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SULLA DIGNHA
DELLUQMQ
A cum di Francesco Bami

F dazione Pietro Bembo / Ugo Guanda Ed


BIBLIOTECA DI SCRITTORI ITALIANI
diretta da Dante Isella e Giovanni Pozzi
Collezione già diretta da
Dante Isella, Giorgio Manganelli, Giovanni Pozzi

Questo volume è stato pubblicato


con il contributo della
FONDAZIONE CARIPLO

Coordinazione redazionale: Luca Carlo Rossi


Redazione: Luca Carlo Rossi, Davide Profumo

ISBN 978-88-8246-455-4
© 2003 Fondazione Pietro Bembo
Seconda edizione marzo 2007
Terza edizione aprile 2014
GIOVANNI
PICC)
DELLA MIRANDQLA

Dlsconso \
SULLA DIGNITA
DELL*uoMo
A cum di Fmncesfo Bmw'

Fd Pfßmø/Ugc; 454
INTRODUZIONE
La fortuna e la fama di Pico in età moderna riposa-
no in gran parte sulla cosiddetta Oratío de /øomims dz'-
gmìfate, che - tra le opere del Mirandolano - è di gran
lunga Ia più letta, studiata e tradotta; in definitiva,
l'unica (accanto alla grande epistola a Ermolao Bar-
baro sullo stile del discorso filosofico) capace di im-
porsi anche al di fuori della ristretta cerchia degli spe-
cialisti. Destino invero singolare, questo, per uno
scritto cui, a quanto si può capire, Pico non doveva
attribuire un rilievo paragonabile a quello di altre sue
opere di ben maggiore impegno e respiro, quali
Iifieptaplus, il Commento az' Salmi, il De ente et uno e
le Dz'sputatz`one.r adversus astrologíam dz'z›z'mztrz'cem.
L'Omtío venne stesa tra la fine del 1486 e l'inizio del
1487 perché fungesse da solenne prolusione alla di-
sputa romana che, progettata dallo stesso Pico per il
gennaio 1487, avrebbe dovuto sottoporre aIl'esame
di un ampio consesso di dotti le novecento tesi filoso-
fiche redatte per I'occasione dal Mirandolanoz ma il
fallimento deII”ambizioso disegno (determinato dalla
decisa opposizione di teologi e uomini di Chiesa, e
daII'intervento del papa Innocenzo VIII) travolse an-
che l'orazione, che Pico - dopo averne riutilizzata Ia
seconda parte nel proemio deII`/lpologia, composta
nella primavera del 1487 per difendere le tredici tesi
messe sotto accusa dalla commissione pontificia -
non volle né pubblicare, né altrimenti divulgare. La
circolazione deII'operetta, infatti, sembra essere stata
molto limitata, e non oltrepassò, verosimilmente, la
X INTRODUZIONE

cerchia dei più stretti amici delI”autore:1 i contempo-


ranei di Pico non la citano (ad eccezione del Polizia-
no, che la ricorda nella prima centuria dei Miscella-
nea, del 1489)2 e non la copiano (ad eccezione di
Giovanni Nesi, trascrittore di una precedente reda-
zione dell'Oratz'o);3 lo stesso Pico, alI'umanista bolo-
gnese Filippo Beroaldo il Vecchio - che nel 1491 gli
aveva richiesto l'invio di alcune sue opere - si limitò a
spedirgli le due epistole al Barbaro (1485) e a Loren-
zo de' Medici (1486), che già allora andavano affer-
mandosi come gli scritti pichiani più noti e diffusi.
Non solo: quando, appena giunto a Roma, nel di-
cembre 1487 Pico fece stampare le sue novecento

' Così afferma anche il nipote Giovan Francesco, presentando il


testo dell”Oratz'o all'interno della stampa da lui curata delle opere
di Pico (Cofnmenlalíoncr, Bologna, Benedetto Faelli, 1496): «hanc
domi semper tenuerit, nec nisi amicis comunem fccerit›› (citato in
Discorso .tulla dígnílà dcll'u0mo, a cura di G. TOGNON, prefazione
di E. GARIN, Brescia, Editrice La Scuola, 1987, p. 1).
2 L'Orazi0 è ricordata dal Poliziano in chiusura del primo capi-
tolo dei primi Miscellanea, a proposito dell'accordo tra la filosofia
di Platone e quella di Aristotele: «quod et Picus hic Mirandula
meus in quaclam .tuarum dz'.t]›utatz`0nu/n praefatzbne tractavit» (Ope-
ra omnia, p. 227).
I Di mano del Nesi (come segnalato da B/\(I(1I IELLI, Gz'oz/anm'P1'-
co, p. 56) è infatti la copia dell`Oratz`0 contenuta nel ms. Palatino 885
della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, che ospita una reda-
zione anteriore a quella definitiva (cfr. qui la Nola al te_vl0): lo confer-
ma senza ombra di dubbio il confronto con altri mss. autografi del
medesimo Nesi, come il 384 e il 2962 della Biblioteca Riccardiana di
Firenze, contenenti rispettivamente l”Oraculufn de novo saeculo e le
rime. Sul Nesi (145 6-dopo il 1522) cfr. VASOLI, Giovanni Nesi. Va ri-
cordato che l'Oraculum de novo saecalo (datato settembre 1496,
uscito a stampa nel maggio 1497 e parzialmente edito ibid., pp. 1 1o-
28) introduce Pico quale «apologista del Savonarola e annunziatore
del mirabile destino di Firenze, della Cristianità e di tutto il genere
umano›› (z`bid., p. 54), ed è ricco di reminiscenze pichiane (dall'Ora-
tio e, soprattutto, dall'epístola a Ermolao Barbaro del 1485).
INTRODUZIONE XI

Conclusione: (sulle quali avrebbe dovuto vertere la


pubblica discussione organizzata per il mese successi-
vo), egli non si curò di farle precedere dall”Oratz'0, al-
la quale, evidentemente, non annetteva una specifica
e particolare valenza teorica, ma solo una retorica
funzione introduttiva, secondo le regole e le consue-
tudini delle prolasíones solitamente scritte e pronun-
ciate in simili circostanze. L`orazione, insomma, non
avrebbe dovuto essere oggetto di dibattito: e infatti,
né su di essa si concentrò in alcun modo l'interesse
dei membri della commissione d'inchiesta istituita
dal papa (ai quali, con ogni probabilità, il testo rima-
se sconosciuto), né Pico la chiamò mai in causa quan-
do, per difendersi dalle accuse rivoltegli, stese la sua
densa e agguerritissima /lpología. All›interno della
quale, per di più, egli recuperò, come si diceva, solo
la seconda parte dell'Oratz'0 (quella, appunto, pole-
mica e apologetica), trascurando completamente la
prima, quella incentrata sull'esaltazione della dignità
e della libertà umana che tanto ha entusiasmato i mo-
derni interpreti. Solo due anni dopo la morte di Pico,
nel 1496, l'orazione vide la luce, all'interno della sil-
loge delle opere pichiane curata e pubblicata a Bolo-
gna dal nipote Giovan Francesco; il quale le impose
l'anodino titolo di Oralio quaedafn clcgantz'ssz'fna, e la
inserì, insieme alle epistole, fra gli scritti prettamente
letterari e filosoficamente meno impegnati di Pico
(«lucubrationes levioris curae opera››), assegnandone
la stesura - e quella, connessa, delle novecento tesi -
all'età giovanile, dominata, a suo dire, da quel gusto
della disputa che presto avrebbe lasciato il posto a
studi più approfonditi e a opere più meditatef'

I Da ricordare anche il giudizio che, nella Vita dello zio, lo stes-


so Giovan Francesco dà dell'Oratz'o, prcscntandola come un testo
XII INTRODUZIONE

Questi meri ma pur significativi dati di fatto già


dovrebbero, anche a prescindere da ogni altra consi-
derazione, mettere in guardia contro le interpretazio-
ni indebitamente modernizzanti e attualizzanti cui
l'Oratio è stata più volte sottoposta nel diciannovesi-
mo e nel ventesimo secolof da parte di chi ha voluto
fare di questo testo ora il manifesto del Rinascimento,
ora l`atto di nascita di una moderna (ossia laica e im-
manentistica) concezione dell'uomo, ora il punto di
partenza della rivoluzione scientifica di Copernico,
Keplero e Newton, ora la prima espressione di una
concezione pluralistica della cultura, ora - nienteme-
no - l'anticipazione della critica marxista o delliesi-
stenzialismo sartriano. Certo, dopo studi fondamen-

«quae non tam iuvenis, quartum et vicesimum annum nondum na-


ti, perspicacissimum ingenium et doctrinam uberrimam redolet
(quod et cunctae ipsius scriptiones faciunt), quam fertilissimae
ipsius eloquentiae locupletissimum nobis testimonium praebet››
(z'l›z'd., p. 54).
5 Particolare fortuna ebbe l'Oratío, soprattutto, negli anni tra le
due guerre mondiali, quando una risonanza tutta speciale acquista-
vano, naturalmente, i temi della dignità e della libertà umana: cfr.
C. C/\RIìNA, ll .tignzficam a'ell'0razi0nz' .falla dignità clell'a0mo, in-
troduzione a De hoininir dignilate. La dignzhì dell'u0m0, a cura di
C. CAREN/\ e V. BR/\N(I/\, Milano, Silvio Berlusconi Editore, 1995,
p. XXIX; e E. GARIN, Introduzione a Oratio dc /pomini; dignitale,
Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1994, p. XXIII; II)., Prolurione,
pp. XLV e LI («Fra il 1936 e il 1942 escono in Italia due edizioni
complete c una parziale del testo latino della Oratio sull`uomo, tut-
te con traduzione a fronte, due traduzioni inglesi e una tedesca,
per non dire delle edizioni e traduzioni che si affollano negli anni
successivi. E questo dopo un`assenza secolare. E difficile non ri-
cordare che sono gli anni del trionfante razzismo nazista e fascista,
della seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze. Sarà stata
un`illusione di spiriti ingenui, come dicono avvertiti critici d'oggi.
Allora colpì quell'impetuosa difesa dell`uomo come punto di asso-
luta libertà, quella volontà di pace universale, quella fede nei valori
della cultura, quella sdegnosa condanna di ogni mistificazione re-
torica››).
INTRODUZIONE XIII

tali come quelli di Di Napoli, De Lubac, Craven,


Roulier e Reinhardt (per citare soltanto i maggiori),
appare chiaro che le gracili spalle di un testo come
l'Oratz'o mal sopportano simili oneri; e che la fortuna
moderna dell'orazione, nonché il successo riscosso
dalle sue interpretazioni più arditamente attualizzan-
ti, si devono in buona parte (ma in modo del tutto
improprio, visto che - ripeto - l'Oratio non venne
colpita dalla censura della commissione pontificia, né
anzi fu mai oggetto di discussione) all'aspro contrasto
che oppose Pico alle autorità ecclesiastiche, facendo-
ne agli occhi di alcuni tra i moderni il «primo di tanti
campioni del laicismo e del progresso, vittima della
libertà di pensiero e di espressione>›.(°
Per accostarci a una considerazione storica dell'0-
ratio bisogna in primo luogo tenere presenti le sue vi-
cende redazionali ela sua destinazione originaria. Co-
me si diceva, il testo fu concepito da Pico per essere
recitato in apertura della disputa filosofico-teologica
da lui organizzata a Roma per l°inizio del 1487, e ap-
partiene al fortunato genere umanistico della prolu-
sione, solitamente strutturata in due parti: la prima di
carattere generale (imperniata su un tema di ampio
respiro scelto dallloratore), la seconda più specifica-
mente dedicata a illustrare le finalità, il metodo e l'ar-
gomento del corso universitario o della discussione
pubblica che ci si accingeva a inaugurare.7 Il testo del-

I* Sono parole di CARENA, Ilsignzfieato dellbrazione, Cit., p. XXVIII.


7 Cfr. KRlS'I`I;LLIiII, Sources, pp. 52-53; DE LUBAC, Pico, p. 49;
CRAVEN, Un caro, pp. 82-83. In generale sulla prolusione umanisti-
ca cfr. SABBADINI, Il metodo, pp. 35-38; FLIIA, Prolzlemz', pp. 536-
38. Significative, sotto questo aspetto, sono ad esempio le prolusio-
ni redatte dall'umanista fiorentino Bartolomeo Fonzio per i corsi
da lui tenuti presso lo Studio fiorentino negli anni ”8o del Quattro-
cento (cfr. al riguardo TRINKAUS, /l Ilumanirtfv Image).
XIV INTRODUZIONE

l'orazione che oggi noi leggiamo si conforma solo par-


zialmente a questo schema, giacché Pico, arrivato a
Roma alla fine di novembre del 1486, decise nelle set-
timane seguenti di aggiungere alla primitiva e già con-
clusa stesura dell'Oratío (passata anch°essa almeno at-
traverso due fasi redazionali) una lunga appendice -
tale da costituire circa la metà del testo attuale, e cor-
rispondente ai §§ 143-268 della presente edizione -
per replicare alle critiche prontamente mossegli da al-
cuni suoi avversari: occuparsi di filosofia, aver orga-
nizzato una disputa filosofica pubblica, essere troppo
giovane per un'impresa tanto ardua, aver proposto al-
la discussione un numero eccessivo di tesi.8 L°inseri-
mento di questa sezione - che, come già abbiamo det-
to, venne poi inclusa da Pico, con poche modifiche,
nella parte iniziale dell'/lpologia - alterò sensibilmen-
te lo studiato equilibrio e il compatto impianto origi-
nario dell'operetta, snaturandone la struttura di pro-
lusione divisa in due parti: una prima, più ampia, de-
dicata alla proclamazione della dignitar bofninir e alle
lodi della filosofia (§§ 1-1 Io della redazione palatina,
trasmessa dal già ricordato ms. Palatino 885 della Bi-
blioteca Nazionale Centrale di Firenze e corrispon-
dente a una fase anteriore a quella definitiva); una se-
conda, più breve (§§ 111-134 della medesima reda-
zione), occupata da una sintetica esposizione del cri-
terio seguito da Pico per stendere le tesi sottoposte al-
la discussione (spaziare per tutti i pensatori e per tutte
le scuole filosofiche) e dell'obiettivo da lui assegnato
alla disputa (avvicinarsi alla verità attraverso il con-
fronto e lo scontro, anche aspro, delle opinioni).

8 Per la storia redazionale dell`Oratz'o cfr. qui la Nota al texto,


pp. 176-81.
INTRODUZIONE XV

Ricondurre l'Oratz'o al suo primitivo genere di ap-


partenenza (la prolusione umanistica) non significa
ridimensionarne l'importanza, né ridurla, come talo-
ra è stato fatto, ad una semplice e vuota esercitazione
retorica; ma consente di evidenziarne quel carattere
occasionale che agli occhi di Pico - evidentemente -
essa non cessò mai di avere, tanto da rimanere per
sempre chiusa nel suo cassetto una volta tramontato
il progetto della disputa romana. A questo progetto,
in effetti, l'orazione è inscindibilmente legata: da ciò
derivano le sue peculiari caratteristiche, che non sono
quelle di un trattato filosofico, ma piuttosto quelle di
un discorso eloquente e solenne, in cui lo svolgimen-
to del pensiero è affidato a una forma letterariamente
e stilisticamente accattivante, ad un”esposizione più
brillantemente poetica che teoricamente rigorosa e
serrata. L'Oratz'0, insomma, non è (e non era per il
suo autore) un testo dotato di una propria autonomia
teorica; è un testo pensato per la pubblica recitazio-
ne, in un°occasione di particolare solennità, che per
Pico avrebbe dovuto tradursi anche nella consacra-
zione ufficiale della sua prodigiosa competenza lette-
raria, filosofica e teologica. Di qui l`esordio immagi-
nifico dell'orazione (con le parole di Dio ad Adamo,
e la singolare, ardita rivisitazione della scena iniziale
del Genesi), di qui la densa elaborazione stilistica e
retorica del dettato, di qui il ricchissimo apparato di
fonti dispiegato nel corso dell'operetta. Ma altro è
apprezzare questi aspetti, altro è sopravvalutare -tra-
scinati dallI«alato messaggio››9 di Pico - la portata e
la novità filosofica dell'Oralz'o.
Come è noto, il titolo Oratio de /ao/ninir dignitate

9 La definizione è del DI NAPOLI, Giovanni Pico, p. 292.


XVI INTRODUZIONE

non è originale, e compare perla prima volta nell”edi-


zione di Strasburgo del 1504.10 Esso, per di più, non
corrisponde esattamente al contenuto dell'intera ope-
retta, ma solo a quello della sua parte iniziale (§§ 1-5o
della redazione definitiva), in cui Pico esalta la libertà
delliuomo come possibilità, concessagli da Dio, di
plasmare autonomamente la propria natura e il pro-
prio destino;“ il resto dell`orazione sviluppa invece
l'elogio della filosofia (§§ 51-142), per poi lasciare
spazio all'autodifesa dalle accuse dei detrattori, all'in-
terno della quale vennero inseriti, con qualche modi-
fica, anche i passi che nella stesura originaria illustra-
vano i modi e i fini della disputa. E proprio la parte
iniziale quella che ha attirato maggiormente l'atten-

'° Cfr. ancora la Nota al testo, p. 174.


" Ciò non toglie che il tema della digní/ai /aominix rivesta una
notevole importanza nella riflessione di Pico, e torni più volte nei
suoi scritti, dall'Heptaplux (IV 5; V 6-7; VII prooemium, p. 332:
«Audiamus igitur sacros theologos dignitatis nostrae nos admo-
nentes››) al Commento aiSal/ni (cfr. ad esempio p. 74: <<Hosti pe-
percisti, Domine, et inter terrestris tuae militiae munera nos iterum
collocasti, poenitentiae sacramento in pristinam libertatem dignita-
temque restitutos››; e p. 164: «ad id cohortans, ut integram retinea-
mus humanam dignitatem››), dall'epistolario (lettera al nipote Gio-
van Francesco del 15 maggio 1492: «obliti propriae dignitatis››:
Commentationes, f. RR iii U = Opere complete, epistole di Pico, I)
alle Duodeei/n arma _rpiritualir pugnae (VIII: «hominis dignitas et
natura») c all'esposizione del Padre noslro («Si ergo consideraveri-
mus quod magna dignitas est ct felicitas vivere sine peccato, [...]
erit hoc nobis magnum incitamentum, ne aut propter momenta-
neam voluptatem, aut rem aliquam huius mundi, in quo nihil pote-
st esse quod non sit parvum et breve et nobis commune cum bru-
tis, tantam dignitatem et felicitatem amittamus››). Questi ultimi
due scritti (insieme al commento al salmo XV e alle altre operette
spirituali di Pico: le Duodecim regulae, le Duodeeim conditioner
amanti: e - par di capire - la Deprecaloria ad Deum) sono ritenuti
apocrifi - ma su fragilissimi fondamenti - da FARMER, Syneretirm,
pp. 166-69 (cfr. qui anche nota 75).
INTRODUZIONE XVII

zione dei lettori moderni, propensi in molti casi a ve-


dervi l'espressione di un'antropologia tutta terrena e
immanentistica; ma basterebbe, a mettere in guardia
da una simile interpretazione, osservare non solo che
(come rilevò il Kristeller) le parole di Dio ad Adamo
si collocano anteriormente alla caduta di quest'ulti-
mo (e quindi non riguardano l`uomo menomato dal
peccato originale),12 ma anche e soprattutto che la li-
bera scelta di cui tratta Pico comporta l'assunzione di
una precisa reponsabilità morale. In altri termini, è
evidente che la scelta presuppone una norma, una
legge divina cui l'uomo ha la liberta di ottemperare o
di ribellarsi: non ogni scelta è ugualmente buona e le-
gittima (qualunque relativismo etico è estraneo a que-
sta pagina come all'intera opera di Pico), buona e le-
gittima essendo solo quella che porta l'uomo alla
conoscenza di Dio e alla piena identificazione con
lui.'3 L”uomo può scegliere di non conformarsi al

'2 KR1sTi:LLE11, Sources, p. 5 3.


'I Cfr. ad es. R()ULIER,]ean Pic, pp. 444-45, 448 (dove si afferma
che l'uomo «n`est pas sa propre norme, et sa volonté ne crée pas la
valeur; elle l'actualise seulement››). E già KIIISTELLILII, La dignità
delfuomo, p. 18, sottolineava che per Pico «scegliere la propria na-
tura fra molte potenzialità non significa che tutte le scelte siano
ugualmente buone e desiderabili. Al contrario c'è un chiaro ordine
e rango fra queste possibilità, ed e compito e dovere dell`uomo sce-
gliere la forma più alta di vita a lui accessibile. La dignità dell`uo-
mo consiste nella sua libertà di scelta, perché le diverse possibilità
che gli si aprono includono la più alta; la sua dignità è perciò pie-
namente realizzata soltanto quando è scelta la più alta possibilità››;
e pp 18-19: «È evidente che egli [reil Pico] non intende suggerire
che la natura umana - in ognuna delle sue forme date - 0 la scelta
umana - in ognuna delle sue varietà - siano ugualmente valide e
capaci di accrescere la dignità umana. Il pensiero di Pico si svolge
piuttosto nei termini di alternative morali e intellettuali. L'eccellen-
za dell'uomo si realizza soltanto quando egli sceglie le forme più al-
te di vita morale e intellettuale a lui offerte, e questa eccellenza ap-
XVIII INTRODUZIONE

progetto divino, e di assecondare la parte vegetativa o


sensuale del suo essere: ma così facendo uscirà dal-
l'0rbita a lui assegnata (§ 81), ossia peccherà, e ne pa-
gherà tutte le conseguenze, abbassandosi al livello di
una pianta o di un animale bruto.“ La libertà umana
consiste dunque nel libero arbitrio, che consente al-
l'uomo di accettare volontariamente quell'ordine di-
vino cui tutte le altre creature sono invece rigidamen-
te vincolate. 15

pàrticne alla sua natura soltanto nel senso che questa natura inclu-
de fra le sue potenzialità quelle forme più alte di vita››. Cfr. anche
PICO, Commento sopra una canzona, II 26, p. 530: «nell”anima no-
stra, la quale è per natura libera, e puossi volgere e alla sensibile
bellezza e alla intelligibile».
"I Cfr. I-Ieptaplus, IV 5, p. 280: <<[propheta] ad eas se transfert,
quorum opus appetere, irae videlícet et libidinis, idest concupi-
scentiae, sedes. Has per bestias designat et irrationale genus viven-
tium, quia sunt nobis cum bestiis communes et, quod est infelicius,
ad brutalem saepe nos vitam compellunt [...] ut non sit creditu dif-
ficile paradoxon Pythagoricorum, si recte intelligatur, improbos
homines migrare in bruta. Intus enim atque in nostris adeo visceri-
bus bruta sunt, ut non procul peregrinandum sit ut migremus in il-
la››; e Commento ai Salmi, p. 152. Alla luce di tutto questo, ROU-
L1ER,]ean Pie, p. 493, osserva giustamente che la dignitas non è una
prerogativa e una proprietà data all'uomo una volta per tutte, ma
una realtà che egli deve conquistare giorno per giorno, esercitando
rettamente il suo libero arbitrio e lottando contro le forze che osta-
colano la sua unione con Dio.
'5 Cfr. O. BOULNOIS, Humanixme et dignité de l'/øomme selon
Pic de la Mirandola, in JEAN Plc DE LA Min/\NDoLE, Oeuvrm- phila-
rop/aiz/uer, p. 336: «La dignité de l'homme atteint paradoxalement
son comble lorsque cet être atteint librement la destination qui lui
a été assignée par la nature». Si tratta, in fondo, del paradosso cri-
stiano della `libera servitù) (l'uomo è veramente libero - perché li-
bero dal peccato, che è la vera schiavitù - quando si assoggetta
spontaneamente e senza riserve alla volontà divina e all`ordine na-
turale delle cose), recuperato e riproposto, in àmbito neoplatonico,
da Marsilio Ficino, da Lorenzo de' Medici e dallo stesso Pico nel
Commento sopra una eanzona (I 24, p. 517): «Di qui si può inten-
dere che al fato non sono sottoposte se non le cose temporali, e
INTRODUZIONE XIX

Sono, queste, considerazioni quasi ovvie, su cui


non sarebbe neppure il caso di soffermarsi se intere
generazioni di interpreti, forzando la mano al testo
(e, insieme, al complesso dell'opera pichiana), non
avessero proposto letture inopportunamente attualiz-
zanti di una pagina in sé trasparente, anche se am-
mantata dei veli di una retorica che può trarre in in-
ganno il lettore meno avvertito. Identiche riflessioni
possono farsi a proposito del ruolo riservato da Pico
alla grazia nel processo di innalzamento dell'uomo
verso Dio; a quanti ne hanno negato o comunque ri-
dimensionato l'importanza, vedendo teorizzata nel-
l'Orati0 una sorta di titanica e prometeica (o addirit-
tura pelagiana)“” capacità di autodeterminazione,

queste sono quelle che sono corporee; e però, essendo l'anima ra-
zionale incorporea, non è sottoposta al fato, anzi domina a quello,
ma bene è sottoposta alla providenzia e serve a quella; il quale .rer-
vire e una vera liberta, perché, sc la voluntà nostra obbedisce alla
legge della providenzia, e da lei guidata sapientissimamentc alla
consecuzione del suo desiderato fine; e ogni volta che da questa
servitù si vuole liberare, si fa di libera veramente serva, e fassi
schiava del fato, del quale prima era padrona, perche il deviare dal-
la legge della providenzia non è altro che lasciare la ragione e se-
guire il senso e l'appetito irrazionale, el quale è sottoposto al fato
per essere di natura corporeo; e però chi a lui si sottopone, molto
più si fa servo di colui di cui esso è servo›› (e anche III 2, p. 537:
«né mai ritiene la natura inferiore la sua libertà, se non quando del-
la superiore a sé è interamente serva; però convenientemente si
sottopone el nostro poeta alla violenzia dello amor celeste, cogno-
scendo in lei libertà grandissima»). Sulla questione cfr. M/\R'l`I-ILLI,
Proodor ea' epirtrop/né, pp. 1247-56.
If' Cfr. da ultimo BUCK, Ifantropologia, p. 10, che parla, riguardo
all'Omti0, di «una deifica'/.ione <lell'uomo che non tiene conto del-
la macchia del peccato originale e della necessità della grazia divi-
na», e di «una redenzione ad opera dell'uomo fondata [...] sulla fi-
ducia umanistica nella perfettihilità della natura umana attuabile
con le proprie forze» (ma basti, al riguardo, rinviare al coevo Com-
me///o .ro/mi una eanzona, III 4, p. 540, dove la caduta di Adamo è
imputata alla sua «cupidità di assomigliarsi perla scienzia del bene
XX INTRODUZIONE

basterebbe ricordare il proemio al settimo libro


dell'Heptaplus (il commento ai primi ventisette ver-
setti del primo capitolo del Genesi, composto e dato
alle stampe nel 1489), in cui Pico distingue tra la feli-
cità naturale (raggiungibile dall”uomo con le forze
della sua sola ragione) e la felicità soprannaturale, alla
quale soltanto Dio può elevarci." Ma è sufficiente
anche considerare un breve passo della stessa Orario,
appartenente al discorso rivolto da Dio ad Adamo:
«Poteris in inferiora, quae sunt bruta, degenerare;
poteris in superiora, quae sunt divina, ex tui animi
sententia regenerari» (§ 23). Passo ove non sfuggirà
la distinzione sottile ma fondamentale fra l'attivo de-
generare e il passivo regenerari, che presuppone l”in-
dispensabile intervento della grazia per la rigenera-
zione dell'uomo,"* come lo stesso Pico ribadisce
tanto nell'Heptaplur,'9 quanto nel Commento ai Sal-

e del male a esso Dio, e quasi per questa via dal suo governo, come
di quello non più bisognoso, liberarsi››). Il pelagianesimo era la set-
ta eretica che negava la necessità della grazia per la salvezza del-
l”uomo (cfr. il mio commento a U. VERINO, Epigrammi, Messina,
Sicania, 1998, pp. 249-51: epigr. Il 8, intitolato Qi/od bominer libe-
ro arbitrio, .tine Dei gratia, Coelum mereri neø/ueant, et quomodo
procedatur).
'I Cfr. Ileptaplui', VII, prooemium, pp. 324-26: «Est autem feli-
citas (ut theologi praedicant) alia quam per naturam, alia quam per
gratiam consequi possumus. Illam naturalem, hanc supernatura-
lem appellant››, E cfr. al riguardo DI NAPOLI, Giovanni Pico, pp.
411-12, e DF. LUBAC, Pico, pp. 118-19; e qui anche le note 18 e 2o.
I” Cfr. V/\I.(lKE-G/\LIB()IS, Le periple intelleetuel, pp. 1 1o-12,
170, 175-76; e già DE LUBAC, Pico, p. 116. Cfr. inoltre MAILSILIO FI-
CINO, De raptu Pauli (in Prosatori latini, p. 966): «Ama ante omnia
Patrem illum quo feliciter generaris, felicius regenerarir». La rige-
nerazione è anche un tema ermetico: cfr. Corpus Her/neticum, XIII
1-7.
19 <<Verum sicut omnes in primo Adam, qui oboedivit Sathanae
magis quam Deo, cuius filii secundum carnem, deformati ab homi-
ne degeneramur ad brutum, ita in Adam novissimo Iesu Christo
INTRODUZIONE XXI

mi.2° E ancora nell'Heptaplus si possono rintracciare


altre analoghe e non meno chiare formulazioni del
medesimo concetto, fondate sull”antitesi fra la possi-
bilità dell”uomo di degenerare autonomamente in un
animale bruto, e l'impossibilità per lui di innalzarsi
verso Dio senza il suo gratuito intervento."
D”altronde, l`idea chela dignità dell'uomo consista
essenzialmente nella sua libertà (cristianamente inte-
sa nel modo qui sopra sommariamente esposto) con-
ta numerosi precedenti nella tradizione patristica e

qui voluntatem Patris implevit et suo sanguine debellavit nequitias


spiritales, cuius filii omnes secundum spiritum, reformati per gra-
tiam regeneramur ab homine in adoptione filiorum Dei, si modo ut
in illo ita in nobis princeps tenebrarum et mundi huius nihil inve-
nerit>> (I-Ieptaplux, IV 7, p. 286).
2° «Tum vero id maxime facit theologica scientia ad maiora nos
provehens et non solum ad id cohortans ut integram retineamus hu-
manam dignitatem neve ab homine degenerefnur in brutum, sed ut
sancta aemulatione divinarum mentium [...] ex terrenis hominibus
in coelestes homines regenereønum (Coznmento aiSal/ni, p. 1 64).
2' «Ad hanc [cioe alla felicità soprannaturale] angeli attolli qui-
dem possunt, sed non possunt ascendere. Quare peccavit Lucifer
dicens: “Ascendam in caelum”. /ld hanc ire homo non potert, tra/91
poteri; unde Christus de se, qui est ipsa felicitas, dixit: “Nemo ve-
nit ad me nisi Pater meus traxerit illum". Bruta autem et quae infra
hominem, nec ire nec trahi ad illam possunt. Ideoque solus homo
et angelus ad eam sunt facti felicitatem, quae est vera felicitas. Po-
test vapor conscendere in altum, sed non nisi attractus radio solis;
lapis et corpulenta omnis substantia neque radium usque quaquam
admittere neque per illum tolli in sublime potest. Ilunc radium,
hanc vim divinam, hunc influxum, gratiam appellamus, quia Deo
et hominem et angelum gratos efficiat›› (Heptaplui, VII prooe-
mium, pp. 332-34); «Tales enim sumus natura, ut non circumagere
nos et reflectere, sed eireumagi motrice vi gratiae et reflecti in
Deum possumus. I-Iinc illud: “Qui aguntur Spiritu Dei filii Dei
sunt”. Qui aguntur dixit, non au/em qui agunt» (i/aid., pp. 334-36);
«Ab hac [ici/. dalla felicità soprannaturale] cecidit daemon, quo-
niam ad illam ascendere, non rapi, voluit›› (ibid, p. 336). Aggiungi
anche Commento ai Sal/ni, p. 128: «tu es qui trahes ad me te per
gratiam tuam››.
XXII INTRODUZIONE

medioevale;22 accenni alla natura indeterminata del-


l'essere umano (passibile per questo delle più diverse
metamorfosi) si rintracciano - oltre che, ancora, nella
letteratura patristica - nel pensiero ermetico e in
Marsilio Ficino;23 e la stessa celebrata scena iniziale
dell'Oratio, con le parole rivolte da Dio ad Adamo
(dove si proclama il libero arbitrio dell'uomo), trova
un precedente importante in un passo degli Stromaia
di Clemente Alessandrino (IV 23, 150), di cui l`esor-
dio del discorso pichiano può essere considerata la
drammatizzazione:

22 Cfr. GARIN, La dignitax hominis; DE LUBAC, Pico, pp. 179-82;


DALES, A Medieval View; ROULIER, jean Pie, pp. 450-51; BOUL-
NOIS, Humanisme et dignite, cit., pp. 319-23.
ZI Cfr. ./lrelepiut, VI, p. 302: «omnia illi licent››; FI(:IN(›, T/oeol.
Plat., XIII 2: «facultas illa rationalis, quae propria est animae verae
natura, non est ad aliquid unum determinata, nam libero motu sur-
sum deorsumque vagatur». E, anche per il tema delle metamorfosi,
i/Jid., XIV 3: «Vitam siquidem [animus] agit plantae, quatenus sa-
ginando indulget corpori. Vitam bruti, quatenus sensibus adulatur.
Vitam hominis, prout de humanis negotiis ratione consultat. Vitam
heroum, quantum naturalia investigat. Vitam daemonum, prout
mathematica speculatur. Vitam angelorum, prout divina inquirit
mysteria. Vitam Dei, quantum Dei gratia omnia operatur. Omnis
hominis anima haec in se cuncta quodammodo experitur, licet ali-
ter aliae, atque ita genus humanum contendit omnia fieri, cum om-
nium agat vitas» (il passo precede immediatamente la citazione del
detto di Ermete «magnum miraculum est homo», riferito anche da
Pico al § 2 dell'Oratio); e sempre del Ficino, cfr. il commento all'./l-
tele/:ius (Opera, vol. II, p. 1860), dove si afferma che la «divinae in-
telligentiae obumbratio [...] malitiam parit, et transformat homi-
nem, natura quidem optimum et tlivinum animal, in naturam fere
moresque bestiarum››. Da ricordare anche il passo del De eoniectu-
ris di Niccolò Cusano citato dal DE LUBAC, Pico, pp. 214-15: «Re-
gio ipsa humanitatis Deum atque universum mundum humanali
sua potentia ambit. Potest igitur homo esse humanus Deus atque
Deus humanatus potest esse humanus angelus, humana bestia, hu-
manus leo aut ursus aut aliud quodcumque. Intra enim humanita-
tis potentiam omnia suo existunt modo›>. Per il Ficino cfr. VASOLI,
Il/Iarrilio Fieino e la «dignitas hominis», pp. 74-89.
INTRODUZIONE XXIII

Dunque l`uomo, genericamente, è foggiato secondo la


rappresentazione dello «spirito innato››: poiché non sen-
za rappresentazione o senza forma avviene la creazione
nella «officina della natura››, ove si compie misteriosa-
mente la generazione dell'uomo, e dove sono una cosa
sola l`arte e l'essenza, ma il singolo uomo è caratterizzato
dall'impronta, che si forma nell'anima, delle sue scelte.
Così noi diciamo che anche Adamo, per quanto attiene
alla sua formazione fu un essere perfetto, perché nulla gli
mancò di ciò che caratterizza la rappresentazione e la
forma dell'uomo. Ma quello che nel nascere riceveva la
sua forma perfetta ed era giustificato dall'obbedienza,
era il suo libero volere che doveva farsi adulto: per la
«responsabilità di chi sceglie», e ancor più se sceglie ciò
che è vietato, «Dio è senza colpa».24

Considerazioni non diverse sono suggerite dal pro-


sieguo dell”Oratio, dove Pico, come si diceva, tesse le
lodi degli studi filosofici. Anzi, è stato da più parti
giustamente osservato come il vero tema del discorso
sia proprio l'elogio della filosofia, rispetto al quale la
celebrazione della dignitas e della libertas dell'uomo
costituisce solo il necessario preambolo. La natura
multiforme e composita dell'essere umano (nodo e
vincolo di tutte le nature e di tutte le creature, sintesi
mirabile del mondo terrestre o sublunare, di quello
celeste e di quello intelligibile o angelico),25 se costi-
tuisce una delle principali ragioni della sua eccellen-
za, è altresì fonte di dissidi e discordie interiori,
secondo quanto Pico, citando Empedocle, afferma
nell'Oratio (§§ 85-87):

24 Ila attirato per primo l'attenzione su questo passo Dlì LUB/\(1,


Pico, pp. 181-82; secondo BOULNOIS, I-Iuinanirnze et dignité, cit.,
pp. 308-309, si tratta probabilmente della fonte diretta di Pico.
25 Cfr. Oratio, § 3; Heptaplus, aliud prooemium, p. 192.
XXIV INTRODUZIONE

I-Iic duplicem naturam in nostris animis sitam, quarum


altera sursum tollimur ad celestia, altera deorsum trudi-
mur ad inferna, per litem et amicitiam, sive bellum et pa-
cem, ut sua testantur carmina, nobis significat. In quibus
se lite et discordia actum, furenti similem, profugum a
diis in altum iactari conqueritur. Multiplex profecto, pa-
tres, in nobis discordia; gravia et intestina domi habe-
mus, et plusquam civilia bella.

Il libero arbitrio, contrassegno supremo dell'umana


dignitas, recando con sé la responsabilità etica della
scelta, acuisce la drammaticità di quest'intimo con-
flitto, dal quale viene a dipendere il destino mondano
e oltremondano dell”uomo.2° A tale conflitto soltanto
la filosofia, nelle sue varie parti, può porre fine, se-
dando con la morale gli appetiti dei sensi, vanifican-
do con la dialettica gli inganni del discorso e del ra-
gionamento, placando con la scienza della natura i
dissensi delle vane e molteplici opinioni; il tutto nella
consapevolezza che solo il quarto e ultimo gradino
della conoscenza, la divina teologia, può - innalzan-
doci dalla terra al cielo - donarci la piena e autentica
pace dell'animo (§§ 88-93). Per elevarsi dalla terra al
cielo, l'uomo, scrive Pico, deve prendere a modello le
più alte gerarchie angeliche (Troni, Cherubini e Sera-
fini), giungendo infine a quell'ardente amore serafico
che consente l'immediata identificazione con la divi-
nità; ma poiché nessuno può amare ciò che non co-
nosce, viene nuovamente ribadito il ruolo centrale
della filosofia, e soprattutto - in quest'ottica - di
quella naturale (da cui scaturisce la conoscenza del
mondo in quanto opera di Dio, e di quel microcosmo

28 Cfr. ROULIER, ]ean Pie, pp. 448-49.


INTRODUZIONE XXV

che è l'uomo) e della teologia (che nell'Oratz'o, come


meglio vedremo più avanti, sembra comunque rien-
trare nel più generale dominio della filosofia).27 Da
qui l'esaltazione dell'ordine cherubico, «nodus pri-
marum mentium, ordo Palladicus philosophiae con-
templativae preses›› (§ 66), dalla cui imitazione - con-
sistente appunto nella contemplazione, ossia nella
conoscenza filosofica e teologica - l'uomo riceve tan-
to lo stimolo a dedicarsi con retto giudizio ai compiti
della vita attiva (rappresentata dai Troni), quanto, so-
prattutto, la spinta a elevarsi verso l'immedesimazio-
ne con Dio attraverso il fuoco dell'amore (rappresen-
tato dai Serafini).
L'elogio della filosofia, e il quadruplice itinerario
gnoseologico tracciato da Pico, vengono poi confer-
mati e ribaditi attraverso la citazione di molteplici e
variegate testimonianze, attinte alle più diverse tradi-
zioni filosofiche e ai più disparati teologi antichi: da
Mosè ai sacri misteri bacchici, dai furori socratici ai
precetti delfici, da Empedocle a Pitagora e ai Caldei,
non senza accennare di passaggio alla sapienza caba-
listica e a quella araba. Nella sua struttura e nella sua
impostazione, questo ampio brano (§§ 98- 141) antici-
pa ed esemplifica il motivo dominante nell›ultima
parte dell'Oratio (ma già presente fin dalla redazione
originaria: cfr. i §§ 112 e 127 del testo palatino): il di-
segno pichiano di prendere in esame e di mettere a
frutto - nel dibattito romano e, in genere, nel suo
cammino di ricerca - pressoché tutti gli scritti di tutti
i filosofi di ogni epoca e latitudine, nella convinzione
che da ognuno possa provenire un contributo al rag-

27 Per questo cfr. DI NAPOLI, Giovanni Pico, p. 299; RASPANTI,


I*`ilo.\'oƒia, teologia, religioni', pp. 181-82.
XXVI INTRODUZIONE

giungimento della verità, e con l'obíettivo di concilia-


re (evidenziandone i tratti comuni) le dottrine appa-
rentemente contrastanti, così instaurando una pace
filosofica che si ponga come il corrispettivo, e la con-
seguenza, della pace interiore cui, come dicevamo
poc'anzi, solo la filosofia può condurre l'uomo.28
L'analisi obiettiva di questa sezione del discorso
suggerisce le medesime considerazioni scaturite dal-
l'esame della sua prima parte (quella costituita, si ri-
pete, dall'esaltazione della libertà umana e dall'elogio
degli studi filosofici). Parlare - come è stato fatto e si
continua a fare - di eclettismo, di sincretismo,29 0 ad-
dirittura di pluralismo culturale (nel senso moderno
dell'espressione),3° sembra del tutto fuori luogo. Co-
me la liberta dell'uomo non toglie (anzi, prevede ne-
cessariamente) che solo una delle sue possibili scelte
sia buona e giusta, così l`apertura a tutte le scuole fi-
losofico-teologiche e a tutte le tradizioni religiose non
toglie (anzi, implica preventivamente) che solo una,
quella cristiana, sia depositaria della piena e unica ve-
rità, comunicata all'uomo per mezzo della Rivelazio-
ne.3' L'affermazione - di sapore oraziano - di non vo-

ZI' Contemporanea alla stesura dell`Oratio è quella della Depre-


eatoria ad Deum ut bella tollat, quae per totam fremunt Italiam (=
Carmina latina, pp. 49-50), che Pico definisce, in una lettera a Bal-
do Perugino - non datata, ma assegnabile all'autunno del 1486 -
«pro pace extemporaneum carmen›› (cfr. BAUSI, Nec rlaetor, pp. 94-
96). La tormentata situazione politica italiana di quegli anni è de-
scritta e deprecata anche nel sonetto Míxera Italia e tutta Europa in-
torno, assegnabile al 1488 (Sonetti, pp. 91-92).
2° Cfr. al riguardo la rapida rassegna di RASPANTI, Filorofia, teo-
logia, religione, pp. 1 1-21; e in particolare F/\RMIiR, Syneretirm, so-
praqtåutto pp. 59-'95. v `
(_.fr. in particolare BORI, Pluralita, pp. 85-94.
I' Così anche nel Commento sopra una eanzona, I 3, pp. 464-65:
«La prima opinione è più conforme a Dyonisio Areopagita ed a'
INTRODUZIONE XXVII

ler giurare sulle parole di nessun maestro (§ 180) ri-


guarda esclusivamente, come il contesto chiarisce
senza possibilità di equivoco, l'àmbito filosofico, e
non impedisce a Pico di definire Gesù Cristo «vitae
magister›> (§ 243); la sapienza precristiana sta alla Ve-
rità rivelata come il «fictus›› al «verus›› Apollo (Cri-
sto: §§ 1 15 e 1 19),” e il ruolo dei teologi e dei filosofi
antichi (fra i quali Pico annovera anche i poeti, come
Omero: § 224) è - e solo in alcuni casi - quello di
oscuri e inconsapevoli precursori del cristianesimo,
nel cui alveo possono e debbono essere ricondotti,
una volta spogliate le loro dottrine dai favolosi am-
manti che le avvolgono (e depurate dagli errori che
inevitabilmente le macchiano).
Che questa sia l'impostazione autentica dell'Oratio
non può dubitarsi. Nel profluvio di autorità e di fonti
prodotte da Pico, le citazioni scritturali e patristiche
non solo prevalgono nettamente, ma, si può dire, in-
nervano il discorso quasi in ogni sua parte; l'ampia
sezione dedicata all'elogio della filosofia (§§ 51-141)
mette sì in campo, come si diceva, Empedocle e Pita-
gora, Bacco e Zoroastro, Socrate e Apollo, la sapien-
za ebraica e quella araba, ma si apre con le testimo-
nianze di Dionigi Areopagita, di Asaf profeta, di san
Paolo, di Giobbe, di Mosè e di Giacobbe, concluden-
dosi poi nei nomi di Davide, di Agostino, e degli ar-

teologi cristiani, e' quali pongono un numero d'angeli quasi infini-


to. La seconda e più filosofica e più conforme ad Aristotele e Pla-
tone e da tutti e' Paripatetici e migliori Platonici seguitata. E però
noi, avendo proposto di parlare quello che crediamo essere comu-
ne sentenzia di Platone e di Aristotele, lasciata la prima, bene/ae .to-
la per .té vera, seguiremo questa seconda via».
*Z Anche nella Epirtola a Ermolao Barbaro, § 62: «Apollincm
caelestem» (contrapposto al «terrestrem I\/larsìam»).
XXVIII INTRODUZIONE

cangeli Raffaele, Gabriele e Michele, i cui poteri ven-


gono delineati sulla scorta di un passo delle Omelie di
Gregorio Magno. Né è corretto sostenere, come da
più parti si è fatto, che le novecento tesi si occupano
de omni re scibili: tanto le Conclusione: quanto l'Ora-
tio operano in realtà una significativa selezione nel
campo del sapere filosofico, tralasciando, ad esem-
pio, gli stoici, gli scettici e gli epicurei, nonché - tra le
scuole moderne - il nominalismo occamistico.” E
non per nulla Pico, a quanti avevano biasimato l'ec-
cessiva quantità di tesi proposte al dibattito, replicava
di avere, al contrario, limitato quanto più possibile il
numero delle sue eonclusioner, che, se solo egli avesse
voluto, avrebbero potuto raggiungere una cifra ben
più consistente (§§ 264-266). Né risponde a verità
che tutte le auctoritater vengano poste sullo stesso
piano, e che tutte siano coinvolte nel progetto di pax
pbilosopbica: solo le quattrocentodue tesi della secon-
da sezione delle Conclusione: sono definite infatti da
Pico «secundum opinionem propriam», mentre le
quattrocentonovantotto della prima sezione concer-
nono opinioni espresse da filosofi e teologi del pas-
sato, e non necessariamente condivise dal Miran-
dolano. Anzi, alla fine dell'./lpologia Pico prende
apertamente le distanze da queste conclusioni, affer-
mando che tra di esse se ne annoverano alcune mani-
festamente empie e sacrileghe (quali quelle desunte
da Averroè e da Alessandro di Afrodisia), e come tali
da lui mai approvate o condivise, ma semplicemente

Il Cfr. per questo KRISTELLER, Sources, pp. 55, 61, 83; DE LU-
BAC, Pico, pp. 95-97, 109. Anche nella lettera al Barbaro del 1485,
Pico contrappone il 'sapiente` Giovanni Scoto al `sacrilego' Lucre-
zio (§§ 126-34).
INTRODUZIONE XXIX

enunciate per essere discusse” Quanto poi alla con-


cordia p/oilosop/aorum, l'orazione ne limita la portata a
tre coppie di pensatori (Platone e Aristotele in primo
luogo, cui si aggiungono, ma in subordine, Averroè e
Avicenna, Giovanni Scoto e Tommaso d'Aquino: §§
200-205).
Anche la struttura delle novecento tesi - rispec-
chiata nel catalogo dei filosofi contenuto nella secon-
da parte dell'Oratio - conferma l'esistenza di una
precisa gerarchia del sapere filosofico e teologico. Ca-
povolgendo l'ordine storico, infatti, Pico apre la pri-
ma sezione delle Concluriones con novantaquattro te-
si desunte dai teologi medioevali, che costituiscono il
punto d'approdo della speculazione filosofico-teolo-
gica iniziata con la rivelazione a Mosè dei misteri ca-
balistici: e due gruppi di tesi cabalistiche concludo-
no, rispettivamente, la prima e la seconda sezione
delle Conclusione; (quarantasette tesi «secundum
doctrinam sapientum Hebraeorum Cabalistarum››;
settantadue «conclusiones Cabalisticae››). Ora, Pico
propone esplicitamente la qabbalali come mezzo per
smascherare le menzogne giudaiche e come strumen-

I* «Nam ct ibi plurima sunt impia dogmata veterum philo-


sophorum, Averois et Alexandri et aliorum quam plurium, quae
nos, et si semper professi sumus, asseruimus, predicavimus publice
et privatim non minus a vera rcctaquc philosophia quam a fide cs-
se aliena, scolasticam tamen exercitationem meditantes, de more
achademiarum inter paucos et doctos secreto congressu disputan-
da suscepimus. Qui vero ipsum leget libellum propositionum di-
sputàndarum, ut ex ipso poterit titulo admoneri, dum quae ex no-
stra dicuntur sententia, quae item ex aliorum discerno, non
proponi illas a me ut meas, ut veras opiniones, sed ut creditas ah il-
lis, ita et suspicari poterit, et si aliorum dicantur dogmata et inven-
ta, visa tamen mihi, et haec et illa vera et probabilia» (./lpologia,
XIII, in Coinmentationer, f. KK i r = Opere complete, XIII 5).
XXX INTRODUZIONE

to di conversione degli ebrei (§ 234):-35 e questa fi-


nalità apologetica della scienza cabalistica viene riba-
dita tanto nelle Conclusione: (dove le settantadue tesi
cabalistiche che concludono l›opera sono definite «ex
ipsis Hebraeorum sapientum fundamentis Christia-
nam religionem maxime confirmantes») quanto nel-
l'Oratio (§§ 253-257), tanto nell”Apologia3(” quanto
nell”I-Ieptaplu: (dove Pico si propone di combattere
gli ebrei con le loro stesse armi).37
La pace filosofica e la concordia teologica possono
e devono dunque realizzarsi, per Pico, nel segno di
Cristo, «principio di discernimento, perché il Cristo è
“la Verità stessa”; principio di sintesi, perché è il lega-
me di tutta la creazione»;38 e come l°uomo racchiude
in sé tutte le nature e tutte le creature, così il cristia-
nesimo invera e armonizza i singoli frammenti di ve-
rità reperibili nelle dottrine e nelle religioni del passa-
to. Sotto questo aspetto, è significativa anche la data
fissata da Pico per la disputa romana: in calce alla
stampa delle Conclusione: (7 dicembre 1486) si legge
infatti che «conclusiones non disputabuntur nisi post
Epiphaniam›>; e, come ha acutamente osservato il
Farmer, «the Epiphany celebrated in part the submis-
sion to Christ of the gente: in the persons of the Magi

” «Venio nunc ad ea quae, ex antiquis Hebreorum mysteriis eruta,


ad sacrosanctam et catholicam fidem confirmandam attuli: quae ne
forte ab his, quibus sunt ignota, commentitiae nugae aut fabulae cir-
cumlatorum existimentur, volo intelligant omnes quae et qualia sint,
unde petita, quibus et quam claris auctoribus confirmata, et quam re-
posita, quam divina, quam nostris hominibus ad propugnandam reli-
gionem contra I-Iebreorum importunas calumnias sint necessaria».
If” Cfr. qui il commento a Oratio, § 256 In condant.
II Cfr. ancora il commento a Oratio, § 234 quam nostri: nece:-
saria.
3** DE LU1›.,\<:. Pim, p. 322.
INTRODUZIONE XXXI

- the ideal symbol for the submission of Pico°s “na-


tions” to a restored Christian philosophy and theo-
logy in his debate››.”
Eleganza e forza della lingua e dello stile, ampiezza
di erudizione, abilità combinatoria nell'impiego delle
più svariate fonti letterarie e filosofiche, fascino e
suggestione delle metafore ardite e delle immagini
poetiche: questo e ciò per cui si distingue, essenzial-
mente, l'Omtz'0 pichiana, soprattutto nella sua prima
sezione, quella occupata - ripeto ancora - dall'affer-
mazione della dignità dell`uomo e dalle lodi della filo-
sofia.4° ljaggiunta della sezione conclusiva modificò
radicalmente non solo, come si è detto, la struttura,
ma anche il tono complessivo dell`operetta: stesa pre-
sumibilmente in tempi rapidi, questa parte finale non
presenta infatti lo slancio lirico, l'elaborazione stilisti-
co-retorica e la vertiginosa erudizione della prima
metà delliorazione, e mostra piuttosto i caratteri netti
e precisi di una apologia, redatta per esigenze di na-
tura eminentemente pratica e difensiva. Inoltre, l”in-
serimento di questa seconda parte ebbe conseguenze
rilevanti anche sulla struttura letteraria del testo, alte-
rando, soprattutto, la stringata compattezza e la geo-
metrica organicità della redazione originaria, parzial-
mente conservate nella sezione iniziale della stesura

W F/\RMER, Syncreükm, p. 43.


*° Cfr. V/\1.<:|<|;-G/\1.|iso1s, Le périplv imc/lt›czm›/, pp. 86-87; «si
par sa forme littéraire, le Dz'.rwur.r fait figure d`exception dans l`cn-
scmble de l'oeuvre mirandolicnnc, quant à son contenu propre,
par contre, il s'inscrit dans une lignée qui rcmont à la patristique et
qui a été transmise sans interruption tout au long dcs siècles. Vue
dans cette perspective, l'Oratio pcrd son caractèrc particulier, au
point que, quant à son contenu et au genre dont elle relève, elle en
devient presque banale». E anche DE LUBAC, Pico, p. 62.
XXXII INTRODUZIONE

definitiva. Dopo un attacco che recupera la movenza


d'esordio dell'epistola a Lorenzo de' Medici (<<Legi,
Laurenti Medice, rythmos tuos››; e qui <<Legi, patres
colendissimi, in Arabum monumentis››) e riecheggia,
subito dopo, il celeberrimo attacco del ciceroniano
De oratore («Cogitanti mihi saepe numero››; e qui
<<Horum dictorum rationem cogitanti mihi››), il testo
risulta interamente scandito da una studiata e sapien-
temente variata successione di tre serie anaforiche; le
prime due in forma di interrogativa diretta, la terza in
forma di esortazione:

Cur enim non ipsos angelos et beatissimos caeli choros


magi: admíremur? (§ 5)
Quír hunc nostrum chamaeleonta non admiretur? Aut
omnino quis aliud quicquam admíretur magis? (§§ 31-
32)
Ecquir hominem non admíretur? (§ 41)

Sed quorsum haec? (§ 45)


Sad qua ratione, aut quid tandem agentes? (§ 51)
Sea' quo nam pacto vel iudicare quisquam vel amare po-
test incognita? (§ 63)

[...] consulamus Iacob patriarcham (73)


Percontemur et iustum Iob (§ 83)
Citemus et Mosen ipsum (§ 98)
Audiemus venerandum iudicem (§ 99)
Consulamus et Pythagoram sapientissimum (§ 120)
Recenseamus et Chaldeorum monumenta (§ 130)

Finché l'ultima parte si apre con un periodo


(«Haec sunt, patres colendissimi, quae me ad philo-
sophiae studium non animarunt modo, sed compule-
runt››: § 142) che, a mo” di reddítío, si ricollega all°ini-
zio dell'orazione, donde riprende l'invocazionc ai
INTRODUZIONE XXXIII

«patres colendissimi» (§ 1) e il costrutto haec quae


(«Magna haec quidem, sed non principalia, idest
quae summae admirationis privilegium sibi iure ven-
dicent›>: § 4). Una struttura, si diceva, solida e cali-
brata, che fa leva sul numero tre: tre le grandi anafore
che scandiscono il testo, e tre o multipli di tre le oc-
correnze di ciascuna successione anaforica. Ciò, se
collegato anche alla prevalenza, nella complessa tessi-
tura retorica dell,Oratz'o, di strutture triadiche (cfr. ad
esempio i §§ 3, 11, 12, 14, 16, 18, 54, 81, ecc.), non
dovrà considerarsi casuale, e potrà anzi legittimamen-
te essere messo in relazione con il significato simbo-
lico che il numero tre riveste (a tutti i livelli: etico,
gnoseologico, ontologico) all'interno del pensiero
esposto da Pico nell'operetta.““
Diverso, fra le due sezioni del testo attuale, è anche
il grado di elaborazione e di impegno letterario e teo-
rico. Nell'Oratz'o, Pico si produce - certo, in qualche
misura, anche per colpire il suo uditorio e per fare
sfoggio della sua vastissima cultura - in un vero e
proprio fuoco d›artifieio linguistico, stilistico ed eru-
dito, mettendo a frutto un gran numero di fonti attin-
te da molteplici àmbiti letterari e filosofici. Questo
procedimento raggiunge vertici di assoluto rilievo so-

"' Cfr. DI NAPOLI, Giovanni Pico, p. 406: <<l_.`orizzontc della con-


/errlplalíu doveva giustificare la grandiosa disputa che Pico inten-
deva tenere; e nell`Oralí0 egli intendeva rilevare che “ad cxemplar
vitae cherubicae vita nostra formanda est". Lo schema di tale pro-
cesso di contemplazione è dato dai tre stadi ascetici dello pseudo-
Dionigi: purgalío, illuminata), pcøƒeclío. lfascesa sapienziale, che si
realizza secondo quei tre stadi, è vista da Pico come raggiungimen-
to della pace universale attraverso l`azione “sedativa” della dialetti-
ca, della p/Jz`lo.r0/7/:fia naluralir c della t}Jco/og1`a››. Sulla simbologia
numerologica che caratterizza la struttura di molte delle opere pi-
chiane cfr. FARMER, Syacretzk/az, p. 30.
XXXIV INTRODUZIONE

prattutto nella prima parte, in cui Pico non si limita a


citare e a impiegare una ricchissima varietà di testi,
ma li sovrappone eli combina senza sosta, sfruttando
tutte le possibilità insite nel metodo di intepretazione
metaforico-allegorica, e operando continui, arditi
collegamenti fra tradizioni culturali diverse: così, per
fare solo alcuni esempi, Giobbe è spiegato con Ern-
pedocle, la scala di Giacobbe viene accostata al mito
egizio di Iside e Osiride, i riti di purificazione degli
Ebrei a quelli dei sacerdoti tessali, i furori socratici al-
la Gerusalemme celeste e ai misteri bacchici, Zoroa-
stro a Platone, il gallo di Giobbe a quelli di Pitagora,
di Pietro e di Esculapio, e, nel gran finale di questa
prima sezione, la lettura allegorica del mito caldaico
dei quattro fiumi paradisiaci (visti come corrispettivi
della filosofia morale, della dialettica, della filosofia
naturale e della teologia) rievoca prima le conoscenze
mattutine, meridiane e vespertine di cui trattano Da-
vide e Agostino, poi la luce divina che illumina Se-
rafini e Cherubini, e ancora il pellegrinaggio di A-
bramo, la sapienza cabalistica e araba, fino (dopo
una citazione da Geremia) al significato allegorico dei
tre arcangeli Raffaele, Gabriele e Michele, definiti ri-
spettivamente coelestís medícus, robur Del' e sacerdos
summus.
La giustificazione filosofica profonda di un simile
procedimento risiede nell'idea, già ficiniana, dell'esi-
stenza di una pbílosopbía perenni: che, sostanzial-
mente immutata, avrebbe assunto nel corso dei mil-
lenni le più diverse forme esteriori e le più svariate
manifestazioni simboliche, anticipando sotto alcuni
aspetti, come una sorta di prisca tbeología, le verità
poi rivelate dal cristianesimo. Ma, dal punto di vista
squisitamente letterario, Pico sembra in queste occa-
sioni far tesoro della tecnica messa a punto da Angelo
INTRODUZIONE xxxv

Poliziano nelle coeve Si!vae,42 dove spesso vengono


allusivamente e oscuramente compendiati, nel breve
giro di un sintagma o di un aggettivo (talora raro o
nuovamente coniato), molteplici e complessi signifi-
cati di natura mitologica o filosofica.43 Ad esempio,
alludendo al mito di Iside e Osiride (<<nunc unum
quasi Osyrim in multitudinem vi Titanica discerpen-
tes descendemus, nunc multitudinem quasi Osyridis
membra in unum vi P/øebea colligentes ascendemus››:
§ 82), Pico parla di vir Títaníca e di vis P/aebea, allu-
dendo, rispettivamente, a Seth (che smembrò Osiri-
de, e che i Greci identificarono col titano Tifone) e a
Horos (che vendicò il padre Osiride, e che era identi-
ficato con Apollo, il quale a sua volta veniva identifi-
cato dai pitagorici con.l'Unità).44 Ancora più elo-
quente il caso offerto da un passo del § I 12, dove si
tratta del furore iniziatico, ispirato da Bacco:

Tum Musarum dux Bacchus, in suis mysteriis (idest visi-


bilibus naturae signis) invisibilia Dei philosophantibus
nobis ostendens, inebriabit nos ab ubertate domus Dei,
in qua tota si uti Moses erimus fideles, accedens sacratis-
sima theologia duplici furore nos animabit.

Il «Musarum dux›› (Musagetes) è propriamente


Apollo, e solo raramente l”appellativo veniva assegna-
to anche a Mercurio, a Ercole e, appunto, a Bacco.
Ma Pico non fa qui di Bacco la guida delle Muse solo

*Z La Man/0 e del 1481, il Ruylicus del 1483, l'/lm/ara del 148;, i


Nulricza (prima stesura) del 1486. Le Silvae erano presenti nella bi-
blioteca di Pico (cfr. KIBRE, 'I'/ac Library, n. 77 3).
43 Cfr. la mia Introduzione ad A. PULIZIANO, Si/vae, a cura di F.
BAUSI, Firenze, Olschki, 1997, pp. X1-XXXL
4* Cfr. il commento a Oratio, § 82 nunc unu/n eollígenmt.
XXXVI INTRODUZIONE

per arricchire la sua pagina di un preziosismo erudi-


to; l'indicazione, anzi, è funzionale a una precisa e
complessa simbologia orfica, implicita fra le pieghe
del testo.45 L'ebbrezza bacchica (inebriabit) coincide
col delirio mistico e col rapimento soprannaturale, di
cui parlano anche i Salmi (35, 9: «[filii hominum] ine-
briabuntur ab ubertate domus tuae››), citati alla lette-
ra qui e in una della Conclusione; Cabalz'.rtz'cae;““° e
proprio per simboleggiare l'approdo della conoscen-
za umana (le Muse) all`estasi della visione divina, ne-
gli Inni orfiei ciascun Bacco in preda all`ebbrezza vie-
ne associato a una Musa (Conclusione: de modo
intelligendi /øynznos Orp/Jei, 24: «Non inebriabitur
per aliquem Bacchum, qui suae Musae prius copula-
tus non fuerit»).47 Tutto questo - ma senza le implica-
zioni cabalistiche aggiunte da Pico - era già, peraltro,
nella ficiniana Tbeologia Platonica, IV 1, dove si sot-
tolinea anche la non casuale coincidenza del numero
delle Muse (nove) con quello dei Bacchi invocati ne-
gli Inni orfici:

apud Orpheum singulis Musis praeest Bacchus aliquis,


quo vires illarum divinae cognitionis nectare ebriae desi-
gnantur. Ideo Musae novem, cum Bacchis novem circa
unum Apollinem id est circa splendorem solis invisibilis
debacchantur.

Anche sotto questo aspetto, la seconda parte


dell'Oratio risulta meno ricca e meno elaborata: man-

" Per quanto segue cfr. WIND, Misteri, pp, 336-37.


4° 17: «Qui sciverit quid est vinum purissimum apud Cabalistas,
sciet cur dixerit David “inebriabor ab ubertate domus tuae”, et
quam ebrietatem dixerit antiquus vates Musaeus esse felicitatem, et
quid significent tot Bacchi apud Orpheum›› (Conclusiones, p. 1 30).
47 Ibid., p. 124.
INTRODUZIONE XXXVII

cano le ardite contaminazioni culturali, le fonti usu-


fruite sono meno numerose, le citazioni, spesso,
tutt'altro che peregrine (e provengono in prevalenza
da autori quali, ad esempio, Cicerone, Properzio,
Orazio, Seneca, Plutarco, Plinio il Vecchio, Apuleio),
mentre abbondano gli aneddoti, attinti sia da testi-
monianze letterarie (come le vite di Aristotele e di
Plotino: §§ 226 e 242), sia dall”esperienza personale
(come l”episodio di Dattilo ebreo ricordato al § 257).
Ciò dipende senza dubbio, almeno in parte, dalla ra-
pidità con cui questa seconda sezione dell'operetta
venne composta, per controbattere alle critiche e alle
accuse che cominciarono a essere mosse a Pico all'in-
domani della stampa delle Conclusiones: una rapidità
che spinse Pico, fra l'altro, a riutilizzare ai §§ 143-145
(onde rispondere a quanti gli rimproveravano la sua
dedizione agli studi filosofici) un passo della lettera
inviata all'amico Andrea Corneo, da Perugia, il 15 ot-
tobre 1486, e a recuperare nel finale (§§ 238-45), ta-
lora traducendolo alla lettera, un ampio brano del
suo recentissimo Commento sopra una eanzona de
ainore di Girolamo Benizaieni (del 1486).48 Per le me-
desime ragioni, certi brani - in particolare, quelli sul-
la magia e sulla qabba/ab - appaiono frettolosamente
redatti, e sono costituiti in buona parte da citazioni
letterali: nel brano sulla magia (§§ 214-233), spiccano

4” Cfr. B/\US1, Nec r/aetor, pp. 113-14; e qui il commento a Ora-


/io, ai §§ 145, 240 e 243-45. Da rilevare il fatto che, nello stesso
Commento sopra una canzona, si rintracciano ben tre rinvii all`im-
minente disputa romana, definita da Pico conci/io: I 12, p. 479
(«come nel concilio nostro proveremo››); I 13, p. 480 (secondo la
redazione della stampa giuntina del 1519: «nel nostro concilio [...]
ne parleremo»); III 1o, p. 568 («il che nel nostro concilio dimon-
streremo››).
XXXVIII INTRODUZIONE

quelle da testi non certo esoterici quali il lessico bi-


zantino Suda (donde deriva la distinzione fra goetia e
magia, ossia fra 'necromanzia° e magia `buona'), la
Naturali: loistoria di Plinio” e il De magia di Apuleio;
mentre nel brano sulla qabbala/9 le principali pezze
d`appoggio sono rappresentate da un testo medioeva-
le come il Tractatus in Psalmo: di sant'Ilario e da un
apocrifo come il quarto libro di Esdra.5°
Anche nella prima sezione del discorso, comun-
que, non è tutto oro quello che luccica; e non solo
perché Pico utilizza ampiamente certi opuscoli
morali di Plutarco (soprattutto La E di Delfi e Iside e
Osiride), o perché fa largo uso di spunti ficiniani,
desunti in particolare dalla recente T/aeologia
Platonica, del 1482 (nonostante gli attacchi al Ficino
cui egli aveva fatto posto nel Commento sopra una
canzona de amore di Girolamo Benivieni, e che sem-
brano riecheggiare anche nell°Oratio).51 Non si trat-

49 Senza contare che, come osservano V/\L(1KE-GALIBOIS, Le pe-


riple intelleetuel, pp. 227-28, Plinio è fortemente critico contro
ogni sorta di pratica magica.
58 Cfr. le osservazioni di VALCKE-GALIBOIS, Le périple intellec-
luel, pp. 170 (dove si afferma che nella seconda sezione dell`Oratio
«la maitrise du latin reste la même, mais le savoir authentique est
intermittent››) e 173 (dove si sottolinea «la pauvreté, pourtant, phi-
lologique, critique, scientifique du discours même de Pic, tante sur
l'ésotérisme en général que sur la magie en particulier››).
51 Per i complessi rapporti tra Pico e Ficino, e per i motivi fici-
niani rintracciabili nell'opera pichiana, cfr. KRISTELLER, Sources,
pp. 64-69; S. _]/\YNE, Introduction to Com/nentarjv on a Canzone of
Beniuieni, translated by SJ., New York-Berne-Frankfurt am Main,
Peter Lang, 1984, pp. 1-73; S. GENTILE, Pico e Ficino, in Pico, Poli-
ziano, pp. 1 39-41. Nell'Oratio, oltre ai «many covert attacks on Fi-
cino›› contenuti nelle sessantadue Conclurionex in doctrinam Plato-
ni: (cfr. FARMER, Syncretirm, p. 207), va sottolineata l'affermazione
del § 195, dove Pico proclama (precisando, col pensiero certo ri-
volto al Ficino: «verbo absit invidia››) di essere il primo a riportare
INTRODUZIONE XXXIX

ta, dicevo, solo di questo, ma anche dell'ostentata


esibizione di competenze linguistiche e filosofiche
nei settori- ben poco familiari agli umanisti, per non
parlare dei teologi della curia pontificia - della cultu-
ra ebraica, araba e caldaica. Pico aveva intrapreso lo
studio di queste lingue, sotto la guida di Flavio
Mitridate, nelliautunno del 1486, e quindi contem-
poraneamente alla stesura dell”Oratio e delle Conclu-
:ione:. In una lettera inviata da Fratta a Marsilio
Ficino, presumibilmente nel novembre di quell'an-
no, Pico afferma di aver studiato l'ebraico giorno e
notte per un mese, e di essersi da poco interamente
vòlto anche allo studio dell`arabo e del caldaico:52 la
sua conoscenza di queste lingue doveva quindi esse-
re, all'epoca dell'Oratio, piuttosto modesta, come il
testo sembra d°altronde confermare.
Le citazioni in ebraico si limitano infatti a poche e
isolate parole, mentre quelle in caldaico (ossia, in ara-
maico), oltre ad essere altrettanto sporadiche, sono -
stando almeno alla copia palatina, eseguita dal Nesi e
portatrice di una primitiva redazione del discorso -

alla luce, e a sottoporre a pubblica disputa, la filosofia platonica. A


proposito delle Conclurione: :ecunelu/n doctrinam p/ailosop/aorum
qui Platonici alicuntur, lo stesso FARMER, Syneretirin, p. 296, osserva
comunque che «translations of none of the Greek Neo-Platonist
covered in this section [cioe Plotino, Adelando Arabo, Porfirio,
Giamblico, Proclo] were published by Marsilio Ficino before the
nine hundred theses went to press, supporting Pico's boasts in the
Oration and /lpology that he was the first philosopher in centuries
to publicy debate their views».
52 «Postquam enim Ilebraicae linguae perpctuum mensem dies
noctesque invigilavi, ad Arabicae studium et Chaldaicae totus me
contuli, nihil in eis veritus me profecturum minus quam in Hebrai-
ca profecerim, in qua possum nondum quidem cum laude, sed ci-
tra culpam epistulam dictare» (Com/nentationer, f. TT i v = Opere
eo/nplete, epistole di Pico, XX).
XL INTRODUZIONE

vergate in modo alquanto approssimativo e incerto”


D'altra parte, è sicuro che, almeno in questa fase, Pi-
co si servisse prevalentemente di traduzioni latine,
per lui approntate dal suo 'precettore” Flavio Mitri-
date. Né minori problemi sollevano le fonti arabe e
caldaiche prodotte da Pico, con una certa compiaciu-
ta abbondanza, nel corso dell'operetta: nella maggior
parte dei casi, infatti, queste fonti non sono state indi-
viduate, neppure da studiosi esperti nei relativi cam-
pi. Chaim Wirszubski ha potuto affermare, con ragio-
ne, che «the sources of Pico's Chaldean quotations
are still an unsolved puzzle››:54 in effetti, oscuri resta-
no per noi i riferimenti ad <<Abdala Saracenus››, a
«Evantes Persa››, agli interpreti Caldei, a Zoroastro,
ad Avenzoar babilonese. Nella lettera al Ficino ora ri-
cordata, Pico scrive con entusiasmo di esser venuto
da poco in possesso di numerosi e rarissimi testi arabi
e caldaici, e di apprestarsi a studiarli;” ma non è
escluso che almeno in parte si trattasse di falsifó ma-
nipolati e confezionati da quell'ambiguo personaggio
di Flavio Mitridate,” per mezzo del quale Pico entrò
in possesso di tali testi.

si Cfr. qui la Nota al texto. Le competenze ebraistiche di Pico


aumentarono sensibilmente negli anni successivi (cfr. FARMER, Syn-
cretism, p. 138), soprattutto grazie all'incontro, avvenuto a Firenze
nel 1488, con Yohanan Alemanno (cfr. LELLI, Un collaboratore).
54 WIRSZUBSKI, Encounter, p. 242.
P Cfr. qui il commento a Oratio, § 130.
56 Cfr. al riguardo la Nota al testo. Anche BACCHELLI, Giovanni
Pico, p. 59, è incline a vedere «un po' di impostura›› nell'elenco di
testi incluso nella lettera al Ficino, e ritiene che il catalogo pichiano
sia, «se non tutto menzognero, certo compilato per buttare un po'
di fumo negli occhi di Marsilio».
57 Su Mitridate (l'ebreo convertito Guglielmo Raimondo de
Moncada) cfr. qui ancora la Nota al testo; la sua menzione, presen-
te nella stesura palatina dell”Oratio (cfr. § 113 e nota), venne sop-
pressa nella redazione definitiva.
INTRODUZIONE XLI

L'Oratio - almeno nella sua prima parte - è senza


dubbio il capolavoro del Pico umanista, e come tale
fu presentata dal nipote Giovan Francesco fin dalla
prima edizione; d”altronde, anch'essa - al pari delle
epistole a Lorenzo de' Medici e a Ermolao Barbaro -
appartiene a quella prima fase dell”attività pichiana in
cui l'«umanista›› convive (non senza contraddizioni e
conflitti) con il «filosofo››. E tuttavia, per Pico la reto-
rica non è il semplice rivestimento esteriore del con-
cetto. Straordinaria è la ricchezza linguistica, stilistica
e letteraria dell'Oratio, in cui si fondono arcaismi
plautini e termini del latino cristiano e medioevale,
reminiscenze poetiche e tecnicismi filosofici, locuzio-
ni terenziane e voci post-classiche, loapax apuleiani e
neologismi;58 in cui Pico cita i Caldei e i Greci, i pita-
gorici e i padri della Chiesa, i profeti e Maometto, gli
Ebrei e gli Arabi, i precetti delfici e i filosofi medioe-
vali, i vangeli e i poeti classici; in cui si susseguono ci-
tazioni in lingua greca, ebraica e caldaica: una ric-
chezza che, lungi dall'esaurirsi in una semplice prova
di bravura, sembra proporsi di fornire un corrispetti-
vo formale delle due idee-portanti dell'operetta (la
natura multiforme e camaleontica dell'uomo, e la
concordia - nel senso di cooperazione nella ricerca
del Vero - delle filosofie e delle religioni), quasi a vo-
ler idealmente ricomporre la frantumazione babelica
delle lingue e i conflitti tra le innumerevoli scuole fi-
losofiche nell'ottica della molteplice natura umana e
dell'unità profonda della conoscenza.
D'altra parte, l'interesse professato da Pico nei
confronti di qualsiasi filosofo (di qualunque epoca e

58 Per un”analisi del latino dell`Oratio cfr. BAUSI, Nec r/Jetor, pp.
117-41.
XLII INTRODUZIONE

nazione, e qualunque sia la lingua e lo stile in cui egli


si esprime) presuppone, con tutta evidenza, la con-
vinzione - chiaramente espressa nell”epistola a Ermo-
lao Barbaro del 1485 - secondo cui ciò che importa
non è l'eleganza dell”espressione, ma la sostanza del
pensiero (e quest'ultima è del tutto indipendente dal-
la forma letteraria). Non a caso, nell'elenco di pensa-
tori incluso da Pico nell'Oratio, accanto ai greci e agli
arabi troviamo proprio alcuni di quei «Germani» e di
quei «Teutones» che il Barbaro aveva raccomandato
all'amico di mettere da parte: Giovanni Scoto (elogia-
to, in contrapposizione a Lucrezio, anche nell'episto-
la alliumanista veneziano), Francesco di Meyronnes,
Alberto Magno, Enrico di Gand. Né si fa cenno alcu-
no alla maggiore o minore eleganza, alla maggiore o
minore rozzezza con cui i pensatori delle varie epo-
che e delle varie scuole hanno scritto le loro opere. Si
tratta di un punto della massima importanza (anche
per la retta interpretazione dell'epistola al Barbaro),
benché il rapporto tra svalutazione dell'eloquenza e
universalità del sapere non costituisca una novità in-
trodotta da Pico, che poteva trovarlo posto con chia-
rezza, ad esempio, in un'opera a lui certamente nota,
la Graecarum afifectionum curatio del vescovo greco
Teodoreto di Ciro (IV-V sec. d.C.).59
Tuttavia, nonostante la sua scarsa originalità e la
mancanza di un autentico sviluppo concettuale, l'O-
ratio presenta un suo indubbio e peculiare fascino:
fascino che risiede in buona parte (oltre che nell'ele-
ganza della forma) nel giovanile entusiasmo che la
anima, e che i più solidi e ponderati scritti successivi,
sotto alcuni aspetti, provvederanno a moderare e a

5° Cfr. ibid., pp. 62-65.


INTRODUZIONE XLIII

correggere. L°antropologia dell›Oratio, ad esempio,


non viene sostanzialmente smentita dall'I-Ieptaplu:
(1489), dove però l'accento non cade tanto sulla li-
bertà e sull'autodeterminazione dell”uomo, quanto
piuttosto sulla sua natura di medium e di sintesi dei
tre mondi (e quindi di tutte le creature), con una vi-
sione, pertanto, più statica che dinamica;(°° mentre
l'interesse per la prisca tbeologia (da Ermete Trisme-
gisto a Zoroastro, da Pitagora a Orfeo), per la cultura
araba, per la qabbala/J e per la magia viene progres-
sivamente meno, fino a lasciare il posto, nelle Di-
:putatione: adverrus astrologiarn, a un atteggiamento
- certo favorito dalla familiarità col Poliziano -filolo-
gicamente molto più rigoroso nei riguardi delle fonti,
e al conseguente rifiuto di quelle tradizioni e di quel-
le scienze che, prima tenute nella massima considera-
zione (anche in virtù dell'esempio e dell'influsso fici-
niano), verranno infine ripudiate da Pico come forme
di falsa sapienzafi' Ma è il più generale e più profon-
do cambiamento prodottosi in Pico dopo i dolorosi
eventi del 1487 (llannullamento della disputa, il pro-
cesso, la condanna delle tredici tesi, la fuga in Fran-
cia)(°2 che marca un sensibile distacco fra l'Oratio e gli
scritti successivif”
Si parla spesso, da parte degli studiosi, di una con-

"*° Cfr. al riguardo DI NAPOLI, Giovanni Pico, pp. 375 e 379; Dli
Lula/xe, Pico, p. 85; C1:/WEN, Un caso, pp. 68-69; (loromuu, Micro-
cosrno, p. 295.
“I Cfr. i luoghi delle Dirputationer citati qui nel commento a
Oratio, S 193 quando manavit; e cfr. DI NAPOLI, Giovanni Pico,
pp. 285-86; FARMER,Syncreti.1m, pp. 142-45.
62 Per questi avvenimenti cfr. ora BIONDI, La doppia inc/aierta.
63 Per quanto segue cfr. il mio Giovanni Pico della Mirandola: fi-
losofia, teologia, religione, in «Interpres», XVIII, 1999, pp. 74-9o.
XLIV INTRODUZIONE

versione pichiana seguìta a questi episodi. Se il termi-


ne 'conversione' è senza dubbio eccessivo e inesatto
(giacché sembra presupporre l'esistenza di una prima
fase non cristiana di Pico),64 è comunque certo che
quegli avvenimenti lasciarono una traccia profonda
nell'animo del Mirandolano, spingendolo a riflettere
sulle sue scelte intellettuali e ad abbandonare gra-
dualmente - almeno sotto certi aspetti - le strade da
lui battute negli anni precedenti. E intorno al 1491
che questa svolta sembra giungere a compimento,
trovando piena e inequivocabile espressione nelle ce-
lebri parole della lettera ad Aldo Manuzio dell'1 1
febbraio 1491: <<la filosofia cerca, la teologia trova, la
religione possiede››.°5 Pico è giunto ormai alla con-
clusione che a niente giova la :apientia disgiunta dalla
pietas; o, per dirla altrimenti, che filosofia e teologia
non sono che gradini intermedi, fasi preparatorie di
un incontro con Dio cui l'uomo può giungere solo
per mezzo dell'amore e della volontà, nella consape-
volezza che il quaerere e l”invenire a ben poco servo-
no senza il possidere, senza l'immedesimazione piena
e incondizionata con la divinità. Persino una discus-
sione in apparenza astrattamente filosofica come
quella De ente et uno si conclude con unlesortazione
alla perfezione della vita e alla purificazione dei co-
stumi; il sapere - Pico lo aveva scritto al carmelitano
Battista Spagnoli il 13 gennaio 1491 - ha come suo

64 DE LUB›\(1, Pico, p. 406, preferisce giustamente parlare, piutto-


sto, di «maturazione intellettuale» e di «approfondimento morale».
65 «Tu, quod te scribis facturum, accinge ad philosophiam, sed
hac lege, ut memineris nullam esse philosophiam quae a mysterio-
rum veritate nos avocet: philosophia veritatem quaerit, theologia
invenit, religio possidet>› (Commentationer, f. SS iiii r = Opere com-
plete, cpistole di Pico, VI).
INTRODUZIONE XLV

unico fine quello di predisporre nel migliore dei mo-


di l'uomo <<ad certamen purgandi animi››.6(°
Alcuni studiosi (che non vedono una sostanziale
evoluzione nelllitinerario intellettuale e spirituale di
Pico) hanno ricollegato la lettera al Manuzio alla pri-
ma parte dell,Oratio de hominis dignitate, composta
cinque anni primaf” Anche lì, infatti, si parlava di un
innalzamento verso la conoscenza di Dio articolato in
tre momenti, esemplati sui tre stadi ascetici dello
pseudo-Dionigi (purgatio, illuminatio, perfectio) e
simboleggiati dai tre ordini angelici (Troni, Cherubi-
ni, Serafini): la filosofia morale e la dialettica, per
mezzo delle quali l'uomo si purifica dalle passioni e si
libera dai lacci dell'ignoranza, costituiscono il primo
stadio; il secondo è rappresentato dalla filosofia natu-
rale, che ci conduce alla conoscenza dell'opera di
Dio; l'ultimo si identifica con la teologia, ossia con la
comprensione delle cose divine. Ma questa posizione
appare caratterizzata da una sfumatura intellettuali-
stica che risulta estranea agli ultimi scritti pichiani: i
tre gradini, di fatto, potrebbero ridursi a due (filoso-
fia - nelle sue varie branche - e teologia), e la stessa
teologia - nonostante che Pico accenni al fuoco dell'a-
more :erafico e alla pace cui tende la contemplazione
dei misteri divini - si configura nella sostanza come

M* Cfr. rispettivamente De ente et uno, V, p. 418 («Sed vide, mi


Angele, quae nos insania teneat! Amare Deum dum sumus in cor-
pore plus possumus quam vel eloqui vel cognoscere. Amando plus
nobis proficimus, minus laboramus, illi magis obsequimur. Malu-
mus tamen semper quaerendo per cognitionem numquam invenire
quod quaerimus, quam amando possidere id quod non amando
frustra etiam inveniretur››; il passo è riportato per intero anche da
Giovan Francesco nella Vita, p. 70); e Co/nmentationex, f. TT v v
(= Opere complete, epistole di Pico, XXXIV).
87 Cfr. ad esempio DI NAPOLI, Giovanni Pico, pp. 406-408.
XLVI INTRODUZIONE

una forma di conoscenza intellettuale. Non sarà così,


ad esempio, nella più tarda esposizione del Salmo
XVII, dove Pico afferma che l'uomo giunge al bene
sotto la guida della ragione e della virtù divina: nel
dominio della ragione rientrano la filosofia morale, la
filosofia naturale e la scienza teologica; ma a un livel-
lo più alto - non attingibile con gli strumenti della
conoscenza razionale - si colloca la virtù divina, che
l'uomo consegue solo attraverso le sacre orazioni, i
digiuni e i sacramenti, ossia per mezzo della religione,
che consente all'uomo la più intima compenetrazione
col Cristo.('8
Ben diverso rispetto a quello dell'Oratio, dunque,
sembra l'orientamento di Pico nelle sue ultime opere
(compreso l'Heptaplu:, dove già si può riscontrare
un'anticipazione di queste posizioni):(*9 la teologia
trova, è vero, ma, se non si ama (e dunque se non si
po::iede), anche trovare è inutile. Muta, di conse-
guenza, anche l'impostazione del rapporto con la sa-
pienza pagana e genericamente non cristiana. Nel-
l'Heptaplu:, nel Commento ai Salmi, nel De ente et
uno Pico continua a citare e a utilizzare i filosofi greci
e arabi, la qablmlala, i mistici e i commentatori ebraici;

(18
Cfr. Commento ai Salmi, pp. 162-64.
6° Heptaplur, III 2, p. 252: «Domini Spiritus quid erit, potius
quam spiritus amoris? Neque enim spiritum scientiae ita proprie
Domini Spiritum dicemus, quoniam et scientia quandoque abducit
a Deo. Amor autem ad Deum semper adducit››; VII, prooemium,
p. 338: «Quare postquam Christus est agnitus, si qui Christum non
induuntur, non solum prima felicitate, sed et secunda, idest natu-
rali, iure privantur, quia gratiam nolle non nisi corruptae est et la-
befactae naturae. [...] Ad hanc felicitatem religio nos promovet,
dirigit et impellit, quemadmodum ad naturalem duce utimur phi-
losophia; quod si natura rudimentum est gratiae, utique et philo-
sophia inchoatio est religionis, neque est philosophia quae a reli-
gione hominem semovet››.
INTRODUZIONE XLVII

ma llatteggiamento nei confronti di queste tradizioni


culturali e religiose è ora mutato rispetto a quello che
traspariva dalle pagine dell'Oratio de bomini: dignita-
te, dove - pur nella sempre salda consapevolezza del-
la superiorità della fede rivelata - Pico si spingeva di
fatto fino ad ammettere e a ricercare la presenza di
una scintilla della verità in qualunque pensatore del
passato, e ad affermare che, come ogni sapienza è
passata dai barbari ai Greci e dai Greci a noi, così an-
che per lo studio delle sacre Lettere e dei misteri reli-
giosi è necessario muovere in prima istanza dai Cal-
dei e dagli Ebrei, e secondariamente dai Greci.7°
Gli ultimi scritti pichiani, invece, rivelano una posi-
zione ben diversa: e non solo perché, come si è detto,
si attenua ora in Pico, fino a scomparire, l'interesse
per certi settori della sapienza antica (l'orfismo, l'er-
metismo, la teologia poetica, con le annesse compo-
nenti magico-astrologiche), ma anche e soprattutto
perché i pagani e i non cristiani non appaiono più a
Pico come depositari di verità assimilabili a quella cri-
stiana (in quanto precursori, sia pur ignari, della Rive-
lazione), bensi, semplicemente, come ingiusti posses-
sori di conoscenze che è dovere del cristiano sottrarre
loro e impiegare a maggior gloria di Dio. Proemiando
alla terza esposizione dell'Heptaplu:, Pico accenna al

7° Cfr. in particolare la redazione palatina dell`Oratio, §§ 114-


16: «Ferme enim omnis sapientia a barbaris ad Graecos, a Graecis
ad nos manavit. Ita nostrates semper in philosophandi ratione pe-
regrinis inventis stare et aliena cxcoluisse sibi duxerunt satis; :acra:
omnino Littera: et my:teria :ecretiora ab Hebrei: prirnum atque
Cbaldeir, tum a Greci: petere necexxarium. Reliqua: arte: et omnzfa-
riam pbiloropbiam cum Graeci: Arabe: partiuntur» (nella redazione
definitiva risulta soppresso il brano qui stampato in corsivo, con la
relativa allusione alla «sapienza» religiosa e filosofica degli Ebrei,
dei Caldei e degli Arabi; cfr. qui Appendice, I).
XLVIII INTRODUZIONE

suo progetto di esporre, e di vagliare alla luce del cri-


stianesimo, l'intera dottrina ebraica. L'opera avrebbe
dovuto probabilmente costituire una delle sette parti
del grande trattato Adversus bortes Eccle:iae;7l in essa,
afferma Pico, «quicquid [:cil. nella dottrina degli
Ebrei] alienum ab evangelica veritate deprehende-
mus, confutabimus pro virili, quicquid sanctum et ve-
rum a synagoga, ut ab iniusto possessore, ad nos, legi-
timos Israelitas, transferemus››.72 Ab iniusto po::e::o-
re: Pico sta qui citando un ben noto passo del De doc-
trina Cbrixtiana di Agostino, nel quale si proclama
che, se presso i filosofi pagani è dato per avventura
rinvenire qualche verità consona ai dogmi delle fede
rivelata, il cristiano deve rivendicarne - come unico e
legittimo “proprietario” - l”uso e il possesso:

Philosophi autem qui vocantur, si qua forte vera et fidei


nostrae accommodata dixerunt, maxime Platonici, non
solum formidanda non sunt, sed ab ei: tanquam iniu:ti:
po::e::oribu: in usum nostrum vindicanda.73

Questo sarà il Pico della seconda stagione fiorenti-


na; questo, soprattutto, sarà il Pico degli ultimissimi

7' Di qucsrbpera dà notizia G1ovAN FRAN<:ßs(:o Pico 1)1:L1.A


MIRANDOLA nella Ioanni: PiciMirandulae vita, a cura di T. SOR-
BELLI, Modena, Aedes Muratoriana, 1963 (rist. anastatica, ivi,
1994, p. 54), affermando che, di essa, lo zio aveva quasi portato a
termine solo la parte dedicata alla confutazione della scienza astro-
logica, le Diiputationer adver:u: artrologiam divinatricem.
77 I-Ieptaplus, pp. 246-48. E cfr. anche VII 4, dove Pico si ripro-
mette di combattere gli Ebrei con strali sottratti ai loro stessi arse-
nali: «Unde et vobis potentissima tela contra lapideum cor He-
braeorum de armamentariis eorum petita subministrabuntur»
(ibid., p. 348).
73 De doctrina C/Jristiana, II 40 (spunto analogo anche a II 18; e
cfr. inoltre Confe.r.rione:, V 6 e VII 9; Contra littera: Petiliani Dona-
tistae, II 30).
INTRODUZIONE XLIX

anni, tra il 1491 e il 1494, dopo un”ulteriore svolta in-


tellettuale e al tempo stesso esistenziale, in cui senza
dubbio giocò un ruolo di primo piano Girolamo Sa-
vonarola, che Lorenzo de' Medici richiamò a Firenze,
proprio a istanza di Giovanni Pico, nel 1490. E furo-
no Savonarola, Lorenzo e Pico, in questo estremo
scorcio del Quattrocento, a orientare larghi settori
della cultura fiorentina verso gli studi religiosi e teo-
logici, determinando una ricca fioritura di commenti
biblici, di traduzioni patristiche, di poesia sacra latina
e volgare, e in genere di letteratura devozionale. An-
che la produzione di Pico, dopo il suo ritorno a
Firenze, si muove quasi esclusivamente in questa di-
rezione, con i commenti alla sacra Scrittura (l'I-Iep-
taplus, il commento ai Salmi, le ancora inedite anno-
tazioni al libro di Giobbe),74 con le operette e le
epistole spirituali, con il grande trattato contro l”a-
strologia divinatrice, con i versi latini della Deprecato-
ria ad Deum, e - non va dimenticato - col definitivo
abbandono di qualunque ricercatezza stilistica e for-
male. Certamente si trattò anche, come ormai è asso-
dato, di un'operazione di politica culturale (basti ri-
cordare che fu proprio Lorenzo a commissionare a
Pico il commento ai Salmi, nel 1489, e che al medesi-
mo Lorenzo - presentato come un assiduo lettore
della Bibbia - è dedicato nello stesso anno l'Hepta-
plus): un'operazione che vide impegnati pressoché
tutti i maggiori intellettuali del momento, da Pico a

7* Cfr. \)(/IRSZUBSKI, Pic(/.r book of]ob. Sembra, comunque, che


Pico abbia redatto, o almeno abbozzato, annotazioni e commenti
(in buona parte, a quanto sembra, andati smarriti) anche ad altri li-
bri della Scrittura: cfr. al riguardo la testimonianza di GIOVAN
FRANCESCO nella Vita, cit., p. 47, e A. RASPANTI, Introduzione a
IOANNIS PICI MIRANDULAE Expoxitioner in Psalmos, pp. 15-16.
L INTRODUZIONE

Poliziano, da Ugolino Verino a Giovanni Nesi, da Gi-


rolamo Benivieni allo stesso Lorenzo. Ma sarebbe ri-
duttivo, e anzi profondamente errato, ricondurre la
svolta pichiana di questi anni esclusivamente all'osse-
quio nei confronti delle direttive del Magnifico: vice-
versa, bisognerà supporre che Lorenzo, sul finire de-
gli anni '80, scegliesse di circondarsi di uomini -
quali Pico e Savonarola - di sincera spiritualità e di
provata preparazione teologica, onde trasformarli nei
nuovi fari della cultura fiorentina (a fianco e in sosti-
tuzione dell'ormai declinante stella ficiniana), così
imprimendo un ulteriore impulso a quegli studi e a
quegli interessi religiosi e teologici che a Firenze, e
anche nella famiglia Medici (basti pensare a Lucrezia
Tornabuoni), erano stati sempre vivissimi lungo tutto
l'arco del Quattrocento.
In quest'ottica di lungo periodo, l`itinerario cultu-
rale e spirituale di Pico, pur nell'indubbia evoluzione
che lo caratterizzò (e che trova negli eventi del 1487
uno dei decisivi punti di svolta), appare sostanzial-
mente coerente, omogeneo e privo di autentiche frat-
ture interne. Certo, l'epoca dell'Oratio de bomini: di-
gnitate, con i suoi giovanili fervori e le sue smisurate
ambizioni, tramontò rapidamente: e, con essa, si af-
fievolì e poi scomparve l'interesse per i prisci tbeologi,
per la magia, per la qabbalab e per le tradizioni cultu-
rali non cristiane (quella caldaica, quella ebraica e
quella araba), e insieme venne meno il gusto umani-
stico della bella forma letteraria, della ricercata elabo-
razione linguistica e stilistica. Ma sarebbe storica-
mente semplicistico e fuorviante vedere nella con-
clusiva apertura all'esperienza savonaroliana un ritor-
no all'indietro, un ripiegamento di Pico (e, con lui,
dell'intero umanesimo fiorentino) verso posizioni or-
todosse e medioevali; così come è fuori luogo parlare
INTRODUZIONE LI

- a proposito degli ultimi anni del Mirandolano - di


una «dolente (cristianamente dolente) maturità».75
L`approdo di Pico (come di molti umanisti fiorentini
del secondo Quattrocento) a Savonarola fu in realtà il
logico coronamento di un percorso segnato da pro-
fondi interessi teologici e da una intensa spiritualità
cristiana, che già nell'Oratio emergono con tutta evi-
denza, e che le opere successive non fecero che affi-
nare e perfezionare, liberando gli uni e l'altra - in un
processo di graduale rastremazione e decantazione -
da quelle componenti allotrie (magico-esoteriche, in-
tellettualistiche, retoriche) che tanto spazio avevano
ancora negli scritti giovanili.

75 Cosi BIONDI, La doppia incbierta, p. 212: «Le vicende romane


del 1487 [...] scolorirono il mondo di Pico; ed egli fu spinto nella
sua dolente (cristianamente dolente) maturità». E anche ID., Intro-
duzione all`edizione da lui curata delle Conclurionex, p. XXXVI: «Il
Pico che ci parla dalle postume Dirputatione: adversui a_rtrologo: è
un brillante razionalista disincantato, più saggio forse, certo più
triste». Partendo dai medesimi presupposti, il FARMER, Syncreti:/n,
pp. 166-69 (cfr. qui sopra, nota 11), è giunto a negare la paternità
pichiana delle sue operette spirituali, nella convinzione che il savo-
narolismo di Pico sia stato enfatizzato ad arte dal nipote Giovan
Francesco e dall'apologetica piagnona.
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Il rinvio in forma abbreviata consiste nel cognome dell'edi-


tore critico e/o del commentatore.

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cura di A. BIONDI, Firenze, Olschki, 1995 (da cui si cita,
ma rivedendo il testo sulla base dell'ediz. del FARMER,
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DISCORSO SULLA DIGNITA DELL'UOMO
Legi, patres colendissimi, in Arabum monumcntis,
interrogatum Abdalam Sarracenum quid in hac quasi
mundana scena admirandum maxime spectaretur,
nihil spectari homine admirabilius respondisse. Cui
sententiae illud Mercuríi adstipulatur: <<Magnum, 0
Asclepi, miraculum est homo». Horum dictorum ra-
tionem cogitanti mihi non satis illa faciebant, quae

1. patres: sono così designati i dotti che avrebbero dovuto parte-


cipare alla disputa romana organizzata da Pico nel 1486 per discu-
tere le sue novecento tesi (al § 154 si parla al riguardo di «amplissi-
mus doctissimorum hominum consessus›› e di «apostolicus sena-
tus», ossia del collegio cardinalizio). - Legi respondisse: fonte
non individuata. Alcuni hanno identificato il personaggio in que-
stione (Abd Allàh = “servo di Dio') con 'Abd Allah ibn al-Muqaffà,
«scrittore arabo di origine persiana del secolo VIII, traduttore ara-
bo di opere medo-persiane» (TOGNON, p. 62, e già CICOGNANI, p.
97); altri con Anselmo Turmeda, frate francescano spagnolo che,
convertito all'islamismo, assunse appunto il nome di Abdallah
(1352-1425 ca: cfr. B()RI, I tre giardini, pp. 551-64). Molto più pro-
babilmente, anche alla luce dell'espressione pichiana «in Arabum
m0numentis››, si tratterà però di `Abdallah ibn Salam, ebreo di
Medina, che si converti all'Islam due anni prima della morte di
Maometto (nel 630) per aver constatato l'identità di contenuto fra
il Corano e la Torah (cfr. Corano, sura XLVI 10). Secondo la tradi-
zione, avrebbe collaborato con Maometto alla stesura del Corano,
e sarebbe stato uno dei quattro giudei che interpellarono lo stesso
Maometto intorno a cento questioni teologíche (cfr. NI(ìCOI.(`) CU-
SANO, Cribratio /llcborani, prologo primo, p. 718; I 1, p. 733). Re-
soconto di questo dialogo fra Maometto e i quattro giudei È lo
scritto noto come Doctrina Macbumeti, latinizzato da Hermann
Dalmata e normalmente accluso, in età medioevale e umanistica, ai
Ho letto, reverendissimi padri, negli antichi libri I

degli Arabi, che il saraceno Abdallah, interrogato su


quale cosa gli apparisse massimamente degna di me-
raviglia in questa - per dir così - scena mondana, ri-
spose che niente vi appare di più meraviglioso
dell'uomo. Alla quale opinione si accorda il celebre 2
detto di Mercurio: «Grande miracolo, o Asclepio, è
l'uomo››. Riflettendo sul significato di simili afferma- 3
zioni, non mi soddisfacevano gli argomenti che da

codici che trasmettevano il Corano latinizzato (è a stampa in TII.


BIBLIANDER, Mac/Jumetis Saracenorum principis eiusque successo-
rum vitae ac dottrina ipseque Alcoran, s.n.t. [ma Basilea, ex officina
Ioannis Operini, 1543 cal, vol. I, pp. 189-200). Un «Abdala» è ci-
tato da Pico anche nelle Conclusiones, p. 38 (= Conclusiones secun-
dum Adelanduin Arabem, 6: «sicut dixit Abdala»).
2. Magnum bomo: cfr. Asclepius, VI, p. 301: «Propter haec, o
Asclepi, magnum miraculum est homo» (citato da Pico anche nel-
l'Heptaplus, V 6, p. 304). Si tratta tuttavia di un luogo comune, già
recuperato da AGOSTINO (De civ. Dei, X 12: «omni miraculo [...]
maius miraculum est homo››) e ripreso poi, fra gli altri, dal FICINO
nella Tbeologia Platonica (XIV 3) e da ANTONIO DEGLI AGLI nel
De immortalitate animae (citato in GARIN, La cultura filosofica, p.
1 13). Mercurius è Ermete Trismegisto (`tre volte grandissimo'), il
leggendario filosofo egiziano cui era attribuito il corpus degli scritti
ermetici (risalenti in realtà alla tarda epoca alessandrina): cfr. § 199
e nota Propterea mysteriis. Dell'/lsclepius ci è giunta solo una tra-
duzione latina, inclusa tra le opere di Apuleio.
3. Horum mi/ai: ricorda l'attacco di CICERONF., De orat., I 1:
«Cogitanti mihi saepe numero››. L`incipit del De finibus sarà invece
ripreso al § 151 (cfr. nota relativa). - esse inferiorum: cfr. TOM-
4 DISCORSO SULLA DIGNITA DELL'UOMO

multa de humanae naturae praestantia afferuntur a


multis: esse hominem creaturarum internuntium, su-
peris familiarem, regem inferiorum; sensuum perspi-
cacia, rationis indagine, intelligentiae lumine naturae
interpretem; stabilis evi et fluxi temporis interstitium,
et (quod Persae dicunt) mundi copulam, immo hy-
meneum, ab angelis, teste Davide, paulo deminutum.
4 Magna haec quidem, sed non principalia, idest
quae summae admirationis privilegium sibi iure ven-
S dicent. Cur enim non ipsos angelos et beatissimos
6 caeli choros magis admiremur? Tandem intellexisse
mihi sum visus cur felicissimum proindeque dignum
omni admiratione animal sit homo, et quae sit de-
mum illa conditio quam in universi serie sortitus sit,

MASO D'AQUINO, Exp. Etb., VII 1, 8: «anima humana media est in-
ter superiores substantias et divinas [...] et animalia bruta». E cfr.
FICINO, Tbeol. Plat., III 2, dove si dice che l`anima umana «talis
existit ut superiora teneat, inferiora non deserat, atque ita in ea su-
pera cum inferis colligantur››. La duplice natura dell'u0mo è sotto-
lineata anche nell'Asclepius (VIII e IX), dove pure si insiste sulla
'parentela' fra uomini e dei (XXIII, p. 325: «de cognatíone et con-
sortio hominum deorumque››). - sensuum lumine: nel suo com-
mento all'Asclepius, Ficino esalta l'«acumen mentis», la «sagacitas»
e la «intentio animi» dell'uomo (Opera, vol. II, p. 1860). - stabilis
bymeneum: nel FICINO, Tbeol. Plat., III 2, l”anima dell'uom0 è
definita «universorum connexio», «vinculum››, «Centrum naturae,
universorum medium, mundi series, vultus omnium nodusque et
copula mundí›› Le locuzioni mundi copula e mundi bymeneus sono
sinonimiche. Cfr. ancora ibid., X 3: «[rationales animae] secun-
dum Chaldaeos in confinio sunt aeternitatis et temporis›› (per que-
sto concetto cfr. anche ibid., III 2). «Imene››, «membrana» (greco
upfiv) è in effetti termine tecnico degli oracoli caldaici (Oracula
Cbaldaica, fr. 6 des Places), dove designa il principio intellettivo di
separazione tra gli esseri (cfr. le note dell'ed. des Places, pp. 124-
25). - ab deminutum: cfr. Ps., 8, 6: «minuisti eum paulo minus
ab angelis›› (e DANTE, Conv., IV 19, 7: «Tu l'hai fatto poco minore
3-6 5
molte parti vengono addotti a proposito dell'eccel-
lenza della natura umana: essere, cioè, l'u0mo mes-
saggero tra le creature, affine a quelle superiori, so-
vrano di quelle inferiori; interprete della natura, in
virtù dell'acutezza dei sensi, della capacità analitica
della ragione, della luce dell'intelletto; interstizio tra
l`immobile eternità e il fluire del tempo, e (come di-
cono i Persiani) vincolo, anzi imeneo del mondo, di
poco meno grande - secondo quanto afferma David
- rispetto agli angeli.
Queste ragioni sono certo di grande rilievo, ma 4
non sono le più importanti: non sono tali, cioè, da
poter rivendicare a sé stesse il privilegio di una supre-
ma ammirazione. Perché infatti, allora, non ammiria- 5
mo maggiormente gli stessi angeli, oppure i beatissi-
mi cori celesti? Alla fine mi parve di aver compreso 6
perché felicissimo tra gli esseri viventi, e quindi de-
gno di ogni ammirazione, sia l”uomo; e quale vera-

che li angeli››); PICO, Commento sopra una canzona, III 1, pp. 539-
40: «rettamente dice David che gli uomini sono poco diminuiti
dalla natura angelica [...] e noi dalla dignitate angelica poco dimi-
nuiti>>; Commento ai Salmi, XVII, p. 166: <<[Deus] qui et nos paulo
minus ab angelis minuit››; Heptaplus, III 7: «hominem deminu-
tum ab angelis›› (c qui il § 97). Per la diffusa idea dell'uomo come
“piccolo mondo), nel quale sono racchiuse, insieme allo spirito di-
vino, le diverse nature di tutto ciò che esiste, cfr. ancora /l.sclepiu.t,
VI, p. 302; NI:MEsIo, De natura boininis, I 63-64; BON/\vnNru1</\,
Itinerarium mentis in Deum, II 2-3; MANE'I`TI, De dignitate, I, p. 30;
e anche PICO, Commento sopra una canzona, I 12, p. 478 («la natu-
ra dell'uomo, quasi vinculo e nodo del mondo, è collocata nel gra-
do mezzo dell”universo; e come ogni mezzo participa de gli extre-
mi, Così lluomo per diverse sue parte con tutte le parti del mondo
ha communione e convenienzia, per la quale cagione si suole chia-
mare Microcosmo, cioè uno piccolo mondo»); Heptaplus, aliud
prooemium, p. 192, e V 7, p. 304; e qui il § 1 17.
6 DISCORSO SULLA DIGNITA DELLYUOMO

non brutis modo, sed astris, sed ultramundanis men-


-s tibus invidiosam. Res supra fidem et mira! Quidni?
Nam et propterea magnum miraculum et admiran-
dum profecto animal iure homo et dicitur et existi-
matur. Sed quae nam ea sit audite, patres, et benignis
auribus pro vestra humanitate hanc mihi operam
condonate.
IO Iam summus Pater architectus Deus hanc quam vi-
demus mundanam domum, divinitatis templum au-
gustissimum, archanae legibus sapientiae fabrefece-
II rat. Supercelestem regionem mentibus decorarat;
ethereos globos aeternis animis vegetarat; excremen-
tarias ac faeculentas has inferioris mundi partes om-
Il nigena animalium turba complerat. Sed, opere con-
sumato, desiderabat artifex esse aliquem qui tanti
operis rationem perpenderet, pulchritudinern ama-

8. Nam existimatur: Pico recupera qui il passo dell`Aselepius


citato in apertura, ampliandolo con una parafrasi delle parole ad
esso immediatamente successive: «animal adorandum atque hono-
randum» (VI, pp. 301-302).
Io. arc/:ianae fabrefecerat: per le arcbanae leges sapientiae cfr.
Sap., 11, 21, dove alla divina sapienza si dice: «omnia in mensura,
ct numero, et pondere disposuisti››. E cfr. anche ibid., 9, 9 («sa-
pientia tua, quae novit opera tua, quae et affuit tunc cum orbem
terrarum faceres››); Ps., 103, 24.
I I. excrementarias acfaeculentas: dei due aggettivi, il primo non è
attestato dai lessici, mentre il secondo ricorre nel latino cristiano e
nel Temistio di ERMOLAO BARBARO (f. II0r: «sanguinem feculen-
tum››), e tornerà - con identico significato figurato - nell'Heptaplus
(I 3, p. 2 14: «ex foeculenta crassioreque parte mundani corporis››) e
nel Commento aiSalmi (p. 168: «terrcnum [...] et foeculenturn››). -
omnigena: l`agg. omnigenus (che torna ai §§ 27 e 192, nonché
nell`Heptaplus, VII 5, p. 364) è in Ausonio e negli autori cristiani.
Pico lo trovava però anche in LUCREZIO, V 428 («omnigenos coe-
tos››), dove Lachmann corresse in omne genus.
6-12 7

mente sia quella condizione che egli ha avuto in sorte


nell'ordine dell'universo, invidiabile non solo dagli
animali bruti, ma anche dagli astri e dalle intelligenze
ultramondane. Cosa incredibile e meravigliosa! E 7-
perché no, dal momento che proprio per questo l'uo-
mo viene a buon diritto definito e considerato un
grande miracolo e un essere senza dubbio degno di
ammirazione? Ma quale mai sia questa sua condizio-
ne, o padri, ascoltate, e, in grazia della vostra benevo-
lenza, con benigne orecchie perdonatemi questo di-
scorso.
Già Dio, sommo Padre e architetto, aveva fabbri- IO

cato con arte, secondo le leggi della sua arcana sa-


pienza, questa dimora mondana che vediamo, augu-
stissimo tempio della divinità. Aveva adornato con le II

intelligenze angeliche la regione iperurania; aveva


animato le sfere celesti con gli spiriti beati; aveva po-
polato queste parti sozze e fangose del mondo infe-
riore con una multiforme turba di animali. Ma, una 12

volta compiuta l'opera, l'artefice desiderava che ci


fosse qualcuno capace di intendere il senso di una
creazione così magnifica, di amarne la bellezza, di

12. Sed admiraretur: che l'uomo sia stato creato da Dio per-
ché ne ammiri l'opera afferma, ad esempio, L/\TT/\NZI(), De ira Dei,
XIV 1: «Sicut mundum propter hominem machinatus est [Deus],
ita ipsum propter se tamquam divini templi antistitem, spectato-
rem operum rerumque caelestium››. E cfr. anche MANI;'I'TI, De di-
gnitate, III, p. 96: «Fecit igitur Deus hominem ut per quandam ad-
mirabilium operum suorum intelligentiam certamque cognitionem
eorum opificem recognosceret et coleret››. Si tratta di un motivo
anche ermetico; vedi Corpus Hermeticum, III 3 («Dio ordinò poi
che fossero creati gli uomini, perché conoscessero le opere divine
[...]. Dio creò gli uomini perché contemplassero il cielo, la corsa
degli dei celesti, le opere divine››) e X 15; /lsclepius, VIII-IX.
8 DISCORSO SULLA DIGNITA DELL,UOMO

ret, magnitudinem admiraretur. Idcirco iam rebus


omnibus (ut Moses Timeusque testantur) absolutis,
de producendo homine postremo cogitavit. Verum
nec erat in archetipis unde novam sobolem effinge-
ret, nec in thesauris quod novo filio hereditarium lar-
giretur, nec in subselliis totius orbis ubi universi con-
templator iste sederet. Iam plena omnia; omnia sum-
mis, mediis infimisque ordinibus fuerant distributa.
Sed non erat paternae potestatis in extrema faetura
quasi effetam defecisse; non erat Sapientiae consilii
inopia in re necessaria fluctuasse; non erat benefici
Amoris ut qui in aliis esset divinam liberalitatem lau-
daturus, in se illam damnare cogeretur.
Statuit tandem optimus opifex ut cui dari nihil
proprium poterat, ei commune esset quicquid priva-
tum singulis fuerat. Igitur hominem accepit, indiscre-

13. Idcirco cogitavit: cfr. Gen., I 26-28; PLATONE, Tim., 41b-


d; ID., Protag., 320c-322d; TIMEO DI LOCRI, De natura mundi et
animae, 43-44 (p. 54). Dell'operetta di Timeo (citata più volte an-
che dal Ficino nella T/Jeologia Platonica: III 2; V 13-14; XVII 4) Pi-
co possedeva due copie nella sua biblioteca (KIBRE, Tbe Library, n.
2 1 8 e 949).
14. Verum sederet: cfr. ancora PLATONE, Protag., 320d-321c,
dove si narra che gli dei affidarono ad Epimeteo il compito di asse-
gnare e distribuire agli esseri viventi le varie facoltà, e che egli «non
si accorse di aver esaurite tutte le facoltà per gli animali: e a questo
punto gli restava ancora la razza umana non sistemata, e non sape-
va come rimediare».
16. Sed cogeretur: l'andamento ternario che caratterizzava i §§
precedenti (I I-12 e 14-15) e che tornerà anche in seguito (§ 18)
culmina qui nell'evocazione delle tre persone della Trinità: il Padre
ovvero la Potenza («paternae potestatis››), il Figlio ovvero la Sa-
pienza, lo Spirito Santo ovvero l'Amore. Da notare anche la figura
etimologica faetura / effetam. Per faetura nel senso di 'atto del par-
torire, del generare', cfr. PLINIO, Nat. bist., praef. 1: «proxima fe-
tura»; in PICO, Epistola a Lorenzo de' Medici, p. 22 («legitimam fe-
turam››) il termine ha il senso traslato di `creazi0ne', 'prodotto'.
12-18 9

ammirarne la grandezza. Per questo, dopo aver ormai 13


(come attestano Mosè e Timeo) portato a termine
tutte le cose, meditò infine di creare l`uomo. Ma non 14
c”era tra i modelli uno sul quale esemplare la nuova
stirpe, non ciera negli scrigni qualcosa da donare in
eredità alla nuova creatura, non c'era tra i seggi di
tutto il mondo uno sul quale potesse trovare posto
codesto contemplatore dell'universo. Tutti erano or- IS
mai occupati; tutti erano stati assegnati, ai gradi som-
mi, ai mezzani e agli infimi. Ma non sarebbe stato de- 16
gno della potenza del Padre venir meno, quasi sfinita,
nel suo estremo parto; non della sua Sapienza esitare
per pochezza d”ingegno di fronte a un'opera necessa-
ria; non del suo benefico Amore, che colui che avreb-
be dovuto lodare nelle altre cose la divina liberalità
fosse costretto a biasimarla in ciò che lo riguardava.
L'ottimo artefice stabilì infine che a colui al quale 17
nulla poteva esser dato di proprio fosse comune tutto
quanto era stato concesso di particolare alle singole
creature. Prese dunque l'uomo, questa creatura di 18

Per effeta nel senso di `sfinita dai parti' cfr. la «effeta tellus» di LU-
(IREZIO, II 1150. Che «non è proprio di Dio [...] lo stancarsi» si leg-
ge nel Corpus I-Ierinetieum, XVIII 1 (e anche 3: «Dio è un soffio in-
stancabile››); che il mondo sia «divinitatis partum›› afferma l'Ascle-
pius, VIII, p. 305.
17. opifex: il termine, per designare il creatore dell'universo, E-:
già impiegato dai poeti classici (OVIDIO, Met., I 79; LUGANO, X
267), e ricorre con frequenza negli autori cristiani. Qui cfr. in par-
ticolare CALCIDIO, In Timaeum, 26, p. I 86, dove si afferma che Dio
edificò il mondo «tanquam opifex aliquis manibus ceterarumque
artiurn molitione». E cfr. anche il § 56 (e la nota relativa), oltre a
PICO, Commento sopra una canzona, I 9, p. 473 («opefice del mon-
do››) e III 10, p. 570 («l'opifice del mondo»); Commento ai Salmi,
pp. 170, 188, 220.
18. indiscretae imaginis: indiscretus vale qui indeterminato',
IO DISCORSO SULLA DIGNITA DELL›UOMO

tac opus Imaginis, atque in mundi positum meditullio


sic est alloquutus: «Nec certam sedem, nec propriam
faciem, nec munus ullum peculiare tibi dedimus, o
Adam, ut quam sedem, quam faciem, quae munera
tute optaveris, ea pro voto, pro tua sententia habeas
et possideas. Definita caeteris natura intra praescrip-
tas a nobis leges cohercetur. Tu, nullis angustiis
cohercitus, pro tuo arbitrio, in cuius manu te posui,
tibi illam prefinies. Medium te mundi posui, ut cir-
cumspiceres inde comodius quicquid est in mundo.
Nec te celestem neque terrenum, neque mortalem
neque immortalem fecimus, ut, tui ipsius quasi arbi-
trarius honorariusque plastes et fictor, in quam ma-
lueris tute formam effingas. Poteris in inferiora, quae
sunt bruta, degenerare; poteris in superiora, quae
sunt divina, ex tui animi sententia regenerari››.

`incerto', indefinito', ossia potenzialmente capace di assumere


qualunque forma e natura (greco dôtdicpurog). ALLEN, Cultura bo-
minis, pp. 177-79, ricollega questa nozione a quella platonica
(P/øil., 23c e sgg.) di äitatpov (`infinito', indeterminato', nel senso
“potenziale” del termine). -in meditullio: cfr. GIROLAMO, Adv.
Pelag., I 12: «semper hominem in meditullio positum›› (altri luoghi
paralleli in BAUSI, Nec rbetor, pp. 127-28). La rara voce meditul-
lium (attestata in Apuleio e negli autori cristiani) torna anche
nell'Heptaplus, I 3, p. 214. Nell'Asclepius, VI, p. 301, si sottolinea
la medietas della specie umana, e si afferma (p. 302) che l`uomo
«sic ergo feliciore loco medietatis est positus, ut quae infra se sunt
diligat, ipse a se superioribus diligatur›› (e commentando queste
parole, Ficino scrive che l'uomo è «in mundi medio positus››: Ope-
ra, vol. II, p. 1860). Lo stesso FICINO, Tbeol. Plat., I 1, scrive che
l'anima umana, «inter gradus huiusmodi medium obtinens, vincu-
lum naturae totius apparet››; e «cum media omnium sit, vires pos-
sidet omnium» (III 2). - Nec possideas: nel secondo proemio
dell'Heptaplus (p. 194) si afferma che «naturae [...] discretas tamen
proprias sedes et peculiaria quaedam iura sortitae sunt›› (mentre
qui sopra l”uomo è stato definito «indiscretae opus imaginis››). Ha-
beas et possideas è dittologia sinonimica.
18-23 11

aspetto indefinito, e, dopo averlo collocato nel centro


del mondo, così gli si rivolse: «O Adamo, non ti ab-
biamo dato una sede determinata, né una figura tua
propria, né alcun dono peculiare, affinché quella se-
de, quella figura, quei doni che tu stesso sceglierai, tu
li possegga come tuoi propri, secondo il tuo desiderio
e la tua volontà. La natura ben definita assegnata agli
altri esseri è racchiusa entro leggi da noi fissate. Tu,
che non sei racchiuso entro alcun limite, stabilirai la
tua natura in base al tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho
consegnato. Ti ho collocato come centro del mondo
perché da lì tu potessi meglio osservare tutto quanto
è nel mondo. Non ti creammo né celeste né terreno,
né mortale né immortale, in modo tale che tu, quasi
volontario e onorario scultore e modellatore di te
stesso, possa foggiarti nella forma che preferirai. Po-
trai degenerare negli esseri inferiori, ossia negli ani-
mali bruti; o potrai, secondo la volontà del tuo ani-
mo, essere rigenerato negli esseri superiori, ossia nel-
le creature divine».

20. pro posui: cfr. Eccli., 15, 14: «Deus ab initio constituit ho-
minem, et reliquit illum in manu consilii sui» (V/\Lt:I<I-1-G/\LII1oIs,
Le périple intellectuel).
22. arbitrarius fictor: nel senso di `volontario`, arbitrarius è at-
testato in Plauto e in Gellio; qui la fonte è però M/\I<zI/\No C/\I›uI.-
LA, I 68, dove Giove è definito «fictor arbitrarius [mundi]›› (ed è
notevole che l`espressione sia riferita da Pico all”uomo). L'aggetti-
vo bonorarius è invece tecnicismo giuridico, applicato di norma ai
magistrati designati dal pretore; qui vale `straordinario', ossia “reso
tale da Dio', che è invece plastes et fictor ordinarius (o naturalis).
Cfr. anche la lettera di Poliziano a Pico del 2 maggio 1494: <<non
quidem ut iudex, sed ut arbiter honorarius» (POLIZIANO, Opera
omnia, p. 164). La fonte dell”immagine è PLOTINO, Ennead., l 6
[1], 9, 13: «Non smettere di costruire la statua di te››.
23. Poteris regenerari: per la contrapposizione degenerare / re-
generari (e per i rinvii ai luoghi paralleli dcll'I-Ieptaplus e del Com-
I2 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLYUOMO

O summam Dei patris liberalitatem, summam et


admirandam hominis foelicitatem, cui datum id ha-
bere quod optat, id esse quod velit! Bruta, simul at-
que nascuntur, id secum afferunt (ut ait Lucilius) e
bulga matris quod possessura sunt. Supremi spiritus
aut ab initio aut paulo mox id fuerunt, quod sunt fu-
turi in perpetuas aeternitates. Nascenti homini omni-
faria semina et omnigenae vitae germina indidit Pa-
ter. Quae quisque excoluerit, illa adolescent, et fruc-
tus suos ferent in illo. Si vegetalia, planta fiet; si sen-
sualia, obrutescet; si rationalia, caeleste evadet ani-
mal; si intellectualia, angelus erit et Dei filius. Et si,
nulla creaturarum sorte contentus, in unitatis cen-
trum suae se receperit, unus cum Deo spiritus factus,
in solitaria Patris caligine, qui est super omnia consti-
tutus omnibus antestabit.

mento ai Salmi) cfr. Introduzione, pp. XX-XXI. E cfr. qui anche l'an-
titesi reformant / deformant al § 35.
25. Bruta sunt: cfr. LUCILIO, 623 Marx (citato in NONI() MAR-
CELLO, De compendiosa doctrina, p. 109 Lindsay): «ita uti quisque
nostrum e bulga est matris in lucem editus» (dove bulga, `borsa`, è -
così come nella nostra traduzione - metafora per `utero'). La cita-
zione tornerà nelle Disputationes adversus astrologiam, IV 5, p. 4 5 8.
26. Supremi aeternitates: come osserva DE LUBAC, Pico, pp.
63-64, la precisazione paulo mox (`poco dopo') si riferisce qui alla
caduta di Lucifero e degli angeli suoi seguaci, che - esercitando un
libero arbitrio analogo a quello dell'uomo - si ribellarono a Dio
all'indomani della creazione.
27. omnifaria: il rarissimo aggettivo omnifarius, attestato in po-
chi autori cristiani (cfr. BAUSI, Nec rbetor, p. 136), ricorre inoltre
nell'I-Ieptaplus (aliud prooemium, p. 186) e nella precedente reda-
zione dell`Oratio (§ 27). Lo impiega anche il Poliziano nei Miscella-
nea, I 74 (Opera omnia, p. 284): «omnifariae historiae».
29. Si filius: cfr. GIAMBLICO, Protrepticus, V, p. 35 Pistelli:
«Privato dei sensi e dell'intelletto, l'uomo diventa simile a una
pianta; privato del solo intelletto, diventa una bestia; privato
dell'irrazionalità, ma restando in possesso della ragione, diviene af-
24-39 13
O somma liberalità di Dio Padre, somma e mirabile
felicità dell'uomo, cui è concesso di ottenere ciò che
desidera, di essere ciò che vuole! Gli animali bruti, ap-
pena vengono alla luce, recano con sé (come dice Lu-
cilio) dalla borsa della madre ciò che sono destinati a
possedere. Le intelligenze supreme furono sin dall”ini-
zio, o da poco dopo, ciò che saranno per l'eternità sen-
za fine. Nell'uomo, all'atto della nascita, il Padre infu-
se i semi di ogni specie e i germi di ogni genere di vita.
Cresceranno, e in lui produrranno i loro frutti, quelli
che ciascuno coltiverà. Se coltiverà quelli vegetali, di-
venterà una pianta; se quelli sensuali, abbrutirà; se
quelli razionali, riuscirà un essere celeste; se quelli in-
tellettuali, sarà un angelo e un figlio di Dio. E se, non
accontentandosi di alcuna delle sorti assegnate alle
creature, si raccoglierà nel centro della sua unità, di-
ventato un solo spirito con Dio, lui che fu stabilito so-
pra tutte le cose sarà superiore a tutte le cose, nella so-
litaria caligine del Padre.

fine a Dio››. E anche /lsclepius, V, p. 301 («prope deos accedit, qui


se mente, qua diis iunctus est, divina religione diis iunxerit, ct dac-
monum, qui his iunctus est; humani vero, qui mcdietate generis sui
contenti sunt; et reliquae hominum species his similes erunt, quo-
rum se generis speciebus adiunxerint››) e VII, p. 303; FICINO,
Tbeol. Plat., XIV 3.
30. in caligine: per la caligine di Dio, cfr. Ex., 20, 21 («Moyses
autem accessit ad caliginem in qua erat Deus››) e 24, 16; Deut., 4,
11; Ps., 17, 10-12 e 96, 2; Hebr., 12, 18. Cfr. anche GREGORII) DI
NISSA, Vila di Mosè, II 162-65, per il quale la caligine (greco
Yvó¢0c_,) simboleggia l°inconoscibilità della natura divina (164:
«Perciò Mosè, dopo essere diventato più grande per la conoscen-
za, afferma allora di conoscere Dio nelle tenebre, cioè egli ha cono-
sciuto che per natura la divinità è ciò che trascende ogni conoscen-
za e ogni comprensione››); e soprattutto lo PSEUDO-DIONI(;I AREO-
PAGITA, De mystica tbeologia, I 1 (PG III, 997a-10o0b), dove il mi-
stero di Dio è designato come caligine ('Yvód›0<;) e come tenebra
14 Dlscokso SULLA DIGNITA DELL'UoMo

Quis hunc nostrum chamaeleonta non admiretur?


Aut omnino quis aliud quicquam admiretur magis?
Quem non immerito Asclepius Atheniensis, versipel-
lis huius et se ipsam transformantis naturae argumen-
to, per Protheum in mysteriis significati dixit. Hinc
illae apud Hebreos et Pythagoricos methamorphoses
celebratae. Nam et Hebreorum theologia secretior
nunc Enoch sanctum in angelum divinitatis, quem

(oicótog). Sulla scia di Dionigi si muovono poi BONAVENTURA, Iti-


/ierarium mentis in Deum, VII 5-6 («Moriamur igitur et ingredia-
mur in caligine»: cfr. I DENG-SU, La mistica) e lo stesso Pico nel De
ente et uno, V, pp. 412-14 («ad caliginem ascendentes quam Deus
inhabitat»; «Dionysius Areopagita [...] quasi qui iam in caligine es-
set et, ut poterat, de Deo sanctissime loqueretur [...]»).
31. cbamaeleonta: cfr. FICINO, Translatio simul et explariatio in
Prisciani Lydi interpretationem .super Tbeopbrastum de pbantasia et
intellectu (1489 ca, in Opera, vol. II, p. 1825): «Imaginatio est tan-
quam Protheus vel cameleon» (cit. da GARIN, P/øantasia, p. 351). E
Proteo compare qui sùbito dopo (§ 3 3). Nelle Disputationes adver-
sus astrologiam (VI 2, p. 583), sulla scorta di Aristotele (Etb. Ni-
com., I 1 1, 1 Ioob), il camaleonte diventa simbolo negativo di inco-
stanza: «versipellis mutatio, et instar chamaleontis incostantia».
PLUTARCO, Quomodo adulator ab amico internoscatur, 53d, parago-
na l'adulatore al camaleonte.
3 3. Quem dixit: Proteo era un dio marino dotato di virtù pro-
fetiche, capace di assumere le più diverse forme per sfuggire a
quanti lo interrogavano (OMERO, Od., IV 383-570; VIRGILIO,
Georg., IV 387-527; POLIZIAN(), Commento alle Selve diStazio, p.
230). Negli Inni orjfici, XXV 2-3, Proteo è colui «che della natura
svelò tutti i principii I e trasformò la sacra materia in molteplici for-
me››; e per FICINO, T/reol. Plat., XI 3, «theologia orphica Protheum
appellat essentiam tertiam, animarum rationalium sedem›› (e l'ani-
ma umana, giacché contiene in sé le nature di tutte le cose, può
dunque essere paragonata a Proteo: cfr. anche ibid., IV, 2). Secon-
do CLEMENTE ALESSANDRINO, Paedag., III 1, 1, l'anima concupisci-
bile dell`uomo è più mutevole e incostante del multiforme Proteo.
Sconosciuta è l'identità dell'«Asclepio ateniese» citato da Pico: cfr.
CICOGNANI, p. 97, che a ragione esclude trattarsi di Asclepio di
Tralle (in Lidia), filosofo neoplatonico del VI sec. d.C.
3 5. Nam |1¬InIaD: cfr. PICO, Commento sopra una canzona, III 4,
31'35 15

Chi non ammirerà questo nostro camaleonte? O, 31-32


in generale, chi maggiormente ammirerà qualcos'al-
tro? Di lui, non senza ragione, Asclepio ateniese disse 33
che nei misteri, a causa della sua natura mutevole e
capace di assumere le fogge più diverse, era simbo-
leggiato da Proteo. Donde quelle ben note meta- 34
morfosi celebrate presso gli Ebrei e i Pitagorici. Infat- 35
ti anche la più segreta teologia ebraica trasfigura ora
il santo Enoch in un angelo della divinità, che essi

p. 554: «quando nell`uomo niuna umana operazione appare è vera-


mente morto quanto all`essere umano e, se da quello passa all`essere
intellettuale, è per tale morte di uomo in angelo trasformato; né al-
trimenti el detto si debbe intendere de` sapienti cabbalisti quando 0
Enoch in Matatron, angelo della divinità, 0 universalmente alcuno
altro uomo in angelo dicono trasf0rmarsi››; AVRAIIAM ABULAFIA, De
secretis Legis, citato da WIRSZUBSKI, Encounter, p. 232: «et dicunt
quod I-Ienoch est Mattatron et sic dixit Ionethes Chaldeus››. Per la
parola ebraica citata da Pico (]'I¬t:tnD = *Metatron`) cfr. qui la Nota al
testo, pp. 171-72; Me_ta_tron «is sometimes identified, notably by
Abulafia, with the Active Intellect, and is also called son›› (WIRSZUR
SKI, Encounter, p. 200, e anche PICO, Commentary, p. 231 n. 20,
nonché Conclusiones, p. 34 = Conclusiones .secundum Tliemistium,
2: «Intellectus agens illuminans tantum credo sit illud apud Themi-
stium, quod est Me_ta_tron in Cabala»; e le note del CICOGNANI, p. 98,
e del FARMER, Syncretism, p. 295, oltre a COPIìNIIAVIiR, Llocculto,
pp. 231-232). Secondo lo stesso \)(/IRSZUBSKI, Encounter, pp. 198-
200, il termine Metatron deve leggersi anche nella decima delle Con-
clusiones Cabalisticae (p. 128): «Illud quod apud Cabalistas dicitur
glràtàb [= Me_ta_tron], illud est sine dubio quod ab Orpheo Pallas, a
oroastre materna mcns, a Mercurio Dei filius, a Pythagora sapien-
tia, a Parmenide sphaera intelligibilis nominatur›› (la prince/is reca
uno spazio bianco in luogo della parola ebraica; e cfr. anche FAR-
MILR, Syncretisrn, p. 70). Per Enoch, patriarca figlio di lared e discen-
dente di Set, cfr. Gen., 5, 1 8-23; 1Crori_, 1, 3; per la sua assunzione al
cielo cfr. Eccli., 44, 16 e 49, 16 (e LELLI, Un collaboratore, p. 424: «il
patriarca Enoch, già nella letteratura apocalittica intertestamenta-
ria, venne considerato il primo uomo ad avere conosciuto mistica-
mente Dio o l'angelo Metatron, interpretato filosoficamente come
lllntelletto Agente››; M. IDEL, T/ae Image of Man ITI. tbe Sefirot [in
ebraicol, in «Da`at», IV, 1980, pp. 41-55; ID., Enocb Is Me_ta_tron [in
I6 DISCORSO SULLA DIGNITA DELLYUOMO

vocant ]'I¬tmI:, nunc in alia alios numina reformant; et


Pythagorici scelestos homines et in bruta deformant
et, si Empedocli creditur, etiam in plantas. Quos imi-
tatus Maumeth illud frequens habebat in ore, qui a
divina lege recesserit brutum evadere. Et merito qui-
dem: neque enim plantam cortex, sed stupida et nihil
sentiens natura; neque iumenta corium, sed bruta
anima et sensualis; nec caelum orbiculatum corpus,
sed recta ratio; nec sequestratio corporis, sed spirita-
lis intelligentia angelum facit. Si quem enim videris
deditum ventri, humi serpentem hominem, frutex

ebraico], in Early Jewisb Mysticism [«Jerusalem Studies in Jewish


Thought», VI, 1-2, 1987], a cura diJ. DAN, pp. 151-170). La «He-
breorum theologia secretior›› è la qabbalab (cfr. qui il S I 99, e anche
i §§ 23 5-37, con le note relative). - nunc reformant: secondo il CI-
(IOGNANI, p. 98, qui si allude all'ascensione al cielo di Elia (cfr.
4Regg., 2, 11). - Pytbagorici deformant: cfr. DIOGENE LAERZIO,
Vitae, VIII 14 e 36; e il passo di Calcidio citato alla nota seguente
(oltre a PICO, Heptaplus, IV 5, p. 280: «ut non sit creditu difficile pa-
radoxon Pythagoricorum, si recte intelligatur, improbos homines
migrare in bruta››). Da rilevare l”antitesi (in figura etimologica)
reformant / deformant, chiasticamente parallela a quella del § 23 (de-
generare/ regenerari). -si plantas: cfr. EMPEDOCLE, frr. 117 e 127
Diels-Kranz (il primo desunto da DIOGENE LAERZIO, Vitae, VIII 77,
il secondo da ELIANO, Nat. bist., XII 7); e anche frr. 35, 16-17 (da
SIMPLICIO, De caelo, 528, 30) e 115, 7-8 (da IPPOLITO, Ref, VII 29).
E cfr. inoltre lo stesso DIOGENE LAERZIO, Vitae, VIII 77: «Per Em-
pedocle [...] l'anima riveste qualsiasi specie di animale e di pianta»;
nonché - anche per Pitagora - CALCIDIO, In Tim., 195, p. 222: «Em-
pedocles tamen, Pythagoram secutus, ait eas [cioè le anime di chi vi-
ve seguendo i sensi] non naturam modo agrestem et feram sortiri,
sed etiam formas varias, cum ita dicit: “Namque ego iamdudum vixi
puer et solida arbos, l et tali sexu inde animal, tum lactea virgo”››.
Da ricordare anche PICO, Conclusiones, p. 1 I4 (Conclusiones de in-
telligentia dictorum Zoroastris, 4), dove si afferma che Empedocle
«ponit transanimationem etiam in plantis».
36. Quos evadere: cfr. Corano, ad esempio sura II 65 e 171;
sura VII 166, 176 e 179 (per la trasformazione degli infedeli e degli
increduli in scimmie, cani e animali in genere). Pico ebbe in presti-
ss-38 17
chiamano Metatron, e ora chi in un nume e chi in un
altro; mentre i Pitagorici riducono gli uomini scelle-
rati in animali bruti e, se crediamo a Empedocle, an-
che in piante. Maometto, sulla loro scia, era solito ri- 3
petere che chi si è allontanato dalla legge divina fini-
sce col diventare un animale bruto. E giustamente, in 37
verità: non è infatti la corteccia che fa la pianta, ma la
sua natura inintelligente e insensibile; non il cuoio
che fa i giumenti, bensì la loro anima bruta e sensua-
le; non la forma circolare che fa il cielo, ma la sua per-
fetta razionalità; non la separazione dal corpo che fa
l'angelo, bensì la sua intelligenza spirituale. Se per- 3

to una copia del Corano - in traduzione latina - dal Ficino, che


gliela richiese con una lettera dell'8 settembre 1486 (FICINO, Epist.,
VIII 19 = Opera, vol. I, p. 879, c PICO, Opere complete, epistole a
Pico, XXVIII; per la data cfr. Supplementum Ficinianum, vol. I,
pp. 34-35); Pico rispose che gliela avrebbe presto restituita, poi-
ché, grazie all'assiduo studio dell'arabo che andava conducendo in
quel periodo sotto la guida di Flavio Mitridate, di lì a poco sarebbe
stato in grado di leggere il Corano in lingua originale (lettera da
Fratta, non datata, in PICO, Commentationes, f. TT i v - TT ii r =
Opere complete, epistole di Pico, XX). Per gli studi arabi di Pico
cfr. \)(/IRSZUBSKI, Encounter, pp. 3-4, 241; perle copie del Corano -
in arabo, in ebraico e in latino - da lui possedute, cfr. PIEMONTESE,
Il Corano, pp. 236-38, 252-55, 264-69, 271-72 (c anche Marsilio Fi-
cino e il ritorno di Platone, pp. 78-79).
37. Et facit: da questo, e dai tre seguenti paragrafi, appare
chiaro che Pico non aderisce qui alla dottrina della metempsicosi,
ma (come FICIN(), Tbeol. Plat., XVII 4) interpreta in chiave pura-
mente metaforica e morale le trasformazioni dell'uomo in animale
0 in pianta di cui parlano Empedocle e i pitagorici (cfr. al riguardo
anche DE LUBAC, Pico, pp. 195-21 8). Così anche nell`IIeptaplus, IV
5 e 7 (cfr. qui Introduzione, note 14 e 19), nel De ente et uno (X, p.
440) e nella lettera a Giovan Francesco del 15 maggio 1492 («Cir-
ceis ebrios poculis in prodigiosas brutorum species illecebrosa [ca-
ro] deformat››: Commentationes, f. RR iii v = Opere complete, epi-
stole di Pico, I).
38. bumi bominem: il gioco di parole bumi/ bomineni è certo
I8 DISCORSO SULLA DIGNITA DELL'UOMO

est, non homo, quem vides; si quem in phantasiae


quasi Calipsus vanis praestigiis cecutientem et, sub-
scalpenti delinitum illecebra, sensibus mancipatum,
39 brutum est, non homo, quem vides. Si recta philo-
sophum ratione omnia discernentem, hunc venereris:
40 caeleste est animal, non terrenum. Si purum contem-
platorem corporis nescium, in penetralia mentis rele-
gatum, hic non terrenum, non caeleste animal: hic au-
gustius est numen, humana carne circumvestitum.
41'42 Ecquis hominem non admiretur? Qui non immeri-

allusione alla diffusissima pseudo-etimologia che faceva derivare


bomo da bumus (per la quale cfr. ad esempio ISIDORO, Etym., XI 1,
4 e De difl rer., XVII 47; EUSEBIO, Praepar. evang., XI 6 = PG
XXI, 856-57; GREGORIO MAGNO, Moralia, XII 32; MANETTI, De
dignitate, I, p. 5), accolta da Pico anche nell'I-Ieptaplus, IV 1, p.
270: «Quare et de humo factum, ut scribit Moses, homini dedit ap-
pellationem››. - quem cecutientem: secondo quanto narra OME-
RO (Od, V 55-269), Ulisse fu trattenuto per sette anni dalla ninfa
Calipso sulla sua isola; Pico interpreta allegoricamente le lusinghe
della ninfa (Od., I 55-57: «la figlia sua Iscil. Calipso, figlia di Atlan-
te] trattiene quel misero, afflitto, I e sempre con tenere, maliose pa-
role I lo incanta, perché scordi Itaca››) come le attrattive dei sensi,
che catturano e accecano la ragione (già, ad esempio, per BOCCAC-
(ZIO, Genealogie, XI 60, p. 1 146, Ulisse è allegoria del «bonus vir»;
e cfr. qui § 224 e nota Homeras probabimus). Calipsus è genitivo
greco (Calipso, -us) da legare a pbantasiae; mentre caecutire, in sen-
so translato, è del latino cristiano, e torna di frequente in Pico (cfr.
BAUSI, Nec rbetor, p. 133; è anche nel MANETTI, De dignitate, III,
p. 66). - subscalpenti: subscalpere ('solIeticare`) è un bapax, e si tro-
va - anche lì al participio, e in un contesto analogo -in MARZIANO
CAPELLA, I 7: «ne ullum tempus sine illecebra oblectamentisque
decurreret, pruritui subscalpentem circa ima corporis apposuerat
voluptatem››. - sensibus: per I'accostamento dei sensi' e della fanta-
sia (la facoltà deputata a giudicare le immagini ricevute dalla sensa-
zione: KRISTELLER, Il pensiero, p. 251) cfr. FICINO, T/ieol. Plat., IX
2: «Quando circa corporalia occupamur, intellectus aut nihil cernit
omnino aut non sincere discernit, sensibus et phantasia deceptus».
Anche I'immagine delle praestigiae della fantasia deriva da FICINO,
38-42 19

tanto vedrai un uomo che, schiavo del ventre, striscia


al suolo, quello che vedi è un vegetale, non un uomo;
se vedrai chi, servo dei sensi, brancola nei vani ingan~
ni della fantasia (come in quelli di Calipso) e si fa se-
durre dalla solleticante lusinga, quello che vedi è un
animale bruto, non un uomo. Se invece vedrai un fi- 39
losofo che tutto considera con retta ragione, venera-
lo: è una creatura celeste, non terrena. E se vedrai un 40
puro contemplatore, dimentico del corpo e rinchiuso
nei penetrali della sua mente, costui è creatura né ter-
rena né celeste: costui è un nume più santo, rivestito
di carne umana.
Chi dunque non ammirerà l'uomo? Lui che non a 41'42

z7?z'd., IX 3: «Sed ratio interim e summa mentis specula dcspiciens


phantasie ludos, ita proclamat: “Cave animula, cave inanis istius
sophistae praestz`gz'ar”››. E aggiungi Asclepíur, VII, p. 303: «Non
omnes, o Asclepi, intelligentiam veram adepti sunt, sed imaginem
temerario inpetu nulla vera inspecta ratione sequentes decipiuntur,
quae in mentibus malitiam parit et transformat optimum animal in
naturam ferae moresque beluarum».
39. Si terrenum: cfr. (anche per il § seg.) SENECA, Epzfirl., XLI
4-5: «Si hominem videris interritum periculis, intactum cupiditati-
bus, inter adversa felicem, in mediis tempestatibus placidum, ex
superiore loco homines videntem, ex aequo deos, non subibit te
veneratio eius? Non dices: ista res maior est altiorque quam ut cre-
di similis huic in quo est corpusculo possit? Vis isto divina descen-
dit; animum excellentem, moderatum [...] caelestis potentia agi-
tat». E inoltre ARIST()'I'liLE, Et/:_ Nícom., VII 1, r145a, da cui DAN-
TE, Conu., III 7, 6: «noi veggiamo molti uomini tanto vili e di sì
bassa condizione, che quasi non pare essere altro che bestia; e così
è da porre e da credere fermamente, che sia alcuno tanto nobile e
di si alta condizione, che quasi non sia altro che angelo».
4o. rzrcumvertitumz peri §§ 37-4o cfr. FICINO, Theo/. Plat., XIV
3 (citato qui nell'Im'r0duzí0ne, nota z3)›
42. Qui desígnatur: cfr. ad esempio Gen., 6, 12; Num., 27, 16;
Mc., 16, 15; 1Pezr., z, 13. Le «litterae Mosaycae» e quelle «Cl1ri~
20 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLIUOMO

to in sacris Litteris Mosaycis et Christianis nunc «om-


nis carnis››, nunc «omnis creaturae» appellatione de-
signatur, quando se ipsum ipse in omnis carnis fa-
ciem, in omnis creaturae ingenium effingit, fabricat et
transformat. Idcirco scribit Evantes Persa, ubi Chal-
daicam theologiam enarrat, non esse homini suam ul-
lam et nativam imaginem, extrarias multas et adventi-
tias. Hinc illud Chaldeorum [...], idest «homo variae
ac multiformis et desultoriae naturae animal››. Sed
quorsum haec? Ut intelligamus (postquam hac nati
sumus conditione, ut id simus quod esse volumus)
curare hoc potissimum debere nos, ut illud quidem
in nos non dicatur, cum in honore essemus non co-
gnovisse similes factos brutis et iumentis insipienti-
bus, sed illud potius Asaph prophetae: «Dii estis et fi-
lii Excelsi omnes››; ne, abutentes indulgentissima Pa-
tris liberalitate, quam dedit ille liberam optionem e

stianae›› sono, rispettivamente, l'Antico e il Nuovo Testamento. -


quando lranrforfnalz cfr. GIOVANNI SCOTO, De dz'z1z'.rz'0ne naturae
(PL CXXII, 536): «Non enim ulla creatura est, quae in homine in-
telligi non possit: unde etiam in sacris Scripturis omnis creatura
nominati solet››_
43. Idcirco aa'uentítz'as: fonte non individuata. Per queste sco-
nosciute `esposizioni' della teologia caldaica cfr. la lettera di Pico a
Ficino, citata in nota al § 259; e in generale per le fonti 'caldaiche'
di Pico cfr. Introduzione, p. XL.
44. Per questa lacuna, cfr. la Nola al testo, pp. 172-73; e WIR-
SZUBSKI, Encounter, pp. 241-42. - Hinc animal: cfr. forse Oracu-
la Cbaldaíca, fr. 106 des Places: «O uomo, prodotto di una natura
audace!›› (citato e tradotto dal FICINO nella 'I'/Jeo/. Plal., XIV 1:
«O homo, naturae audentissimae artificium››). L'aggettivo dexulto-
rin; è riferito solitamente ai dexultorex, ossia ai cavalieri che, duran-
te le corse, saltavano acrobaticamente da un cavallo all'altro. In
senso figurato, ricorre in Varrone e Apuleio; qui allude alla capa-
cità dell'uomo di assumere le più diverse nature, quasi `saltando”
dall'una all'altra. Poliziano (Nulrzcia 106-107) designa come «de-
sultoria Venus» l`amore libero degli uomini primitivi, prima
dell`istituzione del vincolo matrimoniale.
42-46 21

torto nelle sacre Scritture mosaiche e cristiane viene


designato col nome ora di «ogni carne», ora di «ogni
creatura», giacché modella, foggia e trasforma sé stes-
so nell'aspetto di ogni carne, nel carattere di ogni
creatura. Per questo il persiano Evante, là dove espo- 4
ne la teologia caldea, scrive che l'uomo non possiede
alcun aspetto proprio e originario, bensì numerosi
aspetti estranei e avventizi. Da qui il noto detto cal- 44
deo, secondo cui l”uomo è un essere di natura varia,
multiforme e cangiante. Ma perché dire tutto questo? 45
Perché comprendiamo come (essendo nati in questa 46
condizione, quella cioè di poter essere ciò che voglia-
mo) nostro principalissimo dovere sia fare in modo
che riguardo a noi non si dica che, pur essendo collo-
cati in grado onorevole, non ci siamo accorti di essere
diventati simili agli animali bruti e agli stolti giumen-
ti, ma piuttosto si ripetano le celebri parole di Asaf
profeta: «Voi siete dei, e tutti quanti figli dell'Altissi-
mo››; affinché noi, abusando della clementissima libe-
ralità del Padre, non trasformiamo da benefica in
perniciosa quella libertà di scelta che Egli ci ha con-

46. cum z'nrz`pic›nlz`/aus: cfr. Ps., 48, 21; <<IIomo, cum in honore
esset, non intellexit. Comparatus est iumentis insipientibus, et si-
milis factus est illis››. Citato anche nell'Hepraplus, IV 6, p. 284, e
nel Co/nƒnento supra una canzona, III 1o, p. 574: «né può essere se
non debile e inferma l`anima che sempre sopra il corpo prostrata
mai in sé non si diriza e in sé stessa rivolgendosi e' sua tesauri mai
riconosce, ma, come dice Asaf, essendo in dignità e onore posta,
non si conosce e simile diventa a' bruti insipienti›› (dove Pico attri-
buisce ad Asaf il salmo 48: cfr. la nota seguente). - .red 0mnv_v:
cfr. Pr., 81, 6: «Ego dixi: Dii estis, et filii Excelsi omncs»; Iob., 1o,
34. Il Salmo 81 reca l'intitolazione «Psalmus Asaph››; Asaf, cantore
e poeta sacro, era il direttore dei musici del tempio (cfr. 1Cr0n., 6.
39; 16, 5 e 7; 25, 1, 2 e 6; 2Cr0n., 5, 12); a lui la tradizione attribui-
sce dodici salmi. Cfr. anche la nota precedente.
22 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLIUOMO

47 salutari noxiam faciamus nobis. Invadat animum sa-


cra quaedam et Iunonia ambitio, ut mediocribus non
contenti anhelemus ad summa, adque illa (quando
possumus, si volumus) consequenda totis viribus eni-
48 tamur. Dedignemur terrestria, caelestia contemna-
mus, et, quicquid mundi est denique posthabentes,
ultramundanam curiam eminentissimae divinitati
49 proximam advolemus. Ibi, ut sacra tradunt mysteria,
Seraphin, Cherubin et Throni primas possident; ho-
rum nos, iam cedere nescii et secundarum impatien-
§O tes, et dignitatem et gloriam emulemur. Erimus illis,
cum voluerimus, nihilo inferiores.
51'$l Sed qua ratione, aut quid tandem agentes? Videa-
S3 mus quid illi agant, quam vivant vitam. Eam si et nos
vixerimus (possumus enim), illorum sortem iam
54 equaverimus. Ardet Saraph charitatis igne; fulget
Cherub intelligentiae splendore; stat Thronus iudicii

47. Invadat ambítío: cfr. la lettera di Pico al nipote Giovan


Francesco del 15 maggio 1492: «invadat te sancta quaedam ambi-
tio›› (Comznentatíoner, f. RR iiii r = Opere complete, epistole di Pi-
co, I). L”ambizione è qui detta «giunonica» perché Giunone - se-
condo le più comuni interpretazioni allegoriche dei miti greci - era
considerata regina e dea dei regni e delle ricchezze (cfr. ad esempio
B()(;(lAC(;I0, Genealogia, IX 1, pp. 876, 878-8o e XIII 1, p. 1280;
Esporzzzbní sopra la Cofnedia, p. 12). Sintagma analogo («ordo Pal-
ladicus››) al S 66; Pico aveva d'altronde progettato di comporre
una «poetica theologia›› (cfr. qui § 224 e nota Homerus probabi-
/nus). Per la lezione Iunonia (attestata dal solo ms. F) cfr. qui la No-
la al testo, pp. 167-68.
48. ultramundanam curiam: è l'Empireo, sede di Dio e degli an-
geli (cfr. ad esempio DANTE, Cono., II 3, 8-11).
49. Ibi pomdent: cfr. PSEUDO-D1oN1(;1 A1<1;o1>A(;1TA, De mel.
/Jícr., VI 2-VII 1 (PG III, 199-201 e 203-205). I nove ordini angeli-
ci sono distinti dallo Pseudo-Dionigi in tre gerarchie: Serafini, che-
rubini e troni; potestati, dominazioni e virtù; angeli, arcangeli e
principati (cfr. anche DANTE, Par., XXVIII 98-1 31; PICO, Conclu-
ríones, p. 56 = Conclusíones secundum doclrinam sapientum He-
46-S4 23
cesso. Pervada il nostro animo una sorta di sacra e
giunonica ambizione, sì che noi, insoddisfatti delle
cose ordinarie, aspiriamo alle più alte, e ci impegnia-
mo con tutte le forze (giacché possiamo, se vogliamo)
per conseguirle. Disdegniamo i beni della terra, di-
sprezziamo quelli del cielo, e, volgendo insomma le
spalle a tutto ciò che appartiene al mondo, voliamo
rapidi verso la curia ultraterrena, prossima all'eccelsa
divinità. Qui, secondo quanto testimoniano i sacri
misteri, i Serafini, i Cherubini e i Troni occupano i
primi posti; e noi, ormai incapaci di cedere e insoddi-
sfatti dei secondi seggi, emuliamo la loro dignità e la
loro gloria. Se lo vorremo, non saremo in niente infe-
riori a loro.
Ma in qual modo, e insomma come operando?
Consideriamo che cosa essi facciano, quale vita viva-
no. Se anche noi la vivremo (possiamo farlo, infatti),
già avremo uguagliato la loro condizione. Arde il Se-
rafino del fuoco dell'amore; rifulge il Cherubino del-
lo splendore dell'intelletto; sta il Trono nella saldezza

braeorurn Cabalirtarum, 2). La prima gerarchia (troni, cherubini e


serafini) è quella più immediatamente vicina a Dio.
54. Arde/ firmímze: più che sullo Ps|:UD<›-D1oN|(;| A1<uo1›/\c;1-
TA, Dc coel. bícr., VII 1 (PG III, zojb), dove i Serafini sono inter-
pretati come incantare: o calefacicntes, e i Cherubini come copia/n
cognzhonzk' 0 rapz'cntíae dzflurioncm (mentre il nome dei Troni «in-
dica il loro perfetto distacco da ogni soggezione terrestre e la loro
tendenza sovramondana verso ciò che è elevato››), Pico si fonda
qui su GREGORIO MAGNO, Hofnzl. in Evang., II 34, 10 (PL LXXVI,
1252), che attribuisce ai Troni il “giudizio divino": «Throni illa ag-
mina sunt vocata, quibus ad exercendum iudicium semper Deus
omnipotens praesidet. Quia enim thronos Latino eloquio sedes di-
cimus, throni Dei dicti sunt hi qui tanta divinitatis gratia replentur,
ut in eis Dominus sedeat, et per eos sua iudicia decernat» (e oltre:
«Cherubim quoque plenitudo scientiae dicitur. Et sublimiora illa
agmina idcirco cherubim vocata sunt, quia tanto perfectiori scien-
24 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL,UOMO

firmitate. Igitur si actuosae addicti vitae inferiorum


curam recto examine susceperimus, Thronorum stata
soliditate firmabimur. Si ab actionibus feriati in opifi-
cio opificem, in opifice opificium meditantes, in con-
templandi ocio negociabimur, luce Cherubica undi-
que corruscabimus. Si charitate ipsum opificem so-
lum ardebimus, illius igne, qui edax est, in Saraphi-
cam effigiem repente flammabimur. Super Throno,
idest iusto iudice, sedet Deus iudex seculorum. Super
Cherub, idest contemplatore, volat atque eum quasi
incubando fovet. Spiritus enim Domini fertur super
aquas, has - inquam - quae super caelos sunt, quae
apud Iob Dominum laudant antelucanis hymnis. Qui

tia plena sunt, quanto claritatem Dei vicinius contemplantur; [...]


Seraphim etiam vocantur illa spirituum sanctorum agmina quae ex
singulari propinquitate conditoris sui incomparabíli ardent amore.
Seraphim namque ardcntes vel incendentes vocantur››; Gregorio
per questo dipende a sua volta dallo Pseudo-Dionigi, espressamen-
te citato a II 34, 1 2). Cfr. anche PICO, Commento ai Salmi, pp. 164-
66; e inoltre DANTE, Par., IX 61-62: «Su sono specchi, voi dicete
Troni, / onde refulge a noi Dio giudicante», LANDINO, Cemento
sopra la Comedia, ff. D i r, I iv - I ii r.
55. actuosae vitae: il sintagma acluom vita proviene da SENE-
(IA, De lranq. animi, IV 8, ed è ripreso da Pico anche nella Epirlola
a Lorenzo ile' Medici del 15 luglio 1486 (p. 30) e nell'epistola ad
Andrea Corneo del 15 ottobre 1486 (PICO, Commentaliones, f. TT
vi r = Opere complete, epistole di Pico, XXXVI).
56. Si medilanlesz cfr. Commento ai Salmi, p. 170: «in opificio
prius opificem intuentes››; e p. 220: «opificem in suo opere, ubi est
multiplex et varius, potius quaerit, quam in se ipso, ubi est unus et
simplex». Subito dopo, si noti il prezioso ossimoro con figura eti-
mologicaz «in [...] ocio negocia/9i'mur››.
57. Si c/Jarilate ardebimus: ardere col semplice accusativo (`ar-
dere d'amore per') È poetico e raro (cfr. BAUSI, Nec rlaetor, p. 1 19). -
Igitur flammabimur: peri §§ 55-57, cfr. PICO, Expat. in Pralmos,
XVII, p. 166: «Troni, qui tertii sedent in supercoelestibus subselliis,
sua nos firmitate corroborant ne quam per imbecillitatem ruamus
vel deturbemur ex sede nostrae dignitatis. Cherubin, medii in eo or-
54-61 25

del giudizio. Se dunque, votati alla vita attiva, assu-


meremo con rettitudine la cura delle cose inferiori,
saremo resi saldi dalla stabile solidità dei Troni. Se, li-
beri dall'agire, considerando nella creazione il creato-
re, nel creatore la creazione, opereremo nell'ozio
contemplativo, brilleremo da ogni parte di luce che-
rubica. Se arderemo d'amore per il solo creatore, del
suo fuoco, che tutto divora, sùbito fiammeggeremo, a
immagine dei Serafini. Sul Trono, ossia sul giusto
giudice, siede Dio, giudice dei secoli. Sul Cherubino,
ossia sul contemplatore, Egli vola, e quasi covandolo
lo scalda. Lo Spirito del Signore, infatti, trascorre sul-
le acque, le acque - dico - che si trovano al di sopra
dei cieli e che, nel libro di Giobbe, lodano Dio con
inni antelucani. Chi è Serafino, ossia amante, è in

dine (his enim scientiarum plenitudinem ascribimus) dant ne veri


ignorantia decipiamur. Dat primus et supremus Seraphinorum or-
do, qui amatorio igne voluntatem purgat penitus et emundat, ne
malitia et motu propriae electionis peccemus». - Super /(met: cfr.
Pr., 17, 1 1: «Et ascendit super cherubim, et volavit››.
60. Spiritus' aquas: cfr. Gen. 1, 2: «et Spiritus Dei ferebatur su-
per aquas››. Nell'Heptaplus, III 3, p. 254, Pico afferma che la prima
gerarchia angelica «merito per aquas figurata est, quae super caelos,
idest super omnem circa mundana sive caelestia sive terrena actio-
nem, sunt constitutae». Cfr. anche la nota seguente. -/mx /Jymnis:
i commentatori rinviano a Iob, 38, 7: «Cum me laudarent simul astra
matutina, et iubilarent omnes filii Dei?»; ma qui Pico cita per errore
Giobbe in luogo di Davide: cfr. infatti Pr., 148, 4: «et aquae omnes
quae super caelos sunt, laudent nomen Domini›› (e PICO, Commen-
to .ropra una canzona, II 19, p. 510, dove queste acque sono identifi-
cate con gli angeli: «né altro è da intendere per l`acque che sono so-
pra i cieli, delle quali dice David che esse laudano continuamente
Iddio, se non essa mente angelica››). Per le preghiere antelucane cfr.
PICO, Concluriones, p. 60 = Conclurioner secundum aloctrínam Xa-
pientum Hebraeorum Cabalislarum, 37: «Per secretum orationis an-
telucanae, nihil aliud intelligere, quam proprietatem pietatis».
61. immo sunt: cfr. Iob. 10, 30 («Ego et Pater unum sumus››);
17, 11 («ut sint unum, sicut et nos››) e 21 («ut omnes unum sint, si-
26 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLIUOMO

Saraph, idest amator est, in Deo est, et Deus in eo,


immo et Deus et ipse unum sunt. Magna Thronorum
potestas, quam iudicando, summa Saraphinorum su-
blimitas, quam amando assequimur.
Sed quo nam pacto vel iudicare quisquam vel ama-
re potest incognita? Amavit Moses Deum quem vidit,
et administravit iudex in populo quae vidit prius con-
templator in monte. Ergo medius Cherub sua luce et
Saraphico igni nos praeparat, et ad Thronorum iudi-
cium pariter illuminat. Hic est nodus primarum men-
tium, ordo Palladicus philosophiae contemplativae
preses; hic nobis et emulandus primo et ambiendus,
atque adeo comprehendendus est, unde et ad amoris
rapiamur fastigia, et ad munera actionum bene in-
structi paratique descendamus. At vero operae pre-
cium, si ad exemplar vitae Cherubicae vita nostra for-
manda est, quae illa et qualis sit, quae actiones, quae
illorum opera, prae oculis et in numerato habere.
Quod cum nobis per nos, qui caro sumus et quae hu-

cut tu Pater in me, et ego in te, ut et ipsi in nobis unum sint››) e 22


(«ut sint unum, sicut et nos unum sumus››).
63. Sed inmgnila: cfr. AGOSTINO, De trin., X 1, 3: «illud enim
fieri potest, ut amet quisque scire incognita, ut autem amet inco-
gnita non potest››; FICINO, Comm. in Coni/., VI 7 («cum incognita
nemo desideret››) e VI 12 («optat autem nullus incognita››).
64. /lmauit monlez cfr. Ex., 24, 15-18. Da notare il chiasmo
che si instaura col § precedente: iuzlicare - amare / amavi! - admi-
nislravil iudex.
66. nodux mentium: Pico definisce l'ordine dei Cherubini «no-
dus primarum mentium» perché i Cherubini svolgono appunto una
funzione mediatrice fra l`ordine inferiore dei Troni e quello supe-
riore dei Serafini. Le primae menter sono ovviamente gli angeli. - or-
clo Palladicus: è ancora l'ordine dei Cherubini; il sintagma vale `ordi-
ne sapienziale' (essendo Pallade, o Minerva, dea della sapienza: cfr.
qui anche il § 146 e la nota Quin exxi/Jilare, nonché pugni; Palladi-
cir nella redazione palatina, § 132, detto delle dispute filosofiche),
61-es 27
Dio, e Dio è in lui, anzi Dio e lui sono una sola cosa.
Grande è la potenza dei Troni, che noi possiamo rag-
giungere col giudicare; somma l'altezza dei Serafini,
che noi possiamo raggiungere con l'amare.
Ma come è possibile giudicare o amare ciò che non
si conosce? Mosè amò il Dio che vide, e, in veste di
giudice, mise in atto nel suo popolo ciò che prima,
contemplando, aveva visto sul monte. Perciò il Cheru-
bino, che sta nel mezzo, con la sua luce da una parte ci
predispone al fuoco serafico, dall'altra, nello stesso
tempo, ci illumina verso il giudizio dei Troni. Questo è
il nodo delle intelligenze prime, l'ordine palladico che
presiede alla filosofia contemplativa; questo noi dob-
biamo innanzitutto imitare, ricercare e per di più com-
prendere, come il luogo da cui e possiamo essere rapi-
ti ai fastigi dell'amore, e possiamo discendere, ben di-
sposti e preparati, verso gli oneri della vita attiva. Ma
in verità è opportuno, se la nostra vita deve confor-
marsi al modello della vita Cherubica, avere davanti
agli occhi e conoscere con chiarezza quale e di che na-
tura questa vita sia, quali le loro azioni e le loro opere.
E poiché a noi, che siamo carne e abbiamo il sapore

ed è analogo a Iunonia ambilio del § 47. Secondo quanto Pico scrive


nelle C(›ncluxione.s' Ca/øalixlicae, 1o (p. 128, qui citate al § 35, nota
Nam ]'I'\t¦t:b), la Pallade degli Inni or/ici corrisponde al Melatrnn
dei cabalisti, alla «materna mens›› di Zoroastro, al «Dei filius» di
Mercurio, alla «sapientia›› di Pitagora e alla «sphaera intelligibilis»
di Parmenide. - Nel Commenlo ai Salmi, p. 164, si afferma che l`or-
dine cherubico «maxime contemplantibus praeest».
67. prae babere: cfr. BARBARO, Epixtolae, I, p. 15 (pref. del Te-
mixtio a F. Tron): «habenda omnia prae oculis, prae manibus, in
numerato››. Cfr. anche BAUSI, Nec rlae/or, p. 126, e qui il § 145.
68. qui .rapimurz cfr. Rom., 8, 5: «qui enim secundum carnem
sunt, quae carnis sunt sapiunt››; P/:/ilipp., 3, 19: «qui terrena sa-
piunt››.
28 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL'UOMO

mi sunt sapimus, consequi non liceat, adeamus anti-


quos patres, qui de his rebus utpote sibi domesticis et
cognatis locupletissimam nobis et certam fidem face-
re possunt. Consulamus Paulum apostolum, vas elec-
tionis, quid ipse, cum ad tertíum sublimatus est cae-
lum, agentes Cherubinorum exercitus viderit. Re-
spondebit utique, Dyonisio interprete, purgari illos,
tum illuminari, postremo perfici. Ergo et nos, Cheru-
bicam in terris vitam emulantes, per moralem scien-
tiam affectuum impetus cohercentes, per dialecticam
rationis caliginem discutientes, quasi ignorantiae et
vitiorum eluentes sordes animam purgemus, ne aut
affectus temere debacchentur, aut ratio imprudens
quandoque deliret. Tum bene compositam ac expia-

69. uar electionir: *strumento eletto'. Così Dio, parlando ad


Anania, definisce san Paolo (/let., 9, 15). ~ quid uiderit: cfr.
2Cor., 12, 2-4: «Scio hominem in Christo ante annos quatuorde-
cim, sive in corpore nescio, sive extra corpus nescio, Deus scit,
raptum huiusmodi usque ad tertíum caelum. [...] quoniam raptus
est in paradisum, et audivit arcana verba, quae non licet homini lo-
qui». Pico aveva progettato di scrivere un”operetta sul rapimento
di Paolo al terzo cielo (cfr. Commento sopra una canzona, II 25, pp.
529-530: «Paulo apostolo non prima al terzo cielo elevato fu rapto,
che dalla visione delle cose divine li occhi suoi alle cose sensibile
fur fatti ciechi, del rapto del quale qualche volta forse parleremo»);
forse abbandonò l”idea perché un analogo trattatello era stato steso
nel 1476 dal Ficino, che lo aveva anche volgarizzato (De raptu Pau-
li ad tertium caelum, in Prosatori lalini, pp. 932-69, con edizione
del testo latino e del volgarizzamento).
7o. Respondebit perƒici: cfr. PSEUDO-DIONIGI AREOPAGITA,
De coel. hier., III 2 (PG III, 165b-c): «dal momento che l'ordine
della gerarchia consiste nel fatto che gli uni siano purificati e gli al-
tri purifichino, che gli uni siano illuminati e gli altri illuminino, che
questi siano portati alla perfezione e quest'altri rendano perfetti,
secondo tale modo a ciascuno converrà l'imitazione divina›› (e VII
3 = PG III, 2o9a); PICO, nel Commento aiSalmi, p. 164, dice che
l'ordine cherubico «nos purgat ab erroribus, illuminat veri cogni-
tione, et sacro iam cognitae divinitatis amore perficit››. Dionigi
68-72 29

delle cose della terra, non è concesso arrivare a tanto


con le nostre forze, rivolgiamoci agli antichi padri, che
di queste cose, come a loro ben note e familiari, posso-
no darci autorevolissima e certa testimonianza. Chie-
diamo all'apostolo Paolo, strumento eletto, che cosa, 6
quando fu innalzato al terzo cielo, egli vide che faces-
sero le schiere dei Cherubini. Ci risponderà senz”altro, 7
per il tramite di Dionigi, che quelli prima si purificava-
no, poi si illuminavano, e infine diventavano perfetti.
Quindi noi, imitando in terra la vita cherubica, repri- 7
mendo attraverso la filosofia morale gli stimoli delle
passioni, disperdendo la nebbia della ragione attraver-
so la dialettica, purghiamo l'anima lavando via, per co-
sì dire, la sporcizia dell'ignoranza e dei vizi, affinché
né le passioni imperversino furiosamente, né di quan-
do in quando la ragione sconsideratamente vaneggi.
Poi colmiamo della luce della filosofia naturale l'ani- 7

Areopagita fu convertito da san Paolo ad Atene (cfr. /let., 17, 34);


e alla visione paolina egli si richiama esplicitamente nella sua trat-
tazione delle gerarchie angeliche (cfr. De coel. /aier., VI 2 = PG III,
2o3a; e anche DANTE, Par., XXVIII 136-39). PICO, Heptaplus,
prooemium, p. 176, lo definisce «discipulus Pauli» (e così anche il
PI(ìINO nella Tbeol. Plat., XIII 2); analogamente nel Commento ai
Salmi, pp. 170-72.
71. Ergo delirelz il periodo presenta una doppia strutturazio-
ne chiastica: «per moralem scientiam aflectuum impetus cohercen-
tes›› _ «per dialecticam rationis caliginem discutientes›› / «quasi
ignorantiae» - «et vitiorum eluentes sordes›› / «ne aut af/eclu.\' te-
mere debacchentur» - «aut ratio imprudens quandoque deliret››.
Per la funzione `catartica' della dialettica cfr. PLATONE, Sop/2., 230
(in part. 230d: «la confutazione è la più grande e la più potente
delle purificazi0ni››, giacché consente di eliminare quelle `opinioni`
che sono di ostacolo all'apprendimento).
71-72. Ergo perficiamus: questi due paragrafi sono ricchissimi
di artifici retorici; degni di nota gli omeoteleuti (emulantes, cober-
center, a'ircutienter, cluenter; peiƒundamur, perfida/nur), le allitte-
razioni (zlialectíca/n - dircutienter; debate/øentur - øleliret; perfunda-
3O DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL'UOMO

tam animam naturalis philosophiae lumine perfunda-


mus, ut postremo divinarum rerum eam cognitione
perficiamus.
Et ne nobis nostri sufficiant, consulamus Iacob pa-
triarcham, cuius imago in sede gloriae sculpta corru-
scat. Admonebit nos pater sapientissimus in inferno
dormiens, mundo in superno vigilans; sed admonebit
per figuram (ita eis omnia contingebant) esse scalas
ab imo solo ad caeli summa protensas, multorum gra-
duum serie distinctas, fastigio Dominum insidere,
contemplatores angelos per eas vicibus alternantes
ascendere et descendere. Quod si hoc idem nobis an-
gelicam affectantibus vitam factitandum est, queso,
quis Domini scalas vel sordidato pede, vel male mun-
dis manibus attinget? Impuro, ut habent mysteria,

mus - postremo - perƒiciamur), la paronomasia perfundamur / perfi-


ciamus, e il chiasmo (giacché bene coinporitam e expiatam si riferi-
scono rispettivamente all'effetto della dialettica sulla ratio e della
filosofia morale sugli affectur). Il cammino che dalla filosofia mora-
le conduce alla teologia attraverso la dialettica e la filosofia natura-
le sarà ribadito in termini analoghi anche più avanti (§§ 80-82, 87-
97); e cfr. anche Commento ai Salmi, XVII, p. 164 (dove però le
tappe sono tre, costituite dalla moralis p/Jilorop/Jia, dalla naturalis
p/zilosop/Jia e dalla t/øeologica rcientia, e tutte preparatorie a
quell'intima unione col Cristo che solo la carità e la religione pos-
sono consentire: cfr. qui l'Inlroduzione, p. XLVI).
74. /la'monebit vigilans; Giacobbe, quando ebbe la visione del-
la scala celeste (cfr. la nota seguente) dormiva sulla terra («in infe-
ro››, rcil. «mundo››), ossia quanto al corpo e alle cose terrene, ma era
ben vigile quanto all'anima e alle cose ultraterrene, ossia «mundo in
superno››. L”aggettivo supernux potrebbe nascondere un ricordo
dantesco (cfr. ancora la nota seguente). - erre dercendere: per que-
sta visione di Giacobbe cfr. Gen., 28, 12-13: «Viditque in somnis
scalam stantem super terram, et cacumen illius tangens caelum: an-
gelos quoque Dei ascendentes et descendentes per eam, et Domi-
num innixum scalae». All'interpretazione allegorica di questo so-
gno FILONE ALESSANDRINO dedica gran parte del I libro del suo De
romniir (I 2-3 e 1 33-88), che è tra le fonti dei §§ seguenti; come sim-
72-76 3I

ma adeguatamente ricomposta e purificata, sì da con-


durla finalmente a perfezione con la conoscenza delle
cose divine. '
E, per non accontentarci solo dei nostri, interro- 7
ghiamo il patriarca Giacobbe, la cui immagine ri-
splende scolpita nella sede della gloria. Quel sapien- 74
tissimo padre, che nel mondo inferiore dormiva, ma
vegliava in quello superiore, ci istruirà; ma ci istruirà
parlando per figura (in tal modo tutto appariva a
quegli uomini), dicendo che vi sono scale protese
dall'infimo suolo alla sommità del cielo, suddivise in
una serie di numerosi gradini, e che Dio siede sulla
loro cima, mentre gli angeli contemplanti, alternan-
dosi vicendevolmente, salgono e scendono lungo di
esse. E se questo è proprio ciò che noi, se aspiriamo 75
alla vita angelica, dobbiamo sempre sforzarci di fare,
chi mai, di grazia, vorrà accostarsi alle scale del Si-
gnore o con piede sozzo, o con mano immonda? Al- 7
l'impuro - come impongono i misteri - non è lecito

bolo della graduale ascesi verso la contemplazione di Dio, l'immagi-


ne della scala di Giacobbe ricorre con frequenza nella letteratura
cristiana (cfr. ad esempio BONAVENTURA, Itinerarium mentis in
Deum, I 9), e compare anche in due passi del Paradiso dantesco
(XXI 29-33 e- nelle parole di san Benedetto - XXII 7o-75: «Infin là
sù la vide il patriarca | Iacobbe porger la superna parte, | quando li
apparve d'angeli si carca. I Ma, per salirla, mo nessun diparte I da
terra i piedi, e la regola mia | rimasa è per danno de le carte››). Cfr.
inoltre LANDINO, Commento sopra la Comedia, f. G iiii r: «chome
per scala si sale da basso in alto di grado in grado, chosì per la virtù
contemplativa si monta di cielo in cielo insino a Dio›› (e f. G vii r).
75. aflfeclantibux factitandum: bisticcio imperfetto.
76. Impuro nepbar: cfr. PLATONE, P/aaedo, 67b: «a chi è impu-
ro non è lecito accostarsi a ciò che è puro››; cit. anche da PLUTAR-
CO, De Iride et Osiride, 352d; Conxol. ad/lpoll., 108d. E dal LANDI-
NO, Dirputationes Camala'ulen.re.r, III, p. 119: «cum Socrates ipse
purum impuro attingere fas esse neget».
32 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLIUOMO

purum attingere nephas. Sed qui hi pedes? Quae ma-


nus? Profecto pes animae illa est portio despicatissi-
ma, qua ipsa materiae tanquam terrae solo innititur:
altrix - inquam - potestas et cibaria, fomes libidinis
et voluptariae mollitudinis magistra. Manus animae
cur irascentiam non dixerimus, quae appetentiae pro-
pugnatrix pro ea decertat, et sub pulvere ac sole pre-
datrix rapit quae illa sub umbra dormitans helluetur?
Has manus, hos pedes, idest totam sensualem partem
in qua sedet corporis illecebra quae animam obtorto

78. per innititur: per il piede dell`anima cfr. FILONE ALESSAN-


DRINO, De romniir, I 146: «il suo piede [.rcil. dell'anima] è la perce-
zione sensibile, vale a dire la sua componente terrena››; AGOSTINO,
Enarr. in Pralmor, IX 15 (PL XXXVI, 124): «Pes animae recte in-
telligitur amor, qui cum pravus est, vocatur cupiditas aut libido», e
XCIV 2 (PL XXXVII, 1217): «Pedes enim nostri in hoc itinere, af-
fectus nostri sunt››; DANTE, Purg., XVIII 43-44: «che s”amore è di
fuori a noi offerto, | e l'anima non va con altro piede». Il FICINO
(T/øeol. Plat., XIII 2) definisce animae per la parte inferiore
dell'anima (da lui detta idolum), comprendente la fantasia, la sen-
sazione e la facoltà nutritiva (KRISTELLER, Il pensiero, pp. 401-402).
Per derpieatirrimur (`vilissimo”, 'spregevolissimo') cfr. anche Hep-
taplur, pp. 206 (I 1: «materia despicatissima››), 258 (III 4: «despi-
catissimae notae››), 364 (VII 5: «despicatissimum genus››).
79. quae rapit: per l'appetito umano come icacciatore' cfr.
ARISTOTELE, Et/1. Nicom., VI 2, 1139a; DANTE, Cona., IV 26, 5:
«Questo appetito mai altro non fa che cacciare e fuggire». - ru/2
pulvere umbra: per la contrapposizione tra sul) pulvere ac .role e
sub umbra cfr. CICERONE, De leg., III 14: «doctrinam ex umbracu-
lis [...] in solem atque in pulverem [...] produxit». L'ombra è asso-
ciata alla lussuria, secondo l'interpretazione di Iob, 40, 16 fornita
da Is1Do11o D1 S1v1c;1.1A, Sentem., II 39 (PL LXXXIII, 641): «prin-
cipaliter his duobus vitiis diabolus humano generi dominatur, id
est superbia mentis et luxuria carnis. Unde et Dominus in ]ob lo-
quitur de diabolo dicens: Sub umbra clormit in secreto calami in lo-
cir /aumenti/Ju; [Iob, 40, 16]. Per calamum enim inanis superbia,
per loca vero humecta carnis demonstratur luxuria›› (Progetto Pico
[Papio]). Qui i piedi e le mani sono simboli delle facoltà inferiori e
irrazionali dell'anima (cfr. al § seguente: «has manus, hos pedes,
76-8° 33
toccare ciò che è puro. Ma quali sono questi piedi,
quali queste mani? Senza dubbio il piede dell'anima è
quella spregevolissima parte con cui essa si appoggia
alla materia come al suolo terrestre, la sua facoltà -
dico - alimentatrice e nutritiva, fomite del desiderio
carnale e maestra di mollezza sensuale. E mani
dell'anima perché non definire la sua facoltà irascibi-
le, che, combattendo dalla parte degli appetiti, lotta
per quelli, e come una predatrice arraffa sotto la pol-
vere e sotto il sole ciò che essi divorano poi sonnec-
chiando nell'ombra? Queste mani, questi piedi, cioè
tutta la parte sensuale dell'anima, nella quale risiedo-
no gli allettamenti del corpo, che la tengono (come

idest totam sensualem partem››), ossia, rispettivamente, della sua


parte concupiscibile e della sua parte irascibile, secondo la dottrina
esposta da PLATONE, Tim., 69c-71a (e Resp., 439b-441c, nonché
D1o(;I:NE LAF.Rz1o, Vi/ae, III 67), e ripresa fra gli altri da Ciccao-
NE, Ture., I 20 (e II 47; IV 10) e dallo stesso Pico nel Commento ai
Salmi, p. 68. Pico, nel simboleggiare la parte concupiscibile con i
piedi, e quella irascibile con le mani, si attiene a Platone, che collo-
ca l”una sotto il diaframma e l`altra nel petto (ma, nel considerare
la parte irascibile affine a quella concupiscibile, è più vicino alla
formulazione cíceroniana, giacché per Platone l'ira è, piuttosto, al-
leata della ragione). Più avanti (§ 123 e nota Turn cavenala inci-
piamus), in riferimento a due .rymbola pitagorici, all`ira saranno as-
sociate le unghie, e all'appetito concupiscibile l'urina.
80. Has collo: cfr. /lrelepiur, XII, p. 311: «res enim dulcis est
in hac corporali vita, qui capitur de possessionibus fructus. Quae
res animam obtorto, ut aiunt, detinet collo, ut in parte sui, qua
mortalis est, inhaereat››. Nello stesso /lrclepiur, XI, p. 310, si dice
che l'uomo è conformato in modo che «manibus et peclibus [...]
inferiori, id est terreno, mundo deserviat››. _ morali abluamur:
l`immagine del `lavacro' delle anime è anche in FILONE ALESSAN-
DRINO, De romniir, I 148: «ma negli intelletti che si stanno purifi-
cando, e che non hanno ancora del tutto lavato la loro vita insozza-
ta e imprigionata nel peso del corpo, camminano gli angeli, parole
divine, ripulendoli con pensieri di bellezza e di bontà».
§4 DISCORSO SULLA DIGNITA DELLIUOMO

(ut aiunt) detinet collo, ne a scalis tanquam prophani


pollutique reiciamur, morali philosophia quasi vivo
flumine abluamus.
At nec satis hoc erit, si per Iacob scalam discursan-
tibus angelis comites esse volumus, nisi et a gradu in
gradum rite promoveri, et a scalarum tramite deorbi-
tare nusquam, et reciprocos obire excursus bene apti
prius instructique fuerimus. Quod cum per artem
sermocinalem sive rationariam erimus consequuti,
iam Cherubico spiritu animati, per scalarum idest na-
turae gradus philosophantes, a centro ad centrum
omnia pervadentes, nunc unum quasi Osyrim in mul-
titudinem vi Titanica discerpentes descendemus,
nunc multitudinem quasi Osyridis membra in unum
vi Phebea colligentes ascendemus, donec, in sinu Pa-

81. øleor/aitare: nel senso figurato di “uscire fuori', `deviare',


deorbi/fare è solo in LUCIFERO, /lt/aan., I 40 («deorbitasse a via rec-
ta››) e Non pare., II («a via deorbitasse veritatis››: Lucifero è un ve-
scovo del IV sec.). Cfr. anche Heptaplur, pp. 306 (V 7: «per legis
praevaricationem de orbita defecerimus››) e 332 (VII proem.:
«cum a fine a natura statuto [...] homo quasi semper exorbitet»);
Commento ai Salmi, p. 152: «qui etiam se ipsum obliqua et perver-
sa proprii arbitrii exorbitatione praecipitat in vitium»); e DI NAPO-
LI, Giovanni Pico, p. 419: «tale legge [divina] impegna l'uomo in
quella `orbita› che è naturalmente lo `universae caritatis ordo',
scritto “in tabulis naturae`: l`uomo, peccando, si pone fuori dell`or-
bita (de orbita defeeerimus), delínquendo contro l'ordine onto-eti-
co posto da Dio››.
82. artem rationariam: la ari' .rermocinalir rive rationaria è la
dialettica (cfr. sopra, § 71), che procede con un doppio metodo
d”indagine, divisivo e compositivo, muovendosi ora dall'uno ai
molti, ora dai molti all'uno; cfr. PICO, Commento sopra una canzo-
na, III 10, p. 567, con riferimento alla scala di Giacobbe: «modo da
pochi inteso e conosciuto, ed è quello che Platone nel Filebo [15e,
16c-17a] chiama dedurre la unità in multitudine e la multitudine
nella sua unità redurre, il che chi bene sa fare, meritamente, come
Platone scrive, tamquam Deus eu/n sequi ileliemur, uomo certamen-
80-82 35

suol dirsi) a suo dispetto, dobbiamo lavarli con la fi-


losofia morale quasi nelllonda viva di un fiume, per
non essere cacciati dalle scale come profani e impuri.
Ma, se vogliamo unirci agli angeli che si muovono 81
lungo la scala di Giacobbe, neanche questo sarà suffi-
ciente, se prima non saremo stati ben preparati e
istruiti ad avanzare convenientemente di gradino in
gradino, e a non fuoriuscire dal tracciato delle scale, e
a percorrere quegli alterni cammini. E quando avre- 8
mo ottenuto questo grazie all'atte discorsiva ovvero
raziocinante, animati ormai dallo spirito cherubico,
filosofando lungo i gradini delle scale, ossia della na-
tura, tutto penetrando dal centro al centro, ora di-
scenderemo, lacerando con forza titanica l'uno nel
molteplice, quasi fosse Osiride, ora ci innalzeremo,
ticomponendo con forza febea il molteplice nelliuno,
come le membra di Osiride, finché, riposando alfine

te divino e angelo terrestre, atto, perla scala di Iacob, in compagnia


delli altri contemplativi angeli, pro arbitrio ad ascendere e descen-
dere›› (e anche Heptaplur, IV 4, p. 280). L'aggettivo ralionariu.\^ (at-
testato solo in Pico da I-IOVEN, p. 310) è gia nel Te/nistio del Barba-
ro, f. 10811 («rationariam [...] naturam››). - nunc unum colligen-
tes: secondo il mito, Osiride, re degli Egiziani, venne ucciso e
smembrato (in quattordici pezzi, o - secondo altre versioni - in
ventisei) dal fratello Seth, ma fu poi vendicato dalla moglie (nonché
sorella) Iside, che con l`aiuto del figlio Horos uccise Seth e ricom-
pose il corpo del marito (cfr. PLUTARCO, De I.ria'e et Oririrle, 355d-
358e; DIODORO SICULO, Bibliotheca Hirtorica, I 21 ). Per l'interpre-
tazione allegorica fornita qui da Pico, cfr. ancora PLUTAR( 10, De Isi-
de et ()1'iride, 375b: «Nel cielo, nelle stelle, la ragione delle cose e le
loto forme, ossia in sostanza tutto quello che emana dal dio, certo
permangono immutabili; e invece ciò che si è disperso in mezzo alla
realtà sensibile, e cioè nella terra, nel mare, negli essere vegetali e
animali, ebbene, questo muore e si corrompe e lo seppelliamo, an-
che se poi spesse volte di nuovo riluce e ricompare fra le creature»
(e EMPEDOCLIT., fr. 17 Diels-Kranz, vv. 1-2: «Duplice cosa dirò: è
36 D1scoRso SULLA DIGNITA DELL'UoMo

tris - qui super scalas est - tandem quiescentes, theo-


logica foelicitate consumabimur.
3 Percontemur et iustum Iob, qui fedus iniit cum
Deo vitae prius quam ipse edetetur in vitam, quid
summus Deus in decem illis centenis millibus qui as-
sistunt ei potissimum desideret: pacem utique re-
spondebit, iuxta id quod apud eum legitur: «Qui fa-
4 cit pacem in excelsis». Et quoniam supremi ordinis
monita medius ordo inferioribus interpretatur, inter-
pretetur nobis Iob theologi verba Empedocles philo-
Ss sophus. Hic duplicem naturam in nostris animis si-
tam, quarum altera sursum tollimur ad celestia, altera

che ora s'accresce fino ad essere uno solo da molti, ora all'incontro
sua natura scinde a esser molti da uno»; e W. 16-17). Pico parla di
vir Titanica e di vir Phebea alludendo, rispettivamente, a Seth (che
smembrò Osiride, e che i Greci identificarono col titano Tifone) e a
Horos (che, come si è detto, vendicò il padre Osiride, e che eta
identificato con Apollo): cfr. PLUTARCO, De Iride et Oriride, 371b
(«Tifone invece rappresenta quella parte dell'animo vitale soggetta
alle passioni, priva di ordine e di intelligenza, titanica, insomma››),
373c, 375f. Inoltre, l'unità era identificata dai pitagorici con Apol-
lo: cfr. ibid., 354f, 38 1f; ID., De E apud Delp/vor, 388f; PL()TINO, En-
nead., V 5, 6; F1c1No, T/øeol. P/ar., IV 1.
83. iustum Iob: per il «giusto›› Giobbe cfr. Iob, 1, 1: «erat vir ille
simplex, et rectus, ac timens Deum, et recedens a malo». - qui
vitam: i commentatori rinviano qui a Iob, 31, 18: «ab infantia mea
crevit mecum miseratio, et de utero matris meae egressa est me-
cum››; ma forse qui Pico ha confuso Giobbe con Geremia (cfr. in-
fatti Ier., 1, 5: «priusquam te formarem in utero, novi tc; et ante-
quam exires de vulva, sanctificavi te, et prophetam in gentibus de-
di te>›). - decem ei: cfr. Dan., 7, 10: «millia millium ministrabant
ei, et decies millies centena millia assistebant ei›› (così citato nel-
l'Heptaplur, III 6, p. 264: «et verum erit illud Danielis: “decies mi-
lia assistebant ei, et mille milia ministrabant ei”››). Il versetto di
Daniele è citato anche da Gregorio Magno in un luogo sopra ricor-
dato delle Homil. in Evang. (II 34, 12 = PL LXXVI, 1254), e dal
FICINO in Tbeol. Plat., I 5. - Qui excelrir: cfr. Iob, 25, 2: «qui fa-
cit concotdiam in sublimibus eius», così citato nelle Concluriones,
82-Ss 37
nel seno del Padre, che sta al sommo della scala, ci
annienteremo nella teologica felicità.
Interroghiamo anche il giusto Giobbe, che strinse
un patto col Dio della vita prima di esser generato al-
la vita, e chiediamogli che cosa l'eccelso Dio maggior-
mente desideri in quei milioni di angeli che lo assisto-
no: la pace, risponderà senz'altro, giusta quello che
nel suo libro si legge: «Colui che fa la pace nell'alto
dei cieli›>. E poiché l°ordine mezzano si fa interprete
presso le intelligenze inferiori dei decreti dell'ordine
supremo, il filosofo Empedocle interpreti per noi le
parole del teologo Giobbe. Egli, come attestano i
suoi versi, ci indica mediante la contesa e l'amicizia,

p. 58 (Conclusioner secundum doctrinam sapientum Hebraeorum


Cabalistarum, 24): «Cum dixit Iob “Qui fecit pacem in excelsis
suis”, aquam_intellexit australem et ignem septentrionalem, et
praefectos illorum››. Cfr. anche Lc., 19, 38, e qui il § 95.
84. quoniam tnterpre/azur: cfr. PsEUDo-D1oN1o1 A1<I¬.o1›Ao1rA,
De coel. /Jier., VII 3 (PG III, 209a): «I sacri autori chiaramente di-
mostrano che le disposizioni inferiori delle sostanze celesti vengono
istruite convenientemente, nelle scienze teurgiche, dalle superiori»;
PICO, Conclusioner, p. 94 (Conclurioner secundum propriam opinio-
nem in doctrinam Platonir, 3): «qui noverit modum illuminationis
superiorum super media››. Qui Pico, mentre si accinge a interpreta-
re le parole del `teologo` Giobbe attraverso le parole del 'filosofo`
Empedocle, accosta la sua operazione all'azione mediatrice che il
secondo ordine angelico svolge tra il primo e il terzo.
85. Hic rignificat: cfr EMPEDOCLE, fr. 17 Diels-Kranz, in part.
W. 6-8: «e questo scambio continuo delle cose non mai cessa, talo-
ra in Amicizia convergendo in uno tutte quante, talora all'incontro
discostandosi ciascuna separata nell`odio di Contesa» (da SIMPLI-
CIO, Plays., 157, 25 e 161, 14); e anche frr. 20,35 e 122; nonché PI-
CO, Commento sopra una canzona, II 8, p. 496: «più perfettamente
parlò Empedocle, ponendo non la discordia per sé, ma insieme
con la concordia essere principio delle cose». Cfr. inoltre ARISTO-
TELE, Metapb., I 4, 985a-b; PLUTARCO, De Iride et Osir., 37oe
(«Empedocle chiama il principio benefico “amore” e “amicizia”,
[...] mentre al principio malefico dà il nome di “contesa annienta-
38 D1scoRso SULLA DIGNITA DELL`uo1v1o

deorsum trudimur ad inferna, per litem et amicitiam,


sive bellum et pacem, ut sua testantur carmina, nobis
significat. In quibus se lite et discordia actum, furenti
similem, profugum a diis in altum iactari conqueritur.
Multiplex profecto, patres, in nobis discordia; gra-
via et intestina domi habemus, et plus quam civilia
bella. Quae si noluerimus, si illam affectaverimus pa-
cem quae in sublime ita nos tollat ut inter excelsos
Domini statuamur, sola in nobis compescet prorsus
et sedabit philosophia. Moralis primum, si noster ho-
mo ab hostibus indutias tantum quesierit, multiplicis
bruti effrenes excursiones et leonis iurgia, iras animo-
sque contundet; tum si rectius consulentes nobis per-
petuae pacis securitatem desideraverimus, aderit illa
et vota nostra liberaliter implebit, quippe quae cesa
utraque bestia, quasi icta porca, inviolabile inter car-

trice" e “discordia sanguinosa”››); DIOGENE LAERZIO, Vitae, IX 8;


nonché PICO, Conclurioner, p. 88 (= Conclusione: paradoxae recun-
dum opinionem propriam, 71): «Empedocles per litem et amicitiam
in anima nichil aliud intelligit, quam potentiam sursum ductivam
et deorsum ductivam».
86. In conqueritur: cfr. EMPEDOCLE, fr. 115 Diels-Kranz (da
IPPOLITO, Ref, VII 29), in part. 13-14: «di essi [cioè degli uomini
in preda alla Contesa, destinati a mutare forma senza posa, trasci-
nati e travolti dagli elementi] anch'io ora son uno, dagli dei fuggia-
sco, errante, per essermi affidato alla Contesa folle››.
87. plus quam bella: cfr. LUCANO, I 1: «Bella per Emathios
plus quam civilia campos›>; e RAIIANO MAURO, De universo, XX 1
(PL CXI, 533): «Plusquam civile bellum est ubi non solum cives
certant, sed et cognati: quale actum est inter Caesarem et Pom-
peium, quando gener et socer invicem dimicaverunt» (Progetto Pi-
co [Papio]).
89. noster bomo: è l'uomo esteriore; cfr. zCor., 4, 16: «sed licet
is, qui foris est, noster homo corrumpatur, tamen is, qui intus est,
renovatur de die in diem››. - multiplicis contundet; anche in PLA-
TONE, Tim., 7oe, la parte concupiscibile dell'anima è paragonata a
una «bestia selvaggia». Come suggerisce BORI, Pluralitá, p. 77, è
Ss-89 39
vale a dire mediante la guerra e la pace, la duplice na-
tura insita nelle nostre anime, dall'una delle quali ve-
niamo spinti in alto verso le cose celesti, mentre
dall”altra veniamo ricacciati in basso verso le cose in-
feriori. E nei suoi carmi egli si lamenta, travolto dalla
contesa e dalla discordia, di essere trascinato in alto
mare, fuggiasco dagli dei, simile a un folle.
Certamente molteplice, o padri, è la discordia che
regna in noi; nei nostri confini infuriano terribili lotte
intestine e guerre più che civili. Se le rifiuteremo, se
ricercheremo quella pace che ci sollevi tanto in alto
da collocarci tra gli eccelsi del Signore, soltanto la fi-
losofia potrà del tutto reprimerle e placarle dentro di
noi. La filosofia morale, se il nostro uomo vorrà limi-
tarsi a chiedere una tregua ai suoi nemici, domerà in
primo luogo gli sfrenati assalti della belva multifor-
me, ele minacce, gli impeti, l'arroganza del leone; se
poi, con più retto consiglio, chiederemo per noi la si-
curezza di una pace perpetua, essa verrà e generosa-
mente appagherà i nostri desideri, come quella che,

probabile qui un'allusione a due delle fatiche di Ercole: l'uccisione


dell'idra di Lema (il multiplex brutum) e quella dei due leoni (il ne-
meo e il teumesio). Questi ultimi erano di norma interpretati come
allegoria dell'ira (cfr. SALUTATI, De laboribus Herculis, III 8, pp.
187-91); nell'idra si vedeva per lo più raffigurato il sofista (BOC-
CACCIO, Genealogie, XIII 1, p. 1282; SALUTATI, De laboribur Her-
culir, III 9, pp. 193-204), ma alcuni la consideravano allegoria della
concupiscenza (cfr. ibid., pp. 204-205), e così sembra interpretarla
Pico (che parla di «effrenes excursiones››). Quanto a Ercole, egli
veniva di solito allegoricamente identificato col «vir perfectus››, e
quindi col «philosophus» (ibid., pp. 196 e 203). - illa: riferito sem-
pre alla filosofia morale. - quasi .rancielz cfr. PICO, Carmina, XI
(/ld Deum depreeatio), v. 32: «iungant caesa foedeta porca›› (BORI,
Pluralitzì, p. 26). Si allude alla tradizione romana di sacrificare una
scrofa per sancire i trattati di pace; cfr. ad es. LIVIO, I 24 e VIRGI-
LIO, /len., VIII 641 (e la nota del CI(IO(;NANI, pp. 101-102).
40 D1scoRso SULLA DIGNITA DELL'UoMo

nem et spiritum foedus sanctissimae pacis sanciet. Se-


dabit dialectica rationis turbas, inter orationum pu-
gnantias et syllogismorum captiones anxie tumul-
tuantis. Sedabit naturalis philosophia opinionis lites
et dissidia, quae inquietam hinc inde animam vexant,
distrahunt et lacerant. Sed ita sedabit, ut meminisse
nos iubeat esse naturam, iuxta Heraclitum, ex bello
genitam, ob id ab Homero «contentionem›› vocita-
tam; idcirco in ea veram quietem et solidam pacem se
nobis prestare non posse, esse hoc dominae suae, id-
est sanctissimae theologiae, munus et privilegium. Ad
illam ipsa et viam monstrabit et comes ducet, quae
procul nos videns properantes «Venite - inclamabit -
ad me qui laboratis, venite et ego reficiam vos, venite
ad me et dabo vobis pacem quam mundus et natura
vobis dare non possunt».

90. pugnantiar: la voce pugnanlia, in senso proprio (`combatti-


mento'), è del latino cristiano; nel senso, come qui, di “divergenza',
fdiscordanza', ricorre anche nell'Epi.ttola al Barbaro, § 21 («tanta
est inter oratoris munus et philosophi pugnantia››), ed è già nel Te-
inirtio dello stesso Barbaro, f. 22r (cfr. BAUSI, Nec rbetor, p. 48).
91. opinionir dirsidia: secondo la definizione platonica e stoi-
ca, l'opinio (greco ôóE_,oI) è una forma di conoscenza empirica, lega-
ta alle apparenze e dunque incerta e priva di oggettiva validità, cui
si contrappone la scientia (greco èntotñun), ossia la conoscenza
certa di ciò che è. Cfr. ad esempio PLATONE, Resp., 477a-480a; CI-
(IEIIONE, Tusc., III 24 e IV 14-15; e PICO, Heptaplus, IV 4, pp. 278-
280: «dum a patria peregrinamur et in hac vitae praesentis nocte
et tenebris vivimus, ea parte plurimum utimur quae ad sensus de-
flectitur, unde et plura opinarnur quam scimur» (e prima aveva
detto che il sole simboleggia la dianoia, e la luna la doxa); Com-
mento ai Salmi, p. 220: «per multiiugas opiniones discursans in di-
sciplinis››.
92. ut vocztatam: cfr. ERACLITO, frr. 10, 53 («Conflitto [1tóA£-
uoç] di tutte le cose è padre››) e 80 Diels-Kranz; OMERO, Il., XVIII
107: «perisca la lite [šptçl fra i numi e fra gli uomini». L'accosta-
89-93 41
uccisa l'una e l°altra belva, stabilità tra la carne e lo
spirito - quasi immolando una scrofa - un patto in-
violabile di santissima pace. La dialettica calmerà i di-
sordini della ragione, che ansiosamente si travaglia
fra i contrasti dei discorsi e gli inganni dei sillogismi.
La filosofia naturale placherà i conflitti e i dissidi
dell'opinione, che tormentano, straziano e lacerano
l'anima inquieta, trascinandola di qua e di là. Ma li
placherà in modo tale da farci ricordare che la natura,
secondo Eraclito, è figlia della guerra, ed è per questo
da Omero chiamata «contesa››; e che pertanto in essa
non può offrirci una vera quiete e una duratura pace,
giacché questo è dono e prerogativa della sua signora,
la santissima teologia. La filosofia naturale ci mo-
strerà la via che a questa conduce, e ci accompagnerà;
e questa, da lontano vedendoci correre, esclamerà:
«Venite a me, voi che siete affaticati; venite, e io vi ri-
storerò; venite a me, e vi darò la pace che il mondo e
la natura non possono darvi».

mento di Eraclito e Omero a questo proposito e in PLUTARCO, De


Iside et Osiride, 370d: «Eraclito chiama senz`altro la guerra “ padre,
re e signore del tutto”; e aggiunge che quando Omero si augura
che “si spenga la guerra fra uomini e dei" egli bestemmia senza sa-
perlo contro l'origine di tutte le cose, che consiste appunto nella
guerra e nell'opposizione». Cfr. anche PICO, Commento sopra una
canzona, II 8, p. 495: «Per questo diceva Eraclito la guerra e la con-
tenzione essere padre e genetrice delle cose; e, appresso Omero,
chi maladice la contenzione è detto avere bestemmiato la natura»
(passo che presuppone un fraintendimento della fonte plutarchia-
na, analogo a quello che sembra emergere da questo luogo
dell'Oratz'0). _
93. Venite vor: cfr. Mt., 1 1, 28: «Venite ad me omnes qui la-
boratis et onerati estis, et ego reficiam vos››. - dabo porrunt: cfr.
Iob., 14, 27: «Pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis: non
quomodo mundus dat, ego do vobis».
42 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL,UOMO

4 Tam blande vocati, tam benigniter invitati, alatis


pedibus, quasi terrestres Mercurii, in beatissimae am-
plexus matris evolantes, optata pace perfruemur: pa-
ce sanctissima, individua copula, unianimi amicitia,
qua omnes animi in una mente, quae est super om-
nem mentem, non concordent adeo, sed ineffabili
95 quodammodo unum penitus evadant. Haec est illa
amicitia quam totius philosophiae finem esse Pytha-
gorici dicunt; haec illa pax quam facit Deus in excel-
sis suis, quam angeli in terram descendentes annun-
tiarunt hominibus bonae voluntatis, ut per eam ipsi
96 homines ascendentes in caelum angeli fierent. Hanc
pacem amicis, hanc nostro optemus seculo, optemus
unicuique domui quam ingredimur, optemus animae
nostrae, ut per eam ipsa Dei domus fiat; ut, post-
quam per moralem et dialecticam suas sordes excus-
serit, multiplici philosophia quasi aulico apparatu se
exornarit, portarum fastigia theologicis sertis corona-
tit, descendat Rex gloriae et cum Patre veniens man-

94. alatir Mercurii: le ali ai piedi, o, per meglio dire, i sandali


alati (detti talari), erano attributo tradizionale di Mercurio, e simbo-
leggiavano la sua velocità di messaggero degli dei: cfr. OMERO, Od.,
V 44-46; VIRGILIO, /Ien., IV 239; STAzIo, 'I'/nek., I 304; B(x:<:A(:<:Io,
Genealogie, II 7, p. 206. Qui l'allusione è alle «ali›› dell'anima, perle
quali cfr. Pr., 54, 7; PLATONE, P/Jaedr., 249c; PICO, De ente et uno,
X, p. 440; Commento sopra una canzona, III 1, p. 542; Commento ai
Salmi, p. 220 (e qui anche i §§ 109 e 113, con le relative note). -in
una mente: cioè nella mente divina (cfr. la nota seguente). - qua
ei/adant: cfr. PICO, Conclurioner, p. 37 (= Conclusioner re1:una'uin
Plotinum, 7): «Felicitas hominis ultima est, cum particularis intel-
lectus noster totali primoque intellectui plene coniungitur››.
95. Haec dicunt: cfr. GIAMBLICO, De vita Pytbagoriea, XXXIII
229-33 e 240. -/Jaec .ruirz cfr. § 83 e nota Qui excelsis; e anche
la nota seguente. - quam voluntatir: cfr. Lc., 2, 13-14: «Et subito
facta est cum angelo multitudo militiae caelestis laudantium Deum
et dicentium: Gloria in altissimis Deo, et in terra pax hominibus
94-96 43
Tanto dolcemente chiamati, tanto benevolmente 94
invitati, volando con piedi alati, quasi terrestri Mer-
curii, verso l'abbraccio della beatissima madre, go-
dremo della desiderata pace: pace santissima, vincolo
indissolubile, unanime amicizia, in virtù della quale
tutti gli animi non solo concordino in quell'unica
mente che è al di sopra di ogni mente, ma in un qual-
che ineffabile modo diventino intimamente una sola
cosa. Questa è quella amicizia che i Pitagorici affer- 95
mano essere il fine di tutta la filosofia; questa è quella
pace che Dio instaura nell'alto dei suoi cieli, e che gli
angeli, scendendo sulla terra, annunziarono agli uo-
mini di buona volontà, affinché per essa gli uomini
stessi, salendo al cielo, si facessero angeli. Questa pa- 96
ce dobbiamo augurare agli amici, dobbiamo augurare
al nostro tempo, dobbiamo augurare a ciascuna casa
nella quale entriamo, dobbiamo augurare alla nostra
anima, perché diventi, grazie ad essa, dimora del Si-
gnore; perché, dopo che avrà eliminato le proprie im-
purità per mezzo della filosofia morale e della dialet-
tica, e si sarà addobbata della multiforme filosofia co-
me di un principesco ornamento, e avrà incoronato i
frontoni delle porte con le teologiche ghirlande, su di
essa discenda il Re della gloria e, venendo insieme al

bonae voluntatis›› (parzialmente citato anche in PICO, Hepla/›lu.I',


VII 4, p. 358).
96. optemus ingredimur: cfr. M/. 10, 12-13: «Intrantes autem
in domum, salutate eam, dicentes: pax huic domui. Et si quidem
fuerit domus illa digna, veniet pax vestra super eam» (e Lc., 10, 5-
6). - aulico apparatu: il sintagma aulicur apparatu: è in SVETONIO,
Domit., 4. - Rex gloriae: cfr. Ps., 2 3, 10: «Quis est iste rex gloriae?
Dominus virtutum ipse est rex gloriae››. - et eam: cfr. Iob., 14,
23: <<si quis diligit me, sermonem meum servabit, et Pater meus di-
ligit eum, et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus».
44 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL'UOMO

97 sionem faciat apud eam. Quo tanto hospite si se di-


gnam praestiterit (quae est illius immensa clementia)
deaurato vestitu quasi toga nuptiali, multiplici scien-
tiarum circumdata varietate, speciosum hospitem,
non ut hospitem iam, sed ut sponsum excipiet, a quo
ne unquam dissolvatur dissolvi cupiet a populo suo,
et domum patris sui, immo se ipsam oblita, in se ipsa
cupiet mori ut vivat in sponso, in cuius conspectu
preciosa profecto mors sanctorum eius: mors - in-
quam - illa, si dici mors debet plenitudo vitae, cuius
meditationem esse studium philosophiae dixerunt sa-
pientes.
8 Citemus et Mosen ipsum, a sacrosanctae et ineffa-
bilis intelligentiae fontana plenitudine, unde angeli
99 suo nectare inebriantur, paulo deminutum. Audie-
mus venerandum iudicem nobis in deserta huius cor-
poris solitudine habitantibus leges sic edicentem:

97. deaurato varietate: per il mistico sposalizio dell'anima con


Dio, la fonte usufruita in questo passo è Ps., 44, 10: <<Astitit regina
a dextris tuis in vestitu deaurato, circumdata varietate››. - dissolvi
oblitaz Ps., 44, 1 1-12: «Audi, filia, et vide, et inclina autem tuam;
et obliviscere populum tuum, et domum patris tui. Et concupiscet
rex decorem tuum, quoniam ipse est Dominus Deus tuus››. Degno
di nota il poliptoto a stretto contatto dirrolvatur dissolvi. - in cuiur
eius: P5., 1 15, 15: «Pretiosa in conspectu Domini mors sancto-
rum eius». - mors vitae: cfr. CICERONE, Somn. Scip., 14: «hi vi-
vunt, qui e corporum vinclis tamquam e carcere evolaverunt››; FI-
CINO, Lettere, I 4 (Dialogur inter Deum et /lnimam tbeologicur), p.
16: «Quam viva mors est ista (quis cogitet?), per quam in me mo-
rior, in Deo vivo, per quam morti morior, vite vivo, et vivo vita et
gaudeo gaudio››. - cuius rapienter: cfr. PLATONE, Pbaedo, 64a-
68b (in part. 64a: «Tutti coloro che praticano la filosofia in modo
retto rischiano che passi inosservato agli altri che la loto autentica
occupazione non è altra se non quella di morire e di essere morti››);
8oe-81a; 82b-84b; MACROBIO, Comm. in Somn. Scip., I 13, 5: «[Pla-
96-99 45
Padre, ponga la sua dimora presso di lei. E se si sarà
rivelata degna di un così illustre ospite (tale è la scon- 9
finata clemenza di Lui), indossando - quasi fosse un
abito nuziale - una veste dorata, vale a dire avvolta
della molteplice varietà delle scienze, accoglierà il suo
magnifico ospite non già come un ospite, ma come
uno sposo; e per non essere mai separata da lui, desi-
dererà separarsi dal suo popolo, e dimentica della ca-
sa di suo padre, anzi di sé stessa, desidererà morire a
sé stessa per vivere nello sposo, agli occhi del quale è
veramente preziosa la morte dei suoi santi: quella
morte, voglio dire (se morte deve esser detta la pie-
nezza della vita), una preparazione alla quale i sapien-
ti affermarono essere l'esercizio della filosofia.
Invochiamo anche lo stesso Mosè, di poco inferio-
re rispetto alla sorgiva pienezza della sacrosanta e 98
ineffabile intelligenza, donde gli angeli si inebriano
del loro nettare. Udremo quel venerando giudice det-
tare così le leggi a noi che abitiamo nella deserta soli- 99
tudine di questo nostro corpo: «Coloro che, essendo

to] dicit [...] ipsam philosophiam meditationem esse moriendi››;


CICERONE, Turc., I 74: «Tota enim philosophorum vita, ut ait idem
[scil. Socrate], commentatio mortis est›› (e FICINO, Tbeol. Plat.,
XVI 8: «Totum hoc philosophiae studium, ut inquit Plato, est me-
ditatio mortis››). Per Socrate, l`autentica filosofia è una preparazio-
ne alla morte, in quanto insegna a separare l'anima dal corpo, scio-
gliendola dai vincoli terreni e abituandola a raccogliersi nella pura
meditazione.
98. a sacrosanctae deminulu/n: cfr. § 3 e nota ab deminu-
tum. L'aggettivo fontanur non risulta attestato, come qui, in senso
traslato (cfr. BAUSI, Nec rbetor, p. 125). Per inebriari, in senso mi-
stico, cfr. anche S 1 12 e nota inebriabit Dei.
99. in solitudine: il deserto attraverso il quale Mosè condusse
gli Ebrei verso la terra promessa è qui allegoricamente interpretato
46 Discorso SULLA DIGNITA DELL”UoMo

«Qui polluti adhuc morali indigent, cum plebe habi-


tent extra tabernaculum sub divo, quasi Thessali sa-
IOO cerdotes interim se expiantes. Qui mores iam compo-
suerunt, in sanctuarium recepti, nondum quidem sa-
cra attractent, sed prius dialectico famulatu, seduli le-
IOI vitae philosophiae, sacris ministrent. Tum ad ea et ipsi
admissi, nunc superioris Dei regiae multicolorem, id-
est sydereum aulicum ornatum, nunc caeleste cande-
labrum septem luminibus distinctum, nunc pellicea

come la «huius corporis solitudo», ossia come la condizione


dell'uomo sulla terra. Il deserto è figura del mondo e della vita ter-
rena, ad esempio, anche in AGOSTINO, Enarr. in Ps., LXII 3-5 (PL
XXXVI, 749-51), e in UGO DA S. VITTORE, Miscellanea, I 111 e V
82 (PL CLXXVII, 539-40 e 800). - Qui... divo: cfr. RABANO MAU-
RO, Comm. in Ezecbielem, XVII 42 (PL CX, 984): «quando autem
procedendum est ad eos, qui non possunt templi adita penetrare,
nec divinae scientiae arcana cognoscere, egrediantur, inquit, foras
ad eos sacerdotes in atrium exterius» (Progetto Pico [Papio]). Peri
templi adyta (ossia il Sancta sanctorum del tempio divino) cfr. qui §
101, e la nota seguente. - quasi expiantes: FILONE ALESSANRINO,
De vita Moris, II 136-40, parla del simbolico gesto di purificazione
cui i sacerdoti si sottoponevano (lavandosi le mani e i piedi) prima
di entrare nel tempio e compiere i riti prescritti. La Tessaglia è una
regione della Grecia nota, in antico, come terra di sortilegi, streghe
e riti magici (cfr. ad esempio «Thessalis / magus venenis›› in ORA-
ZIO, Carm., I 27, 21-22). Come osserva il CICOGNANI, p. 104, «nei
miti e nelle leggende del ciclo tessalo ricorre frequente il motivo
dell'espiazione» (e reca gli esempi di Admeto, Issione e Peleo); tut-
tavia, non si hanno notizie di un rito «di purificazione espiatrice
specificatamente proprio del sacerdozio tessalo››.
101. Tum perfruantur: Pico paragona coloro che sono am-
messi a penetrare nella parte più interna del tabernacolo divino (il
Sancla sanctorum, così come è descritto in Ex., 26) a quanti, una
volta raggiunte le vette della speculazione teologica, sono in grado
di contemplare la gloria di Dio; così anche in GREGORIO DI NISSA,
Vita di Mosè, II 188: «Che la parte interna della tenda, chiamata
Santo dei santi, sia inaccessibile ai più, neppure questo crederemo
in contrasto con la coerenza dell'interpretazione. Infatti, veramen-
99'1°1 47

impuri, hanno ancora necessità della filosofia morale,


restino con la plebe fuori dal tabernacolo, a cielo
aperto, purificandosi come i sacerdoti tessali. Coloro IOO

che già hanno riordinato la propria condotta di vita,


una volta accolti nel tempio, non tocchino ancora gli
oggetti sacri, ma prima, quali zelanti leviti della filo-
sofia, prestino servizio ai sacri riti con il noviziato dia-
lettico. Poi, ammessi essi pure a questi uffici, contem- IOI

plino nel sacerdozio della filosofia ora il multicolore,


vale a dire il sidereo ornamento principesco della reg-
gia eccelsa di Dio, ora il celeste candelabro a sette

te cosa santa, e santa fra le cose sante, e impraticabile e inaccessibi-


le a molti, è la verità dell'essere». Nell'Heptaplu.s, aliud prooe-
mium, pp. 186-88, Pico parla, offrendone un'interpretazione alle-
gotica, delle tre parti del tabernacolo costruito da Mosè (la parte
esterna, la tenda e il Sancta sanctorum, corrispondenti al mondo su-
blunare, al mondo celeste e al mondo sopraceleste 0 intelligibile; e
cfr. analogamente Conclusiones, p. 116 = Conclusioner de intelli-
gentia dictorum Zoroastris, 8-9); qui si accenna invece a quattro
parti (probabilmente l'esterno, il cortile del tabernacolo, la tenda e
il Sancta sanctorum), che simboleggiano le quattro tappe del per-
corso conoscitivo già delineato ai §§ 71-72 (cfr. la nota Ergo per-
ficiamus), ossia la filosofia morale, la dialettica, la filosofia naturale
(identificabile senza dubbio con la contemplazione dei multicolori
ornamenti, del candelabro a sette bracci [simbolo dei sette pianeti,
come Pico scrive nell'Heptaplus, aliud prooemium, p. 186] e dei
pellicea elementa) e la teologia. Per il candelabro cfr. Ex., 25, 31-
39; per i pellicea eleinenta (ossia le coperte di pelle di montone e di
tasso che, tinte di rosso, ricoprivano la tenda del tabernacolo, l'ar-
ca, il candelabro, l'altare e tutti gli oggetti sacri) cfr. ibid., 25, 5; 26,
14; 39, 33; Num., 4, 6-25. Per il velo di lino che nascondeva alla vi-
sta l`arca della testimonianza (custodita nel Sancta sanctorum) cfr.
ancora Ex., 26, 31-37. I multicolori e siderei ornamenti del taber-
nacolo saranno i pregiati materiali (oro, argento, pietre preziose,
nastri colorati) con cui Dio ordinò a Mosè di rivestirlo e abbellirlo
(Ex., 25, 4-7). Cfr. anche la lunga nota del CIC()(;NANI, pp. 104-
107; e aggiungi FILONE ALESSANDRINO, De vita Mo.ri.r, II 71-108,
per l'interpretazione allegorica del tabernacolo.
48 Discokso SULLA DIGNITA DELL'UoMo

elementa in philosophiae sacerdotio contemplentur,


ut postremo, per theologicae sublimitatis merita in
templi adyta recepti, nullo imaginis intercedente velo
102 divinitatis gloria perfruantur››. Haec nobis profecto
Moses et imperat et impetando admonet, excitat,
inhortatur, ut per philosophiam ad futuram caelestem
gloriam, dum possumus, iter paremus nobis.
103 Verum enimvero, nec Mosayca tantum aut Chri-
stiana mysteria, sed priscorum quoque theologia ha-
rum, de quibus disputaturus accessi, liberalium ar-
tium et emolumenta nobis et dignitatem ostendit.
104 Quid enim aliud sibi volunt in Graecorum archanis
observati initiatorum gradus, quibus primo, hercle,
per illas quas diximus quasi februales artes, moralem
et dialecticam, purificatis, contingebat mysteriorum
105 susceptio? Quae quid aliud esse potest quam secre-
106 tioris per philosophiam naturae interpretatio? Tum
demum ita dispositis illa adveniebat értomseía, idest
rerum divinarum per theologiae lumen inspectio.
107- 108 Quis talibus sacris initiari non appetat? Quis, huma-

104. februales: nel senso, che ha qui, di `purificatore”, l`aggettivo


februalis non risulta attestato. Si trova solo (in Festo e in Marziano
Capella) come attributo di Giunone, perché le feste in suo onore si
celebravano in febbraio (BAUSI, Nec rbetor, p. 138). Il quasi sottoli-
nea appunto l'inedito impiego figurato del termine.
106. Tum inspectio: il greco epoptia (è1to1t1:£ia, da epoptêuo,
`contemplo”) designa il massimo grado di iniziazione ai misteri eleu-
sini, coincidente con la silenziosa contemplazione degli oggetti sa-
cri. In senso traslato, epopticâ è chiamata da Platone (Symp., 209e) e
da Plutarco (De Iside et Osiride, 382d) l'immediata contemplazione
dell'intelligibile. Cfr. anche PLATONE, Pbaedr., 250c, Epist., 333e;
PLUTARCO, Alex., VII 5 e Demelr., XXVI 1. Nei cristiani (cfr. ad es.
PsEUDo-D1oN1(;1 A1u:o1›A<;1TA, De coel. hier., I 2 = PG III, ina) il
termine designa l'unione intellettuale dell'uomo con Dio.
108. Quis donari?: passo ricco di artifici retorici: omeoteleuto
(post/oabenr, contemnens, negligens, degens), allitterazione (madi-
101-108 49

fiamme, ora i rivestimenti di pelle; finché da ultimo,


accolti nei penetrali del tempio per i meriti della su-
blimità teologica, possano godere della gloria divina,
senza l'ostacolo di alcun velo d'immagini››. Questo I02

senza dubbio Mosè ci comanda, e col suo comando ci


ammonisce, ci sprona, ci esorta - finché possiamo - a
ptepararci la strada, per mezzo della filosofia, verso
la futura gloria del cielo.
Ma certamente non soltanto i misteri mosaici o cri- 103
stiani, bensì anche la teologia degli antichi ci mostra
sia i vantaggi che la dignità di quelle arti liberali di cui
son venuto a discutere. Che altro vogliono infatti si- 104
gnificare nei misteri dei Greci i gradi percorsi dagli
iniziati, ai quali era concessa l”ammissione ai misteri
solo dopo che, per Ercole, si fossero purificati attra-
verso quelle arti che abbiamo definito quasi espiato-
rie, cioè la filosofia morale e la dialettica? E questa 105
ammissione che altro può essere, se non la conoscen-
za, attinta attraverso la filosofia, della più occulta na-
tura delle cose? Soltanto allora, in coloro che in tal 106
modo erano stati predisposti, sopraggiungeva quella
famosa epoptia, ossia la contemplazione delle cose di-
vine mediante il lume della teologia. E chi non desi- 107
dererebbe essere iniziato a simili misteri? Chi, gettan- 108

dus mortale munere), figura etimologica (mortale / immortalita-


tis). Per il nettare dell`eternità cfr. PLATONE, Pbaedr., 247e; FICI-
NO, Lettere, I 6 (De divino furore), p. 2 1, dove si afferma che le ani-
me, prime di discendere nei corpi, «ambrosia ac nectare, id est Dei
cognitione perfectoque gaudio, nutriebantur» (e cfr. qui anche i §§
98 e 124); I 1 15, p. 204: «puras inquit [scil. Platone] animas, cum
in celum evolaverint, in divina mensa ambrosia et nectare vesci››.
Aggiungi PICO, Commento sopra una canzona, II 13, p. 503: «è da
sapere che gli antiqui teologi [...] dicono tutte quelle cose, le quali
Iddio cibò di nettare e d'ambrosia alla sua mensa, essere eterne».
50 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELLIUOMO

na omnia posthabens, fortunae contemnens bona,


corporis negligens, deorum conviva adhuc degens in
terris fieri non cupiat, et aeternitatis nectare madidus
109 mortale animal immortalitatis munere donati? Quis
non Socraticis illis furoribus, a Platone in P/aedro de-
cantatis, sic afflari non velit ut alarum pedumque re-
migio hinc, idest ex mundo, qui est positus in mali-
gno, propere aufugiens, ad caelestem Hierusalem
concitatissimo cursu feratur?
IIO Agamur, patres, agamur Socraticis furoribus, qui
extra mentem ita nos ponant, ut mentem nostram et
III nos ponant in Deo! Agemur ab illis utique, si quid est
in nobis ipsi prius egerimus; nam si et per moralem
affectuum vires ita per debitas competentias ad mo-
dulos fuerint intentae, ut immota invicem consonent
concinentia, et per dialecticam ratio ad numerum se
progrediendo moverit, Musarum perciti furore cele-

1o9. Quis decantatis: cfr. PLATONE, P/Jaedr., 244a-245c; 265b.


Platone distingue quattro furori, quello amoroso (che proviene da
Afrodite e da Eros), quello poetico (che viene dalle Muse), quello
iniziatico (che procede da Dioniso) e quello divinatorio (che deriva
da Apollo). L'argomento è sviluppato anche dal Ficino nella giova-
nile epistola De divino furore e nel commento al Simposio platonico
(VII 14-15). Cfr. inoltre le note seguenti. - alarum reniigio: cfr.
VIRGILIO, /len., VI 19: «remigium alarum››. Per le «ali›› dell”anima
cfr. sopra, § 94 e nota alatis Mercurii. Le ali e i piedi con cui
l`anima dell'L1omo interiormente purificato vola verso la Gerusa-
lemme celeste si contrappongono ai piedi insozzati e alle mani im-
monde dell'uomo ancora immerso nella vita materiale, che sopra
simboleggiavano rispettivamente la parte concupiscibile e quella
irascibile dell`anima (cfr. §§ 75-79). - qui maligno: cfr. 1]ob., 5,
19: «mundus totus in maligno positus est››, citato da Pico anche
nel De ente et uno, X, p. 440: «Fugiamus hinc ergo, idest a mundo
qui positus est in maligno››. - ad feratur?: Cfr. FICINO, Comm. in
Conv., VII 14: «[Plato] alas animo tribuit, per quas in sublime fe-
ratur›› (Progetto Pico [Marchignoli]; il riferimento è a PLATONE,
Pbaedr., 246b-c); VII 16: «Queritis quid amor Socraticus conferat?
108-III 51

dosi dietro le spalle ogni cosa umana, disprezzando i


beni della fortuna, non curandosi di quelli del corpo,
non aspirerebbe - mentre ancor vive sulla terra - a
diventare commensale degli dei, e, asperso del netta-
re dell”eternità, a ricevere, creatura mortale, il dono
dell'immortalità? Chi non vorrebbe essere ispirato da 109
quei ben noti furori socratici, celebrati da Platone nel
Fedro, sì da essere trasportato con rapidissimo volo
verso la Gerusalemme celeste, fuggendo da qui, cioè
dal mondo (che è nelle mani del maligno), col remeg-
gio delle ali e dei piedi?
Facciamoci rapire, o padri, facciamoci rapire dai IIO

furori socratici, sì che ci pongano a tal punto fuori


della nostra mente, da riporre noi e la nostra mente in
Dio! E certo saremo rapiti da quei furori, se prima noi III

stessi avremo guidato ciò che sta dentro di noi; se in-


fatti, mediante la filosofia morale, le forze delle passio-
ni saranno state indirizzate, imponendo loro le debite
proporzioni, verso giuste misure (così da concordare
vicendevolmente in una stabile armonia), e se, me-
diante la dialettica, la ragione si muoverà procedendo
ordinatamente, allora, eccitati dal furore delle Muse,

Primo quidem ipsi Socrati plurimum ad alas recuperandas, quibus


in patria revolet››; FICINO, T/100/. Plal., XIII, z: «Pluto scribit in
Phaedro philosophorum mentes praecipue alas quibus ad divina
volatur recuperare, quia videlícet semper divinis incumbant».
no. qui ponant: cfr. il detto di Zoroastro citato da FICINO,
'Haec/_ P/at., I 6: «Aliud mens erit, aliud Veritas. Quod sic aperit
Zoroaster: “Scito intelligibile ipsum esse extra mentem”».
111. immota concinen/z'a: cfr. FICINO, Comm. in Conu., VII
14: «Primus itaque furor [cioè il furore poetico: cfr. la nota seguen-
te] inconcinna et dissonaritia temperat». - Murarum co/n/71'/n~
mus: si tratta del furore poetico, che proviene dalle Muse, e che
consente al “vate” di percepire, e poi riprodurre nei suoi versi, la di-
vina armonia celeste. Cfr. FICINO, Comm. in Conv., VII 14; Let/ere,
52 D1scoRso SULLA DIGNITA DELL`uoMo

112 stem armoniam intimis auribus combibemus. Tum


Musarum dux Bacchus, in suis mysteriis (idest visibi-
libus naturae signis) invisibilia Dei philosophantibus
nobis ostendens, inebriabit nos ab ubertate domus
Dei, in qua tota si uti Moses erimus fideles, accedens
sacratissima theologia duplici furore nos animabit.
113 Nam in illius eminentissimam sublimati speculam, in-
de et quae sunt, quae erunt quaeque fuerint insectili

I 6 (De divino furore), pp. 25-26: «[Plato] oriri vero poeticum hunc
furorem a Musis existimat. [...] Musis, id est celestibus numinibus
atque cantibus, divini homines conciti, ad eorum imitationem poe-
ticos modos ac numeros meditantur». Per la musica delle sfere ce-
lesti, che può essere udita solo con le orecchie dell”anima, cfr. an-
che PICO, Epistola a Ermolao Bar/raro, 62: «Assume illas Thianei
aures, quibus - cum omnino non erat in corpore - non terrestrem
Marsiam, sed Apollinem caelestem divina cithara universi melos
ineffabilibus temperantem modis exaudiebat».
112. Tum ortendenr: cfr. Rm., 1, 2o: «Invisibilia enim ipsius, a
creatura mundi, per ea quae facta sunt, intellecta, conspiciuntur»
(Progetto Pico [Marchignoli]); citato anche da FICINO, Lettere, I 6
(De divino furore), p. 22: «Itaque Paulus ac Dionisyus [...] invisibi-
lia Dei asserunt per ea quae facta sunt queque hic cernuntur intel-
ligi». Qui l'allusione è al furore iniziatico, ispirato da Bacco; cfr.
l'accenno ai «mysteria›>, e cfr. FICINO, Comm. in Coma., VII 14:
«alter [furor] mysterialis [...] mysterium a Dionysio››. Il «Musarum
dux›› (Mu.rag¢›te,r) è propriamente Apollo, ma l'appellativo veniva
talora assegnato anche a Mercurio, Ercole e - appunto - Bacco
(cfr. FORCELLINI, ru. Musagetes, vol. VI, p. 299); qui l`indicazione
di Bacco quale “guida” delle Muse è però funzionale a una precisa e
complessa simbologia orfica (per cui cfr. l'Intr(›duzz'om›, pp. XXXV-
XXXVI). - inc/rrzkzbíl Dei: cfr. Pr. 35, 9: «[filii hominum] inebria-
buntur ab ubertate domus tuae›› (citato da Pico anche nelle Con-
clurioner, p. 130 = C0nclusz'0ne.r cabalistícac, 17). L'allusione all'eb-
brezza (inc/øriabít) si lega qui, senza dubbio, all”idea 'accessoria' di
Bacco dio della vite e del vino, ma anche alla nozione di *ebbrezza
divina', ossia di estasi mistica e rapimento soprannaturale (cfr. qui
§ 93). Cfr. Pl(l(), Com*/u.\'z'0ne.r, p. 124 (C0ncluríone.r dc modo miel-
/igendz' bymnos Or/2/:ei secundum magiam, 24); «Non inebriabitur
per aliquem Bacchum, qui suae Musae prius copulatus non fuerit››;
e inoltre WIND, Misteri, pp. 336-37. - duplicifurore: si tratta dei
111-113 53

con le orecchie dell`anima avidamente berremo la ce-


leste armonia. Quindi Bacco, guida delle Muse, mo- 112
strando a noi filosofanti, nei suoi misteri (ossia nei se-
gni visibili della natura), gli invisibili segreti di Dio, ci
inebrierà dell”abbondanza della dimora divina, nella
quale se, come Mosè, saremo interamente fedeli, la
santissima teologia, sopravvenendo, ci agiterà di un
duplice furore. Infatti, innalzati fino alla sua eccelsa 113
specola, da lì commisurando all'eterno le cose che so-

due furori cui Pico allude nel § seguente: quello divinatorio e quel-
lo amoroso, che (dipendenti rispettivamente da Apollo e da Vene-
re) mettono direttamente l'uomo 'invasato` in contatto con la divi-
nità. Cfr. ancora FICINO, Leltcre, I 6 (De dz'vz`noƒurore),' pp. 27-28.
1 13. inde fuerint: il Marchignoli (Progetto Pico) rinvia giusta-
mente a PLUTARCO, De E apud Delpbor, 387b, dove, citando Ome-
ro, si fa riferimento - come qui - all`arte divinatoria che procede
da Apollo: «poiché tutto il presente deriva e dipende dal passato e
tutto il futuro è legato al presente secondo un processo che corre
da un principio a una fine, colui che possiede la scienza di connet-
tere e porre in relazione le cause tra loro secondo il rapporto natu-
rale, è anche in grado di annunciare “il presente e il futuro e il pas-
sato" [OMERO, Il., I 7o]». I-Ia in mente questo verso omerico anche
BOEZIO, Dc mm: pbíl., V m. 2, 11-12; «Quae sint, quae fuerint ve-
niantque, I uno mentis cernit in ictu››; e cfr. Fl(ìlN(), Dc role, VI:
«Apud Aegyptios Minervae templis aureum hoc legebatur inserip-
tum: “Ego sum quae sunt, quae erunt et quae fuerint"» (Pm.ralorz`
/alím', p. 982). - ífzscctilz' acvoz l'1'11_reclilc acvum (letteralmente
`l'evo indivisibile') è l'eternità. Ifaggcttivo m.rectz'/z'.\', derivante da
ínreco, è attestato solo nel latino umanistico, e il primo ad usarlo
sembra essere stato il Barbaro nella sua parafrasi di Temistio. Pico
lo impiega anche nell'epistola allo stesso Barbaro, § 93: «stat punc-
to insectili et individuo›› (cfr. BAUSI, Nec r/Jclor, p. 47). - illorum .;.
amatorcr: il furore divinatorio («illorum Phebei vates», dove illo-
rum si riferisce a «quae sunt, quae erunt quaeque fuerinr››) e quello
amoroso («huius alati erimus amatores», dove /Juzm si riferisce alla
«primaeva pulchritudo››; con alalí Pico allude non solo alle plato-
niche «ali›› dell'anima [per cui cfr. § 94 e nota alatis Mercurííl,
ma anche a quelle di Eros, figlio di Venere e dio dell'amore). Cfr.
FICINO, Comm. in Conv., VII 14: «tertius [furor] vaticinium [...]
vaticinium ab Apolline [...] amatorius affectus est quartus [...]
54 D1scoRso SULLA DIGNITA DELL'UoMo

metientes aevo, et primaevam pulchritudinem suspi-


cientes, illorum Phebei vates, huius alati erimus ama-
tores, et ineffabili demum charitate quasi aestro per-
citi, quasi Saraphini ardentes extra nos positi, numine
pleni, iam non ipsi nos, sed ille erimus ipse qui fecit
nos.
114 Sacra Apollinis nomina, si quis eorum significan-
tias et latitantia perscrutetur mysteria, satis ostendent
esse deum illum non minus philosophum quam va-
11; tern. Quod cum Ammonius satis sit exequutus, non
est cur ego nunc aliter pertractem; sed subeant ani-
mum, patres, tria Delphiea precepta oppido his ne-
cessaria, qui non fieti, sed veri Apollinis, qui illumi-
nat omnem animam venientem in hunc mundum, sa-
crosanctum et augustissimum templum introgressuri
sunt: videbitis nihil aliud illa nos admonere, quam ut
tripartitam hanc, de qua est presens disputatio, philo-
116 sophiam totis viribus ampleetamur. Illud enim unôàv

amor a Venere». - at›.ttro perciti: cfr. la lettera di Pico a G. Benivie-


ni del 12 novembre 1436: «symbolum animae in se ipsam oestro
Musarum percitae recurrentis» (in DOREZ, Lcllrer zhédzles, p. 358);
e POLIZI/\N(), /Id Fonlíum, 189: «Musarum concitus oestro››; /Im-
bra, 433: «Musarum percitus oestro››; Nulrícía, 139-40: «qui tanto
sacer hic furor incitet oestro | corda viru1n››. Passi nei quali (›c›rlru.s'
vale `ispirazione divina', `furore”, come in STAZIO, The/7., I 32:
«Pierio [...] oestro» e Silv., II 7, 3: «docto pectora concitatus oe-
stro›› (e cfr. del Poliziano anche il Comme/110 a Slazío, p. 51 1). - Sa-
rap/Jz'nz'ara'enler: cfr. sopra, § 54 e nota /lrdcl firmítale. - zum
fecit 11o.\': cfr. Gal., 2, 2o: «vivo autem, iam non ego, vivit vero in mc
Christus» (Progelto Pico [Marchignoli])››.
114. Cfr. PLU'1`AR(I(), De E apud De/p/aos, 385b: «eravamo tutti
d'accorclo che il dio [.\'cz'l. Apollo] sia filosofo non meno che indo-
vino, e ci sembrava che giustamente Ammonio spiegasse ognuno
dei suoi appellativi».
1 15. Quod exequutur: Ammonio, filosofo greco (I sec. d.C.)
113-116 55

no, che saranno e che furono, e contemplando l'origi-


naria bellezza, di quelle diventeremo febei vati, di
questa alati amatori; e infine, eccitati dall”ineffabile
amore come da un furore divino, trasportati fuori di
noi quasi ardenti Serafini, colmi del nume, non sare-
mo più noi stessi, ma saremo colui che ci ha creato.
I sacri nomi di Apollo, chi ne indaghi i significati ei II

misteri reconditi, mostreranno con chiarezza che quel


Dio è filosofo non meno che profeta. La qual cosa, es- Il

sendo già stata a sufficienza esposta da Ammonio,


non cӏ ragione che io ora la approfondisca altrimenti;
ma ci tornino in mente, o padri, i tre precetti delfici,
assolutamente necessari a quanti si apprestano ad en-
trare nel sacrosanto e augustissimo tempio non del
falso, bensì del vero Apollo, che illumina ogni anima
che viene in questo mondo: vi renderete conto che es-
si a nient°altro ci esortano, se non ad abbracciare con
tutte le nostre forze questa triplice filosofia, intorno
alla quale verte la presente discussione. Infatti, quel Il

seguace di Platone e maestro di Plutarco; e fra gli interlocutori dei


dialoghi plutarchiani De defectu omculorum e De E apud Delp/wr
(cfr. la nota precedente), dove sviluppa la teoria dell`ispirazione di-
vina dell”orac0lo. - qui mundum: cfr. Io/J., 1, 9: «Erat lux vera,
quae illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum». Il
«vero Apollo» (cfr. anche § 119) è naturalmente Cristo (che col
nome di Apollo era talora designato nella poesia religiosa medioe-
vale e umanistica: cfr. F()R<1ELLlNI, s.u. Apollo, vol. V, p. 143; e ad
esempio Pl:'I`R/\R(;/\, Bue. farm., I 66); e l`ingresso nel «tempio» di
Cristo (simbolo della piena conoscenza del divino) viene qui con-
trapposto all'accesso al tempio di Apollo a Delfi, sul quale erano
incisi i «tria Delphiea precepta›› elencati e commentati ai §§ se-
guenti. La luce spirituale di Cristo (che illumina le anime) è con-
trapposta inoltre alla luce sensibile di Apollo-Febo-Sole.
116. Illud nímís: cfr. PLATONI5, Protag., 343b, Carm., 16;a;
PLUTARCO, De E apud Delpbor, 385d, 387e; De Pyt/siae orac., 4o8e.
56 D1scoRso su1.LA DIGNITA DELL'UoMo

óìyotv, idest «nequid nimis››, virtutum omnium nor-


mam et regulam per mediocritatis rationem, de qua
117 moralis agit, recte praescribit. Tum illud yvô(-)t Geom-
tóv, idest «cognosce te ipsum››, ad totius naturae nos
cognitionem, cuius et interstitium et quasi cynnus na-
118 tura est hominis, excitat et inhortatur. Qui enim se
cognoscit, in se omnia cognoscit, ut Zoroaster prius,
119 deinde Plato in Alcibiade scripserunt. Postremo, hac
cognitione per naturalem philosophiam illuminati,
iam Deo proximi, si, idest «es» dicentes, theologica
salutatione verum Apollinem familiariter proindeque
foeliciter appellabimus.
I20 Consulamus et Pythagoram sapientissimum, ob id
praecipue sapientem, quod sapientis se dignum no-

1 17. Tum ipsum: cfr. PLATONE, Protag., 343a, Carm., 164d-


165a; PLUTARCO, De E apud Dclp/vor 385d, 392a; De Pyt/aíae orac.,
4o8e. La massima, interpretata generalmente come invito alla co-
noscenza dei propri limiti, viene intesa invece da Pico come esorta-
zione alla filosofia naturale, ossia allo studio della natura e del
mondo, di cui l`uomo - in quanto microcosmo - è vincolo e sinte-
si (cfr. anche il § seguente). Cfr. anche FICINO, T/real. Plat.,
proem.: «intelligens oraculum illud “nosce te ipsum" id potissi-
mum admonere, ut quicumque Deum optat agnoscere, se ipsum
ante cognoscat». - interstitium cynnus: per mlerrtilzum (letteral-
mente `ciò che sta nel mezzo') cfr. PICO, Heptaplur, V 2, p. 292:
«quod interstitium est utriusque mundi››. Quanto a cynnus, il raris-
simo vocabolo (che vale propriamente 'mescolanza di vari liquidi',
e in senso figurato 'mescolanza di svariati elementi`) compare solo
in Arnobio e nella tradizione indiretta dell'Oral0r ciceroniano (6,
21; cfr. NONI() MAI<(JI5LLO, De compendíosa doctrína pp. 62 e 83
Lindsay), in un passo qui presente a Pico: «Est autem quidam inte-
riectus inter hos medius et quasi temperatus nec acumine posterio-
rum nec flumine utens superiorum, ut cinnus amborum›› (dove m-
lerieclus è sinonimo del pichiano ínterrtílzum; le edizioni moderne
leggono vícinur in luogo di ul cz'/mur). Il termine sarà recuperato
poi da Poliziano nella prefazione ai primi Miscellanea e dallo stesso
Pico in una lettera non datata al Poliziano, definito «quasi cinnus
116-120 57

ben noto medèn ágan, vale a dire <<nulla di troppo››,


rettamente prescrive la norma e la regola di tutte le
virtù attraverso il criterio del giusto mezzo, di cui trat-
ta la filosofia morale. Poi il famoso gnót/oíreautón, os- 117
sia «conosci te stesso››, ci sprona e ci esorta alla cono-
scenza di tutta la natura, della quale la natura umana è
nesso e, per così dire, mescolanza. Chi infatti conosce 118
sé stesso, tutto in sé stesso conosce, come hanno scrit-
to prima Zoroastro e poi Platone nell'Alcibz'ade. Infi- 119
ne, illuminati da questa conoscenza per mezzo della
filosofia naturale, ormai prossimi a Dio, dicendogli ei,
cioè «tu sei››, col saluto teologico familiarmente, e
dunque felicemente, ci rivolgeremo al vero Apollo.
Interroghiamo anche il sapientissimo Pitagora, sa- IZO

piente soprattutto in virtù di questo, perché mai si

utriusque linguae›› (cfr. per tutto questo BAUSI, Nec rlwtor, pp.
121-22; RIZZO, Cinnur, pp. 335-46). Qui cynnus designa l'uomo in
quanto partecipe di tutte le cose e di tutte le nature, per la sua po-
sizione di mterrtitzum e per la sua condizione di 'microcosmo' (cfr.
la nota precedente).
1 18. Qui... rcríprerunl: cfr. PLATONE, /llcí/2. I, 131a- 133c.
119. Por/frcmo diceumr: cfr. PLUT/\R(10, De E apua' De/p}J0.t,
392a; 393a-b: «Invece il dio esiste. “Tu sei", dobbiamo proclamare.
Esiste non nel tempo, ma nell`eternità immobile, senza tempo, sen-
za mutamenti, che non ha un prima e un dopo: essa non conosce fu-
turo né passato, vecchiezza e gioventù. Essendo unico, egli abbrac-
cia l'eternità nell”unico suo presente, e solo ciò che esiste a queste
condizioni esiste realmente, non soggetto né al passato né al futuro,
né all'inizio né alla fine». Il saluto «tu sei›› vuole dunque riconosce-
re l'eternità e l'unicità di Dio, di contro alla molteplicità e al diveni-
re cui sono soggetti gli uomini e tutto quanto si trova sulla terra.
120. quod exi.rtzmavíl: allusione al titolo di «filosofo» (`amante
della sapienza') che Pitagora - rifiutando la qualifica di `sapiente` -
coniò per sé stesso. Cfr. ad esempio DIOGENE LAERZIO, Vitae, I 12 e
VIII 8; CICERONE, Tura, V 8: «Cuius [rail Pythagorae] ingenium et
eloquentiam cum admiratus esset Leon, quaesivisse ex eo qua maxi-
me arte confideret; at illum artem quidem se scire nullam, sed esse
58 D1sc0Rso SULLA DIGNITA DELL'u0M0

[21 mine nunquam existimavit. Praecipiet primo ne su-


per modium sedeamus, idest rationalem partem qua
anima omnia metitur, iudicat et examinat, ociosa de-
sidia ne remittentes amittamus, sed dialectica exerci-
tatione ac regula et dirigamus assidue et excitemus.
122 Tum cavenda in primis duo nobis significabit, ne aut
adversus solem emingamus, aut inter sacrificandum
123 ungues resecemus. Sed postquam per moralem et su-
perfluentium voluptatum fluxas eminxerimus appe-
tentias, et unguium presegmina quasi acutas irae pro-
minentias et animorum aculeos resecuerimus, tum
demum sacris, idest de quibus mentionem fecimus
Bacchi mysteriis, interesse, et, cuius pater ac dux me-
rito Sol dicitur, nostrae contemplationi vacare inci-

philos0phum››; GI/\MBI..|(I(), De uíla Pyl/oagfnríaz, VIII 44, XII 58,


XXIX 159. E cfr. qui anche il § 166. Per quanto segue cfr. FICINO,
Della cristiana religione ( 1474-75), f. 9r, dove si afferma che i pitago-
rici «purgano la mente da' sensi colle discipline morali, philosophi-
che, metafisiche», prima di volgere al sole «gli occhi anchora velati››.
121. Praecípiel excitemus: per questa massima pitagorica (co-
munemente interpretata come csortazione a non vivere oziosamen-
te) cfr. PORFIRIO, Vila Pyt/Jagorae, 42; PLUTARCO, De /íbcrír edu-
candir, 12e; GIAMBLICO, Protreplícus, XXI, pp. 107 (massima n°
18) e 1 16-17 Pistelli; FICINO, Commentario/ur in .vymbola Pythago-
rae, p. 102: «Super modium ne sedeas. Medium anime eam vim si-
gnificare arbitror, qua metimur diiudicamusque universa. Perverse
igitur ac nequiter agit, qui eam vim, cuius natura est rationis exa-
men ac mensura rerum et dimensio, natibus premit, obruit omni-
noque extinguit». Per l'elenco completo dei rymbola pitagorici cfr.
ad esempio GI/\MI5LI(;(), Protreptícur, XXI, pp. 106-108 Pistelli; FI-
CINO, Symbo/a Pyl/Jagomc p}Jz'losup/az', in Opera, vol. II, p. 1979;
POLIZIANO, Lamia, p. 4 Wesseling. Per la natura e l'origine dei
rymbola cfr. GIAMBLICO, De vita Pyt/Jagoríca, XXIII 103-105.
122-123. Tum cavenda íncípzamurz per queste due massime e
per la loro illustrazione (l'invito, cioè, a purgarsi convenientemente
prima di prender parte ai sacri riti), cfr. ancora GIAMBLICO, Pro-
trcpticus, XXI, pp. 107, 1 15, 1 21-22 Pistelli; ESIODO, Opera et dies,
727, 74243; FICINO, Commentariolur in rymbola Pyt/aagorae, pp,
12o-123 59

considerò degno del nome di sapiente. Ci raccoman- IZI

derà in primo luogo di non sederci sopra il moggio,


ossia di non trascurare, abbandonandola a un'inerzia
inoperosa, la parte razionale con cui l'anima tutto mi-
sura, giudica ed esamina, ma di guidarla assiduamen-
te e stimolarla con l'esercizio e la regola dialettica.
Quindi ci mostrerà due cose da evitare innanzitutto: 122
orinare verso il sole e tagliarci le unghie durante i sa-
crifici. Ma una volta che, mediante la filosofia morale, 123
avremo eliminato, espellendoli, gli impetuosi appetiti
delle traboccanti voluttà, e avremo resecato le punte
delle unghie, quasi fossero le acuminate sporgenze
dell”ira e gli aculei dellianima, allora finalmente po-
tremo cominciare a prender parte ai riti sacri, cioè ai
già ricordati misteri di Bacco, e a dedicarci alla nostra
contemplazione, di cui giustamente il Sole è detto pa-

1oo-1o1: «Ad Solem conversus ne mingas. Iuxta sacrificium ne in-


cidas ungues. Mingere est purgari, incidere ungues etiam est abmo-
vere abs te superflua et vilia. Ne differas purgationem et solutionem
ad id tempus, quo sol inspiciendus est et sacra contemplanda, idest
divina. Prius enim oportet se purgasse et incidisse superflua, quam
ad ea tendas et in illis intentionem fatiges». Per la prima massima
cfr. anche DIOGENE LAERZIO, Vílae, VIII 17 e PLINIO, Nat. /ølrt.,
XXVIII 69; per la seconda, GIAMI5I.I(`.0, De uz'/a Pyl/Jagoríca, XX-
VIII 154. L'urina ele unghie sono collegate da Pico, rispettivamen-
te, all'appetito concupiscibile e all'ira sia per la loro natura (liquida
- e quindi assimilabile al 'flusso' dei desideri- nel primo caso; acu-
minata nel secondo), sia in virtù delle parti del corpo cui esse per-
tengono (il basso ventre nel primo caso, le mani nel secondo: cfr.
sopra, § 79 e nota sub pulvere umbra); cfr. Hcplaplur, VI 6, p.
322: «discamus a terra non edituros nos frugem quam parturimus
nisi invadentis nos fluxae materiae atque caducae impetum repres-
serimus depulerimusque, et e sedibus nostris exturbaverimus ir-
ruentium in nos, quasi aquarum, voluptatum gurgites et torrentes››
(e Commento ai Salmi, p. 216: «undas fluxae voluptatis››). Quanto
al «sole» intellettuale, cfr. Commento ai Salmi, p. 182.
123. rupcrƒluemium fluxar: figura etimologica.
60 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL'UOMO

124 piamus. Postremo ut gallum nutriamus nos admone-


bit, idest ut divinam animae nostrae partem divina-
rum rerum cognitione quasi solido cibo et caelesti
125 ambrosia pascamus. Hic est gallus cuius aspectum
leo, idest omnis terrena potestas, formidat et revere-
126 tur. Hic ille gallus cui datam esse intelligentiam apud
127 Iob legimus. Hoc gallo canente aberrans homo resipi-
128 scit. Hic gallus in matutino crepusculo, matutinis
astris Deum laudantibus, quotidie commodulatur.
129 Hunc gallum moriens Socrates, cum divinitatem ani-
mi sui divinitati maioris mundi copulaturum se spera-

124. Postremo parcamus: cfr. GIAMBLICO, Protrepticux, XXI,


pp. 107 e 116 Pistelli (<<alleva un gallo ma non sacrificarlo: esso è
sacro alla luna e al sole»); FICINO, Symlzola Pylbagorae plaílorop/Ji:
«Gallum nutrias quidem, ne tamen sacrifices: Soli enim et Lunae
dicatus est»; ID., Commentar1'0lu.\'z'n symløola Pythagorae, pp. 101-
102: «Gallus nutrias quidem etc. Est vis quedam anime que cogna-
tione quadam celestium corporum et spirituum sepe ita cietur ut
futura presagiat. [...] Hanc anime vim per gallum significari ideo
arbitror, quia galli ea natura est, qua et tempora metiatur et ipso-
rum temporum mutationes ita sentiat, ut nunquam fallatur». Che il
gallo fosse animale sacro al sole confermano PLUT/\R(I(), De Pytbiae
omculzflr, 4ooc, e GIAMBLICO, De vita Pyt/aagoríca, XXVIII 147. Per
la parte divina dell'anima, cfr. PLATONE, /llczla. I, 133c; per il netta-
re (il .r0lz'tlu_t cz'/aus) e l'amhrosia dell'eternità (ossia della conoscen-
za divina), cfr. i §§ 98 e 108 (e la nota relativa), oltre a C`r›rpu_r Her-
meticum I (Pímamler), 29.
125. Hic reueretur: cfr. Prov., 30, 30-31; LU(IRE7.IO, IV 712-
17; PLINIO, Nat. lazirl., VIII 52 e X 47; POLIZIANO, Rurtícur, 270; FI-
(ZINO, De vita, III 14 (in Opera, vol. I, p. 550): «Nec alia ratione leo
veretur gallum, nisi quoniam in ordine Phoebeo gallus est leone
superior››.
126. Hic ille legímur: cfr. lo/J, 38, 36: «quis dedit gallo intelli-
gentiam?››; e anche FICINO, C0mmem'aríolu.r in .rymløola Pythago-
rac, p. 102: «Sapientia enim gallo a Deo data in libro Iob manifeste
asseveratur». Come scrive CICOGNANI, p. 1 12, «l'intelligenza del
gallo [...] è nella coincidenza dell`ora del suo canto con l'ora critica
dell”universo solare: l'ora in cui finisce la notte e nasce il sole, il di-
vino intelletto a cui egli è consacrato››.
123-129 61

dre e signore. Infine ci raccomanderà di nutrire il gal- 124


lo, ossia di pascere la parte divina della nostra anima
con la conoscenza delle cose divine, quasi solida vi-
vanda e ambrosia celeste. Questo è quel gallo il cui 125
aspetto il leone (e cioè ogni potenza terrena) teme e
venera. Questo è quel gallo al quale leggiamo nel li- 126
bro di Giobbe esser stata concessa l'intelligenza. Al 127
canto di questo gallo l'uomo che vive nell'errore si
ravvede. Questo gallo canta ogni giorno nell'incerta 128
luce dell'aurora, quando le stelle mattutine lodano
Dio. Questo è il gallo che in punto di morte Socrate - 129
quando, ormai libero da ogni pericolo di malattia
corporea, sperava che avrebbe ricongiunto la divinità

127. Hoc re.ripzÃrcz'l: dopo l'arresto di Gesù, Pietro nego per


tre volte di conoscerlo; ma quando un gallo cantò, si ricordò della
profezia del Maestro («antequam gallus cantet ter me negabis››) e
pianse amaramente (cfr, Mt., 26, 69-75; Mr., 14, 66-72; Lc., 22, 55-
62; Io/9., 18, 16-27). Cfr. ancora FICINO, Commenlaríolux in rymbo-
la Pyt/øagorac, p. 102: «eo canente Petrus Apostolus teste Evange-
lio resipiscit››.
128. Hic gallur laudanli/›u.t: cfr. Iob, 38, 7: «cum me lauda-
rent simul astra matutina». Crepurculum nel senso (qui specificato
dall'agget1ivo malulz'/zum) di `prima luce dell'alba” (díluculum) ri-
corre nel latino cristiano; il sintagma matutino crc'pu.rculo è in
CLAUDIO MAMI-LII'I`IN(), Gratiarum actío dc co/1.tula!u suo, 28.
129. Hunt dixíl: cfr. PI./\'I`()NIi, P/Jaedo, 118a: «E già le parti
del suo corpo attorno al ventre erano pressoché fredde, quando,
scoprendosi, perché prima si era coperto, disse queste parole, e fu-
rono le ultime sue: “Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio: date-
glielo, non dimenticatevene!”». Gli antichi erano soliti sacrificare
un gallo ad Esculapio, dio della medicina, quando guarivano da
una malattia (cfr. FICINO, Lcllcre, I 80, p. 140: «Non igitur Escula-
pio gallum, sed Christo Matrique animum corpusque debeo»); So-
crate, ricordando quest”usanza a Critone, vuole ribadire il suo pas-
saggio dalla vita corporea (soggetta alle malattie e alla morte) a una
vita più vera, quella dell'anima unita per l`eternità al divino (cfr.
ancora P/merlo, 8od-81a).
62 DISCORSO SULLA DIGNITÀ DELL,UOMO

ret, Esculapio, idest animarum medico, iam extra


omne morbi discrimen positus, debere se dixit.
130 Recenseamus et Chaldeorum monumenta: videbi-
mus (si illis creditur) per easdem artes patere viam
131 mortalibus ad felicitatem. Scribunt interpretes Chal-
dei verbum fuisse Zoroastris alatam esse animam,
cumque alae exciderent ferri illam praeceps in cor-
pus, tum illis subcrescentibus ad superos revolare.
132 Percunctantibus eum discipulis quo pacto alis bene
plumantibus volucres animos sortirentur, «Irrigetis ~
133 dixit - alas aquis vitae». Iterum sciscitantibus unde
has aquas peterent, sic per parabolam (qui erat homi-
nis mos) illis respondit: <<Quatuor amnibus paradisus
Dei abluitur et irrigatur; indidem vobis salutares
134 aquas hauriatis. Nomen ei qui ab aquilone [...], quod

13o. Chaldeorum monumenta: per gli studi (e i libri) caldaici di


Pico, compiuti sotto la guida di Flavio Mitridate, cfr. V(/IRSZUBSKI,
E/acounter, pp. 241 -44; e la già ricordata lettera di Pico a Ficino, da
Fratta, non datata ma assegnabile al novembre 1486: «Animarunt
autem me atque adeo agentem alia vi compulerunt ad Arabum lit-
teras Chaldaeorumque perdiscendas libri quidam utriusque lin-
guae, qui profecto non temere aut fortuito, sed Dei consilio et meis
studiis bene faventis numinis ad meas manus pervenerunt. [...]
Chaldaici hi libri sunt, si libri sunt et non thesauri: in primis Ezrae,
Zoroastris et Melchiar magorum oracula [...] Tum est in illa Chal-
daeorum sapientum brevis quidem et salebrosa, sed plena miste-
riis, interpretatio. Est itidem'et libellus de dogmatis Chaldaicae
theologiae, tum Persarum, Graecorum et Chaldaeorum in illa divi-
na et locupletissima enarratione» (Commentatz'oner, ff. TT i u - ii r
= Opere complete, epistole di Pico, XX).
1 31 _ Scribunt revolare: cfr. PSELLO, Summaria et brevi; dogma-
tum C/aaldaícorum exporilio, in PG CXXII, 1152d; ma cfr. anche
PLATONE, P/.›aea'r., 246c: «Quando essa [rcz'l. l'anima] è perfetta ed
alata, vola in alto e governa tutto quanto il mondo. Ma una volta
che abbia perduto le ali, viene trascinata giù fino a quando non si
aggrappi a qualcosa di solido, e, trasportata la sua dimora in esso, e
preso un corpo terroso, per la potenza di essa questo sembra muo-
129-134 63
del suo animo a quella dell'universo - disse di dovere
ad Esculapio, ossia al medico delle anime.
Passiamo in rassegna anche gli scritti dei Caldei: 130
constateremo (se prestiamo loro fede) che attraverso
queste medesime arti si apre ai mortali la via verso la
felicità. Gli interpreti caldei scrivono essere sentenza 131
di Zoroastro che l°anima è alata, e che quando le sue
ali cadono essa precipita nel corpo, mentre, quando
rispuntano, ritorna a volo verso gli dei. E ai suoi di- 132
scepoli, che gli chiedevano in qual modo potessero
ottenere in sorte anime capaci di volare con ali folte
di piume, «Irrorate le ali - disse - con le acque della
vita››. E avendogli essi ancora domandato donde po- Isa
tessero attingere queste acque, così egli rispose loro -
com`era suo costume - per mezzo di una parabola:
«Il paradiso del Signore è bagnato e attraversato da
quattro fiumi; da lì attingete le acque per voi salutari.
Il nome del fiume che scorre da settentrione è [...], 134

versi da sé››; 249c: «solo l'anima del filosofo mette le ali» (e anche
FICINO, Comm. in Conu., IV 4, pp. 172-73; Ißttere, I 6 [De a'iz/mo
furon'], p. 21' PICO Commento ai Salmi, p. 168: «nos, resolutis alis
quas paravit nobis artifex Pater, cadimut in torrentem iniquitatis»).
Per gli <<interpretes Chaldei›› cfr. la lettera pichiana al Ficino qui ci-
tata alla nota precedente; il testo cui Pico si riferisce doveva essere,
evidentemente, un'illustrazione dei Carmina di Zoroastro,
132. Percunclanttløur vitae: fonte non identificata. Per questi
misteriosi «interpretes Chaldei›› cfr. qui le note ai §§ 130-131 (e
cfr. Introduzzone, p. XI.).
133. qui moi": cfr. PI(`,(), Crmclurionei', p. 116 (= Conclu.\*1'one.\'
tlc intelligentia dictorum Zoroa.\'trir, Io): «et ipsi lxcil. Chaldaei] si-
cut et Zoroaster aenigmatice loquuntur››.
134. Nomen meridia: per queste quattro lacune, cfr. la Nola al
ter/0, pp. 173-74. Per i quattro biblici fiumi del paradiso terrestre,
cfr. Gen., 2, 10-14: «Et fluvius egrediebatur de loco voluptatis ad
irrigandum paradisum, qui inde dividitur in quatuor capita. No-
men uni Phison [...] Et nome fluvii secundi Gehon [...] Nomen ve-
64 Dtscoaso SULLA DIGNITA DELL”uoMo

“rectum” denotat; ei qui ab occasu [...], quod “expia-


tionem” significat; ei qui ab ortu [...], quod “lumen”
sonat; ei qui a meridie [...], quod nos “pietatem” in-
135 terpretari possumus››. Advertite animum et diligenter
considerate, patres, quid haec sibi velint Zoroastris
dogmata: profecto nihil aliud nisi ut morali scientia,
quasi undis Hibericis, oculorum sordes expiemus;
dialectica, quasi boreali amussi, illorum aciem linee-
mus ad rectum; tum in naturali contemplatione debi-
le adhuc veritatis lumen, quasi nascentis solis incuna-
bula, pati assuescamus, ut tandem per theologicam
pietatem et sacratissimum deorum cultum, quasi cae-
lestes aquilae, meridiantis solis fulgidissimum iubar
fortiter perferamus.
136 Hae illae forsan et a Davide decantatae primum, et

ro fluminis tertii, Tigris [...] Fluvius autem quartus, ipse est Euph-
rates» (C PICO, Conclurioner, p. 56 = Conclusione; secundum doctri-
nam rapicntum Hebraeorum Ca/aalirtarum, 1 1).
1 35. profecto perferamur: le quattro discipline attraverso cui si
snoda il percorso gnoseologico tracciato da Pico sono paragonare ai
quattro punti cardinali, dai quali si dipartono i quattro fiumi para-
disiaci (cfr. il § precedente): lioccidente rappresenta la filosofia mo-
rale (che con le sue undae Hibericac - ossia le acque del Mediterra-
neo occidentale -lava le lordure degli occhi: l'accenno alla Spagna
potrebbe forse nascondere un'allusione a «Seneca morale››, nativo
di Cordova), il settentrione la dialettica (che, con la sua boreale li-
vella, aiuta a dirigere rettamente lo sguardo, dissipando le nebbie
della ragione: cfr. § 71, e Commento ai Salmi, p. 226, dove si affer-
ma che il settentrione «serenitatem indicit››), l'oriente la filosofia
naturale (che, con la sua debole luce, simile a quella del sole na-
scente, ci avvicina alla conoscenza di Dio), il meridione la teologia
(che ci consente di contemplare in tutto il suo splendore la luce so-
lare della divinità). Cfr. al riguardo la nota del CI(;0(;N/\NI, pp. 42-
43, e BAUSI, Nec r/aeior, pp. 11 8-19 e 136 (anche per le rarissime vo-
ci borealis e meridiare). Da notare anche i due omeoteleuti, fra loro
consonanti: expiemur / lineemur e arruercamus / perferamus.
136. Hae cognitiones: cfr. Pr., 54, 18: <<Vespere et mane et me-
134-136 65

che significa “giustizia”; di quello che scorre da occi-


dente è [...], che vuol dire “espiazione”; di quello che
scorre da oriente è [...], che vale “luce”; di quello che
scorre da mezzogiorno è [...], che possiamo tradurre
con “pietasu ››. Meditate e considerate con attenzione, I

o padri, quale sia il senso di queste affermazioni di


Zoroastro: senza dubbio, nessun altro se non quello
di esortarci a detergere con la filosofia morale, quasi
con le iberiche onde, la sporcizia degli occhi; ad alli-
neare rettamente il loro sguardo attraverso la dialetti-
ca, come con una boreale livella; quindi ad avvezzarli,
nella contemplazione della natura, a sopportare l'an-
cor debole luce della verità, quasi primi raggi del sole
nascente, finché, per mezzo della pietà teologica e del
santissimo culto divino, giungiamo a sostenere intre-
pidamente, quasi fossimo aquile celesti, il fulgidissi-
mo splendore del sole meridiano.
Queste sono forse quelle conoscenze mattutine, I

ridie narrabo et annuntiabo, et exaudiet vocem meam››. Secondo


Agostino, le conoscenze mattutine, meridiane e vespertine concer-
nono, nell'ordine, le cose future, quelle eterne e quelle passate (cfr.
Enarr. in Pr., 54, 18 = PL XXXVI, 640: «Evangeliza tu, noli tacere
tu quod accepisti, uerpere, de prateritis; mane, de futuris; meridie,
de sempiternis. [...] In meridie enim lux excelsa est, splendor sa-
pientiae, fervor dilectionis. [...] Vespere Dominus in cruce, mane
in resurrectione, meridie in ascensione: enarro Vespere patientiam
morientis, annuntio mane vitam resurgentis, orabo ut exaudiat me-
ridie sedens ad dexteram Patris»). Qui però Pico ha forse in mente
un altro luogo agostiniano (De Generi ad litteram, IV 30, 47 = PL
XXXIV, 316), dove il pieno giorno è identificato con la contem-
plazione di Dio, il vespero con la conoscenza di se stesso da parte
dell”uomo, il mattino con la lode del Creatore che da questa cono-
scenza scaturisce («ubi [_rcil. nella patria celeste] semper est dies in
contemplatione incommutabilis veritatis, semper vespera in cogni-
tione in seipsa creaturae, semper mane etiam ex hac cognitione in
laude Creatoris. Quia non ibi abscessu lucis superioris, sed inferio-
66 Discokso suLLA DIGNITA DE1.L”UoMo

ab Augustino explicatae latius, matutinae, meridia-


137 nae et vespertinae cognitiones. Haec est illa lux meri-
dialis quae Saraphinos ad lineam inflammat et Cheru-
138 binos pariter illuminat. Haec illa regio quam versus
139 semper antiquus pater Abraam proficiscebatur. Hic
ille locus ubi immundis spiritibus locum non esse et
Cabalistarum et Maurorum dogmata tradiderunt. Et
140 si secretiorum aliquid mysteriorum fas est vel sub
enigmate in publicum proferre, postquam et repens e
caelo casus nostri hominis caput vertigine damnavit
et - iuxta Hieremiam - ingressa per fenestras mors
iecur pectusque male affecit, Raphaelem coelestem
medicum advocemus, qui nos morali et dialectica uti
141 pharmacis salutaribus liberet. Tum ad valitudinem
bonam restitutos iam Dei robur Gabriel inhabitabit,

ris cognitionis distinctione fit vespera; nec mane tamquam nocti


ignorantiae scientia matutina succedat, sed quod vespertinam
etiam cognitionem in gloriam conditoris attollat››). Nell'ottica pi-
chiana, dunque, il vespero corrisponde alla filosofia morale, il mat-
tino (cioè l'oriente) alla filosofia naturale e il mezzogiorno alla teo-
logia (cfr. la nota precedente).
137. Haec illuminat: cfr. sopra, §§ 53-65 e note relative. Nel
senso di `meridiano', l'aggettivo meridialir è attestato solo nel com-
mento di Calcidio al Timeo platonico (e si noti qui la triplice varia-
iio operata da Pico ai §§ 135-37: meridiantis, meridianae, meridia-
lir). Qui - come ai due §§ seguenti - viene designato il mezzogior-
no, inteso quale simbolo della perfetta conoscenza teologica (cfr. le
due note precedenti).
138. Haec illa proƒicircebatur: si tratta ancora del mezzogior-
no, verso cui si diresse Abramo: cfr. Gen., 12, 9: «Perrexitque
Abram vadens, et ultra progrediens ad meridiem››, e PICO, Conclu-
rioner, p. 56 (= Conclurioner secundum doctrinam sapientum He-