priusquam te formarem in utero, novi tc; et ante-
quam exires de vulva, sanctificavi te, et prophetam in gentibus de-
di te>›). - decem ei: cfr. Dan., 7, 10: «millia millium ministrabant
ei, et decies millies centena millia assistebant ei›› (così citato nel-
l'Heptaplur, III 6, p. 264: «et verum erit illud Danielis: “decies mi-
lia assistebant ei, et mille milia ministrabant ei”››). Il versetto di
Daniele è citato anche da Gregorio Magno in un luogo sopra ricor-
dato delle Homil. in Evang. (II 34, 12 = PL LXXVI, 1254), e dal
FICINO in Tbeol. Plat., I 5. - Qui excelrir: cfr. Iob, 25, 2: «qui fa-
cit concotdiam in sublimibus eius», così citato nelle Concluriones,
82-Ss 37
nel seno del Padre, che sta al sommo della scala, ci
annienteremo nella teologica felicità.
Interroghiamo anche il giusto Giobbe, che strinse
un patto col Dio della vita prima di esser generato al-
la vita, e chiediamogli che cosa l'eccelso Dio maggior-
mente desideri in quei milioni di angeli che lo assisto-
no: la pace, risponderà senz'altro, giusta quello che
nel suo libro si legge: «Colui che fa la pace nell'alto
dei cieli›>. E poiché l°ordine mezzano si fa interprete
presso le intelligenze inferiori dei decreti dell'ordine
supremo, il filosofo Empedocle interpreti per noi le
parole del teologo Giobbe. Egli, come attestano i
suoi versi, ci indica mediante la contesa e l'amicizia,

p. 58 (Conclusioner secundum doctrinam sapientum Hebraeorum


Cabalistarum, 24): «Cum dixit Iob “Qui fecit pacem in excelsis
suis”, aquam_intellexit australem et ignem septentrionalem, et
praefectos illorum››. Cfr. anche Lc., 19, 38, e qui il § 95.
84. quoniam tnterpre/azur: cfr. PsEUDo-D1oN1o1 A1<I¬.o1›Ao1rA,
De coel. /Jier., VII 3 (PG III, 209a): «I sacri autori chiaramente di-
mostrano che le disposizioni inferiori delle sostanze celesti vengono
istruite convenientemente, nelle scienze teurgiche, dalle superiori»;
PICO, Conclusioner, p. 94 (Conclurioner secundum propriam opinio-
nem in doctrinam Platonir, 3): «qui noverit modum illuminationis
superiorum super media››. Qui Pico, mentre si accinge a interpreta-
re le parole del `teologo` Giobbe attraverso le parole del 'filosofo`
Empedocle, accosta la sua operazione all'azione mediatrice che il
secondo ordine angelico svolge tra il primo e il terzo.
85. Hic rignificat: cfr EMPEDOCLE, fr. 17 Diels-Kranz, in part.
W. 6-8: «e questo scambio continuo delle cose non mai cessa, talo-
ra in Amicizia convergendo in uno tutte quante, talora all'incontro
discostandosi ciascuna separata nell`odio di Contesa» (da SIMPLI-
CIO, Plays., 157, 25 e 161, 14); e anche frr. 20,35 e 122; nonché PI-
CO, Commento sopra una canzona, II 8, p. 496: «più perfettamente
parlò Empedocle, ponendo non la discordia per sé, ma insieme
con la concordia essere principio delle cose». Cfr. inoltre ARISTO-
TELE, Metapb., I 4, 985a-b; PLUTARCO, De Iride et Osir., 37oe
(«Empedocle chiama il principio benefico “amore” e “amicizia”,
[...] mentre al principio malefico dà il nome di “contesa annienta-
38 D1scoRso SULLA DIGNITA DELL`uo1v1o

deorsum trudimur ad inferna, per litem et amicitiam,


sive bellum et pacem, ut sua testantur carmina, nobis
significat. In quibus se lite et discordia actum, furenti
similem, profugum a diis in altum iactari conqueritur.
Multiplex profecto, patres, in nobis discordia; gra-
via et intestina domi habemus, et plus quam civilia
bella. Quae si noluerimus, si illam affectaverimus pa-
cem quae in sublime ita nos tollat ut inter excelsos
Domini statuamur, sola in nobis compescet prorsus
et sedabit philosophia. Moralis primum, si noster ho-
mo ab hostibus indutias tantum quesierit, multiplicis
bruti effrenes excursiones et leonis iurgia, iras animo-
sque contundet; tum si rectius consulentes nobis per-
petuae pacis securitatem desideraverimus, aderit illa
et vota nostra liberaliter implebit, quippe quae cesa
utraque bestia, quasi icta porca, inviolabile inter car-

trice" e “discordia sanguinosa”››); DIOGENE LAERZIO, Vitae, IX 8;


nonché PICO, Conclurioner, p. 88 (= Conclusione: paradoxae recun-
dum opinionem propriam, 71): «Empedocles per litem et amicitiam
in anima nichil aliud intelligit, quam potentiam sursum ductivam
et deorsum ductivam».
86. In conqueritur: cfr. EMPEDOCLE, fr. 115 Diels-Kranz (da
IPPOLITO, Ref, VII 29), in part. 13-14: «di essi [cioè degli uomini
in preda alla Contesa, destinati a mutare forma senza posa, trasci-
nati e travolti dagli elementi] anch'io ora son uno, dagli dei fuggia-
sco, errante, per essermi affidato alla Contesa folle››.
87. plus quam bella: cfr. LUCANO, I 1: «Bella per Emathios
plus quam civilia campos›>; e RAIIANO MAURO, De universo, XX 1
(PL CXI, 533): «Plusquam civile bellum est ubi non solum cives
certant, sed et cognati: quale actum est inter Caesarem et Pom-
peium, quando gener et socer invicem dimicaverunt» (Progetto Pi-
co [Papio]).
89. noster bomo: è l'uomo esteriore; cfr. zCor., 4, 16: «sed licet
is, qui foris est, noster homo corrumpatur, tamen is, qui intus est,
renovatur de die in diem››. - multiplicis contundet; anche in PLA-
TONE, Tim., 7oe, la parte concupiscibile dell'anima è paragonata a
una «bestia selvaggia». Come suggerisce BORI, Pluralitá, p. 77, è
Ss-89 39
vale a dire mediante la guerra e la pace, la duplice na-
tura insita nelle nostre anime, dall'una delle quali ve-
niamo spinti in alto verso le cose celesti, mentre
dall”altra veniamo ricacciati in basso verso le cose in-
feriori. E nei suoi carmi egli si lamenta, travolto dalla
contesa e dalla discordia, di essere trascinato in alto
mare, fuggiasco dagli dei, simile a un folle.
Certamente molteplice, o padri, è la discordia che
regna in noi; nei nostri confini infuriano terribili lotte
intestine e guerre più che civili. Se le rifiuteremo, se
ricercheremo quella pace che ci sollevi tanto in alto
da collocarci tra gli eccelsi del Signore, soltanto la fi-
losofia potrà del tutto reprimerle e placarle dentro di
noi. La filosofia morale, se il nostro uomo vorrà limi-
tarsi a chiedere una tregua ai suoi nemici, domerà in
primo luogo gli sfrenati assalti della belva multifor-
me, ele minacce, gli impeti, l'arroganza del leone; se
poi, con più retto consiglio, chiederemo per noi la si-
curezza di una pace perpetua, essa verrà e generosa-
mente appagherà i nostri desideri, come quella che,

probabile qui un'allusione a due delle fatiche di Ercole: l'uccisione


dell'idra di Lema (il multiplex brutum) e quella dei due leoni (il ne-
meo e il teumesio). Questi ultimi erano di norma interpretati come
allegoria dell'ira (cfr. SALUTATI, De laboribus Herculis, III 8, pp.
187-91); nell'idra si vedeva per lo più raffigurato il sofista (BOC-
CACCIO, Genealogie, XIII 1, p. 1282; SALUTATI, De laboribur Her-
culir, III 9, pp. 193-204), ma alcuni la consideravano allegoria della
concupiscenza (cfr. ibid., pp. 204-205), e così sembra interpretarla
Pico (che parla di «effrenes excursiones››). Quanto a Ercole, egli
veniva di solito allegoricamente identificato col «vir perfectus››, e
quindi col «philosophus» (ibid., pp. 196 e 203). - illa: riferito sem-
pre alla filosofia morale. - quasi .rancielz cfr. PICO, Carmina, XI
(/ld Deum depreeatio), v. 32: «iungant caesa foedeta porca›› (BORI,
Pluralitzì, p. 26). Si allude alla tradizione romana di sacrificare una
scrofa per sancire i trattati di pace; cfr. ad es. LIVIO, I 24 e VIRGI-
LIO, /len., VIII 641 (e la nota del CI(IO(;NANI, pp. 101-102).
40 D1scoRso SULLA DIGNITA DELL'UoMo

nem et spiritum foedus sanctissimae pacis sanciet. Se-


dabit dialectica rationis turbas, inter orationum pu-
gnantias et syllogismorum captiones anxie tumul-
tuantis. Sedabit naturalis philosophia opinionis lites
et dissidia, quae inquietam hinc inde animam vexant,
distrahunt et lacerant. Sed ita sedabit, ut meminisse
nos iubeat esse naturam, iuxta Heraclitum, ex bello
genitam, ob id ab Homero «contentionem›› vocita-
tam; idcirco in ea veram quietem et solidam pacem se
nobis prestare non posse, esse hoc dominae suae, id-
est sanctissimae theologiae, munus et privilegium. Ad
illam ipsa et viam monstrabit et comes ducet, quae
procul nos videns properantes «Venite - inclamabit -
ad me qui laboratis, venite et ego reficiam vos, venite
ad me et dabo vobis pacem quam mundus et natura
vobis dare non possunt».

90. pugnantiar: la voce pugnanlia, in senso proprio (`combatti-


mento'), è del latino cristiano; nel senso, come qui, di “divergenza',
fdiscordanza', ricorre anche nell'Epi.ttola al Barbaro, § 21 («tanta
est inter oratoris munus et philosophi pugnantia››), ed è già nel Te-
inirtio dello stesso Barbaro, f. 22r (cfr. BAUSI, Nec rbetor, p. 48).
91. opinionir dirsidia: secondo la definizione platonica e stoi-
ca, l'opinio (greco ôóE_,oI) è una forma di conoscenza empirica, lega-
ta alle apparenze e dunque incerta e priva di oggettiva validità, cui
si contrappone la scientia (greco èntotñun), ossia la conoscenza
certa di ciò che è. Cfr. ad esempio PLATONE, Resp., 477a-480a; CI-
(IEIIONE, Tusc., III 24 e IV 14-15; e PICO, Heptaplus, IV 4, pp. 278-
280: «dum a patria peregrinamur et in hac vitae praesentis nocte
et tenebris vivimus, ea parte plurimum utimur quae ad sensus de-
flectitur, unde et plura opinarnur quam scimur» (e prima aveva
detto che il sole simboleggia la dianoia, e la luna la doxa); Com-
mento ai Salmi, p. 220: «per multiiugas opiniones discursans in di-
sciplinis››.
92. ut vocztatam: cfr. ERACLITO, frr. 10, 53 («Conflitto [1tóA£-
uoç] di tutte le cose è padre››) e 80 Diels-Kranz; OMERO, Il., XVIII
107: «perisca la lite [šptçl fra i numi e fra gli uomini». L'accosta-
89-93 41
uccisa l'una e l°altra belva, stabilità tra la carne e lo
spirito - quasi immolando una scrofa - un patto in-
violabile di santissima pace. La dialettica calmerà i di-
sordini della ragione, che ansiosamente si travaglia
fra i contrasti dei discorsi e gli inganni dei sillogismi.
La filosofia naturale placherà i conflitti e i dissidi
dell'opinione, che tormentano, straziano e lacerano
l'anima inquieta, trascinandola di qua e di là. Ma li
placherà in modo tale da farci ricordare che la natura,
secondo Eraclito, è figlia della guerra, ed è per questo
da Omero chiamata «contesa››; e che pertanto in essa
non può offrirci una vera quiete e una duratura pace,
giacché questo è dono e prerogativa della sua signora,
la santissima teologia. La filosofia naturale ci mo-
strerà la via che a questa conduce, e ci accompagnerà;
e questa, da lontano vedendoci correre, esclamerà:
«Venite a me, voi che siete affaticati; venite, e io vi ri-
storerò; venite a me, e vi darò la pace che il mondo e
la natura non possono darvi».

mento di Eraclito e Omero a questo proposito e in PLUTARCO, De


Iside et Osiride, 370d: «Eraclito chiama senz`altro la guerra “ padre,
re e signore del tutto”; e aggiunge che quando Omero si augura
che “si spenga la guerra fra uomini e dei" egli bestemmia senza sa-
perlo contro l'origine di tutte le cose, che consiste appunto nella
guerra e nell'opposizione». Cfr. anche PICO, Commento sopra una
canzona, II 8, p. 495: «Per questo diceva Eraclito la guerra e la con-
tenzione essere padre e genetrice delle cose; e, appresso Omero,
chi maladice la contenzione è detto avere bestemmiato la natura»
(passo che presuppone un fraintendimento della fonte plutarchia-
na, analogo a quello che sembra emergere da questo luogo
dell'Oratz'0). _
93. Venite vor: cfr. Mt., 1 1, 28: «Venite ad me omnes qui la-
boratis et onerati estis, et ego reficiam vos››. - dabo porrunt: cfr.
Iob., 14, 27: «Pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis: non
quomodo mundus dat, ego do vobis».
42 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL,UOMO

4 Tam blande vocati, tam benigniter invitati, alatis


pedibus, quasi terrestres Mercurii, in beatissimae am-
plexus matris evolantes, optata pace perfruemur: pa-
ce sanctissima, individua copula, unianimi amicitia,
qua omnes animi in una mente, quae est super om-
nem mentem, non concordent adeo, sed ineffabili
95 quodammodo unum penitus evadant. Haec est illa
amicitia quam totius philosophiae finem esse Pytha-
gorici dicunt; haec illa pax quam facit Deus in excel-
sis suis, quam angeli in terram descendentes annun-
tiarunt hominibus bonae voluntatis, ut per eam ipsi
96 homines ascendentes in caelum angeli fierent. Hanc
pacem amicis, hanc nostro optemus seculo, optemus
unicuique domui quam ingredimur, optemus animae
nostrae, ut per eam ipsa Dei domus fiat; ut, post-
quam per moralem et dialecticam suas sordes excus-
serit, multiplici philosophia quasi aulico apparatu se
exornarit, portarum fastigia theologicis sertis corona-
tit, descendat Rex gloriae et cum Patre veniens man-

94. alatir Mercurii: le ali ai piedi, o, per meglio dire, i sandali


alati (detti talari), erano attributo tradizionale di Mercurio, e simbo-
leggiavano la sua velocità di messaggero degli dei: cfr. OMERO, Od.,
V 44-46; VIRGILIO, /Ien., IV 239; STAzIo, 'I'/nek., I 304; B(x:<:A(:<:Io,
Genealogie, II 7, p. 206. Qui l'allusione è alle «ali›› dell'anima, perle
quali cfr. Pr., 54, 7; PLATONE, P/Jaedr., 249c; PICO, De ente et uno,
X, p. 440; Commento sopra una canzona, III 1, p. 542; Commento ai
Salmi, p. 220 (e qui anche i §§ 109 e 113, con le relative note). -in
una mente: cioè nella mente divina (cfr. la nota seguente). - qua
ei/adant: cfr. PICO, Conclurioner, p. 37 (= Conclusioner re1:una'uin
Plotinum, 7): «Felicitas hominis ultima est, cum particularis intel-
lectus noster totali primoque intellectui plene coniungitur››.
95. Haec dicunt: cfr. GIAMBLICO, De vita Pytbagoriea, XXXIII
229-33 e 240. -/Jaec .ruirz cfr. § 83 e nota Qui excelsis; e anche
la nota seguente. - quam voluntatir: cfr. Lc., 2, 13-14: «Et subito
facta est cum angelo multitudo militiae caelestis laudantium Deum
et dicentium: Gloria in altissimis Deo, et in terra pax hominibus
94-96 43
Tanto dolcemente chiamati, tanto benevolmente 94
invitati, volando con piedi alati, quasi terrestri Mer-
curii, verso l'abbraccio della beatissima madre, go-
dremo della desiderata pace: pace santissima, vincolo
indissolubile, unanime amicizia, in virtù della quale
tutti gli animi non solo concordino in quell'unica
mente che è al di sopra di ogni mente, ma in un qual-
che ineffabile modo diventino intimamente una sola
cosa. Questa è quella amicizia che i Pitagorici affer- 95
mano essere il fine di tutta la filosofia; questa è quella
pace che Dio instaura nell'alto dei suoi cieli, e che gli
angeli, scendendo sulla terra, annunziarono agli uo-
mini di buona volontà, affinché per essa gli uomini
stessi, salendo al cielo, si facessero angeli. Questa pa- 96
ce dobbiamo augurare agli amici, dobbiamo augurare
al nostro tempo, dobbiamo augurare a ciascuna casa
nella quale entriamo, dobbiamo augurare alla nostra
anima, perché diventi, grazie ad essa, dimora del Si-
gnore; perché, dopo che avrà eliminato le proprie im-
purità per mezzo della filosofia morale e della dialet-
tica, e si sarà addobbata della multiforme filosofia co-
me di un principesco ornamento, e avrà incoronato i
frontoni delle porte con le teologiche ghirlande, su di
essa discenda il Re della gloria e, venendo insieme al

bonae voluntatis›› (parzialmente citato anche in PICO, Hepla/›lu.I',


VII 4, p. 358).
96. optemus ingredimur: cfr. M/. 10, 12-13: «Intrantes autem
in domum, salutate eam, dicentes: pax huic domui. Et si quidem
fuerit domus illa digna, veniet pax vestra super eam» (e Lc., 10, 5-
6). - aulico apparatu: il sintagma aulicur apparatu: è in SVETONIO,
Domit., 4. - Rex gloriae: cfr. Ps., 2 3, 10: «Quis est iste rex gloriae?
Dominus virtutum ipse est rex gloriae››. - et eam: cfr. Iob., 14,
23: <<si quis diligit me, sermonem meum servabit, et Pater meus di-
ligit eum, et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus».
44 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL'UOMO

97 sionem faciat apud eam. Quo tanto hospite si se di-


gnam praestiterit (quae est illius immensa clementia)
deaurato vestitu quasi toga nuptiali, multiplici scien-
tiarum circumdata varietate, speciosum hospitem,
non ut hospitem iam, sed ut sponsum excipiet, a quo
ne unquam dissolvatur dissolvi cupiet a populo suo,
et domum patris sui, immo se ipsam oblita, in se ipsa
cupiet mori ut vivat in sponso, in cuius conspectu
preciosa profecto mors sanctorum eius: mors - in-
quam - illa, si dici mors debet plenitudo vitae, cuius
meditationem esse studium philosophiae dixerunt sa-
pientes.
8 Citemus et Mosen ipsum, a sacrosanctae et ineffa-
bilis intelligentiae fontana plenitudine, unde angeli
99 suo nectare inebriantur, paulo deminutum. Audie-
mus venerandum iudicem nobis in deserta huius cor-
poris solitudine habitantibus leges sic edicentem:

97. deaurato varietate: per il mistico sposalizio dell'anima con


Dio, la fonte usufruita in questo passo è Ps., 44, 10: <<Astitit regina
a dextris tuis in vestitu deaurato, circumdata varietate››. - dissolvi
oblitaz Ps., 44, 1 1-12: «Audi, filia, et vide, et inclina autem tuam;
et obliviscere populum tuum, et domum patris tui. Et concupiscet
rex decorem tuum, quoniam ipse est Dominus Deus tuus››. Degno
di nota il poliptoto a stretto contatto dirrolvatur dissolvi. - in cuiur
eius: P5., 1 15, 15: «Pretiosa in conspectu Domini mors sancto-
rum eius». - mors vitae: cfr. CICERONE, Somn. Scip., 14: «hi vi-
vunt, qui e corporum vinclis tamquam e carcere evolaverunt››; FI-
CINO, Lettere, I 4 (Dialogur inter Deum et /lnimam tbeologicur), p.
16: «Quam viva mors est ista (quis cogitet?), per quam in me mo-
rior, in Deo vivo, per quam morti morior, vite vivo, et vivo vita et
gaudeo gaudio››. - cuius rapienter: cfr. PLATONE, Pbaedo, 64a-
68b (in part. 64a: «Tutti coloro che praticano la filosofia in modo
retto rischiano che passi inosservato agli altri che la loto autentica
occupazione non è altra se non quella di morire e di essere morti››);
8oe-81a; 82b-84b; MACROBIO, Comm. in Somn. Scip., I 13, 5: «[Pla-
96-99 45
Padre, ponga la sua dimora presso di lei. E se si sarà
rivelata degna di un così illustre ospite (tale è la scon- 9
finata clemenza di Lui), indossando - quasi fosse un
abito nuziale - una veste dorata, vale a dire avvolta
della molteplice varietà delle scienze, accoglierà il suo
magnifico ospite non già come un ospite, ma come
uno sposo; e per non essere mai separata da lui, desi-
dererà separarsi dal suo popolo, e dimentica della ca-
sa di suo padre, anzi di sé stessa, desidererà morire a
sé stessa per vivere nello sposo, agli occhi del quale è
veramente preziosa la morte dei suoi santi: quella
morte, voglio dire (se morte deve esser detta la pie-
nezza della vita), una preparazione alla quale i sapien-
ti affermarono essere l'esercizio della filosofia.
Invochiamo anche lo stesso Mosè, di poco inferio-
re rispetto alla sorgiva pienezza della sacrosanta e 98
ineffabile intelligenza, donde gli angeli si inebriano
del loro nettare. Udremo quel venerando giudice det-
tare così le leggi a noi che abitiamo nella deserta soli- 99
tudine di questo nostro corpo: «Coloro che, essendo

to] dicit [...] ipsam philosophiam meditationem esse moriendi››;


CICERONE, Turc., I 74: «Tota enim philosophorum vita, ut ait idem
[scil. Socrate], commentatio mortis est›› (e FICINO, Tbeol. Plat.,
XVI 8: «Totum hoc philosophiae studium, ut inquit Plato, est me-
ditatio mortis››). Per Socrate, l`autentica filosofia è una preparazio-
ne alla morte, in quanto insegna a separare l'anima dal corpo, scio-
gliendola dai vincoli terreni e abituandola a raccogliersi nella pura
meditazione.
98. a sacrosanctae deminulu/n: cfr. § 3 e nota ab deminu-
tum. L'aggettivo fontanur non risulta attestato, come qui, in senso
traslato (cfr. BAUSI, Nec rbetor, p. 125). Per inebriari, in senso mi-
stico, cfr. anche S 1 12 e nota inebriabit Dei.
99. in solitudine: il deserto attraverso il quale Mosè condusse
gli Ebrei verso la terra promessa è qui allegoricamente interpretato
46 Discorso SULLA DIGNITA DELL”UoMo

«Qui polluti adhuc morali indigent, cum plebe habi-


tent extra tabernaculum sub divo, quasi Thessali sa-
IOO cerdotes interim se expiantes. Qui mores iam compo-
suerunt, in sanctuarium recepti, nondum quidem sa-
cra attractent, sed prius dialectico famulatu, seduli le-
IOI vitae philosophiae, sacris ministrent. Tum ad ea et ipsi
admissi, nunc superioris Dei regiae multicolorem, id-
est sydereum aulicum ornatum, nunc caeleste cande-
labrum septem luminibus distinctum, nunc pellicea

come la «huius corporis solitudo», ossia come la condizione


dell'uomo sulla terra. Il deserto è figura del mondo e della vita ter-
rena, ad esempio, anche in AGOSTINO, Enarr. in Ps., LXII 3-5 (PL
XXXVI, 749-51), e in UGO DA S. VITTORE, Miscellanea, I 111 e V
82 (PL CLXXVII, 539-40 e 800). - Qui... divo: cfr. RABANO MAU-
RO, Comm. in Ezecbielem, XVII 42 (PL CX, 984): «quando autem
procedendum est ad eos, qui non possunt templi adita penetrare,
nec divinae scientiae arcana cognoscere, egrediantur, inquit, foras
ad eos sacerdotes in atrium exterius» (Progetto Pico [Papio]). Peri
templi adyta (ossia il Sancta sanctorum del tempio divino) cfr. qui §
101, e la nota seguente. - quasi expiantes: FILONE ALESSANRINO,
De vita Moris, II 136-40, parla del simbolico gesto di purificazione
cui i sacerdoti si sottoponevano (lavandosi le mani e i piedi) prima
di entrare nel tempio e compiere i riti prescritti. La Tessaglia è una
regione della Grecia nota, in antico, come terra di sortilegi, streghe
e riti magici (cfr. ad esempio «Thessalis / magus venenis›› in ORA-
ZIO, Carm., I 27, 21-22). Come osserva il CICOGNANI, p. 104, «nei
miti e nelle leggende del ciclo tessalo ricorre frequente il motivo
dell'espiazione» (e reca gli esempi di Admeto, Issione e Peleo); tut-
tavia, non si hanno notizie di un rito «di purificazione espiatrice
specificatamente proprio del sacerdozio tessalo››.
101. Tum perfruantur: Pico paragona coloro che sono am-
messi a penetrare nella parte più interna del tabernacolo divino (il
Sancla sanctorum, così come è descritto in Ex., 26) a quanti, una
volta raggiunte le vette della speculazione teologica, sono in grado
di contemplare la gloria di Dio; così anche in GREGORIO DI NISSA,
Vita di Mosè, II 188: «Che la parte interna della tenda, chiamata
Santo dei santi, sia inaccessibile ai più, neppure questo crederemo
in contrasto con la coerenza dell'interpretazione. Infatti, veramen-
99'1°1 47

impuri, hanno ancora necessità della filosofia morale,


restino con la plebe fuori dal tabernacolo, a cielo
aperto, purificandosi come i sacerdoti tessali. Coloro IOO

che già hanno riordinato la propria condotta di vita,


una volta accolti nel tempio, non tocchino ancora gli
oggetti sacri, ma prima, quali zelanti leviti della filo-
sofia, prestino servizio ai sacri riti con il noviziato dia-
lettico. Poi, ammessi essi pure a questi uffici, contem- IOI

plino nel sacerdozio della filosofia ora il multicolore,


vale a dire il sidereo ornamento principesco della reg-
gia eccelsa di Dio, ora il celeste candelabro a sette

te cosa santa, e santa fra le cose sante, e impraticabile e inaccessibi-


le a molti, è la verità dell'essere». Nell'Heptaplu.s, aliud prooe-
mium, pp. 186-88, Pico parla, offrendone un'interpretazione alle-
gotica, delle tre parti del tabernacolo costruito da Mosè (la parte
esterna, la tenda e il Sancta sanctorum, corrispondenti al mondo su-
blunare, al mondo celeste e al mondo sopraceleste 0 intelligibile; e
cfr. analogamente Conclusiones, p. 116 = Conclusioner de intelli-
gentia dictorum Zoroastris, 8-9); qui si accenna invece a quattro
parti (probabilmente l'esterno, il cortile del tabernacolo, la tenda e
il Sancta sanctorum), che simboleggiano le quattro tappe del per-
corso conoscitivo già delineato ai §§ 71-72 (cfr. la nota Ergo per-
ficiamus), ossia la filosofia morale, la dialettica, la filosofia naturale
(identificabile senza dubbio con la contemplazione dei multicolori
ornamenti, del candelabro a sette bracci [simbolo dei sette pianeti,
come Pico scrive nell'Heptaplus, aliud prooemium, p. 186] e dei
pellicea elementa) e la teologia. Per il candelabro cfr. Ex., 25, 31-
39; per i pellicea eleinenta (ossia le coperte di pelle di montone e di
tasso che, tinte di rosso, ricoprivano la tenda del tabernacolo, l'ar-
ca, il candelabro, l'altare e tutti gli oggetti sacri) cfr. ibid., 25, 5; 26,
14; 39, 33; Num., 4, 6-25. Per il velo di lino che nascondeva alla vi-
sta l`arca della testimonianza (custodita nel Sancta sanctorum) cfr.
ancora Ex., 26, 31-37. I multicolori e siderei ornamenti del taber-
nacolo saranno i pregiati materiali (oro, argento, pietre preziose,
nastri colorati) con cui Dio ordinò a Mosè di rivestirlo e abbellirlo
(Ex., 25, 4-7). Cfr. anche la lunga nota del CIC()(;NANI, pp. 104-
107; e aggiungi FILONE ALESSANDRINO, De vita Mo.ri.r, II 71-108,
per l'interpretazione allegorica del tabernacolo.
48 Discokso SULLA DIGNITA DELL'UoMo

elementa in philosophiae sacerdotio contemplentur,


ut postremo, per theologicae sublimitatis merita in
templi adyta recepti, nullo imaginis intercedente velo
102 divinitatis gloria perfruantur››. Haec nobis profecto
Moses et imperat et impetando admonet, excitat,
inhortatur, ut per philosophiam ad futuram caelestem
gloriam, dum possumus, iter paremus nobis.
103 Verum enimvero, nec Mosayca tantum aut Chri-
stiana mysteria, sed priscorum quoque theologia ha-
rum, de quibus disputaturus accessi, liberalium ar-
tium et emolumenta nobis et dignitatem ostendit.
104 Quid enim aliud sibi volunt in Graecorum archanis
observati initiatorum gradus, quibus primo, hercle,
per illas quas diximus quasi februales artes, moralem
et dialecticam, purificatis, contingebat mysteriorum
105 susceptio? Quae quid aliud esse potest quam secre-
106 tioris per philosophiam naturae interpretatio? Tum
demum ita dispositis illa adveniebat értomseía, idest
rerum divinarum per theologiae lumen inspectio.
107- 108 Quis talibus sacris initiari non appetat? Quis, huma-

104. februales: nel senso, che ha qui, di `purificatore”, l`aggettivo


februalis non risulta attestato. Si trova solo (in Festo e in Marziano
Capella) come attributo di Giunone, perché le feste in suo onore si
celebravano in febbraio (BAUSI, Nec rbetor, p. 138). Il quasi sottoli-
nea appunto l'inedito impiego figurato del termine.
106. Tum inspectio: il greco epoptia (è1to1t1:£ia, da epoptêuo,
`contemplo”) designa il massimo grado di iniziazione ai misteri eleu-
sini, coincidente con la silenziosa contemplazione degli oggetti sa-
cri. In senso traslato, epopticâ è chiamata da Platone (Symp., 209e) e
da Plutarco (De Iside et Osiride, 382d) l'immediata contemplazione
dell'intelligibile. Cfr. anche PLATONE, Pbaedr., 250c, Epist., 333e;
PLUTARCO, Alex., VII 5 e Demelr., XXVI 1. Nei cristiani (cfr. ad es.
PsEUDo-D1oN1(;1 A1u:o1›A<;1TA, De coel. hier., I 2 = PG III, ina) il
termine designa l'unione intellettuale dell'uomo con Dio.
108. Quis donari?: passo ricco di artifici retorici: omeoteleuto
(post/oabenr, contemnens, negligens, degens), allitterazione (madi-
101-108 49

fiamme, ora i rivestimenti di pelle; finché da ultimo,


accolti nei penetrali del tempio per i meriti della su-
blimità teologica, possano godere della gloria divina,
senza l'ostacolo di alcun velo d'immagini››. Questo I02

senza dubbio Mosè ci comanda, e col suo comando ci


ammonisce, ci sprona, ci esorta - finché possiamo - a
ptepararci la strada, per mezzo della filosofia, verso
la futura gloria del cielo.
Ma certamente non soltanto i misteri mosaici o cri- 103
stiani, bensì anche la teologia degli antichi ci mostra
sia i vantaggi che la dignità di quelle arti liberali di cui
son venuto a discutere. Che altro vogliono infatti si- 104
gnificare nei misteri dei Greci i gradi percorsi dagli
iniziati, ai quali era concessa l”ammissione ai misteri
solo dopo che, per Ercole, si fossero purificati attra-
verso quelle arti che abbiamo definito quasi espiato-
rie, cioè la filosofia morale e la dialettica? E questa 105
ammissione che altro può essere, se non la conoscen-
za, attinta attraverso la filosofia, della più occulta na-
tura delle cose? Soltanto allora, in coloro che in tal 106
modo erano stati predisposti, sopraggiungeva quella
famosa epoptia, ossia la contemplazione delle cose di-
vine mediante il lume della teologia. E chi non desi- 107
dererebbe essere iniziato a simili misteri? Chi, gettan- 108

dus mortale munere), figura etimologica (mortale / immortalita-


tis). Per il nettare dell`eternità cfr. PLATONE, Pbaedr., 247e; FICI-
NO, Lettere, I 6 (De divino furore), p. 2 1, dove si afferma che le ani-
me, prime di discendere nei corpi, «ambrosia ac nectare, id est Dei
cognitione perfectoque gaudio, nutriebantur» (e cfr. qui anche i §§
98 e 124); I 1 15, p. 204: «puras inquit [scil. Platone] animas, cum
in celum evolaverint, in divina mensa ambrosia et nectare vesci››.
Aggiungi PICO, Commento sopra una canzona, II 13, p. 503: «è da
sapere che gli antiqui teologi [...] dicono tutte quelle cose, le quali
Iddio cibò di nettare e d'ambrosia alla sua mensa, essere eterne».
50 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLIUOMO

na omnia posthabens, fortunae contemnens bona,


corporis negligens, deorum conviva adhuc degens in
terris fieri non cupiat, et aeternitatis nectare madidus
109 mortale animal immortalitatis munere donati? Quis
non Socraticis illis furoribus, a Platone in P/aedro de-
cantatis, sic afflari non velit ut alarum pedumque re-
migio hinc, idest ex mundo, qui est positus in mali-
gno, propere aufugiens, ad caelestem Hierusalem
concitatissimo cursu feratur?
IIO Agamur, patres, agamur Socraticis furoribus, qui
extra mentem ita nos ponant, ut mentem nostram et
III nos ponant in Deo! Agemur ab illis utique, si quid est
in nobis ipsi prius egerimus; nam si et per moralem
affectuum vires ita per debitas competentias ad mo-
dulos fuerint intentae, ut immota invicem consonent
concinentia, et per dialecticam ratio ad numerum se
progrediendo moverit, Musarum perciti furore cele-

1o9. Quis decantatis: cfr. PLATONE, P/Jaedr., 244a-245c; 265b.


Platone distingue quattro furori, quello amoroso (che proviene da
Afrodite e da Eros), quello poetico (che viene dalle Muse), quello
iniziatico (che procede da Dioniso) e quello divinatorio (che deriva
da Apollo). L'argomento è sviluppato anche dal Ficino nella giova-
nile epistola De divino furore e nel commento al Simposio platonico
(VII 14-15). Cfr. inoltre le note seguenti. - alarum reniigio: cfr.
VIRGILIO, /len., VI 19: «remigium alarum››. Per le «ali›› dell”anima
cfr. sopra, § 94 e nota alatis Mercurii. Le ali e i piedi con cui
l`anima dell'L1omo interiormente purificato vola verso la Gerusa-
lemme celeste si contrappongono ai piedi insozzati e alle mani im-
monde dell'uomo ancora immerso nella vita materiale, che sopra
simboleggiavano rispettivamente la parte concupiscibile e quella
irascibile dell`anima (cfr. §§ 75-79). - qui maligno: cfr. 1]ob., 5,
19: «mundus totus in maligno positus est››, citato da Pico anche
nel De ente et uno, X, p. 440: «Fugiamus hinc ergo, idest a mundo
qui positus est in maligno››. - ad feratur?: Cfr. FICINO, Comm. in
Conv., VII 14: «[Plato] alas animo tribuit, per quas in sublime fe-
ratur›› (Progetto Pico [Marchignoli]; il riferimento è a PLATONE,
Pbaedr., 246b-c); VII 16: «Queritis quid amor Socraticus conferat?
108-III 51

dosi dietro le spalle ogni cosa umana, disprezzando i


beni della fortuna, non curandosi di quelli del corpo,
non aspirerebbe - mentre ancor vive sulla terra - a
diventare commensale degli dei, e, asperso del netta-
re dell”eternità, a ricevere, creatura mortale, il dono
dell'immortalità? Chi non vorrebbe essere ispirato da 109
quei ben noti furori socratici, celebrati da Platone nel
Fedro, sì da essere trasportato con rapidissimo volo
verso la Gerusalemme celeste, fuggendo da qui, cioè
dal mondo (che è nelle mani del maligno), col remeg-
gio delle ali e dei piedi?
Facciamoci rapire, o padri, facciamoci rapire dai IIO

furori socratici, sì che ci pongano a tal punto fuori


della nostra mente, da riporre noi e la nostra mente in
Dio! E certo saremo rapiti da quei furori, se prima noi III

stessi avremo guidato ciò che sta dentro di noi; se in-


fatti, mediante la filosofia morale, le forze delle passio-
ni saranno state indirizzate, imponendo loro le debite
proporzioni, verso giuste misure (così da concordare
vicendevolmente in una stabile armonia), e se, me-
diante la dialettica, la ragione si muoverà procedendo
ordinatamente, allora, eccitati dal furore delle Muse,

Primo quidem ipsi Socrati plurimum ad alas recuperandas, quibus


in patria revolet››; FICINO, T/100/. Plal., XIII, z: «Pluto scribit in
Phaedro philosophorum mentes praecipue alas quibus ad divina
volatur recuperare, quia videlícet semper divinis incumbant».
no. qui ponant: cfr. il detto di Zoroastro citato da FICINO,
'Haec/_ P/at., I 6: «Aliud mens erit, aliud Veritas. Quod sic aperit
Zoroaster: “Scito intelligibile ipsum esse extra mentem”».
111. immota concinen/z'a: cfr. FICINO, Comm. in Conu., VII
14: «Primus itaque furor [cioè il furore poetico: cfr. la nota seguen-
te] inconcinna et dissonaritia temperat». - Murarum co/n/71'/n~
mus: si tratta del furore poetico, che proviene dalle Muse, e che
consente al “vate” di percepire, e poi riprodurre nei suoi versi, la di-
vina armonia celeste. Cfr. FICINO, Comm. in Conv., VII 14; Let/ere,
52 D1scoRso SULLA DIGNITA DELL`uoMo

112 stem armoniam intimis auribus combibemus. Tum


Musarum dux Bacchus, in suis mysteriis (idest visibi-
libus naturae signis) invisibilia Dei philosophantibus
nobis ostendens, inebriabit nos ab ubertate domus
Dei, in qua tota si uti Moses erimus fideles, accedens
sacratissima theologia duplici furore nos animabit.
113 Nam in illius eminentissimam sublimati speculam, in-
de et quae sunt, quae erunt quaeque fuerint insectili

I 6 (De divino furore), pp. 25-26: «[Plato] oriri vero poeticum hunc
furorem a Musis existimat. [...] Musis, id est celestibus numinibus
atque cantibus, divini homines conciti, ad eorum imitationem poe-
ticos modos ac numeros meditantur». Per la musica delle sfere ce-
lesti, che può essere udita solo con le orecchie dell”anima, cfr. an-
che PICO, Epistola a Ermolao Bar/raro, 62: «Assume illas Thianei
aures, quibus - cum omnino non erat in corpore - non terrestrem
Marsiam, sed Apollinem caelestem divina cithara universi melos
ineffabilibus temperantem modis exaudiebat».
112. Tum ortendenr: cfr. Rm., 1, 2o: «Invisibilia enim ipsius, a
creatura mundi, per ea quae facta sunt, intellecta, conspiciuntur»
(Progetto Pico [Marchignoli]); citato anche da FICINO, Lettere, I 6
(De divino furore), p. 22: «Itaque Paulus ac Dionisyus [...] invisibi-
lia Dei asserunt per ea quae facta sunt queque hic cernuntur intel-
ligi». Qui l'allusione è al furore iniziatico, ispirato da Bacco; cfr.
l'accenno ai «mysteria›>, e cfr. FICINO, Comm. in Coma., VII 14:
«alter [furor] mysterialis [...] mysterium a Dionysio››. Il «Musarum
dux›› (Mu.rag¢›te,r) è propriamente Apollo, ma l'appellativo veniva
talora assegnato anche a Mercurio, Ercole e - appunto - Bacco
(cfr. FORCELLINI, ru. Musagetes, vol. VI, p. 299); qui l`indicazione
di Bacco quale “guida” delle Muse è però funzionale a una precisa e
complessa simbologia orfica (per cui cfr. l'Intr(›duzz'om›, pp. XXXV-
XXXVI). - inc/rrzkzbíl Dei: cfr. Pr. 35, 9: «[filii hominum] inebria-
buntur ab ubertate domus tuae›› (citato da Pico anche nelle Con-
clurioner, p. 130 = C0nclusz'0ne.r cabalistícac, 17). L'allusione all'eb-
brezza (inc/øriabít) si lega qui, senza dubbio, all”idea 'accessoria' di
Bacco dio della vite e del vino, ma anche alla nozione di *ebbrezza
divina', ossia di estasi mistica e rapimento soprannaturale (cfr. qui
§ 93). Cfr. Pl(l(), Com*/u.\'z'0ne.r, p. 124 (C0ncluríone.r dc modo miel-
/igendz' bymnos Or/2/:ei secundum magiam, 24); «Non inebriabitur
per aliquem Bacchum, qui suae Musae prius copulatus non fuerit››;
e inoltre WIND, Misteri, pp. 336-37. - duplicifurore: si tratta dei
111-113 53

con le orecchie dell`anima avidamente berremo la ce-


leste armonia. Quindi Bacco, guida delle Muse, mo- 112
strando a noi filosofanti, nei suoi misteri (ossia nei se-
gni visibili della natura), gli invisibili segreti di Dio, ci
inebrierà dell”abbondanza della dimora divina, nella
quale se, come Mosè, saremo interamente fedeli, la
santissima teologia, sopravvenendo, ci agiterà di un
duplice furore. Infatti, innalzati fino alla sua eccelsa 113
specola, da lì commisurando all'eterno le cose che so-

due furori cui Pico allude nel § seguente: quello divinatorio e quel-
lo amoroso, che (dipendenti rispettivamente da Apollo e da Vene-
re) mettono direttamente l'uomo 'invasato` in contatto con la divi-
nità. Cfr. ancora FICINO, Leltcre, I 6 (De dz'vz`noƒurore),' pp. 27-28.
1 13. inde fuerint: il Marchignoli (Progetto Pico) rinvia giusta-
mente a PLUTARCO, De E apud Delpbor, 387b, dove, citando Ome-
ro, si fa riferimento - come qui - all`arte divinatoria che procede
da Apollo: «poiché tutto il presente deriva e dipende dal passato e
tutto il futuro è legato al presente secondo un processo che corre
da un principio a una fine, colui che possiede la scienza di connet-
tere e porre in relazione le cause tra loro secondo il rapporto natu-
rale, è anche in grado di annunciare “il presente e il futuro e il pas-
sato" [OMERO, Il., I 7o]». I-Ia in mente questo verso omerico anche
BOEZIO, Dc mm: pbíl., V m. 2, 11-12; «Quae sint, quae fuerint ve-
niantque, I uno mentis cernit in ictu››; e cfr. Fl(ìlN(), Dc role, VI:
«Apud Aegyptios Minervae templis aureum hoc legebatur inserip-
tum: “Ego sum quae sunt, quae erunt et quae fuerint"» (Pm.ralorz`
/alím', p. 982). - ífzscctilz' acvoz l'1'11_reclilc acvum (letteralmente
`l'evo indivisibile') è l'eternità. Ifaggcttivo m.rectz'/z'.\', derivante da
ínreco, è attestato solo nel latino umanistico, e il primo ad usarlo
sembra essere stato il Barbaro nella sua parafrasi di Temistio. Pico
lo impiega anche nell'epistola allo stesso Barbaro, § 93: «stat punc-
to insectili et individuo›› (cfr. BAUSI, Nec r/Jclor, p. 47). - illorum .;.
amatorcr: il furore divinatorio («illorum Phebei vates», dove illo-
rum si riferisce a «quae sunt, quae erunt quaeque fuerinr››) e quello
amoroso («huius alati erimus amatores», dove /Juzm si riferisce alla
«primaeva pulchritudo››; con alalí Pico allude non solo alle plato-
niche «ali›› dell'anima [per cui cfr. § 94 e nota alatis Mercurííl,
ma anche a quelle di Eros, figlio di Venere e dio dell'amore). Cfr.
FICINO, Comm. in Conv., VII 14: «tertius [furor] vaticinium [...]
vaticinium ab Apolline [...] amatorius affectus est quartus [...]
54 D1scoRso SULLA DIGNITA DELL'UoMo

metientes aevo, et primaevam pulchritudinem suspi-


cientes, illorum Phebei vates, huius alati erimus ama-
tores, et ineffabili demum charitate quasi aestro per-
citi, quasi Saraphini ardentes extra nos positi, numine
pleni, iam non ipsi nos, sed ille erimus ipse qui fecit
nos.
114 Sacra Apollinis nomina, si quis eorum significan-
tias et latitantia perscrutetur mysteria, satis ostendent
esse deum illum non minus philosophum quam va-
11; tern. Quod cum Ammonius satis sit exequutus, non
est cur ego nunc aliter pertractem; sed subeant ani-
mum, patres, tria Delphiea precepta oppido his ne-
cessaria, qui non fieti, sed veri Apollinis, qui illumi-
nat omnem animam venientem in hunc mundum, sa-
crosanctum et augustissimum templum introgressuri
sunt: videbitis nihil aliud illa nos admonere, quam ut
tripartitam hanc, de qua est presens disputatio, philo-
116 sophiam totis viribus ampleetamur. Illud enim unôàv

amor a Venere». - at›.ttro perciti: cfr. la lettera di Pico a G. Benivie-


ni del 12 novembre 1436: «symbolum animae in se ipsam oestro
Musarum percitae recurrentis» (in DOREZ, Lcllrer zhédzles, p. 358);
e POLIZI/\N(), /Id Fonlíum, 189: «Musarum concitus oestro››; /Im-
bra, 433: «Musarum percitus oestro››; Nulrícía, 139-40: «qui tanto
sacer hic furor incitet oestro | corda viru1n››. Passi nei quali (›c›rlru.s'
vale `ispirazione divina', `furore”, come in STAZIO, The/7., I 32:
«Pierio [...] oestro» e Silv., II 7, 3: «docto pectora concitatus oe-
stro›› (e cfr. del Poliziano anche il Comme/110 a Slazío, p. 51 1). - Sa-
rap/Jz'nz'ara'enler: cfr. sopra, § 54 e nota /lrdcl firmítale. - zum
fecit 11o.\': cfr. Gal., 2, 2o: «vivo autem, iam non ego, vivit vero in mc
Christus» (Progelto Pico [Marchignoli])››.
114. Cfr. PLU'1`AR(I(), De E apud De/p/aos, 385b: «eravamo tutti
d'accorclo che il dio [.\'cz'l. Apollo] sia filosofo non meno che indo-
vino, e ci sembrava che giustamente Ammonio spiegasse ognuno
dei suoi appellativi».
1 15. Quod exequutur: Ammonio, filosofo greco (I sec. d.C.)
113-116 55

no, che saranno e che furono, e contemplando l'origi-


naria bellezza, di quelle diventeremo febei vati, di
questa alati amatori; e infine, eccitati dall”ineffabile
amore come da un furore divino, trasportati fuori di
noi quasi ardenti Serafini, colmi del nume, non sare-
mo più noi stessi, ma saremo colui che ci ha creato.
I sacri nomi di Apollo, chi ne indaghi i significati ei II

misteri reconditi, mostreranno con chiarezza che quel


Dio è filosofo non meno che profeta. La qual cosa, es- Il

sendo già stata a sufficienza esposta da Ammonio,


non cӏ ragione che io ora la approfondisca altrimenti;
ma ci tornino in mente, o padri, i tre precetti delfici,
assolutamente necessari a quanti si apprestano ad en-
trare nel sacrosanto e augustissimo tempio non del
falso, bensì del vero Apollo, che illumina ogni anima
che viene in questo mondo: vi renderete conto che es-
si a nient°altro ci esortano, se non ad abbracciare con
tutte le nostre forze questa triplice filosofia, intorno
alla quale verte la presente discussione. Infatti, quel Il

seguace di Platone e maestro di Plutarco; e fra gli interlocutori dei


dialoghi plutarchiani De defectu omculorum e De E apud Delp/wr
(cfr. la nota precedente), dove sviluppa la teoria dell`ispirazione di-
vina dell”orac0lo. - qui mundum: cfr. Io/J., 1, 9: «Erat lux vera,
quae illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum». Il
«vero Apollo» (cfr. anche § 119) è naturalmente Cristo (che col
nome di Apollo era talora designato nella poesia religiosa medioe-
vale e umanistica: cfr. F()R<1ELLlNI, s.u. Apollo, vol. V, p. 143; e ad
esempio Pl:'I`R/\R(;/\, Bue. farm., I 66); e l`ingresso nel «tempio» di
Cristo (simbolo della piena conoscenza del divino) viene qui con-
trapposto all'accesso al tempio di Apollo a Delfi, sul quale erano
incisi i «tria Delphiea precepta›› elencati e commentati ai §§ se-
guenti. La luce spirituale di Cristo (che illumina le anime) è con-
trapposta inoltre alla luce sensibile di Apollo-Febo-Sole.
116. Illud nímís: cfr. PLATONI5, Protag., 343b, Carm., 16;a;
PLUTARCO, De E apud Delpbor, 385d, 387e; De Pyt/siae orac., 4o8e.
56 D1scoRso su1.LA DIGNITA DELL'UoMo

óìyotv, idest «nequid nimis››, virtutum omnium nor-


mam et regulam per mediocritatis rationem, de qua
117 moralis agit, recte praescribit. Tum illud yvô(-)t Geom-
tóv, idest «cognosce te ipsum››, ad totius naturae nos
cognitionem, cuius et interstitium et quasi cynnus na-
118 tura est hominis, excitat et inhortatur. Qui enim se
cognoscit, in se omnia cognoscit, ut Zoroaster prius,
119 deinde Plato in Alcibiade scripserunt. Postremo, hac
cognitione per naturalem philosophiam illuminati,
iam Deo proximi, si, idest «es» dicentes, theologica
salutatione verum Apollinem familiariter proindeque
foeliciter appellabimus.
I20 Consulamus et Pythagoram sapientissimum, ob id
praecipue sapientem, quod sapientis se dignum no-

1 17. Tum ipsum: cfr. PLATONE, Protag., 343a, Carm., 164d-


165a; PLUTARCO, De E apud Dclp/vor 385d, 392a; De Pyt/aíae orac.,
4o8e. La massima, interpretata generalmente come invito alla co-
noscenza dei propri limiti, viene intesa invece da Pico come esorta-
zione alla filosofia naturale, ossia allo studio della natura e del
mondo, di cui l`uomo - in quanto microcosmo - è vincolo e sinte-
si (cfr. anche il § seguente). Cfr. anche FICINO, T/real. Plat.,
proem.: «intelligens oraculum illud “nosce te ipsum" id potissi-
mum admonere, ut quicumque Deum optat agnoscere, se ipsum
ante cognoscat». - interstitium cynnus: per mlerrtilzum (letteral-
mente `ciò che sta nel mezzo') cfr. PICO, Heptaplur, V 2, p. 292:
«quod interstitium est utriusque mundi››. Quanto a cynnus, il raris-
simo vocabolo (che vale propriamente 'mescolanza di vari liquidi',
e in senso figurato 'mescolanza di svariati elementi`) compare solo
in Arnobio e nella tradizione indiretta dell'Oral0r ciceroniano (6,
21; cfr. NONI() MAI<(JI5LLO, De compendíosa doctrína pp. 62 e 83
Lindsay), in un passo qui presente a Pico: «Est autem quidam inte-
riectus inter hos medius et quasi temperatus nec acumine posterio-
rum nec flumine utens superiorum, ut cinnus amborum›› (dove m-
lerieclus è sinonimo del pichiano ínterrtílzum; le edizioni moderne
leggono vícinur in luogo di ul cz'/mur). Il termine sarà recuperato
poi da Poliziano nella prefazione ai primi Miscellanea e dallo stesso
Pico in una lettera non datata al Poliziano, definito «quasi cinnus
116-120 57

ben noto medèn ágan, vale a dire <<nulla di troppo››,


rettamente prescrive la norma e la regola di tutte le
virtù attraverso il criterio del giusto mezzo, di cui trat-
ta la filosofia morale. Poi il famoso gnót/oíreautón, os- 117
sia «conosci te stesso››, ci sprona e ci esorta alla cono-
scenza di tutta la natura, della quale la natura umana è
nesso e, per così dire, mescolanza. Chi infatti conosce 118
sé stesso, tutto in sé stesso conosce, come hanno scrit-
to prima Zoroastro e poi Platone nell'Alcibz'ade. Infi- 119
ne, illuminati da questa conoscenza per mezzo della
filosofia naturale, ormai prossimi a Dio, dicendogli ei,
cioè «tu sei››, col saluto teologico familiarmente, e
dunque felicemente, ci rivolgeremo al vero Apollo.
Interroghiamo anche il sapientissimo Pitagora, sa- IZO

piente soprattutto in virtù di questo, perché mai si

utriusque linguae›› (cfr. per tutto questo BAUSI, Nec rlwtor, pp.
121-22; RIZZO, Cinnur, pp. 335-46). Qui cynnus designa l'uomo in
quanto partecipe di tutte le cose e di tutte le nature, per la sua po-
sizione di mterrtitzum e per la sua condizione di 'microcosmo' (cfr.
la nota precedente).
1 18. Qui... rcríprerunl: cfr. PLATONE, /llcí/2. I, 131a- 133c.
119. Por/frcmo diceumr: cfr. PLUT/\R(10, De E apua' De/p}J0.t,
392a; 393a-b: «Invece il dio esiste. “Tu sei", dobbiamo proclamare.
Esiste non nel tempo, ma nell`eternità immobile, senza tempo, sen-
za mutamenti, che non ha un prima e un dopo: essa non conosce fu-
turo né passato, vecchiezza e gioventù. Essendo unico, egli abbrac-
cia l'eternità nell”unico suo presente, e solo ciò che esiste a queste
condizioni esiste realmente, non soggetto né al passato né al futuro,
né all'inizio né alla fine». Il saluto «tu sei›› vuole dunque riconosce-
re l'eternità e l'unicità di Dio, di contro alla molteplicità e al diveni-
re cui sono soggetti gli uomini e tutto quanto si trova sulla terra.
120. quod exi.rtzmavíl: allusione al titolo di «filosofo» (`amante
della sapienza') che Pitagora - rifiutando la qualifica di `sapiente` -
coniò per sé stesso. Cfr. ad esempio DIOGENE LAERZIO, Vitae, I 12 e
VIII 8; CICERONE, Tura, V 8: «Cuius [rail Pythagorae] ingenium et
eloquentiam cum admiratus esset Leon, quaesivisse ex eo qua maxi-
me arte confideret; at illum artem quidem se scire nullam, sed esse
58 D1sc0Rso SULLA DIGNITA DELL'u0M0

[21 mine nunquam existimavit. Praecipiet primo ne su-


per modium sedeamus, idest rationalem partem qua
anima omnia metitur, iudicat et examinat, ociosa de-
sidia ne remittentes amittamus, sed dialectica exerci-
tatione ac regula et dirigamus assidue et excitemus.
122 Tum cavenda in primis duo nobis significabit, ne aut
adversus solem emingamus, aut inter sacrificandum
123 ungues resecemus. Sed postquam per moralem et su-
perfluentium voluptatum fluxas eminxerimus appe-
tentias, et unguium presegmina quasi acutas irae pro-
minentias et animorum aculeos resecuerimus, tum
demum sacris, idest de quibus mentionem fecimus
Bacchi mysteriis, interesse, et, cuius pater ac dux me-
rito Sol dicitur, nostrae contemplationi vacare inci-

philos0phum››; GI/\MBI..|(I(), De uíla Pyl/oagfnríaz, VIII 44, XII 58,


XXIX 159. E cfr. qui anche il § 166. Per quanto segue cfr. FICINO,
Della cristiana religione ( 1474-75), f. 9r, dove si afferma che i pitago-
rici «purgano la mente da' sensi colle discipline morali, philosophi-
che, metafisiche», prima di volgere al sole «gli occhi anchora velati››.
121. Praecípiel excitemus: per questa massima pitagorica (co-
munemente interpretata come csortazione a non vivere oziosamen-
te) cfr. PORFIRIO, Vila Pyt/Jagorae, 42; PLUTARCO, De /íbcrír edu-
candir, 12e; GIAMBLICO, Protreplícus, XXI, pp. 107 (massima n°
18) e 1 16-17 Pistelli; FICINO, Commentario/ur in .vymbola Pythago-
rae, p. 102: «Super modium ne sedeas. Medium anime eam vim si-
gnificare arbitror, qua metimur diiudicamusque universa. Perverse
igitur ac nequiter agit, qui eam vim, cuius natura est rationis exa-
men ac mensura rerum et dimensio, natibus premit, obruit omni-
noque extinguit». Per l'elenco completo dei rymbola pitagorici cfr.
ad esempio GI/\MI5LI(;(), Protreptícur, XXI, pp. 106-108 Pistelli; FI-
CINO, Symbo/a Pyl/Jagomc p}Jz'losup/az', in Opera, vol. II, p. 1979;
POLIZIANO, Lamia, p. 4 Wesseling. Per la natura e l'origine dei
rymbola cfr. GIAMBLICO, De vita Pyt/Jagoríca, XXIII 103-105.
122-123. Tum cavenda íncípzamurz per queste due massime e
per la loro illustrazione (l'invito, cioè, a purgarsi convenientemente
prima di prender parte ai sacri riti), cfr. ancora GIAMBLICO, Pro-
trcpticus, XXI, pp. 107, 1 15, 1 21-22 Pistelli; ESIODO, Opera et dies,
727, 74243; FICINO, Commentariolur in rymbola Pyt/aagorae, pp,
12o-123 59

considerò degno del nome di sapiente. Ci raccoman- IZI

derà in primo luogo di non sederci sopra il moggio,


ossia di non trascurare, abbandonandola a un'inerzia
inoperosa, la parte razionale con cui l'anima tutto mi-
sura, giudica ed esamina, ma di guidarla assiduamen-
te e stimolarla con l'esercizio e la regola dialettica.
Quindi ci mostrerà due cose da evitare innanzitutto: 122
orinare verso il sole e tagliarci le unghie durante i sa-
crifici. Ma una volta che, mediante la filosofia morale, 123
avremo eliminato, espellendoli, gli impetuosi appetiti
delle traboccanti voluttà, e avremo resecato le punte
delle unghie, quasi fossero le acuminate sporgenze
dell”ira e gli aculei dellianima, allora finalmente po-
tremo cominciare a prender parte ai riti sacri, cioè ai
già ricordati misteri di Bacco, e a dedicarci alla nostra
contemplazione, di cui giustamente il Sole è detto pa-

1oo-1o1: «Ad Solem conversus ne mingas. Iuxta sacrificium ne in-


cidas ungues. Mingere est purgari, incidere ungues etiam est abmo-
vere abs te superflua et vilia. Ne differas purgationem et solutionem
ad id tempus, quo sol inspiciendus est et sacra contemplanda, idest
divina. Prius enim oportet se purgasse et incidisse superflua, quam
ad ea tendas et in illis intentionem fatiges». Per la prima massima
cfr. anche DIOGENE LAERZIO, Vílae, VIII 17 e PLINIO, Nat. /ølrt.,
XXVIII 69; per la seconda, GIAMI5I.I(`.0, De uz'/a Pyl/Jagoríca, XX-
VIII 154. L'urina ele unghie sono collegate da Pico, rispettivamen-
te, all'appetito concupiscibile e all'ira sia per la loro natura (liquida
- e quindi assimilabile al 'flusso' dei desideri- nel primo caso; acu-
minata nel secondo), sia in virtù delle parti del corpo cui esse per-
tengono (il basso ventre nel primo caso, le mani nel secondo: cfr.
sopra, § 79 e nota sub pulvere umbra); cfr. Hcplaplur, VI 6, p.
322: «discamus a terra non edituros nos frugem quam parturimus
nisi invadentis nos fluxae materiae atque caducae impetum repres-
serimus depulerimusque, et e sedibus nostris exturbaverimus ir-
ruentium in nos, quasi aquarum, voluptatum gurgites et torrentes››
(e Commento ai Salmi, p. 216: «undas fluxae voluptatis››). Quanto
al «sole» intellettuale, cfr. Commento ai Salmi, p. 182.
123. rupcrƒluemium fluxar: figura etimologica.
60 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL'UOMO

124 piamus. Postremo ut gallum nutriamus nos admone-


bit, idest ut divinam animae nostrae partem divina-
rum rerum cognitione quasi solido cibo et caelesti
125 ambrosia pascamus. Hic est gallus cuius aspectum
leo, idest omnis terrena potestas, formidat et revere-
126 tur. Hic ille gallus cui datam esse intelligentiam apud
127 Iob legimus. Hoc gallo canente aberrans homo resipi-
128 scit. Hic gallus in matutino crepusculo, matutinis
astris Deum laudantibus, quotidie commodulatur.
129 Hunc gallum moriens Socrates, cum divinitatem ani-
mi sui divinitati maioris mundi copulaturum se spera-

124. Postremo parcamus: cfr. GIAMBLICO, Protrepticux, XXI,


pp. 107 e 116 Pistelli (<<alleva un gallo ma non sacrificarlo: esso è
sacro alla luna e al sole»); FICINO, Symlzola Pylbagorae plaílorop/Ji:
«Gallum nutrias quidem, ne tamen sacrifices: Soli enim et Lunae
dicatus est»; ID., Commentar1'0lu.\'z'n symløola Pythagorae, pp. 101-
102: «Gallus nutrias quidem etc. Est vis quedam anime que cogna-
tione quadam celestium corporum et spirituum sepe ita cietur ut
futura presagiat. [...] Hanc anime vim per gallum significari ideo
arbitror, quia galli ea natura est, qua et tempora metiatur et ipso-
rum temporum mutationes ita sentiat, ut nunquam fallatur». Che il
gallo fosse animale sacro al sole confermano PLUT/\R(I(), De Pytbiae
omculzflr, 4ooc, e GIAMBLICO, De vita Pyt/aagoríca, XXVIII 147. Per
la parte divina dell'anima, cfr. PLATONE, /llczla. I, 133c; per il netta-
re (il .r0lz'tlu_t cz'/aus) e l'amhrosia dell'eternità (ossia della conoscen-
za divina), cfr. i §§ 98 e 108 (e la nota relativa), oltre a C`r›rpu_r Her-
meticum I (Pímamler), 29.
125. Hic reueretur: cfr. Prov., 30, 30-31; LU(IRE7.IO, IV 712-
17; PLINIO, Nat. lazirl., VIII 52 e X 47; POLIZIANO, Rurtícur, 270; FI-
(ZINO, De vita, III 14 (in Opera, vol. I, p. 550): «Nec alia ratione leo
veretur gallum, nisi quoniam in ordine Phoebeo gallus est leone
superior››.
126. Hic ille legímur: cfr. lo/J, 38, 36: «quis dedit gallo intelli-
gentiam?››; e anche FICINO, C0mmem'aríolu.r in .rymløola Pythago-
rac, p. 102: «Sapientia enim gallo a Deo data in libro Iob manifeste
asseveratur». Come scrive CICOGNANI, p. 1 12, «l'intelligenza del
gallo [...] è nella coincidenza dell`ora del suo canto con l'ora critica
dell”universo solare: l'ora in cui finisce la notte e nasce il sole, il di-
vino intelletto a cui egli è consacrato››.
123-129 61

dre e signore. Infine ci raccomanderà di nutrire il gal- 124


lo, ossia di pascere la parte divina della nostra anima
con la conoscenza delle cose divine, quasi solida vi-
vanda e ambrosia celeste. Questo è quel gallo il cui 125
aspetto il leone (e cioè ogni potenza terrena) teme e
venera. Questo è quel gallo al quale leggiamo nel li- 126
bro di Giobbe esser stata concessa l'intelligenza. Al 127
canto di questo gallo l'uomo che vive nell'errore si
ravvede. Questo gallo canta ogni giorno nell'incerta 128
luce dell'aurora, quando le stelle mattutine lodano
Dio. Questo è il gallo che in punto di morte Socrate - 129
quando, ormai libero da ogni pericolo di malattia
corporea, sperava che avrebbe ricongiunto la divinità

127. Hoc re.ripzÃrcz'l: dopo l'arresto di Gesù, Pietro nego per


tre volte di conoscerlo; ma quando un gallo cantò, si ricordò della
profezia del Maestro («antequam gallus cantet ter me negabis››) e
pianse amaramente (cfr, Mt., 26, 69-75; Mr., 14, 66-72; Lc., 22, 55-
62; Io/9., 18, 16-27). Cfr. ancora FICINO, Commenlaríolux in rymbo-
la Pyt/øagorac, p. 102: «eo canente Petrus Apostolus teste Evange-
lio resipiscit››.
128. Hic gallur laudanli/›u.t: cfr. Iob, 38, 7: «cum me lauda-
rent simul astra matutina». Crepurculum nel senso (qui specificato
dall'agget1ivo malulz'/zum) di `prima luce dell'alba” (díluculum) ri-
corre nel latino cristiano; il sintagma matutino crc'pu.rculo è in
CLAUDIO MAMI-LII'I`IN(), Gratiarum actío dc co/1.tula!u suo, 28.
129. Hunt dixíl: cfr. PI./\'I`()NIi, P/Jaedo, 118a: «E già le parti
del suo corpo attorno al ventre erano pressoché fredde, quando,
scoprendosi, perché prima si era coperto, disse queste parole, e fu-
rono le ultime sue: “Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio: date-
glielo, non dimenticatevene!”». Gli antichi erano soliti sacrificare
un gallo ad Esculapio, dio della medicina, quando guarivano da
una malattia (cfr. FICINO, Lcllcre, I 80, p. 140: «Non igitur Escula-
pio gallum, sed Christo Matrique animum corpusque debeo»); So-
crate, ricordando quest”usanza a Critone, vuole ribadire il suo pas-
saggio dalla vita corporea (soggetta alle malattie e alla morte) a una
vita più vera, quella dell'anima unita per l`eternità al divino (cfr.
ancora P/merlo, 8od-81a).
62 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL,UOMO

ret, Esculapio, idest animarum medico, iam extra


omne morbi discrimen positus, debere se dixit.
130 Recenseamus et Chaldeorum monumenta: videbi-
mus (si illis creditur) per easdem artes patere viam
131 mortalibus ad felicitatem. Scribunt interpretes Chal-
dei verbum fuisse Zoroastris alatam esse animam,
cumque alae exciderent ferri illam praeceps in cor-
pus, tum illis subcrescentibus ad superos revolare.
132 Percunctantibus eum discipulis quo pacto alis bene
plumantibus volucres animos sortirentur, «Irrigetis ~
133 dixit - alas aquis vitae». Iterum sciscitantibus unde
has aquas peterent, sic per parabolam (qui erat homi-
nis mos) illis respondit: <<Quatuor amnibus paradisus
Dei abluitur et irrigatur; indidem vobis salutares
134 aquas hauriatis. Nomen ei qui ab aquilone [...], quod

13o. Chaldeorum monumenta: per gli studi (e i libri) caldaici di


Pico, compiuti sotto la guida di Flavio Mitridate, cfr. V(/IRSZUBSKI,
E/acounter, pp. 241 -44; e la già ricordata lettera di Pico a Ficino, da
Fratta, non datata ma assegnabile al novembre 1486: «Animarunt
autem me atque adeo agentem alia vi compulerunt ad Arabum lit-
teras Chaldaeorumque perdiscendas libri quidam utriusque lin-
guae, qui profecto non temere aut fortuito, sed Dei consilio et meis
studiis bene faventis numinis ad meas manus pervenerunt. [...]
Chaldaici hi libri sunt, si libri sunt et non thesauri: in primis Ezrae,
Zoroastris et Melchiar magorum oracula [...] Tum est in illa Chal-
daeorum sapientum brevis quidem et salebrosa, sed plena miste-
riis, interpretatio. Est itidem'et libellus de dogmatis Chaldaicae
theologiae, tum Persarum, Graecorum et Chaldaeorum in illa divi-
na et locupletissima enarratione» (Commentatz'oner, ff. TT i u - ii r
= Opere complete, epistole di Pico, XX).
1 31 _ Scribunt revolare: cfr. PSELLO, Summaria et brevi; dogma-
tum C/aaldaícorum exporilio, in PG CXXII, 1152d; ma cfr. anche
PLATONE, P/.›aea'r., 246c: «Quando essa [rcz'l. l'anima] è perfetta ed
alata, vola in alto e governa tutto quanto il mondo. Ma una volta
che abbia perduto le ali, viene trascinata giù fino a quando non si
aggrappi a qualcosa di solido, e, trasportata la sua dimora in esso, e
preso un corpo terroso, per la potenza di essa questo sembra muo-
129-134 63
del suo animo a quella dell'universo - disse di dovere
ad Esculapio, ossia al medico delle anime.
Passiamo in rassegna anche gli scritti dei Caldei: 130
constateremo (se prestiamo loro fede) che attraverso
queste medesime arti si apre ai mortali la via verso la
felicità. Gli interpreti caldei scrivono essere sentenza 131
di Zoroastro che l°anima è alata, e che quando le sue
ali cadono essa precipita nel corpo, mentre, quando
rispuntano, ritorna a volo verso gli dei. E ai suoi di- 132
scepoli, che gli chiedevano in qual modo potessero
ottenere in sorte anime capaci di volare con ali folte
di piume, «Irrorate le ali - disse - con le acque della
vita››. E avendogli essi ancora domandato donde po- Isa
tessero attingere queste acque, così egli rispose loro -
com`era suo costume - per mezzo di una parabola:
«Il paradiso del Signore è bagnato e attraversato da
quattro fiumi; da lì attingete le acque per voi salutari.
Il nome del fiume che scorre da settentrione è [...], 134

versi da sé››; 249c: «solo l'anima del filosofo mette le ali» (e anche
FICINO, Comm. in Conu., IV 4, pp. 172-73; Ißttere, I 6 [De a'iz/mo
furon'], p. 21' PICO Commento ai Salmi, p. 168: «nos, resolutis alis
quas paravit nobis artifex Pater, cadimut in torrentem iniquitatis»).
Per gli <<interpretes Chaldei›› cfr. la lettera pichiana al Ficino qui ci-
tata alla nota precedente; il testo cui Pico si riferisce doveva essere,
evidentemente, un'illustrazione dei Carmina di Zoroastro,
132. Percunclanttløur vitae: fonte non identificata. Per questi
misteriosi «interpretes Chaldei›› cfr. qui le note ai §§ 130-131 (e
cfr. Introduzzone, p. XI.).
133. qui moi": cfr. PI(`,(), Crmclurionei', p. 116 (= Conclu.\*1'one.\'
tlc intelligentia dictorum Zoroa.\'trir, Io): «et ipsi lxcil. Chaldaei] si-
cut et Zoroaster aenigmatice loquuntur››.
134. Nomen meridia: per queste quattro lacune, cfr. la Nola al
ter/0, pp. 173-74. Per i quattro biblici fiumi del paradiso terrestre,
cfr. Gen., 2, 10-14: «Et fluvius egrediebatur de loco voluptatis ad
irrigandum paradisum, qui inde dividitur in quatuor capita. No-
men uni Phison [...] Et nome fluvii secundi Gehon [...] Nomen ve-
64 Dtscoaso SULLA DIGNITA DELL”uoMo

“rectum” denotat; ei qui ab occasu [...], quod “expia-


tionem” significat; ei qui ab ortu [...], quod “lumen”
sonat; ei qui a meridie [...], quod nos “pietatem” in-
135 terpretari possumus››. Advertite animum et diligenter
considerate, patres, quid haec sibi velint Zoroastris
dogmata: profecto nihil aliud nisi ut morali scientia,
quasi undis Hibericis, oculorum sordes expiemus;
dialectica, quasi boreali amussi, illorum aciem linee-
mus ad rectum; tum in naturali contemplatione debi-
le adhuc veritatis lumen, quasi nascentis solis incuna-
bula, pati assuescamus, ut tandem per theologicam
pietatem et sacratissimum deorum cultum, quasi cae-
lestes aquilae, meridiantis solis fulgidissimum iubar
fortiter perferamus.
136 Hae illae forsan et a Davide decantatae primum, et

ro fluminis tertii, Tigris [...] Fluvius autem quartus, ipse est Euph-
rates» (C PICO, Conclurioner, p. 56 = Conclusione; secundum doctri-
nam rapicntum Hebraeorum Ca/aalirtarum, 1 1).
1 35. profecto perferamur: le quattro discipline attraverso cui si
snoda il percorso gnoseologico tracciato da Pico sono paragonare ai
quattro punti cardinali, dai quali si dipartono i quattro fiumi para-
disiaci (cfr. il § precedente): lioccidente rappresenta la filosofia mo-
rale (che con le sue undae Hibericac - ossia le acque del Mediterra-
neo occidentale -lava le lordure degli occhi: l'accenno alla Spagna
potrebbe forse nascondere un'allusione a «Seneca morale››, nativo
di Cordova), il settentrione la dialettica (che, con la sua boreale li-
vella, aiuta a dirigere rettamente lo sguardo, dissipando le nebbie
della ragione: cfr. § 71, e Commento ai Salmi, p. 226, dove si affer-
ma che il settentrione «serenitatem indicit››), l'oriente la filosofia
naturale (che, con la sua debole luce, simile a quella del sole na-
scente, ci avvicina alla conoscenza di Dio), il meridione la teologia
(che ci consente di contemplare in tutto il suo splendore la luce so-
lare della divinità). Cfr. al riguardo la nota del CI(;0(;N/\NI, pp. 42-
43, e BAUSI, Nec r/aeior, pp. 11 8-19 e 136 (anche per le rarissime vo-
ci borealis e meridiare). Da notare anche i due omeoteleuti, fra loro
consonanti: expiemur / lineemur e arruercamus / perferamus.
136. Hae cognitiones: cfr. Pr., 54, 18: <<Vespere et mane et me-
134-136 65

che significa “giustizia”; di quello che scorre da occi-


dente è [...], che vuol dire “espiazione”; di quello che
scorre da oriente è [...], che vale “luce”; di quello che
scorre da mezzogiorno è [...], che possiamo tradurre
con “pietasu ››. Meditate e considerate con attenzione, I

o padri, quale sia il senso di queste affermazioni di


Zoroastro: senza dubbio, nessun altro se non quello
di esortarci a detergere con la filosofia morale, quasi
con le iberiche onde, la sporcizia degli occhi; ad alli-
neare rettamente il loro sguardo attraverso la dialetti-
ca, come con una boreale livella; quindi ad avvezzarli,
nella contemplazione della natura, a sopportare l'an-
cor debole luce della verità, quasi primi raggi del sole
nascente, finché, per mezzo della pietà teologica e del
santissimo culto divino, giungiamo a sostenere intre-
pidamente, quasi fossimo aquile celesti, il fulgidissi-
mo splendore del sole meridiano.
Queste sono forse quelle conoscenze mattutine, I

ridie narrabo et annuntiabo, et exaudiet vocem meam››. Secondo


Agostino, le conoscenze mattutine, meridiane e vespertine concer-
nono, nell'ordine, le cose future, quelle eterne e quelle passate (cfr.
Enarr. in Pr., 54, 18 = PL XXXVI, 640: «Evangeliza tu, noli tacere
tu quod accepisti, uerpere, de prateritis; mane, de futuris; meridie,
de sempiternis. [...] In meridie enim lux excelsa est, splendor sa-
pientiae, fervor dilectionis. [...] Vespere Dominus in cruce, mane
in resurrectione, meridie in ascensione: enarro Vespere patientiam
morientis, annuntio mane vitam resurgentis, orabo ut exaudiat me-
ridie sedens ad dexteram Patris»). Qui però Pico ha forse in mente
un altro luogo agostiniano (De Generi ad litteram, IV 30, 47 = PL
XXXIV, 316), dove il pieno giorno è identificato con la contem-
plazione di Dio, il vespero con la conoscenza di se stesso da parte
dell”uomo, il mattino con la lode del Creatore che da questa cono-
scenza scaturisce («ubi [_rcil. nella patria celeste] semper est dies in
contemplatione incommutabilis veritatis, semper vespera in cogni-
tione in seipsa creaturae, semper mane etiam ex hac cognitione in
laude Creatoris. Quia non ibi abscessu lucis superioris, sed inferio-
66 Discokso suLLA DIGNITA DE1.L”UoMo

ab Augustino explicatae latius, matutinae, meridia-


137 nae et vespertinae cognitiones. Haec est illa lux meri-
dialis quae Saraphinos ad lineam inflammat et Cheru-
138 binos pariter illuminat. Haec illa regio quam versus
139 semper antiquus pater Abraam proficiscebatur. Hic
ille locus ubi immundis spiritibus locum non esse et
Cabalistarum et Maurorum dogmata tradiderunt. Et
140 si secretiorum aliquid mysteriorum fas est vel sub
enigmate in publicum proferre, postquam et repens e
caelo casus nostri hominis caput vertigine damnavit
et - iuxta Hieremiam - ingressa per fenestras mors
iecur pectusque male affecit, Raphaelem coelestem
medicum advocemus, qui nos morali et dialectica uti
141 pharmacis salutaribus liberet. Tum ad valitudinem
bonam restitutos iam Dei robur Gabriel inhabitabit,

ris cognitionis distinctione fit vespera; nec mane tamquam nocti


ignorantiae scientia matutina succedat, sed quod vespertinam
etiam cognitionem in gloriam conditoris attollat››). Nell'ottica pi-
chiana, dunque, il vespero corrisponde alla filosofia morale, il mat-
tino (cioè l'oriente) alla filosofia naturale e il mezzogiorno alla teo-
logia (cfr. la nota precedente).
137. Haec illuminat: cfr. sopra, §§ 53-65 e note relative. Nel
senso di `meridiano', l'aggettivo meridialir è attestato solo nel com-
mento di Calcidio al Timeo platonico (e si noti qui la triplice varia-
iio operata da Pico ai §§ 135-37: meridiantis, meridianae, meridia-
lir). Qui - come ai due §§ seguenti - viene designato il mezzogior-
no, inteso quale simbolo della perfetta conoscenza teologica (cfr. le
due note precedenti).
138. Haec illa proƒicircebatur: si tratta ancora del mezzogior-
no, verso cui si diresse Abramo: cfr. Gen., 12, 9: «Perrexitque
Abram vadens, et ultra progrediens ad meridiem››, e PICO, Conclu-
rioner, p. 56 (= Conclurioner secundum doctrinam sapientum He-
braeorum Cabalistarum, 14): «omnis processio Abraam semper fit
versus Austrum».
139. Maurorum: i Mauri sono gli Arabi (cfr. Conclurioner, p. 38
= Conclurioner secundum /ldclandum /lrabem, 3; e Dirputationer,
IX 1 1),
136-141 67

meridiane e vespertine celebrate dapprima da Davide


e poi illustrate più ampiamente da Agostino. Questa 137
è quella luce meridiana che infiamma a perpendicolo
i Serafini, e che nello stesso tempo illumina i Cheru-
bini. Questa è quella regione verso cui sempre si diri- 138
geva liantico padre Abramo. Questo è quel luogo do- 139
ve le dottrine dei cabalisti e degli Arabi affermano
non esservi posto per gli spiriti immondi. E se è con- 140
cesso esporre pubblicamente qualcosa dei più occulti
misteri, almeno sotto il velo dell”allegoria, dopo che
la repentina caduta dal cielo ha condannato alla verti-
gine il capo del nostro uomo e - secondo le parole di
Geremia - la morte, entrata dalle finestre, ha colpito
il fegato e il cuore, invochiamo Raffaele, il medico ce-
leste, affinché ci liberi con la filosofia morale e con la
dialettica, quasi farmaci salutari. Allora in noi, resti- 141
tuiti alla buona salute, risiederà ormai Gabriele, la

140. iuxta affecit: cfr. Icr., 9, 21: «Quia ascendit mors per fe-
nestras nostras, ingressa est domos nostras›› (Pico ha certo in men-
te la tradizionale interpretazione allegorica di questo passo, secon-
do la quale Geremia allude alla morte che entra nell'anima attra-
verso le “finestre” dei sensi, e in particolare degli occhi: cfr. MAR-
TELLI, Arcendit mors, pp. 53-64, con esempi di Gerolamo, Agosti-
no e Petrarca). Ricordo anche che il fegato e il petto sono per Pla-
tone, rispettivamente, la sede dell'anima concupiscibile e di quella
irascibile (cfr. sopra, § 79, nota sul) pulvere umbra). - Rapbaelem
medicum: cfr. GREGORIO M/\(;N(), Homil. in Eoang., XXXIV 9
(PL LXXVI, 1251): «Raphael vero dicitur medicina Dei››. E anche
T0/9., 3, 25: «et missus est angelus Domini sanctus Raphael, ut cu-
raret eos ambos›› (cioè Tobia, infermo agli occhi, e Sarra, possedu-
ta da un demone).
141. Dei Gabriel: per questa illustrazione etimologica del no-
me Gabriel cfr. ad esempio GREGORIO MAGNO, Homil. in E1/ang.,
II 34, 9 (PL LXXVI, 1251): «Gabriel autem fortitudo Dei››. - ra-
cerdoti Micbaeli: cfr. ibid.: «Michael namque, quis ut Deus; [...]
et quoties mirae virtutis aliquid agitur, Michael mitti perhibetur, ut
ex ipso actu et nomine detur intelligi quia nullus potest facere
68 D1scoRso SULLA DIGNITA D1-:LL'uoMo

qui nos per naturae ducens miracula, ubique Dei vir-


tutem potestatemque indicans, tandem sacerdoti
summo Michaeli nos tradet, qui sub stipendiis philo-
sophiae emeritos theologiae sacerdotio quasi corona
preciosi lapidis insignet.
142 Haec sunt, patres colendissimi, quae me ad philo-
sophiae studium non animarunt modo, sed compule-
143 runt. Quae dicturus certe non eram, nisi his respon-
derem qui philosophiae studium in principibus prae-
sertim viris, aut his omnino qui mediocri fortuna vi-
144 vunt, damnare solent. Est enim iam hoc totum philo-
sophari (quae est nostrae etatis infoelicitas!) in con-
temptum potius et contumeliam, quam in honorem et
145 gloriam. Ita invasit fere omnium mentes exitialis haec
et monstrosa persuasio, aut nihil aut paucis philoso-

quod facere praevalet Deus». E anche PICO, Conclu.rione_r, p. 56 (=


Conclurzoner secundum doctrinam sapientum Hebraeorum Cabali-
starum 1): «Michael sacerdos superior››. - .rub emeritos: metafora
di ambito militare: .tiipendia emerere vale infatti `militare', ed eme-
riti erano i soldati veterani (che venivano congedati dal servizio mi-
litare); Pico può definire quindi sub stipendiis p/ailoropbiae emeriti
coloro che si sono lungamente dedicati agli studi filosofici, percor-
rendo fino in fondo il cammino della conoscenza. Analogo uso fi-
gurato nelle lettere pichiane al nipote Giovan Francesco del 15
maggio 1492 («sub stipendiis Gehennae militat››) e del 2 luglio
1492 («aeternitatis stipendia››): cfr. PICO, Commenlationes, ff. RR
iiii r, VV v R (= Opere complete, epistole di Pico, I e XLVII). - co-
rona inrignet: cfr. Ps., 20, 4: «posuisti in capite eius coronam de
lapide pretioso››.
144. Est coniumeliam: cfr. CICERONE, Defin., I 1: «Nam qui-
busdam, et iis quidem non admodum indoctis, totum hoc displicet
philosophari››. Frequenti, in questa pagina dell`orazione, i richiami
all'esordio del De finibus, dove Cicerone svolge un'analoga apolo-
gia degli studi filosofici.
145. Quae possit: come sottolineato da BORI, Pluralita, pp. 32
e 73-74, il testo dei §§ 143-45 è molto vicino a quello della lettera
pichiana inviata da Perugia ad Andrea Corneo il 1 5 ottobre 1486:
141-145 69

forza del Signore, il quale, guidandoci attraverso i mi-


racoli della natura e indicandoci ovunque la virtù e la
potenza di Dio, ci consegnerà infine a Michele, il
sommo sacerdote, che ci insignirà - veterani della mi-
lizia filosofica - del sacerdozio teologico, come di una
corona di pietra preziosa.
Queste sono, reverendissimi padri, le ragioni che 142
non semplicemente mi ineoraggiarono, ma mi forza-
rono allo studio della filosofia. Né certamente mi sa- 143
rei risolto ad esporle, se non dovessi replicare a quan-
ti sono soliti biasimare lo studio della filosofia soprat-
tutto negli uomini di alto rango, o in generale in colo-
ro che dispongono di un qualche patrimonio. Ormai, 144
infatti, tutta questa speculazione filosofica (tale è la
sventura del nostro tempo!) è fonte di disprezzo e di
discredito, piuttosto che di onore e di gloria. A tal 145
punto ha invaso quasi tutte le menti questa perniciosa
e perversa convinzione, secondo cui la filosofia non

«Sed ut ad ea veniam, quae scribis, adhortaris me tu ad actuosam


vitam et civilem, frustra me et in ignominiam quasi ac contumeliam
tam diu philosophatum dicens, nisi tandem in agendarum tractan-
darumque rerum palaestra desudem. Et equidem, mi Andrea,
oleum operamque mcorum studiorum perdidissem, si ita essem
nunc animatus, ut hac tibi parte accedere et assentiri posscm. Exi-
tialis haec illa est et monstrosa persuasio quae hominum mentes in-
vasit, aut non esse philosophiae studia viris principibus attingenda,
aut summis labiis ad pompam potius ingenii, quam animi cultum,
vel otiose etiam delibanda. Omnino illud Neoptolemi habent pro
decreto: aut nil philosophandum, aut paucis. Pro nugamentis et
meris fabulis iam illa accipiuntur sapientum dicta: firmam et soli-
dam foelicitatem in bonis animi esse, extraria haec, corporis vel
fortunae, aut parum aut nihil ad nos attinere. [...] Ergo vitio alicui
vertetur quod virtutem ipsam virtutis gratia, nil extra eam quae-
rens, perpetuo affectet et prosequatur, quod divina mysteria, natu-
rae consilia perscrutans, hoc perfruatur otio, caeterarum rerum de-
spector et negligens, quando illa possunt scctatorum suorum vota
70 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL'UOMO

phandum: quasi rerum causas, naturae vias, universi


rationem, Dei consilia, caelorum terraeque mysteria
pre oculis, pre manibus exploratissima habere nihil sit
prorsus, nisi vel gratiam inde aucupari aliquam, vel
146 lucrum sibi quis comparare possit. Quin eo deventum
est ut iam (proh dolor!) non existimentur sapientes
nisi qui mercennarium faciunt studium sapientiae, ut
sit videre pudicam Palladem, deorum munere inter
homines diversantem, eiici, explodi, exsibilari, non
habere qui amet, qui faveat, nisi ipsa, quasi prostans
et praefloratae virginitatis accepta mercedula, male
paratum aes in amatoris arculam referat.
147 Quae omnia ego non sine summo dolore et indi-
gnatione in huius temporis non principes, sed philo-
sophos dico, qui ideo non esse philosophandum et
credunt et praedicant, quod philosophis nulla mer-
ces, nulla sint praemia constituta; quasi non osten-
dant ipsi, hoc uno nomine, se non esse philosophos,
quod cum tota eorum vita sit vel in questu, vel in am-
bitione posita, ipsam per se veritatis cognitionem non

satis implere? Ergo illiberale aut non omnino principis erit non
mercennarium facere studium sapientiae? Quis aequo animo haec
aut ferat aut audiat? Certe nunquam philosophatus est qui ideo
philosophatus est, ut aliquando aut possit, aut nolit philosophari;
mercaturam exercuit ille, non philosophiam›› (PICO, Commeniatio-
ner, f. TT vi r-11 = Opere complete, epistole di Pico, XXXVI).
146. Quin exribilari: cfr. in DANTE, Conti., I 9, 3-5, la polemi-
ca contro coloro che «non acquistano la lettera per lo suo uso, ma
in quanto per quella guadagnano denari o dignitade» e che «per
malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la litteratura a coloro
che l'hanno fatta, di donna, meretrice››; e analogamente III 11, 10-
1 1. E si ricordi anche PIETR/\R(IA, RVF, VII 10-1 1: «Povera et nuda
vai, Philosophia, | dice la turba al vil guadagno intesa››. Per la casta
Pallade (Minerva), dea della sapienza, cfr. anche sopra, § 66 e nota
ordo palladicur; «intactae Palladis›› e <<castae Minervae›› sono in
OR/\z1o, Carm., I 7, 5 e III 3, 23; «castae Palladis» in PI101›EI<z1o,
I4s-147 71
deve essere assolutamente coltivata, o deve esserlo
soltanto da pochi: come se avere chiarissime davanti
agli occhi e a portata di mano le cause dei fenomeni,
le vie della natura, il principio ordinatore dell'univer-
so, i disegni divini, i misteri dei cieli e della terra, non
abbia il benché minimo valore, a meno che non si
possa ricavarne un qualche prestigio o procurarsene
un qualche guadagno. Anzi, siamo giunti (ahimè) a I

tal punto, che ormai non vengono ritenuti sapienti se


non quanti rendono lucroso lo studio della sapienza:
cosicché ci tocca vedere la casta Pallade - dimorante
fra gli uomini per dono divino - scacciata, rifiutata,
fischiata, e non trovare chi l'ami, chi la protegga, a
meno che, quasi prostituendosi e traendo un misero
compenso dalla sua deflorata verginità, non versi nel-
lo scrignetto delliarnante il denaro così disonesta-
mente guadagnato.
Tutto ciò, non senza profondissimo dolore e indi- I

gnazione, lo dico non contro i prìncipi, ma contro i


filosofi del nostro tempo, i quali per questo sostengo-
no e proclamano non doversi filosofare, perché ai fi-
losofi non è riservata alcuna ricompensa, alcun pre-
mio; come se, con questa sola parola, costoro non
mostrassero di non essere filosofi, giacché, tutta la lo-
ro vita essendo rivolta o al guadagno o all'ambizione,
non abbracciano per sé stessa la conoscenza della ve-

lll zo, 7 (CARENA). - explodz' referal: si notino, in un passo di ac-


curata elaborazione retorica, le omeoarchie (explodi, exxz'/›z'larí) e le
allitterazioni (pudicam Palladem, prostans el praeflorataø, /nercedula
ma/e). Per il raro sostantivo arcu/a (nel senso di 'salvadanaio`) cfr.
BAUSI, Nec r/actor, p. 1 19.
147. boc /10/mine: il nomen sarà la parola merce; o praemia, di
per sé ritenuta indegna di un autentico filosofo, che deve essere
mosso esclusivamente dal disinteressato amore della conoscenza.
72 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLYUOMO

148 amplectuntur. Dabo hoc mihi, et me ipsum hac ex


parte laudare nihil erubescam, me nunquam alia de
causa philosophatum nisi ut philosopharer, nec ex
studiis meis, ex meis lucubrationibus mercedem ul-
lam aut fructum vel sperasse alium vel quesiisse,
quam animi cultum et a me semper plurimum deside-
149 ratae veritatis cognitionem. Cuius ita cupidus semper
et amantissimus fui ut, relicta omni privatarum et pu-
blicarum rerum cura, contemplandi ocio totum me
tradiderim, a quo nullae invidorum obtrectationes,
nulla hostium sapientiae maledicta vel potuerunt ante
150 hac, vel in posterum me deterrere poterunt. Docuit
me ipsa philosophia a propria potius conscientia
quam ab externis pendere iuditiis, cogitareque sem-
per non tam ne male audiam, quam ne quid male vel
dicam ipse vel agam.
1;1 Equidem non eram nescius, patres colendissimi,
futuram hanc ipsam meam disputationem quam vo-
bis omnibus, qui bonis artibus favetis et augustissima
vestra praesentia illam honestare voluistis, gratam at-
que iocundam, tam multis aliis gravem atque mole-
stam; et scio non deesse qui inceptum meum et dam-
narint ante hac, et in praesentia multis nominibus
152 damnent. Ita consueverunt non pauciores, ne dicam
plures, habere oblatratores quae bene sancteque

149. relícla cum: fin dal 1483, Pico aveva rinunciato all”ammi-
nistrazione del suo cospicuo patrimonio, conservando per sé sol-
tanto un terzo delle rendite; tre anni prima della morte, poi, secon-
do quanto narra Giovan Francesco nella Vita (pp. 62-64), decise di
lasciare completamente la cura delle cose temporali, vendendo tut-
ti i suoi beni e destinando ai poveri gran parte del ricavato.
150. Quae omnia again: come osservato da BORI, Plum/ità, p.
76, questo passo (§§ 147-go) riecheggia PLATONE, /lpo/ogía Socr.,
147-Isz 73
rità. Questo riconoscerò a me stesso, e sotto questo 148
aspetto non mi vergognerò di lodarmi: il fatto di es-
sermi dedicato alla filosofia per nessun'altra ragione,
se non per essere filosofo, e di non aver desiderato né
cercato altra ricompensa o altro guadagno dai miei
studi e dalle mie ricerche, se non il nutrimento della
mia anima, e la conoscenza di quella verità sempre da
me sommamente agognata. Della quale sempre sono 149
stato a tal punto bramoso e desiderosissimo, che,
messa da parte ogni cura delle faccende private e
pubbliche, mi sono dedicato interamente all'ozio
contemplativo, dal quale nessuna calunnia degli invi-
diosi, nessuna malignità dei nemici della sapienza ha
fino ad ora potuto, né potrà in futuro distogliermi.
Proprio la filosofia mi ha insegnato a dipendere dalla 150
mia coscienza, piuttosto che dalle opinioni altrui, e a
pensare sempre non tanto a non essere giudicato ma-
le, quanto a non dire o fare io stesso qualcosa di male.
Non ignoravo certamente, venerandissimi padri, 151
che questa mia discussione sarebbe risultata tanto
gradita e piacevole a voi tutti, che proteggere le arti li-
berali e che avete voluto onorarla della vostra augu-
stissima presenza, quanto gravosa e molesta a molti
altri; e so che non mancano quelli che già da prima
hanno condannato questa mia impresa, e che anche
ora sotto molti aspetti la condannano. E così: le azio- 152
ni compiute rettamente e onestamente, a fini virtuosi,
hanno sempre avuto un numero di ringhiosi detratto-

28a-32e, dove Socrate si difende dall'accusa di essersi dedicato per


tutta la vita alla ricerca filosofica.
151. Ea/wide/11 díxpulati(›nc/11: ricalca l`1'nc1'pz'l del Dc*/2'/11'/aus ci-
ceroniano (l 1): «Non eram nescius, Brute, [...] fore ut hic noster
labor in varias reprehensiones incurreret››_ Cfr. sopra, al § 3, la ri-
presa dell'attacco del Dc oratore.
74 Dlscoaso sULLA DIGNITA DELL'UoMo

aguntur ad virtutem, quam quae inique et perperam


I ad vitium. Sunt autem qui totum hoc disputandí ge-
nus et hanc de litteris publice disceptandi institutio-
nem non approbent, ad pompam potius ingenii et
doctrinae ostentationem quam ad comparandam eru-
I ditionem esse illam asseverantes. Sunt qui hoc qui-
dem exercitationis genus non improbent, sed in me
nullo modo probent, quod ego hac aetate, quartum
scilicet et vigesimum modo natus annum, de sublimi-
bus Christianae theologiae mysteriis, de altissimis
philosophiae locis, de incognitis disciplinis, in cele-
bratissima urbe, in amplissimo doctissimorum homi-
num consessu, in apostolico senatu disputationem
I proponere sim ausus. Alii, hoc mihi dantes, quod di-
sputem, id dare nolunt, quod de nongentis disputem
questionibus, tam superfluo et ambitiose quam supra
I vires id factum calumniantes. Horum ego obiecta-
mentis et manus illico dedissem, si ita quam profiteor
philosophia me edocuisset, et nunc, illa ita me docen-
te, non responderem, si rixandi iurgandique proposi-
to constitutam hanc inter nos disceptationem crede-
I rem. Quare obtrectandi omne lacessendique proposi-
tum, et quem scribit Plato a divino semper abesse

153. /:mc genus: cfr. ancora CICERONE, Defz'/1., I 1: «genus hoc


scribendi››.
154. Sun! xenatu: la conclusione di un passo retoricamente as-
sai sostenuto (come dimostrano la figura etimologica appro/sent -
improbent - probent, l`omeoteleuto z'nrtz'tutz'onem - ostentationem -
erudítionem, il poliptoto dammzrint / damnem', il chiasmo pompam
1`ngemí- doctrinae ortenlatíonem, e soprattutto i continui e ricerca-
ti parallelismi) è affidata a due sonanti trícola. Per l`amplz'x_tz`mu.r
doctissimorum hominum mnsersur e per l'apost0lz'cus senalus cfr.
§ 1, nota patrer.
1s2-157 75
ri non inferiore - per non dire superiore - rispetto al-
le azioni compiute iniquamente e disonestamente,
con intenti malvagi. Vi sono poi alcuni che non ap- I

provano tutto questo genere di dispute e quest'uso di


dibattere pubblicamente intorno a questioni lettera-
rie, affermando che esso mira a far pompa d'ingegno
e ostentazione di dottrina, piuttosto che all'acquisi-
zione della scienza. Altri non disapprovano questo ti- I

po di pratica, ma non lo approvano affatto in me,


giacché io a quest`età, ossia ad appena ventiquattro
anni, ho avuto l'ardire di organizzare in una città fre-
quentatissima, in un larghissímo consesso di uomini
dottissimi, nel senato apostolico, una disputa sui mi-
steri sublimi della teologia cristiana, sui temi più ar-
dui della filosofia, su discipline sconosciute. Altri an- I

cora, pur concedendomi di disputare, non ammetto-


no ch”io discuta intorno a novecento questioni, ca-
lunniosamente sostenendo che ciò è tanto superfluo e
presuntuoso quanto superiore alle mie forze. Alle I

obiezioni di costoro io e mi sarei immediatamente ar-


reso, se così mi avesse insegnato a fare la filosofia che
professo, e ora, giacché così essa m'insegna, non ri-
sponderei, se credessi che questa discussione fosse
stata intrapresa fra noi col proposito di litigare e di
polemizzare. Ogni proposito di denigrazione e di I

provocazione, e quella malevolenza che Platone scri-

I57. quem livorz cfr. PLATONE, P/Jaedr., 24711: <<l`invidia rima-


ne fuori del coro divino›› (e cfr. anche Tim., z9e; Corpux Hermetzl
cum, IV 3); FICINO, Comm. in Comz., IV 6: «Ideo livor, ut Plato in-
quit in P/Jedro, abest a divino choro». - irzc0gn(›rca/nur: il verbo in-
cognarcere è un /Japax apuleiano (Florzd, 19). Pico lo impiega an-
che nell'Ep1Ã\*tr›/a a Ermolao Barbaro, § 1oo: <<Sed, amabo, incogno-
scamus quid istaec sit latinitas».
76 D1scoRso SULLA D1GN1TA DELL'uoMo

choro, a nostris quoque mentibus facessat livor, et an


disputandum a me, an de tot etiam questionibus,
amice incognoscamus.
158 Primum quidem ad eos, qui hunc publice dispu-
tandi morem calumniantur, multa non sum dicturus,
quando haec culpa, si culpa censetur, non solum vo-
bis omnibus, doctores excellentissimi, qui sepius hoc
munere non sine summa et laude et gloria functi estis,
sed Platoni, sed Aristoteli, sed probatissimis omnium
159 etatum philosophis mecum est communis. Quibus
erat certissimum nihil ad consequendam quam que-
rebant veritatis cognitionem sibi esse potius, quam ut
160 essent in disputandi exercitatione frequentissimi. Si-
cut enim per gymnasticam corporis vires firmiores
fiunt, ita dubio procul in hac quasi litteraria palestra
animi vires et fortiores longe et vegetiores evadunt.
161 Nec crediderim ego aut poetas aliud per decantata
Palladis arma, aut Hebreos, cum 5t¬:, idest «ferrum››,
D¬n:r'1›'I'7w, idest «sapientum» symbolum esse dicunt,
significasse nobis, quam honestissima hoc genus cer-
tamina adipiscendae sapientiae oppido quam neces-

158-159. Pri/mf/az /rec/uan/1'.m'mí: per i due paragrafi cfr. PO-


l.l7.l/\N(), Ct)/mmwlo inedito alle Salve di Slazio, pp. 91-92: «Qui au-
tem mihi vitio vertunt quod a Domitio [sell Caldcrini] dissentiam,
ii mihi ne litcram quidem ullum veterum scriptorum aspexisse vi-
dentur, qui omnes in refellendis maxime superiorum opinionibus
sunt occupatissimi. Atquc, ut omittam quod philosophi ipsi non
solum in suas diversarum opinionum sectas distributi sunt, sed et
singuli paene cum singulis pro veritate digladiantur, nonne idem
tandem in omnibus bonis artibus tenor est? [...] Contentiosa enim
illa disputatio, ut Aristoteles scribit [Pro/øl. 916b], magnopere in-
genium exacuit». E per l'elogio della disputa cfr. inoltre BRUNI,
Díalogz', I, pp. 237-239 (dove ricorre anche il sintagma «disputandi
exercitationem››).
161. Hebreos necessaria: il CICOGNANI, pp. 112-13, scrive che
157-161 77
ve esser sempre esclusa dalla schiera degli dei, sia
dunque lungi anche dalle nostre menti, e amichevol-
mente esaminiamo se è opportuno ch'io disputi, e an-
che se lo faccia intorno a tante questioni.
In primo luogo, a quanti ingiustamente criticano 158
questo costume di disputare pubblicamente, rispon-
derò in breve, dal momento che questa colpa, se col-
pa dev'essere considerata, è condivisa con me non
soltanto da tutti voi, eccellentissimi dottori, che spes-
so, non senza somma lode e gloria, avete praticato
quest'attività, ma anche da Platone, ma anche da Ari-
stotele, ma anche dai più reputati filosofi di ogni epo-
ca. Ai quali era perfettamente chiaro come niente fos- 159
se loro più utile, per raggiungere quella conoscenza
della verità che essi inseguivano, dell'esercitarsi con
la massima assiduità nell”arte della disputa. Come, in- 160
fatti, con la ginnastica le forze del corpo si fanno più
resistenti, così, senza alcun dubbio, in questa - per
dir così - palestra letteraria le forze dell'animo rie-
scono di gran lunga più robuste e più vigorose. E io 161
sarei propenso a credere che non altro i poeti, attra-
verso le tanto celebrate armi di Pallade, o gli Ebrei,
quando dicono il ferro esser simbolo dei sapienti, ab-
biano voluto mostrarci, se non il fatto che i nobilissi-
mi combattimenti di questo genere siano assoluta-
mente necessari per il conseguimento della sapienza.

«nel Talmùd i sapienti sono assimilati al ferro che si tempera e si


affila battendo un pezzo contro l`altro››, e rinvia al 'lìllmùd Babilo-
mflre, Tra/lulu Ta'amit/J: «Osserva Rab Hammah: che significa il te-
sto del Prov. XXVII, 17: “ferro con ferro insieme”? Come avviene
fra gli strumenti di ferro, che lluno affila l'altro, così è di due sa-
pienti che si aguzzano l`uno con l'altro››. Per le parole ebraiche ci-
tate da Pico, cfr. la Nola al testo; il termine [Jakamim (latino sapien-
tar) designa specificamente, in effetti, i rabbini del Talmud.
78 D1scoRso SULLA DIGNITA DELL'UoMo

162 saria. Quo forte fit ut et Caldei, in eius genesi qui phi-
losophus sit futurus, illud desiderent, ut Mars Mercu-
rium triquetro aspectu conspiciat, quasi si hos con-
gressus, haec bella substuleris, somniculosa et dormi-
tans futura sit omnis philosophia.
163 At vero cum his qui me huic provinciae imparem
dicunt, difficilior est mihi ratio defensionis: nam si
parem me dixero, forsitan inmodesti et de se nimia
sentientis, si imparem fatebor, temerarii et inconsulti
164 notam videor subiturus. Videte quas incidi angustias,
quo loco sim constitutus, dum non possum sine culpa
de me promittere quod non possum mox sine culpa
165 non praestare. Forte et illud Iob afferre possem, spi-
ritum esse in omnibus, et cum Timotheo audire: «Ne-

162. _gem›sz`: gencrzfir è qui termine tecnico dell'astrologia, e vale


natz'víta.\^, falum, genitura, /Joroscopum, designando l`immagine del
cielo al momento della nascita o del concepimento (esempi in Pe-
tronio, Giovenale, Svetonio e nel latino tardo: cfr. BAUSI, Nec rbe-
tor, p. 125, e anche FICINO, Comm. in Cono., II 8 e VI 14; PICO, Di-
.t[›utatzom›.\*, III 2o; IV 16; VI 16, ecc., con le /ln/1otazz'om^dell'ed.
GARIN, vol. I, p. 631). Caldei vale qui probabilmente, in senso lato,
`astrologi' (cfr. ad esempio CATONE, De agrzi cultura, V 4; CI(ìIiR()-
NE, De dívm., II 87-99; APULILIO, /lpología, 97).- ul Mars compi-
ciat: in astrologia si dice «aspetto» la posizione delle coppie di pia-
neti che concorrono alla formulazione dcll'oroscopo. L`aspetto tri-
gono o trigonale (considerato uno dei più favorevoli) è quello in cui
le due visuali formano un angolo di 120° («Tríquetru.r, detto di un
corpo celeste distante da un altro di un terzo dello zodiaco, ossia
che forma con quello un lato di un triangolo equilatero nello zodia-
co»: CARENA, p. 75); cfr. C1<:I;RoNE, De diam., II 89; PLINIO, Nat.
/aíst., II 77; FICINO, Comm. in Cona., V 8 («aspectu sextili aut tri-
no››) e V 12; ID., De role, VIII: «in trigono [...] aspectu» (Proratorí
latím', p. 988); PICO, Dzlrputationer, VI 14 e 16, e X 9 (con le relati-
ve /lnnotazz'omidell'ed. GARIN, vol. I, pp. 649-50 e vol. II, pp. 541-
42). In questo caso, «il filosofo auspicato avrà in sommo grado la
congiunzione dell'intelligenza ermetica (Mercurio) con la potenza
bellicosa di Marte» (CICOGNANI, p. 1 13).
162-165 79

Forse è per questo motivo che anche i Caldei, 162


nell'oroscopo di colui che è destinato ad essere filo-
sofo, richiedono che Marte guardi Mercurio con
aspetto trigonale, come se, una volta eliminati questi
scontri e questi duelli, tutta la filosofia dovesse risul-
tare pigra e sonnecchiante.
Ma più difficile è per me difendermi contro quelli 163
che mi dicono inadeguato a quest'impresa: infatti ho
llimpressione che, se mi proclamerò adeguato, incor-
rerò forse nella taccia di immodesto e di presuntuoso;
se mi riconoscerò inadeguato, in quella di temerario e
di sconsiderato. Guardate in quali difficoltà mi sono 164
imbattuto, in quale posizione mi vengo a trovare,
mentre non posso senza colpa promettere da parte
mia ciò che non posso poi senza colpa non mantene-
re. Forse potrei addurre le parole di Giobbe, secondo 165
le quali «lo spirito è in tutti», e ascoltare con Timoteo:

163. provinciae: per prow'ncía nel senso figurato di *compito dif-


ficile` cfr. ad esempio TER., Pborm., 72-73: «O Geta, provinciam |
cepisti duram», ma il traslato si trova anche nel P()LIZI/\N() («quarc
ego cum duram [...] provinciam mc nactum viderem››: in L.
D'/\M()RE, Epistola ím'clz'le di /lngelo Poliziano, Napoli, D'/\uria,
1909, p. 14) e negli autori volgari (ad esempio VESPASIANO DA BI-
STICCI, Vite, vol. Il, p. 480: «costui [...] avendo presa una provincia
si dura come questa››; e M./\(IIIIz\VliLLI, Discorsi, I 58). Cfr. inoltre
PICO, lettera non datata al Ficino: «aggredicndam mihi hanc pro-
vinciam existimavi›› (Com1m›ntatz'one.\', f. TT iiii 11 = Opere comple-
te, epistole di Pico, XXX).
164. quax anguxtzut: l'uso transitivo di zhcídert' col semplice
accusativo (essendo la preposizione inclusa nel verbo) e poetico,
postclassico e cristiano; si trova però anche nel Te/vzistzo del Barba-
ro (f. 1 131;: «si quis febrem incidat››).
165. Forte om/1z'l›u.\': cfr. Iob, 32, 8: «Sed, ut video, spiritum
est in hominibus››. - cum tuam: cfr. 1Tz'm., 4, 12: «Nemo adole-
scentiam tuam contemnat».
80 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL,UOMO

166 mo contemnat adolescientiam tuam››. Sed ex mea ve-


rius hoc conscientia dixero, nihil esse in nobis ma-
gnum vel singulare; studiosum me forte et cupidum
bonarum artium non inficiatus, docti tamen nomen
167 mihi nec sumo nec arrogo. Quare et quod tam grande
humeris onus imposuerim, non fuit propterea quod
mihi conscius nostrae infirmitatis non essem, sed
quod sciebam hoc genus pugnis, idest litterariis, esse
168 peculiare quod in eis lucrum est vinci. Quo fit ut im-
becillissimus quisque non detrectare modo, sed appe-
tere ultro eas iure possit et debeat, quandoquidem
qui succumbit beneficium a victore accipit, non iniu-
riam, quippe qui per eum et locupletior domum, id-
est doctior, et ad futuras pugnas redit instructior.
169 Hac spe animatus, ego infirmus miles cum fortissimis
omnium strenuissimisque tam gravem pugnam decer-
170 nere nihil sum veritus. Quod tamen temere sit factum
nec ne, rectius utique de eventu pugnae quam de no-
stra aetate potest quis iudicare.
171 Restat ut tertio loco his respondeam, qui numerosa
propositarum rerum multitudine offenduntur, quasi
hoc eorum humeris sederet onus, et non potius hic
mihi soli quantuscumque est labor esset exanclandus.
172 Indecens profecto hoc et morosum nimis, velle alie-
nae industriae modum ponere, et - ut inquit Cicero -

166. dorli arrogo: come Pitagora, Pico nega a sé stesso il titolo


di `sapiente`, prefcrendogli quello di 'amante della sapienza` (cfr. §
12o e relativa nota).
167. tam z'mpo.\'uerím: cfr. ORAZIO, /lrr poelíca, 38-4o: «Sumi-
te materiam vestris, qui scribitis, aequam I viribus et versate diu
quid ferre recusent, | quid valeant umeri>›. Cfr. qui anche il § 171.
172. velle deríderarc: cfr. CICERONE, De fin., I 2: «qui rebus
infinitis modum constituant in reque co meliore, quo maior sit,
165-172 81

<<Nessuno disprezzi la tua adolescenza». Ma più sin- 166


ceramente, secondo la mia coscienza, dirò questo, che
in me non c`è niente di grande o di singolare; pur non
negando di essere, per avventura, studioso e appassio-
nato delle arti liberali, tuttavia non assumo né mi ar-
rogo il titolo di dotto. Pertanto, anche l”aver imposto 167
alle mie spalle un carico tanto gravoso non è dipeso
dal non esser consapevole della mia debolezza, ma dal
sapere come la peculiarità di questo genere di batta-
glie, ossia di quelle letterarie, consista nel fatto che da
esse è proficuo uscire sconfitti. Ne consegue che an- 168
che gli uomini più deboli non solo non debbano evi-
tarle, ma anzi possano e debbano a buon diritto intra-
prenderle di propria iniziativa, giacché chi soccombe
riceve dal vincitore un beneficio, non un danno, come
quello che grazie a lui fa ritorno a casa più ricco, ossia
più dotto, e meglio preparato alle successive battaglie.
Animato da questa speranza, io, debole soldato, non 169
ho avuto timore di ingaggiare un combattimento tan-
to impegnativo coi più forti e più valorosi di tutti. Se 17o
poi questa sia stata una decisione temeraria o meno, lo
si potrà giudicare meglio, in ogni caso, dall'esito della
contesa, piuttosto che dalla mia età.
Resta che io risponda, in terzo luogo, a coloro che 171
sono disturbati dal gran numero delle questioni pro-
poste, come se questo peso gravasse sulle loro spalle,
e non toccasse piuttosto a me solo sopportare, qua-
lunque essa sia, una simile fatica. davvero sconve- 172
niente e oltre modo fastidioso voler imporre un limite
all'operosità altrui, e - come dice Cicerone - deside-

mediocritatem desiderent››; e I 3: «quis est qui alienae modum sta-


tuat industriae?››.
82 D1scoRso SULLA DIGNITA DELL`UoMo

in ea re quae eo melior quo maior, mediocritatem de-


173 siderare. Omnino tam grandibus ausis erat necesse
me vel succumbere vel satisfacere: si satisfacerem,
non video cur quod in decem praestare questionibus
est laudabile, in nongentis etiam praestitisse culpabile
174 existimetur. Si succumberem, habebunt ipsi, si me
oderunt, unde accusarent, si amant, unde excusent:
quoniam in re tam gravi, tam magna, tenui ingenio
exiguaque doctrina adolescentem hominem defecis-
175 se, venia potius dignum erit quam accusatione. Quin
et iuxta poetam:

si deficiant vires, audacia certe


laus erit: in magnis et voluisse sat est.

176 Quod si nostra aetate multi, Gorgiam Leontinum


imitati, non modo de nongentis sed de omnibus
etiam omnium artium questionibus soliti sunt, non si-
ne laude, proponere disputationem, cur mihi non li-
ceat, vel sine culpa, de multis quidem, sed tamen cer-
tis et determinatis disputare?
177 «At superfluum - inquiunt - hoc, et ambitiosum.››
178 Ego vero non superfluo modo, sed necessario factum
hoc a me contendo; quod et si ipsi meam philo-

175. si... et-1: P1<o1›1;1<z1o, II re, 5-6.


176. Gorgíam zi/mlatí: il retore e sofista Gorgia di Lentini (V
sec. a.C.), discepolo di Empedocle, è protagonista dell'omonimo
dialogo di Platone. Cfr. CICERONE, De oral., III 129: «sed hic [sal
Gorgia] in illo ipso Platonis libro [il dialogo Gorgja] de omni re,
quaecumque in disceptationem quaestionemque vocetur, se copio-
sissime dicturum esse profitetur; isque princeps ex omnibus ausus
est in conventu poscere qua de re quisque vellet audire›› (e anche
De fin., II 1). A Gorgia è paragonato Pico (per il gusto della dispu-
ta che lo animava in gioventù, e per il progetto delle novecento te-
si) dal nipote GIOVAN FRANCESCO: «cum iuvenis admodum esset
172-178 83

rare la via di mezzo in ciò che tanto è migliore quanto


più è grande. E certo, in imprese così ardue, era ine- I

vitabile che io o soccombessi o riuscissi: qualora io


riesca, non vedo per quale motivo ciò che sarebbe
meritorio conseguire in dieci questioni, sia ritenuto
biasimevole aver conseguito anche in novecento.
Qualora io soccomba, costoro, se mi odiano, avranno I

di che accusarmi, se mi amano, di che scusarmi: infat-


ti, che un adolescente di debole ingegno e di limitata
cultura abbia fallito in un'impresa tanto difficile e
tanto grande, sarà cosa degna più di perdono che di
accusa. Ché anzi, come dice il poeta, I

se manchino le forze, ti sarà


gloria certo l'audacia; nelle imprese
grandi, è abbastanza anche l'aver voluto.

Che se ai nostri giorni molti, imitando Gorgia da I

Lentini, sono stati soliti, non senza plauso, organizza-


re dispute intorno non solo a novecento tesi, ma an-
che a tutte le questioni di tutte le discipline, perché a
me non dovrebbe esser concesso discutere, almeno
senza colpa, intorno a molti argomenti, sì, ma tuttavia
ben precisi e determinati?
«Ma questo - dicono - è superfluo e presuntuoso.>› I

Io, invece, sostengo che quanto ho fatto non è super- I

fluo, ma necessario; il che, se costoro considerassero

gloriaeque tunc cupidus, in urbe celebratissima Gorgiae Leontini


more quascumque tutando partis famam aucuparetur›› (Vila, p.
58). Anche ERMOI./\(› BARBARO, scrivendo a Roberto Salviati il 4
marzo 1487, affermò che Pico aveva progettato la disputa romana
«Gorgiae Leontini praecellentis doctrina viri exemplo›› (Epírlolae,
vol. II, p. 9).
84 Drscoaso SULLA DIGNITA DELL”UoMo

sophandi rationem considerarent, inviti etiam fatean-


179 tur plane necesse est. Qui enim se cuipiam ex philo-
sophorum familiis addixerunt, Thomae videlícet aut
Scoto (qui nunc plurimum in manibus) faventes, pos-
sunt illi quidem vel in paucarum questionum discus-
180 sione suae doctrinae periculum facere. At ego ita me
institui, ut, in nullius verba iuratus, me per omnes
philosophiae magistros funderem, omnes scedas ex-
181 cuterem, omnes familias agnoscerem. Quare, cum
mihi de illis omnibus esset dicendum, ne, si privati
dogmatis defensor reliqua posthabuissem, illi viderer
obstrictus, non potuerunt, etiam si pauca de singulis
proponerentur, non esse plurima quae simul de om-
182 nibus afferebantur. Nec id in me quisquam damnet,
quod me quocumque ferat tempestas, deferar hospes.
183 Fuit enim cum ab antiquis omnibus hoc observatum,
ut, omne scriptorum genus evolventes, nullas quas
possent commentationes illectas preterirent, tum
maxime ab Aristotele, qui eam ob causam ózvotyvcô-

179. T/Jomae Scoto: Tommaso d'Aquino e John Duns Scoto


(cfr. §§ 186 e 193).
180. in íuralur: cfr. ORAZIO, l:'pz'_n'_, I 1, 14: <<nullius addictus
iurarc in verba magistri». Cfr. anche oltre, § 182 (dove è citato il v.
15 della medesima epistola) e nota. - omnes' exculeremz cfr.
QUlN'|`lLIAN(), lnst. or., I 8, 19 («qui omnis [...] scidas excL1tit››),
per il tramite di BARBARO, Epzflrtolac, vol. I, p. 15 (prcf. del 'I`e1†/1'.\^tz'(›
a I¬`rancesco Tron): «excudendae [ma forse da emendare in excu-
/iemlae] omnes scedae». - omnex scedas agno.rcere/n: così G10-
V/\N FRAN(1I3S(l() PICO nella Vita, p. 58, riecheggiando questo passo
dell'Oratío: «cunctasque pari modo familias agnoverat, cunctas
sectas [ma leggi scedas] excusserat, nec uni illorum sic addictum
credas (qui nostris hominibus mos est), ut caeteros aspernaretur».
182. quod /øorpexz cfr. ORA'/.10, Izlpírt., I 1, 15: «quo me cum-
que rapit tempestas, deferor hospes›› (la variante qui introdotta nel
passo corrispondente dell'/lpologia [deve/var per deferar: cfr. l”ap-
178-183 85

il mio metodo di filosofare, anche di malavoglia sa-


rebbero costretti a confessare apertamente. Coloro, I 79

infatti, che si sono consacrati interamente a una qual-


siasi delle scuole filosofiche, aderendo per esempio a
Tommaso o a Scoto, che ora godono di grandissimo
favore, possono mettere alla prova la loro dottrina
nella discussione di poche questioni. lo però mi son 180
dato queste regole: non giurare sulle parole di nessu-
no, spaziare per tutti i maestri di filosofia, esaminare
ogni pagina, conoscere tutte le scuole. Pertanto, do- 18 I
vendo io trattare di tutti i filosofi (affinché, se per di-
fendere una particolare dottrina avessi tralasciato le
altre, non sembrassi vincolato a quella), non poteva-
no non essere molteplici le questioni presentate com-
plessivamente riguardo a tutti, anche se poche ne ve-
nivano proposte singolarmente intorno a ciascuno di
essi. Né questo mi venga imputato, di giungere come 18 2
ospite dovunque la tempesta mi spinga. Da tutti gli 18 3
antichi fu infatti osservata questa norma, di passare in
rassegna ogni genere di scritti, non tralasciando di
leggere alcun libro che potessero procurarsi; e in mo-
do particolare fu osservata da Aristotele, che per que-

paratol rende meno stringente il parallelismo con la fonte). (lfr. so-


pra, § 180 (dove è citato il v. 14 della medesima epistola oraziana)
c nota in íuratux.
183. commentationes: nel senso di `libro', `scritto', commentatio
ricorre in Plinio e in Gellio (ed è frequentissimo nel 'l`e/mflt/io di
Ermolao Barbaro). Cfr. qui anche il § 207. - c/uz' nuneupa/nalurz
la notizia deriva dalle tre Vitae /lrz'.\:1folel1'.r che circolavano nel
Quattrocento: due vite greche (cfr. rispettivamente pp. 428 e 438
Rose) e una vita latina (p. 443 Rose: «Plato domum Aristotelis do-
mum lectoris vocabat et frequenter dicebat: “eamus ad domum
lectoi-is”››). Pico, probabilmente, utilizzava la seconda vita greca,
che attribuiva a Giovanni Filopono: cfr. § 204 e nota.
86 D1scoRso SULLA DIGNITA DELL'Uo1vIo

184 omg, idest «lector››, a Platone nuncupabatur. Et pro-


fecto angustae est mentis intra unam se Porticum aut
Achademiam continuisse; nec potest ex omnibus sibi
recte propriam selegisse, qui omnes prius familiarita-
185 tes non agnoverit. Adde quod in una quaque familia
est aliquid insigne, quod non sit ei commune cum
caeteris.
186 Atque ut a nostris, ad quos postremo philosophia
pervenit, nunc exordiar, est in Ioanne Scoto vegetum
quiddam atque discussum, in Thoma solidum et
equabile, in Egidio tersum et exactum, in Francisco
acre et acutum, in Alberto priscum, amplum et gran-
de, in Henrico (ut mihi visum est) semper sublime et
187 venerandum. Est apud Arabes in Averroe firmum et
inconcusum, in Avempace, in Alpharabio grave et

184. unam Ac/øadezniam: Portico e Accademia alludono ri-


spettivamente alla filosofia stoica (il cui fondatore, Zenone di Ci-
zio, insegnava in un edificio di Atene dotato di un portico dipinto
o pecile) c a quella platonica (Accademia era infatti chiamato un
bosco nei pressi di Atene, dove Platone acquistò un fondo e stabilì
la sede della sua scuola). Cfr. una lettera di Pico, non datata, al Po-
liziano, a proposito della traduzione di Epitteto eseguita da que-
stlultimoz <<cum semper in Lycaeo vel Academia, nunquam in Por-
ticu sim versatus››: C`ormnentatíone_r, f. SS v r = Opere complete,
epistole di Pico, XII). Il sintagma anguria ment (al plurale) è in CI-
(IERONE, Oralío por! redítum in Senatu ba/alla, 10. - omnes agno-
1/eril: cfr. QUINTILIANO, Intl. or., V 7, 7: «ut totam causam familia-
riter norit».
186. /llque perveníl: cfr. oltre, §§ 193-94 e note relative. - di-
_rcu_s:rum: discutere nel senso di `litteris, oratione de rebus dubiis vel
explanandis disserere` e del latino tardo e cristiano; qui però è for-
se più appropriato il significato di 'concitare`, “vehementer move-
re`, `perturbare', attestato in Seneca e Quintiliano. Dírcussus po-
trebbe quindi valere `concitato`, 'mosso': un significato meglio ar-
monizzabile con l'altro membro della dittologia, vegelum (`vigoro-
sol). - est venerandum: i filosofi medioevali: si tratta, nell°ordine,
di John Duns Scoto, Tommaso d'Aquino, Egidio Romano, France-
183-187 87

sto motivo era chiamato da Platone «lettore››. E, in I

verità, è indizio di un ingegno limitato rinchiudersi


entro il solo Portico ola sola Accademia; né, fra tutte,
può scegliere convenientemente la propria compa-
gnia chi prima non le abbia conosciute tutte quante.
Aggiungi poi che in ciascuna scuola cӏ qualcosa di I

peculiare, che essa non condivide con nessun'altra.


E per cominciare ora dai nostri, ai quali in ultimo è I

pervenuta la speculazione filosofica, clè in Giovanni


Scoto qualcosa di vigoroso e concitato, in Tommaso
di solido ed equilibrato, in Egidio di terso e preciso,
in Francesco di penetrante e acuto, in Alberto di se-
vero, ampio e maestoso, in Enrico, a quanto mi sem-
bra, di sempre sublime e venerando. Fra gli Arabi, c'è I

in Averroe qualcosa di fermo e saldo, in Avempace e

sco di Meyronnes, Alberto Magno, Enrico di Gand. Nel delineare


le caratteristiche di alcuni tra questi pensatori, Pico tiene conto
delliappellativo con cui essi venivano tradizionalmente indicati:
Francesco di Meyronnes doctor aculus («acutum››), Alberto Magno
(«grande››; F legge magnum), Enrico di Gand doctor .role/nnís («su-
blime et venerandum››). Le prime novantaquattro conclusioni
(Concluxíoner secundum a'oclrínas Latínorum p/Jílo.top/.mrum el
lheologoru/n) sono relative proprio a questi sei filosofi; del resto,
l`ordine nel quale sono qui presentati i vari gruppi di pensatori ri-
calca quello con cui si susseguono le diverse sezioni delle Conclu-
_rz'one.r (cfr. FARMIZR, S`yncrelz'_\';n, pp. 204-207). Per questo e per i se-
guenti paragrafi, modello e CI(Il3RONI?., De oral., III 28, dove sono
passate in rassegna le qualità peculiari dei maggiori oratori antichi,
greci e romani («suavitatem Isocrates, subtilitatem Lysias, acumen
Ilyperides, sonitum Aeschines, vim Demosthenes habuit. [...] Gra-
vitatem Africanus, lenitatem Laelius, asperitatem Galba, profluens
quiddam habuit Carbo et canorum››; cfr. BORI, Pluralíla, p. 69).
187. Er! apud Plalonicum: quattro pensatori arabi di indirizzo
aristotelicoz Averroe, Avempace (Ibn Bajia, musulmano di Spagna
vissuto fra XI e XII sec., filosofo, medico, scienziato e commenta-
tore), Alfarabio (al-Farabi, filosofo e scienziato del X sec.) e Avi-
88 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLYUOMO

meditatum, in Avicenna divinum atque Platonicum.


188 Est apud Graecos in universum quidem nitida, in pri-
mis et casta philosophia; apud Simplicium locuplex
et copiosa, apud Themistium elegans et compendia-
ria, apud Alexandrum constans et docta, apud
Theophrastum graviter elaborata, apud Ammonium
189 enodis et gratiosa. Et si ad Platonicos te converteris,
ut paucos percenseam, in Porphirio rerum copia et
multiiuga religione delectaberis, in Iamblico secretio-
rem philosophiam et barbarorum mysteria venerabe-
ris; in Plotino privum quicquam non est quod admi-
reris, qui se undique prebet admirandum, quem de
divinis divine, de humanis longe supra hominem doc-
ta sermonis obliquitate loquentem sudantes Platonici

cenna. Panno parte degli otto filosofi arabi cui è dedicata la secon-
da sezione della prima parte delle Conc/u›`ione.r (Conclusionex rc-
cundum doctrinam Ara/zum, qui ul plurimum peri'/Jaletícos se profi-
lentur). Per il divinum che e proprio dei platonici cfr. § 190 e nota
illud .tymbolu/n.
188. I filosofi greci di scuola aristotelica: Simplicio, Temistio,
Alessandro di Afrodisia, Teofrasto e Ammonio (quest'ultimo non è
presumibilmente Ammonio Sacca - il maestro di Plotino - né
l`Ammonio menzionato al § 115, bensì Ammonio di Alessandria,
figlio di Ermia e discepolo di Proclo, vissuto nel VI sec., espositore
di Aristotele: cfr. C1<:o(;NAN1, p. 116, e FARMER, Synm-mm, p.
284). Le tesi ad essi relative costituiscono la terza sezione della pri-
ma parte delle Cor/clu.tione.r (Concluxiones secundum Graecos qui
peripalelicam Ieclam profilenlur). L`aggettivo compendiaria, riferito
a Temislio, allude certo alle sue parafrasi di alcune opere aristoteli-
che, latinizzate da Ermolao Barbaro (la versione barbariana, stam-
pata nel 1481, fu apprezzata e studiata a fondo da Pico, anche sot-
to l`aspett0 linguistico: cfr. BAUSI, Per Giovanni Pico, pp. 272-85).
189. laarßarorum mysteria: trasparente allusione all'opera mag-
giore di Giamblico, il De my1'terii.t, dedicato allo studio, e all'inter-
pretazione in chiave neoplatonica, dell'antica sapienza filosofico-
rcligiosa degli Egiziani e dei Caldei (in Pico, come in Proclo, i «bar-
bari›› sono generalmente i Caldei: cfr. FARMIJR, Syncreli.rm, p. 325);
187-189 89

in Alfarabio di grave e pensoso, in Avicenna di divino


e platonico. Fra i Greci la filosofia è in generale lim- I

pida, e nei più antichi anche pura; in Simplicio è ricca


e copiosa, in Temistio elegante e succinta, in Alessan-
dro severa e dotta, in Teofrasto nobilmente elabora-
ta, in Ammonio agile e aggraziata. E se ti volgerai ai I

platonici, per non toccar che di pochi, in Porfirio sa-


rai attratto dalla ricchezza degli argomenti e dalla
multiforme religiosità, in Giamblico venererai la più
arcana filosofia e i misteri dei popoli barbari; in Ploti-
no non troverai qualcosa di peculiare da ammirare,
giacché egli si rivela degno di ammirazione sotto ogni
aspetto, e con studiata oscurità parla delle cose divine
divinamente, delle cose umane in modo di gran lunga
superiore all'umano, tanto che i platonici, pur sudan-

dal De iny.rterz'i.\' sono in buona parte desunte le nove Conelu.rione.t


.secundum lam/ølicum (i/aiil., pp. 310-13). In una lettera non datata,
Pico chiedeva a Ficino gli scritti di Giamblico («est hoc tempore ad
mea studia plurimum necessarius Iamblicus Platonicus››): Com-
menlaliones, f. SS iiii v = Opere complete, epistole di Pico, XI). Lo
stesso Ficino, coadiuvato da Pico, stese una traduzione-parafrasi
del De mysteriis nel 1488-89 (FICINO, O/rem, II, pp. 1873-1908; e
cfr. Marrilzo Ficino e il ritorno di Ermete Trixmegi.tto, pp. 100-101 ).
Del De mysterii.r possediamo un codice con probabili postille di Pi-
co (cfr. Pico, Poliziano, pp. 142-45). - .vudunlex intelligu/rl: Pico
riferisce a Plotino le parole che Girolamo dice a proposito di Era-
clito nell'/ltluer.tu.r Iouinianum (I 1, 238 = PL XXIII, 21 1-12): «I Ie-
raclitum [...] sudantes philosophi vix intclligunt». Analogamente
nel FICINO, In Plotini epilomae proemium (Opera, II, p. 15 37):
<<Plotinus [...] ob incredibilem cum verborum brevitatem, tum sen-
tentiarum copiam sensusque profunditatem, non translatione tan-
tum linguae, sed commcntariis indiget». Ijinteresse di Pico per
Plotino è testimoniato dalla citata lettera al Ficino scritta da Fratta
nel novembre 1486: «Hoc scio, non excidisse mihi Plotinum, quem
non in manibus habendum modo, sed ediscendum adeo mihi et
semper censui et nunc quoque censco›› (Cozmnenlaliones, f. TT ii
r = Opere complete, epistole di Pico, XX).
90 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL,UOMO

190 vix intelligunt. Praetereo magis novitios, Proculum


Asiatica fertilitate luxuriantem, et qui ab eo fluxe-
runt, Hermiam, Damascium, Olympiodorum et com-
plures alios, in quibus omnibus illud tò 6:-:ìov, idest
«divinum››, peculiare Platonicorum symbolum, elu-
cet semper. .
191 Accedit quod, si qua est heresis quae veriora inces-
sat dogmata et bonas causas ingenii calumnia ludifi-
cetur, ea veritatem firmat, non infirmat, et velut motu
192 quassatam flammam excitat, non extinguit. I-Iac ego
ratione motus, non unius modo (ut quibusdam place-
bat), sed omnigenae doctrinae placita in medium af-
ferre volui, ut hac complurium sectarum collatione ac
multifariae discussione philosophiae ille veritatis ful-
gor, cuius Plato meminit in epistolis, animis nostris
quasi sol oriens ex alto clarius illucesceret. Quid erat
19; si Latinorum tantum, Alberti scilicet, Thomae, Scoti,
Egidii, Francisci I-Ienricique philosophia, obmissis

190. Praetereo Olympiodorum: i filosofi platonici: Porfirio,


Giamblico, Plotino, Proclo, Ermia, Damascio e Olimpiodoro. La
corrispondente sezione delle Conclusione: (la quarta della prima
parte: Conclu.tz'one.r .recuntlum doctrinam philosophorum qui Plato-
nici a'icunlur) ospita tesi relative soltanto ai primi quattro pensatori
(oltre che ad Adelando arabo). A Proclo, Pico attribuisce una /l.\'ia-
tica ferlililax in quanto nativo di Costantinopoli. - illud symbo-
lum: cfr. anche il § 187. Qui symbolum vale “contrassegno”, “segno
di ric0noscimento'; nello stesso senso le massime pitagoriche erano
definite rymbola (cfr. sopra, nota al § 121).
192. Hac il/ucescerel: per questo atteggiamento pichiano, cfr.
Giov/IN F1</\Ncßsco Pico, Vila, p. 58; «Ipse enim a teneris sic in-
stitutus fuit, sic animatus, ut in illis [scil philosophis] veritatem
quaereret parique honore quousque illa elucesceret inventa quo-
scumque veneraretur››. Nella precedente redazione dell”Oralio (§
I 20), a questa affermazione si affiancava quella relativa all'impossi-
bilità, per un singolo filosofo 0 una singola scuola, di attingere la
pienezza della conoscenza e della verità, essendo quest`ultima tan-
to immensa da superare le capacità della mente umana. - multifa-
189-193 91
dovi sopra, a fatica lo intendono. Tralascio i più re- 190
centi: Proclo, esuberante di asiatica fecondità, e tutti
quelli che da lui discesero, come Ermia, Damascio,
Olimpiodoro, e molti altri, nei quali tutti sempre ri-
splende quel «divino›› che costituisce il tratto distinti-
vo dei platonici.
Bisogna anche aggiungere il fatto che, se qualche 191
scuola attacca i princìpi più veri e calunniando irride
le giuste cause della ragione, essa conferma la verità,
anziché infirmarla, e, come se questa fosse una fiam-
ma agitata dal movimento, la ravviva, anziché spe-
gnerla. Io, mosso da questa convinzione, ho voluto 192
sottoporre a pubblico dibattito i princìpi non di una
sola (come qualcuno avrebbe preferito), ma di ogni
sorta di dottrine, affinché, grazie a questo confronto
tra le molteplici scuole e all'esame dei più svariati si-
stemi filosofici, risplendesse più luminosamente nei
nostri animi, a mo' del sole che sorge, quel fulgore
della verità di cui parla Platone nelle sue epistole. A 193
che sarebbe valso se, passando sotto silenzio i filosofi
greci e arabi, si fosse discusso soltanto dei latini (vale
a dire di Alberto, di Tommaso, di Scoto, di Egidio, di

riae: Pico poteva trovare il raro aggettivo mullifarius anche in auto-


ri come Livio, Seneca e Gellio, in passi nei quali i moderni editori
preferiscono leggere diversamente (cfr. BAUSI, Nec rbetor, p. 128);
nonché nell'/lxclepiur, XII, p. 31 1. - ille epirlolis: cfr. PI./\'I'()NI5,
Epitt., VII 341c-d: «la conoscenza di tali verità [quelle relative ai
principi primi di tutte le cose] non è affatto comunicabile come le
altre conoscenze, ma, dopo molte discussioni fatte su questi temi, e
dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si
accende dallo scoccare di una scintilla, essa nasce dallianima e da
se stessa si alimenta».
193. Alberti Henricique: sono i medesimi pensatori medioe-
vali citati al § 186. - quando manavil: cfr. EUSEBIO, Praeparatio
evangelica, X 1-8 (PG XXI, 765-804); TEODOR[~I'l'O DI CIRO, Grae-
92 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL,UOMO

Graecorum Arabumque philosophis, tractabatur,


quando omnis sapientia a barbaris ad Graecos, a
I Graecis ad nos manavit? Ita nostrates semper in phi-
losophandi ratione peregrinis inventis stare et aliena
I excoluisse sibi duxerunt satis. Quid erat cum Peripa-
teticis egisse de naturalibus, nisi et Platonicorum ac-
cersebatur Achademia, quorum doctrina et de divinis
semper inter omnes philosophias, teste Augustino,
habita est sanctissima, et a me nunc primum, quod
sciam (verbo absit invidia), post multa secula sub di-
I sputandi examen est in publicum allata? Quid erat et
aliorum quot quot erant tractasse opiniones, si, quasi
ad sapientum symposium asymboli accedentes, nihil
nos quod esset nostrum, nostro partum et elabora-

carum af/eclionum curalio I (PG LXXXIII, 791-95). E cfr. anche


BAUSI, Nec r/aelor, p. 110. Simili affermazioni (come osserva
VALCKE, Hurnanirine el rcbolaxlique, p. 192) saranno capovolte da
Pico nelle Dixputaliones, XI 2, p. 482: «Quod si illi [rcil gli Egizia-
ni e i Caldei] errarunt, ut indubie liquet, errant Graeci qui illos, er-
rant Arabes qui Graecos, errant Latini qui Arabes Graecosque se-
quuntur››. E cfr. anche ibid., XII 2, pp. 492 («fuerunt igitur Aegyp-
tii atque Chaldaei, quantum equidem assequor coniectura, parum
facto ad sapientiam ingenio››) e 494 («hoc tantum asseveramus, na-
turalis primaevae philosophiae, quae rationibus demonstratur,
nihil Graecos philosophos, quicumque recte philosophati sunt, ab
Aegyptiis accepisse, sed quae ad caerimonias mathematicamquc
spectarent››). E cfr. anche DI NAPOLI, Giovanni Pico, pp. 277-82;
ZANIER, Struttura, p. 85.
194. Ita _tat1's: riecheggia, ma invertendone il segno, le parole
di SENECA, Episl., XXXIII 10: «Numquam autem invenietur, si
contenti fuerimus inventis» (quest`epistola senechiana è riutilizzata
qui anche al § 197, nonché al § 120 della redazione palatina). Con
maggiore chiarezza ed energia, quest'idea era espressa nella reda-
zione palatina dell'Oralio (§§ 1 14-17), il cui testo risulta qui decur-
tato della parte relativa all'influenza del pensiero caldaico, ebraico
e arabo sulla filosofia occidentale (cfr. apparato).
195. lette /lugurtino: cfr. AGOSTINO, De vera religione, III 3; De
193-196 93
Francesco e di Enrico), dal momento che ogni forma
di sapienza si è diffusa passando dai barbari ai Greci,
dai Greci a noi? E per questo che i nostri, quanto al I

metodo del filosofare, si son sempre ritenuti paghi


delle scoperte dei pensatori stranieri, contentandosi
di approfondire le dottrine altrui. A che sarebbe val- I

so trattare coi peripatetici di questioni naturali, se


non fosse stata convocata anche l°Accademia dei pla-
tonici, la cui dottrina e, per quanto riguarda le cose
divine, è sempre stata considerata - lo testimonia
Agostino - la più santa fra tutte le filosofie, e ora da
me per la prima volta, a quanto mi risulta (sia detto
senza alcuna malevolenza), è stata dopo molti secoli
recata in pubblico e sottoposta all'esame di un dibat-
tito? A che sarebbe valso anche discutere le opinioni I

degli altri filosofi, quanti essi fossero, se, quasi pre-


sentandoci a mani vuote al convito dei sapienti, non
avessimo portato niente che fosse nostro, partorito ed

cio. Dei, VIII 12 (dove dei platonici si dice che «de uno Deo qui fe-
cit caelum et terram, quanto melius senserunt, tanto ceteris glorio-
siores et illustriores habcntur››) e IX 1. Qui Pico segue l'opinione
tradizionale (fatta propria, ad esempio, anche dal Ficino) secondo
cui l”aristotelismo, occupandosi prevalentemente delle cose natu-
rali, è in qualche misura propedeutico rispetto al platonismo, che
si occupa, invece, dei divini misteri (cfr. V/\I.()KI5, Il ritorno ad/lrzl
slolele, pp. 339-40). - verbo invidia: la precisazione è probabil-
mente rivolta verso chi - come, in modo particolare, il Ficino -
non poteva certo guardare con favore (né tanto meno sottoscrive-
re) il primato che qui Pico si attribuisce nella moderna riscoperta
della filosofia platonica (cfr. Introduzione, pp. XXXVIII-XXXIX).
196. arymboli: propriamente, atynz/›olu.\: e colui che non porta il
proprio contributo al banchetto; ma la voce e impiegata anche in
senso figurato. Su questo termine si sofferma Poliziano nel capito-
lo 43 della seconda centuria dei Miscellanea (p. 75: «Inde `asymbo-
lus' dicitur eleganter, hoc est cìoúußoltoç, qui nihil ad cenam confe-
rat, idque eleganter transfertur ad eos qui nihil in amicorum ser-
94 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL'UOMO

197 tum ingenio, afferebamus? Profecto ingenerosum est


(ut ait Seneca) sapere solum ex commentario et, qua-
si maiorum inventa nostrae industriae viam praeclu-
serint, quasi in nobis effaeta sit vis naturae, nihil ex se
parere quod veritatem, si non demonstret, saltem in-
198 nuat vel de longinquo. Quod si in agro colonus, in
uxore maritus odit sterilitatem, certe tanto magis in-
fecundam animam oderit illi complicita et associata
divina mens, quanto inde nobilior longe proles desi-
deratur.
199 Propterea non contentus ego, praeter communes
doctrinas, multa de Mercuríi Trismegisti prisca theo-
logia, multa de Caldeorum, de Pythagorae disciplinis,
multa de secretioribus Hebreorum addidisse myste-
riis, plurima quoque per nos inventa et meditata de
naturalibus et divinis rebus disputanda proposuimus.

mone ipsi loquantur, et cena ipsa eleganter asymbolus ad quam


quis partem non afferat››), Per Pico cfr. anche Heptaplus, prooe-
mium, p. 178: «seu penitus asymbolus eliminarer», e Dirpulalio-
nex, III 11 e 26. Da notare l”allitterazione (sapientum symposium
asymboli) e il successivo poliptoto (nostrum nostro).
197. Profeclo commentario: cfr. SENECA, Episl., XXXIII 7:
«turpe est enim seni aut prospicienti senectutem ex commentario
sapere>› (donde anche POLIZI/\N(), Praelectio de dialectica = Opera
omnia, p. 529: «cum ne ipsi quidem quicquam, nisi, quod dicitur,
ex commentario saperent››). Da questa epistola deriva anche il
sostantivo inventa (§§ 197 e 199): «Numquam autem invenietur,
si contenti fuerimus inventis›› (10). Quanto a ingenerosus, l”agget-
tivo è solo del latino medioevale (cfr. LATIIAM, _r.z/_) e umanistico
(esempi da Erasmo in I-IOVEN, pp. 184-85). - quasi in naturae: è
il diffuso tema dell'inesorabile “invecchiamento” del mondo e dei
suoi abitanti; cfr. ad esempio LUCREZIO, II 1150-1 174 (specie 1150:
«Iamque adeo fracta est aetas eflelaque tellus››)_ _ de longinquo: la
forma più comune della locuzione è e longinquo; de longinquo ri-
corre solo nel latino cristiano (e nel Temistio di Ermolao Barbaro).
Cfr. BAUSI, Nec r/Jelor, p. 134.
198. in uxore rlerililale/n: spunto (oltre che, ovviamente, bi-
196-199 95
elaborato dal nostro ingegno? E davvero poco onore- I

vole, come dice Seneca, sapere soltanto ciò che si è


appreso dai libri, e, come se le scoperte dei nostri
predecessori avessero precluso la via alla nostra inge-
gnosità, come se in noi fosse esaurito il vigore della
natura, non generare da noi stessi nulla che, se non
riesca a dimostrare la verità, almeno possa additarla
da lontano. Che se il contadino nel campo e il marito I

nella moglie detestano la sterilità, senza dubbio la


mente divina tanto più detesterà l°anima infeconda a
cui è unita e congiunta, quanto di gran lunga più no-
bile è la prole che da quella si desidera.
Per questo io, non pago di aver aggiunto, oltre alle I

filosofie più conosciute, molti argomenti relativi


all”antichissima teologia di Mercurio Trismegisto, alle
dottrine dei Caldei e di Pitagora, ai più reconditi mi-
steri degli Ebrei, ho voluto proporre alla discussione
anche numerose tesi da me escogitate e formulate a

blico) ermetico; cfr. Corpus Hermeticum, II 17: «nella vita coloro


che sono saggi ritengono la procreazione la funzione più importan-
te e più santa, e considerano come la più grande disgrazia e il più
grande peccato che un uomo muoia senza aver procreato», - certe
desideralur: per i “parti” dellianima “gravida” di virtù cfr. PI./\-
TONE, Symp., 209a-e; e anche Corpus Hermelicum, IX 3: «L'intel-
letto infatti genera tutti i concetti: li genera buoni, quando è stato
da Dio fecondato, contrari invece quando e stato fecondato da
qualche demone».
199. Propterea mysteriis: si tratta delle sezioni V-VIII della
prima parte delle Conclusiones: Conclusiones secundum malbemali-
cam Pythagorae, secundum opinionem Chaldeorum l/Jeologorum, .te-
cundum priscam doctrinam Mercurii Trismegisti /legyplii, secundum
doctrinam sapientum Hebraeorum Ca/aalislarum. Per Ermete Tri-
smegisto, cfr. qui la nota al § 2. Con secreliora Hebreorum mysteria,
Pico allude alla qala/aula/J (cfr. §§ 35 e 234). - plurima proposui-
mus: si tratta della seconda parte delle Conclusiones, che accoglie
498 tesi (divise in undici sezioni) secundum opinionem propriam.
96 D1scoRso su1.LA DIGNITA DE1.L'uoIv1o

ZOO Proposuimus primo Platonis Aristotelisque concor-


diam, a multis ante hac creditam, a nemine satis pro-
201 batam. Boetius, apud Latinos id se facturum pollici-
tus, non invenitur fecisse unquam quod semper face-
202 re voluit. Simplicius, apud Graecos idem professus,
203 utinam id tam praestaret quam pollicetur! Scribit et
Augustinus in Acbademicis non defuisse plures qui
subtilissimis suis disputationibus idem probare cona-

2oo. Proposuimus probalam: la prima sezione della seconda


parte delle Conclusiones ospita diciassette tesi secundum propriam
opinionem, dieta prinium Aristotelis el Platonis, deinde aliorum doc-
lorum conciliantes, qui maxime discordare uidenlur. Per llimpegno
profuso da Pico nella conciliazione di Platone e Aristotele cfr. una
lettera non datata al Ficino (Commentaliones, f. TT iiii v = Opere
complete, epistole di Pico, XXX) e una a Battista Spagnoli del 20
marzo 1491 (nella quale Pico dichiara di dedicare a questo lavoro
l”intera mattinata: «Concordiam Platonis et Aristotelis assidue mo-
lior, do illi quotidie iustum matutinum››: Commenlaliones, f. SS iii 12
= Opere complete, epistole di Pico, V). Importanti anche le testimo-
nianze del POLIZIANO nella prima centuria dei Miscellanea, del
1489 (cap. I = Opera omnia, p. 227: <<copiosissimo opere [...] pul-
cherrimoque [...] quod de Platonis hac ipsa et Aristotelis concordia
nocres atque dies molìtur ac cudit››), e di Giov/IN FRANc1:sco Pico
nella Vila dello zio (p. 5 1). Quale anticipazione di questo ambizioso
progetto, che non vide mai la luce, Pico pubblicò nel 1491 il tratta-
tello De ente et uno (vedine il Proemio ad Angelo Poliziano, p. 386:
«qui Aristotelem dissentire a Platone existimant, a me ipsi dissen-
tiunt, qui concordem utriusque facio philosophiam [...] Efflagitas
enim ut, quamquam de his fusius in ipsa, quam adhuc parturio,
Platonis Aristotelisque concordia sim scripturus, brevi tamen ad te
commentariolo perstringam ea quae tunc tibi coram de hac quae-
stione sum locutus››). Ma già il 6 dicembre 1484, scrivendo al Bar-
baro, Pico affermava di scorgere in Platone una «sensuum [...] cum
Aristotele omnino communionem, ita ut, si verba spectes, nihil pu-
gnantius, si res, nihil concordius›› (Commenlaliones, f. TT ii 11 =
Opere complete, epistole di Pico, XXII); parole riprese nelle Con-
clusiones, p. 62 (= Conclusiones paradoxae [...] dieta primum Aristo-
telis el Platonis [...] concilianles, 1): «Nullum est quaesitum natura-
le aut divinum, in quo Aristoteles et Plato sensu et re non consen-
2oo-2o3 97

proposito delle questioni naturali e divine. Abbiamo 200

innanzitutto proposto la concordia di Platone e di


Aristotele, da molti prima d'ora ammessa come vera,
ma da nessuno sufficientemente dimostrata. Boezio, ZOI

che fra i Latini promise di farlo, non risulta aver mai


fatto ciò che sempre ebbe in animo di fare. Simplicio, 202

che fra i Greci dichiarò di voler tentare la stessa cosa,


volesse il cielo che fosse riuscito, come a promettere,
così a realizzare questo suo disegno! Anche Agostino, 203
negli Accademici, scrive non esser mancati molti che
con le loro sottilissime argomentazioni cercarono di
provare lo stesso assunto, vale a dire che una medesi-

tiant, quamvis verbis dissentire videantur». Cfr. qui anche il § 266.


Da notare l'anacliplosi col paragrafo precedente.
201. Boctius uoluit: cfr. BOEZIO, In /1'/Jrum /lrzÃtt0lelz'_t dc inter-
pretationc cdítío secunda, Il (PL LXIV, 433): «non equidem con-
tempserim Aristotelis Platonisque sententias in unam quodammo-
do revocare concordiam, et in his eos non ut plerique dissentire in
omnibus, sed in plerisque quae sunt in philosophia maxime con-
sentire demonstrem››. Per i §§ 201-204 cfr. POLIZIANO, Mírcella-
nea, I I (Opera, p. 227): «ct Philoponus in Aristotelis vita et Sim-
plicius in commentariis De anima et in extremo Peri hermenias li-
bro Boetius ipse ger-manas esse et compares utriusque philosophi
[cioè di Platone e di Aristotele] sententias asseverant».
202. Simplícíus pollícclurfz cfr. SIMPLICIO, In /lrislote/z'_\' Cale-
goríax co/mncnlaría, proem., p. 7, 29-32 (ed. K. KALBFLILISCH, Be-
rolini, Typis et impensis Georgii Reimeri, 1907): «Bisogna pertan-
to, a mio parere, che egli [.rcíl. il buon interprete di Aristotele] non
guardi solamente la lettera di ciò che Aristotele scrive contro Pla-
tone, per biasimare il disaccordo tra questi filosofi, ma che egli
consideri i significati profondi e segua le orme di quell'accordo
che, sulla maggior parte delle questioni, esiste tra loro››; ID., In /lrzl
.vtotelís P/øyszcorum commentaría, p. 1249, 12-13 (ed. H. DIELS, Be-
rolini, Typis et impensis Georgii Reimeri, 1 895).
203. Scribit p/Jz'l0_r0p/Jiam: cfr. A(;OS'I'INO, Centra /lcaa'cmz°c0_r,
Ill 19, 42: «non defuerunt acutissimi et sollertissimi viri, qui doce-
rent disputationibus suis Aristotelem ac Platonem ita sibi concine-
re, ut imperitis minusque attentis dissentire vitleantur».
98 Dtscokso SULLA DIGNITA DELL'UoMo

ti sint, Platonis scilicet et Aristotelis eandern esse phi-


204 losophiam. Ioannes item Grammaticus, cum dicat
apud eos tantum dissidere Platonem ab Aristotele
qui Platonis dicta non intelligunt, probandum tamen
zo; posteris hoc reliquit. Addidimus autem et plures lo-
cos in quibus Scoti et Thomae, plures in quibus
Averrois et Avicennae sententias, quae discordes exi-
stimantur, concordes esse nos asseveramus.
206 Secundo loco quae in philosophia cum Aristotelica
tum Platonica excogitavimus nos, tum duo et septua-
ginta nova dogmata physica et metaphysica colloca-
vimus, quae si quis teneat, poterit, nisi fallor (quod
mihi erit mox manifestum), quamcumque de rebus
naturalibus divinisque propositam questionem longe
alia dissolvere ratione quam per eam edoceamur quae

204. Ioanne: re/iquit: del teologo e filosofo greco del VI sec.


d.C. Giovanni Filòpono (o Giovanni Gramrnatico, o Giovanni
Alessandrino) Pico possedeva numerose opere (KIBRE, T/Jc Li-
brary, nn. 449, 1 131, 1589, 1591); con una lettera non datata, egli
richiese a Baldassarre Meliavacca una copia dei commenti del Filò-
pono alla I¬'z1rica e alla Metafzkica di Aristotele (Commentatíoncr, f.
TT iii r = Opcrc complete, epistole di Pico, XXV). Qui si allude a
un passo della /lrzistole/is vita attribuita da Pico (come da Polizia-
no: cfr. sopra, nota a § 201) al Filopono; fra le tre 'vite' del filosofo
a noi giunte (cfr. sopra il § 183, nota qui... nuncupabalur), quella in
questione dovrebbe essere la seconda vita greca (p. 438 Rose), in
cui si leggono parole analoghe a quelle riferite da Pico: pntéov öti
013)( ànktòç dvttìtéyet tti) flìttitmvt, åìtìtà toìç un vofioaoi tà toü
l'l?tti-ctovoç (passo così tradotto nella vita latina, p. 446 Rose: «di-
cendum quod non simpliciter [Aristotelis] contradicit Platoni, sed
non intelligentibus ea quae sunt Platonis». Cfr. comunque anche la
prima vita greca, p. 432 Rose).
205. Add1'a'1'mu1 aste:/eramus: cfr. Conclusíones, pp. 62-64 (=
Conclusione: secundum propriam opinionem, dicta primum Aristo-
telzlr et Platonis, deinde aliorum doctorum concz'lz'antc.r, qui maxime
díscordarc vídenlur, 3, 4-9, 13-17).
203-206 99

ma è la filosofia di Platone e quella di Aristotele. Pa-


rimenti Giovanni Grammatico, pur sostenendo che Z0 4

Platone discorda da Aristotele solo presso quanti non


comprendono le affermazioni di Platone, lasciò non-
dimeno ai posteri il compito di dimostrarlo. Abbia- 20

mo inoltre aggiunto anche numerose tesi nelle quali


affermiamo che le opinioni di Scoto e di Tommaso, e
quelle di Averroe e di Avicenna, ritenute discordi, so-
no invece tra loro concordi.
In secondo luogo abbiamo posto le conclusioni da 206
noi elaborate sulla filosofia sia aristotelica che plato-
nica, e poi settantadue nuove tesi fisiche e metafisi-
che: chi le comprenderà potrà, se non m'inganno (il
che mi sarà chiaro ben presto), risolvere qualunque
questione proposta riguardo alle cose naturali e divi-
ne con metodo di gran lunga più efficace di quello

206. Secundo nor: dovrebbe trattarsi della seconda sezione del-


la seconda parte delle Concluxíoner, contenente ottanta tesi secun-
dum propriam opinionem [...] quae licet a communí p/øilorop/Jia dir-
rentianl, a commum' tamen p/Jfloxopbandí modo non multum abbor-
rent. - tum co//ocauímus: si tratta della terza sezione della seconda
parte delle Ctmcluriones, che accoglie settantuno (non settantadue)
conclusione: paradoxae secundum opzhíonem propriam, nova in phi-
losophia dogmata inducenles. Errore analogo ma inverso nell'ultima
sezione delle Conclusíones, che ospita settantadue Conclurírmer Ca-
balistícae (cfr. oltre la prima nota a § 234), numerate però come set-
tantuno nell'intitolazione (p. 126: «Conclusiones Cabalisticae nu-
mero LXXl»; cfr. al riguardo ZAMBELLI, L'apprendz'›'ta stregone, p.
37 e FAWER, Syncrelirm, p. 51 6). Va detto che Pico, nelle Conclusio-
nes cabalistícae, 56 (p. 136), attribuisce uno speciale significato mi-
stico al numero settantadue, giacché a suo avviso «ex nomine ineffa-
bili›› (cioè dal nome di Dio, YHVH) scaturisce - attraverso opera-
zioni note e possibili solo agli esperti di qabbalab - «nomen LXXII
litterarum›› (cfr. COPENHAVER, Ifocculto, pp. 224, 223). - díssolverez
il verbo, nel senso di enucleare, explícare, è già ciceroniano; la locu-
zione quaexlionem dírrolvere ricorre però in Plinio il Vecchio, Gel-
lio, Macrobio e negli autori cristiani (cfr. BAUSI, Nec r/øelor, p. 1 24).
IOO DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL›UOMO

et legitur in scolis et ab huius evi doctoribus colitur


207 philosophiam. Nec tam admirari quis debet, patres,
me in primis annis, in tenera etate, per quam vix li-
cuit (ut iactant quidam) aliorum legere commentatio-
nes, novam afferre velle philosophiam, quam vel lau-
dare illam si defenditur, vel damnare si reprobatur; et
denique, cum nostra inventa haec nostrasque sint lit-
teras iudicaturi, non auctoris annos, sed illorum meri-
ta potius vel demerita numerare.
208 Est autem, et praeter illam, alia quam nos attuli-
mus nova per numeros philosophandi institutio, anti-
qua illa quidem et a priscis theologis, a Pythagora
presertim, ab Aglaophemo, a Philolao, a Platone

207. dernerita: il sost. dezneritunz è attestato solo nel latino cri-


stiano e medioevale (cfr. BL/use, Du CANGE, LATHAM e N11:1<-
MAYER, ru. ).
208. Est znstítutioz Pico allude alla settima sezione della se-
conda parte delle Conclusionex, che ospita ottantacínque tesi dc
inatbe/nalicís secundum opinionem propriam (dove per matematica
si intende la numerologia mistica e formale di tradizione pitagori-
co-platonica: cfr. ZAMBELLI, Iƒapprendiflrta rlregone, pp. 38, 41-42;
FARMER, Syncvetixm, pp. 466-67; le conclusioni 9-10 de matbematil
cir, p. 108, e qui più avanti la nota a § 212). L'elenco delle tesi, co-
munque, non è completo: Pico tralascia di menzionare le sezioni
IV-VI della seconda parte, comprendenti nell'ordine le ventinove
tesi in 1/Jeologia secundum opinionem propriam a coinfnuni modo
dicendi tbeologorum satir diversain, le sessantadue tesi in doctrinam
Platonis, le dieci tesi in doctrinam /lbucaten /luenam, qui dicitur
auctor De causís. - anlic/ua obseruata: cfr. FICINO, T/øeol. Plat., VI
1, dove, parlando dei «prisci theologi [...] quorum vestigia sequitur
plurimum physicus Aristoteles››, il filosofo elenca «Zoroaster, Mer-
curius, Orpheus, Aglaophemus, Pythagoras, Plato» (e cfr. un ana-
logo elenco a XII 1 e a XVII 1). Per la linea Orfeo - Aglaofemo -
Pitagora - Filolao - Platone, cfr. anche PROCLO, Theo/. Plat., I 5;
G1A1v1ßL1c0, De vita Pytbagorica, XXVIII 146-48; F1t:1No, In Pluri-
ni epitoinae proe/niurn e Argurnenturn in librum Mercuriz'Tr1'11negi-
.rti (Opera, II, pp. 1537 e 1836); e qui i §§ 259-61. La Suda parla di
un'opera intitolata Consensus Orp/Jei, Pythagorae, Platonir circa
oracula, attribuendola ora a Proclo, ora al suo maestro Siriano di
206-208 IOI

cui veniamo educati dalla filosofia che s'insegna nelle


scuole e che è professata dai dottori di quest'epoca.
Né alcuno, o padri, tanto deve stupirsi che io, nei Z0

miei primi anni e in un'età ancor giovane, nella quale


appena (come certi vanno ripetendo) sarebbe possi-
bile leggere gli scritti altrui, voglia proporre una nuo-
va filosofia, quanto piuttosto deve o lodarla, se dimo-
strata vera, o condannarla, se confutata; e insomma
costoro, giacché si accingono a valutare queste nostre
scoperte e questi nostri scritti, non devono contare
gli anni del loro autore, ma piuttosto i meriti o le
mancanze di quelli.
Vi è poi, oltre a quello, un altro nuovo metodo, da 20

noi proposto, che consiste nel filosofare per mezzo


dei numeri: un metodo antico, in verità, e già pratica-
to dagli antichissimi teologi, in particolare da Pitago-
ra, da Aglaofemo, da Filolao, da Platone e dai primi

Alessandria (IV, pp. 210, 478-79 Adler). Aglaofemo (secondo Pro-


clo e Giamblico) è il sacerdote che iniziò Pitagora all”orfismo; Filo-
lao di Crotone fu invece uno dei maggiori discepoli dello stesso Pi-
tagora (cfr. D1ot;ENE L/\r.R7,1o, Vitae, VIII 84-8;; Pico, Hepzaplar,
prooemium, p. 172, gli attribuisce i pitagorici Carmina ai/rea). Per
la centralità del numero nel pensiero pitagorico cfr. ancora GIAM-
BLICO, Dc uila P/aylagorica, XXVIII 146 (dove è riportato un passo
dello pseudo-pitagorico Discorso sacro): «Aglaofamo [...] mi rivelò
che Orfeo [...] aveva detto: l”essenza eterna del numero è il princi-
pio provvidenzialissimo dell'universo cielo, della terra e della natu-
ra intermedia tra l'uno e l`altr0, ed è anche la radice che consente
ai mortali, agli dei e ai demoni di continuare a esistere››; 1'/aid., 147:
«Pitagora derivò dagli Orfici la dottrina per cui l'essenza degli dei
è definita dal numero››; XXIX 162, dove è riportato il detto pitago-
rico: «Tutte le cose al numero consentono››. Sulla scorta di Aristo-
tele (Metap/J., I 3, 985b-986a: passo ricordato, ma per essere con-
futato, anche nelle Conclusioncs, p. 106 = Conclusiones de matlae-
maticis, 5), anche questo entusiasmo per le valenze metafisiche e
gnoseologiche della matematica sarà drasticamente ridimensionato
nelle Disputationes, XII 2.
IO2 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL›UOMO

prioribusque Platonicis observata; sed quae hac tem-


pestate, ut preclara alia, posteriorum incuria sic exo-
209 levit, ut vix vestigia ipsius ulla reperiantur. Scribit
Plato in Epinomide inter omnes liberales artes et
scientias contemplatrices praecipuam maximeque di-
210 vinam esse scientiam numerandi. Quaerens item cur
homo animal sapientissimum, respondet: «Quia nu-
merare novit››; cuius sententiae et Aristoteles memi-
ZII nit in Problematis. Scribit Abumasar verbum fuisse
Avenzoar Babilonii eum omnia nosse, qui noverat
ZI2 numerare. Quae vera esse nullo modo possunt, si per
numerandi artem eam artem intellexerunt cuius nunc
mercatores in primis sunt peritissimi; quod et Plato
testatur, exerta nos admonens voce ne divinam hanc
arithmeticam mercatoriam esse arithmeticam intelli-

209. Scribit numerandi: cfr. PLATONE, Epinom., 976d-979d


(in particolare 976e: «è, a mio parere, merito di un dio, più che del
caso, questo dono [scil. la matematica] che ci ha fruttato la salvez-
za››).
2 10. Quaerens nozzil: cfr. ibid., 978b-c: «per quale via e sorto il
concetto dell'uno e del due in noi uomini, che fra tutti i viventi sia-
mo i soli ad avere tali cognizioni? Molti altri animali non godono di
quella predisposizione naturale ad imparare dal proprio padre a far
di conto; a noi, invece, il dio infuse, per prima cosa, proprio la capa-
cità di capire quel che ci vien spiegato››. E anche PLATONE, Resp.,
;22e. - cuius Problematisz cfr. ARISTOTELE, Problem., 956a.
21 1. Scribit numerare: Abumasar o Albumasar è Abu
Mà'shar, astronomo e astrologo arabo del IX sec.; Pico ne posse-
deva le opere (KIBRE, Tbe Library, p. 87 e nn. 144, 1110, 1124),
che, tradotte in latino fin dal XII sec., vennero più volte stampate
già nel Quattrocento. Per ragioni cronologiche (ma Pico poteva
anche, a questo riguardo, cadere in errore) l`Avenzoar qui nomina-
to non dovrebbe dunque essere il medico musulmano spagnolo
Avenzoar 0 Avenzohar (Ibn Zuhr), morto nel 1 161 o 1162, di cui
Pico possedeva i Libri tres in medicina (ibid., n. 8;; la sua opera
principale, il Tajsir, circolava anche in latino e, col titolo Reclifica-
tio medicalionís et regiminis, fu stampata primamente a Venezia
208-212 103

platonici, ma che in questo nostro tempo, al pari di


altre illustri discipline, a causa delliincuria dei posteri
è a tal punto caduto in disuso che a mala pena se ne
trova qualche traccia. Platone, nell`Epinomz'de, scrive 209
che, fra tutte le arti liberali e le scienze contemplative,
la principale e la più divina è la scienza dei numeri.
Domandandosi poi perché l'uomo sia il più sapiente 210
degli animali, egli risponde: «Perché sa numerare››; e
questa sua sentenza è ricordata anche da Aristotele
nei Problemi. Abumasar attribuisce ad Avenzoar ba- ZII

bilonese il detto secondo cui «tutto conosce chi sa


numerare». Le quali cose non potrebbero in alcun 212

1-nodo esser vere, se per arte del numerare essi avesse-


ro inteso quell'arte di cui oggi sono espertissimi so-
prattutto i mercanti; e questo lo dichiara anche Plato-
ne, avvertendoci a chiare lettere di non credere che
questa divina aritmetica si identifichi con l'aritmetica

nel 1490). D'altronde, un Avenzoar “babilonese” non risulta altri-


menti noto; anche se le Concluriones accolgono quattro tesi secun-
dum /lbumaron Babylonium (p. 28), identificato da FARMER, Syn-
cretism, p. 174, proprio con Ibn Zuhr.
212. Quae inlelligamus: cfr. PLATONE, Resp., 525b-d: «Sareb-
be dunque conveniente, Glaucone, rendere obbligatoria questa
scienza e convincere quelli destinati a esercitare le massime magi-
strature ad affrontare lo studio non superficiale dell'aritmetica fino
a giungere con l`intelligenza pura alla comprensione della natura
dei numeri, non per la compravendita, come fanno commercianti e
bottegai, ma per la guerra e per facilitare allo spirito il passaggio
dal divenire alla verità dell'essere. [...] ora mi rendo conto di quan-
to l`aritmetica sia bella e utile per molti aspetti al raggiungimento
del nostro scopo, purché la si coltivi per la conoscenza e non per
lucro». Per la distinzione fra la matematica materialiter accepta
(quella “pratica”, qui polemicamente detta dei <<mercatores››) e la
matematica formaliter accepta (quella che considera invece il nume-
ro come un puro principio ontologico) cfr. VALCKE, Il ritorno ad
Aristotele, pp. 329 e 337; e qui sopra la prima nota a § 208.
I O4 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLYUOMO

213 gamus. Illam ergo arithmeticam, quae ita extollitur,


cum mihi videar post multas lucubrationes explora-
tam habere, huiusce rei periculum facturus, ad qua-
tuor et septuaginta questiones, quae inter physicas et
divinas principales existimantur, responsurum per
numeros publice me sum pollicitus.
214 Proposuimus et magica theoremata, in quibus du-
plicem esse magiam significavimus, quarum altera de-
monum tota opere et auctoritate constat, res medius
fidius execranda et portentosa; altera nihil est aliud,
cum bene exploratur, quam naturalis philosophiae
ZI absoluta consumatio. Utriusque cum meminerint
Greci, illam, magiae nullo modo nomine dignantes,
yonteiav nuncupant; hanc propria peculiarique ap-
pellatione uotyeíav, quasi perfectam summamque sa-
216 pientiam, vocant. Idem enim, ut ait Porphyrius, Per-
sarum lingua «magus›› sonat quod apud nos «divino-

213. Illam pollicitus: si tratta delle settantaquattro Quaestio-


ner ad quas pallicelur se per numeros responsurum, incluse fra le ot-
tantacinque Conclusiones de malbematicis secundum opinionem
propriam (cfr. sopra la prima nota al § 208).
214. Proposuimus lbeoremalaz si tratta della nona sezione del-
la seconda parte delle Conclusiones, contenente ventisei conclusio-
nes magicae secundum opinionem propriam. Pico omette di ricorda-
re qui l'ottava sezione (che accoglie quindici tesi de intelligentia
dictorum Zoroastris el exposilorum eius Cbaldaeorum), cui farà rife-
rimento nel finale (§ 258). - in quibus consu/nalio: così nelle pri-
me due tesi della nona sezione della seconda parte (cfr. la nota pre-
cedente): «Tota magia, que in usu est apud modernos, et quam
merito exterminat Ecclesia, nullam habet firmitatem, nullum fun-
damentum, nullam veritatem, quia pendet ex manu hostium pri-
mae veritatis, potestatum harum tenebrarum, quae tenebras falsita-
tis male dispositis intellectibus obfundunt››; «Magia naturalis licita
est, et non prohibita, et de huius scientiae universalibus theoricis
fundamentis pono infrascriptas conclusiones secundum propriam
opinionem››. E cfr. qui anche i §§ 218-22; nonché Apologia V
(Commentationes, f. EE i r = Opere complete, V 5).
212-216 105

del commercio. Parendomi dunque di aver acquisito 213


piena padronanza di quell'aritmetica che così viene
celebrata, deciso a farne esperimento, mi sono ripro-
messo di rispondere pubblicamente mediante i nu-
meri a settantaquattro questioni, considerate le più
importanti tra quelle fisiche e divine.
Abbiamo proposto anche conclusioni di argomen- 214
to magico, nelle quali abbiamo mostrato che esistono
due tipi di magia, una delle quali - cosa, in verità,
abominevole e mostruosa - si fonda interamente
su1l'azione e sul potere dei demòni; llaltra invece, se
ben si guardi, non è altro che il perfetto compimento
della filosofia naturale. I Greci, che fanno menzione 215
di entrambe, definiscono quella «stregoneria» (non
ritenendola in alcun modo degna del nome di magia),
mentre designano questa col proprio e peculiare tito-
lo di «magia›>, come se fosse la perfetta e somma sa-
pienza. Infatti, come dice Porfirio, nella lingua per- 216
siana «mago›› vale lo stesso che, presso di noi, «inter-

215. illam nuncupant; goetia vale, propriamente, 'arte magi-


ca`, stregoneria'. Nel modo esatto in cui la espone Pico, la diffe-
renzia tra Yonteia (necromanzia, cioè evocazione dei demoni mal-
vagi) e uaysia (magia `buona', ossia evocazione dei démoni benèfi-
ci) si legge nella Suda, s.v. uayaia (III, p. 304 Adler). La distinzio-
ne fra i due termini, e fra le due pratiche, è invece respinta da
AGOSTINO, De civ. Dei, X 9. Per Yonteia cfr. anche PLATONE,
Symp., 2o3a (dove però il termine non ha significato negativo) e
Resp., 58421 (dove è sinonimo di 'inganno'; analogamente ibid.,
380d, Yong vale “incantatore`, `ingannat0re', 'prestigiatore'); della
«magia goetica» (ossia «volgare››) parla anche Dl(›(;ENIi L/\liRZlO,
Vitae, I 8. Quanto a uaysía, in PLATONE, /llcib. I, 122a, il termine
designa la 'magia' di Zoroastro, ossia la religione dei 'magi' caldei.
2 16. Idem cullor: cfr. PORFIRIO, De abslinentia, IV 6, 1: «Oggi
presso i Persiani i teologi e i ministri del culto portano il nome di
Magi: questo è infatti il significato della parola “mago” nella loro
lingua››; APULEIO, /lpologia, 25: «Persarum lingua magus est qui
IO6 DISCORSO SULLA DIGNITA DELL'UOMO

217 rum interpres et cultor». Magna autem, immo maxi-


ma, patres, inter has artes disparilitas et dissimilitudo.
218 Illam non modo Christiana religio, sed omnes leges,
omnis bene instituta respublica damnat et execratur;
hanc omnes sapientes, omnes caelestium et divina-
rum rerum studiosae nationes approbant et amplee-
219 tuntur. Illa artium fraudulentissima, haec altior sanc-
tiorque philosophia; illa irrita et vana, haec firma, fi-
220 delis et solida. Illam quisquis coluit semper dissimu-
lavit, quod in auctoris esset ignominiam et contume-
liam; ex hac summa litterarum claritas gloriaque anti-
ZZI quitus et pene semper petita. Illius nemo unquam
studiosus fuit vir philosophus et cupidus discendi bo-
nas artes; ad hanc Pythagoras, Empedocles, Demo-
critus, Plato discendam navigavere, hanc predicarunt
222 reversi, et in archanis precipuam habuerunt. Illa, ut
nullis rationibus, ita nec certis probatur auctoribus;

nostra sacerdos››. E anche PICO, /lpologia, V: «Vocabulum enim


hoc “magus” nec Latinum est nec Grecum, sed Persicum, et idem
lingua Persica significat quod apud nos “sapiens”» (Commentalio-
nes, f. EE i U = Opere complete, V 6).
217. disparililas: la voce disparilitas (`diversità'), di uso post-
classico e cristiano, è impiegata da Pico anche nell”Epislola al Bar-
baro (S 124) e nell'Heptaplus (aliud prooemium, p. 190); ricorre
inoltre nella prefazione dei primi Miscellanea del Poliziano (Opera,
p. 213). La dittologia sinonimica con dissimilituilo proviene da
Aoosrmo, Episi., CXX 12.
221. ad banc babuerunl: cfr. PLINIO, Nat. bisl., XXX 9;
«Pythagoras, Empedocles, Democritus, Plato ad hanc [scil. la ma-
gia] discendam navigavere exiliis verius quam peregrinationibus
susceptis, hanc reversi praedicavere, hanc in archanis habuere››;
GIAMBLICO, De mysteriis, I I (donde FICINO, In Iamblicbum de my-
steriis : Opera, II, p. 1873: «Pythagoras, Plato, Democritus, Eu-
doxus et multi ad sacerdotes Aegyptios accesserunt››); PILOSTRATO,
Vita /lpollonii Tbianei, I 2. Per i leggendari viaggi di Pitagora e di
Platone in Oriente, cfr. anche, ad esempio, CICERONE, De fin., V
216-222 107

prete e cultore delle cose divine». Ma grande, anzi 217


grandissima, o padri, è la differenza e la diversità tra
queste arti. Quella non solo la religione cristiana, ma 218
anche tutte le leggi e qualunque stato ben ordinato
condannano e detestano; questa tutti i sapienti, tutti i
popoli dediti allo studio delle cose celesti e divine ap-
provano e abbracciano. Quella e la più fraudolenta 219
delle arti, questa è la più alta e la più santa filosofia;
quella è inutile e vana, questa è sicura, fidata e auten-
tica. Chiunque coltivò quella, cercò sempre di na- 220
sconderla, giacché sarebbe tornata in disonore e in
biasimo di chi la praticava; dall'esercizio di questa, in
antico e poi quasi sempre, si ricercò la più alta rino-
manza e gloria delle lettere. Di quella non fu mai stu- 221

dioso nessuno che fosse filosofo e che desiderasse ap-


prendere le buone arti; per imparare questa, invece,
Pitagora, Empedocle, Democrito e Platone attraver-
sarono i mari, e al loro ritorno la celebrarono e le as-
segnarono un ruolo privilegiato nei misteri religiosi.
Quella, come da nessun argomento razionale, così 222

50; ID., Tusc., IV 44; VALERIO MASSIMO, VIII 7, ext. 2-3; SENEC/1,
Episl., LVIII 30; GIROLAMO, Epist., LIII 1. Una vera e propria ri-
trattazione, su questo punto, sarà dettata da Pico nelle Dispulatio-
nes, XII 2, pp. 492-94: «Neque vero nos fallat, quod me quoque
adolescentem olim fallebat, celebrata veteribus etiamque Platoni
Aegyptiorum sapientia et Chaldaeorum, quos adisse Pythagoram et
Democritum, Eudoxum, Platonem, alios complures, non ob aliud
quam comparandae sapientiae gratia, memoriae proditum est».
222. Xamolsidem: secondo la tradizione, il tracio Zalmossi era
stato servo di Pitagora, dal quale aveva appreso la dottrina dell'im-
mortalità dell”anima; tornato in patria, sarebbe stato incoronato re
e venerato come un dio. Cfr. ERODOTO, IV 94-96; PL/\T()NE,
Cbarm., 156d-e;STRABoN1:, VII 3, 5;D1oGENE L/11311210, Vi'iae,I 1
(dove è elencato fra i primi cultori della filosofia, insieme - fra gli
altri - ai Magi e a Zoroastro) e VIII 2; APULEIO, /-lpologia, 26;
IO8 DISCORSO SULLA DIGNITA DELL`UOMO

haec, clarissimis quasi parentibus honestata, duos


precipue habet auctores: Xamolsidem, quem imitatus
est Abbaris Hyperboreus, et Zoroastrem, non quem
223 forte creditis, sed illum Oromasi filium. Utriusque
magia quid sit Platonem si percontemur, respondebit
in Alcibiacle Zoroastris magiam non esse aliud quam
divinorum scientiam, qua filios Persarum reges eru-
diebant, ut ad exemplar mundanae reipublicae suam
ipsi regere rempublicam edocerentur; respondebit in
Cbarmide magiam Xamolsidis esse animi medicinam,
per quam scilicet animo temperantia, ut per illam
corpori sanitas comparatur.

G1/\Mß1.1co, De una Pyi/aagmica, XXX 173: F1t:1No,Episi.,I 5 e In


Minoem vel ale rege epitome = Opera, vol. I, p. 612, e vol. II, p.
1135 (e cfr. il saggio di C. MARCACCINI, Hdt. 4.93-96: Zalmoxis
Dioniso del Nord, in «Sileno», XXIV, 1998, pp. 1 35-58). Accanto a
Zoroastro lo nomina (come legislatore dei Geti) anche DIODORO
SICULO, I 94, 2. - Abbaris Hyperboreus: Abaride l'Iperb0reo (gli
Iperborei erano una mitica popolazione che si riteneva vivesse
nell'estremo nord delle terre abitate), sacerdote di Apollo e leggen-
dario taumaturgo dotato di facoltà profetiche, donò a Pitagora (da
lui identificato con Apollo) la freccia d'oro con cui egli eseguiva i
suoi riti magici e le sue guarigioni; lo stesso Pitagora lo ammaestrò
nelle sue dottrine. Cfr. ERODOTO, IV 36; GIAMBLICO, De vita
Pytbagorica, XIX 91-93; XXVIII 135-36, 138, 140-41; PORFIRIO,
Vita Pythagorae, 28-29; CLEMENTE ALEssANDR1No, S/mm., I 21,
133: «anche il grande Pitagora era dedito a fare previsioni, e cosi
Abaris l'iperboreo [...] e Zoroastro il persiano››. Abaride e Zalmos-
si sono accostati da PI./\T()NT., Cbarm., 158b. - Zoroas/rem fi-
lium: cfr. PLATONE, Alcib. I, 122a: «Zoroastro, figlio di Oroma-
sdo››; PLINIO, Nat. bisl., XXX 3, dove si afferma che la magia «sine
dubio illic orta in Perside a Zoroastre, ut inter auctores convenit››;
APULEIO, Apologia, 26: «Auditisne magian, qui eam temere accusa-
tis, artem esse dis immortalibus acceptam, colendi eos ac veneran-
di pergnaram, piam scilicet et divini scientem, iam inde a Zoroa-
stre et Oromaze auctoribus suis nobilem [...]››. Al mitico Zoroastro
(0 Zaratustra) era attribuita la sistemazione dottrinale e liturgica
dell”antica religione persiana; nel mondo greco e occidentale, la
222-223 109

non è suffragata da autori degni di fede; questa, nobi-


litata - per così dire - da illustrissimi genitori, vanta
soprattutto due padri: Zalmossi, imitato poi da Aba-
ride l'Iperboreo, e Zoroastro, non quello che forse
credete, ma il celebre figlio di Oromaso. Se chiedia- 22

mo a Platone quale sia la magia dell'uno e dell'altro,


egli ci risponderà nell'/1lcibiaa'e che la magia di Zo-
roastro altro non è se non la scienza delle cose divine,
nella quale i re dei Persiani istruivano i propri figli af-
finché imparassero a reggere il loro stato secondo il
modello delle leggi che governano il cosmo; e nel
Carmide ci risponderà che la magia di Zalmossi è la
medicina dell'animo, quella, vale a dire, attraverso la
quale si procura allianimo la temperanza, come, me-
diante l'altra, la salute al corpo.

sua figura venne associata a un complesso sincretistico di credenze


magico-astrologiche di derivazione orientale, e affiancata a quella
di Orfeo quale esponente e iniziatore della prisca tbeologia (cfr. qui
anche i §§ 259-60, con le relative note). Oromaso è Orzmud, che
nello zoroastrismo viene identificato con il principio del bene
(Ahura Mazda). Cfr. inoltre DIOGENE LAERZIO, Vitae, I 2 e 8. Zo-
roastro, insieme a Osiride e a Zalmossi, è citato tra i fondatori del-
le religioni da FICINO, Letlere, I, p. 18. La precisazione di Pico
(«non quem forte creditis, sed.,.››) induce a credere che egli avesse
notizia di altri filosofi di nome Zoroastro, il CARENA osserva al ri-
guardo che in PLINIO, Nat. bisl., XXX 8, è menzionato uno Zoroa-
stro di Proconneso (isola della Propontide), vissuto poco prima del
suo più celebre omonimo.
223. Utriusque edocerentur: cfr. PI./\T()NI3, /llcib. I, 121e-
122a; citato anche da APUI.E|(), /lpologia, 25: «magia id est quod
Plato interpretatur, cum commemorat quibusnam disciplinis pue-
rum regno adolescentem Persae imbuant››; e cfr. inoltre CICERONE,
De diuín., I 91: «Nec quisquam rex Persarum potest esse, qui non
ante Magorum disciplinam scientiamque perceperit››. Si noti la
struttura chiastica dei §§ 222-23: Zalmossi - Zoroastro (222) / Zo-
roastro - Zalmossi (223). - respondebit comparatur: cfr. PLATO-
NE, Cbarm., 156d-157b: «Zalmosside, il nostro re che e anche un
I IO DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL,UOMO

224 Horum vestigiis postea perstiterunt Carondas, Da-


migeron, Apollonius, Hostanes et Dardanus; perstitit
Homerus, quem ut omnes alias sapientias, ita hanc
quoque sub sui Ulixis erroribus dissimulasse in poeti-
ca nostra theologia aliquando probabimus; perstite-
runt Eudoxus et Hermippus, perstiterunt fere omnes
qui Pythagorica Platonicaque mysteria sunt perscru-
225 tati. Ex iunioribus autem qui eam olfecerint tres re-
perio, Alchindum Arabem, Rogerium Baconem et

dio, aggiungeva, afferma che, come non si devono curare gli occhi
senza prendere in esame la testa, né la testa indipendentemente dal
corpo, così neppure il corpo senza l'anima, e che questa sarebbe la
ragione per cui ai medici greci sfugge la maggior parte delle malat-
tie [...] Infatti, tutti i mali ed i beni per il corpo e per l'uomo nella
sua interezza, soggiungeva, nascono dall”anima, [...] e l”anima, o
caro, si cura con certi incantesimi e questi incantesimi sono i bei
discorsi, da cui nell'anima si genera la temperanza; una volta che
questa sia nata e si sia radicata, allora è facile ridare la salute alla te-
sta e a tutte le altre parti del corpo››. E anche FICINO, Tbeol. Plat.,
XIII 1: «Scribit et in Charmide Magos illos animae corporisque
medicos, Zalmoxidis Zoroastrique sectatores, arbitrari omnia cor-
poris tum bona tum mala ab anima fluere in ipsum corpus››.
224. Carondas Dartlanus: per questi maghi dell'antichità cfr.
PLINIO, Nat. bist., XXX 8-11 e 14, che menziona Ostane e Darda-
no; TERTULLIANO, De anima, 57 (PL II, 747), che cita Ostane, Dar-
dano e Damigero; APULEIO, Apologia, 27 e 90, che ricorda Ostane,
Caronda (o Carmenda), Damigero e Dardano. Apollonius è Apol-
lonio di Tiana, mago, filosofo e taumaturgo neopitagorico (I sec.
d.C.); Pico possedeva due copie della sua Vita, scritta da Filostrato
e latinizzata da Alamanno Rinuccini (KIBRE, Tbe Library, nn. 43 e
1677). Cfr. anche PICO, Apologia, V, dove è citata l'epistola di Gi-
rolamo a Paolino (Epist, LIII 1): «Appollonius Thianeus sive ma-
gus, ut vulgus, sive philosophus, ut Pythagorici dicunt›› (Commen-
tationes, f. EE i 11 = Opere complete, V 7). - Homerus probabi-
mus; l'inclusi0ne di Omero fra i cultori della magia dipende da
PLINIO, Nat. bist., XXX 5-6: «Maxime tamen mirum est in bello
Troiano tantum de arte ea silentium fuisse Homero tantumque
operis ex eadem in Ulixis erroribus, adeo ut vel totum opus non
aliunde constet, siquidem Protea et Sirenum cantus apud eum non
224-225 111

Sulle loro tracce si mossero poi Caronda, Damige- 22

ro, Apollonio, Ostane e Dardano; si mosse Omero,


che prima o poi, nella nostra Teologia poetica, dimo-
streremo aver celato anche questa, al pari di ogni al-
tra forma di sapienza, sotto le peregrinazioni del suo
Ulisse; si mossero Eudosso ed Ermippo, si mossero
quasi tutti coloro che indagarono i misteri pitagorici
e platonici. Fra i più recenti, poi, che ne ebbero un 22
, .
qualche sentore, ne trovo tre, l arabo Alchindo, Rug-

aliter intellegi volunt, Circe utique et inferum evocatione hoc so-


lum agi>›. L'attribuzione ad Omero di un sapere enciclopedico («ut
omnes alias sapientias››) è topica, fin dalla pseudo-plutarchiana Vi-
ta Homeri (II 6 e 92); e cfr. anche POLIZIANO, /lmbra, 515-74. Per
la poetica tbeologia progettata (e mai scritta) da Pico cfr. qui la no-
ta a § 47; tre rinvii a quest'opera si rintracciano nel pichiano Com-
mento sopra una canzona, III 6 («la qual cosa assai più diffusamen-
te nel primo libro della nostra Poetica teologia dichiareremo››), 8 e
1 1. Per l`interpretazione di Ulisse come allegoria dell`uomo retto e
sapiente, cfr. qui la nota a § 38 quem cecutientem; e cfr. anche,
ad esempio, OR/tzlo, Epist, I 2, 17-26; BEIINARDO S1LvEsTRE,
Comm. /len., p. 21: «Ulixes quasi olonsenos, omnium sensus, dici-
tur, id est sapiens, quia omnium peritiam habet». - Eudoxus et
Hermippus: Eudosso di Cnido (astronomo e matematico del IV
sec. a.C.) ed Ermippo di Smirne (filosofo e letterato greco, disce-
polo di Callimaco, vissuto intorno al 200 a.C.) sono menzionati fra
i cultori della magia da PLINIO, Nat. bist., XXX 3-4, dove del pri-
mo si dice che «inter sapientiae sectas clarissimam utilissimamque
eam [scil. quella di Zoroastro e dei maghi caldei] intellegi voluit››;
del secondo, che «de tota ea arte diligentissime scripsit et viciens C
milia versuum a Zoroastre condita indicibus quoque voluminum
eius positis explanavit». In due luoghi delle Dispulationes (I e XII
7), Pico cita Eudosso come sommo matematico, astronomo, legi-
slatore, medico e filosofo, includendolo fra gli avversari dell`astro-
logia divinatrice.
225. /llcbindum Parisiensem: si tratta nell`ordine di al-Kindi,
filosofo e scienziato arabo del IX sec.; di Ruggero Bacone, filosofo
e scienziato inglese del XIII sec.: e di Guglielmo d'Alvernia, teolo-
go e vescovo di Parigi, morto nel 1249. Per quest'ultimo cfr. anche
PICO, Apologia, V: «De ista autem magia naturali facit mentionem
II2 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL'UOMO

226 Guilielmum Parisiensem. Meminit et Plotinus, ubi


naturae ministrum esse et non artificem magum de-
monstrat; hanc magiam probat asseveratque vir sa-
pientissimus, alteram ita abhorrens ut, cum ad malo-
rum demonum sacra vocaretur, rectius esse dixerit ad
22 se illos quam se ad illos accedere. Et merito quidem:
ut enim illa obnoxium mancipatumque improbis po-
testatibus hominem reddit, ita haec illarum princi-
228 pem et dominum. Illa denique nec artis nec scientiae
sibi potest nomen vendicare; haec, altissimis plena
mysteriis, profundissimam rerum secretissimarum
contemplationem et demum totius naturae cognitio-
229 nem complectitur. Haec, intersparsas Dei beneficio
et interseminatas mundo virtutes quasi de latebris

etiam summus theologus Guilielmus episcopus Parisiensis [...] qui


dicit quod magi prohibiti dicuntur “magi” quasi “mali”, quia mala
faciunt, magi autem naturales dicuntur “magi” quasi “magni”,
quia magna faciunt. [...] De hac, ut dixi, tractat Guilielmus Pari-
siensis in suo De universo corporali et spirituali; et dicit quod illa
magia prohibita maxime abundavit in Egypto, quia ibi vigebat cul-
tus demonum, ista autem naturalis in Ethiopia et India [...] Et alibi
etiam in suo libro De legibus eiusdem scientie meminit, eam asse-
rens esse partem scientie naturalis›› (Commentationes, f. EE i r =
Opere complete, V 5). Al-Kindi e Bacone sono citati ripetutamente
nelle Dísputationes; i tre filosofi sono menzionati insieme anche
nelle Conclusiones, p. 102 (= Conclusiones in doctrinam Platonis,
45): «Sensus naturae, quem ponunt Alchindus, Bacon, Guillielmus
Parisiensis››.
226. Meminit tlemonstrat: cfr. PLOTINO, Ennead., IV 4, 40-42.
- alteram accedere: cfr. PORFIRIO, Vita Plotini, X 60, dove però
l'episodio è narrato in modo leggermente diverso: «Amelio [segua-
ce di Plotino] andava in giro ai riti sacri delle neomenie e ad altre
feste religiose, senza lasciarsene sfuggire una; ora egli pretese, una
volta, che Plotino vi partecipasse con lui. “Spetta agli dei - rispose
Plotino - venire da me; non a me andare da loro”». In una forma
più vicina a quella pichiana l'aneddoto si legge sia nella traduzione
ficiniana della Vita Platini [Opera, vol. II, p. 1542], sia nei Collecta-
225-229 II3

gero Bacone e Guglielmo di Parigi. La rammenta an- 22

che Plotino, dove dimostra che il mago è ministro e


non artefice della natura; quell'uomo sapientissimo
approva e conferma questo tipo di magia, mentre ha
tanto in orrore l'altra che, quando fu invitato ai riti
degli spiriti maligni, rispose esser meglio che quelli
andassero da lui, piuttosto che lui da quelli. E a buon 22

diritto, in verità: come quella magia, infatti, rende


l'uomo soggetto e sottomesso alle forze del male, cosi
questa lo fa diventare signore e padrone di esse.
Quella, insomma, non può rivendicare a sé il titolo né 22

di arte né di scienza; questa, ricolma di altissimi mi-


steri, abbraccia la più profonda contemplazione delle
realtà più nascoste, e infine la conoscenza dell'intera
natura. Questa, quasi richiamando alla luce dai loro 22

oscuri recessi le potenze sparse e disseminate qua e là


nel mondo dalla grazia divina, non tanto compie mi-

nea di Yohanan Alemanno (citato in IDEL, Kabbalab, p. 138; va tut-


tavia ricordato che l`incontro fra Pico e il dotto ebreo avvenne solo
nel 1488: cfr. LELLI, Un collaboratore, p. 41 1).
228. baec complec/itur: cfr. PICO, /lpologia, V: «nulla scientia
humana nos potet adiuvare magis quam illa qua cognoscuntur vir-
tutes et activitates agentium naturalium et earum applicationes
proportionesque››; «magia [...] presupponit exactam et absolutam
cognitionem omnium rerum naturalium›› (Commentationes, ff. DD
vi u, EE i 11 = Opere complete, V 3 e 7).
229. intersparsas interseminatas: i due aggettivi intersparsus e
interseminatas sono in APULEIO, /ipologia, 40: «[remedial in aliis
omnibus rebus eodem naturae munere interspersa atque intersemi-
nata». Erra chi stampa, staccando, «inter sparsas›› e «inter semina-
tas››, benché questa sia la grafia della princeps; non staccano, inve-
ce, nel passo corrispondente, le stampe antiche dell'/lpologia pi-
chiana, né stacca il CICOGNANI (che traduce «intimamente sparse
intimamente seminate››). Si osservi che Pico scrive intersparsas
(voce non attestata nei lessici: ma potrebbe trattarsi di una banaliz-
zazione delle stampe) in luogo dell›apuleiano interspersas, e co-
I I4 DISCORSO SULLA DIGNITA DELL,UOMO

evocans in lucem, non tam facit miranda, quam fa-


230 cienti naturae sedula famulatur. Haec universi con-
sensum, quem significantius Graeci ouurcoìßettxv di-
cunt, introrsum perscrutatius rimata, et mutuam na-
turarum cognationem habens perspectatam, nativas
adhibens unicuique rei et suas illecebras, quae mago-
rum 'íoyyeg nominantur, in mundi recessibus, in na-

struisce i due aggettivi col semplice ablativo (mundo), anziché, co-


me in Apuleio, con in + ablativo (ma cfr. APULEIO, Met., V 15, 4:
«interspersum rara canitie››). - non ta/n /amulatur: cfr. Conclu-
siones, p. 118 (= Conclusiones magicae, 10): «Quod magus homo
facit per artem, facit natura naturaliter faciendo hominem››.
230. quem dicunt: per il concetto di sympatbia universale cfr.
PLINIO, Nat. bist., XX 1: «pax secum in his aut bellum naturae di-
cetur, odia amicitiaeque rerum surdarum ac sensu carentium et,
quo magis miremur, omnia ea hominum causa. Quod Graeci sym-
pathiam et antipathiam appellavere››; e soprattutto PLOTINO, En-
nead., IV 4, 40: «Ma come spiegare gli incantamenti della magia?
Attraverso la simpatia: c`è infatti un accordo naturale tra le cose si-
mili e discordia tra quelle dissimili, e inoltre c'è un gran numero di
potenze diverse che collaborano all'unità dell'universo animato.
Senza che si operi alcunché si producono attrazione ed incantesi-
mi. La vera magia è l'amore e la contesa che sono neIl'universo»;
IV 4, 41: «La preghiera produce i suoi effetti perché una parte
dell'11niverso è in simpatia con un”altra parte, come nelle corde te-
se di una lira». E cfr. anche il passo di Sinesio citato alla nota se-
guente. - quae nominantur: le iynges (iuyyeg) erano strumenti
magici di forma circolare o triangolare (lat. trocbisci), impiegati
dalle maghe per compiere sortilegi (soprattutto di natura erotica:
cfr. TEOCRITO, II 17) e dai sacerdoti caldei per evocare dei e demo-
ni (cfr. PSELLO, Expositio in oracula Cbaldaica = PG CXXII,
1 133a). Il nome deriva da quello della maga Iynx, che con i suoi in-
cantesimi persuase Giove a giacere con lei, e per punizione fu tra-
sformata da Era nell'omonimo uccello (lat. motacilla, ital. torcicol-
lo): cfr. Suda, s.v. (II, pp. 677-78 Adler); Scbolia in Tbeocritum ue-
tera, II 17, pp. 274-75 Wendel; Scbolia vetera in Pindari carmina,
IV 381, pp. 149-50 Drachmann. Il termine passò poi a significare
`parole, formule magiche' (cfr. Oracula Cbaldaica, fr. 22 3 des Pla-
ces), e in generale 'sortilegi', `incantesimi' (attraverso cui i maghi
mettono in comunicazione e vicendevolmente attraggono i diversi
229-230 II5

racoli, quanto piuttosto assiste premurosa la natura


che li compie. Questa, indagando a fondo con più in- 230
tima investigazione l`armonia dell'universo (che i
Greci, con vocabolo più espressivo, chiamano “sim-
patia”), e avendo ben chiaro il rapporto di mutua af-
finità che lega gli elementi, impiegando sia le sedu-
zioni intrinseche a ciascuna cosa, sia le proprie (le co-
siddette <<iungi›› dei maghi), porta alla luce i prodigi
nascosti nei penetrali del mondo, nel seno della natu-

elementi del cosmo); in questo senso lo impiega qui Pico, che al ri-
guardo dipende da SINESIO, De insomniis, II, pp. 46-48: «Ritengo
perciò che sia necessario che le parti di questo tutto che un unico
respiro anima e un unico sentire, appartengano le une alle altre,
poiché sono appunto le membra di un unico corpo. Probabilmente
è così che si spiegano le iyngi dei maghi caldei. Tutte le cose infatti
si attraggono a vicenda, così come sono segni le une delle altre. Sa-
piente è colui che conosce il legame di parentela che awince le va-
rie parti dell'universo. Egli attira una cosa per mezzo di un'altra,
avendo presso di sé i pegni, per così dire, di ciò che è lontano sotto
forma di figure, incantesimi e sostanze materiali» (e cfr. anche FI-
CINO, Synesius de somniis, in Opera, vol. Il, p. 1969: «illices vel mo-
tacillae magorum», che traduce il uáywv 'íuyycç di Sinesio). Sinesio
(ma quello delle Epistolae) è citato da Pico anche nell`Epistola al
Barbaro, § 36. - sicut vitibus: cfr. ad esempio VIR(;lI.IO, Georg., I
2 («ulmisque adiungere vitis›>) e II 221 («intexet vitibus ulmos››);
ma soprattutto COLUMELLA, De re rustica, XI 2, 79: <<ulmi quoque
vitibus recte maritantur››, e anche ORAZIO, Eporl., II 9-10: «ergo
aut adulta vitium propagine l altas maritat populos››. - ila mari-
tat: cfr. FICINO, Comm. in Cona., VI 10: «Magice opus est attractio
rei unius ab alia ex quadam cognatione nature. Mundi autem huius
partes, ceu animalis unius membra, omnes ab uno auctore penden-
tes, unius nature communione invicem copulantur››; PICO, Conclu-
siones, p. 118 (= Conclusiones magicae, 13): «Magicam operari non
est aliud quam maritare mundum››. E anche ibid., le conclusioni 5
(«Nulla est virtus in caelo aut in terra seminaliter et separata, quam
et actuare et unire magus non possit››) e 1 1 («Mirabilia artis magi-
cae non sunt nisi per unionem et actuationem eorum, quae semina-
liter et separate sunt in natura››).
I I6 DISCORSO SULLA DIGNITA DELL,UOMO

turae gremio, in promptuariis archanisque Dei lati-


tantia miracula, quasi ipsa sit artifex, promit in publi-
cum; et sicut agricola ulmos vitibus, ita magus terram
caelo, idest inferiora superiorum dotibus virtutibu-
231 sque maritat. Quo fit ut quam illa prodigiosa et
noxia, tam haec divina et salutaris appareat: ob hoc
praecipue, quod illa hominem, Dei hostibus manci-
pans, avocat a Deo, haec in eam operum Dei admira-
tionem excitat, quam propensa charitas, fides ac spes
232 certissime consequuntur. Neque enim ad religionem,
ad Dei cultum quicquam promovet magis quam assi-
dua contemplatio mirabilium Dei, quae ut per hanc
de qua agimus naturalem magiam bene exploraveri-
mus, in opificis cultum amoremque ardentius anima-
ti, illud canere compellemur: «Pleni sunt caeli, plena
233 est omnis terra maiestate gloriae tuae››. Et haec satis
de magia, de qua haec diximus, quod scio esse plures
qui, sicut canes ignotos semper adlatrant, ita et ipsi
saepe damnant oderuntque quae non intelligunt.
234 Venio nunc ad ea quae, ex antiquis Hebreorum
mysteriis eruta, ad sacrosanctam et catholicam fidem
confirmandam attuli; quae ne forte ab his, quibus
sunt ignota, commentitiae nugae aut fabulae circum-

232. Pleni tuae: cfr. Is., 6, 3; «plena est omnis terra gloria
eius››; Habac., 3, 3: «et laudis eius plena est terra››.
233. sicut adlatrant: per un'analoga immagine cfr. il § 264.
234. Venio attuli: si tratta dell'ultima sezione della seconda
parte delle Conclusiones, contenente settantuno tesi cabalistiche ex
ipsis Hebraeorum sapientum fundamentis Cbristianam religionem
maxime confirmantes. Sulla penultima sezione (la decima, relativa
all'interpretazione degli inni orfici) Pico si soffermerà più avanti
(§§ 258-63). - circumlatorum: il sostantivo circumlator è attestato
nel latino medioevale col significato di praestigiator, anche nel sen-
so di 'imbroglione', “ciarlatano', con cui Pico lo impiega qui e al-
230-234 117

ra, nei misteriosi forzieri di Dio; e come il contadino


marita gli olmi alle viti, così il mago la terra al cielo,
ossia gli enti inferiori alle qualità e alle virtù di quelli
superiori. Ne consegue che, quanto quella magia si ri- 231
vela mostruosa e nociva, tanto questa divina e benefi-
ca; soprattutto per questo, perché quella allontana
l'uomo da Dio, sottomettendolo ai nemici del Signo-
re, mentre questa lo sprona a quell”ammirazione delle
opere di Dio da cui infallibilmente derivano la bene-
vola carità, la fede e la speranza. Nulla infatti spinge 232
alla religione e al culto divino più della assidua con-
templazione delle meraviglie del Signore; quando le
avremo convenientemente indagate per mezzo di
questa magia naturale della quale stiamo trattando,
più ardentemente disposti al culto e all'amore per
l`artefice, saremo costretti a cantare quel celebre ver-
setto: «I cieli e tutta la terra sono pieni della maestà
della tua gloria››. E questo basti quanto alla magia, su 233
cui ho voluto dire queste cose perché so esservi molti
i quali, come i cani sempre abbaiano agli sconosciuti,
così anch'essi spesso biasimano e detestano ciò che
non comprendono.
Vengo ora a quegli argomenti che, tratti dagli anti- 214
chi misteri degli Ebrei, ho recato a conferma della sa-
crosanta e cattolica fede; e affinché questi per avven-
tura non siano ritenuti, da coloro cui sono ignoti,

trove (ad esempio nelle Disputaliones). Ricorre anche nel Barbaro


(Epistolae, vol. I, p. 14) e nel Poliziano (Miscellanea I, pref. = Ope-
ra omnia, p. 216). - quam nostris necessaria: anche nell'Hepta-
plus (VII 4, p. 348) Pico si ripromette di combattere gli Ebrei con
strali sottratti ai loro stessi arsenali: «Unde et vobis potentissima
tela contra lapideum cor Hebraeorum de armamentariis eorum pe-
tita subministrabuntur››. Cfr. qui anche oltre, § 256 e nota In
condant.
II8 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL,UOMO

latorum existimentur, volo intelligant omnes quae et


qualia sint, unde petita, quibus et quam claris aucto-
ribus confirmata, et quam reposita, quam divina,
quam nostris hominibus ad propugnandam religio-
nem contra Hebreorum importunas calumnias sint
2 necessaria. Scribunt non modo celebres Hebreorum
doctores, sed ex nostris quoque Hesdras, Hilarius et
Origenes, Mosen non legem modo, quam quinque
exaratam libris posteris reliquit, sed secretiorem quo-
que et veram legis enarrationem in monte divinitus
accepisse; preceptum autem ei a Deo ut legem qui-
dem populo publicaret, legis interpretationem nec
traderet litteris, nec invulgaret, sed ipse Iesu Nave
tantum, tum ille aliis deinceps succedentibus sacer-
dotum primoribus, magna silentii religione revelaret.
2 Satis erat per simplicem historiam nunc Dei poten-
tiam, nunc in improbos iram, in bonos clementiam,
in omnes iustitiam agnoscere, et per divina salutaria-
que precepta ad bene beateque vivendum et cultum
2 verae religionis institui. At mysteria secretiora et sub

235. Hesdras Origenes: cfr. 4Esdr., 14, 3-6, dove così il Signo-
re parla a Esdra: «et enarravi ei [scil. a Mosè] mirabilia multa et
ostendi ei temporum secreta et temporum finem, et praecepi ei di-
cens: “Haec in palam facies verba et haec abscondes"›› (il III e il
IV libro di Esdra, alla cui autenticità Pico evidentemente credeva,
sono oggi ritenuti apocrifi; per il testo del IV libro cfr. Die Esra-
Apokalipse (IV.Esra), herausgegeben von B. VIOLET, Lepizig, ].C.
I'Iinrichs'sche Buchhandlung, 1910); ILARIO, Tractatus in Psalmos,
Il 2 (PL IX, 262-63), da tener presente anche per i §§ seguenti:
«idem Moyses, quamvis Veteris Testamenti verba in litteris condi-
disset, tamen separatim quaedam ex occultis legis secretiora myste-
ria septuaginta senioribus, qui doctores deinceps manerent, inti-
maverat›› (il passo è citato da Pico anche nell'/lpologia, V, in Com-
mentationes, f. EE iiii v = Opere complete, VII 20); ORIGENE,
Comm. in Ioann., XIX 296-97 (PG XIV, 552-53). Cfr. anche il pas-
234-237 I 19
sciocchezze prive di fondamento o frottole di ciarla-
tani, voglio che tutti intendano che cosa e di quale
natura essi siano, donde ricavati, da quali e quanto il-
lustri autori convalidati, e quanto siano riposti, quan-
to divini, quanto necessari a difendere la religione
contro le intollerabili calunnie degli Ebrei. Non solo i 2

celebri maestri ebrei, ma anche - tra i nostri - Esdra,


Ilario e Origene, scrivono che Mosè ricevette da Dio
sul monte non soltanto la Legge, che egli lasciò ai po-
steri scritta in cinque libri, ma anche una vera e più
segreta spiegazione della Legge; e che da Dio gli fu
ordinato di render nota al popolo la Legge e di non
mettere per iscritto né divulgare Yinterpretazione
delle Legge, ma di rivelarla solamente a Gesù Nave, il
quale poi, sotto il venerando e sacro vincolo del silen-
zio, avrebbe dovuto via via trasmetterla agli altri som-
mi sacerdoti suoi successori. Era sufficiente conosce- 2

re, mediante la semplice narrazione, ora la potenza di


Dio, ora la sua ira verso i malvagi, la sua misericordia
verso i buoni e la sua giustizia verso tutti; ed essere
istruiti, mediante precetti divini e salutari, al vivere
retto e felice, e alla pratica della vera religione. Ma 2

rendere di pubblico dominio gli arcani dell'altissima


divinità, i misteri più occulti e nascosti sotto la cor-

so dell'./lpologia qui citato in nota al § 245. - quam reliquit: i cin-


que libri del Pentateuco: Genesi, Esodo, Leuilico, Numeri, Deutero-
no/nio. - Iesu Nave: Gesù Nave è Giosuè (figlio di Nun), il succes-
sore di Mosè alla guida di Israele. Cfr. Num., 27, 18; Deut., 34, 9:
«Iosue vero filius Nun repletus est Spiritus sapientiae, quia Moyses
posuit super eum manus suas»; Ios., 1, 1; Eccli., 46, 1: «Fortis in
bello lesus Nave, successor Moysi in prophetis››.
237. sub latitantia: cfr. PIC(), Epistola al Barbaro, § 5 3: «ama-
riori paulum cortice verborum››; /lpologia, V (Com/nentationes, f.
EE iiii r = Opere complete, VII 18): «sub cortice et rudi facie ver-
I 20 DISCORSO SULLA DIGNITA DELL›UOMO

cortice legis rudique verborum pretextu latitantia, al-


tissimae divinitatis archana, plebi palam facere, quid
erat aliud quam dare sanctum canibus et inter porcos
spargere margaritas?
238 Ergo haec clam vulgo habere, perfectis communi-
canda (inter quos tantum sapientiam loqui se ait Pau-
lus), non humani consilii, sed divini precepti fuit;
quem morem antiqui philosophi sanctissime observa-
239 runt. Pythagoras nihil scripsit nisi paucula quaedam,
240 quae Damae filiae moriens commendavit. Egyptio-
rum templis insculptae Sphinges hoc admonebant, ut
mystica dogmata per enigmatum nodos a prophana
241 multitudine inviolata custodirentur. Plato, Dionysio

borum legis›› (detto della cabala); I-Ieptaplus, prooemium, p. 176:


«ducto argumento de rudi cortice verborum››; Commento sopra
una canzona, III 1 1, p. 580: «e da lui essergli comandato che al vul-
go de' misterii amorosi solo la corteccia monstri, reservando le mi-
dolle del veto senso agli intelletti più elevati». - dare margari-
tas?: cfr. Mt., 7, 6: «Nolite dare sanctum canibus, neque mittatis
margaritas vestras ante porcos».
238. inter Paulus: cfr. 1 Cor., 2, 6: «sapientiam autem loquimur
inter perfectos››. -quem obseruarunt: cfr. FICINO, Comm. in Cono. ,
IV 2: «Mos enim erat veterum theologorum sacra ipsorum puraque
arcana, ne a prophanis et impuris polluerentur, figurarum umbracu-
lis tegere›› (ripreso in ID., In Plotini epitomae proemium = Opera, vol.
II, p. 15 37); ID., Synesius de somniis translatus a Marsilio Ficino, in
Opera, vol. II, p. 1968: «Vetus mos est maximeque Platonicus sub
quodam viliori praetextu graviora occulere philosophiae mysteria,
ne forte quae sumn1o cum labore adinventa sunt pereant, neve inte-
rea coinquinentur, si vulgo palam exposita fuerint›› (da SINESIO, De
insomniis, premessa); PICO, Epistola al Barbaro, §§ 53- 55 (specie 5 3:
«Nec aliter quam prisci suis aenigmatis et fabularum involucris arce-
bant idiotas homines a mysteriis, et nos consuevimus absterrere illos
a nostris dapibus»); ID., Heptaplus, prooemium, p. 1 72: «revocemus
eo mentem, fuisse veterum sapientum celebre institutum res divinas
ut aut plane non scriberent, aut scriberent dissimulanter››; ID., Con-
clusiones, p. 138 (= Conclusiones Cabalirticae, 63). E cfr. qui anche il
§ 262 e la nota Sea' dissimulavit.
237-241 121

teccia della Legge e il rozzo involucro delle parole,


che altro sarebbe stato, se non dare ai cani ciò che è
santo e spargere perle fra i porci?
Tener nascoste al volgo queste verità, degne di esser 238
comunicate ai perfetti (solo tra i quali Paolo dice di vo-
ler parlare della sapienza), fu dunque conseguenza
non di una volontà umana, ma di un precetto divino; e
gli antichi filosofi si attennero col massimo scrupolo a
questa regola. Pitagora non lasciò niente di scritto, se 239
non poche cosucce, che in punto di morte affidò alla
figlia Dama. Le Sfingi scolpite nei templi degli Egizi 240
questo ammonivano, che le mistiche dottrine venisse-
ro protette mediante le oscurità degli enigmi, sì da es-
sere inviolabili da parte della folla dei profani. Plato- 241

239. Pytbagoras commendavit: cfr. GIAMBLICO, De vita Pytba-


goriea, XXVIII 146 (e XXXIV 245-46); D|o<;r,NE L/\E1<z1o, Vitae,
VIII 42 («Pitagora [affidò] le memorie a sua figlia Damo, con l`or-
dine di non consegnarle a nessuno di quelli che non erano ammes-
si alla sua casa››); PICO, Heptaplus, prooemium, p. 172: «nec ipse
[scil. Pythagoras] quicquam litteris mandavit praeter omnino pau-
cula quae Damae filiae moriens commendavit››.
240. Egyptiorum custodirentur: cfr. PLUT/\R(I(), De Iside et Osi-
ride, 354c: «Questa [scil. la filosofia egiziana] è quasi del tutto ma-
scherata da miti e ragionamenti che lasciano intravedere soltanto
un'oscura apparenza della realtà: ed è senz'altro per indicare questa
caratteristica della loro filosofia che davanti ai templi i sacerdoti col-
locano le sfingi, a significare cioè che la loro teologia è intessuta di
sapienza enigmatica». E anche PICO, Commento sopra una canzona,
III 11, p. 581: «né per altra ragione gli Egizii in tutti e loro templi
aveano sculptc lc Sfinge, se non per dichiarare doversi le cose divi-
ne, quando pure si scrivano, sotto enigmatici velamenti e poetica
dissimulazione coprire››; Heptaplus, prooemium, p. 172: «hoc [scil.
esporre le verità filosofiche sotto il velo degli enigmi] ab Aegyptiis
observatum, quod et Sphinges illae pro templis insinuabant».
241. Plato intelligantur: cfr. PLATONE, Epist., II 312 d-e: «Bi-
sogna allora che te ne parli io [scil. della natura dell`essere], ma per
enigmi, di modo che, se il mio scritto dovesse finire in qualche luo-
go sperduto della terra e del mare, un eventuale lettore non po-
I 22 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLIUOMO

quaedam de supremis scribens substantiis, «per enig-


mata - inquit - dicendum est, ne si epistola forte ad
aliorum pervenerit manus, quae tibi scribimus ab aliis
242 intelligantur››. Aristoteles libros Metapbysicae, in qui-
bus agit de divinis, editos esse et non editos dicebat.
243 Quid plura? Iesum Christum vitae magistrum asserit
Origenes multa revelasse discipulis, quae illi, ne vul-
244 go fierent comunia, scribere noluerunt. Quod maxi-
me confirmat Dionysius Areopagita, qui secretiora
mysteria a nostrae religionis auctoribus éic voòç t-:ig
voôv, ôtà uáoou Itóyou, ocouomicoü uèv, ówttótápou
ôè Öuwg, ypatpñg sictòg, idest ex animo in animum, si-

trebbe trarne alcun senso››. E ancora PICO, I-Ieptaplus, prooemium,


p. 172: «Plato noster ita, involucris aenigmatum, fabularum vela-
mine, mathematicis imaginibus et subobscuris recedentium sen-
suum indiciis, sua dogmata occultavit, ut et ipse dixerit in Epistulis
neminem ex his quae scripserit suam sententiam de divinis aperte
intellecturum››.
242. Aristoteles dicebat: l'affermazione si legge in una lettera
di Aristotele ad Alessandro Magno, citata (e latinizzata) da GEL-
LIO, XX 5: «Acroaticos libros, quos editos quereris et non proinde
ut arcana absconditos, neque editos scito esse neque non editos». I
libri «acroatici›› (letteralmente “esposti a voce', 'destinati al solo
ascolto', e quindi `non scritti') sono, come precisa lo stesso Gellio,
quelli «in quibus philosophia remotior subtiliorque agitabatur» (e
vengono identificati da Pico con la Metafisica aristotelica).
243. Iesum noluerunt: cfr. OIIIGENE, De principiis, I 3 (PG
XI, 116-17); ID., Contra Celsum, VI 6 (PG XI, 1297); ID., Comm.
in Mattb., XIV 630 (PG XIII, 1212-13, da cui riporto la traduzione
latina): «At id de omnibus parabolis universe sentiendum est, qua-
rum interpretatio ab evangelistis litteris mandata non est, etiamsi
omnia privatim discipulis suis Jesus exposuerit, proptereaque pa-
rabolarum explanationem Evangeliorum scriptores occultaverunt
ac silentio praetermiserunt››. E anche PICO, Commento sopra una
canzona, III 1 1, p. 580: «Scrive Origene avere Iesu Cristo revelato
molti misterii a' discepoli, e quali loro non volsono scrivere, ma so-
lo a bocca, a chi loro ne parea degno, gli comunicarono››; ID., Hep-
taplus, prooemium, p. 174.
241-244 123

ne, scrivendo a Dionigi qualcosa a proposito delle so-


stanze superiori, afferma: «E opportuno parlare per
enigmi, affinché, se questa epistola cadesse per avven-
tura in mani estranee, ciò che ti scriviamo non possa
esser compreso da altri». Aristotele diceva che i libri 242
della Metafisica, in cui egli tratta delle realtà divine,
erano editi e non editi. Che altro? Origene sostiene 243
che Gesù Cristo, maestro di vita, rivelò ai discepoli
molte verità che essi, affinché non venissero a cono-
scenza di tutti, non vollero scrivere. Lo conferma in 244
modo particolare Dionigi Areopagita, il quale dice che
i più occulti misteri furono trasmessi dai fondatori del-
la nostra religione «da intelligenza a intelligenza, me-
diante parole sensibili sì, ma tuttavia più immateriali,
perché al di fuori di ogni scritto››, ossia di mente in

244. Quod transfusa: cfr. PsEuDo-D1oN1o1 AREo1›/\(;1rA, De


eccles. bier., I 4 (PG III, 376b-c): «La sostanza della nostra gerar-
chia è costituita dagli oracoli tramandati da Dio [scil. la Sacra
Scrittural. Noi diciamo che siffatti oracoli, quanti sono stati tra-
mandati dai nostri divini iniziatori, sono molto venerabili, e altri
oracoli furono misticamente tramandati dagli stessi santi dottori
mediante un'iniziazione più immateriale e in certo qual modo già
vicina alla gerarchia celeste, da intelligenza a intelligenza, mediante
parole, sensibili sì, ma tuttavia più immateriali perché fuori da ogni
scritto›› (e oltre: «Ma neppure questi oracoli i nostri vescovi ispira-
ti da Dio non li hanno tramandati alla comunità dei fedeli con pen-
sieri scoperti, ma sotto forma di sacri simboli; infatti non tutti sono
santi, dice la Scrittura, né di tutti è la possibilità di intendere››). E
inoltre PICO, Commento sopra una canzona, III 11: «e questo Dio-
nisio Areopagita conferma avere osservato di poi e sacerdoti no-
stri, che per successione l'uno dall`altr0 ricevessi la intelligenzia de'
secreti che non era lecito a scrivere››; ID., Heptaplus, prooemium,
p. 176: «Discipulus Pauli Dionysius Areopagita sanctum et ratum
institutum fuisse scribit ecclesiis ne dogmata secretiora per litteras,
sed voce tantum, iis qui rite essent initiati, communicarentur››. Per
il testo della citazione greca cfr. qui la Nota al testo, p. 165.
I 24 DISCORSO SULLA DIGNITA DELLIUOMO

ne litteris, medio intercedente verbo ait fuisse tran-


245 sfusa. Hoc eodem penitus modo cum ex Dei prae-
cepto vera illa legis interpretatio Moisi deitus tradita
revelaretur, dicta est Cabala, quod idem est apud He-
breos quod apud nos «receptio››; ob id scilicet, quod
illam doctrinam non per litterarum monumenta, sed
ordinariis revelationum successionibus alter ab altero
quasi hereditario iure reciperet.
246 Verum postquam Hebrei, a Babilonica captivitate
restituti per Cyrum et sub Zorobabel instaurato tem-
plo, ad reparandam legem animum appulerunt,
Esdras, tunc ecclesiae praefectus, post emendatum
Moseos librum, cum plane cognosceret per exilia, ce-
des, fugas, captivitatem gentis Israeliticae institutum
a maioribus morem tradendae per manus doctrinae
sen/ari non posse, futurumque ut sibi divinitus indul-
ta celestis doctrinae archana perirent, quorum com-
mentariis non intercedentibus durare diu memoria

245. Hoc reciperet: cfr. PICO, Apologia, V (Commentationes, f.


EE iii v - iiii r = Opere complete, VII 18): «Est ergo sciendum [...]
preter legem quam deus dedit Moysi in monte et quam ille quinque
libris contentam scriptam reliquit, revelatam quoque fuisse eidem
Moysi ab ipso Deo veram legis expositionem cum manifestatione
omnium misteriorum et secretorum [...]; denique duplicem acce-
pisse legem Moysen in monte, litteralem et spiritalem, illam scrip-
sisse et ex precepto Dei populo communicasse, de hac vero manda-
tun1 ei a Deo ne ipsam scriberet, sed sapientibus solum qui erant
LXX communicaret, quos idem Moyses ex precepto Dei elegerat
ad custodiendam legem, eisque itidem preciperet ne eam scribe-
rent, sed successoribus suis viva voce revelarent, tum et illi aliis, or-
dine perpetuo. Ex quo modo tradendi istam scientiam, per succes-
sivam scilicet receptionem unius ab altero, dicta est ipsa scientia
“scientia Cabale”, quod idem est quod “scientia receptionis", quia
idem significat Cabala apud Hebreos quod apud nos “receptio”››.
E anche Commento sopra una canzona, III 1 1, pp. 580-8 1: «Questo
ordine appresso gli antiqui ebrei fu santissimamente osservato, e
per questo la loro scienzia, nella quale la esposizione delli astrusi e
244-246 1 25

mente, senza scrittura, per il solo tramite della parola.


Quell'autentica interpretazione delle Legge comuni- 243
cata da Dio a Mosè, essendo stata rivelata, per volontà
divina, proprio in questo modo, fu detta «Cabala››,
che presso gli Ebrei ha lo stesso significato del nostro
«ricezione››; e certamente per questo motivo, perché
l'un sacerdote riceveva dallflaltro quella dottrina non
attraverso testi scritti, ma quasi per diritto ereditario,
mediante un regolare susseguirsi di rivelazioni.
Tuttavia, poi che gli Ebrei, riscattati per opera di 24
Ciro dalla schiavitù babilonese e ricostruito il tempio
sotto Zorobabele, si volsero a ristabilire la Legge,
Esdra, allora capo della chiesa, dopo aver corretto il
libro di Mosè, rendendosi conto chiaramente che a
séguito dell”esilio, delle stragi, delle fughe e della pri-
gionia del popolo d'Israele non poteva essere mante-
nuta la consuetudine, istituita dai padri, di trasmette-
re la dottrina dall'uno all'altro, e che inevitabilmente
sarebbero caduti nell'oblio gli arcani della religione
rivelati loro da Dio (la memoria dei quali, in assenza

asconditi misterii della legge si contiene, Cabala si chiama, che si-


gnifica “recezione”, perché non per scritti ma per successione a
bocca l`uno dall'altro la ricevono››; c qui sopra, § 23 5.
246. Verum praefectus: Zorobabele fu posto a capo del primo
nucleo di Ebrei rientrati in patria dall'esili0 babilonese per opera
di Ciro (cfr. 1Esa'r., 1, 1-1 1), e fu tra i promotori della ricostruzione
del tempio di Gerusalemme (cfr. Ilisdr., 2, 2; 3, 2; 4, 2 c 5, 2;
2Esdr., 7, 7 e 12, 1). Esdra, scriba e «ecclesiae praefectus›› (cfr. an-
cora 1Esdr., 7), ottenne da Artaserse il permesso di ricondurre in
patria un secondo gruppo di Ebrei, e di organizzare la comunità di
Gerusalemme in base alla legislazione del Pentateuco. - post re-
digerentur: cfr. 4Esdr., 14, 21-44, dove si afferma che i notarii (cin-
que: Sarea, Dabria, Selemia, Ethanus e Asihel) lavorarono per qua-
ranta giorni, trascrivendo però i resoconti del solo Esdra, e non dei
settanti sapienti del sinedrio (dei quali parla invece sant`Ilario: cfr.
sopra, nota a § 235 I-Iesdras Origenes).
I 26 DISCORSO SULLA DIGNITA DELL,UOMO

non poterat, constituit ut, convocatis qui tunc supe-


rerant sapientibus, afferret unusquisque in medium
quae de mysteriis legis memoriter tenebat, adhibiti-
sque notariis in septuaginta volumina (tot enim fere
247 in sinedrio sapientes) redigerentur. Qua de re ne mihi
soli credatis, patres, audite Esdram ipsum sic loquen-
tem: «Exactis quadraginta diebus loquutus est Altis-
simus dicens: “Priora quae scripsisti in palam pone,
legant digni et indigni, novissimos autem septuaginta
libros conservabis ut tradas eos sapientibus de popu-
lo tuo; in his enim est vena intellectus et sapien-
248-249 tiae fons et scientiae flumen”. Atque ita feci››. Haec
250 Esdras ad verbum. Hi sunt libri scientiae Cabalae; in
his libris merito Esdras venam intellectus, idest inef-
fabilem de supersubstantiali deitate theologiam, sa-
pientiae fontem, idest de intelligibilibus angelicisque
formis exactam metaphysicam, et scientiae flumen,
idest de rebus naturalibus firmissimam philosophiam
esse clara in primis voce pronuntiavit.
251 Hi libri Sixtus quartus Pontifex Maximus, qui
hunc sub quo vivimus foeliciter Innocentium VIII
proxime antecessit, maxima cura studioque curavit ut

247. audite _/lumen: 4Esdr., 14, 45-47 (con cui si conclude la


redazione latina del IV libro di Esdra). Tutto questo passo (§§ 246-
47) torna, riscritto in latino *parigino', nell'/lpologia, V (Commen-
tationes, f. EE iiii v = Opere complete, VII 21-22). Nell'insieme, se-
condo 4Estlr., 14, 44, sarebbero stati redatti ben 904 libri.
251. cura curavit: figura etimologica. - Hi Latinos: incerte
le notizie intorno a questi tre libri della qabbalab che Sisto IV
avrebbe fatto tradurre in latino (cfr. da ultimo ONOFRI, Figure di
potere, pp. 69-70); autore della latinizzazione fu probabilmente
quello stesso Flavio Mitridate (l'ebreo convertito Guiglielmo Rai-
mondo de Moncada) che nel 1486 impatti a Pico lezioni di ebrai-
co, caldaico e arabo, e che è nominato e lodato dal Mirandolano
246-251 127

di documenti scritti, non avrebbe potuto sopravvive-


re a lungo), decise che, convocati i sapienti ancora in
vita, ciascuno riferisse pubblicamente quanto ricor-
dava dei misteri della Legge, e che, mandati a chia-
mare gli scribi, il tutto venisse raccolto in settanta vo-
lumi (tanti infatti erano allora, all°incirca, i sapienti
nel sinedrio). E perché, a questo riguardo, non dob- 247
biate prestar fede soltanto a me, ascoltate, o padri,
Esdra stesso, che così afferma: «Passati quaranta
giorni, l”Altissimo parlò, dicendo: “Ciò che hai scritto
in principio, rendilo pubblico, lo leggano i degni e gli
indegni; ma gli ultimi settanta libri li custodirai, per
consegnarli ai sapienti del tuo popolo: in essi è infatti
una vena d”intelletto, una fonte di sapienza e un fiu-
me di scienza”. E così feci››. Queste, alla lettera, le 243-249
parole di Esdra. Questi sono i libri della scienza caba- 250
listica; in essi a ragione Esdra proclamò fin da princi-
pio a gran voce trovarsi una vena d›intelletto, ossia
un'ineffabile teologia della supersustanziale divinità,
una fonte di sapienza, ossia una compiuta metafisica
delle forme intelligibili e angeliche, e un fiume di
scienza, ossia una certissima filosofia della natura.
Questi libri Sisto IV pontefice massimo, immedia- 251
to predecessore di questo Innocenzo VIII sotto il
quale felicemente viviamo, si adoperò con la massima
sollecitudine e il massimo impegno affinché venissero

nella redazione palatina dell`Oratio, § 1 13 (e cfr. li la nota 9). Su


tutta la questione cfr. l`ampia nota del CICOGNANI, pp. 124-32; e
W/1Rszu13s1<1, Introduction a FLAv1us M1T11R1n/\TEs, Sermo de pas-
sione Domini, pp. 66-69. Va ricordato che il Sermo de passione Do-
mini fu dedicato da Flavio Mitridate a Sisto IV nel 1481, e che nel
1482 Mitridate aveva insegnato presso lo «Studium Urbis›› (PIE-
MONTESE, Il Corano, pp. 261-62).
I 28 DISCORSO SULLA- DIGNITA DELL'UOMO

in publicam fidei nostrae utilitatem Latinis litteris


mandarentur; iamque cum ille decessit, tres ex illis
252 pervenerant ad Latinos. Hi libri apud Hebreos hac
tempestate tanta religione coluntur, ut neminem li-
ceat nisi annos quadraginta natum illos attingere.
233 Hos ego libros non mediocri impensa mihi cum com-
parassem, summa diligentia indefessis laboribus cum
perlegissem, vidi in illis (testis est Deus) religionem
234 non tam Mosaycam, quam Christianam. Ibi Trinitatis
mysterium, ibi Verbi incarnatio, ibi Messiae divinitas;
ibi de peccato originali, de illius per Christum expia-
tione, de caelesti Hyerusalem, de casu demonum, de
ordinibus angelorum, de purgatoriis, de inferorum
paenis eadem legi quae apud Paulum et Dionysium,
apud Hieronymum et Augustinum quotidie legimus.
233 In his vero quae spectant ad philosophiam, Pythago-

252. Cfr. PICO, Apologia, V (Commentationes, f. EE v u = Opere


complete, VII 25): «Sciant autem esse prohibitum Iudeis legere il-
los libros antcquam attigerint annum quadragesimum sue etatis››;
FLAVIUS MITHRIDATES, Sermo de passione Domini, p. 89, a proposi-
to del Talmud: «quod Hebrei usque ad annum quadragesimum
suae aetatis legere non audent». Si tenga presente che, dicendo bi
libri (così come, al § seguente, bos libros), Pico non si riferisce ai
soli tre libri latinizzati per volere di Sisto IV, ma ai libri cabalistici
nel loro complesso (cfr. il passo dell'./lpologia citato alla nota se-
guente).
253. Hos perlegissem: per gli studi cabalistici di Pico cfr. SE-
CRET, Gli inizi, e WIRSZUBSKI, Encounter. Nel Commento sopra una
canzona, III 11, p. 581, Pico scrive che il desiderio di conoscere la
qabbalab lo spinse «all`assiduo studio della ebraica e caldaica lin-
gua, sanza le quali alla cognizione di quella pervenire è al tutto im-
possibile››. E cfr. Apologia, V (Commentationes, f. EE v r = Opere
complete, VII 22): «Unde [Cabala] et nomen accepit, ut diceretur
cabalistica, et tempore Esdre in plures libros fuerit redacta, qui di-
cuntur libri Cabale. Quos ego libros summa impensa mihi conqui-
sitos (neque enim eos Hebrei Latinis nostris communicare volunt)
251-255 129

tradotti in latino a pubblico beneficio della nostra fe-


de; e, alla sua morte, già tre di quei libri erano giunti
tra i latini. Questi libri, ai nostri giorni, sono venerati 252
presso gli Ebrei con un tale religioso rispetto, che
non è permesso accostarvisi a chi non abbia compiu-
to quarant'anni. Io, essendomi con non piccola spesa 233
procurato questi libri, e avendoli letti con estrema at-
tenzione e con studio indefesso, vi ho visto (Dio mi è
testimone) la religione non tanto mosaica, quanto cri-
stiana. Qui è il mistero della Trinità, qui liincarnazio- 234
ne del Verbo, qui la divinità del Messia; qui, sul pec-
cato originale, sulliespiazione di esso per mezzo del
Cristo, sulla Gerusalemme celeste, sulla caduta dei
demòni, sulle gerarchie angeliche, sulle pene del pur-
gatorio e dell'inferno, ho letto le stesse cose che ogni
giorno leggiamo in Paolo e Dionigi, in Gerolamo e
Agostino. Nelle questioni che pertengono invece alla 233
filosofia, diresti di udire in tutto e per tutto Pitagora e

[...]››. Parte di questi volumi furono latinizzati per Pico da Flavio


Mitridate (cfr. TAMANI, I libri ebraici, pp. 516-18); presso la Biblio-
teca Apostolica Vaticana se ne conservano quattro (mss. Vat. Ile-
br. 189, 190, 191; Vat. Chigi A.VI.19o), il secondo dei quali pre-
senta postille marginali attribuibili a Pico (cfr. CICOGNANI, pp.
128-3o; \X/titzußsxi, Introduction a FL/tvius M1T111unA'1'Es, Sermo
de passione Domini, pp. 50-63; LELLI, Pico tra filosofia ebraica e
«qabbala››, pp. 206-210). Non sembra però che queste traduzioni
siano le medesime eseguite da Flavio Mitridate per Sisto IV (cfr.
sopra la seconda nota a § 251).
254. Ibi legimus: cfr. Conclusiones, p. 140 (= Conclusiones Ca-
balisticae, 72): «Sicut vera astrologia docet nos legere in libro Dei,
ita Cabala docet nos legere in libro Legis››. Su questa convinzione
si fondano tutte le settantadue conclusioni cabalistiche (cfr. qui an-
che la nota in descendere a § 257). Nel Commento sopra una can-
zona, III 1 1 , p. 58 1, la qabbalab è definita «grandissimo fundamen-
to della fede nostra››.
1 30 Discoaso SULLA D1GN1TA DELL'UoMo

ram prorsus audias et Platonem, quorum decreta ita


sunt fidei Christianae affinia, ut Augustinus noster
immensas Deo gratias agat quod ad eius manus per-
2 venerint libri Platonicorum. In plenum nulla est fer-
me de re nobis cum Hebreis controversia de qua ex
libris Cabalistarum ita redargui convincique non pos-
sint, ut ne angulus quidem reliquus sit in quem se
2 condant. Cuius rei testem gravissimum habeo Anto-
nium Cronicum, virum eruditissimum, qui suis auri-
bus, cum apud eum essem in convivio, audivit Dacty-

25 5. ut Platonicorum: cfr. AGOSTINO, Confessiones, VII 9, 13


e VIII 2, 3.
256. de re controversia: intendi: controversia de re (cioè 'di
contenuto', 'di concetto”, 'di sostanza”), in contrapposizione a con-
troversia a'e verbis (“di termini'). - In condant: cfr. PICO, Apolo-
gia, V (Commentationes, f. EE v r = Opere complete, VII 22): «quos
ego libros [scil. i libri cabalistici] cum diligenter perlegerim, inve-
niens ibi multa, immo pene omnia consona fidei nostre [cfr. qui il
S 254], visum est mihi habere posse Christianos unde Iudeos suis
telis confodiant, cum ab eis auctoritas cabalistarum, quos habent
in magno honore et reverentia, negari non possit››; ibia'. (= Opere
complete, VII 24): «cognosceretur [...] nullum esse scilicet pene ar-
ticulum in quo nobiscum Iudei per cabalistarum auctoritatem sen-
tire non cogantur››.
257. /lntonium Cronicum: si tratta di Antonio Vinciguerra, det-
to Antonio Cronico (1440-46 ca-1 502), segretario della Repubblica
di Venezia, noto soprattutto quale autore di dieci satire volgari in
terzine (cfr. B. BEFFA, /lntonio Viriciguerra Cronico, segretario della
Serenissima e letterato, Bern-Frankfurt, Lang :Sc Lang, 1975). Se-
condo BALDUINO, Le esperienze, p. 347, il Cronico avrebbe cono-
sciuto Pico a Firenze in occasione dell'ambasceria fiorentina di
Bernardo Bembo del 1475-76; ma Pico, che d'altronde era allora
appena tredicenne, giunse a Firenze solo nel 1484 (dopo una pri-
ma breve visita nel 1479 o 1480); i due si saranno più proba-
bilmente incontrati e frequentati quando Pico, tra il 1480 e il
1482, studiava a Padova. Nella prefazione dell'/lpologia (Commen-
tationes, f. A iiii r : Opere compete, II 15), che riproduce la secon-
da parte dell'Oratio, Pico introduce un ulteriore, lusinghiero ac-
cenno al Vinciguerra, presentandolo come un moderno seguace
233-237 131
Platone, le cui dottrine sono talmente affini alla fede
cristiana, che il nostro Agostino ringrazia immensa-
mente Dio per avergli fatto capitare fra le mani i libri
\
dei platonici. In linea di massima, non c'e quasi alcu- 2

na controversia sostanziale tra noi e gli Ebrei a pro-


posito della quale essi non possano essere confutati e
smentiti grazie ai libri dei cabalisti, in modo tale che
non resti loro neppure un cantuccio in cui nascon-
dersi. Di ciò mi è autorevolissimo testimone Antonio 2

Cronico, uomo dottissimo, il quale - una volta che


ero ospite a casa sua - con le sue orecchie udì l'ebreo

della magia naturale (cfr. qui Appendice, II, brano III). Lo ricorda
anche il Ficino nella Tbeologia Platonica (VI 1). - Dactylum
scientiae: Dattilo Ebreo è menzionato, insieme a Flavio Mitridate e
allo stesso Pico (di cui sarebbe stato maestro), in un elenco di sei
umanisti esperti di ebraico, arabo e lingue orientali compreso in G.
GÉNÉBRAND, Cbronograpbiae libri quatuor, Parisiis, apud Ae. Gor-
binum, 1580, p. 433 (cit. in PIEMONTESE, Il Corano, pp. 232-33).
Sono comunque incerte la sua identità (trattandosi di un nome
molto diffuso fra gli ebrei italiani) e la sua origine (ferrarese 0 forse
fiorentina): cfr. CASSUTO, Gliebreia Firenze, p. 317. Altre testimo-
nianze su di lui in BACCHELLI, Giovanni Pico, pp. 65-66 -in ile-
scendere: cfr. PICO, Conclusiones, p. 126 (= Conclusiones cabalisti-
cae, 5): «Quilibet Hebreus cabalista, secundum principia et dicta
scientiae Cabalae, cogitur inevitabiliter concedere de Trinitate et
qualibet persona divina, Patre, Filio et Spiritu sancto, illud praeci-
se, sine additione vel diminutione vel variatione, quod ponit fides
catholica Christianorum››. Di un'analoga 'conversione' operata da
Pico informa Lorenzo de' Medici nella sua lettera a Giovanni Lan-
fredini dell'11 agosto 1488 (citata in Pico, Poliziano, p. 65): «Et tra
gl'altri segni ha convertito uno ebreo giovane assai docto in quella
lingua, al quale faceva tradurre certe opere in casa sua, et con le ar-
me sue medesime è ridocto a farsi christiano››. La locuzione pedi-
bus nianibusque (nel senso di “omnis membris', e quindi `cornpleta-
mente', “in ogni modo') compare in Terenzio e - probabile fonte di
di Pico - nello Pseudo-Quintiliano delle Declamationes, XII 6:
«pedibus manibus íimus in sententiam necessitatis». Cfr. anche, di
Pico, la lettera non datata al Poliziano sulla traduzione di Epitteto:
I 32 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL,UOMO

lum Hebreum peritum huius scientiae in Christiano-


rum prorsus de Trinitate sententiam pedibus mani-
busque descendere.
258 Sed ut ad meae redeam disputationis capita percen-
senda, attulimus et nostram de interpretandis Orphei
259 Zoroastrisque carminibus sententiam. Orpheus apud
Graecos ferme integer; Zoroaster apud eos mancus,
apud Caldeos absolutior legitur: ambo priscae sapien-
z6o tiae crediti patres et auctores. Nam, ut taceam de Zo-
roastre, cuius frequens apud Platonicos non sine sum-
ma semper veneratione est mentio, scribit Iamblicus
Calcideus habuisse Pythagoram Orphycam theolo-
giam tanquam exemplar ad quam ipse suam fingeret
261 formaretque philosophiam. Quin idcirco tantum dic-
ta Pythagorae sacra nuncupari dicunt, quod ab
Orphei fluxerint institutis; inde secreta de numeris
doctrina et quicquid magnum sublimeque habuit
262 Graeca philosophia ut a primo fonte manavit. Sed
(qui erat veterum mos theologorum) ita Orpheus suo-

«ita victus sum oratione senis, ut in eius sententiam non pedibus


modo, sed manibus quoque et toto corpore discesserim» (Com-
mentalzbner, f. SS v r = Opere complete, epistole di Pico, XII).
258. altulímur sententiam: allude alla decima e all'ottava se-
zione della seconda parte delle Conclusíones, che ospitano, rispetti-
vamente, trentuno tesi de modo zhtel/ígendi by/mms Orp/øez' secum
dum magiam e quindici tesi recundum propriam opinionem de inte!-
lígentía dictorum Zoroaslris et exposítorum eius C/øaldaeorum.
259. Orp/seus auctores: cfr. § 208 e nota anlíqua obrervata;
FICINO, T/veul. Plat., IV 2: «a Zoroastre, a quo omnis manavit theo-
logorum veterum sapientia». E cfr. la lettera di Pico al Ficino, da
Fratta, non datata ma risalente al novembre 1486: «Chaldaici hi li-
bri sunt, si libri sunt et non thesauri: in primis Ezrae, Zoroastris et
Melchiar magorum oracula, in quibus et illa quoque, quae apud
Graecos mendosa et mutila circumferuntur, leguntur integra et ab-
soluta» (C0/nmentatíones, ff. TT i U - ii r = Opere complete, episto-
le di Pico, XX).
260. cuius mentío: numerose, ad esempio, sono le citazioni
2§7-262 133

Dattilo, esperto di questa disciplina, accedere senza


riserve alla dottrina cristiana della Trinità.
Ma per tornare a passare in rassegna i capi princi- 258
pali della mia disputa, abbiamo addotto anche la no-
stra opinione in merito all`interpretazione dei carmi
di Orfeo e di Zoroastro. Orfeo si legge presso i Greci 259
quasi per intero; Zoroastro presso di loro è mutilo,
presso i Caldei più completo: l'uno e l'altro furono ri-
tenuti padri e fondatori delliantica sapienza. Infatti, 260
per tacere di Zoroastro (spesso citato, non senza il
massimo rispetto, dai platonici), Giamblico Calcideo
scrive che Pitagora considerò la teologia orfica come
un modello su cui esemplare e foggiare la propria fi-
losofia. Che anzi solo per questo si dice siano chiama- 261
ti sacri i detti di Pitagora, perché derivarono dagli in-
segnamenti di Orfeo; di là, come dalla sua prima fon-
te, ebbe origine l'occulta scienza dei numeri e tutto
quanto la filosofia greca concepì di grande e di subli-
me. Ma (tale era il costume degli antichi teologi) Or- 262

dei detti di Zoroastro incluse e illustrate da Marsilio Ficino nella


T/Jeu/ogía Plato/¢z'ca; e lo stesso Ficino redasse un commento ai car-
mina Zoroartrzi, ossia agli oracoli caldaici (cfr. Supplemenlum Fici-
nianum, I, pp. CXLV). - scrl'/Jil p/aílosop/Jíam: cfr., anche per il §
seguente, GIAMBLICO, De vira Pyt/Jagoríca, XXVIII 145-47 (in par›
ticolare 145-46: «Se poi si volesse comprendere da quale fonte i pi-
tagorici avessero attinto un così profondo sentimento religioso, al-
lora bisognerebbe dire che un modello perspicuo della teologia
aritmetica pitagorica si trovava in Orfeo. Non c'è dubbio che Pita~
gora prese spunto da Orfeo nello scrivere il discorso Sugli dèi, che
proprio per questo denominò “sacro”, perché rappresentava, per
così dire, il fior fiore tratto dai più arcani recessi della dottrina di
Orfeo». E cfr. qui ancora la nota antíqua obserz/ata a § 208.
262. Sed dz'rrz'mula1/it: cfr. sopra, § 238 e nota quem obser-
1/arzmt; e aggiungi FICINO, Epixt., VIII 19 (Opera, vol. I, p. 871):
«Vetus autem theologorum mos erat divina mysteria tum mathe-
maticis numeris et figuris, tum poeticis figmentis obtegere». Il sin-
tagma fabularum involucris era anche nell'Epz'rtola al Barbaro, § 5 3.
I 34 D1scoRso sULLA DIGNITA DELL'UoMo

rum dogmatum mysteria fabularum intexit involucris


et poetico velamento dissimulavit, ut si quis legat il-
lius hymnos, nihil subesse credat praeter fabellas nu-
263 gasque meracissimas. Quod volui dixisse ut cognosca-
tur quis mihi laboryquae fuerit difficultas ex affectatis
enigmatum syrpis, ex fabularum latebris latitantes
eruere secretae philosophiae sensus, nulla praesertim
in re tam gravi, tam abscondita inexplorataque adiuto
264 aliorum interpretum opera et diligentia. Et tamen
oblatrarunt canes mei minutula quaedam et levia ad
numeri ostentationem me accumulasse: quasi non
omnes quae ambiguae maxime controversaeque sunt
questiones, in quibus principales digladiantur acha-
demiae, quasi non multa attulerim his ipsis, qui et
mea carpunt et se credunt philosophorum principes,
et incognita prorsus et intentata.
265 Quin ego tantum absum ab ea culpa, ut curaverim
in quam paucissima potui capita cogere disputatio-
nem; quam si (ut consueverunt alii) partiri ipse in sua
membra et lancinare voluissem, in innumerum pro-
266 fecto numerum excrevisset. Et, ut taceam de caeteris,

- ut meracirrzmarz come osserva WIND, Mzlrlerz', p. 22, con parole


analoghe si esprime GIAMBLICO, De vita Pyt/Jagoríca, XXIII 105, a
proposito dei rymbo/a di Pitagora: «se questi detti simbolici non
vengano sceverati e spiegati, quanto essi affermano potrà sembra-
re, a chi si trovi ad ascoltare, risibile e degno delle fole raccontate
dalle vecchiette, pieno di ciance e di fandonie>›.
263. ex ryrpix: per la voce syrpur (rírpur), o scírpur, cfr. la nota
del CICOGNANI, p. 132: «Scirpus (sírpus), propriamente: giunco.
Ma nel modo stesso che in greco ypìtbog, giunco, rete di giunco per
la pesca, significò poi, per traslato, linguaggio involuto accalap-
piante l'interlocut0re, enigma, logogrifo, e in questo senso è usato
varie volte da Luciano, xcirpur ebbe il significato metaforico d`av-
volgimento per via d'enigma››. E cita GELLIO, XII 6, 1, fonte di Pi-
co: <<Quae Graeci dicunt “aenigmata”, hoc genus quidam ex no-
262-266 135

feo rivestì gli arcani della sua dottrina con gli involu-
cri delle favole, e li nascose sotto il velame poetico, in
modo tale che chiunque legga i suoi inni non crede vi
sia sotto niente se non storielle e pure e semplici
sciocchezze. Questo l'ho voluto dire perché si sappia 2

quale fatica e quale difficoltà ho dovuto affrontare


per estrarre dalle involute ambagi degli enigmi, dalle
latebre delle favole, i sensi nascosti di questa segreta
filosofia, soprattuttonon potendo contare sull”aiuto -
in una materia così ardua, oscura e inesplorata -
dell'opera accurata di altri interpreti. E nondimeno 2

quei cani dei miei detrattori mi hanno accusato, ab-


baiando, di aver accumulato minuzie e quisquilie per
farmi vanto del loro numero: come se non fossero,
tutte, questioni estremamente incerte e controverse,
sulle quali le maggiori scuole si danno battaglia; come
se non avessi proposto molti argomenti al tutto sco-
nosciuti e mai affrontati neppure da coloro che biasi-
mano i miei studi e credono d'essere i principi dei fi-
losofi.
Anzi, io sono talmente estraneo a una simile colpa, 2

che mi sono ingegnato di restringere la discussione al


minor numero possibile di punti; se (come altri sono
soliti fare) avessi voluto dividerla nelle sue membra e
frammentarla, essa certamente si sarebbe dilatata fino
a raggiungere un numero incalcolabile di argomenti.
E, per non parlar delle altre, chi potrebbe ignorare 2

stris veteribus “scirpos” appellaverunt». In questo luogo pichiano,


tuttavia, ryrpí non vale 'enigmi` (come dimostra l'esprcssionc «ae-
nigmatum syrpis››), ma propriamente iintrecci', `avvolgimenti',
'ambagi' (CICOGNANI traduce «reri», GARIN «vi1uppi»). Cfr. anche
- sempre col significato di 'enigma` - BARBARO, Te/nzktzb, f. 1911:
«obscuritates et scirpos illorum››; POLIZIANO, Miscellanea, I 36, 39,
4o (Opera omnia, pp. 256, 258-6o). - adiuto: da legare a mi/Ji.
I 36 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL,UOMO

quis est qui nesciat unum dogma ex nongentis, quod


scilicet de concilianda est Platonis Aristotelisque phi-
losophia, potuisse me citra omnem affectatae nume-
rositatis suspitionem in sexcenta - ne dicam plura -
capita deduxisse, locos scilicet omnes in quibus dissi-
dere alii, convenire ego illos existimo, particulatim
267 enumerantem? Sed certe (dicam enim, quamquam
neque modeste neque ex ingenio meo; dicam tamen,
quia dicere me invidi cogunt, cogunt obtrectatores)
volui hoc meo congressu fidem facere non tam quod
multa scirem, quam quod scirem quae multi ne-
268 sciunt. Quod ut vobis re ipsa, patres colendissimi,
iam palam fiat, ut desiderium vestrum, doctores ex-
cellentissimi, quos paratos accinctosque expectare
pugnam non sine magna voluptate conspicio, mea
longius oratio non remoretur, quod foelix faustum-
que sit, quasi citante classico iam conseramus manus.

266. quod p/az'/orop/Jia: cfr. sopra, §§ zoo-2o4 e note relative.


268. quasi classico: nella coronide della prima centuria dei M1'-
.rcellanea (1489), Poliziano, parlando di Pico, afferma: «is me insti-
tuit ad philosophiam, non, ut antea, somniculosis, sed vegetis vigi›
lantibusque oculis explorandam, quasi quodam suae vocis animare
classico» (Opera omnia, p. 310).
266-268 137

che una sola delle novecento proposizioni, ossia quel-


la relativa alla conciliazione delle filosofie di Platone
e di Aristotele, avrebbe potuto - senza ch'io incorres-
si in alcun sospetto di voler accrescere ad arte il nu-
mero delle tesi - essere da me svolta in seicento pun-
ti, per non dir più, enumerando uno per uno, cioè,
tutti i luoghi in cui gli altri ritengono che essi la pensi-
no diversamente, mentre io credo che concordino?
Ma senza dubbio (lo dirò infatti, benché senza mode- Z

stia e contro lo mia indole; ma lo dirò, perché gli invi-


diosi mi costringono, mi costringono i calunniatori)
con questo mio convegno io ho voluto dimostrare
non tanto di sapere molto, quanto di sapere quel che
molti ignorano. E perché questo, reverendissimi pa- Z

dri, vi risulti manifesto dai fatti stessi; perché il mio


discorso non ritardi ulteriormente, eccellentissimi
dottori (che non senza grande piacere vedo aspettare
la battaglia pronti ed armati), la soddisfazione, che mi
auguro fausta e felice, del vostro desiderio, quasi
chiamati dal suono della tromba di guerra diamo una
buona volta inizio al combattimento.
APPENDICE
I. Oratio de' /:›0mz'm'.r dígnitate (redazione palatina)

Legi, patres colendissimi, in Arabum monumentis Abdu-


lam prophetam Sarracenum, cum eum rogarent eius dzlrcipulz'
quid in hac quasi mundana rcaena admirandum maxime
rpectaretur, [...],' idest /oominem, respondisse. Cui senten-
tiae illud Mercuríi astipulatur: «Magnum, o Asclepi, mira-
culum est homo». Horum dictorum rationem cogitanti
mihi non satis illa faciebant, quae multa de humanae natu-
rae praestantia afferuntur a multis: esse hominem creatura-
rum internuntium, superis familiarem, regem inferiorum;
sensuum perspicacia, rationis indagine, intelligentiae lumi-
ne naturae interpretem; stabilis evi et fluxi temporis inter-
stitium, et (quod magi dicunt) mundi copulam, immo hy-
menaeum, ab angelis, teste Davide, paulo deminutum.
Magna haec quidem, sed non principalia, idest quae
summe admirationis privilegium iure ribz' vendicent. Cur
enim non ipsos angelos et beatissimos celi choros magis ad-
miremur? Tandem intellexisse mihi sum visus cur felicissi-
mum proindeque dignum omni admiratione animal sit ho-
mo, et quae sit demum illa conditio quam in universi serie
sortitus sit, non brutis modo, sed astris, sed ultramundanis
-s mentibus invidiosam. Res supra fidem et mira! Quidni?

' Come scrive il MARCIIIGNOLI (p. roo), F«ha qui alcune lettere
arabe, verosimilmente tracciate da mano inesperta e perciò di diffi-
cile lettura (si potrebbe pensare alla sequenza '-I-r-'-g-w-?-l, ossia
forse al-ragul [(l'uomo'] scritto da chi faccia un uso ingenuo dell'al-
fabeto arabo)››.
I 42 APPENDICE

Nam et propterea magnum miraculum et admirandum pro-


fecto animal iure homo et dicitur et existimatur. Sed quae-
nam ea sit audite, patres, pro vestra humanitate hanc mihi
operam condonate.
Iam summus Pater architectus Deus hanc quam videmus
mundanam domum, divinitatis templum augustissimum,
archanae legibus sapientiae fabrefecerat. Supercelestem re-
gionem mentibus decorarat; etherios globos ethernis ani-
mis vegetarat; excremcntarias ac feculentas has mundi infe-
riore; partes omnigena animalium turba complerat. Sed,
opere consumato, desiderabat artifex esse aliquem qui tanti
operis rationem perpenderet, pulchritudinem amaret, ma-
gnitudinem admiraretur. Iccirco iam rebus omnibus (ut
Moses Thimeusque testantur) absolutis, de producendo
homine postremo cogitavit. Verum nec erat in archetypis
unde novam sobolem efi'z'gíet, nec in thesauris quod novo
filio hereditarium largíatur, nec in subselliis totius orbis ubi
universi contemplator iste sederet. lam plena omnia; omnia
summis, mediis infimisque ordinibus fuerant distributa.
Sed non erat Paternae potestatis in extrema faetura quasi
effaetam defecisse; non erat Sapientiae consilii inopia in re
necessaria fluctuasse; non erat benefici Amoris ut qui in
aliis dzivínam esset liberalitatem laudaturus in se illam dam-
nare cogeretur.
Statuit tandem optimus opifex ut cui dari nihil proprium
poterat, ei commune esset quicquid privatum singulis fue-
rat. Igitur hominem accepit, indiscretae opus imaginis, at-
que in mundi positum meditullio sic est allocuutus: «Nec
certam sedem, nec propriam faciem nec munus ullum pe-
culiare tibi dedimus, o Adam, ut quam sedem, quam fa-
ciem, quae munera tute optaveris, ea pro voto, pro tua sen-
tentia habeas et possideas. Definita ceteris natura intra
praescriptas a nobis leges coercetur. Tu, nullis angustiis
coercitus, pro tuo arbitrio, in cuius manu te posui, tibi il-
lam praefinies. Medium tele mundi posui, ut circumspice-
res inde commodius quicquid est in mundo. Nec te cele-
stem neque terrenum, neque mortalem neque immortalem
fecimus, ut, tui ipsius quasi arbitrarius plastes et fictor, in
APPENDICE 143

quam malueris tute notam effingas. Poteris in inferiora, 23


quae bruta sunt, degenerare; poteris in superiora, quae sunt
divina, ex tui animi sententia regenerari».
O summam Dei patris liberalitatem, summam hominis 24
felicitatem, cui datum id habere quod optat, id esse quod
velit! Bruta, protinus quam nascuntur, id secum afferunt (ut 25
ait Lucilius) e vulva matris quod possessura sunt. Supremi 26
spiritus aut ab initio aut paulo mox id fuerunt, quod sunt
futuri in perpetuas ethernitates. Nascenti homini omnifaria 27
semina et omnigenae vitae germina indidit Pater. Quae qui-
sque excoluerit, illa adolescent, et fructus suos ferent in il- 28
lo. Si vegetalia, planta fiet; si sensualia, obrutescet; si ratio- 29
nalia, demou evade! et caeleste animal; si intellectualia,
angelus erit et Dei filius. Et si, nulla creaturarum sorte con- 3o
tentus, in unitatis centrum suae se receperit, unus cum Deo
spiritus factus, in solitaria Patris caligine, quae est super
omnia, constitutus, omnibus antestabit.
Quis hunc nostrum chameleonta non admiretur? Aut 3I'37-
omnino quis quicquam aliud admiretur magis? Quem non 33
immerito Asclepius Atheniensis, versipellis huius et se
ipsam transformantis naturae argumento, per Protheum in
mysteriis significari dixit. Hinc illae apud I-Iebraeos et 34
Pythagoricos metamorphoses celebrate. Nam et Hebreo- 35
rum theologia secretior nunc Enoch sanctum in angelum
divinitatis, quem vocant p¬r:mn, nunc in alia alios numina
reformant; et Pythagorici scaelestos homines et in bruta
deformant et, si Empedocli creditur, etiam in plantas. Quos 36
imitatus Maumeth illud frequens babe! in ore, qui a divina
lege recesserit brutum evadere. Neque enim plantam cor- 37
tex, sed stupida et nihil sentiens natura; uec iumenta co-
rium, sed bruta anima et sensualis; nec demouem orbicula-
tum corpus, sed recta ratio; nec sequestratio corporis, sed
spz'rz'tuulz`r intelligentia angelum facit. Si quem enim videris 38
deditum ventri, humi serpentem hominem, frutex est, non
homo, quem vides; si quem in phantasie quasi Calipsus va-
nis praestigiis caecutientem et, subscalpenti delinitum ille-
cebra, sensibus mancipatum, brutum est, non homo, quem
vides. Si recta philosophum ratione omnia discernentem, 39
144 APPENDICE
40 hunc venereris: caeleste est animal, non terrenum. Si pu-
rum contemplatorem corporis nescium, in penetralia men-
tis relegatum, hic augustius est numen, humana carne cir-
cumvestitum.
41'42 Et quis hominem non admiretur? Qui non immerito in
sacris Litteris Mosaycis et Christianis nunc omnis carnis,
nunc omnis creaturae appellatione designatur, quando se
ipsum ipse in omnis carnis faciem et in omnis creaturae in-
43 genium effingit, fabricat et transformat. Iccirco scribit
Evantes Persa, ubi Chaldaicam theologiam enarrat, non es-
se homini suam ullam et nativam imaginem, extrarias mul-
44 tas et adventitias. Hinc illud Chaldeorum [...],2 idest «ho-
mo variae ac multiformis et desultoriae naturae animal».
45 Hae igitur couditioue nati, /mc praediti natura, ut id simus
quod erre volumur, quid curare potissimum debemur? Certe
46 ut non illud quidem in uor dicatur, cum in honore essemus
non cognovisse similes factos brutis et iumentis insipienti-
bus, sed illud potius Asaph prophetae: «Dii estis et filii Ex-
celsi omnes››; ne, abutentes indulgentissima Patris liberali-
tate, quam dedit ille liberam optionem e salutari noxiam
47 faciamus nobis. Invadat animum sacra quaedam et Iunonia
ambitio, ut mediocribus non contenti anhelemus ad sum-
ma, adque illa (quando possumus, si volumus) consequen-
48 da enitamur. Dedignemur terrestria, caelestia contemna-
mus, et, quicquid mundi est denique posthabentes,
ultramundanam curiam eminentissime divinitati proximam
49 advolemus. Ibi, ut sacra tradunt mysteria, Seraphin, Cheru-
bin et Throni primas possident; horum iam nor, cedere ne-
scii et secundarum impatientes, et dignitatem et gloriam
jo emulemur. Erimus illis, cum voluerimus, nihilo inferiores.
51"$2 Sed qua ratione, aut quid tandem agentes? Videamus
53 quid illi agant, quam vivant vitam. Eam si et nos vixerimus
54 (possumus enim), illorum sortem iam aequaverimus. Ardet

2 F reca qui una oscura citazione in caratteri etiopici (vedi nella


Nota al testo la traslitterazione effettuata da Wirszubski, pp. 172-
73)-
APPENDICE 14 5

Seraph charitatis igne; fulget Cherub intelligentiae splendo-


re; stat Thronus iudicii firmitate. Igitur si actuosae addicti
vitae iuƒeriorem curam recto examine susceperimus, Thro-
norum stata soliditate firmabimur. Si ab actionibus feriati
in opificio opificem, in opifice opificium meditantes, in
contemplandi otio negotiabimur, luce Cherubica undique
coruscabimus. Si charitate ipsum opificem solum ardebi-
mus, illius igne, qui edax est, in Seraphicam effigiem repen-
te flammabimur. Super Throno, idest iusto iudice, sedet
Deus iudex saeculorum. Super Cherub, idest contemplato-
re, volat atque eum quasi incubando fovet. Spiritus enim
Domini fertur super aquas, has - inquam - quae super cae-
los sunt, quae apud Iob Dominum laudant antelucanis
hymnis. Qui Seraph, idest amator est, in Deo est, et Deus in
eo, immo et Deus et ipse unum sunt.
Sed quonam pacto aut iudicare quisquam aut amare
potest incognita? Amavit Moses Deum quem vidit, et
administravit iudex in populo quae vidit prius contempla-
tor in monte. Ergo medius Cherub sua luce et Seraphico
igni nos praeparat, et ad Thronorum iudicium pariter illu-
minat. Hic est nodus primarum mentium, ordo Palladicus
coutemplative philosophiae praeses; hic nobis emulandus
primo et ambiendus, atque adeo comprehendendus est, ut
et ad amoris rapiamur fastigia, et ad munera actionum
bene instructi paratique descendamus. At vero opere pre-
tium, si ad exemplar vitae Cherubicae vita nostra forman-
da est, quae illa et qualis sit, quae actiones, quae illorum
opera, prae oculis et in numerato habere. Quod cum per
nos, qui caro sumus et quae bumi sunt rapimur, nobis conse-
qui non liceat, adeamus antiquos patres, qui de his rebus
utpote sibi domesticis ct cognatis locupletissimam nobis ct
certam fidem facere possunt. Consulamus Paulum aposto-
lum, vas electionis, quid ipse, cum ad tertíum sublimatus
est caelum, agentes Cherubinorum exercitus viderit.
Respondebit utique, Dionysio interprete, purgari illos, tum
illuminari, postremo perfici. Ergo et nos Cherubicam in
terris vitam emulantes, per moralem scientiam affectuum
impetus cohercentes, per dialecticam rationis caliginem
146 APPENDICE
discutientes, quasi ignorantiae et vitiorum eluentes sordes
animam purgemus, ne aut affectus temere debacchentur,
aut ratio imprudens quandoque deliret. Tum bene compo-
sitam ac expiatam animam naturalis philosophiae lumine
perfundamus, ut postremo divinarum rerum eam cognitio-
ne perficiamus.
Et ne nobis nostra sufficiant, veterzlr legis mysteria per-
rcrutemur. Consulamus Iacob patriarcham, cuius imago in
sede gloriae sculpta coruscat. Admonebit nos pater sapien-
tissimus in inferno dormiens, mundo in superno vigilans;
sed admonebit per figuram (ita eis omnia contingebant) es-
se schalas ab imo solo ad caeli summa protensas, multorum
graduum serie distinctas, fastigio Dominum insidere, con-
templatores angelos per eas vicibus alternantes ascendere
et descendere. Quod si hoc idem nobis angelicam affectan-
tibus vitam factitandum est, quaeso, quis Domini schalas
vel sordidato pede, vel male mundis manibus attinget? Im-
puro purum attingere nephas. Sed qui hi pedes? Quae ma-
nus? Profecto pes animae illa est portio despicatissima, qua
ipsa materiae tanquam terrae solo innititur: altrix - inquam
- potestas et cibaria, fomes libidinis et voluptariae mollitu-
dinis magistra. Manus animae cur irascentiam non dixeri-
mus, quae appetentiae propugnatrix pro ea decertat, et sub
pulvere ac sole predatrix rapit quae illa sub umbra dormi-
tans helluetur? Has manus, hos pedes, ue a sc/Jalir tanquam
prop/aauz' pollutique reiciamur, idest totam sensualem par-
tem in qua sedet corporis illecebra, quae animam abtorto
(ut aiunt) detinet collo, morali philosophia quasi vivo flu-
mine abluamus.
At nec satis hoc erit, si per Iacob schalas discursantibus
angelis comites esse volumus, nisi et a gradu in gradum rite
promoveri, et a schalarum tramite deorbitare nusquam, et
reciprocos obire excursus bene apti prius instructique fue-
rimus. Quod cum per artem sermocinalem sive rationariam
erimus consecuti, iam Cherubico spiritu animati, per scha-
larum idest naturae gradus philosophantes, a centro ad
centrum omnia pervadentes, nunc unum quasi Osyrim in
multitudinem vi Titanica discerpentes descendemus, nunc
APPENDICE 147
multitudinem quasi Osyridis membra in unum vi Phebea
colligentes ascendemus, donec, in sinu Patris - qui super
schalas est - tandem quiescentes, theologica foelicitate con-
sumabimur.
Percontemur et iustum Iob, qui foedus [. . .].3 Citemus et 83-84
Mosem ipsum, a sacrosancte et ineffabilis intelligentiae fon-
tana plenitudine, unde angeli suo nectare inebriantur, pau-
lo deminutum. Audiemus venerandum iudicem sic nobis in Bs
deserta huius corporis solitudine habitantibus leges edicen-
tem: «Qui mores iam composuerunt, in sanctuarium recep-
ti, nondum quidem sacra attractent, sed prius dialectico fa-
mulatu, seduli levite philosophiae, sacris ministrent. Tum 86
ad ea ipsi admissi, nunc superioris Dei regiae multicolorem
idest sidereum aulicum ornatum, nunc caeleste candela-
brum septem luminibus distinctum, nunc pellicea elementa
in philosophiae sacerdotio contemplentur, ut postremo,
per theologice sublimitatis merita in templi adyta recepti,
nullo imaginis intercedente velo divinitatis gloria perfruan-
tur››. I-Iec nobis profecto Moses et imperat et imperando 87
admonet, excitat, inhortatur, ut per philosophiam ad futu-
ram caelestem gloriam, dum possumus, iter paremus nobis.
Verum enimvero, nec Mosaica tantum aut Christiana ss
mysteria, sed priscorum quoque theologia harum, de qui-
bus disputaturus accessi, liberalium artium et emolumenta
nobis et dignitatem ostendit. Quid enim aliud sibi volunt in 89
Graecorum arcanis observati initiatorum gradus, quibus
primo, hercle, per illas quas diximus quasi februales artes,
moralem et dialecticam, purificatis, contingebat mysterio-
rum susceptio? Quae quid aliud esse potest quam secretio- 90
ris per philosophiam naturae interpretatio? Tum demum 91
ita dispositis illa adveniebat éitomseiot, idest rerum divina-
rum per theologiae lumen inspectio. Quis talibus [...]4 ipsa 92

3 In F manca (per caduta meccanica) il passo corrispondente ai


§§ 83-97 della redazione definitiva (cfr. la Nota al texto, pp. 177-
178).
*' Manca in F (ancora per caduta meccanica) il passo corrispon-
dente ai §§ 1o7-13 della redazione definitiva (cfr. la Nota al texto,
p. 178).
148 APPENDICE

Apollinis nomina, si quis eorum significantias perscrutetur


et latitantia mysteria, satis ostendent esse deum illum non
93 minus philosophum quam vatem. Quod cum Ammonius
satis sit exequutus, non est cur ego aliter pertractern; sed
subeant animum, patres, tria Delphiea praecepta oppido
his necessaria, qui non ficti, sed veri Apollinis, qui illuminat
omnem animam venientem in hunc mundum, sacrosanc-
tum et augustissimum templum introgressuri sunt: videbitis
nil aliud illa nos admonere, quam ut tripartitam hanc, de
qua est praesens disputatio, philosophiam totis viribus am-
94 pleetamur. Illud enim unôàv åyav, idest «ne quid nimis»,
virtutum omnium normam et regulam per mediocritatis ra-
9$ tionem, de qua moralis agit, recte praescribit. Tum illud
yvo361 osowtóv, idest «cognosce te ipsum››, ad totius natu-
rae nos cognitionem, cuius et interstitium et quasi cynnus
96 natura est hominis, excitat et inhortatur. Qui enim se co-
gnoscit, in se omnia cognoscit, ut Zoroaster prius, deinde
97 Plato in Alcibiqde scripserunt. Postremo, hac cognitione
per naturalem philosophiam illuminati, iam Deo proximi,
ei, idest «es›› dicentes, theologica salutatione verum Apolli-
nem familiariter proindeque feliciter apellabimus.
98 Consulamus et Pythagoram, [...]5 recenseamus et Chal-
deorum monumenta: videbimus (si illis creditur) per ea-
99 sdem artes parere viam mortalibus ad foelicitatem. Scribunt
interpretes Chaldei verbum fuisse Zoroastris alatam esse
animam, cumque alae exciderent ferri illam praeceps in
IOO corpus, tum illis subcrescentibus ad superos revolare. Per-
cunctantibus eum discipulis quo pacto alis bene plumanti-
bus volucres auimar sortirentur, «Irrigetis - dixit - alas
IOI aquis vitae». Iterum sciscitantibus unde has aquas peterent,
sic per parabolam (qui erat hominis mos) illis respondit:
«Quatuor amnibus paradisus Dei abluitur et irrigatur; indi-
102 dem salutaris nobis aquas hauriatis. Nomen ei qui ab aqui-

7 In F manca (per caduta meccanica) il passo corrispondente ai


§§ 120-29 della redazione definitiva (cfr. ancora la Nota al texto, p.
178)
APPENDICE I 49

lone [...], quod “rectum” denotat; ei qui ab occasu [...],


quod “expiationem” significat; ei qui ab ortu [...], quod
“lumen” sonat; ei qui a meridie [. . .],6 quod nos “pietatem”
interpretati possumus››. Advertite animum et diligenter 103
considerate, patres, quid haec sibi velint Zoroastris oracula:
profecto nihil aliud nisi ut morali scientia, quasi undis Hi-
bericis, oculorum sordes expiemus; dialectica, quasi borea-
li amussi, illorum aciem lineemus ad rectum; tum in natura-
li contemplatione debile adhuc veritatis lumen, quasi
nascentis solis incunabula, pati assuescamus, ut tandem per
theologicam pietatem et sacratissimum deorum cultum,
quasi caelestes aquilae, meridionali: solis fulgidissimum iu-
bar fortiter perferamus.
Hae illae et a Davide decantatae primum, ab Augustino 104
explicatae latius, matutinae, meridianae et vespertinae co-
gnitiones. I-Iaec est illa lux meridialis quae Seraphinos cre- ro;
mat, inflammat ad liueam et Cherubinos illuminat. Haec il- 106
la regio quam versus semper antiquus pater Abraam
proficiscebatur. Hic ille locus ubi immundis spiritibus lo- 107
cum non esse et Cabalistarum et Maurorum dogmata tradi-
derunt. Et si secretiorum aliquid mysteriorum fas est in pu- 108
blicum proferre, postquam et repens e caelo casus nostri
hominis caput vertigine damnavit, et - iuxta Hieremiam -
ingressa per fenestras mors iecur pectusque male affecit,
Raphaelem caelestem medicum advocemus, qui nos morali
et dialectica uti pharmacis salutaribus liberet. Tum ad vali- 109
tudinem bonam restitutos iam Dei robur Gabriel inhabita-
bit, qui nos per naturae ducens miracula, ubique Dei pote-
statem virtutemque indicans, tandem sacerdoti summo
Michaeli nos trader, qui sub stipendiis philosophiae eme-
ritos theologiae sacerdotio quasi corona pretiosi lapidis in-
signet.
Haec sunt, patres colendissimi, quae me ad philosophiae 110

6 Anche qui le quattro lacune corrispondono a quattro parole ver-


gate in caratteri etiopici di difficile decifrazione (cfr. nella Nota al te-
xto, pp. 172-73 , la relativa traslitterazione proposta da Wirszubski).
I 50 APPENDICE

III studium non animarunt adeo, sed compulerunt. Quam qui-


dem ut tam plene consequerer quam .requebar ardenterç duo
II2 in primis conducere semper exirtimavi. Primum7 id fuit, in
nullius verba iurare, red .re per omner pbilosopbiae magistror
fundere, omnes rcedar excutere, omnes familias agnosceres
113 Vidi ad boo munus necessariam esse non Grecae modo et La-
tinae, sed Hebraicae quoque atque Cbaldaicae et, cui nunc
primum sub Mitbridate Gulielmo9 harum linguarum inter-
prete peritirrimo insudare coepi, Arabicae linguae cognitio-
114 nem. Ferme enim omnis sapientia a barbaris ad Grecos, a
115 Grecis ad nos manavit. Ita nostrates semper in philo-
sophandi ratione peregrinis inventis stare et aliena exco-
luisse sibi duxerunt satis;'° racrar omnino Litteras et myste-
ria secretiora ab Hebreis primum atque C/aaldeis, tum a
116 Greci; petere necerrarium. Reliquas artes et omniƒariam pbi-
losophiam cum Greci: Arabes partiuntur. Quos qui non adit,
117 qui in illis progredietur quando permulti bique pretiosiores
eorum libri ad nostro: nullo interprete pervenerunt, et bo-
rum qui pervenerant tum plures inverterunt potius quam
converterunt illi interpretes, tum certe omnibus eam caligi-

7 Primum: il secondo dei due metodi seguiti da Pico per impa-


dronirsi della filosofia (vale a dire, esercitarsi nell”arte della dispu-
ta) sarà ricordato al § 128.
3 Primum agnoscere: con qualche leggera modifica, il § 112
viene recuperato al § 1 80 della redazione definitiva.
9 Mit/Jridate Gulielmo: sull'ebreo convertito Guiglielmo Rai-
mondo de Moncada (Monchates), detto Flavio Mitridate (1450 ca-
dopo il 1489), e sui suoi rapporti con Pico (cui insegnò l'ebraico,
l'arabo e il caldaico, e per il quale esegui varie traduzioni latine di
testi cabalistici), cfr. CASSUTO, Gli ebrei a Firenze, pp. 299-330;
DELUACQUA-MUNSTER, I rapporti di Giovanni Pico, pp. 157-61;
SECRET, Nouvelles précirionr; LELLI, Pico tra filosofia ebraica e
«qabbala››, in Pico, Poliziano, pp. 194-95 e 204-11; PIEMONTESE, Il
Corano, pp. 254-73; BACCHELLI, Giovanni Pico, pp. 87-94 e pas-
sim. Cfr. anche, nel commento alla redazione definitiva, le note ai
§§ 36, 130, 251 Hi Latinos, 253, 257 Dactylum scientiae (con
ulteriore bibliografia); e qui oltre la Nota al testo.
1° omni: satis: il passo (§§ 1 14-15) è recuperato ai §§ 193-94
della redazione definitiva
APPENDICE IjI

nem obscuritatis offuderunt, ut quae apud suos facilia, nitida


et expedita sunt, apud nostros scrupeall ƒacta, ƒusca et laci-
niosa studiosorum conatum eludant plurimum atque fru-
strentur?
Fuit autem cum ab antiquis omnibus observatum boc, ut, 118
omne scriptorum genus evolventes, nullas prorsus quas pos-
sent commentationes illectas praeterirent, tum maxime ab
Aristotele, qui eam ob causam tìvayvtôotng, idest <<lect0r››,
a Platone nuncupabatur. Et profecto angustae est mentis 119
intra unam se Porticum aut Achademiam continuisse; nec
potest ex omnibus sibi propriam recte selegisse, qui prius
omnes familiaritates non agnoverit. Nemo aut fuit olim aut 120
post nos erit cui se totam dederit veritas comprebendendam:
maior illius immensitas quam ut par sit ei bumana capaci-
tas. 12 Videas in unaquaque familia aliquid insigne quod non IZI
sit ei commune cum ceteris.
Atque ut a nostris, ad quos postremo philosophia perve- 122
nit, nunc exordiar, est in Joanne Scoto vegetum quoddam
atque discussum, in Thoma solidum et aequabile, in Aegi-
dio tersum et examinatum, in Francisco acre et acutum, in
Alberto priscum, amplum et magnum, in Henrico (ut mihi
visum est) semper sublime et venerandum. Est apud Ara- 123
bes in Averoe firmum et inconcussum, in Avempace, in
Alpharabio grave et meditatum, in Avicenna divinum et
platonicum. Est apud Graecos in universum quidem nitida, 124
in primis et casta philosophia; apud Simplicium locuples et
copiosa, apud Themistium elegans et compendiaria, apud
Alexandrum constans et docta, apud Theophrastum gravi-
ter elaborata, apud Ammonium enodis et gratiosa. Et si ad 125

“ scrupea: l`aggettivo scrupeus (`aspro”, 'sassoso'), in senso figu-


rato (`duro', `difficile`), è assai raro: i lessici registrano esempi in
Ausonio e in Tertulliano (cfr. BAUSI, Nec r/Jetor, p. 139).
'Z Nemo capacitas: cfr. SENECA, Èpist., XXXIII I 1: «Pater
omnibus Veritas; nondum est occupata; multum ex illa etiam futu-
ris relictum est» (quest'epistola senechiana è riecheggiata anche ai
§§ 194 e 197 della redazione definitiva: cfr. le relative note di com-
mento).
I S2 APPENDICE

Platonicos te converteris, ut paucos percenseam, in


Porphyrio rerum copia et multiiuga religione delectaberis,
in-Iamblico secretiorem philosophiam et barbarorum my-
steria veneraberis; in Plotino privum quicquam non est
quod admireris, qui se undique praebet admirandum,
quem de divinis divine, de humanis longe supra hominem
docta sermonis obliquitate loquentem sudantes Platonici
126 vix intelligunt. Praetereo magis novicios, Proclum Asiatica
fertilitate luxuriantem, et qui ab eo fluxerunt, Hermiam,
Damascium, Olympiodorum et complures alios, in quibus
omnibus illud tò Geìov, idest «divinum››, peculiare Platoni-
127 corum symbolum, elucet semper. Accedit quod, si qua est
heresis quae veriora incessat dogmata et bonas causas inge-
nii calumnia ludificetur, ea veritatem firmat, non infirmat,
et velut motu quassatam flammam excitat, non extinguit,
sane boc veritatis privilegio, ut vinci nesciat, et contorta in
eam spicula in auctores redeant.
128 Alterumß quod mi/ai ego ad pbilosopbiae consecutionem
utilissimum iudicavi boa fuit, ut in disputandi exercitatione
129 essem frequentissimus. Sicut enim per gymnasticam corpo-
ris vires firmiores fiunt, ita dubio procul in hac quasi litte-
raria palestra animi vires et fortiores longe et vegetiores
130 evadunt. Nec crediderim ego aut poetas aliud per decan-
tata Palladis arma, aut Hebreos dum '71¬::, idest «ferrum››,
l:¬n:|'|n'7w, idest «sapientum›› symbolum dicunt, significasse
nobis, quam honestissima hoc genus certamina adipiscende
131 sapientiae oppido quam necessaria. Quo forte fit ut et
Chaldei, in eius genesi qui philosophus sit futurus, illud de-
siderent, ut Mars Mercurium aspectu triquetro conspiciat.
132 Est autem pugnis Palladicis boa peculiare, quod in eis lu-
133 crum est vinci. Quo fit ut imbecillimus quisque non detrec-
tare modo, sed appetere ultro illas et iure possit et debeat,

U /llterum: per la prima delle due strade che Pico ha ritenuto di


dover seguire onde giungere alla conoscenza filosofica (ossia, leg-
gere il maggior numero possibile di testi dei più diversi pensatori)
cfr. il § 1 12.
APPENDICE Ij3

quandoquidem qui succumbit beneficium a victore accipit,


non iniuriam, quippe qui per eum et locupletior domum, id
est doctior, et ad futuras pugnas redit instructior. Hac ego I

spe infirmus miles, et qui e tyronatus“ modo rudimentis ex-


cessi, cum fortissimis omnium strenuissimisque non decerta-
turus, sed vincendus descendz, nil veritus (quae est vestra ex-
cellens in omni scientiarum genere doctrina) ƒuturum bunc
mi/ai congressum ad usum maximum proindeque voluptatem
non mediocrem; quam ne mibi ipse egomet morer, quasi ci-
tante classico iam conseramus manus."

'4 tyronatus: il rarissimo sostantivo tironatus, -us ('tirocinio') è


attestato, stando al FORCELLINI, s.v., solo nel Codex Tbeodosianus
(cfr. anche DU CANGE, vol. VIII, 221).
'5 Hac manus: il § 134 viene recuperato (in parte e con nume-
rosi rimaneggiamenti) ai §§ 169 e 268 della redazione definitiva.
II. Brani aggiunti alla sezione dell'«Oratio»
recuperata nel proemio dell'«/lpologia» (1487)

I. (aggiunto dopo il § 162 della redazione definitiva)

Sed quod attinet ad hec, ut dixi, malo auctoritatibus et


preiudiciis magnorum virorum quam rationibus me defen-
dere. Illud videtur opere maioris, satisfacere his qui etate,
ingenio, doctrina imparem dicunt me tam magne provincie,
nec, iuxta I-Ioratium, consuluisse humeros quid ferre va-
leant, quid recusent.'

II. (aggiunto dopo il § 166 della redazione definitiva)

Nam, ut scripsit aliquando I-Iermolaus meus, delitiae


Romane lingue, etatis nostre splendor et gloria,2 non potest
non indoctus esse qui se doctum credit.)

' Cfr. ORAZIO, /lrs poetica, 39-40: «versate diu quid ferre recu-
sent, I quid valeant umeri››. Al medesimo passo oraziano, Pico ave-
va già fatto riferimento ai §§ 167 e 171 della redazione definitiva.
2 Il Barbaro è definito da Pico «delitias Romanae linguae›› in
una lettera non datata a Girolamo Donà, e «Latinae linguae deli-
cias et bonarum artium omnium insigne promptuarium›› in un'epi-
stola - parimenti non datata - allo stesso Barbaro. Cfr. Commenta-
tiones, rispettivamente ff. SS iiii v e TT v r (= Opere complete,
epistole di Pico, IX e XXXII).
3 Cfr. ERMOLAO BARBARO, Epistolae, vol. I, p. 15: «Qui se doc-
tum credit, non potest non indoctus esse» (è un passo della prefa-
zione del Temistio a Francesco Tron). E cfr. anche POLIZIANO,
Miscellanea I, praef. (Opera, p. 214): «Nihil autem forsan intolera-
bilius, quam ut de te sententiam ferat indoctus, qui tamen sibi ipse
156 APPENDICE

III. (aggiunto dopo il § 225 della redazione definitiva)

Et tempestate nostra vidi Antonium Cronicum (quan-


quam in maximis agendis tractandisque rebus occupatissi-
mum, que illius tamen est ingenii sublimitas et elegantia!)
ut omnes alias liberales artes, ita hand' quoque pulcherrime
attigissef

doctissimus videatur››. Il Barbaro (che nell`Oratio non era menzio-


nato) fu lusingato dalla citazione del suo nome; cfr. la sua lettera a
Roberto Salviati del 21 ottobre 1488: «Apologiam eius legi et in ea
me. Quid ille mihi tantum tribuit, tam parum merenti? Quor ordi-
nario testi, ne dicam gregario, tam honorifica praefatione denun-
ciat, illo praesertim opere, quo nihil subtilius, vehementius, acu-
tius?›› (Epistolae, vol. II, p. 33).
“' Si riferisce alla magia naturale.
7 Il Cronico (Antonio Vinciguerra) era già nominato - a propo-
sito della Cabala - in altra parte dell'Oratio: cfr. il § 257 della reda-
zione definitiva, e la nota Antonium Cronicum. Come nel caso del-
l'aggiunta precedente, Pico vuole addurre, a sostegno delle sue tesi
(nel caso specifico, della sua difesa della magia naturale), l'autorità
di un illustre umanista.
NOTA AL TESTO
E
APPARATI
Il testo critico della redazione definitiva dell'Oratio de bo-
minis dignitate deve essere fermato principalmente sulla ba-
se dell'editio princeps, la stampa bolognese delle Commenta-
tiones di Giovanni Pico, curata nel 1496 dal nipote Giovan
Francesco per i tipi di Benedetto Faelli (= B).1 La ben nota
scorrettezza di questa stampa, tuttavia, impone di ricorrere,
in seconda battuta, anche ad altri testimoni: le successive
stampe quattro-cinquecentesche, che, pur dipendendo - più
o meno direttamente ~ dalla princeps, ne migliorano talvolta
il testo, correggendo alcuni evidenti errori; l'/lpologia, che,
edita nel 1487 a Napoli (= A)2 e poi inclusa nelle Commenta-
tiones (= Al), recupera nel proemio, con poche varianti e
qualche aggiunta, la seconda parte dell'Oratio; la cosiddetta
prima redazione dell'Oratio, tradita (adespota e anepigrafa)
dal ms. Palatino 885 (già 777) della Biblioteca Nazionale
Centrale di Firenze, cc. 14 3r-1 53v (= F).3 Per quanto riguar-

' G1ovANN1 Pico DELLA M1RANDo1.A, Commentationes, Bene-


detto Faelli, Bononia, 2o marzo e 16 luglio 1496, in due tomi (IGI
773 1). Il primo tomo (comprendente, oltre alla Ioannis Pici vita di
Giovan Francesco Pico, l`Heptaplus, l'Apologia, il De ente ct uno e
la relativa polemica tra Pico e Antonio Cittadini, l`Oratio, le Epi-
stolae e la Deprecatoria ad Deum) reca, nel colopbon, la data 2o
marzo 1496; il secondo, occupato per intero dalle Disputationes ad-
versus astrologiam, è datato 16 luglio 1495 (ma: 1496). L`Oratio è ai
ff. QQ 2 r - RR 3 r del primo tomo. Cfr. Pico, Poliziano, pp. 44-47.
2 G1ovANN1 Pico DELLA Mn<ANDoLA, Apologia, s.1. (ma Napoli,
Francesco del Tuppo), 31 maggio 1487 (IGI 7734). L'unico esem-
plare che, stando all`IGI, si conserva in Italia è quello della Biblio-
teca Estense di Modena, segnato oi.C.8.16(2). Cfr. Pico, Poliziano,
PP- §°'$3›
3 Per la descrizione del ms. cfr. Pico, Poliziano, pp. 42-44; per i
rapporti tra questa redazione e quella definitiva cfr. oltre. Il codice
I 60 NOTA AL TESTO E APPARATI

da le stampe successive alla prima, ho collazionato quelle qui


sotto elencate:

Lione, Jacobino Suigo e Nicolas Benedict, dopo il 1496


(= D4
Venezia, Bernardino de' Vitali e Cristoforo de' Pensi,
1498 (= Vl)
Strasburgo,]. Prüss, 1504 (= S)
Reggio Emilia, Ludovicus de Mazalis, 1506 (= R)
Milano, Alessandro Minuziano, 1507 (= M)
Parigi, Ioannis Parvi impensa, 1517 (= P)
Basilea, Henricus Petri, I 5 57 (= BH)
Venezia, Girolamo Scoto, I 5 57 (= W)
Basilea, Henricus Petri, 1572 (= Bsz)

L'ausilio di queste stampe consente di emendare i se-


guenti errori della princepszs

9o «sedabit dialectica rationis turbas, inter orationum pu-


gnantias et sillogismo captiones anxie tumultuantis››. Benché
conservata da alcuni editori (Tognon e Marchignoli, fino alla
recentissima edizione on»line del Progetto Pico), la lezione
sillogismo (condivisa dalla maggior parte dei testimoni)“
sembra errata. Sillogismo captiones potrebbe anche essere in

contiene in prevalenza testi alchimistici medievali e rinascimentali


(a c. IIIr: «Vari frammenti / di / Alchimia, e Segreti››); il fascicolo
che qui interessa (cc. 1431'-1531/) contiene l'Ora/io de bominis di-
gnilate, adespota e anepigrafa, in una copia risalente alla fine del
XV o all'inizio del XVI sec., di mano di Giovanni Nesi (cfr. qui
l'Introdu2.'i0ne, p. X).
4 Si tratta di una contraffazione della princepr, che ne riproduce
il testo, accogliendo però le emendazioni suggerite dalllerrata corri-
ge. Cfr. IGI 7732.
5 Tralascio di segnalare i più banali ed evidenti refusi, che cor-
reggo tacitamente (e che in alcuni casi sono già emendati dall`erm-
ta corrige della stampa bolognese); alcuni casi più rilevanti sono co-
munque segnalati in apparato.
1° silogismo L, sylogismo R, syllogismo Bs' Brz M V ' (mentre A
legge «et syllogismo et captíones››).
NOTA AL TESTO 161

qualche modo difendibile (nel senso, suggerito dal Cicogna-


ni, di «le capziosità insite nel sillogismo»), ma il parallelismo
con il sintagma coordinato orationum pugnantias induce a in-
trodurre un ben più corretto e coerente genitivo: singolare
(come fa P, che legge syllogismi) o, meglio, plurale (syllogi-
smorum, come emenda la tarda stampa V-”, che reca propria-
mente sylogismorum). L`errore della princeps è stata origina-
to, probabilmente, dalla caduta accidentale della r finale con
segno di abbreviazione delle lettere um. La lezione syllogi-
smorum è accolta del resto da buona parte degli editori mo-
derni (Semprini, Cicognani, Garin [1942 e 1 9941, Carena).
1 xo-I 1 1: «[1 Io] Agamur, Patres, agamur Socraticis furori-
bus, qui extra mentem ita nos ponant, ut mentem nostram et
nos ponant in Deo! [1 1 1] Agamur ab illis utique, si quid est
in nobis ipsi prius egerimus››. Così nella princeps, che nel1`er-
rata corrige segnala però la seguente emendazione: «agamur :
agemur››. Le stampe successive, in grande maggioranza, han-
no inteso questa correzione come riferita a tutti e tre gli aga-
mur del passo in questione, sostituendoli quindi con altret-
tanti agemur. Solo L ha, a mio avviso, interpretato corretta-
mente l`indicazione dell'errata, emendando in age/mir esclu-
sivamente il terzo agamur] e riportando il testo in questa for-
ma: «[ I Io] Agamur, Patres, agamur Socraticis furoribus, qui
extra mentem ita nos ponant, ut mentem nostram et nos po-
nant in Deo! [1 11]Agemur ab illis utique, si quid est in nobis
ipsi prius egerimus››. In tal forma, la lezione è ben altrimenti
soddisfacente: «[1 1o] Facciamoci rapire, o padri, facciamoci
rapire dai furori socratici, si che ci pongano a tal punto fuori
della nostra mente, da riporre noi e la nostra mente in Dio!
[1 1 1] E certo saremo rapiti da quei furori, se prima noi stessi
avremo guidato ciò che sta dentro di noi››. Dialtronde, i con-
giuntivi del § 1 1o si innestano nella sequenza di congiuntivi

7 Anche il Marchignoli, che si attiene al testo vulgato, osserva


tuttavia in nota (p. 118) che la correzione suggerita dall'errata della
princeps «potrebbe riferirsi anche solo all'ultima occorrenza» di
agamur.
I 62 NOTA AL TESTO E APPARATI

esortativi che caratterizza questa sezione dell'Oratio: videa-


mus (52), consulamus (69), consulamus (73), percontemur
(83), citemus (98), consulamus (1 zo), recenseamus (1 30). Tut-
ti gli editori optano per i tre agemur; fa eccezione il solo Cico-
gnani, il quale però (parimenti convinto che la correzione
dell'errata debba estendersi a tutti e tre gli agamur) accoglie
la soluzione qui proposta solo in base a considerazioni dina-
tura stilistica.8
241: «Plato, Diani quaedam de supremis scribens sub-
stantiis». Così (o nella forma Dyoni) nella maggior parte
delle stampe e anche nel luogo corrispondente dell'Apo1o-
gia; ma è evidente che si tratta di un'abbreviazione di Dio-
nisio, e così intendono infatti Bs'-Bsz (Dionys) e P (Diony).
Tutti gli editori stampano Dionisio o Dionysio.

Anche l'/lpologia si rivela utile per migliorare il testo del-


l'Orati0 tràdito dalle Commentationes bolognesi, limitata-
mente, s`intende, alla parte comune ai due scritti. Come ab-
biamo già detto, infatti, Pico, nel proemio dell'/lpologia
riutilizzò la seconda parte dell`Orati0 (corrispondente ai §§
153-154 e 158-266 della presente edizione); e poiché l'Apo-
logia apparve, prima che nelle Commentationes, in una
stampa autonoma, datata nel colophon <<3r maggio 1487»
(A), ciò significa che - per la parte dell'Oratio inclusa in
quest'opera - noidisponiamo di un testimone indipenden-
te dalla princeps. E vero che Pico, nel recuperare all'interno
dell'/lpologia la seconda parte dell'Oratio, vi apportò qual-
che aggiunta e qualche modifica; si tratta però di interventi
sporadicif) e d'altra parte la rapidità con cui l'opera fu com-

8 CICOGNANI, pp. 32-33: «L'incunabulo à agamur; ma nell`“erra-


ta-corrige" in fondo all`incunabulo stesso agamur è corretto in age-
mur. E agemur portano le edizioni successive. Ciò nonostante io ò
mantenuto agamur, perché l'esortativo mi sembra risponda meglio
alla concitazione del momento».
9 Cfr. qui Appendice, II, pp. 155-56, dove sono riportate le ag-
giunte introdotte nell”/lpologia rispetto al testo della princeps. Le
varianti di minore entità sono invece segnalate in apparato; alcune
NOTA AL TESTO 16 3

posta (stesa in venti notti, «properanti stilo», secondo le


parole dello stesso Pico) induce a credere che la ripresa del-
la seconda parte dell'Orati0 sia stata, per forza di cose,
complessivamente fedele e quasi pedissequa. Quindi, an-
che se con qualche dubbio e con la necessaria cautela, ri-
tengo legittimo appoggiarmi alla testimonianza dell'Apolo-
gia per emendare, in alcuni luoghi, il testo dell'Oratio. Si
tratta delle seguenti lezioni:

1 62: «Quo forte fit ut et Caldei in eius genesi qui philo-


sophus sit futurus illud desiderent, ut Mars et Mercurium tri-
quetro aspectu conspiciat››. Così nella princeps e in numerose
altre stampe (L, M, P, R, V' , W); ma senza dubbio poziore è
la lezione dell'/lpologiaz «ut Mars Mercurium triquetro
aspectu conspiciat» (trad.: «Forse è per questo motivo che
anche i Caldei, nell'oroscopo di colui che è destinato ad esse-
re filosofo, richiedono che Marte guardi Mercurio con aspet-
to trigonale››). Lo conferma anche la redazione trasmessa da
F, che parimenti omette et (§ 1 3 1 ); e senza et riportano il pas-
so anche tre delle stampe da me esaminate (Bs', Bsz, S). Fra gli
editori moderni, la et è conservata da Tognon, Marchignoli e
Progetto Pico, ma è soppressa da Semprini, Cicognani, Garin
(1942 e 1 994) e Carena.
165: «Forte et illud Iob afferre possem, spiritum esse spi-
ritum esse in omnibus, et cum Timotheo audire: “Nemo
contemnat adolescientiam tuam"››. La ripetizione di spiri-
tum esse si trova in tutte le stampe (ad eccezione di Bszç V-'
legge spiritum esse spiritum), ed è accolta anche da qualche
editore (Tognon, Marchignoli, Progetto Pico); che si tratti
di un errore lo conferma l'/lpologia, dove la ripetizione è
eliminata. Alla lezione dell'/lpologia si attengono Semprini,
Cicognani, Garin (1942 e 1994) e Catena.

di esse riguardano i passi in cui Pico, nell'Oratio, alludeva - par-


lando al presente o al futuro, oppure rivolgendosi ai partecipanti -
all'imminente svolgimento della disputa (cfr. §§ 154, 17o, 174,
206-207, 217, 247).
164 NOTA AL TESTO E APPARATI
175: <<Quin et iuxta poetam: “Si deficiant vires, audacia
certe I laus erit: in magnis et voluisse sat est”››. Così in tutte
le stampe dell'Oratio. La citazione è desunta da PROPERZIO,
Il 1o, 5-6, dove però la tradizione manoscritta e a stampa
legge concordemente deficiant, come fa - nel luogo corri-
spondente - anche l'/lpologia. E deficiant sarà dunque la le-
zione da accogliere a testo (seguendo Semprini, Cicognani,
Garin [1942 e 1994] e Carena, mentre conservano deficiant
Tognon, Marchignoli e il Progetto Pico).
178: «Ego vero non superfluo modo, sed necessario fac-
tum hoc a me contendo; quod et si ipsi mecum philosophan-
di rationem considerarent, inviti etiam fateantur plane ne-
cesse est››. Mecum è lezione di tutte le stampe, accolta da
tutti gli editori; credo però migliore (e trasferisco dunque a
testo) la lezione dell'./lpologia, che nel passo corrispondente
reca meam; Pico, infatti, sta qui invitando i suoi avversari a
considerare bene il suo metodo di filosofare, che (essendo
fondato sulliesame di tutte le scuole e di tutti gli autori) gli
ha imposto di sottoporre alla discussione un gran numero di
tesi. Così in traduzione: «Io, invece, sostengo che quanto ho
fatto non è superfluo, ma necessario; il che, se costoro con-
siderassero il mio metodo di filosofare, anche di malavoglia
sarebbero costretti a confessare apertamente».
208: «a Pythagora presertim, ab Aglaopheno». Così in
tutti i testimoni dell”Oratz'o; ma si tratta certo di un errore
di stampa, e la lezione corretta e quella dell'/lpologia, che
reca Aglaopbemo.'° Tra gli editori moderni, stampano
Aglaoplaemo Cicognani e Marchignoli; Tognon si attiene ai
testimoni (e accoglie dunque Aglaopbeno); Semprini, Garin
(1942 e 1994) e Carena, invece, mettono a testo -inspiega-
bilmente - Aglaoplyamo.
2o9: «Scribit Plato in Epimonide››. Così in tutti i testimo-
ni; ma si tratta di un evidente errore di stampa, corretto

1° Per la forma esatta del nome, cfr. qui il commento alla reda-
zione definitiva, § 208.
NOTA AL TESTO 1 65
nell'Apologia (ma solo in A, giacché A' presenta il medesi-
mo refuso, mentre A2 legge Epimeaide). Del resto, in tre
delle Conclasiones e nel Commento sopra una canzona de
amore di Girolamo Benivieni il titolo del dialogo platonico
è riportato nella forma corretta." Epiaomide è anche lezio-
ne di tutti i moderni editori dell'Oratio.
244: «Quod maxime confirmat Dionysius Areopagita,
qui secretiora mysteria a nostrae religionis auctoribus [...]
idest ex animo in animum, sine litteris, medio intercedente
verbo ait fuisse transfusa››. La princeps, e la sua contraffa-
zione lionese, non disponendo di caratteri greci, recano
uno spazio bianco al posto della citazione dallo Pseudo-
Dionigi Areopagita; la lacuna fu colmata dalle stampe basi-
leensi (Bs' e Bs2), che - seguite da tutti gli editori moderni -
riportano la citazione in questa forma: ÈK voòç sig voñv,
ötà ttéoou Àóyou (De ecclesiastica /Jierarcbia, I 4, in PG III,
376). Credo però che il testo greco da citare sia più ampio,
e coincida con quello che le suddette stampe basileensi ri-
portano nel passo corrispondente dell'Apologia: àlc voòç,
sig voôv, ôtà uéoou Aóyou ocouatucoñ pàv, àvkótápou ôà
öpcoç, ypotcpñg eictòg (“da intelligenza a intelligenza, me-
diante parole, sensibili sì, ma tuttavia più immateriali per-
ché fuori da ogni scritto”).12 E ne sono convinto perché la
traduzione - sia pure abbreviata - fornita da Pico presup-
pone anche le parole che seguono («sine litteris›› corrispon-
de al greco ypacbfig e1<tòg);“ e inoltre perché la lacuna reca-
ta dalla princeps dell'Oratio (nonché da A e A') in luogo
della citazione greca si estende per oltre un rigo, presuppo-
nendo così un testo più lungo di quello riportato da Bs' e
Bs2, e meglio adattandosi al testo che le medesime stampe
basileensi citano nel luogo corrispondente dell'Apologia.

" Cfr. Conelusiones, pp. 98-1oo (= Conclasiones in doctrinam


Platonis, 32-34: «in Epinomide››); Commento II, 13, p. 5oz («nel
Epinomia'e››). Per A2 vedi oltre, p. 1 82.
'Z Cfr. il commento alla redazione definitiva, § 244.
U Cfr. BAUSI, Nec rbetor, p. 1 14.
166 NOTA AL TESTO E APPARATI

Per i rapporti fra la cosiddetta «prima redazione» del-


l›Oratio, trasmessa dal ms. F, e il testo definitivo, rimando
all”Introduzione e a quanto si dirà più avanti in questa stessa
Nota. È indubbio che la testimonianza di F, essendo relati-
va a uno stadio redazionale diverso da quello attestato dalle
stampe, debba essere impiegata con estrema cautela nell'e-
mendare la lezione fornita da queste ultime. Nondimeno,
l'operazione non è illegittima, poiché larghe porzioni del
testo di F coincidono (fatte salve alcune aggiunte, omissioni
e varianti, generalmente di non grande entità) col testo del-
la redazione definitiva; e il manoscritto Palatino - pur non
privo di alcuni evidenti errori - può dunque rivelarsi estre-
mamente utile per migliorare la lezione della princeps. Un
caso, come quello sopra esaminato, del § 162 (dove la lezio-
ne sicuramente poziore dell'Apologia trova riscontro - con-
tro quella della princeps - in F) conferma d`altronde l'im-
portanza ecdotica di F anche ai fini della costituzione del
testo dell'ultima redazione dell”Oratio. Sarà necessaria, co-
munque, la massima cautela, limitando gli interventi ai soli
casi più sicuri o probabili, confermati come tali o da ragioni
di natura linguistica e stilistica, o dal confronto con analo-
ghi comportamenti adottati da Giovan Francesco nella
stampa di altri scritti dello zio (precede sempre la lezione
delle stampe, accolta dagli editori moderni):

I 1 «excrementarias ac faeculentas inferioris mundi partes


omnigena animalium turba complerat››. Dalla lezione di F
(«has mundi inferiores partes››), pur viziata da una proba-
bile banalizzazione (inferiores per inferioris), accolgo il pro-
nome dimostrativo in caso accusativo has, verosimilmente
caduto nella princeps per omeoteleuto («feculentas bas››).
17: «Statuit tandem optimus opifex ut cui dari nihil pro-
prium poterat, commune esset quicquid privatum singulis
fuerat». La lezione di F (<<ei commune››) sembra decisa-
mente preferibile dal punto di vista sintattico.
35: «et Pythagorici scelestos homines in bruta deformant
et, si Empedocli creditur, etiam in plantas». Anche in que-
NOTA AL TESTO 1 67
sto caso preferisco seguire F (che legge: «et in bruta››), giac-
ché il non raro ricorso al polisindeto è caratteristico dell'ar-
tificioso e ricercato stile dell'Oratio (ed è quindi probabile
che la et sia caduta per omissione meccanica, piuttosto che
sia stata eliminata da Pico nel passaggio alla redazione defi-
nitiva).

47: «Invadat animum sacra quaedam ambitio». Accolgo la


lezione di F («et Iunonia ambitio››), che fu con ogni probabi-
lità 'ritoccata` da Giovan Francesco Pico, il quale, allestendo
i testi dello zio per l'editio princeps, intervenne qua e là per
eliminare alcuni nomi mitologici.'4 Il fenomeno si verifica,
come ho mostrato altrove, soprattutto nelle epistole. Nella
lettera al Barbaro De genere dicendiplailosoplaorum troviamo
veneres sostituito con gratiae (§ 1o), ita Hercules con ita porro
(§ 1 2), Iouis con caeli (§ 47), nonché la soppressione di un in-
tero periodo in cui si menziona il peplo di Pallade (§ 38:
«Alioqui Palladis peplum non revelaret, sed a sacris uti pro-
fana repelleretur»).'5 Nell'epistola a Lorenzo de` Medici,
Giovan Francesco ha eliminato le allusioni a Venere e ai Suoi
figli (S 4: «ludentem cum filiis Venerem››), a Ercole (§ 24:
«me hercle››) e agli dei (§ 26: «dii boni›>).“° In una lettera al
Poliziano, ut dii volunt fu sostituito con ut deus 1›ult;l7 una

“ BORI, Pluralíla, p. 8 3, sottolinea la «sostanziale attendibilità di


Giovan Francesco editore, almeno per quanla riguarda l'Oratio››; di
vere e proprie «textual adulterations» operate da Giovan France-
sco parla invece FARMER, Syncretism, pp. 46 e 164-71 (e, su Giovan
Francesco editore delle opere dello zio, anche ibid., pp. 152-64, ol-
tre a DI NAPOLI, Gio:/anniPico, pp. 261-70). In effetti, gli interven-
ti attribuibili con una qualche sicurezza a Giovan Francesco non
sono né molti né cospicui; ma resta il legittimo dubbio che anche in
altri casi (cfr. qui oltre, pp. 170-71 e nota 22) egli abbia apportato
tagli o modifiche di varia natura al testo originale dell`Oralio.
15 BARBARO-Pico DELLA MTRANDOLA, Filosofia 0 eloquenziú, pp.
171-72.
'° Cfr. Epistola a Lorenzo de' Medici, p. 12.
'7 Cfr. quanto Scrive in merito, riferendosi alla Seconda centuria
dei Miscellanea del Poliziano, Vittore Branca: «savonaroliana è la
sistematica correzione del solito umanistico-paganeggiante dei, per
1 68 NOTA AL TESTO E APPARATI

lettera al Ficino subì ben tre interventi correttôri, che porta-


rono a sopprimere la menzione di due divinità pagane («et
cum love, si dici fas, de felicitate contendam?››; «et hercle››) e
a sostituire, nuovamente, dii boni con deus bone.13 Per altri
casi analoghi cfr. qui Sotto, §§ 104 e I 3 5.
104: «Quid enim aliud sibi volunt in Graecorum archa-
nis observati initiatorum gradus, quibus primo per illas
quas diximus quasi februales artes, moralem et dialecticam,
purificatis, contingebat mysteriorum susceptio?». Alla luce
delle osservazioni prima proposte riguardo al § 47, credo
indubbio che la lezione di F («primo hercle››) sia da preferi-
re, e che l'eliminazione di bercle si debba (qui come in alcu-
ne epistole: vedi sopra) a Giovan Francesco Pico.
1 14: «Sacra Apollinis nomina, si quis eorum significan-
tias et latitantia perscrutetur mysteria, satis ostendunt esse
Deum illum non minus philosophum quam vatem››. F legge
ostendent, che accolgo a testo perché nei luoghi paralleli di
questa sezione del testo ricorre sempre, in contesti analo-
ghi, il futuro: cfr. i §§ 69-70 («Consulamus Paulum aposto-
lum [...] Respondebit››), 73-74 («consulamus Iacob patriar-
cham [...] Admonebit››), 8 3 (<<PercOntemur et iustum Iob
[...] respondebit››), 98-99 (<<Citemus et Mosen [...] Audie-
mus››), 1 15 («sed subeant animum, patres, tria Delphiea
precepta [...] videbitis››), 120-21 («ConSulamus et Pythago-
ram [...] Precipiet››), 130 («Recenseamus et Chaldeorum
monumenta: videbimus››).

riferirsi O rivolgersi all'ente supremo, in Deus» (V. BRANCA, L'intesa


Pico-Poliziano e una lezione comune sulla dignità e la libera coscien-
Zu clell'uo/no, in De bominis dignitate. La alignitzì dell'uomo, a cura
di C. CARENA e V. BRANCA, Milano, Silvio Berlusconi Editore,
1995, p. LXXX).
18 Cfr. F. BAUSI, Per l'epistolario di Giovanni Pico della Mirando-
la, in Laurentia laurus. Studi di letteratura quattroeentesca in onore
di Mario Martelli, Messina, Centro di Studi Urnanistici, in corso di
stampa. La lettera al Poliziano (incipit «Nec urbanius unquam››) e
quella al Ficino (incipit «Non poteras opportunius››) sono nelle pi-
chiane Commentationes, rispettivamente f. SS v r e TT i ti -ii r.
NOTA AL TESTO 1 69

1 15: «qui non fieti, sed veri Apollinis [...] sacrosanctum


et augustissimum templum ingressuri sunt››. Accolgo a te-
sto la difficilior di F («introgressuri››) visto che Pico, nel
passaggio alla redazione definitiva, incrementa - piuttosto
che attenuarlo - il grado di elaborazione stilistica e lingui-
stica del dettato.'°
135: «per theologicam pietatem et sacratissimum Dei
cultum››. In F si legge, in luogo di Dei, deorum, che fu vero-
similmente *corretto' - come in altri casi- da Giovan Fran-
cesco (cfr. sopra quanto si è osservato a proposito del § 47).
1 84: «nec potest ex omnibus sibi recte propriam selegis-
se, qui omnes prius familiariter non agnoverit». La lezione
di F («familiaritates››) è da considerarsi difficilior (nel senso
di “compagnia”, familiaritas è in Tacito, Ann., XV, 50 e in
Svetonio, Tib., 51, 2); accogliendola, riferisco propriam, per
zeugma, a un sottinteso familiaritatem, e traduco nel modo
seguente: «né, fra tutte, può scegliere convenientemente la
propria compagnia chi prima non le abbia conosciute tutte
quante».2°
190: «Pretereo magis novitios, Proculum Asiatica fertili-
tate luxuriantem, et qui ab eo fluxerunt, Hermiam, Dama-
scum, Olympiodorum et complures alios››. Migliore, ovvia-
mente, la lezione di F («Damascium››), accolta peraltro
dalla quasi totalità degli editori.
191: «si qua est secta quae veriora incessat dogmata et
bonas causas ingenii calumnia ludificetur, ea veritatem fir-

'9 Il verbo introgredior, usato - come qui - transitivamente, è in


Stazio e negli autori cristiani (con l'accusativo templum è in TER-
TuLL1ANo,Ieiun., 1o). Cfr. BAUSI, Nec rbetor, p. 139.
N Quel propriam, in effetti, ha creato qualche imbarazzo ai tra-
duttori: «non può scegliersi fra tutte quella vera [scil scuola] se
prima non ha avuto famigliarità con tutte» (SEMPRINI); «né fra tut-
te può scegliersi rettamente la Sua propria [scuola] chi prima tutte
non le abbia familiarmente conosciute» (CICOGNANl); «non può
scegliere fra tutte la sua via, chi prima non le ha esaminate a fondo
tutte›› (GARIN [1994]).
I 70 NOTA AL TESTO E APPARATI

mat, non infirmat››. Anche in questo caso, la lezione di F


(heresis per seeta) sembra da preferire: qui infatti baeresis
vale semplicemente 'dottrina', 'scuola filosofica' (secondo
un'accezione propria già del latino classico), così come -
nella prefazione delle Conclusione: - /aaeresiarc/aa significa
*filosofo', 'seguace (o iniziatore) di una dottrina filosofi-
ca'.21 La prudenziale correzione in secta dovrà attribuirsi, al
solito, a Giovan Francesco Pico.

Mi astengo dall'intervenire, invece, in casi nei quali la


paternità di certe correzioni potrebbe forse con maggior
fondamento essere attribuita allo stesso Giovanni Pico. Mi
riferisco ai luoghi seguenti (precede sempre, al solito, la le-
zione della prima stampa):

1 Abdalam Sarracenum] Abdalam prophetam Sarrace-


num F
3 quod Persae dicunt] Magi F
29 caeleste evadet animal] demon evadet et coeleste ani-
mal F
37 nec caelum orbiculatum corpus] demonem F
73 Et ne nobis nostri sufficiant, consulamus Iacob pa-
triarcham] Et ne nobis nostra sufficiant, veteris legis myste-
ria perscrutemur. Consulamus Iacob patriarcham F

È possibile che, anche in casi del genere, a introdurre si-


mili modifiche sia stato Giovan Francesco, animato - come
è noto - da ferventi ideali savonaroliani e propenso a inter-
pretare alla luce di essi tutta la vita e l'opera dello zio; nel
dubbio, però, preferisco attenermi alla princeps, perché Pi-
co, nell'approdo alla redazione definitiva dell'Oratio, ha

2' Conclusiones, p. 6 (joannes Picus Mirandulae lectori): «Sunt


autem disputanda dogmata, quod ad gentes attinet et ipsos baere-
siarcbas, seorsum posita» (male traduce qui Albano Biondi: «mae-
stri stessi dell'eresia››; basti pensare che fra questi pensatori sono
compresi anche Alberto Magno, Tommaso d'Aquino e altri filosofi
del medioevo cristiano).
NOTA AL TESTO I7I

eliminato o attenuato, in più di una circostanza, certi ac-


cenni ad elementi magici, misterici o esoterici potenzial-
mente interpretabili come eterodosSi.22
I-Io inoltre introdotto due emendazioni congetturali nei
luoghi seguenti:

93: «Ad illam ipsa et viam monstrabit et comes ducet,


quae procul nos videns properantes “Venite - inclamabit -
ad me qui laborastis, venite et ego reficiam vos [...]››. A nor-
ma della fonte evangelica (Mt., 1 1, 28: «Venite ad me om-
nes qui laboratis et onerati estis, et ego reficiam vos››), labo-
rastis dovrà correggersi in laboratis.

230: cognitionem] cognationem (cfr. qui Addendum,


p. 192).

Un problema a parte è quello costituito dalle parole e dal-


le citazioni ebraiche e caldaiche incluse nell'Oratio. Nessuna
delle prime stampe le riporta, sostituendole con “finestre”
bianche; tali lacune sono colmate solo a partire dalle due
stampe basileensi (Bs' e Bsz), alle quali si attengono, nella fat-
tispecie, tutti gli editori moderni (ad eccezione, come vedre-
mo, del Marchignoli). Le soluzioni di Bs' e Bs2 non sono però
sempre accettabili. Esaminiamo prima i termini ebraicizzi

35: «Nam et Hebreorum theologia secretior nunc Enoch


sanctum in angelum divinitatis, quem vocant ›'1J¬:›W›'1 '[N'7n,
nunc in alia alios numina reformant››. Così le stampe di Ba-
silea; mentre in F la parola ebraica è ['!¬bt:b (= Me_ta_tr0n).
Come osserva Wirszubski,24 quella delle stampe basileensi
è con ogni probabilità una retroversione dal latino ('\N5t:
.¬J¬:w.¬ = mal'a/e ba-šekinali = angelum divinitatis); la lezio-

22 Cfr. qui più avanti, pp. 178-79. Meno cauto, a questo propo-
sito, FARMER, Syncretism, p. 171.
Z3 Per quanto segue, nonché per alcune utili indicazioni biblio-
grafiche, ho beneficiato dell'esperta consulenza dell'amico e colle-
ga Fabrizio Lelli, che ringrazio cordialmente.
24 WIRSZUBSKI, Encounter, pp. 199-200.
I 72 NOTA AL TESTO E APPARATI

ne di F, invece, è preferibile (ed è quindi da me accolta a te-


sto), essendo confermata da un passo del Commento sopra
una canzona d'amore di Gerolamo Benivieni (cfr. qui il com-
mento alla redazione definitiva dell'Oratio, § 35).
161: «Nec crediderim ego aut poetas aliud per decantata
Palladis arma, aut Hebreos, cum 51¬: ferrum sapientum
symbolum esse dicunt, significasse nobis quam honestissi-
ma hoc genus certamina adipiscendae sapientiae oppido
quam necessaria». Questa la lezione di Bs' e B32; ma decisa-
mente migliore, ancora una volta, sembra il testo di F, che
reca: «cum 51¬:, idest ferrum, ¦¬1::l'\n'7v, idest sapientum
symbolum esse dicunt, significasse nobis [...]». L'impressio-
ne è che nel testo della princeps (Seguìto da tutte le altre
stampe, e completato dalle basileensi con il termine ebraico
'71¬: = barzel, `ferro`) sia caduto accidentalmente, in en-
trambi i casi, idest (sempre presente, nell`Oratio, quando
viene introdotta la traduzione latina di parole o espressioni
greche e caldaiche); e che accidentalmente sia stata omessa
anche la “finestra” corrispondente all'ebraico |:¬t::|¬n'7w (=
šel /aa-bakamim, “dei sapienti'). Accolgo dunque a testo la
lezione, più completa e soddisfacente, di F25

Passiamo ora alle citazioni in “caldaico':

44: «Hinc illud Chaldeorum ¬n 'ava n-mar: num ¬uw mn mas,


idest homo variae ac multiformis et desultoriae naturae ani-
mal››. Così Bs' e Bsz, che - operando presumibilmente, al so-
lito, una retroversione dal latino -introducono una frase «in
awkward and ungrammatical Hebrew, printed in Hebrew
characters››.2(° Ma F reca una lezione ben più interessante e -

25 L'Apologia, nel passo corrispondente, omette sia i due idest,


sia i due spazi bianchi, riportando un testo così semplificato: «aut
Hebreos, cum ferrum sapientum symbolum esse dicunt››.
2° Cfr. WIRSZUBSKI, Encounter, p. 241. La frase in ebraico vale
infatti «homo est animal naturae variae et vagae et mutantis se huc
et illuc» (ibid., p. 242).
NOTA AL TESTO 1 73

credo - più vicina all'originale: si tratta infatti di una citazio-


ne vergata in una lingua composita, decifrata da Wirszubski
come un misto di aramaico ed ebraico scritto in caratteri
etiopici. La frase è così traslitterata dallo stesso Wirszubski:
«b-r-n-s h h-y m(i)-t-b-m(i)-s-t(a)-n(e) W-n-d-d(o) w-m-h-l-
?-t g-r-m(a)-h k W-k».27 L'unica altra persona che, a quanto si
sa, scriveva citazioni caldaiche in caratteri etiopici era il pre-
cettore e traduttore di Pico, Flavio Mitridate,” dal quale il
Mirandolano apprese evidentemente questa composita lin-
gua `caldaica', e che gli fornì (secondo alcuni, confezionando
dei veri e propri falsi)2° i testi caldaici da lui utilizzati e citati
nell'Oratio e nelle Conclusiones. Nella presente edizione, co-
munque, data l'oscurità e l'incertezza di questa citazione
'caldaica' (la cui fonte, inoltre, resta irreperibile), ho preferi-
to - come già il Marchignoli - non accogliere a testo la traslit-
terazione del Wirszubski, contrassegnando con [...] la lacuna
corrispondente.
134: «Nomen ei qui ab aquilone [...], quod “rectum” de-
notat; ei qui ab occasu [...], quod “expiationem" significat;
ei qui ab ortu [...], quod “lumen” sonat; ei qui a meridie
[...], quod nos “pietatem” interpretati possumus». I nomi
attribuiti da Zoroastro ai quattro fiumi paradisiaci sono la-
sciati in bianco dalle prime Stampe; Bs' e Bs2, cui si attengo-
no gli editori moderni, leggono i nomi in questa forma: <<Pi-
schon››, «Dichon» (ma da emendare in «Gichon››),
«Chiddekel›› e «Perath››. Si tratta di traslitterazioni dall'e-
braico, in luogo delle quali F presenta quattro nomi vergati
ancora una volta in caratteri etiopici: «q-s-t››, «k-P-r-n», «n-
h-r››, «r-h-m-n-t››. Scrive Wirszubski al riguardo: <<The first
name is HWP, which is the Syriac form of the general Ara-

27 Cfr. ibid., e ID., Introduction to FLAVIUS NIITHRIDATES, Sermo


de passione Domini, p. 38.
2” Cfr. FLAVIUS M1T1-1R1DATES, Sermo de passione Domini, pp. 35-
36, 96, 1 17; e ancora WIRSZUBSKI, Encounter, p. 242.
29 Cfr. FARMER, Syncretism, pp. 13, 146, 486-87. Ma quest'ipote-
si era già stata avanzata alla fine del XVIII secolo dajakob Brucker
(cfr. ZAMBELLI, Lapprendista stregone, p. 24).
I 74 NOTA AL TESTO E APPARATI

maic tmp, meaning “truth”. The second name is in all like-


lihood the Hebrew ]¬b:, which means “atonement”. The
third name is clearly the Aramaic ¬flJ or N¬1flJ, “light”. The
fourth is the Hebrew n:1:›n¬, “compassion”››.3° Come nel ca-
so precedente (§ 44), ritengo preferibile, per le stesse ragio-
ni, non inserire a testo le traslitterazioni del Wirszubski, e
contrassegnare con [...] le quattro lacune corrispondenti.

Per quanto riguarda il titolo, ho ritenuto opportuno adot-


tare quello ormai vulgato, introdotto primamente nella stam-
pa di Strasburgo del 1504 (De hominis dignitate)“ e ripreso
poi da I/7 e dalle stampe basileensi;32 mentre la princeps - cui
si attengono, sotto questo aspetto, anche L, M, P, R, V' - de-
signa l'orazione semplicemente come Oratio quaedam ele-
gantissima (nel sommario del volume) e come Oratio Ioannis
PiciMiran. Concordiae Comitis (nell`intitolazione del testo).
Dal punto di vista grafico, ho conservato in linea genera-
le (in assenza dell'autografo) le particolarità della princeps,
intervenendo tuttavia per regolarizzare, secondo le più con-
suete norme umanistiche, alcune minime difformità (relati-
ve soprattutto all'uso di x e y). Ho sciolto le abbreviazioni;
ho uniformato all'uSo moderno l`interpunzione, le maiu-
scole e le minuscole, la distinzione u / 11; ho introdotto la
commatizzazione, con identiche modalità nel testo latino e
nella traduzione italiana. Il commento mira essenzialmente
a render conto delle fonti utilizzate da Pico e, in seconda
istanza, a chiarire le linee portanti dell`argomentazione e ad

3° \)(/IRSZUBSKI, Encounter, p. 242; ID., Introduction to FLAVIUS


MITHIUDATES, Sermo de passione Domini, p. 39.
3' In questa stampa il testo è preceduto dal titolo De bominis di-
gnitale Ioannis Pici Mirandulae Concordiae Comitis oratio; in calce
si legge: Ioannis Pici Mirandulae orationis de bominis dignitate fi-
nis. Nel sommario del volume, invece, ricorre il titolo della prima
stampa: Oratio quaedam elegantissima.
32 In V2 l'Oratz'o è intitolata Oratio loannis Pici Mirand. Concor-
diae Comitis; ma nel sommario del volume l'intitolazione è Oratio
quam dignissima de bominis celsitudine et dignitate.
NOTA AL TESTO 1 75
illustrare - nei passi più significativi - la complessa elabora-
zione stilistico-retorica del dettato. La traduzione vuole in-
nanzitutto essere una traduzione “di servizio', nell`intento
di affiancarsi, più che di sostituirsi, al testo latino: pertanto
evita di *glossare' il testo (operazione resa superflua dalla
presenza di un ampio commentario), e si propone - anche
a costo di qualche 'durezza' - la massima fedeltà alla lettera
dell'originale.

Nella prima sezione dell'Appendice pubblico integral-


mente la cosiddetta prima redazione dell'Oratio, trasmessa
- come più volte ricordato - dal solo ms. Palatino 885 della
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze” Il testo appare
caratterizzato qua e là da alcune banalizzazioni (1 1 inferio-
res; 25 vulva; 30 quae; 37 spiritualis; 41 et quis; 55 inferio-
rem; 103 meridionalis), da due probabili salti du même au
même (40: hic non terrenum, non caeleste animal om.: 99
della redaz. definitiva = 85 F: Qui polluti adhuc morali in-
digent cum plebe habitent extra tabernaculum sub divo
quasi Thessali sacerdotes interim se expiantes om.) e da
svariati lapsus calami: solo su questi ultimi sono intervenu-
to, emendandoli secondo le corrispondenti lezioni della re-
dazione definitiva (35 me angelum > in angelum; 78 fames
> fomes; 80 detinent > detinet; 94 virtutem > virtutum; 103
liniemus > lineemus; 107 spiritualibus > spiritibus; 108 iux-
ta > et iuxta; 1 19 nec > nec potest; 127 veritatem > ea veri-
tatem; 133 accepit > accipit). Un altro possibile errore è
forse individuabile nel passo seguente:

105: «Haec est illa lux meridialis quae Seraphinos cre-


mat, inflammat ad lineam et Cherubinos illuminat››. La le-
zione induce a sospettare un guasto testuale: si potrebbe
supporre che sia caduto l'oggetto di inflammat ad lineam, e

” Questa precedente redazione fu edita per la prima volta da EU-


GENIO GARIN (La culturafilosofica, pp. 23 3-40), in un testo viziato da
numerose e gravi mende (cfr. BAUSI, Nec r/Jetor, pp. 107- 108).
I 76 NOTA AL TESTO E APPARATI

che questo fosse costituito da un altro ordine angelico, i


Troni (T/oronos). Sarebbe in tal modo ripristinato il paralle-
lismo della frase (tre oggetti, tre verbi), tipico dello stile pi-
chiano e Soprattutto dell'Oratio (cfr. ad esempio 54 F: «Ar-
det Seraph charitatis igne; fulget Cherub intelligentiae
splendore; stat Thronus iudicii firmitate››). Fra l'altro, rap-
presentando i Troni la saldezza del giudizio, ad essi si addi-
ce perfettamente l'espressione «inflammat ad lineam» (cioè
'in linea retta', “a perpendicolo`; cfr. 55 F: «Igitur si actuo-
sae addicti vitae inferiorem curam recto examine susceperi-
mus, Thronorum stata soliditate firmabimur››); così come,
d'altra parte, cremat ben si attaglia all'ardore di carità che
brucia i Serafini (cfr. la nota al § 54 della redazione definiti-
va). Mi astengo, comunque, dall`intervenire; così come non
intervengo nel luogo corrispondente della redazione defini-
tiva (137: «quae Seraphinos ad lineam inflammat et Cheru-
binos pariter illuminat››), dove pure potrebbe essersi verifi-
cato un analogo guasto, con la caduta di due parole («quae
Seraphinos <cremat, Thronos> ad lineam inflammat et
Cherubinos pariter illuminat»), favorita dagli omeoptoti Sa-
raplainos : Tbronos e crema! : inflammat.

Nel pubblicare il testo di questa precedente redazione mi


attengo alla grafia del manoscritto, evitando di regolarizzarla
e di sanarne le difformità; provvedo, al Solito, a sciogliere le
abbreviazioni, a ricondurre all'uso moderno l'interpunzio-
ne, le maiuscole e le minuscole, a distinguere u da u, e a intro-
durre (con modalità analoghe a quelle della redazione defini-
tiva) la commatizzazione. Inoltre, per chiarezza, ho ritenuto
opportuno stampare in corsivo le parti che nella redazione
definitiva risultano o rielaborare o mancanti; e queste sono
anche, ovviamente, le uniche parti dotate di commento.
In questa sede è necessario affrontare, almeno per som-
mi capi, anche la complessa questione dei rapporti che in-
tercorrono fra le due redazioni note dell'Oratio.34 Secondo

3" Un esame più dettagliato della questione in BAUSI, Nec rbetor,


pp. 93-116.
NOTA AL TESTO I 77

Eugenio Garin, il Palatino 885 trasmette la prima redazio-


ne dell”operetta pichiana, anteriore al 12 novembre 1486:
data in cui Pico comunicò a Girolamo Benivieni di aver ag-
giunto all'orazione un elogio della pace che risulta in effetti
assente nella Stesura palatina. A conferma di questo, Garin
cita anche una lettera, non datata ma risalente all`autunno
del 1486, con cui Pico invia a Baldo Perugino un «carmen
de pace» da alcuni studiosi identificato con l'elogio della
pace mandato al Benivieni o, addirittura, con l'intera Ora-
tio” Ma Pico non avrebbe potuto definire «carmen» un te-
sto prosastico; e, inoltre, diversa doveva essere sia la mate-
ria che l`occasione dei due scritti. A Baldo, infatti, egli parla
di un «pro pace extemporaneum carmen» dettatogli dalle
notizie <<de rebus bellicis›› che l`amico gli aveva comunica-
to; al Benivieni, invece, dice di aver composto <<de pace
quedam ad philosophie laudes facientia», stimolato dalla
lettura di un passo del vangelo di Giovanni («Pacem relin-
quo vobis, pacem meam do vobis: non quomodo mundus
dat, ego do vobis››: cfr. Iob., 14, 27).*
L'esame del manoscritto palatino rafforza i dubbi sulla
ricostruzione comunemente accettata. La redazione da esso
trasmessa manca, è vero, del brano sulla pace (probabil-
mente corrispondente ai §§ 87-97 della presente edizione:
da «Multiplex profecto›› a «dixerunt sapientes»),37 ma la

35 Cfr. GARIN, La cultura filosofica, p. 231. Le lettere di Pico al


Benivieni e a Baldo Perugino sono pubblicate da DOREZ, Lettres
inédites, rispettivamente pp. 358 e 357.
3° Il pichiano carmen de pace dovrebbe essere il carme latino in-
titolato Ad Deum deprecatio ut bella tollat, quae per totam fre/nunt
Italiam (cfr. qui l'Introduzione, nota 28).
37 Dal punto di vista del contenuto, il passo in questione corri-
sponde perfettamente alle parole pichiane della lettera al Benivieni
(«de pace quedam ad philosophie laudes facientia››): in esso, infat-
ti, Pico si sofferma sul potere che la filosofia (nelle sue varie bran-
che: morale, dialettica, naturale) ha di condurre progressivamente
l`uomo verso quella pace interiore di cui soltanto la teologia, poi,
può garantirgli la piena fruizione. Anche l'analisi strutturale di
questa sezione dell'Oratio conferma tale conclusione: l`intera pagi-
I NOTA AL TESTO E APPARATI

lacuna relativa si estende anche a un breve passo immedia-


tamente precedente («iniit cum Deo iactari conqueri-
tur››: §§ 83-86), in maniera tale che il testo non dà Senso:
«Percontemur et iustum Iob, qui fedus citemus et Mosen
ipsum [...]», recita infatti il Palatino 885, senza evidenziare
in alcun modo il punto in cui avviene la frattura (dopo fe-
dus)38. Ci troviamo di fronte, insomma, a una lacuna mec-
canica, imputabile forse (per caduta di carte?) all`esempla-
re da cui copiò lo scriba del Palatino, o semplicemente alla
trascuratezza di quest'ultimo (che, in effetti, incorre non di
rado in errori, sviste, salti e omissioni). Il Palatino presenta
altre due lacune in tutto analoghe a questa (riguardanti l'u-
na il passo sui furori socratici: «sacris initiari fecit nos››,
§§ 107-1 13; l'altra il brano sui symbola pitagorici: «sapien-
tissimum, ob id debere se dixit», §§ 120-129): lacune che
determinano altrettanti guasti nel testo, e che, al pari della
precedente, dovranno attribuirsi a semplici accidenti di tra-
smissione.
Detto questo, è però indubbio che quella del Palatino
885 sia una redazione dell'Oratio diversa e anteriore rispet-
to a quella vulgata. Le differenze sono notevoli, e interessa-
no, quasi sempre, brani che Pico, nella stesura finale, decise
poi di modificare - con ogni probabilità - per allontanare
da sé quei sospetti di eterodossia e di eresia precocemente
suscitati dalle Conclusiones. Nel passaggio dalla redazione
palatina a quella definitiva, infatti, oltre ad alcuni minori
accenni ai demoni, agli dei e ai «mysteria›› (cfr. qui sopra, p.

na è infatti scandita da una triplice anafora variata (§ 73 «consula-


mus Iacob patriarcham»; § 83 «percontemur et iustum Iob››; § 98
«citemus et Mosen ipsum››), il cui sviluppo risulta interrotto o, co-
munque, dilatato in modo abnorme dalla presenza del lungo excur-
sus sulla pace, che, anche per questo motivo, È legittimo supporre
aggiunto solo in un secondo e più tardo momento.
38 Nel testo, infatti, si passa da fedus a citemus (scritto con l'ini-
ziale minuscola) senza soluzione di continuità e senza alcun segno
di interpunzione; tra le due parole, infatti, è visibile solo una lette-
ra (forse una t) sbarrata.
NOTA AL TESTO 1 79

170), scompaiono la menzione dell'ebreo convertito Gu-


glielmo Raimondo de Moncada, detto Flavio Mitridate
(ambiguo personaggio, fuggito da Romanel 1483 perché
coinvolto in un misterioso caso di omicidio, e arrestato a
Viterbo nel 1489: cfr. § 1 13);” l'accenno all'importanza
della sapienza ebraica, caldea e araba (§ 1 13); l'affermazio-
ne secondo cui la sacre lettere e i misteri religiosi derivano a
noi dagli Ebrei, dai Caldei e dai Greci (§§ I 15-1 16); la pro-
clamazione del ruolo decisivo della cultura araba, e della
necessità di leggerne i testi in lingua originale, stante la cat-
tiva qualità di gran parte delle traduzioni latine (§ 1 17); e,
infine, la relativistica affermazione - di sapore senechiano:
cfr. Epist., XXXIII 1 1 - dell'impossibilità, per un singolo fi-
losofo o una singola scuola, di attingere la pienezza della
conoscenza e della verità, poiché quest`ultima è tanto im-
mensa da superare le capacità della mente umana (§ 1 2o).“'°
In compenso, nella stesura finale Pico aggiunse un'ampia
sezione conclusiva (che costituisce, da sola, circa la metà del
testo attuale: §§ 143-268),”“ di carattere autoapologetico, in
cui volle replicare alle critiche mossegli da alcuni suoi avver-
sari: occuparsi di filosofia, aver organizzato una disputa filo-
sofica pubblica, essere troppo giovane per un'impresa tanto
ardua, aver proposto un numero eccessivo di tesi. Questa se-
zione - come già abbiamo detto - venne poi inclusa da Pico,
con poche modifiche, nella parte iniziale dell'Apologia

3° Secondo VALCKE-GALIBOIS, Le périple intellectuel, pp. 120-


21, Pico, nella redazione definitiva dcll'Oratio, potrebbe aver eli-
minato la menzione di Flavio Mitridate anche per ragioni persona-
li (il carattere bizzoso del personaggio, i dubbi sulle sue effettive
qualità di «praeceptor peritissimus›› della lingua ebraica, araba e
caldaica).
4° Secondo FARMER, Syncretism, p. 46, quest'ultimo passo po-
trebbe essere stato soppresso da Giovan Francesco Pico. Per altre
differenze, di minore entità, fra le due redazioni, cfr. sia l`apparato
della redazione definitiva, sia le note di commento alla redazione
palatina.
4' In questa sezione furono qua e là recuperati brani della prima
stesura, il più ampio dei quali corrisponde ai §§ 1 83-91.
1 80 NOTA AL TESTO E APPARATI
(1 487). Ora, poiché lo stesso Pico, all'inizio dell'Apologia, af-
ferma chiaramente che tali obiezioni vennero sollevate all'in-
domani della pubblicazione delle novecento Conclusiones
(avvenuta a Roma il 7 dicembre 1486),” è evidente che la re-
dazione definitiva dell'Oratio (comprendente la lunga e con-
clusiva sezione autoapologetica) fu composta a Roma - dove
Pico era giunto nella seconda metà di novembre del 1486 -
tra la fine del 1486 e l'inizio del 1487 (terminus ante quem
sarà il 20 febbraio, quando Innocenzo VIII, col breve Cum ex
iniuncto nobis, sospese la disputa e nominò una commissione
d'inchiesta che esaminasse le tesi pichiane, e che si insediò il
successivo 1 ° marzo).“
Prima della stesura finale, l'Oratio è dunque passata at-

" Apologia, proemio, in Commerttationes, f. AA i r (= Opere


complete, II 1): «Vix in publicum venerant [scil. le novecento tesi],
cum inter aliquos, qui si non ingenium vel doctrinam, studium sal-
tem bonarum artium in me probarent, obtrectatorum turba multi-
plex assurrexit. Et quanquam et fastidia et nasos et censuras et om-
nino iudicia uniuscuiusque varia esset videre [...], quinque fere
tamen erant precipua, quae alius aliud summussores isti in me
damnarent: [...]›› (segue l'elenco delle quattro obiezioni, cui fa sé-
guito l”accusa di eresia, per rispondere alla quale Pico si risolse a
comporre l'Apologia). Il colophon della prima stampa delle Conclu-
siones (impressa da Eucharius Silber) è riprodotto da FARMER, Syn-
cretism, p. 5 52.
P Secondo BORI, Pluralita, p. 75, la risposta alla prima obiezio-
ne (quella di dedicarsi alla filosofia: §§ 143-50 della redazione defi-
nitiva) sarebbe stata aggiunta da Pico a metà ottobre del 1486,
quando egli - in risposta a un'analoga critica mossagli da Andrea
Corneo - inviò all'amico una lunga epistola, riutilizzata proprio in
questa parte dell'Oratio (cfr. ibid., pp. 73-75, e qui il commento aa'
loc_). Ma niente vietava a Pico di riutilizzare la lettera al Corneo an-
che quando, qualche settimana più tardi, quella e altre obiezioni gli
sarebbero state mosse pubblicamente, a Roma, da personaggi ben
altrimenti dotti e autorevoli; del resto, la seconda parte dell`Oratio
venne redatta, per necessità, in tempi rapidi, e questo indusse Pico
a servirsi, talora, di suoi scritti precedenti, come - oltre alla suddet-
ta lettera al Corneo del 15 ottobre 1486 - un capitolo del Commen-
to sopra una canzona d'amore (III 1 1, messo a frutto ampiamente e
qua e là tradotto alla lettera nei §§ 238-45 dell'Oratio: cfr. BAUSI,
Nec rlaetor, pp. 113-14. e qui il commento relativo).
APPARATI 181

traverso almeno due fasi redazionali, risalenti al periodo


umbro (tra Perugia e Fratta, nell'autunno nel 1486): la pri-
ma, anteriore al 12 novembre 1486, mancava del brano sul-
la pace, che venne aggiunto nella seconda redazione, docu-
mentata dalla lettera al Benivieni. A quale di queste due
prime fasi corrisponde il testo tràdito dal Palatino 885? Ri-
tengo impossibile stabilirlo, poiché la lacuna che questo te-
sto presenta in corrispondenza (peraltro, come si è visto,
non esatta) dell'elogio della pace si configura come una la-
cuna meccanica, al pari delle altre due grandi lacune indivi-
duabili nel codice; la mancanza del brano sulla pace nel Pa-
latino 885 potrebbe quindi dipendere da cause puramente
accidentali, anziché rispecchiare la prima fase redazionale
dell'Oratio. E più prudente, pertanto, considerare la reda-
zione trasmessa da questo codice non come la prima stesu-
ra dell'Oratio, ma come, semplicemente, una redazione del-
l'operetta precedente quella definitiva.

Nella seconda Sezione dell'Appendice si pubblicano -


con essenziali note di commento ~ i passi che Pico, recupe-
rando la seconda parte dell'Oratio nel proemio dell`Apolo-
gia, aggiunse al testo originale del discorso (poi stampato
nella princeps del 1496).4“' I brevi frammenti sono editi se-
condo la lezione della prima stampa dell'Apologia (A), cui
mi sono attenuto anche per quanto riguarda la grafia.

Ed ecco gli apparati critici delle due redazioni (s'intende


che, per quanto riguarda la redazione palatina, la fonte delle
lezioni accolte a testo coincide, salvo diversa indicazione,
con l`unico testimone F). Avverto che non sono segnalati né i
più banali errori (refusi o lapsus calami), né le semplici va-
rianti grafiche, e che solo in casi particolarmente rilevanti
vengono registrate le lezioni dei moderni editori che non

44 Cfr. al riguardo BAUSI, Nec rbetor, pp. 168-72.


I 82 NOTA AL TESTO E APPARATI

coincidono con quelle da me adottate. Nell”apparato della


redazione definitiva, segnalo anche le più significative va-
rianti che essa presenta rispetto alla redazione palatina (F) e
rispetto al proemio dell'Apologia (A, A', A2; mi attengo alla
grafia di A). Questa la tavola riassuntiva delle sigle utilizzate:

A = Apologia [Napoli, Francesco del Tuppo, dopo il 3 1


maggio1487].
A' = Apologia, in GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA,
Commentationes, Bologna, Benedetto Faelli, 1496.
A2 = Apalogia, in GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA,
Opera omnia, Basilea, Henricus Petri, I 5 57 e 1572.
B = GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA, Commentario-
nes, Bologna, Benedetto Faelli, 1496.
Bs' = GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA, Opera omnia,
Basilea, Henricus Petri, 1557.
Bsz = Idem, Basilea, Henricus Petri, 1572.
edd. = tutti gli editori
F = Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ms. Palati-
no 885 (redazione anteriore).
L = GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA, Commentario-
nes, Lione, Jacobino Suigo e Nicolas Benedict, dopo
il 1496.
M = GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA, Opera, Milano,
Alessandro ,Minuziano, 1 507.
= Idem, Parigi, Ioannis Parvi impensa, 1517.
= Idem, Reggio Emilia, Ludovicus de Mazalis, 1506.
= Idem, Strasburgo,]. Prüss, 1504.
gwww = Idem,
Venezia, Bernardino de' Vitali e Cristoforo
de' Pensi, 1498.
W = Idem, Venezia, Girolamo Scoto, 1557.
ot = consenso di tutti i testimoni della redazione definitiva.

Redazione definititia

1 interrogatum respondisse ot] Abdalam prophetam


sarracenum cum eum rogarent eius discipuli quid in hac
APPARATI 1 83

quasi mundana scaena admirandum maxime spectaretur


[...]45 idest hominem, respondisse F
3 Persae ot] magi F
9 benignis auribus manca in F
1 1 has F] a om. inferioris ot] inferiores F
14 effingeret ot] effigiet F largiretur ot] largiatur F
16 effetam B Bs' Bs2 L M PS V'] effoeta I/7, Garin (1942)
Tognon
17 ei commune F] commune ot
21 te oz] tete F
22 honorariusque manca in F formam ot] notam F
24 et admirandam manca in F
25 simul atque ot] protinus quam F bulga ot] vulva F
29 caeleste evadet ot] demon evadet et coeleste F
30 qui ot] quae F

35 ]1¬m:JD F] spazio bianco in B L M P R S V' V2; 18%


.'\:¬:t:m Bs' Bs2 et in bruta F] in bruta ot

36 quos B L] q11as cett., Garin (1942) habebat 11] ha-


bet F

37 et merito quidem manca in F neque iumenta ot]


nec iumenta F caelum ot] demonem F spiritalis ot]
spiritualis F
40 hic non terrenum, non caeleste animal manca in F
41 ecquis ot] et quis F

"S Per questa lacuna cfr., nell'edizione della redazione palatina,


la nota relativa.
I 84 NOTA AL TESTO E APPARATI

44 spazio bianco in B L M P R S V' \/Y] um mn mn: nm:


*rl 511: nwzm, Bs' Bs2; F reca una citazione in caratteri etiopici
così traslitterata da Wirszubskz, p. 241: b-r-n-s h h-y m(i)-t-
b-m(i)-s-t(a)-n(e) w-n-d-d(o) w-m-h-l-?-t g-r-m(a)-h k w-k
45-46 Sed dicatur ot] Hac igitur conditione nati, hac
praediti natura, ut id simus quod esse volumus, quid curare
potissimum debemus? Certe ut non illud quidem in nos di-
catur F

47 sacra quaedam et Iunonia ambitio F] sacra quaedam


ambitio ot totis viribus manca in F
49 nos iam ot] iam nos F
62 manca in F
63 vel vel ot] aut aut F

66 philososophiae contemplativae ot] contemplativae


philosophiae F nobis et ot] nobis F unde ot] ut F
68 cum nobis ot] cum F consequi ot] nobis consequi F
73 nostri ot] nostra F sufficiant ot] in F segue: veteris
legis mysteria perscrutemur
76 ut habent mysteria manca in F

80 idest collo in F è spostato dopo reiciamur


83 (da iniit)-97 mancano in F

90 syllogismorum I/7] sillogismo B, Tognon Marchignoli;


syllogismi P
93 laboratis] laborastis ot, edd.
99 iudicem ot] iudicem sic F sic edicentem ot] edi-
centem F qui expiantes manca in F

104 hercle F] ot om.


107 (da sacris)-1 I 3 mancano in F
APPARATI 185

110 agamur agamur B L, Cicognani] agemur age-


mur cett., edd.
I 14 sacra ot] ipsa F et misteria ot] perscrutetur et
latitantia mysteria F ostendent F] ostendunt ot
1 15 nunc manca in F introgressuri F] ingressuri ot
120 (da sapientissimum)-129 mancano in F
128 laudantibus B L M P R S V' W] laudamus Bs' Bsg,
Cicognani
132 animos oz] animas F
133 vobis salutares ot] salutaris nobis F
1 34 Nomen ei qui ab aquilone [...], quod “rectum" deno-
tat; ei qui ab occasu [...], quod “expiationem” significat; ei
qui ab ortu [...], quod “lumen” sonat; ei qui a meridie [...],
quod nos “pietatem” interpretari possumus B L M P R S V'
W] le quattro lacune sono colmate da Bs' c Bsg con i nomi
Pischon, Dichon, Chiddekel, Perath; F reca quattro nomi
in caratteri etiopici cosi traslitterati da Wirszubs/ei, p. 242:
q-s-t, k-P-r-n, n-h-r, r-h-m-n-t (cfr. qui sopra, pp. 173-74).

135 dogmata ot] oracula F deorum F] Dei ot me-


ridiantis ot] meridionalis F

136 forsan manca in F et ab Augustino ot] ab Augu-


stino F
137 ad lineam inflammat ot] cremat inflammat ad lineam
F pariter manca in F

140 vel sub enigmate manca in F

142 modo ot] adeo F compulerunt] in F segue un


ampio brano (SS 1 1 I-I 17 dell'edizione qui pubblicata in Ap-
pendice, I) assente nella redazione definitiva, dove ne furono
però recuperati due frammenti (cfr. Appendice I, note 8 e 10)

143-182 mancano in F (dove però sono presenti in conclu-


sione, con qualche variante, i §§ 160-162 [= 129-131 F],
I 86 NOTA AL TESTO E APPARATI

167-168 [= 132-133 F] e 169 [= 134 E parzialmente] della


redazione definitiva)
153-154 ripresi (con varianti) nel proemio dell'Apologia
153 Sunt asseverantes ot] Alii non tam philosophiam
quam hoc ipsum disputandi genus et hanc de litteris publi-
ce disceptandi institutionem non approbare ad pompam
potius ingenii et doctrine ostentationem quam ad compa-
randam eruditionem esse illam oblatrantes A A' A2
154 Sunt ego ot] Nonnulli me audacem dicere et teme-
rarium qui A A' A2 modo (alt.) ot] nondum A A' A2
de sublimibus locis ot] de altissimis philosophie locis de
sublimibus Christiane theologie misteriis A A' A2 in
apostolico senatu A A' A2 om.”"° sim ausus ot] non dubi-
tarem A A' A2
158-266 ripresi, con varianti e aggiunte, nel proemio
dell'Apologia
158 Primum communis a] His etiam qui genus hoc di-
sputandi et hanc de deo de natura de moribus publice di-
sceptandi institutionem detestantur multa non sum dictu-
rus quando hoc crimen si crimen est commune est mihi
cum magnis viris immo cum probatissimis non solum no-
stre sed fere omnium etatum philosophis A A' A2
159 in F il § e dislocato altrove (§ 128 dell'edizione qui
pubblicata in Appendice, I) e si presenta in una forma note-
volmente diversa: Alterum quod mihi ego ad philosophiae
consecutionem utilissimum iudicavi hoc fuit, ut in dispu-
tandi exercitatione essem frequentissimus erat ot] fuit
AA'A2

4'” Come osserva giustamente FARMER, S3/ncretism, pp. 4 e 9, la


soppressione di queste parole è significativa, giacché Pico, nell'/l-
pologia, cerca di ridimensionare e circoscrivere la portata del suo
progetto; non a caso, alla fine del trattato, egli afferma che nelle
sue intenzioni le novecento tesi avrebbero dovuto essere discusse
solo «inter paucos et doctos secreto congressu» (Commentationes,
f. KK i r = Opere complete, XV 5).
APPARATI I 87

160 dubio procul A A' A2 om.


161 cum ot] dum F '7'f¬: Bs' Bs2 F] spazio bianco in B
L M R P S V' W wnannäw, idest F] om. ceti. (A A' A2
om. tanto itermini ebraici quanto gli spazi biancbi)
162 Mars Mercurium A A' A2 Bs' Bs2 F S] Mars et Mer-
curium cett., Tognon Marcbzgnoli triquetro aspectu oz A
A' A2] aspectu triquetro F quasi philosophia manca
in F philosophia] l'Apologia inserisce qui una breve ag-
giunta (cfr. Appendice II, brano I).
163 At subiturus ot] Profecto hic mihi difficilis ratio
defensionis dum si parem me dico immodesti et de se nimia
sentientis si imparem fateor temerarii et inconsulti videor
notam subiturus A' A2 (A legge per errore hec in luogo di
hic). 47
164 Videte quas ot] Graves A; et quidem A' A2 quo
constitutus ot] A A' A2 om. mox ot] et A A' A2
I 65 Forte et ot] EquidemA; Et quidemA'A2 spiritum
esse A A' A2 Bs'] spiritum esse spiritum esse cett. cum
audire ot] forsan audire cum ThimotheoA A' A2
166 esse in nobis ot] in nobis esse A A' A2 sumo ot]
vendico A A' A2 arrogo] l'Apologia inserisce qui una
breve aggiunta (cfr. Appendice II, brano II).

168 imbecillissimus ot A A' A2] imbecillimus F


170 potest ot] poterat A A' A2
171 tertio loco A A' A2 om. est labor ot A' A2] labor
est A48
173 existimetur ot] esset existimandum A A' A2

4' L'errore è corretto a penna, in margine, nell'esemplare mode-


nese (cfr. qui la nota 2).
43 Corretto a penna, in margine, in est labor nell'esemplare mo-
denese (cfr. nota 2).
1 88 NOTA AL TESTO E APPARATI

174 habebunt ipsi ot] erant habituri A A' A2 excu-


sent ot] excusarent A A' A2 quoniam ot] quando A A'
A2 erit 01] erat A A' A2
175 deficiant A A' A2] deficiunt ct
176 nostra ot] et nostra A A' A2
178 si ipsi ot] ipsi si A A', ipsi A2 meam A A' A2]
mecum ot, edd. considerarent ot] considerarint A A' A2
180 in F il § ê dislocato altrove (§ 112 delfedizione qui
pubblicata in Appendice, I) e si presenta nel modo seguente:
Primum id fuit, in nullius Verba iurare, sed se per omnes
philosophiae magistros fundere, omnes scedas excutere,
omnes familias agnoscere.
182 deferar o1,A'] devehar A A2
183 enim ot A A' A2] autem F hoc observatum ot A
A' A2] observatum hoc F nullas ot A A' A2] nullas pror-
sus F illectas ot F A A' ] non perlectas illectas A2 49
ó1vayvd)o1:11<;A om. e lascia uno spazio bianco
184 recte propriam ot A A' A2] propriam recte F
omnes prius ot A A' A2] prius omnes F familiaritates F]
familiariter ot A A' A2 agnoverit] in F segue un passo (§
120 dell'edizione qui' pubblicata in Appendice, I) assente nel-
la redazione definitiva
185 adde quod o1A A' A2] videas F est 0tA A' A2] F
0/71.

42 Sembra trattarsi di due lezioni alternative, entrambe rifluite a


testo per un errore del tipografo. Non perlectas (assente nell'Oratio e
in tutti gli altri testimoni dell'Apologz'a), più cl1e una variante d'auto-
re (difficilmente spiegabile in stampe tarde come le basileensi del
1 5 57 e del I 572), potrebbe essere una glossa del raro illectas (illectus
= 'non letto', è solo in Ovidio e in Apuleio, nonché nella prefazione a
Francesco Tron del barbariano Temistio: BARBARO, Epistolae I, p.
14). Vedi al riguardo BAUSI, Nec rbctor, pp. 125 e 171.
APPARATI 1 89

186 postremo oz A2] postrema A A' quiddam ot A2]


quoddam F A A' exactum ot A A' A2] examinatum F
grande ot A' A2] magnum F A
187 atque otA A' A2] et F
189 privum A' A2 B FL M PR V' W] primum A Bs' Bs2
S, Carena Garin (1942 e 1994)”
190 Damascium F] Damascum ot, Damastium A A' , Da-
mastum A2 'có Gsìov A om. e lascia uno spazio bianco
191 heresis F] secta ot A A' A2 extinguit] in F segue
un passo assente nella redazione definitiva: sane hoc veritatis
privilegio ut vinci nesciat et contorta in eam spicula in auc-
tores redeant
192-268 mancano in F (cbe si conclude però [§ 134] con le
stesse parole della redazione definitiva [S 268]: quasi citante
classico iam conseramus manus)
19 3 tractabatur B L] tractabitur cett.
206 cum Aristotelica ot A' A2] tum Aristotelica A
quod manifestum A A' A2 om.
207 patres A A' A2 om. et denique ot] denique A A'
A2 sint ot] sunt A A' A2
208 Aglaophemo A A' A2] Aglaopheno ot
209 Epinomide A] Epimonide ot, A ' ; Epimenide A2
21 1 Abumasar oi] Abunasar A A' A2
213 Illam ergo ot] hanc ego A A' A2
215 yonteíotv A om. e lascia uno spazio bianco ua-
yeiotv A om. e lascia uno spazio bianco

5° Nell'esemplare modenese di A si registra, in margine, la cor-


rezione di primum in privum.
I 90 NOTA AL TESTO E APPARATI

217 patres A A' A2 om.


225 Parisiensem] l'Apologia inserisce qui una breve ag-
giunta (cfr. Appendice II, brano III).
2 30 ouurtótßetotv A om. e lascia uno spazio bianco co-
gnationem] cognitionem oi A A' A2, edd. íuyyeg A om.
e lascia uno spazio bianco
232 exploraverimus ot A' A2] explicaverimus A2'
compellemur 01 A' A2] compellimur A52
233 de qua haec ot A' A2] de qua hic A” scio esse a]
sunt A A' A2
2 34 et quam reposita ot] quam reposita A A' A2
2 35 revelaret ot] revelaret et merito quidem A A' A2
236 Satis erat ot] Satis enim erat vulgaribus et A A' A2
2 38 antiqui ot] antiqui quoque A A' A2
241 Dionysio] Dioni A A' A2 B L M R S V' W; Diony. P;
Dionys. Bs' Bs2
242 libros Metaphysicae ot] libros primae philosophiae
A' A2; primo philosophie A54
244 éic eictòg A2] spazio bianco in A A' B L M R S V'
W; èlc voòç sig voôv ôtà uéoou Aóyov Bs' Bs2
247 ne audite ot] qui mihi non credunt audiant A A' A2
250 in his libris ot] in quibus A A' A2
25 1 foeliciter A om. 22

5' Nell`esemplare modenese di A, explicaverimus è corretto a


penna in exploraverimus.
52 Nell'esemplare modenese di A, compellimur è corretto a pen-
na in compellemur.
23 Nell'esemplare modenese di A, bic è corretto a penna in bec.
54 Nell'esemplare modenese di A, l'evidente errore è corretto a
penna in libros prime philosophie.
25 Nell'esemplare modenese di A, foeliciter è aggiunto a margi-
APPARATI I9I

258 Sed percensenda ot] Et ut reliqua mee disputatio-


nis capita percenseam A A' A2
260 fingeret ot] effingeret A A' A2
264 oblatrarunt ot] oblatrabant A A' A2

Redazione palatina

1 scaena] corr. ex machina F


3 et fluxi] le lettere et flu non sono leggibili per danneg-
giamento della carta copulam] le lettere pulam non so-
no leggibili per danneggiamento della carta
35 in angelum ot] me angelum F
78 fomes ot] fames F
8o detinet a] detinent F
94 virtutum ot] virtutem F
107 spiritibus ot] spiritualibus F
108 et iuxta ot] iuxta F

1 12 iurare] scritto sopra iuratu (forse iuratus, con la s ca-


duta a causa della rifilatura) non cassato
114 Grecis ad] in F segue, cassato, latinos
119 nec potest ot A A' A2] nec F
127 ea otAA' A2] Fom.

13 3 accipit ot] accepit F

ne, con segno di inserimento. Non si può escludere che l`avverbio


sia stato introdotto da Giovan Francesco (sia nell'Oratio, sia nel
luogo corrispondente dell'Apologia); anche Se va ricordato che,
quando furono stampate le pichiane Commentationes, Innocenzo
VIII era già morto da quattro anni.
I 92 NOTA AL TESTO E APPARATI

Addendum

Al § 230 della redazione definitiva, ho emendato conget-


turalmente in cognationem l'erroneo cognitionem comune a
tutti i testimoni (e spiegabile come una banalizzazione poli-
genetica introdottasi in B e in A): lì si tratta infatti del lega-
me di intima parentela e di affinità (cognatio) che unisce le
Varie parti dell`uniVerso, come si legge nel passo di Sinesio
che costituisce la più immediata fonte di Pico (cfr. il com-
mento ad loc., p. 1 15; la pichiana cognationem traduce la si-
nesiana ouyyévewtv) e in un passo del ficiniano commento
al Simposio platonico («magice opus est attractio rei unius
ab alia ex quadam cognatione nature››: citato ibid.). La
bontà dell`emendazione è confermata dal confronto con
due passi dell'Heptaplus: il titolo della Expositio sexta (De
mundorum inter se et rerum omnium cognatione: p. 308) e,
ancor più, un luogo della Expositio primae dictionis: «[Mo-
ses] Adiecit autem quod haec [scil hae mundi partes et ho-
minis] creavit foedere bono, quia inter eas foedus pacis et
amicitiae ex naturarum cognatione et mutuo consensu per
sapientiae Dei legem sancitum est›› (p. 382).
INDICI
Indice dei nomi

Lfindice (che comprende anche i nomi mitologici, quelli geografi-


ci e - sotto i nomi dei relativi autori -i titoli delle opere citate) si rife-
risce alla redazione definitiva dell'Orati'o de bominis dignitate, alla
redazione palatina (Appendice I) e alle tre brevi parti aggiunte nella
sezione dell'Oratio recuperata all'inte1-no dell'Apologia (Appendice
II). Per le due redazioni complete il rinvio è al numero del paragrafo;
per i testi compresi nell'Appendice II, il rinvio è al numero di pagina.
I rinvii relativi al testi inclusi nelle due Appendici sono preceduti
dalla siglia AI ( = Appendice I) e All (= Appendice II).

Abaride iperboreo, 222 Alessandro, cfr. Alessandro di


Abdala saraceno, cfr. Abdallah Afrodisia
saraceno Alessandro di Afrodisia, 188
Abdallah saraceno, 1 AI 124
AI I al-Farabi, 187
Abramo, 138 AI 12 3
AI 106 Alfarabio, cfr. al-Farabi
Abumasar (Albumasar), 2 1 1 al-Kindi, 225
Adamo, 18 Ammonio (di Alessandria?),
AI 18 188
Aglaofemo, 208 AI 124
Agostino, Aurelio, 136, 195, Ammonio, filosofo, 1 15
203» 254, 251 A193
AI 104 Apollo, 1 14, I 1 5 (verus Apollo
Contra Academicos, 203 = Cristo), 1 19 (idem)
Alberto, cfr. Alberto Mag11o Al 92, 93 (verus Apollo =
Alberto Magno, 186, 193 Cristo), 97 (idem)
A1 122 Apollonio di Tiana, 224
Alchindo, cfr. al-Kindi Arabi, 1, 139 (Mauri), 193
196 INDICI
AI I, 107 (Mauri), 116 Dattilo, ebreo, 25 7
Aristotele, 158, 183, 200, 203, Davide, 3, 136
204, 210, 242, 266 AI 3, 104
AI 1 18 Democrito, 221
Metapbysica 242 Dionigi Areopagita, pseudo,
Asaph, profeta, 46 7°› 244› 254
AI 46 A169
Asclepio, 2 Dionigi, vd. Dionigi Areopagi-
Al 2 ta, pseudo
Asclepio ateniese, 33 Dionisio II il Giovane, tiranno
AI 33 di Siracusa, 241
Avempace, 1 87 Duns Scoto, Giovanni, 179,
AI 123 186, 205
Avenzoar babilonese, 21 1 AI 122
Averroe, 187, 205
A1 12 3 Ebrei, 34,35,161, 199, 234,
Avicenna, 187, 205 235, 245, 246 (Israeliti), 252,
Al 123 256
M 34. ss. Hs› 13°
Bacco, 112, 123 Egidio, cfr. Egidio Romano
Bacone, Ruggero, 225 Egidio Romano, 186, 193
Barbaro, Ermolao, AII 155 AI 122
Boezio, Anicio Manlio Severi- Egizi, 240
no, 201 Empedocle, 35, 84, 221
A135
Caldei, 44, 130, 162, 199, 259 Enoch, patriarca, 35
AI44,98,115,131 M ss
Calipso, 38 Enrico, cfr. Enrico di Gand
A1 38 Enrico di Gand, 186, 193
Caronda, mago, 224 Al 122
Cicerone, Marco Tullio, 172 Eraclito, 92
Ciro il Vecchio, re di Persia, Ercole, 104
246 Ermete Trismegisto, 2, 199
Cronico, Antonio, cfr. Vinci- AI 2
guerra, Antonio Ermia, 190
Al 126
Dama, figlia di Pitagora, 239 Ermippo di Smirne, 224
Damascio, 190 Ermolao, cfr. Barbaro, Ermolao
Al 126 Esculapio, 129
Damigero, mago, 224 Esdra, 235, 246, 247, 249, 250
Dardano, mago, 224 Eudosso di Cnido, 224
INDICE DEI NOMI I 97

Evante persiano, 43 AI 25
AI 43
Maometto, 36
Filolao, 208 A136
Francesco, cfr. Francesco di Marte (pianeta), 162
Meyronnes AI 131 (pianeta)
Francesco di Meyronnes, 186, Mauri, cfr. Arabi
193 Mercurio (divinità), 94 (per an-
AI I22 tonomasia), I62 (pianeta)
Al 131 (pianeta)
Gabriele, arcangelo, 141 Mercurio (Mercurio Trismegi-
AI 109 sto), cfr. Ermete Trismegisto
Geremia, 140 Michele, arcangelo, 141
AI 108 AI 109
Gerolamo, san, 254 Mitridate, Guglielmo, cfr.
Gerusalemme, 254 (G. celeste) Moncada, Guiglielmo Rai-
Gesù Nave, cfr. Giosuè mondo de
Giacobbe, patrarica, 73, 81 Moncada, Guiglielmo Raimon-
AI 73, 81 do de, (Mitridate, Gugliel-
Giamblico, 189, 260 mo), 113
AI 1 25 Mosè, 13,64, 98, 102, 112, 235,
Giobbe, 60, 83, 84, 165 245, 246
AI 60, 8 3 AI 13, 63, 84, 87
Giosuè, 2 35 Muse, 111, 112
Giovanni Filòpono, 204
Giovanni Grammatico, cfr. Olimpiodoro, 190
Giovanni Filòpono Al 126
Gorgia di Lentini, 176 Omero, 92, 224
Greci, 104, 188, 193, 202, 215, Orazio, Quinto Flacco, AII 155
23°, 259 Orfeo, 258, 259, 261, 262
A189, 114, 115, 116, 124 Origene, 235, 243
Guglielmo d'Alvernia, 225 Oromaso, 222
Guglielmo di Parigi, cfr. Gu- Osiride, 82
glielmo d'Alvernia A1 82
Ostane, mago, 224
Ilario, sant`, 235
Innocenzo VIII, papa, 251 Pallade, 146, 161
Israeliti, cfr. Ebrei AI 130
Paolo, apostolo, 69, 238, 254
Latini, 201, 251 A168
Lucilio, Caio, 25 Persiani, 3, 216, 223
198 INDICI
Pitagora, 120, 199, 208, 221, Simplicio, 1 8 8, 202
239, 255, 260, 261 Al 124
A1 98 Sisto IV, papa, 251
Platone, 109, 1 18, 157, 158, Socrate, 1 29
183, 192, 200, 203, 204, 208,
209, 212, 221, 223, 241, 255, Temistio, 188
266 AI 124
AI 96, 118 Teofrasto, 188
Alcibiades I, 1 18, 223, A196 AI 124
Epinomis, 209 Timeo di Locri, 13
Cbarmides, 22 3 A1 13
Pbaedrus, 109 Timoteo, 165
Plotino, 189, 226 Tommaso d'Aquino, san, 179,
AI 125 186, 205
Porfirio, 189, 216 Al 122
AI 125
Proclo, 190 Ulisse, 224
Al 126
Proteo, 3 3 Vinciguerra, Antonio (detto
M ss Antonio Cronico), 257
A11 156
Raffaele, arcangelo, 140
AI 108 Zalmossi, 222, 22 3
Zoroastro, I 1 8, 131, 135, 222,
Scoto, cfr. Duns Scoto, Gio- 223, 258, 259, 260
Vanni Al 96, 99, 103
Seneca, Lucio Anneo, 197 Zorobabele, 246
Indice degli autori

L'indice comprende i nomi inclusi nell'Introduzione, nella Nota


al testo, negli Apparati e nelle note di commento; non comprende
invece i nomi delle Abbreviazioni bibliografiche. Nell'indice non fi-
gurano inoltre né i nomi mitologici e geografici, né i titoli delle
opere; ed è parimenti escluso il nome di Giovanni Pico della Mi-
randola.

Abaride iperboreo, 108 XLVIII, 3, 26, 32, 46, 65, 67,


Abdala saraceno, cfr. Abdallah 92,97,105,I06,130,185
saraceno Alberto Magno, XLII, 87, 170
Abdallah ibn al-Muqaffà, 2 Alchindo, cfr. al-Kindi
Abdallah ibn Salam, 2 Alemanno, Yohanan, XL n. 5 3,
Abdallah saraceno, XL, 3, 170, 1 13
182 Alessandro di Afrodisia, XXVIII,
Abramo, 66 xxix n. 34, 88
Abucaten Avenam, 100 Alessandro Magno, 122
Abulafia, Avraham, 15 al-Farabi, 87
Abumaron babilonese, 103 Alfarabio, cfr. al-Farabi
Abumasar (Albumasar), 102, Alighieri, Dante, 4, 19, 22, 24,
189 29, 32, 70
Adelando arabo, XXXIX n. 51, al-Kindi, 1 11, I 12
3› 9° Allen, M.].B., 10
Adler, A., 101, 105, 114 Amelio, seguace di Plotino, 1 12
Africano, vd. Scipione, Publio Ammonio, filosofo, 54
Cornelio Africano Minore, Ammonio (di Alessandria?), 88
detto Emiliano Ammonio Sacca, 88
Aglaofemo, 100, 101, 164, 189 Anania, 28
Agli, Antonio degli, 3 Apollonio di Tiana, 52, 106,
Agostino, Aurelio, XXVII, XXXIV, 1 10
200 INDICI

Apuleio, Lucio, XXXVII, 10, 20, Beffa, B., 130


78, 105, 107, 108, 109, 110, Bembo, Bernardo, 130
1 13, 1 14 Benedetto, san, 31
Aristotele, X n. 2, XXVII n. 31, Benivieni, Girolamo, XXVI n.
XXIX, XXXVII, 14, 19, 32, 37, 31, XXXVII, XXXVIII n. 51, L,
76, 85, 88, 93, 96, 97, 98, 53, 165, 172, 177, 181
101, 102, 103, 122 Bernardo Silvestre, 111
Artaserse I (o IIP), re di Persia, Beroaldo, Filippo il Vecchio, X
125 Bibliander, Th., 3
Asaph, profeta, XXVII, 21 Biondi, A., XLIII n. 62, LI n. 75,
Asclepio, 3 170
Asclepio ateniese, 14 Blaise, A., 100
Asclepio di Tralle, 14 Boccaccio, Giovanni, 18, 22,
Asihel, 125 39, 42
Ausonio Decimo Magno, 6, 151 Boezio, Anicio Manlio Severi-
Avempace, 87 no, 53, 97
Avenzoar (Avenzohar, Ibn Bonaventura da Bagnoregio, 5,
Zuhr), 102, 103 14, 31
Avenzoar babilonese, XL, 103 Bori, P.C., XXVI n. 30, 2, 38, 39,
Averroè, XXVIII, XXIX e n. 34, 68, 69, 72, 87, 167, 180
87 Boulnois, O., XVIII n. 15, XXII
Avicenna, XXIX, 87, 88 n. 22, XXIII n. 24
Branca, V., XII n. 5, 167, 168
Bacchelli, F., X n. 3, XL 11. 56, Brucker,]., 173
131, 150 Bruni, Leonardo, 76
Bacone Ruggero, 1 1 1, 1 12 Bruto, Marco Giunio, 73
Baldo Perugino, XXVI n. 28, Buck, A., XIX n. 16
177 '
Balduino, A., 130 Calcidio, 9, 16, 66
Barbaro, Ermolao, IX, X e n. 3, Calderini, Domizio, 76
XXVII n. 32, XXVIII n. 33, XLI, Carbone, Gaio Papirio, 87
XLII, 6, 27,35, 40, 52, 53,75, Carena, C., XII n. 5, XIII n. 6,
79, 83,84, 85, 88,94, 96, 71,78, 109, 161, 163, 164,
106,115,117,119,120,133, 168,189
135, 155, 156. 167, 188 Caronda (Carmenda), mago,
Bausi, F., xxV1 n. 28, xxxv n. 110
43, XXXVIIr1. 48, XLI n. 58, Cassuto, U., 131,150
10, 12, 18, 24, 27, 40, 45, 48, Catone, Marco Porcio, il Cen-
53,57, 64, 71, 78, 88, 91, 92, sore, 78
94, 99, 151, 165, 168, 169, Celso, 122
175, 176, 180, 181, 188 Cicerone, Marco Tullio,
INDICE DEGLI AUTORI ZOI

XXXVIL 3› 32› }3› 4°› 44› 45› nn. 17-18, XXII n. 23, XXIII n.
57, 68, 74,78, 80, 82, 86,87, 24, xxvI1I n. 33, xxx n. 38,
106, 109 XXXI fl. 40, XLIII fl. 60, XLIV
Cicognani, B., 2, 14, 15, 16, 39, n. 64, XLV n. 67, 12, 17
46, 47, 60, 64, 76, 78, 88, Dell”Acqua, G., 150
113,127, 129, 134, 135, 161, Della Fonte, Bartolomeo (Fon-
162,163, 164,169, 185 zio), 54
Ciro il Vecchio, re di Persia, Democrito, 106, 107
125 Demostene, 87
Cittadini, Antonio, 159 Deng-Su, I 14
Claudio Mamertino, 61 Des Places, E., 4, 20, 1 14
Clemente Alessandrino, XXII, Di Napoli, G., xI1I, xv n. 9, xx
14, 108 n. 17, xxv n. 27, xxxI1I n.
Colomer, E., XLIII n. 60 41, XLIII nn. 60-61, 34, 92,
Columella, Lucio Giunio Mo- 167
derato, 1 15 Diels, H., 16, 35, 37, 38, 40, 97
Copenhaver, B.P., 15, 99 Diodoro Siculo, 35, 108
Copernico, Niccolò, XII Diogene Laerzio, 16, 33, 38, 57,
Corneo, Andrea, XXXVII, 24, 59, 101, 105, 107, 109, 121
68, 180 Dionigi Areopagita, pseudo,
Craven, WG., XIII e n. 7, XLIII XXVII C 1'). 31, XLV, 13, I4,
n. 60 22, 23, 24, 28, 29, 37, 52,
Cronico, Antonio, cfr. Vinci- 123, 162, 165, 190
guerra, Antonio Donà, Girolamo, 155
Cusano, Niccolò, XXII n. 23, 2 Dorez, L., 54, 177
Drachmann, A.B., 1 14
D'Amore, L., 79 Du Cange, Ch., 100, 153
Dabria, 125 Duns Scoto, Giovanni, XXVIII
Dales, R.C., XXII n. 22 n. 33, XXIX, XLII, 19, 84, 86
Dama (Damo), figlia di Pitago-
ra, 121 Egidio Romano, 86
Damascio, 90, 169, 189 Elíano, 16
Damigero, mago, 1 10 Empedocle, xxv, xxvII, xxxIv,
Dan,]., 16 16, 17,35, 37, 38, 82, 106,
Daniele, 36 166
Dardano, mago, 1 10 Enoch, patriarca, 15, 171
Dattilo ebreo, XXXVII, 130, 131, Enrico di Gand, XLII, 87
150 Epitteto, 86, 13 1
Davide, XXVII, XXXIV, XXXVI n. Eraclito, 40, 41, 89
46› 5. 25 Ermete Trismegisto, XXII n. 23,
De Lubac, I-I., XIII e n. 7, XX XLIII, 3, 27, 89, 95, 100
202 INDICI

Ermia, 88, 90, 169 Fonzio, cfr. Della Fonte, Barto-


Ermippo di Smirne, 1 1 1 lomeo
Erodoto, 107, 108 Forcellini, E., 52, 55, 153
Eschine, 87 Francesco di Meyronnes, XLII,
Esculapio, XXXIV 86, 87
Esdra, XXXVIII, 62, 118, 125,
126, 132 Galba, Servio Sulpicio, 87
Esiodo, 58 Galibois, R., XX n. 18, XXXI n.
Ethanus, 1 25 40, XXXVIII n. 49, 10, 179
Eudosso di Cnido, 106, 107, Garin, E., X n. 1, XII n. 5, XXII
111 n.22, 3, 14, 78, 135,161,
Eusebio di Cesarea, 18, 91 163, 164, 169, 175, 177,183,
Evante persiano, XL 189
Ezechiele, 46 Gellio, Aulo, 11, 85, 91, 99,
122, 134
Génébrand, G., 131
Faelli, Benedetto, 159
Farmer, S.A., XVI n. 1 1, XXVI n.
Gentile, S., xxxvIII n. 51
Geremia, XXXIV, 36, 67
Z9, XXX, XXXI Il. 39, XXXIII
Gerolamo, san, 10, 67, 89, 107,
I1. 41, XXXVIII l'1. 51, XXIX I'I.
110
51, XL n. 53, XLIII n. 61, LI n.
Gesù Nave, cfr. Giosuè
75, 15, 87, 88, 99, 100, 103,
Giacobbe, patriarca, XXVII,
167,171, 173,179, 180, 186
XXXII, XXXIV, 30, 31, 34,
Fera, V., XIII n. 7
168, 170
Festo, Sesto Pompeo, 48
Giamblico, XXXIX n. 51, 12, 42,
Ficino, Marsilio, XVIII n. 15, XX 58,59, 60, 88, 89, 90, 100,
n.18, XXII e n.23, XXXVIII e 101, 106, 108,121, 133, 134
n. 51, XXXIXen. 51, XLen. Giobbe, xxvII, xxxII, xxxIV,
56, 3, 4, 8,10, 13, 14, 16, 17, XLIX e n.74, 25, 32, 36, 37,
18,19, 20, 26,28, 29, 32,36, 60, 61,79, 163,168, 178
44›4s›48»s°›sI›s2›s3,s6. Giosuè, 1 19
58,59, 60, 61, 62, 63,75, 78, Giovanni Filòpono, 85, 97, 98
79, 89, 93,96,1oo, 106, 108, Giovanni, evangelista, 25, 41,
109, 110, 115,120, 131,132, 43, 50, 55, 61, 118,177
133, 168 Giovenale, Decimo Giunio, 78
Filolao di Crotone, 100, 101 Gioviniano, 89
Filone di Alessandria, 30, 32, Gorgia di Lentini, 82, 83
33.46.47 Gregorio di Nissa, 13, 46
Filostrato, 106, 110 Gregorio Magno, XXVIII, 18,
Flavio Mitridate, cfr. Moncada, 2s›24›36›67
Guiglielmo Raimondo de Guglielmo d'Alvernia, 1 I 1, 1 12
INDICE DEGLI AUTORI 203

Guglielmo di Parigi, cfr. Gu- Lucano, Marco Anneo, 9, 38


glielmo d'Alvernia Luciano, 134
Lucifero di Cagliari, vescovo,
Hermann Dalmata, 2 34
Hoven, R., 35, 94 Lucilio, Caio, 12
Lucrezio, xxvIII n. 33, xLI1, 6,
lared, 15 9, 6°. 94
Ibn Zuhr, cfr. Avenzoar (Aven-
zohar) Machiavelli, Niccolò, 79
Idel,M.,15,113 Macrobio, Ambrosio Teodosio,
Ilario, sant', XXXVIII, I 18, 125 44› 99
Innocenzo VIII, papa, IX, 180, Manetti, Giannozzo, 5, 7, 18
191 Manuzio, Aldo. XLIV, XLV
Iperide, 87 Maometto, XLI, 2, 3
Ippolito di Roma, 16, 38 Marcaccini, C., 108
Isidoro di Siviglia, 18, 32 Marchignoli, S., 50, 52, 53, 54,
Isocrate, 87 141, 160, 161, 163, 164, 171,
173, 184, 187
Jayne, S., XXXVIII n. 51 Marco, evangelista, 61
Martelli, M., XIX n. 15, 67, 168
Kalbfleisch, K., 97 Marx, F., 12
Keplero, Giovanni, XII Marziano Capella, 11, 18,48
Kibre, P., XXXV n. 42, 8, 98, Matteo, evangelista, 41, 43, 61,
102, 110 120, 122, 171
Kranz, W., 16, 35,37, 38,40 Medici, Lorenzo de', X, XVIII n.
Kristeller, P.O., x111 n. 7, xvI1 e 15, xxxII, xL1, xL1x, L, 8, 24,
nn. 12-13, XXVIII n. 33, XXX- 131, 167
VIIIn. 51,18, 32 Meliavacca, Baldassarre, 98
Mercurio (Mercurio Trismegi-
Landino, Cristoforo, 24, 31 sto), cfr. Ermete Trismegisto
Lanfredini, Giovanni, 131 Mitridate, Guglielmo, cfr.
Latham, R.E., 94, 100 Moncada, Guiglielmo Rai-
Lattanzio, Lucio Cecilio Fir- mondo de
miano, 7 Moncada, Guiglielmo Raimon-
Lelio, Gaio il Saggio, 87 do de (Mitridate, Gugliel-
Lelli, F., XL n.53, 15, 113, 129, mo), XXXIX, XL e n. 57, 17,
150, 171 62,126,127, 128, 129, 131,
Lindsay, V(/.M., 12 '501 '73› '74› '79
Lisia, 87 Mosè, xxv, xxxII, xxxv, 13, 45,
Livio, Tito, 39, 91 46, 47, 118, 119, 124, 168,
Luca, evangelista, 37, 43, 61 178
204 INDICI
Münster, L., 150 101, 106, 107, 108, 121, 133,
134, 164, 168
Nemesio, 5 Platone, X n. 2, XXVII n. 31,
Nesi, Giovanni, X e n. 3, L, 159 xxix, xxxlv, 8, 17, 29, 31,
Newton, Isaac, XII 33› 34› 37› 38» 4°, 44› 4s› 48,
Niermayer,].F., 100 49› 5°, sI› s2› ss. s6› 57, 6°.
Nonio Marcello, 12, 56 61, 62, 72, 75, 82, 85, 86, 91,
Nun, I 19 95, 96, 97, 98,100, 102,103,
105, 106,107, 108, 109, 121,
Olimpiodoro, 90, 169 122, 164, 165
Omero, XXVII, 14, 18, 22, 40, Plauto, Tito Maccio, 11
41,42, 53, 110, 111 Plinio Caio Secondo, il Vec-
Onofri, L., 126 chio, xxxV11, xxxVI1I e n. 49,
Orazio, Quinto Flacco, XXXVII, 8, 59, 60, 78, 85, 99, 106,
46,70, 80, 84, 111, 115, 155 108, 109, 110, 111, 114
Origene, 118, 122, 125 Plotino, xxxV1I, xxxlx n. 51,
Oromasdo (Orzmud), 108, 109 11,36, 42, 88, 89, 90, 112,
Ostane, mago, 1 10 1 14, 120
Ovidio, Publio Nasone, 9 Plutarco, xxxv11, xxxV1II, 14,
31» ss. 16. s7›4I› ss» ss› 56.
Paolino da Nola, 1 10 57,58, 60, 121
Paolo, apostolo, XX n. 18, 28, Poliziano, Angelo, X e n. 1,
29, 52, 120, 123, 168 XXXIV, XXXV 6 II. 43, XXXVIII
Papio, M., 32, 38, 46 n. 51, XLIII, XLV n. 66, L, 11,
Parmenide, 15, 27 12, 14, 20, 54, 56, 58, 60, 76,
Petrarca, Francesco, 55, 67, 70, 79. 86. 89. 93. 94. 96› 97.
78 106, 111,117, 131,135, 136,
Petronio, Arbitro, 78 155, 159, 167, 168
Pico, Giovan Francesco, X n. 1, Porfirio, XXXIX n. 51, 58, 90,
XI e n. 4, XVI n. 1 1, XLI, XLV 105, 108, 112
n. 66, xLvIII n. 71, XLIX n. Prisciano, filosofo, 14
74, 17, 22, 68,72, 82, 84, 90, Proclo, XXXIX n. 51, 88, 90,
96, 159,166, 167, 168, 169, 100, 101, 169
170, 191 Properzio, Sesto, XXXVII, 70,
Piemontese, A.M., 17, 127, 82, 164
131, 150 Psello, 62, 114
Pietro, san, XXXIV, 61
Pistelli, E., 12, 58, 60 Quintfliano, Marco Fabio, 84,
Pitagora, xxv, xxVII, xxx1I, 86, 131 (pseudo)
XXXIV, XLIII, 15, 16, 27, 57,
58,59, 60, 61,80, 95, 100, Rabano Mauro, 38, 46
INDICE DEGLI AUTORI 205

Raspanti, A., XXV n. 27, XXVI n. Tacito, Publio Cornelio, 169


29, XLIX n. 74 Tamani, G., 129
Reinhardt, H., xIII Temistio, 15, 53, 88
Rinuccini, Alamanno, 1 10 Teocrito, 1 14
Rizzo, S., 57 Teodoreto di Ciro, XLII, 91
Rose, V., 85, 98 Teofrasto, 14, 88
Roulier, F., xI1I, xvI1 n. 13, xvII1 Terenzio, Publio Afro, 79, 131
n. 14, XXII n. 22, XXIV n. 26 Tertulliano, Quinto Settimio
Florente, 110, 151, 169
Sabbadini, R., XIII n. 7 Timeo di Locri, 8
Salutati, Coluccio, 39 Timoteo, 163, 187
Salviati, Roberto, 8 3, 156 Tobia, 67
Sarea, 125 Tognon, G., X n. 1, 2, 160, 163,
Savonarola, Girolamo, X n . 3, 164, 183, 184, 187
XLIX, L, L1 Tommaso d'Aquino, san, XXIX,
Scipione, Publio Cornelio Afri- 3, 4,84, 86, 170
cano Minore, detto Emilia- Tornabuoni, Lucrezia, L
no, 87 Trinkaus, Ch., XIII n. 7
Secret, F., 128, 150 Tron, Francesco, 27, 84, 155,
Selemia, 125 188
Semprini, G., 161, 163, 164, Turmeda, Anselmo, 2
169
Seneca, Lucio Anneo, XXXVII, Ugo da San Vittore, 46
19. 24, 64. 86. 91. 92. 94.
107, 151 Valcke, L., XX n. 18, XXXI n.
Set, 15 40, XXXVIII n. 49, Io, 92, 93,
Silber, Eucharius, 180 '°3› '79
Simplicio, 16, 37, 88, 97 Valerio Massimo, 107
Sinesio di Cirene, 114, 115, 120 Varrone, Marco Terenzio, zo
Siriano di Alessandria, 100, 101 Vasoli, C., X n. 3, XXII n. 23
Sisto IV, papa, 126, 128, 129 Verino, Ugolino, XX n. 16, L
Socrate, XVII, 45, 50, 51,73 Vespasiano da Bisticci, 79
Sorbelli, T., XLVIII n. 71 Vinciguerra, Antonio (detto
Spagnoli, Battista, detto Batti- Antonio Cronico), 130, I 56
sta Mantovano, XLIV, 96 Violet, B., 1 18
Stazio, Publio Papinio, 14, 42, Virgilio, Publio Marone, 14,
s4› 76› 169 39» 42› $°› "I
Strabone, 107
Svetonio, Tranquillo Caio, 43, Wendel, K., 1 14
78, 169 V(/esseling, A., 58
Wind, E., XXXVI n. 45, 52, 134
206 INDICI
Wirszubski, Ch., XL e n. 54, Zaratustra, cfr. Zoroastro
XLIX n. 74, 15, 17, 20, 62, Zenone di Cizio, 86
127, 128, 129, 144, 149, 171, Zoroastro, xxVII, xxxlv, XL,
172, 173, 174, 184, 185 XLIII, 15, 16, 27,47, 51, 62,
63, 100, 104, 105, 107, 108,
Zalmossi, 107, 108, 109, 110 109, 110, 111, 132, 173
Zambelli, P., 99, 100, 173 Zorobabele, 125
Zanier, G., 92
Indice

Introduzione VII
Bibliografia LIII

DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELIJUOMO 1

Appendice I 39
Nota al testo e apparati 157
Indice dei nomi I 95
Indice degli autori I 99
Finito di stampare
nel mese di aprile 2014
per conto della Guanda S.r.l.
da La Tipografica Varese S.p.A. (VA)
Printed in Italy

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