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MATEMATICA

FUNZIONI
Dati due insiemi di numeri reali A e B, una funzione da A a B è una legge che ad ogni elemento di A fa corrispondere uno ed un
solo elemento di B.

DOMINIO: dove le funzione è definita.

FUNZIONE INIETTIVA: se elementi distinti hanno immagini distinte.


FUNZIONE SURIETTIVA: se per ogni elemento di Besiste un elemento di A che rispetta la funzione f (x).
FUNZIONE BIUNIVOCA: contemporaneamente iniettiva e suriettiva.

FUNZIONE INVERSA: una funzione biunivoca si dice che è invertibile. La funzione da B ad A , che ad ogni elemento di B fa
corrispondere un elemento di A che rispetta la funzione f (x), si chiama funzione inversa.

FUNZIONE MONOTONA: una funzione è monotona se si verifica una delle seguenti condizioni:
 f (x) STRETTAMENTE CRESCENTE se x 1< x2
 f (x) CRESCENTE se x 1 ≤ x 2
 f (x) STRETTAMENTE DECRESCENTE se x 1> x2
 f (x) DECRESCENTE se x 1 ≥ x 2

MASSIMO: sia A un insieme di numeri reali, il massimo di A è un numero M dell’insieme A che è maggiore o uguale ad ogni
elemento dell’insieme.

MINIMO: sia A un insieme di numeri reali, il minimo di A è un numero M dell’insieme A che è minimo o uguale ad ogni elemento
dell’insieme.

ESTREMI: se un insieme è limitato superiormente esiste l’ESTREMO SUPERIORE ed è un numero reale. Analogamente, se un insieme
è limitato inferiormente esiste l’ESTREMO INFERIORE ed è un numero reale.

VETTORI
Un vettore è un’entità definita da un valore numerico, una direzione e un verso.

LIMITI DI UNA FUNZIONE


Un numero reale a, è il LIMITE della successione an.

SUCCESSIONE: è una funzione da N a R che, ad ogni numero naturale n, associa un solo numero reale a n.

TEOREMA DEI CARABINIERI: siano a n , b n e c n tre successioni tali che a n ≤ bn ≤ c nse il limite di a n è uguale al limite di b n uguale
ad a , allora anche la successione c n è CONVERGENTE e uguale ad a .

TEOREMA DI WEIERSTRASS: sia f (x) una funzione continua in un intervallo chiuso e limitato [a , b], allora f (x) assume un
massimo e un minimo in [a , b].

TEOREMA DELL’ESISTENZA DEI VALORI INTERMEDI: una funzione continua in un intervallo [a , b] assume tutti i valori compresi tra
f (a) e f (b) .
DERIVATA DI FUNZIONI
Per sapere il tasso con cui varia una velocità, il valore medio nell’intervallo t è uguale a:
H ( t +h )−H (t)
h
Questo rapporto viene definito come RAPPORTO INCREMENTALE.
Sia f (x) una funzione definita nell’intervallo ¿ a , b ¿ e x sia appartenente a ¿ a , b ¿, se esiste il limite del rapporto
incrementale, tale limite è la DERIVATA.

La derivata di una costante è sempre uguale a 0 .

Una funzione continua può essere non derivabile: f (x)=¿ x ∨¿


Una funzione derivabile in x è sicuramente continua in x .

TEOREMA DI DERIVAZIONE DELLE FUNZIONI INVERSE: sia f (x) una funzione continua e strettamente crescente (o strettamente
decrescente) in un intervallo [a , b]. Se f (x) è derivabile in un punto x appartenente a (a , b)e se f ’ ( x)≠ 0, allora anche f −1
è DERIVABILE nel punto y=f (x ) e la derivata vale:
1 1
D f −1 ( y )= =
f ' (x) f '( f −1 ( x ))

SIGNIFICATO GEOMETRICO DELLA DERIVATA: fare la derivata in un punto equivale a determinare il coefficiente angolare della retta
tangente a quel punto.

EQUAZIONE RETTA SECANTE: y=f ( x 0 ) +f ' (x 0)( x−x 0 )

TEOREMA DI FERMAT: sia f (x) una funzione definita in [a , b], e sia x 0 un punto di massimo o di minimo relativo interno ad
[a , b]. Se f (x) è derivabile in x 0, risulta f ’ ( x 0)=0.

TEOREMA DI ROLLE: sia f (x) una funzione continua in [a , b] e derivabile in (a , b). Se f (a)=f (b), esiste un punto x 0
appartenente a (a , b), per cui f ’ ( x 0)=0.

TEOREMA DI LAGRANGE: sia f (x) una funzione continua in [a , b] e derivabile in (a , b). Esiste un punto x 0 appartenente a
f ( b )−f (a)
(a , b), per cui: f ' ( x 0 )=
b−a

f ( x +h , y )−f ( x , y )
DERIVATE PARZIALI: si definisce derivata parziale di f rispetto ad x nel punto ( x , y ), il limite: lim in
h→ 0 h
cui y è considerato un parametro.

GRADIENTE: se la funzione f ammette derivate parziali f x e f y in un punto ( x , y ), in tale punto si definisce il gradiente di f ,
indicato con gradf , oppure Df , come il vettore di R2, avente per componenti le derivate parziali di f .

DIFFERENZIALE DI UNA FUNZIONE


Si chiama differenziale di una funzione y=f (x )relativo al punto x e all’incremento Δx , il prodotto della derivata f ’ ( x) per
l’incremento Δx . Se f è differenziabile in ( x , y ), la quantità f x ( x , y ) h+f y (x , y )k è detta il differenziale di f in ( x , y ).
TEOREMA DEL DIFFERENZIALE: se una funzione f ammette derivate parziali prime continue in un punto ( x , y ), allora f è anche
differenziabile in ( x , y ).

INTEGRALI DEFINITI
L'integrale definito di una funzione f (x)in un intervallo [a , b] è un numero reale che misura l'area S compresa tra la funzione e
l'asse delle ascisse, delimitata dai due segmenti verticali che congiungono gli estremi [a , b] al grafico della funzione.
b

∫ f ( x ) dx ¿
a

ADDITIVITÀ: se a , b , c sono tre punti di un intervallo, dove la funzione f (x) è integrabile, allora:
b c b

∫ f ( x ) dx=∫ f ( x ) dx +∫ f ( x ) dx
a a c

LINEARITÀ: se f e g sono funzioni integrabili in [a , b] e se c è un numero reale, anche f +g e c ∙ f sono integrabili in [a , b] e


risulta:
b b b

∫ [ f ( x ) + g ( x ) ] dx =∫ f ( x ) dx +∫ g ( x ) dx
a a a
b b

∫ c ∙ f ( x ) dx =c ∙∫ f ( x ) dx
a a

CONFRONTO: se f e g sono funzioni integrabili in[a , b] e se f (x) ≤ g ( x) per ogni x appartenente a [a , b], allora:
b b

∫ f ( x ) dx ≤∫ g ( x ) dx
a a

MEDIA: sia f una funzione continua in [a , b], esiste un punto x 0 appartenente a [a , b], tale che:
b

∫ f ( x ) dx=f (x 0 )∙(b−a)
a

INTEGRALI INDEFINITI
x
Sia f una funzione continua nell’intervallo [a , b]. La funzione integrale F (x), definita in F ( x )=∫ f ( t ) dt è derivabile e la
a
derivata è:
F ' ( x )=f ( x ) ∀ x ∊[a ,b ]

PRIMITIVE: una funzione F (x) è una primitiva di f (x) se F (x) è derivabile in [a , b] e F ’ ( x)=f ( x ) per ogni x
appartenente a [a , b].

FORMULA FONDAMENTALE CALCOLO INTEGRALE: sia f una funzione continua in [a , b]. Sia G una primitiva di f , allora:
b

∫ f ( x ) dx=[G ( x ) ]ba=G ( b )−G(a)


a
Si indica con t la variabile di integrazione. Le funzioni F e G sono entrambe primitive della funzione f . Esiste una costante c :
x
G ( x ) =F ( x )+ c=c +∫ f ( t ) dt ∀ x ∊[a , b]
a
Per x=a si ha:
a
G ( a )=c+∫ f ( t ) dt =c
a
E sostituendo il valore trovato precedentemente al posto di c si ha:
x
G ( x ) =G ( a ) +∫ f ( t ) dt
a

DEFINIZIONE DI INTEGRALE INDEFINITO: sia f una funzione continua in un intervallo [a , b]. L’insieme di tutte le primitive di f in
[a , b] si chiama integrale indefinito di f .

REGOLE DI INTEGRAZIONE
INTEGRAZIONE PER DECOMPOSIZIONE IN SOMMA:

∫ x+x 1 dx=∫ x+1−1


x +1
dx=∫ ( 1−
1
x +1 ) dx=∫ 1 dx−∫
dx
x +1
=x−log|x +1|+ c

INTEGRAZIONE PER PARTI: se in un intervallo, f e g sono due funzioni derivabili con derivata continua, risulta:
' '
∫ f ( x ) g ( x ) dx=f ( x ) g ( x )−∫ f ( x ) g ( x ) dx
INTEGRAZIONE PER SOSTITUZIONE: se f è una funzione continua e g è una funzione derivabile con derivata continua, si ha:
'
[∫ f ( x ) dx ] x=g (x)=∫ f ( g ( t ) ) g ( t ) dt

INTEGRALI IMPROPRI
+∞ 1
1 1
Integrali come ∫ 2
dx e ∫ dx sono definiti integrali impropri.
1 x 0 √x
+∞

∫ f ( x ) dx =blim
→+∞
F (b)
a
L’integrale improprio è detto CONVERGENTE se il limite è finito e DIVERGENTE se il limite è +∞.

CRITERIO DEL CONFRONTO: si supponga che nell’intervallo¿ risulti 0 ≤ f ( x )≤ g(x ). Se l’integrale improprio relativo alla
funzione g nell’intervallo ¿ è convergente, allora anche l’integrale improprio relativo alla funzione f nell’intervallo¿ è
convergente.

FISICA
Studia l’origine dei fenomeni naturali che hanno luogo nel nostro universo.
MISURE
MISURA DIRETTA: quando si confronta direttamente la grandezza misurata con l’unità di misura.

MISURA INDIRETTA: non si misura la grandezza che interessa, ma altre che risultino legate ad esse da qualche relazione.

ERRORI
Una volta trovato l’errore presumibile Δ x (ERRORE ASSOLUTO) da cui è affetta la misura x 0 di una grandezza x , il rapporto:
Δx
∈=
|x 0|
prende il nome di ERRORE RELATIVO.

CINEMATICA
La MECCANICA si occupa della descrizione dei moti dei corpi e delle forze che sono responsabili dei moti. Viene divisa in:
 CINETICA: studia i moti a prescindere dalle cause che li generano.
 STATICA: studia le condizioni di equilibrio dei corpi (quando la somma delle forze è nulla).
 DINAMICA: studia i collegamenti tra la forza e il moto.

s il tratto di traiettoria
POSIZIONE: la traiettoria del moto è la linea descritta dal punto durante il suo moto. Se si indica con
percorso da un punto materiale nel tempo t , il moto è descritto quando si conosce la relazione tra s e t , che prende il nome di
LEGGE ORARIA: s=s (t). Conoscendo le tre coordinate del punto rispetto ad un sistema di assi cartesiani assunto come fisso, il
moto viene descritto mediante le tre funzioni del tempo: x=x ( t ) y= y ( t ) z=z (t) .
Δr=r f −r i=( x f −xi ) i+ ( y f − y i ) j+ ( z f −z i ) k

VELOCITÀ: per un punto materiale che impiega un tempo Δt =t f −t i per spostarsi da A a B identificati da r i e r f è definita la
r f −r i Δr Δr dr
VELOCITÀ MEDIA come: v m= = . Quando Δt → 0 si ha la VELOCITÀ ISTANTANEA: v= lim = .
t f −t i Δt Δt →0 Δt dt

v ( t 2) −v (t 1 )
ACCELERAZIONE: l’ACCELERAZIONE MEDIA è definita come: a m= mentre l’ACCELERAZIONE ISTANTANEA è
t 2−t 1
Δv dv d 2 r
definita come: a= lim = =
Δt →0 Δt dt d t 2

MOTO RETTILINEO UNIFORME: il moto di una particella a velocità v f =v i costante in modulo, direzione e verso.
x=x i +v i t
MOTO RETTILINEO UNIFORMEMENTE ACCELERATO: ha accelerazione costante.
v xf =v xi +a x t
Se l’accelerazione è costante, la velocità media si può definire come:
1
v m= ( v xi + v xf )
2
Da cui si deduce che:
1
Δx =x f −xi =v m t= ( v xi +v xf ) t
2
Cioè:
1 1
x f =xi + ( v xi + v xf ) t=x i+ v xi t + a x t 2
2 2
Ottenendo t e sostituendolo all’equazione precedente si può dedurre:
v xf 2=v xi2 +2 ax (x f −x i)
Se è nota l’accelerazione, si ottiene la velocità integrando:
x
v ( t )=x 0 +∫ a ( t ) dt
0
Dalla velocità, allo stesso modo, si ottiene la posizione:
x
x ( t )=x 0 +∫ v ( t ) dt
0

MOTO PARABOLICO UNIFORMEMENTE ACCELERATO: per descrivere la legge oraria si consideri un sistema di assi cartesiani
ortogonali XY di cui uno dei due sia diretto verso a
⃗ . Si deve scomporre il moto nelle due componenti: su Y agisce a⃗
uniformemente accelerato, mentre su vx = ⃗
X non agisce alcuna accelerazione (moto uniforme con ⃗ v xi = costante).
y
v xi=v i cos α i

v yi=v i sen α i vi

x f = y i+ v xi t=v i cos α i t α

1 1 x
y f = y i +v yi t− g t 2=v i sin α i t − g t 2
2 2
Le componenti del vettore velocità sono:
v xf =v xi=v i cos α i
v yf =v yi −¿=v i sin α i−¿
La traiettoria è una parabola e si ricava t dalla componente x dell’equazione del moto e la si sostituisce a quella delle y :
g
y f =tan α i x f −( 2 2
) xf 2
2 vi cos α i
Si può utilizzare quest’ultima equazione per determinare il tempo t per raggiungere il punto più alto della traiettoria:
αi
t f =v i sin
g
Che fornisce l’altezza massima del moto:
2 2 αi
h=v i sen
2g
La gittata è la distanza alla quale il corpo ritorna di nuovo a terra:
2 2 αi
R=v i sin
g

MOTO CIRCOLARE UNIFORME: moto di un punto P che si muove lungo una circonferenza con velocità di modulo costante.
La VELOCITÀ ANGOLARE MEDIA è il rapporto tra l’angolo Δα descritto dal raggio R e il tempo Δt impiegato a percorrerlo:
α −α i Δα
ω m= f =
t f −t i Δt
La VELOCITÀ ANGOLARE ISTANTANEA è data invece dal limite Δt → 0 di ω m:

ω= lim
Δt →0 dt

L’ACCELERAZIONE ANGOLARE MEDIA è:


ω f −ω i Δω
a m= =
t f −t i Δt
L’ACCELERAZIONE ANGOLARE ISTANTANEA è:
Δω dω
a= lim =
Δt →0 Δt dt
L’ACCELERAZIONE LINEARE è data dalle equazioni precedenti:
|v⃗f − v⃗i| v i vi 2 v 2 2
a= =v i ω=v i = = =ω R
Δt R R R
Il PERIODO DI ROTAZIONE della particella in un moto circolare uniforme, si ottiene dividendo la lunghezza della circonferenza per la
2 πr
velocità: T=
v

MOTO CIRCOLARE NON UNIFORME E MOTO GENERICO SU TRAIETTORIA CURVA: per un moto generico curvo a velocità non
costate, l’accelerazione varia da punto a punto e ha una componente radiale e una componente tangenziale:
a=ar + at
L’ACCELERAZIONE TANGENZIALE è data dalla variazione del modulo della velocità:
d |v| d d d dω
a t= = = = =r =rα
dt ds rdα dt ( rω ) dt
dt ( ) ( )
dt
dt
dt
Il modulo dell’accelerazione radiale è dato dalla variazione del vettore velocità:
v2
a r=
r

MOTO ARMONICO SEMPLICE: la FREQUENZA u è il numero di oscillazioni in un secondo.


Il PERIODO T è il tempo necessario per effettuare un ciclo, ossia un’oscillazione completa:
1
T=
u
Un movimento che si ripete ad intervalli regolari è detto MOTO ARMONICO o PERIODICO. Per questo moto, lo spostamento di un
punto materiale rispetto all’origine è una funzione del tempo del tipo:
x ( t )=x m cos ( ωt +φ )
Siccome x ( t )=x (t +T ) ponendo φ=0 si ha:
x m cos ( ωt )=x m cos [ ω ( t +T ) ]
Il coseno effettua un periodo in 2 π radianti, quindi deve essere:

ω ( t +T )=ωt +2 π → ωt=2 π → ω= =2 πu
T
Lo SPOSTAMENTO è uguale a:
x ( t )=x m cos ( ωt +φ )
La VELOCITÀ del moto è uguale a:
dx
v ( t )= [ x cos ( ωt +φ ) ] =−ω x m sin ( ωt+ φ )
dt m
L’ACCELERAZIONE del moto è uguale a:
dv d
a ( t )= = [−ω x m sin ( ωt+ φ ) ]=−ω2 x m cos ( ωt + φ ) → a ( t )=−ω 2 x (t)
dt dt
DINAMICA
Si vuole capire cosa provoca il moto studiato nella cinematica e chi è responsabile della variazione di velocità e quindi
dell’accelerazione di un corpo.

PRIMO PRINCIPIO DELLA DINAMICA: ogni corpo persevera nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, finché non
intervenga alcuna forza dall’esterno a modificare lo stato.

SECONDO PRINCIPIO DELLA DINAMICA: l’accelerazione subita da un corpo è, in ogni istante, proporzionale alla forza risultante R
agente su di esso e inversamente proporzionale alla sua massa. La forza risultante è la somma delle forze agenti su un corpo:
F =Ʃ i ⃗
⃗ F i=m ⃗a
TERZO PRINCIPIO DELLA DINAMICA: dati due corpi 1 e 2, se il corpo 1 esercita una forza F 12 sul corpo 2, il corpo 2 esercita su 1
la forza F 21 ossia la forza avente il modulo, la direzione, nonché la retta di applicazione di F 12 e il verso opposto:
F 12=−⃗
⃗ F21

QUANTITÀ DI MOTO E CONSERVAZIONE: è una diretta conseguenza del terzo principio. Si definisce QUANTITÀ DI MOTO di un corpo
di massa m che si muove con velocità v , la grandezza vettoriale:
q⃗ =m ⃗v
Il teorema di conservazione della quantità di moto afferma che, in un sistema isolato (risultante delle forze esterne nulla), la
quantità di moto totale del sistema si conserva.

SECONDA LEGGE DELLA DINAMICA IN TERMINI DI QUANTITÀ DI MOTO:


d ⃗v d ( m⃗v ) d q⃗
F =m ⃗a=m
⃗ = =
dt dt dt

FORZA DI GRAVITÀ: forza di attrazione gravitazionale agente su di un corpo molto vicino alla Terra, dove si assume che il corpo sia
ad una distanza della superficie terrestre inferiore al raggio medio della Terra stessa:
F =m ⃗g

m 1 m2 r⃗
12
F 12=−G
⃗ 2
r r
dove G è la COSTANTE GRAVITAZIONALE ed è uguale a 6,67 ∙ 10−11 N m2 Kg−2.

La forza di attrazione gravitazionale che agisce su un oggetto di massa m , posto in vicinanza della Terra, la cui massa è indicata con
M , la forza è diretta verso il centro della Terra e ha intensità pari a:
GMm
F= 2
r
Se l’oggetto rimane in prossimità della superficie terrestre, è possibile considerare r costante e uguale al raggio R della terra:
GMm
F=
R2
GM
dove g= 2
=9,81m s−2 ed è chiamata ACCELERAZIONE DI GRAVITÀ.
R
F =m ⃗g

FORZE DI ATTRITO: è la resistenza al moto del corpo da parte del mezzo con cui è a contatto.

La forza che impedisce ad un oggetto di muoversi e contrasta il suo moto, si chiama FORZA DI ATTRITO STATICO ( f s).
f s ≤ μsn
dove μs indica il coefficiente di attrito statico.

La forza di attrito che contrasta un corpo in moto, si chiama FORZA DI ATTRITO DINAMICO ( f d ).
f d =μ d n
dove μd indica il coefficiente di attrito dinamico.
μd < μ s
La SEDIMENTAZIONE è un esempio di moto uniforme che si realizza in presenza di FORZE DI ATTRITO VISCOSE. Per una particella di
forma sferica con raggio r , la forza di attrito viscoso è data dalla LEGGE DI STOKES:
F A=−6 πɳrv
dove ɳ è la viscosità del liquido e v è la velocità della particella rispetto al liquido.

Quando la forza resistente F A uguaglia una forza agente mg+ SA , la particella, non essendo più sottoposta a forze, si muove con
velocità costante , chiamata VELOCITÀ DI TRASCINAMENTO. La condizione affinché la risultante delle forze sia nulla è:
ρVg= ρ' Vg+6 πɳrv
dove 𝜌 è la densità della particella, ρ ' è la densità del liquido e V è il volume della particella.
2 2
r g(ρ−ρ' ) ]
( ρ−ρ ) Vg 9 [
'
V= =
6 πɳr ɳ
4 2
dove, per il volume della sfera, è stato sostituito V = πr .
3

FORZA CENTRIFUGA E CENTRIFUGAZIONE: un corpo che si muove di moto circolare uniforme è sottoposto ad un’accelerazione

diretta radialmente, l’ACCELERAZIONE CENTRIPETA (


V 2 ) perpendicolare al vettore velocità.
R

Per il secondo principio della dinamica, il corpo di massa m che si muove di moto circolare uniforme, è sottoposto ad una forza

della FORZA CENTRIPETA (


mV 2 ).
R

La FORZA CENTRIFUGA è una forza apparente che si manifesta solo nei sistemi di riferimento non inerziali (accelerazione ≠ 0).

Un punto P di massa m, che si muove di moto circolare uniforme, per un osservatore fisso che vede il punto muoversi di moto
mV 2 2
circolare uniforme, il punto è sottoposto ad una forza centripeta pari a: =m ω R .
R

In un sistema non inerziale, invece, oltre la forza centripeta m ω2 R esiste una forza uguale e contraria −m ω2 R che le fa
equilibrio e che viene chiamata FORZA CENTRIFUGA.
Pertanto, la componente radiale della forza che agisce su una particella di massa m è:
F=m ω2 R−m ' ω2 R
dove m' è la massa del liquido spostato dalla particella.

La forza agente può essere scritta come:


4
F= π r 3 ω 2 R( ρ−ρ' )
3
Tuttavia, per effetto della resistenza viscosa del mezzo, si raggiunge una condizione di equilibrio in cui la forza agente eguaglia la
forza resistente di attrito viscoso. In queste condizioni, la particella sedimenta con velocità costante che, eguagliando:
4
F= π r 3 ω 2 R( ρ−ρ' ) con F A=−6 πɳrv
3
si ottiene:
2 ρ− ρ'
V = r 2 ω2 R
9 ɳ
FORZA IN UN MOTO ARMONICO: l’accelerazione, in un moto armonico, è del tipo:
a=−ω 2 x
Per il secondo principio della dinamica, le forze applicate ad un corpo che lo fanno muovere di moto armonico, devono essere:
F=ma=−mω2 x

FORZA ELASTICA: è una forza che è proporzionale allo spostamento. Se un corpo elastico viene deformato, esso sviluppa una forza
di reazione proporzionale alla deformazione e, essendo una forza di reazione, ha verso opposto.

La forza elastica (agente su una particella di massa m collegata ad una molla) obbedisce alla legge di Hooke:
F m=−kx
dove k è la costante elettrica e x è lo spostamento del corpo rispetto alla posizione di equilibrio.

Dalla seconda legge di Newton, l’accelerazione di un corpo di massa m , sottoposto alla forza elastica, è:
F m −k
a= = x
m m

Un corpo sottoposto ad una forza elastica, si muove di moto armonico con una pulsazione di:
k k
ω 2=
m
⇒ω=
m √
e, periodo e frequenza, valgono:
m 1 1 k
T =2 π
√ k
e f= =
T 2π √ m

dv d2 x −k 2 d2 x 2
EQUAZIONE DEL MOTO: a= = 2 = x=−ω x ⇒ 2 =−ω x
dt d t m d t

EQUAZIONE OSCILLATORE ARMONICO: x ( t )= A cos ( ωt+ φ )

dx d2 x 2
VELOCITÀ E ACCELERAZIONE: v= =−ω sin ( ωt +φ ) a=
=−ω A cos ( ωt +φ )
dt dt 2

MASSIMA VELOCITÀ E MASSIMA ACCELERAZIONE: quando le funzioni sinusoidali valgono ± 1.


k
v max=ωA=
m
k
A

a max=ω2 A= A
m

PENDOLO SEMPLICE: costituito da una massa puntiforme m sospesa mediante un filo ad un veicolo. Il pendolo semplice si muove
L è sottoposta ad una forza p=mg diretta verso il basso. Questa forza si
di moto periodico e la massa appesa al filo di lunghezza
può scomporre in una componente diretta nella direzione del filo (mg cos α ¿ che è resa inefficace dalla reazione vincolare del
filo, e in una componente (mg sin α ¿ con direzione normale al filo che tende a riportare il filo nella posizione di equilibrio.
d 2 s d 2 α −g
F t=mat ⇒−mg sin α =m 2 ⇒ 2 = sin α
dt dt L
La soluzione è:
α =α max cos ( ωt + φ )
La pulsazione è:
g
ω=
√ L
Il periodo è:
2π L
T=
ω
=2 π
√ g

BARICENTRO E 2a EQUAZIONE DI NEWTON: punto dove si può pensare applicata la risultante di tutte le forze peso che agiscono
sulle varie parti di un corpo rigido.

Il baricentro di un sistema di particelle si muove come una particella di massa m e con l’accelerazione del baricentro a b pari alla
massa totale del corpo, sotto l’influenza delle forze esterne agenti sul sistema:
Ʃ i⃗
F i=M ab
Il moto di un corpo può essere descritto con il moto del suo baricentro, indipendentemente dall’estensione e dalla forma del corpo.

MOMENTO DI UNA FORZA: si definisce il momento L della quantità di moto (MOMENTO ANGOLARE) di un punto materiale A
rispetto ad un punto O arbitrario, come il prodotto vettoriale:

L
O
v
r
L= AO ∙ mv=r ∙ q

m A

MOMENTO ED EQUAZIONE DEL MOTO: in un sistema di particelle è definito momento totale L della quantità di moto del sistema,
la somma vettoriale dei singoli momenti delle particelle o delle parti che compongono il corpo:
L= Ʃ i Li =Ʃ i r i ∙ q
Se sulle particelle del sistema agiscono le forze F i il momento risultante delle forze rispetto al punto O , sarà:
M= Ʃir i∙ Fi

Applicando i principi della dinamica delle particelle che costituiscono il sistema in rotazione, si può dimostrare che per esso vale la
seguente equazione di moto:
dL d ⃗p
M= ⇒ Ʃ F i=
dt dt

Un’applicazione dell’equazione del moto al caso particolare del moto di rotazione di un corpo rigido intorno ad un asse:
∆ω dω
ACCELERAZIONE: a m= e a=
Δt dt
VELOCITÀ: v=ω ∙ r
Associando al generico punto P del corpo una piccola massa m il momento della quantità di moto L di tale massa, calcolato
rispetto al punto O , proiezione di P sull’asse di rotazione, è dato da:
L=PO ∙ mv=r ∙ mv=r ∙ m(ω ∙ r )
in cui r è perpendicolare ad ω e a v quindi il modulo di L sarà:
L=ωmr 2
Ripetendo il calcolo per tutte le piccole masse m i in cui è stato scomposto il corpo, il momento angolare totale sarà:

L= Ʃ i Li =Ʃ i mi r i2 ω=Iω
in cui I è il momento di inerzia del corpo rigido rispetto all’asse di rotazione ( I =Ʃ i mi r i2).

Se si proietta l’equazione generale di un moto rotatorio di un corpo rigido sull’asse di rotazione si ottiene:
dL d(Iω) dω
Mz= = =I =Iα
dt dt dt

STATICA
F applicata in un punto
MOMENTO DI UNA FORZA: sia data una forza ⃗ P, il momento ⃗
M della forza rispetto al punto O distante
daP una distanza r⃗ , è dato da:
M =⃗r ∙ ⃗
⃗ F
Il modulo vale:
M =rF sin(α )

CONDIZIONI DI EQUILIBRIO TRASLAZIONALE E ROTAZIONALE: un punto materiale è in equilibrio se la somma vettoriale di tutte le
forze applicate al punto dà luogo ad una risultante nulla, cioè ad una forza di modulo zero:
Ʃ i⃗
F =⃗
R =0
Nel caso di un corpo con dimensioni finite, bisogna aggiungere la condizione che la risultante dei momenti di tutte le forze applicate
al corpo rispetto ad un punto qualsiasi O sia nulla:
Ʃ i⃗
M i= ⃗
M t =0

COPPIA DI FORZE: date due forze di uguale intensità ma applicate nei punti P1 e P2, che sono due rette parallele e le forze hanno
direzioni opposte, si vuole calcolare il momento risultante di queste forze.
Siccome queste due forze hanno lo stesso modulo ( ⌊ ⃗
F 1 ⌋=⌊ ⃗
F 2 ⌋), allora la risultante delle forze è nulla:
F =⃗
⃗ F 1+ ⃗
F 2=−⃗ F 1+ ⃗
F 2=0
Il BRACCIO b della coppia è la distanza tra le due rette di azione delle due forze.
Il modulo del MOMENTO RISULTANTE è:
M =Fr sin(α )=Fb

LAVORO, ENERGIA E POTENZA


Quando si devono descrivere le forze di interazione in n sistema complesso, è conveniente parlare di CAMPO DI FORZE.
1. Il CAMPO DI FORZE è un vettore presente in una regione dello spazio tale che in ogni suo punto è definibile la forza che
agisce su un corpo posto in quel punto dello spazio.
2. Vale il PRINCIPIO DI SOVRAPPOSIZIONE LINEARE dei campi: la forza in un punto di un campo generato dalla presenza di
più sorgenti è la somma vettoriale delle forze dovute ad ogni sorgente.
3. Sono definite LINEE DI FORZA di un campo, le linee che hanno come tangente, in ogni punto, la forza del campo.

LAVORO: una forza compie lavoro quando il punto di applicazione della forza si sposta.
Se la forzaF è costante in modulo, direzione e verso, e il suo punto di applicazione P si sposta di un tratto rettilineo s formante
un angolo α con la direzione F , si definisce il lavoro della forza F :
L= ⃗F ∙ ⃗s =Fs cos(α )
Il lavoro può essere positivo o negativo, a seconda che l’angolo α sia, rispettivamente, acuto o ottuso. Inoltre, il LAVORO MASSIMO
è compiuto dalla forza quando lo spostamento avviene nella direzione della forza stessa, mentre è NULLO quando lo spostamento è
normale alla direzione della forza. Se lo spostamento s e la forza F sono paralleli, si ha il caso particolare L=Fs .

Per calcolare il lavoro totale necessario per portare il corpo da x i a x f si dovranno sommare le forze F xi agenti nei piccoli tratti
∆ x i:
xf
L=∑ F xi ∆ xi
xi

Se si considera che la forza e l’angolo tra la forza e lo spostamento variano in modo continuo da x i a x f si opera il passaggio al
limite della sommatoria che porta alla definizione di integrale definito:
xf xf

lim ∑ F xi ∆ x i=∫ F x dx
∆ x i→ 0 x xi
i

ENERGIA: capacità potenziale di compiere un lavoro.

Se un corpo avente massa m si muove con una velocità v , questo corpo possiede, in virtù del suo moto, una capacità di compiere
lavoro o energia cinetica. Tanto è vero che per fermare il corpo bisogna compiere LAVORO MECCANICO o, se il corpo si arresta
bruscamente contro un ostacolo, viene prodotta nell’urto una certa quantità di lavoro meccanico e di calore.

Analogamente, un corpo pesante che si trova nel campo gravitazionale della Terra, possiede energia potenziale quando è sospeso
ad una certa altezza dal suolo. Infatti il corpo cade acquistando energia cinetica che si può trasformare in lavoro meccanico o in
altre forme di energia.

PRINCIPIO DI CONSERVAZIONE DELL’ENERGIA: in qualsiasi fenomeno fisico in cui vi è una trasformazione di una forma di energia in
un’altra, l’energia totale si conserva sempre.

È valido anche nelle reazioni nucleari in cui si può avere creazione o annichilimento di materia, pur di considerare la materia come
una forma di energia. La relazione tra la massa a riposo di un corpo e il suo equivalente in energia, è data dalla relazione di Einstein:
E=mc 2 dove c è la velocità della luce.

Per esprimere il principio generale di conservazione dell’energia si fa riferimento all’equazione di continuità dell’energia che
afferma che l’energia si trasforma, ma non scompare o appare a piacere. Per scriverla bisogna effettuare i seguenti passaggi:
 DEFINIRE UN SISTEMA: un sistema può variare in dimensioni e forma ed essere costituito da uno o più corpi e/o regioni
dello spazio;
 DEFINIRE UN SISTEMA ISOLATO: se la sommatoria delle forze agenti su esso è pari a zero o se su esso agiscono solo forze
interne. Dal punto di vista energetico, un sistema è isolato se non scambia energia e/o materia con l’ambiente.
 DISTINGUERE tra due forme in cui si possono dividere i tipi di energia presenti nell’Universo: l’energia immagazzinata da
uno o più corpi e l’energia di trasferimento dal sistema verso l’ambiente esterno o viceversa, attraverso i controlli del
sistema.
 DEFINIRE L’ENERGIA INTERNA E L’ENERGIA POTENZIALE di un sistema. L’energia interna di un sistema è correlata
macroscopicamente alla temperatura del sistema stesso, mentre microscopicamente è legata al moto delle particella
componenti un sistema e alle loro interazioni.

Si scrive l’equazione di continuità dell’energia uguagliando la variazione delle energie immagazzinate dal sistema alle energie di
trasferimento attraverso il contorno del sistema stesso (∆ E sist = ƩH ), cioè:
∆ K + ∆ U +∆ E∫ ¿= L+Q+ H +H TM + HTE +H ℜ ¿
OM

dove
Q=calore specifico, K =en ergia cinetica , H OM =energia da onde meccaniche , H TM =energia trasferita per trasfer
.
ENERGIA CINETICA E TEORIA DELL’ENERGIA CINETICA: un corpo di massa m che si muove con velocità v possiede una certa energia
cinetica k . Questa energia è legata alla massa e alla velocità del corpo dalla seguente formula:
1
k = m v2
2

Si consideri un corpo puntiforme di massa m inizialmente fermo. Si supponga che venga applicata una forza F costante in modulo,
F
direzione e verso. Sotto l’azione della forza F il corpo si muove nella direzione della forza con accelerazione a= quindi
m
acquista velocità ed energia cinetica. Per il principio di conservazione dell’energia, l’energia cinetica che il corpo acquista con
F responsabile del moto del corpo:
l’aumento della velocità deve essere uguale al lavoro compiuto dalla forza risultante
L (lavoro della forza risultante F )=∆ K (variazione dienergia cinetica)
Questo è il TEOREMA DELL’ENERGIA CINETICA e vale nel caso in cui la sola variazione del sistema sia il modulo della velocità.

Si supponga che lo spostamento avvenga in una sola direzione. Il lavoro compiuto dalla forza F è:
xf xf xf xf xf xf
dv
L=∫ F ∙ dr =∫ m∙ adx=∫ m
xi xi xi
dt
dx=∫ m
x
dv
dxi
( )( dxdt ) dx=∫ m ( dxdt ) dv=∫ m ∙ vdv= 12 m v
xi xi
f
2 1
− m vi2
2

ENERGIA POTENZIALE E FORZE CONSERVATIVE: se il lavoro che le forze compiono è nullo quando, partendo da un punto iniziale A,
un corpo viene spostato lungo una traiettoria chiusa. Se, viceversa, il lavoro non è nullo, le forze si dicono non conservative o
dissipative.

Siccome, per forze dissipative, il lavoro compiuto per andare da A a B è una quantità che dipende solo dai due punti, si può
introdurre una funzione U (r ) dei punti del campo tale per cui il lavoro si può esprimere come la differenza del valore assunto
dalla funzione nei punti A e B:
L=U ( A ) −U ( B)
Questa funzione prende il nome di ENERGIA POTENZIALE e ha le seguenti proprietà:
1. È associabile solo ad una forza conservativa;
2. Dipende solo dalla posizione;
3. La sua variazione cambia di segno e −∆ U =U ( A )−U (B) è pari al lavoro svolto dalla forza conservativa.
B
L=∫ F ∙ dr =−∆ U
A

FORZE CONSERVATIVE E NON CONSERVATIVE: il campo delle forze di attrito è non conservativo.

Nel caso del campo gravitazionale terrestre, si consideri un corpo di massa m e si immagini che questo si sposti da un punto A ad
un punto B che si trovano ad un’altezza che differisce di h . Si calcoli il lavoro fatto dalla forza peso p sul corpo per andare da A a
B
Lungo tre traiettorie diverse chiamate 1 ,2 e 3 . Se il lavoro non dipende dal percorso, si è dimostrato che il campo è conservativo.

lungoil cammino 1: L= p S AB cos (α )= ph=mgh


CAMPO DI FORZE CONSERVATIVE
{ lungo il cammino 2: L=ph+ 0= ph=mgh
lungo il cammino 3: L=0+ ph= ph=mgh

ENERGIA POTENZIALE: la formula dell’energia potenziale gravitazionale è:


U ( A )=mgh+U ( B)
Si può sempre scegliere il sistema di riferimento in modo tale che U ( B ) =0 in corrispondenza di un certo “livello” orizzontale.
L’energia potenziale associata alla forza peso è definita a meno di una costante che, nel caso considerato, è uguale a zero.

FORZA (conservativa) ENERGIA POTENZIALE

F P=mg ^j U P=mgh
m2 r m2
F G=−G(m1 2 ) U G =−G m1
r r r
1
F M =kx i^ U M= k x2
2

CONSERVAZIONE DELL’ENERGIA MECCANICA: se le forze che fanno muovere un corpo sono tutte conservative, per cui il lavoro può
essere espresso in termini di un’energia potenziale:
B
L=∫ F ∙ dr =−∆ U
A
allora, mettendo insieme le due, si ha:
∆ K =K B −K A =L=U ( A )−U ( B )=−∆ U ⇒ K B −K A =U ( A )−U ( B ) ⇒U ( B ) + K B=U ( A ) + K A
quindi, la somma dell’energia cinetica e dell’energia potenziale di un corpo che si muove in un campo di forze conservative, è
costante.
La somma dell’energia cinetica e dell’energia potenziale è detta ENERGIA MECCANICA:
K +U =Emecc
TEOREMA DI CONSERVAZIONE DELL’ENERGIA MECCANICA:
U ( A ) + K A =U ( B )+ K B=costante

FORZE NOTE:
 CAMPO GRAVITAZIONALE TERRESTRE: si considera il moto di un corpo di massa m sottoposto alla forza peso, in un corpo
che si muove dal punto A ad altezza h A con velocità iniziale V A ad un punto B ad altezza h B con velocità finale V B , si
ha:
1 1
mg h A + m V A2=mgh B + mV B2
2 2
 FORZA DI UNA MOLLA IDEALE: esercita su un corpo ad essa collegato, cioè la forza elastica di Hooke ( F=−kx ). Si
assuma che tale forza agisca orizzontalmente su un corpo collegato alla molla che striscia su un piano senza attrito.
dx
L’energia cinetica di questo corpo vale: x ( t )= A cos (ωt +φ) v= =−Aω sin(ωt+ φ)
dt
1 1
K= mv 2= mω 2 A2 sin2 (ωt +φ)
2 2
L’energia potenziale può essere determinata stimando il lavoro effettuato per spostarlo di un tratto x f −xi :
xf
1 1 1 1
Lm=∫ −K ∙ xdx= K xi2− K x f 2 =−∆ U =U i−U f ⇒ U= K x 2= K A 2 cos 2 (ωt +φ)
x i
2 2 2 2
K e U sono sempre positive e variano entrambe con il tempo. L’energia totale dell’oscillatore armonico semplice, è:
1 1 1
E=K +U= m ω2 A 2 sin2 ( ωt + φ ) + K A 2 cos 2 ( ωt +φ )= K A 2
2 2 2
L’energia dell’oscillatore è quindi una costante ed è proporzionale al quadrato dell’ampiezza. Agli estremi, punti di
1 2
massima compressione e massima elongazione della molla, si ha v=0, quindi K=0 e E=K=K max = K A .
2
Dall’espressione dell’energia totale, si ha:
1 1 1
E= m v2 + K x 2= K A 2
2 2 2
K 2 2


r =±
m√( A −x )=± ω √ A2 −x2
ATTRAZIONE GRAVITAZIONALE: è l’attrazione della Terra su una particella di massa m che si muove tra due punti A
(vettore posizione r i ) e B (vettore posizione r f ) al di sopra della superficie terrestre ( M T =massa della Terra):
Tm
F g=−G(M
⃗ )
r2
F g è conservativa, si può scrivere:
Poiché la forza dipende dalla coordinata polare r e ⃗
rf rf
dr 1 1
U f =∫ F ( r ) dr +U i=G M T ∫
ri ri r
2
rf ri (
+ U i=−G M T m − +U i
)
Ponendo U i →0 quando r i → ∞ si ottiene l’espressione dell’energia potenziale associata alla forza di attrazione
gravitazionale:
−G M T m
U=
r
che è generalizzabile a qualsiasi coppia di masse m 1 e m 2.

FORZE NON CONSERVATIVE: tra i componenti di un sistema isolato in moto agisce la forza di attrito, non conservativa. Essa
trasforma una parte dell’energia meccanica in energia interna, tramite un effetto dissipativo, che aumenta a discapito dell’energia
meccanica. Supponendo che la forza di attrito agisca sul sistema per un tratto ∆ x si può scrivere:
−f d ∆ x=∆ K+ ∆ U=∆ Emecc =−∆ e∫ ¿ ¿
La variazione di energia meccanica è uguale al lavoro della forza non conservativa (per esempio l’attrito).
CONDIZIONI DI EQUILIBRIO DI UN SISTEMA MECCANICO: dato un campo di forze conservative, si può calcolare la funzione energia
potenziale del campo. Tele funzione U (r ) è riferita all’energia potenziale di un punto fuori del campo di forze in cui l’energia
potenziale si possa assumere nulla. Se è nota l’energia potenziale, si può ricavare la forza del campo.

Si consideri il caso di un campo uniforme in una dimensione. Se in tale campo si sposta un oggetto di un tratto ∆ x , la forza
F del campo, compie un lavoro dato da:
incognita
F ∆ x =U ( A )−U ( B )=−∆U
dove ∆ U è la variazione di energia potenziale nel tratto ∆ x . Si ricava quindi la relazione tra la forza e l’energia potenziale di un
campo uniforme unidimensionale:
−∆ U
F=
∆x

Se il campo non è uniforme, la forzaF può variare da un punto a un altro del campo e, per definire la forza in un punto del campo,
si deve prendere il limite per ∆ x →0 , quindi:
−dU
F=
dx

Nell caso di un campo di forze conservative qualsiasi, la relazione tra il vettore forza del campo e la funzione energia potenziale, è:
F=−grad
ovvero:
−∂ U −∂ U −∂U
F x= F y= Fz=
∂x ∂y ∂z
Integrando ambo i membri, si ha:
xf

U f =−∫ F x dx +U i
xi
Le superfici che sono il luogo dei punti di un campo aventi la stessa energia potenziale, si chiamano SUPERFICI EQUIPOTENZIALI. Il
vettore forza del campo è sempre normale alle superfici equipotenziali. Ne segue che, se un corpo si muove lungo una superficie
equipotenziale, il lavoro fatto dalle forze del campo è nullo.

Nel caso di un corpo puntiforme in un campo conservativo, la forza applicata al corpo è nulla se il gradiente dell’energia potenziale
è nullo in quel punto del campo:
F=−gradU =0
La condizione di equilibrio equivale ad imporre che la variazione dell’energia potenziale nel punto x 0 di equilibrio sia nulla, cioè:

F=− ( dUdx ) x= x 0
=0

dU
Poiché la derivata della funzione U ( x ) nel punto x 0 fornisce la pendenza della tangente geometrica alla curva U ( x ) in
dx
quel punto, si può concludere che l’oggetto puntiforme è in equilibrio in quei punti del campo in cui l’energia potenziale è massima,
minima o presenta un flusso avente tangente orizzontale.

POTENZA: oltre al lavoro compiuto da una data forza, si deve conoscere in quanto tempo viene compiuto questo lavoro.

La POTENZA MEDIA è il rapporto tra il lavoro compiuto da una forza e il tempo impiegato per compierlo:
L
Pm =
∆t
Più in generale, è il rapporto tra l’energia adoperata da un sistema in un certo intervallo di tempo ∆ t e l’intervallo di tempo stesso.

La POTENZA ISTANTANEA è definita dalla derivata:


dL
P=
dt

RENDIMENTO: una macchina è un sistema atto a trasformare energia cinetica o potenziale di varia natura, in lavoro meccanico. In
questo processo, parte dell’energia di partenza viene persa, cioè non viene utilizzata per compiere lavoro utile. Si definisce quindi
rendimento ɳ il rapporto tra lavoro utile prodotto dalla macchina e energia impiegata per compiere tale lavoro:
L
ɳ= ∙ 100
ET
FLUIDI
PRESSIONE: si consideri una porzione di superficie ∆A interna al liquido o sulla superficie di esso. Se sulla superficie ∆ A agisce
una forza F e F n è la componente di tale normale a ∆ A , si definisce pressione P, il rapporto tra la componente normale della
forza e l’area della superficie su cui essa giace:
Fn
P=
∆A
Un fluido in equilibrio assuma la forma del recipiente che lo contiene e la superficie libera di un liquido in equilibrio è ISOBARA (tutti
i punti sono alla stessa pressione).

PRINCIPIO DI PASCAL: la variazione di pressione che si esercita in un punto della superficie limite di un fluido chiuso, si trasmette
inalterata a tutti i punti del fluido e della superficie limite (e del contenitore). Un fluido chiuso è un fluido racchiuso da una
superficie chiusa.

LEGGE DI STEVINO: se si trascurano le forze peso che agiscono sui volumetti di liquido, la pressione in qualsiasi punto di un liquido
in quiete è uguale alla pressione esistente sulla superficie limite. Se invece si tiene conto del fatto che il liquido è pesante, la
pressione all’interno di un liquido in quiete dipende dalla QUOTA, cioè dalla distanza del punto considerato dalla superficie libera
del liquido. Su un punto generico A interno al liquido si esercita, oltre alla pressione che si esercita sulla superficie e che viene
trasmessa in ogni punto del liquido per il principio di Pascal, la pressione dovuta al peso degli strati di liquido sovrastanti il punto A
. La pressione dovuta alle forze peso o forze di volume che agiscono sul liquido è detta pressione idrostatica. La pressione esistente
ad una quota h sotto la superficie libera di un liquido qualsiasi di densità ρ . Si consideri un elemento di superficie di area ΔA
immaginariamente tracciato all’interno del liquido intorno al punto A e orientato orizzontalmente. Nella direzione perpendicolare
a ΔA agisce la forza peso della colonna di liquido sovrastante di volume ΔA·h e in aggiunta, assumendo che la superficie superiore
del parallelepipedo immaginario di liquido sia esposta all’aria, la forza peso dovuta all’aria sovrastante il liquido. Il peso della
colonna di liquido è dato daP=mg, dove m=ρV =ρΔAh, mentre si assume che la forza peso dell’aria esercitata sulla
superficie di area ΔA sia esprimibile tramite la pressione atmosferica P0.

La pressione idrostatica nel punto A è:


mg
P= + P0= ρgh+ P 0
∆A
La pressione idrostatica viene detta legge di Stevino. Per il principio di isotropia delle pressioni la pressione idrostatica si esercita
identica su qualsiasi elemento di superficie ΔA contenente il punto A . Inoltre la pressione idrostatica dipende solo dalla quota h .

PRINCIPIO DI ARCHIMEDE: se un corpo solido viene immerso in un liquido omogeneo, sulla superficie del corpo si esercita un
sistema di forze dovute alla pressione idrostatica. Se al posto del corpo ci fosse un corrispondente volume di liquido, la risultante
delle forze sopraddette equilibrerebbe la forza peso del volume del liquido poiché il liquido omogeneo è in equilibrio. La situazione
non cambia sostituendo al liquido un corpo solido.

“Un corpo immerso in un liquido è sottoposto ad un sistema di forze la cui risultante è una forza verticale (SPINTA DI ARCHIMEDE),
diretta dal basso verso l’alto, avente intensità uguale all’intensità della forza peso del volume di liquido spostato”:
S A =Vρg
Si consideri un fluido in equilibrio all’interno di un contenitore e un cubo di lato h al suo interno. Ai lati del cubo le forze di
pressione si elidono a coppie sui lati opposti con una risultante di forze orizzontale pari a zero. Per la legge di Stevino, la pressione
sulla faccia inferiore del cubo è superiore di una quantità ρfgh ( ρf = densità del fluido) rispetto a quella sulla faccia superiore.
Quindi la forza agente sul cubo (dal basso) verso l’alto F basso, è maggiore di quella agente (dall’alto) verso il basso F alto.

La differenza tra le due forze costituisce appunto la spinta di Archimede diretta dal basso all’alto:
S A =Pbasso A−P alto A=∆ PA =ρfghA=ρfgV =Mg
Si può affermare che un corpo immerso in un liquido galleggia o affonda a seconda che la sua densità sia, rispettivamente, minore o
maggiore di quella del liquido. Inoltre, si può dire che normalmente un corpo solido galleggia senza rovesciarsi solo se il baricentro
del corpo si trova al di sotto del baricentro del liquido spostato.
1. OGGETTO COMPLETAMENTE IMMERSO: quando un corpo è completamente immerso in un fluido riceve una spinta verso l’alto
data da S A =ρfg V 0 , dove V 0 è il volume dell’oggetto. Se l’oggetto ha densità ρ0 si ha una forza risultante su di esso pari a:
∑ F=S A – Mg=( ρf – ρ0 ) V 0 g
Da questa formula si vede che, se la densità dell’oggetto è minore di quella del liquido, l’oggetto accelera verso l’alto, viceversa
sprofonda.
2. CORPO GALLEGGIANTE: si consideri un oggetto in equilibrio statico galleggiante su un fluido, che sia parzialmente
immerso nel fluido stesso. Il volume V del fluido spostato, pari al volume dell’oggetto sotto la superficie, risulta quindi
solo una frazione del volume V 0 dell’oggetto. La forza di Archimede è pari a:
S A =ρfgV
e la forza peso sull’oggetto è:
Mg=ρ0 V 0 g

Poiché la seconda legge di Newton applicata in direzione verticale dice che ∑ F=0, si ha:
ρo V
ρ0 V 0 g=ρfgV ⇒ =
ρf V 0

TENSIONE SUPERFICIALE: nella realtà i liquidi non sono perfettamente deformabili. Anche per i liquidi, come per i solidi, esistono
forze di attrazione tra le molecole che costituiscono il fluido. Queste forze, dette FORZE DI COESIONE, anche se deboli fanno in
modo che in taluni casi il liquido tenda ad assumere forma propria. Si trova sperimentalmente che un liquido tende sempre a
disporsi in modo da rendere minima la propria superficie libera.

Si definisce TENSIONE SUPERFICIALE, il lavoro necessario per aumentare di un’unità di area (di ∆ A ) la superficie libera di un
liquido:
L
τ=
∆A

CAPILLARITÀ: nella zona di contatto di un liquido con un solido, la superficie libera del liquido è in generale leggermente curva.

Se le forze di adesione tra le molecole del solido e del liquido sono maggiori delle forze di coesione del liquido, la superficie del
liquido è concava verso l’alto (CONCAVA).

Se le forze di adesione tra le molecole del solido e del liquido sono minori delle forze di coesione del liquido, la superficie è concava
verso il basso (CONVESSA).

La superficie concava o convessa è detta menisco. Se il liquido è contenuto in un tubo avente un diametro molto piccolo (≤1 mm,
un capillare) si osserva il fenomeno dell’innalzamento o della depressione capillare, a seconda che rispettivamente il menisco sia
concavo o convesso.

La componente lungo l’asse del capillare della forza media che la tensione superficiale τ esercita lungo la circonferenza di contatto
lunga 2 πr tra il liquido e il vetro è:
F=2 πrτ cos (α )
La componente verticale della forza peso della colonna di liquido di altezza h , è mg= ρVg=ρAhg , dove la sezione A=π r 2
ed è diretta verso il basso. La condizione di equilibrio si ottiene uguagliando le due componenti:
2
2 πrτ cos (α )=ρπ r hg ⇒2 τ cos (α )= ρrhg
è possibile ricavare la variazione di altezza raggiunta dal liquido nel capillare, che esprime la LEGGE DI JURIN:
τ cos (α )
h=2
ρgr
che consente di calcolare l’innalzamento del livello nel caso in cui il liquido bagna la parete e l’abbassamento se, al contrario, il
liquido non bagna la parete.

DINAMICA DEI FLUIDI PERFETTI


Si definisce fluido perfetto se possiede le seguenti caratteristiche:
 È INCOMPRIMIBILE, cioè la densità del fluido rimane costante nel tempo;
 NON È VISCOSO, cioè non esistono forze di attrito interne al fluido;
 Il flusso del fluido è IRROTAZIONALE, cioè il momento angolare del fluido è nullo in ogni punto.
Si dice che un fluido si muove di moto stazionario (o che il flusso è stazionario) quando la velocità delle particelle del fluido è una
funzione della posizione ma non del tempo, cioè quando la velocità con cui le particelle di un fluido transitano per una data sezione
di un condotto è costante nel tempo. Un liquido poco viscoso e incompressibile costituisce con buona approssimazione un fluido
perfetto.
EQUAZIONE DI CONTINUITÀ (PORTATA): si consideri un condotto di sezione di area S attraversato da un fluido ideale che si muove
con velocità v uguale in tutti i punti di una stessa sezione. Considerando le particelle di fluido che si trovano inizialmente sulla
sezione AB, queste, nel tempo t , si sono spostate di un tratto vt . Il volume di liquido compreso tra AB e A ' B' rappresenta
pertanto il volume di liquido che ha attraversato nel tempo t la sezione AB dei condotti. La portata, che è appunto il volume di
liquido che attraversa la sezione di un condotto nell’unità di tempo, può essere quindi espressa come:
Avt
Q= = Av
t
Se il liquido è incomprimibile e le pareti del condotto sono rigide, la portata deve essere uguale attraverso qualsiasi sezione del
condotto altrimenti ci sarebbe un aumento o una diminuzione del flusso (equazione di continuità). Se si applica la proprietà di
incomprimibilità del fluido ideale in moto fra i punti 1 e 2, si ottiene:
S ∆ x 1=s ∆ x 2
dove ∆ x 1 è il tratto di cui si sposta il fluido nel punto 1 e ∆ x 2 è il tratto di cui si sposta il fluido nel punto 2, in un intervallo ∆ t .
Dividendo ambo i membri per ∆ t , si ha:
∆ x1 ∆ x1
S =s
∆t ∆t
Per ∆ t →0 , ricordando la definizione di derivata, si ha:
v s
Sv=s v ' ⇒ =
v' S
cioè la portata nei due tratti del condotto è la stessa e le velocità nelle diverse sezioni sono inversamente proporzionali alle aree
delle sezioni stesse.

TEOREMA DI BERNULLI: è l’applicazione del principio di conservazione dell’energia al caso del moto di un fluido perfetto.

Si prendano in considerazione due sezioni di areaA1 e A2 di un condotto. Verrà considerata una porzione ben precisa di fluido in
moto (quella al tempo zero compreso fra il punto 1 e il punto 2) e le forze “esterne” agenti sul sistema fluido-Terra. La forza peso
con corrispondente energia potenziale immagazzinata dalla porzione di fluido è una forza interna al sistema e quindi le uniche forze
esterne sono rappresentate dalle forze di pressione esercitate, sull’area delle sezioni A1 e A2 della porzione del fluido oggetto
d’esame, dal fluido che si trova a sinistra e a destra della porzione considerata (con corrispondente lavoro effettuato, che
rappresenta un’energia di trasferimento). Dopo un tempo molto breve il liquido si sarà spostato in modo che la sezione A1 si è
spostata di ∆ x 1 e la sezione A2 di ∆ x 2.
Essendo la portata costante, per l’equazione di continuità, si avrà che:
A1 ∆ x 1= A2 ∆ x 2=∆ V
dove ∆ V è il volume del fluido che si sposta. Questa equazione deriva dalla incomprimibilità del fluido.

Malgrado tutta la colonna di liquido si sia mossa, la situazione finale equivale allo spostamento del volume di liquido
V 1= A 1 ∆ x 1 al posto del volume V 2= A 2 ∆ x 2.

Applicando a questi due volumi di liquido il principio di conservazione di energia, si assuma che la temperatura sia costante e che
l’unica forma di energia di trasferimento sia il lavoro L delle forze esterne di pressione (esercitate dal fluido esterno alla porzione
considerata) in modo che l’equazione di continuità, o principio di conservazione, dell’energia dà il teorema di Bernulli:
∆ K + ∆ U=L
Il lavoro L compiuto dalle forze esterne si può scrivere come:
L=P1 A 1 ∆ x1 −P2 A2 ∆ x 2=P1 ∆ V −P2 ∆ V
^
essendo P1 A 1 i=F ^
1 i la forza esercitata verso destra nel punto 1 dal fluido esterno che si trova a sinistra (e che spinge la
^
porzione considerata) e −P2 A 2 i=F ^
2 i la forza esercitata verso sinistra nel punto 2, dal fluido esterno che si trova a destra (e
che in questo caso si oppone al moto della porzione considerata).

La variazione di energia cinetica si può scrivere come:


1 1
∆ K = m v 22 − m v12
2 2
dove m è la massa del volume ∆ V . Infine, la variazione di energia potenziale del fluido in movimento, si può scrivere come:
∆ U =mg y 2−mg y 1
dove y 2 e y 1 sono le ampiezze del flusso nei punti 1 e 2.

Da tutte queste equazioni si ha:


1 1
P1 + ρ v 12+ ρg y 1=P 2+ ρ v22 + ρg y 2
2 2
che è la classica equazione di Bernulli per un fluido ideale, spesso scritta anche come:
1
P+ ρ v 2 + ρgy=costante
2
Il teorema di Bernulli afferma che la somma della pressione idrostatica, della pressione idraulica e della pressione cinetica, è
costante in qualsiasi sezione del condotto. Dividendo tutti i termini per ρg , si può anche scrivere:
2 2
P1 V 1 P2 V 2
y1 + + = y 2+ +
ρg 2 g ρg 2 g
P V2
con ciò si afferma anche che la somma dell’altezza geometrica ( h ) , dell’altezza idrostatica
( )
ρg
e dell’altezza cinetica
( )
2g
è

costante in qualsiasi sezione del condotto.

TEOREMA DI TORRICELLI: se in un recipiente contenente un liquido si pratica un foro di dimensioni molto piccole rispetto alla
sezione del recipiente ad una profondità h dalla superficie libera del liquido, la velocità con cui il liquido fuoriesce è data da:
v=√ 2 gh
Questa è la velocità con cui giunge al suolo un grave lasciato cadere da un’altezza h . In effetti, come si vede, tutto avviene come se
le particelle del liquido che fuoriescono dal foro cadessero da un’altezza h . Il teorema di Torricelli può essere dimostrato
applicando il teorema di Bernoulli, o meglio è un suo caso particolare. Si ottiene infatti:
P 0 P0 v 2
h+ = + ⇒ v=√ 2 gh
ρg ρg 2 g

MOTO LAMINARE E MOTO TURBOLENTO: un fluido reale, a differenza del fluido ideale, presenta forze di attrito interne che
ostacolano il moto di uno strato di liquido rispetto a quello adiacente. Così, se si considera il moto stazionario di un liquido reale in
un condotto, si osserva che la velocità del liquido aumenta andando dalle pareti al centro del condotto. Si può immaginare che il
moto del liquido avvenga per scorrimento di lamine sottili le une sulle altre e che fra queste lamine vi possa essere attrito. Questo
regime di moto è chiamato LAMINARE. L’entità delle forze di attrito interno in un liquido sono descritte mediante un coefficiente di
attrito interno, chiamato anche coefficiente di viscosità η .

Questo coefficiente può essere definito considerando due piani BC e AD all’interno di un fluido viscoso e distanti l . Si consideri
AD fisso e BC in moto con velocità v e si supponga che la velocità delle diverse lamine vari linearmente dall’alto verso il basso
(cioè il gradiente di velocità è uniforme nella direzione verticale y ). A causa del moto del liquido una parte del liquido ABCD
viene spostata nella porzione AEFD dopo un breve intervallo di tempo Δt , con una conseguente deformazione del liquido

F ∆x
provocata dallo scorrimento delle lamine, l’una sull’altra. Se si definisce = carico di scorrimento e = deformazione relativa
A l
e si tiene conto che in un intervallo di tempo Δt il fluido nella parte superiore si sposta di Δx=vΔt , la deformazione relativa per
unità di tempo diviene:
∆x
l v
=
∆t l
A questo punto si nota che la forzaF necessaria per mantenere in moto con velocità v il piano BC rispetto al piano AD risulta
proporzionale all’area A del piano BC ed a v , e inversamente proporzionale a l :
ɳAv
F=
l
Il coefficiente di proporzionalità ɳ è chiamato COEFFICIENTE DI VISCOSITÀ. Se il gradiente di velocità non è uniforme, l’espressione
di ɳ diventa:
F
A
ɳ=
dv
dy
Si può dimostrare, e verificare sperimentalmente, che nel moto laminare di un liquido viscoso in un condotto di lunghezza l e raggio
r , la portata Q è data da:
Q π r4
= FORMULA DI POISEVILLE
∆ P 8 ɳl
Se la velocità del liquido nel condotto viene progressivamente aumentata, aumentando la differenza di pressione agli estremi del
condotto, si osserva che quando il liquido raggiunge una certa velocità la formula di Poiseuille non è più valida. La velocità critica
per la quale la formula di Poiseuille non è più valida è:

v c=
ρr
dove R è una costante adimensionale detta costante di Reynolds che vale circa 1200, r è il raggio del tubo, ɳ la viscosità e 𝜌 la
densità assoluta del liquido.

La formula di Poiseuille non è più valida perché si ha il passaggio da un regime di moto laminare ad un regime di MOTO VORTICOSO
o TURBOLENTO, caratterizzato dalla formazione di vortici macroscopici che rimescolano il liquido tra la zona assiale e la zona
periferica del tubo. In condizioni di moto turbolento la resistenza opposta dal tubo al passaggio del liquido risulta nettamente
superiore al caso di moto laminare. Si ricordi infine che il numero di Reynolds R è costante per condotti che non offrono
irregolarità. Viceversa, in corrispondenza di strozzature o gomiti, il numero di Reynolds assume un valore nettamente più basso di
1200 e pertanto in corrispondenza di queste irregolarità il flusso del liquido diventa più facilmente turbolento.

Riguardo alla portata di un condotto in cui fluisce del liquido in regime laminare o turbolento è possibile ancora far uso della
definizione data per i liquidi perfetti. Nel caso di condotti rigidi, la portata Q e la velocita v del fluido sono legati dalla relazione:
Q= Av

GAS E SOLUZIONI
Un gas è un sistema costituito da un grande numero di atomi o di molecole che interagiscono debolmente fra di loro. Pertanto un
gas costituisce uno dei più semplici sistemi termodinamici e come tale verrà trattato nel capitolo successivo.
Lo stato fisico di un gas può essere descritto principalmente e nella maggior parte dei casi dai valori che assumono le seguenti
grandezze: pressione, volume, temperatura e densità.

In termini microscopici un gas perfetto è un gas costituito da un insieme di molecole o atomi in moto casuale, tra cui non esistono
forze a lunga distanza, e che occupano una frazione trascurabile del volume del loro contenitore. L’approssimazione con cui i gas
reali obbediscono alle leggi dei gas perfetti è tanto migliore quanto più il gas reale è lontano dalle condizioni di liquefazione.

LEGGE DI BOYLE: a temperatura costante, pressione e volume sono inversamente proporzionali:


pV =costante
Vale per un gas perfetto o rarefatto a temperatura lontane da quelle di liquefazione.

LEGGE DI GAY-LUSSAC: se un gas viene riscaldato mantenendo la PRESSIONE COSTANTE, il volume del gas a temperatura t è legato
al volume V 0 del gas a zero gradi centigradi dalla relazione:
V t =V 0 (1+αt )
Se invece un gas viene riscaldato a VOLUME COSTANTE, la pressione a temperatura t è legata alla pressione a zero gradi centigradi
dalla relazione:
pt = p0 (1+ βt)

EQUAZIONE DI STATO DEI GAS PERFETTI: Per i gas reali le tre leggi riportate sono verificate con buona approssimazione solo se i gas
sono lontani dalle condizioni di liquefazione. Si ricava:
p pV
p' = ⇒ p0 V 0 = ⇒ pV =p 0 V o (1+ αt)
1+ αt 1+αt

LEGGE DI AVOGADRO: volumi uguali di qualsiasi gas perfetto, nelle stesse condizioni di pressione e temperatura, contengono un
ugual numero di molecole e una mole di molecole di un qualsiasi gas occupa, nelle stesse condizioni di pressione e temperatura, lo
stesso volume.

Introducendo la temperatura assoluta (T ( K )=273.15+t (° C) ), è possibile riscrivere l’equazione di stato dei gas perfetti:
p0 V 0
pV = T =nRT
273,15
p0 V 0
dove è posta uguale ad una costante R detta costante dei gas perfetti. Poiché la costante R si riferisce ad una
273,15
grammomolecola è necessario moltiplicare per il numero n di grammomolecole (o moli) perché la legge valga per una quantità
qualsiasi di gas.

GAS REALI
Un gas reale si comporta come un gas perfetto solo lontano dalle condizioni di liquefazione. Si prendano in considerazione delle
TRASFORMAZIONI ISOTERME, ottenute comprimendo o espandendo un gas lentamente in modo che la temperatura rimanga quella
del termostato con cui il gas è in contatto termico. Per una mole di gas perfetto l’equazione dell’isoterma è:
pV =RT =costante
Le isoterme sono diverse per temperature superiori e inferiori ad una temperatura T c detta TEMPERATURA CRITICA.

Per T < T c si ha un primo tratto delle isoterme, in corrispondenza di grandi volumi e cioè per gas rarefatti, che è simile alle
isoterme dei gas perfetti. Quando si raggiungono le condizioni per l’inizio della liquefazione la pressione diventa costante e rimane
costante durante tutto il processo di condensazione del vapore; in questo tratto si ha liquido in equilibrio con vapore saturo.
Quando tutto il gas è liquefatto l’isoterma assume un andamento molto ripido a causa della scarsa comprimibilità dei liquidi.

Per T > T c invece le isoterme sono sempre simili a quelle di un gas perfetto. Per valori della temperatura superiori a quella critica il
gas non può essere mai liquefatto. Per descrivere il comportamento di un gas reale si può utilizzare l’equazione di stato per i gas
reali ottenuta in modo empirico da Van der Waals:

( p+n Va )( V −nb) =nRT


2
2

L’equazione di Van der Waals si ottiene dall’equazione dei gas perfetti introducendo delle costanti correttive a e b che tengano
conto del volume proprio delle molecole, b , e dell’interazione tra le molecole, a . Le costanti a e b sono ovviamente diverse a
seconda del gas che si considera e si possono determinare sperimentalmente.

PRESSIONE PARZIALE
Si consideri un miscuglio di gas contenuto in un recipiente di volume V . La pressione parziale del gas 1, costituente il miscuglio, è
la pressione che questo gas eserciterebbe sulle pareti del recipiente se occupasse da solo tutto il volume V . Se n1 , n2 , n3 , …
sono il numero di moli dei vari gas costituenti il miscuglio, le pressioni parziali sono:
n1 n2 n3
p1 = RT p2= RT p3= RT
V V V

La LEGGE DI DALTON stabilisce che la pressione totale del miscuglio è la somma delle pressioni parziali dei singoli costituenti:

n (n + n + n +...)
p=
V [
RT = 1 2 3
V ]
RT= p1 + p2 + p3 +.. .
Se nel miscuglio gassoso è contenuto un vapore saturo, la pressione totale è la somma delle pressioni parziali dei gas e della
pressione del vapore saturo.

STATO TERMODINAMICO
Si consideri un sistema macroscopico, chimicamente definito, composto da un gran numero di atomi o molecole come per esempio
una quantità definita di un gas, di un solido e/o di un liquido. Un sistema del genere, detto SISTEMA TERMODINAMICO, è composto
da un numero così grande di atomi o molecole che sarebbe impossibile studiarne lo stato dinamico e il suo evolversi nel tempo dal
punto di vista microscopico. Infatti questo richiederebbe la soluzione dell’equazione di moto per ciascuna delle particelle del
sistema e, per avere un’idea del numero di particelle che bisognerebbe trattare, basti pensare che in una grammomolecola o mole
di molecole (massa in grammi pari alla massa molecolare) sono contenute N = 6.022 · 1023 molecole. È pertanto giustificato il
limitarsi a descrivere il sistema termodinamico da un punto di vista macroscopico, cioè mediante delle grandezze che caratterizzano
il sistema nel suo insieme, grandezze che sono in generale legate ai valori medi delle grandezze dinamiche microscopiche. Queste
grandezze macroscopiche che costituiscono i cosiddetti PARAMETRI TERMODINAMICI o variabili di stato termodinamiche sono, per
esempio, la temperatura, la pressione, il volume e lo stato di aggregazione. Quando si considera il sistema dal punto di vista
macroscopico si intende dire che non si fa riferimento ai processi microscopici che hanno luogo all’interno del sistema.

“Più in generale un sistema termodinamico è un qualsiasi oggetto, quantità di materia o regione dello spazio che si considera nel
suo insieme e si può descrivere da un punto di vista macroscopico tramite i parametri termodinamici. “

Il sistema termodinamico è delimitato da una superficie reale o ideale che lo separa dagli altri oggetti o sistemi i quali costituiscono
l’intorno (o ambiente circostante) del sistema termodinamico considerato. Il sistema si dice isolato se non scambia né materia né
energia con l’intorno. Il sistema si dice chiuso se esso scambia energia ma non materia con l’intorno. Il sistema termodinamico si
dice in equilibrio quando sono specificati tutti i parametri termodinamici del sistema e questi non variano nel tempo.
Lo stato di un sistema termodinamico è definito dal valore delle variabili di stato macroscopiche, quali ad esempio pressione,
volume e temperatura. Se il sistema è omogeneo e si conoscono i valori dei parametri termodinamici, lo stato del sistema
termodinamico è perfettamente definito. L’importanza di conoscere lo stato di equilibrio di un sistema termodinamico è dovuta al
fatto che le proprietà macroscopiche sono indipendenti dal tempo e riproducibili per quello stesso stato.

TRASFORMAZIONI TERMODINAMICHE
Uno stato di equilibrio di un sistema termodinamico è caratterizzato da certi valori dei parametri termodinamici, valori che non
variano nel tempo. Se i parametri termodinamici variano nel tempo si dice che il sistema subisce una trasformazione
termodinamica.

Si consideri per semplicità un gas perfetto che costituisce il più semplice esempio di sistema termodinamico. Lo stato di una
grammomolecola di un gas perfetto è completamente descritto dai tre parametri termodinamici P ,V , T . In condizioni di
equilibrio esiste una relazione tra i parametri termodinamici che costituisce l’equazione di stato del sistema termodinamico. Per i
gas perfetti l’equazione di stato è PV =nRT . Se il gas subisce una trasformazione i valori di P ,V , T possono variare nel
tempo. Tuttavia la trasformazione può avvenire lentamente in modo tale che in ogni istante sia possibile definire i valori di
P ,V , T per tutto il sistema. In questo caso i valori assunti da P ,V , T durante la trasformazione possono essere riportati in un
grafico ottenendo così una curva nel piano P−V che rappresenta la trasformazione del gas.

Si supponga di espandere il gas rapidamente. In questo caso il gas si raffredda inizialmente e inoltre si possono creare dei vortici e
delle turbolenze nel gas stesso. Pertanto se l’espansione è troppo veloce non è in generale possibile conoscere i valori dei
parametri termodinamici nel corso della trasformazione e non è possibile descrivere la trasformazione mediante una curva nel
piano P−V anche quando lo stato iniziale A e quello finale B siano stati di equilibrio rappresentabili nel diagramma P−V .
Esistono due tipi fondamentalmente diversi di trasformazioni termodinamiche:
 TRASFORMAZIONI REVERSIBILI: trasformazioni tali per cui il passaggio dallo stato iniziale allo stato finale avviene
passando attraverso una serie intermedia di stati di equilibrio in modo che siano noti i valori dei parametri termodinamici
in ogni passo della trasformazione. Tali trasformazioni sono percorribili in senso inverso;
 TRASFORMAZIONI IRREVERSIBILI: trasformazioni che passano attraverso stati che non sono di equilibrio. Pertanto nel
corso della trasformazione i valori di alcuni dei parametri termodinamici non sono determinati. È chiaro che le
trasformazioni irreversibili, a differenza di quelle reversibili, non sono percorribili in senso inverso poiché non sono
definiti gli stati intermedi della trasformazione. Le trasformazioni reali sono sempre irreversibili. Tuttavia, se esse vengono
eseguite molto lentamente, possono avvicinarsi molto a trasformazioni reversibili.
Altri tipi di trasformazioni termodinamiche che saranno descritte sono:
 TRASFORMAZIONI QUASI-STATICHE, in cui il sistema si evolve in modo sufficientemente lento da attraversare una
successione di stati di equilibrio termodinamico;
 TRASFORMAZIONI INFINITESIME o INFINITESIMALI, durante le quali i parametri di stato (o variabili di stato)
termodinamici subiscono variazioni infinitesime, generalmente rappresentabili con un differenziale di tali grandezze.

 TRASFORMAZIONI ISOTERMICHE O ISOTERME (a temperatura costante)


 TRASFORMAZIONI ISOBARICHE O ISOBARE (a pressione costante)
 TRASFORMAZIONI ISOTERMICHE O ISOCORE (a volume costante
 TRASFORMAZIONI ADIABATICHE (senza scambio di calore)

LAVORO IN TERMODINAMICA
Quando un sistema termodinamico subisce una trasformazione, le forze interne al sistema compiono, in generale, del lavoro
meccanico. Tuttavia, poiché il sistema termodinamico è descritto da un punto di vista macroscopico, il lavoro meccanico compiuto
all’interno del sistema non entra esplicitamente nella descrizione del sistema. Viceversa il sistema può compiere lavoro meccanico
esterno, cioè lavoro contro le forze esterne al sistema termodinamico stesso. Se le forze esterne compiono lavoro resistente, si dice
che il lavoro viene compiuto dal sistema e si assume come negativo. Se invece le forze esterne compiono lavoro agente si dice che il
lavoro è compiuto sul sistema e si assume come positivo.

Tale assunzione dipende principalmente dalla formula con cui si esprime il primo principio della termodinamica. Il caso più comune
in cui si compie lavoro dall’esterno si ha quando il sistema termodinamico cambia di volume durante la trasformazione. Infatti, se
sul contorno del sistema termodinamico considerato agiscono delle forze esterne, uno spostamento del contorno implica
l’esecuzione di lavoro esterno. Se il sistema si espande esso compie lavoro negativo, mentre se si contrae il lavoro è positivo. Se le
forze esterne possono essere caratterizzate mediante la pressione che agisce sul contorno del sistema termodinamico e se questa
pressione si mantiene costante durante la trasformazione, allora il lavoro esterno è dato da:
L=− p ∆V
Se, nel corso della trasformazione, la pressione del gas non rimane costante ma è funzione del volume i.e. p= p (V ),
l’espressione del lavoro non è più applicabile. In questo caso infatti bisogna calcolare il lavoro utilizzando il calcolo integrale. Si
suddivida la trasformazione in una successione di trasformazioni in ciascuna delle quali la variazione di volume ΔV sia così piccola
che la pressione si possa ritenere costante. Il sistema compie quindi una trasformazione quasi-statica che consiste in una
successione di stati termodinamici (in cui gli stati che si succedono siano poco diversi l’uno dall’altro) in ciascuno dei quali il sistema
rimane in equilibrio termodinamico. Per differenze infinitesime dei parametri di stato, si può calcolare il lavoro infinitesimo svolto
in ciascuno degli stati diversi per variazioni infinitesime dei parametri termodinamici:
dL=F ∙ dr=−Fj ∙ dyj=−Fdy=−pAdy=− pdV
che permette di scrivere il lavoro totale in una trasformazione da uno stato con volume V i ad uno con volume V f :
Vf

L=−∫ pdV
Vi

CALORE E TEMPERATURA
Una definizione di temperatura è che si tratta di un parametro che misura lo stato energetico di un sistema termodinamico.

TEMPERATURA DI EQUILIBRIO: Si prendano in considerazione ora due corpi aventi temperatura diversa, cioè che producono al
contatto una diversa sensazione fisiologica, e si mettano a contatto fra di loro. Se questi corpi sono isolati dall’ambiente esterno
essi raggiungono dopo un certo tempo una situazione di equilibrio caratterizzata dall’avere la stessa temperatura.

PASSAGGIO DI CALORE: In questo processo di termalizzazione si dice che del calore (o energia termica) è passato dal corpo caldo al
corpo freddo. Il corpo che era inizialmente più freddo ha assorbito calore, mentre il corpo che era inizialmente più caldo ha ceduto
calore.

DIFFERENZA TRA TEMPERATURA E CALORE: La temperatura è un indice dello stato termico o, in alcuni casi, del livello di energia
interna di un corpo. Pertanto si può variare la temperatura di un corpo non soltanto somministrando calore, ma anche compiendo
lavoro. Per esempio, se un gas contenuto in un recipiente isolato termicamente viene compresso esso si riscalda. Il gas cioè
aumenta la propria temperatura pur senza aver assorbito calore. Infatti il lavoro compiuto sul gas va ad aumentare l’energia del
gas, che di conseguenza vede aumentare la propria temperatura.

Il CALORE è una forma di energia che è peculiare della termodinamica e che interviene nelle trasformazioni di uno stato
termodinamico in un altro. Nell’esempio dei due corpi a temperatura diversa che si scambiano calore si vede chiaramente che è
chiamato calore l’energia all’atto del suo travaso da un sistema ad un altro. Pertanto, quando si parla di quantità di calore si deve
sempre intendere, anche se non è detto esplicitamente, che si tratta di quantità di calore cedute o assorbite da un sistema
termodinamico (cioè in altre parole scambiate con l’ambiente circostante).
Il calore può essere definito come la quantità di energia (termica) Q scambiata da un sistema con l’ambiente circostante (o con un
altro sistema) a causa di una differenza di temperatura fra ambiente e sistema (o tra i due sistemi); talvolta si intende il calore
anche come il meccanismo di trasferimento di tale energia. Come unità di misura per il calore si usa la CALORIA: una caloria è la
quantità di calore che, quando viene assorbita da un grammo di acqua a 14.5 °C, produce un aumento di temperatura di un grado.
Avendo stabilito che il calore è una forma di energia deve essere possibile misurare la quantità di calore mediante le unità di misura
che vengono utilizzate per misurare l’energia meccanica cioè il joule, l’erg o il kg metro. Per far questo bisogna stabilire
un’equivalenza tra il calore, misurato in calorie, e il lavoro, misurato per esempio in joule. Il lavoro meccanico può essere sempre
trasformato integralmente in calore per attrito. Il calore prodotto dal lavoro può essere misurato dall’aumento di temperatura
generato nel sistema che ha assorbito il calore.

PRINCIPIO DI EQUIVALENZA LAVORO-CALORE: ogni volta si trasforma interamente in calore una certa quantità di lavoro, il rapporto
tra il calore prodotto e il lavoro compiuto è costante:
L
=J
Q
dove J=4.18 joule /calorie . La costante J , chiamata EQUIVALENTE MECCANICO DELLA CALORIA, serve quindi per esprimere
il calore e il lavoro meccanico con le stesse unità di misura.

DEFINIZIONE DI TEMPERATURA: si può usare il cosiddetto PRINCIPIO ZERO DELLA TERMODINAMICA. Si supponga di avere due corpi
A e C in contatto termico (cioè corpi che possono scambiare energia termica fra loro); questi corpi sono in equilibrio termico se
non c’è scambio di energia termica. C viene ora posto in contatto termico separatamente con un terzo corpo B e c’è equilibrio
termico anche fra questi due corpi.
Il principio zero afferma che se due corpi A e B sono separatamente in equilibrio termico con un terzo corpo C , allora A e B sono
in equilibrio termico fra loro.

PRIMO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA (legge di conservazione dell’energia)


La somma del calore Q (in unità di lavoro meccanico) e del lavoro L scambiati nella trasformazione, non dipende dal tipo di
trasformazione, ma solamente dallo stato iniziale e finale del sistema.

ENERGIA INTERNA: È possibile caratterizzare lo stato energetico di un sistema mediante una funzione, detta energia interna e
indicata con E∫ ¿¿, che dipende soltanto dello stato termodinamico del sistema e la cui differenza tra i valori assunti in due stati
diversi rappresenta la somma del lavoro esterno e del calore scambiato nella trasformazione tra i due stati (stato finale 2 e stato
iniziale 1). Pertanto il PRIMO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA E’:
∆ E ¿t =E∫ 1−E∫ 2=Q+ L
Questo principio, che non è altro che un caso particolare del principio di conservazione dell’energia dell’Universo afferma quindi
che ogni sistema termodinamico possiede una certa energia interna, E∫ ¿¿, che è funzione soltanto dello stato termodinamico in
cui si trova il sistema e che si conserva se il sistema è isolato.
Se il sistema non è isolato, le variazioni di energia interna sono uguali alla somma del calore e del lavoro scambiato dal sistema con
l’esterno.

TRASFORMAZIONE ADIABATICA: il sistema termodinamico non scambia calore con l’ambiente, cioè Q=0. Si ottiene quindi per il

primo principio: ΔE∫ ¿=L ¿. Questa situazione si può verificare ad esempio per un gas compresso o espanso adiabaticamente.

TRASFORMAZIONE ISOBARA: la pressione p rimane costante. In tal caso: ΔE∫ ¿=Q – pΔV ¿ Nel diagramma p−V questa
trasformazione è rappresentata da una linea orizzontale.

TRASFORMAZIONE ISOCORA: quando il volume è costante, si deduce che il lavoro è nullo. Quindi il primo principio diventa:
∆ E∫ ¿=Q ¿
Nel diagramma P−V tale trasformazione è rappresentata da una linea verticale. Si deduce che tutta l’energia trasferita ad un
sistema sotto forma di calore finisce in aumento dell’energia interna.

TRASFORMAZIONE ISOTERMA: nel caso generale si applica il primo principio della termodinamica ( ∆ E∫ ¿= E 1− E 2=Q+ L¿ ). Nel
∫ ∫
caso particolare dei gas perfetti l’energia interna è funzione solo della temperatura ed essendo la temperatura costante, si ha
ΔE∫ ¿=0 ¿ in quanto l’energia interna finale ed inziale coincidono se T =costante e quindi la variazione di energia interna è
zero. Da questo segue:
Q=−L
Per un gas perfetto soggetto a una trasformazione isoterma si può calcolare il lavoro usando l’equazione dei gas perfetti:
Vf Vf Vf
nRT 1 V
L=−∫ pdV =−∫ dV =−nRT ∫ dV =−nRT ln f
Vi Vi
V V
V i
Vi

TRASFORMAZIONE CICLICA: è una trasformazione che inizia e finisce nello stesso stato. In questo caso, essendo l’energia interna
una funzione di stato (dipende solo dallo stato ( P ,V , T ) in cui si trova il sistema) e poiché stato iniziale e finale coincidono, si ha
ΔE∫ ¿=0 ¿. Quindi il primo principio diventa: Q=– L che è il caso ad esempio dei motori termici.

MISURA DELLA TEMPERATURA


La temperatura è un parametro termodinamico che caratterizza lo stato termico o più precisamente lo stato energetico interno di
un sistema termodinamico. A differenza di altri parametri, quali la pressione o il volume, la temperatura non è legata ad alcun’altra
grandezza fisica, è cioè una grandezza fondamentale. Per misurare la temperatura bisogna misurare una grandezza fisica che
dipende in modo noto dalla temperatura. I termometri più comunemente usati utilizzano un liquido come il mercurio o l’alcool che,
come tutti i liquidi, obbediscono ad una legge di dilatazione volumetrica (t = temperatura in gradi Celsius):
V ( t ) =V 0 (1+αt )
dove α è una costante che dipende dal tipo di liquido impiegato.

Per graduare un termometro si procede nel modo seguente: si supponga che il liquido sia contenuto in un bulbo che comunica con
un capillare di lunghezza e sezione sufficienti, tali cioè che nell’intervallo di temperatura che si vuole misurare la dilatazione del
liquido produca una variazione del livello del liquido stesso nei limiti del capillare. Se si trascura la dilatazione del vetro del
termometro si ottiene che il livello l del liquido nel capillare è una funzione lineare della temperatura: l(t)=l 0+ at . Per graduare
il termometro basta quindi determinare le due costanti l 0 e a . Per fare questo si utilizza la proprietà che i cambiamenti di fase (o di
stato), per una data sostanza e per una data pressione esterna, hanno luogo sempre ad una ben determinata temperatura. In
particolare, nella scala centigrada, è stato assunto come 0 ° C la temperatura del ghiaccio fondente e come 100 ° C la
temperatura dell’acqua bollente, entrambi alla pressione atmosferica.

Per graduare il termometro basta quindi immergerlo prima nel ghiaccio fondente e fissare sul capillare il punto l ( 0° ) =l 0, poi
nell’acqua bollente e fissare sul capillare il punto l(100 °) . Suddividendo il tratto l(100 °)−l (0 °) in cento parti si ha così il
dislivello Δl nel capillare che corrisponde alla variazione della temperatura del corpo in esame di 1 °C .

Scala kelvin o assoluta che si ottiene dalla scala Celsius spostando semplicemente il punto di zero: T ( K )=t (° C)+273.15 . Il
punto di zero della scala Kelvin viene detto zero assoluto ( K indica i kelvin).dal Comitato Internazionale di Pesi e Misure, i due
punti di riferimento sono lo zero assoluto e il punto triplo dell’acqua, corrispondente all’unica temperatura e pressione alla quale
acqua, vapor d’acqua e ghiaccio coesistono in equilibrio. Questa coesistenza avviene alla temperatura di 0.01 °C , cioè
273.16 kelvin , e alla pressione di 4.58 mmHg . L’unità SI di temperatura, il kelv ∈¿, è definita come 1/273.16 della
temperatura del punto triplo dell’acqua.

CAPACITÀ TERMICA E CALORE SPECIFICO


Se si mettono a contatto due corpi che si trovano inizialmente a temperature diverse, dopo un certo tempo essi raggiungono una
temperatura intermedia di equilibrio. In questo processo il corpo caldo cede una certa quantità di energia sotto forma di calore e il
corpo freddo assorbe un’equivalente quantità di calore. La relazione tra la quantità di calore Q assorbita o ceduta da un corpo e la
corrispondente variazione di temperatura ΔT =T 2 – T 1 è una semplice relazione di proporzionalità:
Q=Cm (T 2 −T 1 )
dove m è la massa del corpo e C è una costante che dipende dalla natura del corpo. La costante C è il CALORE SPECIFICO MEDIO
del corpo considerato nell’intervallo di temperatura T 2−T 1 :
Q
C=
m( T 2−T 1)
“Il calore specifico può quindi essere definito come quella quantità di calore che bisogna somministrare ad una massa unitaria di
sostanza per innalzarne la temperatura di un grado.”

La CAPACITÀ TERMICA C T di un corpo è invece la quantità di calore Q che bisogna somministrare al corpo per innalzarne la
temperatura di (T 2−T 1 ) gradi cioè:
Q
C T=
(T 2−T 1)
“La capacità termica è quindi il prodotto del calore specifico per la massa.”

Occorre distinguere tra il calore specifico a pressione costante C p e a volume costante C v . Nel primo caso si somministra calore
alla sostanza mantenendo la pressione costante e permettendo quindi alla sostanza di dilatarsi compiendo lavoro esterno. Nel
secondo caso si mantiene il volume costante durante il riscaldamento. In generale quindi C p>C v per un gas; nel caso di un gas
perfetto l’energia termica (calore) associata a C p-C v viene utilizzata interamente per compiere lavoro. La differenza tra C p e C v
è importante tuttavia soltanto per i gas. Infatti per solidi e liquidi il coefficiente di espansione termico è così piccolo che si può
assumere C p≅ C v . Il prodotto del calore specifico per il peso atomico o molecolare è chiamato CALORE SPECIFICO MOLARE.
Per gli elementi allo stato solido vale approssimativamente la legge di Dulong e Petit per cui, a temperature ordinarie o più elevate,
tutti i solidi hanno uguale calore specifico molare pari a circa 6.2 cal /(° C mol) . Per i gas invece il calore molare dipende dal
numero di atomi che compongono la molecola del gas:
3 cal 3
GAS MONOATOMICI C v= = R
° C mol 2
5 cal 5
GAS BIATOMICI C v= = R
° C mol 2
6 cal
GAS POLIATOMICI C v= =3 R
° C mol

Il calore molare a pressione costante C p si deduce dai calori molari a volume costante utilizzando la relazione di Mayer:
R
C p−C v = ≅ 2 cal /(° C mol)
J

EQUILIBRIO TERMICO DI PIÙ CORPI A CONTATTO: Si consideri per esempio il caso di due corpi uno di massa m 1 e calore specifico
C 1, che si trovi alla temperatura T 1 e un secondo corpo di massa m 2, calore specifico C 2 e con temperatura T 2. Se i due corpi
aventi temperatura diversa sono posti a contatto termico fra di loro e isolati dall’ambiente, essi raggiungono dopo un certo tempo
una temperatura intermedia di equilibrio. Per trovare la temperatura di equilibrio basta applicare il principio di conservazione
dell’energia: la quantità di calore ceduta dal corpo caldo deve essere uguale alla quantità di calore assorbita dal corpo freddo. Nel
caso dei due corpi considerati sopra, l’equazione che traduce la condizione di equilibrio termico è: Q freddo =– Q caldo cioè
(seguendo la definizione di calore specifico per i due corpi), da cui si può ricavare un’incognita che in questo caso è la temperatura
di equilibrio T x :
C 1 m 1 ( T 1−T x ) =C2 m 2 ( T x −T 2 )

TRASFORMAZIONI DI STATO E CALORI LATENTI


Tutte le sostanze possono esistere nei tre stati di aggregazione: solido, liquido e gas a seconda della temperatura e della pressione a
cui si trovano. Il cambiamento dallo stato solido allo stato liquido e viceversa avviene in generale per valori della temperatura e
della pressione determinati e funzione uno dell’altro. Durante la fusione o la solidificazione la temperatura rimane costante (o
meglio si assume come ipotesi che T sia costante durante le trasformazioni di fase, o di stato, o, più esattamente, transizioni di
fase dei sistemi) e il corpo assorbe o cede una certa quantità di calore che è proporzionale alla massa di sostanza che subisce la
trasformazione:
Q=± Km
dove K è una costante che prende il nome di calore latente di fusione e dipende dalla natura della sostanza e dalla temperatura di
fusione, e quindi dalla pressione. Per il ghiaccio a 0 ° C e 1 atm il calore latente di fusione è K=80 cal/g .

DIPENDENZA DELLA TEMPERATURA DI FUSIONE DALLA PRESSIONE: la sostanza, fondendo, aumenta di volume (fa eccezione
l’acqua); pertanto un aumento di pressione tende ad ostacolare la fusione e quindi a spostare la temperatura di fusione a valori più
elevati. Da un punto di vista microscopico il calore latente di fusione rappresenta l’energia necessaria per rompere tutti i legami
intermolecolari in una certa massa di sostanza in modo da convertire la fase solida in liquida.

TRASFORMAZIONE DALLO STATO LIQUIDO ALLO STATO GASSOSO (evaporazione), o la trasformazione inversa (condensazione). Si
definisce tensione di vapore di un liquido ad una certa temperatura la pressione che a quella temperatura esercita il vapore saturo,
cioè il vapore in equilibrio con il proprio liquido.

SECONDO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA


Il primo principio della termodinamica è un principio di conservazione dell’energia e non pone alcuna limitazione alla possibilità di
trasformare calore in lavoro. Il secondo principio della termodinamica stabilisce invece delle limitazioni nel senso che, mentre è
sempre possibile trasformare completamente lavoro in calore per attrito mediante un sistema che ritorni allo stato iniziale, non è
possibile ottenere la trasformazione inversa utilizzando il calore di un’unica sorgente. Si supponga per esempio di compiere del
lavoro meccanico contro delle forze di attrito in un ambiente a temperatura T . Il lavoro meccanico si trasforma interamente in
calore e il calore viene assorbito dall’ambiente che, se ha una grande capacità termica, rimane praticamente alla stessa
temperatura. È pertanto possibile trasformare interamente e con continuità lavoro in calore ad una certa temperatura T . Viceversa
non è possibile a questo punto ritrasformare il calore in lavoro sottraendolo all’ambiente a temperatura uniforme T .
Più precisamente non è possibile ottenere questa trasformazione con continuità, cioè utilizzando delle trasformazioni
termodinamiche che lascino il sistema nello stesso stato. Infatti è possibile per esempio ottenere lavoro dall’espansione di un gas
compresso che nel contempo si raffreddi e quindi sottragga calore all’ambiente. Tuttavia in un caso del genere il gas alla fine
dell’espansione non è più utilizzabile per compiere altro lavoro.

MACCHINA TERMICA: una macchina termica è un dispositivo che, lavorando su una sostanza termodinamica, trasforma energia
interna in altre forme utili di energia, come ad esempio l’energia cinetica (o meccanica) o energia elettrica.

IL SECONDO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA, NELL’ENUNCIATO DI LORD KELVIN: “non può esistere una macchina termica che,
operando in un ciclo, trasformi in lavoro il calore assorbito da un unico termostato” (per termostato si intende un sistema
termodinamico avente una capacità termica così grande per cui esso può assorbire o cedere una quantità illimitata di calore senza
che la propria temperatura cambi).

IL SECONDO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA, NEL POSTULATO DI CLAUSIUS: “non è possibile una trasformazione in cui il calore
passi da un oggetto più freddo ad un oggetto più caldo spontaneamente, cioè senza che si compia lavoro dall’esterno.”

In base al postulato di Lord Kelvin, per costruire una macchina termica che operi su una sostanza termodinamica, bisogna utilizzare
più di un termostato. Si può dimostrare che bastano due termostati aventi temperatura diversa: la macchina termica deve
compiere un ciclo durante il quale essa sottrae una certa quantità di calore Q C al termostato caldo a temperatura T C e, dopo aver
trasformato parte del calore Q C in lavoro L, cede una quantità di calore residuo Q F al termostato freddo T F . II rendimento η
della macchina termica è:

L |Q C|−|Q F| |QF|
η= = =1−
|Q C| |QC| |QC|
dove L=−L mac.

L è stato posto uguale alla differenza tra il calore Q c sottratto al termostato T C e quello Q F restituito al termostato T F ,
Il lavoro
L=¿ QC ∨– ∨QF ∨¿, ( ΔE interna=0 ). Il postulato di Lord Kelvin equivale ad affermare che, dovendo essere Q F ≠0 , il
rendimento di una macchina termica è sempre inferiore a 1, cioè inferiore al 100 %. Si può dimostrare che il rendimento di una
macchina termica è massimo quando la macchina compie un ciclo reversibile. In questo caso il rendimento dipende solo dalla
temperatura dei termostati:
(T C −T F )
ɳ=
TC

Una macchina termica che possa operare fra due termostati in un ciclo ideale reversibile è la macchina con più alto rendimento
possibile. Tale macchina è detta MACCHINA DI CARNOT e fu introdotta nel 1824. Il lavoro svolto da una sostanza sottoposta ad un
ciclo di Carnot (un ciclo effettuato da una macchina di Carnot) è il massimo possibile per una data quantità di energia fornita alla
sostanza dal termostato a temperatura più alta.

Ciclo di Carnot assumendo che la sostanza che compie il lavoro nella macchina sia un gas perfetto contenuto in un cilindro chiuso
da un pistone mobile: le pareti del cilindro e il pistone sono termicamente isolati. Il ciclo di Carnot è composto da 4 fasi: due
trasformazioni isoterme e due adiabatiche, tutte reversibili.
 La trasformazioneA−B è un’espansione isotermica a temperatura T C. Durante questa trasformazione il gas è
mantenuto a contatto con un termostato a temperatura T C, assorbe l’energia Q C e compie il lavoro L AB sollevando il
pistone.
 La trasformazione B−C è un’espansione adiabatica durante la quale il cilindro è isolato anche alla base in modo che
non avvengano scambi di calore. Durante la trasformazione la temperatura si abbassa da T C a T F e il gas compie lavoro
LBC sollevando il pistone.
 La trasformazione C−D è una compressione isotermica e durante questa trasformazione il gas è mantenuto a contatto
con un termostato a temperatura T F . In questo tempo il gas cede un’energia Q F al termostato e su di esso viene
compiuto un lavoro LCD.
 D− A è una compressione adiabatica, durante la quale il cilindro è isolato termicamente. La
La trasformazione finale
temperatura del gas aumenta fino a T C e il lavoro svolto sul gas è L DA.

Si può dimostrare che in questo ciclo:


QF T F
=
QC T C
da cui segue che il rendimento può essere scritto con l’equazione:
(T C −T F )
ɳ=
TC
Tutte le macchine termiche reali sono meno efficienti della macchina di Carnot perché per completare un ciclo in breve periodo di
tempo operano in modo irreversibile.

ENTROPIA
Si prendano in considerazione dei processi isotermici a temperatura T . Se la trasformazione isoterma viene eseguita in modo
reversibile, per esempio mantenendo il sistema in equilibrio termico con un termostato a temperatura T , si trova che il rapporto
tra il calore scambiato e la temperatura del termostato non dipende dal tipo di trasformazione, ma soltanto dallo stato iniziale e
finale.

Si definisce pertanto una funzione di stato S, chiamata ENTROPIA, la cui variazione in una trasformazione termodinamica
reversibile non infinitesima è data da:

∆ S=S B −S A = ( QT ) reversibile
Se viceversa la trasformazione dallo stato A allo stato B avviene in modo irreversibile, la quantità Q/T calcolata per la
trasformazione irreversibile non rappresenta più la variazione di entropia. In questo caso, per calcolare la variazione di entropia,
bisogna immaginare di realizzare una trasformazione reversibile tra A e B e calcolare il rapporto Q/T per tale trasformazione. Se
la trasformazione dallo stato A allo stato B è irreversibile, il rapporto Q/T per quella trasformazione è in generale minore del
corrispondente rapporto che si ottiene per la trasformazione reversibile tra gli stessi stati A e B il quale invece è, per definizione,
la variazione di entropia ∆ S=S B −S A .

DISUGUAGLIANZA DI CLAUSIUS:

( QT ) irreversibile
< ( QT )
reversibile
≡∆S
La definizione di entropia si può generalizzare anche ai processi non isotermi utilizzando il calcolo integrale. Infatti si può pensare di
spezzare la trasformazione reversibile considerata (in cui la temperatura varia) in una successione infinita di trasformazioni
infinitesime in cui dQ rappresenta la quantità di calore scambiata e T è la temperatura di un termostato ideale con cui il sistema
scambia calore. La temperatura del termostato fittizio deve naturalmente continuare a cambiare in modo da rimanere sempre
uguale alla temperatura del sistema durante la trasformazione. In questo caso si può scrivere per ogni passo infinitesimo della
trasformazione: dS=dQ/T e per la trasformazione totale da A a B si ha:
S B−S A =∫ dQ/T ∨¿reversibile ¿
L’introduzione della funzione entropia permette di dare al secondo principio della termodinamica la seguente formulazione: “dato
uno o più sistemi termodinamici isolati, le trasformazioni che hanno luogo in questi sistemi devono essere sempre tali per cui
l’entropia totale del sistema isolato aumenta o resta costante”:
∆ S=S finale −S iniziale ≥ 0
La formulazione attraverso l’Entropia del secondo principio della termodinamica serve fra l’altro per studiare gli equilibri chimici e
per prevedere in che senso evolve spontaneamente una reazione. Il principio che in un sistema isolato l’entropia tenda sempre ad
aumentare o a rimanere costante, equivale al principio della irreversibilità dei fenomeni naturali. È utile a questo punto ricordare
che il primo principio della termodinamica impone invece soltanto che in un sistema isolato l’energia interna rimanga costante, cioè
che ΔE interna=0 . In generale l’entropia aumenta ogni qualvolta si passa da un sistema più ordinato ad un sistema meno ordinato.
“L’entropia è una misura del grado di disordine microscopico di un sistema termodinamico.”

Il secondo principio della termodinamica afferma quindi che le trasformazioni spontanee sono sempre quelle che tendono ad
aumentare il disordine di un sistema. La termodinamica statistica è in grado di dare una ragione a tutto questo. Infatti la funzione
entropia è legata al numero di modi in cui si può realizzare una certa configurazione microscopica del sistema termodinamico.
Maggiore è il disordine, maggiore è il numero di configurazioni possibili e maggiore è l’entropia.

ELETTROMAGNETISMO
Nel mondo che ci circonda, ed in particolare nei sistemi biologici, agisce un altro tipo di forza fondamentale: quella
elettromagnetica. Gli organismi viventi, tramite appunto l’utilizzo di fenomeni elettrici, svolgono molteplici attività, quali ad
esempio l’esecuzione di azioni meccaniche (contrazione muscolare) o la trasmissione di stimoli e di comandi di varia natura (organi
di senso, attività cerebrale).
ELETTROSTATICA: fenomeni elettrici relativi prevalentemente a cariche elettriche ferme
CORRENTI ELETTRICHE CONTINUE: cariche in moto stazionario
MAGNETISMO: correnti non stazionarie.

CARICA ELETTRICA: strofinando tra loro oggetti non metallici (per esempio l’ambra con un panno di lana) e avvicinandoli a piccoli
pezzi di materiali vari (carta, ambra, polveri varie) si osservano azioni di forza attrattive o repulsive. Per interpretare questo
fenomeno è necessario attribuire alla materia una proprietà fondamentale, in analogia a quanto è stato fatto per la massa,
chiamata CARICA ELETTRICA.
La carica elettrica si presenta sotto due aspetti distinti definiti positivo o negativo per convenzione.

PROPRIETA’ CARICA:
1) la carica elettrica di una certa quantità di materia è sempre pari alla somma algebrica delle cariche elettriche dei suoi costituenti.
2) Principio di conservazione della carica: la carica e la somma algebrica delle cariche si conserva in tutte le trasformazioni se il
sistema è isolato .
3) Le particelle fondamentali di cui è costituita la materia possono essere cariche di uno dei due segni o neutre.
4) Il valore più piccolo osservato è quello della carica dell’elettrone, che si è convenuto di assumere negativo (–e) e che differisce da
quella del protone soltanto per il segno (+e ).
5) Qualunque altra carica è in valore assoluto uguale a multipli interi della carica elementare.

La necessità di introdurre cariche positive e negative è derivata dal fatto che le azioni fra cariche elettriche possono essere sia
attrattive sia repulsive. Nel caso invece di azioni tra masse, queste sono solamente attrattive, come espresso dalla legge di Newton
della gravitazione universale, e pertanto si è introdotto un solo tipo di massa.

Le forze di interazione che agiscono tra cariche elettriche sono molto più forti delle azioni gravitazionali tra le masse. Ciò non risulta
evidente dal punto di vista macroscopico poiché la materia è normalmente allo stato neutro, cioè costituita da un numero uguale di
particelle con carica elettrica positiva (PROTONI) e particelle con carica elettrica negativa (ELETTRONI), più un certo numero di
particelle neutre (NEUTRONI). Le azioni elettriche sono invece molto importanti a livello microscopico. Per esempio le forze che
tengono insieme gli atomi o le molecole di un corpo solido o liquido sono forze di natura elettrica.

Assunto che lo strofinio ad esempio di vetro e bachelite induca una proprietà chiamata carica elettrica nel materiale strofinato, si
hanno due tipi di comportamento, repulsivo e attrattivo; come conseguenza si può affermare che vetro e bachelite hanno proprietà
elettriche opposte e a ciascuna di queste proprietà si dà il nome di carica elettrica, rispettivamente di segno negativo (bachelite) e
positivo (vetro), con una convenzione del tutto arbitraria.
Cariche omonime (dello stesso segno) si respingono e cariche eteronime (di segno opposto) si attraggono.
INDUZIONE ELETTRICA: un CONDUTTORE è un materiale all’interno del quale le cariche elettriche si muovono in modo
relativamente libero (rame, oro, …metalli). Un ISOLANTE viceversa è un materiale in cui le cariche elettriche non si muovono
liberamente (esempi: buona parte delle plastiche, il legno, la gomma).

Esiste un secondo modo per indurre la proprietà carica elettrica in un materiale, detto per INDUZIONE: si consideri adesso una sfera
conduttrice neutra (cioè a carica elettrica totale nulla) isolata. Avvicinando una barretta di bachelite alla sfera, senza toccarla, si
ottiene la ridistribuzione delle cariche. In questa situazione si colleghi la sfera alla terra per mezzo di un filo conduttore, la terra è da
considerare come un serbatoio infinito di cariche elettriche, cioè la sua carica totale non varia anche se cede o assorbe un numero
finito di cariche. La sfera perde la maggior parte delle sue cariche negative che migrano verso terra.

Se si stacca il collegamento della sfera da terra e si allontana la barretta di bachelite, la sfera resta carica positivamente, ottenendo
così la carica per induzione caratterizzata dal fatto che il corpo carico (la sfera) non è mai entrato in contatto con il corpo che induce
la sua carica (la barretta).

LEGGE DI COULOMB: sperimentalmente si trova che due cariche elettriche puntiformi, q 1 e q 2, in quiete e poste a distanza r una
dall’altra, si attraggono o si respingono con una forza diretta lungo la congiungente r^ , proporzionale alle cariche e inversamente
proporzionale al quadrato della loro distanza r :
q1q2
F e =K r^
r2
La legge di Coulomb è valida esattamente solo per particelle o cariche puntiformi, o oggetti approssimabili come tali. Come tutte le
forze quella di Coulomb è un vettore. Per il principio di azione e reazione, la forza agente da 1 su 2 è pari alla forza agente da 2 su
1, cambiata di segno.
La costante di proporzionalità K dipende dalla natura del mezzo in cui sono immerse le cariche e dall’unità di misura che si adotta
per queste. Nel Sistema Internazionale, la costante viene posta nella forma:
1
K=
4 π ε0 εr
La quantità ε 0 è chiamata costante dielettrica del vuoto, mentre ε r è la costante dielettrica relativa al vuoto del mezzo in cui sono
immerse le cariche. La quantità K e =1/ 4 π ε 0è chiamata costante di Coulomb. Nel vuoto ε r=1; nella materia ε r >1, cioè la
forza coulombiana nella materia è meno intensa che nel vuoto. “La riduzione della forza di Coulomb è determinata dall’effetto di
schermo delle cariche elettriche di cui è costituita la materia.” La materia è composta da atomi e molecole elettricamente neutri,
ma costituiti da nuclei positivi ed elettroni negativi. In presenza di una carica elettrica q 1, ad esempio positiva, gli elettroni tendono
ad avvicinarsi ad essa e i nuclei ad allontanarsi, deformando così gli atomi e le molecole. Questo fenomeno è chiamato
polarizzazione del mezzo dielettrico. Questa polarizzazione riduce parzialmente l’azione di forza di q 1su un’altra carica q 2, posta ad
una certa distanza: di ciò tiene conto la costante dielettrica relativa del mezzo ε r.

COSTANTE DIELETTRICA DEL VUOTO: nel Sistema Internazionale l’unità di carica elettrica è il coulomb (C), unità derivata dalla
grandezza fondamentale elettrica in questo sistema: la corrente elettrica. Introdotto il coulomb, bisogna scegliere il valore e le
dimensioni della costante ε 0, così che misurando le cariche in coulomb e la distanza in metri, la forza risulti uguale al valore

sperimentale espresso in newton. Così si trova che il valore di ε 0 nel SI è ε 0=8.854 · 10 coulomb2 newton−1 m−2.
−12

PRINCIPIO DI SOVRAPPOSIZIONE: si supponga adesso di voler determinare la forza agente su una particella carica in presenza di
altre tre particelle. In questo caso il principio di sovrapposizione dice che la forza risultante su ciascuna particella carica è pari alla
somma vettoriale delle forze dovute a tutte le altre particelle presenti. Quindi ad esempio, la forza agente sulla particella 1, dovuta
alle particelle 2, 3 e 4 è:
F 1=F21 + F31 + F 4

CAMPO ELETTRICO
Campo elettrico è la grandezza fisica ottenuta dividendo la forza elettrica agente su una carica q 0 detta di prova, posta ad una certa
distanza da una o più cariche elettriche (sorgenti del campo elettrico), per la carica q 0 stessa. La quantità campo elettrico
determina la presenza di azioni elettriche, in altri termini perturbazioni, in una regione dello spazio, a causa di cariche elettriche
sorgenti di tale campo.
Per conoscere le caratteristiche di un campo elettrico bisogna conoscere il vettore intensità del campo elettrico in tutti i punti della
regione di spazio dove tale campo elettrico agisce. Per esplicitare matematicamente l’espressione del campo elettrico, si consideri
una carica positiva q 0 di prova posta nel punto P dello spazio nel quale esista un vettore campo elettrico ⃗E generato da una o più
cariche sorgenti. La carica q 0 sarà soggetta ad una forza ⃗
F e e pertanto si definisce intensità del campo elettrico nel punto P
considerato il vettore:
Fe

E=

q0
Le azioni elettriche sono in generale descritte in termini del vettore intensità del campo elettrico. Le forze di interazione tra cariche
elettriche non sono azioni istantanee, ma sono invece dovute ad una modificazione delle proprietà dello spazio circostante le
cariche, che produce un'azione sulle cariche presenti nello spazio.

Se in una certa regione è presente una distribuzione di cariche elettriche, questa provoca una perturbazione dello spazio
circostante che è descritta da un campo elettrico. Se la distribuzione di cariche non varia nel tempo, anche il campo elettrico è
indipendente dal tempo e si ha quindi un campo elettrico stazionario. Viceversa se la distribuzione di cariche varia nel tempo si ha
un campo elettrico variabile nel tempo.

Le linee di forza del campo elettrico, hanno le seguenti caratteristiche:


 il vettore campo elettrico è tangente ad esse in ogni punto;
 il numero di linee di forza per unità di area che attraversano una superficie perpendicolare alle linee stesse è
proporzionale all’intensità del campo elettrico in quella regione;
 le linee di forza di un insieme di cariche originano dalle cariche positive e terminano in quelle negative, a parte i casi di
eccessi di carica in cui alcune linee iniziano e terminano all’infinito;
 il numero di linee che escono da una carica positiva ed entrano in una negativa è proporzionale alla carica;
 due linee di forza non si possono incrociare.

Il campo elettrico in un punto generico che dista r⃗ dalla carica negativa q è:


1 q
E= r^
4 π ε0 εr r2

DISTRIBUZIONE DI CARICA GENERICA: campo elettrico generato da una distribuzione generica continua di carica nel punto P,
qualsiasi: si divide il volume del corpo carico in tanti volumetti di carica infinitesima ∆ qi e volume ∆ V i , si può scrivere il campo
elettrico generato da ∆ qi in P:
∆ qi
∆ E i=K r^i
r i2
Sfruttando il principio di sovrapposizione il campo elettrico nel punto P dovuto a tutti i volumetti di carica ∆ qi, è dato
approssimativamente (in quanto si sta approssimando come discreta una distribuzione di carica in realtà continua) da:
∆ qi
E=K ∑ r^i
i r i2
Se adesso si tiene conto del fatto che la distribuzione è in realtà continua, si ottiene nel limite ∆ qi → 0 :
∆ qi dq
E= lim K ∑ 2
r^i=K ∫ 2 r^
∆ qi →0 i ri r
dove dq è una quantità infinitesima (differenziale) di carica.

DISTRIBUZIONE DI CARICA DI VOLUME: Se la carica Q è uniformemente distribuita su un volume si può scrivere la carica per unità
di volume: ρ=Q/V → dq=ρdV .
DISTRIBUZIONE DI CARICA DI SUPERFICIE: Se distribuita uniformemente su una superficie di area A , la carica per unità di superficie
è: σ =Q/ A → dq=σdA .

DISTRIBUZIONE DI CARICA LINEARE: Se distribuita uniformemente su una linea di lunghezza l , la carica per unità di lunghezza è:
λ=Q/l→ dq=λdl .

DIPOLO ELETTRICO
Un dipolo elettrico è costituito da una coppia di cariche, una positiva +q e una negativa – q, separate da una distanza detta 2 a. Il
campo elettrico ⃗E dovuto al dipolo lungo l’asse y nel punto P distante y dall’origine: le componenti y di E1 e E2 sono opposte
e quindi si annullano, mentre le componenti x hanno lo stesso verso. Quindi l’espressione del campo elettrico lungo x (il cui
modulo è il modulo di E ) è:
q
E=E1 + E2=2 K e 2 2 cos θi dove si è posto r 2= y 2+ a2
y +a
Poiché cosθ=a/r=a/( y 2 +a 2) si ottiene:
2 qa
E=K e
√( y 2 +a2 )3
A grandi distanze ( y ≫a) si può trascurare a 2 e scrivere:
2 qa
E=K e 3
y
1
Quindi, lontano dal dipolo, il campo decresce come 3 . Questo andamento vale anche per un punto lontano in posizione qualsiasi
r
rispetto agli assi.

FLUSSO DEL CAMPO ELETTRICO


TEOREMA DI GAUSS: consente di applicare più facilmente la legge di Coulomb, da cui deriva, e quindi di trattare in modo semplice
le applicazioni e gli sviluppi della teoria dell’elettricità. Serve per calcolare il campo elettrico generato da distribuzioni di carica
continue che presentano particolari simmetrie:
 la sfera carica (simmetria sferica);
 il cilindro carico (simmetria cilindrica);
 la lamina carica (simmetria lineare).
Per poter ricavare il teorema di Gauss è richiesto il concetto di flusso di un vettore attraverso una superficie.
Si considera il vettore che rappresenta un campo di forze elettriche E . Il flusso del (vettore) campo elettrico attraverso una
superficie S è definito da:
ϕ ( E ) = lim ∑ Ei ∆ s i cos α i =∫ E∙ nds
∆ xi → 0 i
Per definire Φ ( ⃗
E ), si suddivide la superficieS in tante piccole superfici di area finita Δ s i ciascuna delle quali è attraversata dal
vettore campo elettrico avente valore locale ⃗ Ei . Si definisce il vettore ∆ si =∆ si n^ , dove n^ è il versore normale (la normale) alla
superficie di area ∆ si . Attraverso ciascuna ∆ ⃗
si il flusso finito di campo elettrico è dato da Ei ∆ si cos( α i ) con α I = angolo fra il
campo elettrico⃗ Ei e il vettore ∆ ⃗
si .

Il flusso del campo elettrico attraverso un elemento di superficie è il prodotto della componente perpendicolare alla superficie
Ei ∆ si cos( α i ) per l’area della superficie stessa (∆ ⃗
si ).
Il flusso attraverso tutta la superficie di essa si fa tendere a zero ∆ si , la piccola superficie ∆ si che, portata al limite, diventa ds .

Il flusso dipende dall’andamento di E e dalla superficie considerata.

“Il teorema di Gauss si riferisce a superfici chiuse e quindi fa uso di un caso particolare di flusso.”

Il Teorema o Legge di Gauss dice che il flusso netto del campo elettrico ( Φ ( E)) attraverso una superficie chiusa è uguale alla
carica racchiusa all’interno della superficie divisoε 0, se si è nel vuoto, diviso ε 0 ε r , se in un mezzo con costante dielettrica diversa
da 1:
Q
Φ(⃗
E )=∮ ⃗
E ∙ n^ ds=
ε0 ε r
Utile per calcolare E data una distribuzione di cariche o dato il campo per conoscere le cariche.

Se all’interno della superficie chiusa non vi sono cariche elettriche, il flusso sarà evidentemente nullo. Φ ( E) sarà nullo anche se
sono presenti cariche all’esterno della superficie chiusa in quanto, prendendo come positivo il flusso entrante del campo elettrico
da loro generato e negativo quello uscente, i flussi per lo stesso angolo solido sono uguali ma di segno contrario, dando un flusso
complessivo nullo.

DIMOSTRAZIONE: si considera una carica Q posta all’interno di una superficie chiusa S per la definizione di flusso nel caso in cui E
sia costante su ΔS e formi un angolo α con la normale alla superficie ΔS , il flusso ΔΦ del campo elettrico da essa generato,
attraverso una generica porzione ΔS della superficie chiusa, è dato da:
ΔΦ=∆ SE cos α
nel caso di campo elettrico costante su ciascuna delle piccole superfici di area ∆ si che si suppone compongano la superficie totale
e nell’approssimazione che la superficie possa essere divisa in un numero elevato, ma finito, di piccole superfici, si ha
ΔS '=ΔScosα , cioè ΔS ' è la proiezione di ΔS sulla sfera di centro Q e raggio r . L’angolo solido ΔΩ sotto cui è vista ΔS
dalla carica Q , per definizione è dato da:
∆S' α
ΔΩ= 2 =∆ S cos 2
r r
L’equazione ΔΦ=∆ SE cos α per il flusso di campo elettrico che attraversa ∆ S , diventa:
ΔΦ=∆ SE cos α =E ∆ S' =E r 2 ΔΩ
1 q
Dalla definizione di campo elettrico E= r^ il flusso si può riscrivere come:
4 π ε0 εr r2
1 Q 2 QΔΩ
ΔΦ= r ΔΩ=
4 π ε0 εr r 2
4 π ε0 εr
Ripetendo il calcolo per tutte le superfici ∆ si in cui si è suddivisa la superficie chiusa S, si ottiene il flusso totale attraverso di essa:
Q
ΔΦ ( E )= ( Δ Ω1 + Δ Ω 2+ .. .+ Δ Ω n)
4 π ε0 εr
poiché la somma degli angoli solidi rappresenta l’angolo solido totale 4 π , sotto cui è vista una superficie chiusa S dalla carica Q al
suo interno, si ha:
Q Q
ΔΦ ( E )= 4 π=
4 π ε0 εr ε 0ε r

ENERGIA POTENZIALE ELETTRICA E POTENZIALE ELETTRICO: nel caso di un campo di forze elettriche si può dimostrare che esso è
sempre conservativo purché il campo sia stazionario, cioè generato da una distribuzione qualsiasi di cariche elettriche che non varia
nel tempo. Dato quindi un campo di forze elettriche si può definire una funzione ENERGIA POTENZIALE DEL CAMPO U (r ) che,
analogamente ai casi affrontati in meccanica, è tale per cui il lavoro che le forze del campo compiono per portare una carica
elettrica q da un punto A ad un punto B, giacenti entrambi nel campo, è esprimibile come differenza dei valori assunti dalla
funzione nei punti Ae B:
B
L=U A−U B=−∆ U=q0∫ E ∙ds
A
L’integrale dipende, come in tutti i casi relativi alle forze conservative, solo dal punto iniziale A e finale B e non dal percorso.
L’espressione esplicita dell’energia potenziale elettrica dipende dall’espressione della forza elettrica del campo.

Caso particolare di un campo elettrico uniforme: le linee di forza del campo sono rette parallele fra di loro e l’intensità del campo
elettrico è uguale in ogni punto del campo ed è indicata con E0 .

Una carica +q posta nel campo è sollecitata da una forza F=q E 0; per portarla da un punto A ad un punto B si compie un
E=E0 è uniforme):
lavoro (si tenga conto che
´
L=q E0 ∙ AB=q E 0 d=U ( A )−U ( B)
AB ed E0 ;
dove d= ABcosθ (θ angolo compreso fra il vettore ⃗ AB è il modulo del vettore ⃗
AB).

La differenza di energia potenziale di una carica q posta in un campo elettrico uniforme è data da q E o d , dove d è la distanza tra
due piani normali alle linee di forza passanti rispettivamente per A e B. L’energia potenziale definita sopra dipende dalla carica
elettrica considerata, posta nel campo elettrico oggetto dell’indagine e generato dalle cariche sorgenti del campo. Conviene invece
caratterizzare il campo elettrico mediante una funzione che dipenda esclusivamente dalle proprietà del campo.
Si introduce così il POTENZIALE ELETTRICO che è definito come “l’energia potenziale per unità di carica positiva q 0”:
U
V=
q0
La differenza di potenziale fra A e B, dove q 0 è la carica della particella di prova, si può riscrivere anche come:
B
U
V= =−∫ E ∙ ds
q0 A
Fissando il potenziale elettrico dovuto a una o più cariche sorgenti al valore di zero all’infinito, si può definire il potenziale elettrico
in un punto P ad una distanza qualsiasi dalla sorgente. Dall’ipotesi di V nullo all’infinito, si ha che il potenziale in un punto P è:
B
V P=−∫ E ∙ ds
A
il potenziale elettrico è uguale al lavoro per unità di carica (di prova) che bisogna compiere contro la forza associata al campo
elettrico per portare una carica elettrica dall’infinito al punto P.

volt (simbolo V ) definita come la differenza di potenziale che esiste tra due punti
L’unità di misura del potenziale elettrico è il
quando il lavoro fatto per trasportare una carica di 1 coulomb tra i due punti è di 1 joule . Si può anche scrivere quindi:
1 V =1 J /1C
e, per il campo elettrico:
1 N / C=1V / m

Nel caso del campo uniforme la differenza di potenziale elettrico tra due punti è data da:
B B B
V B −V A =−∫ E ∙ ds=−∫ E0 cos α ds=¿−E0 cos α ∫ ds=−E0 ds ¿
A A A
si deduce che se si conosce la funzione potenziale nei vari punti di un campo elettrico uniforme, si può ricavare il valore del vettore
V A −V B
campo elettrico. Nel semplice caso di un campo elettrico uniforme, l’intensità del campo elettrico è data da E0 = .
d
I risultati ottenuti nel caso di un campo elettrico uniforme dimostrano anche che tutti i punti giacenti su un piano perpendicolare a
E0 si trovano allo stesso potenziale; alla superficie che contiene punti allo stesso potenziale elettrico viene dato il nome di
superficie equipotenziale.
Ovviamente: non si compie alcun lavoro per spostare una particella carica fra due punti di una superficie equipotenziale.

Per determinare il campo elettrico conoscendo la forma analitica del potenziale da:
B
∆U
∆V = =−∫ E ∙ ds
q0 A
si ha:
dV =−E ∙ ds
che nel caso semplice di campo elettrico ad una sola componente lungo x si riduce a:
−dV
E x=
dx
se la distribuzione di carica ha simmetria sferica e il campo elettrico è quindi radiale, si ha:
−dV
Er =
dr

Esiste una relazione generale tra campo elettrico e potenziale elettrico che è la generalizzazione in 3 dimensioni:
E=−grad V =−∇ V
dove viene indicato con grad V il vettore gradiente del potenziale elettrico; questo vettore è rivolto nella direzione lungo la quale
la variazione di potenziale è massima con il verso che va dal potenziale minore a 1 potenziale maggiore. Le tre componenti del
vettore gradiente si possono scrivere:
−∂V −∂V ∂V
E x =−grad x V =−∇ x V = E y= E z=
∂x ∂y ∂z

Un altro caso particolare di grande importanza è quello del potenziale elettrico di un campo generato da una carica puntiforme. In
questo caso si può dimostrare che la differenza di potenziale tra due punti del campo che distano rispettivamente r A e r B dalla
carica ± q che genera il campo è:
q 1 1
V ( r A ) −V ( r B )=± ( −
4 πε r A r B )
Se si assume uguale a zero il potenziale di un punto posto all’infinito (r B → ∞ ), si può dire che il potenziale in un punto generico
del campo distante r dalla carica ± q è dato da:
q 1
V r =±
4 πε r

LAVORO IN TERMINI DI POTENZIALE ELETTRICO: Dalla definizione di potenziale elettrico si deduce che il lavoro fatto dal campo
elettrico per trasportare una carica q da un punto A ad un punto B aventi potenziale diverso è dato da:
L=q(V A −V B )

Richiamando quanto descritto per la determinazione del campo elettrico nel caso di distribuzioni continue di carica, si può calcolare
il potenziale elettrico dovuto a tali tipi di distribuzione. Per una distribuzione di carica qualsiasi, il differenziale del potenziale
elettrico (cioè il potenziale elettrico infinitesimo dovuto alla carica dq ) in un punto P qualsiasi dalla sorgente di cariche è:
dq
dV =K
r
dove r è la distanza del punto dall’elemento di carica dq . Analogamente a quanto visto per il campo elettrico, il potenziale totale
P si ottiene integrando su tutto il volume della sorgente di carica:
nel punto
dq
V =K ∫
r
CONDUTTORI E ISOLANTI
I CONDENSATORI: un conduttore è neutro quando in esso è contenuto un ugual numero di cariche positive e negative. In questo
caso si assume uguale a zero il potenziale elettrico del conduttore.

CARICA CONDUTTORE: un conduttore inizialmente neutro, se fornita una certa quantità di carica q positiva o negativa, il
conduttore viene “caricato”. La carica q si distribuisce alla superficie del conduttore e il conduttore acquista, a causa dell’eccesso di
carica q , un potenziale V che è lo stesso in ogni punto del conduttore.
Il fatto che un conduttore carico e in equilibrio è equipotenziale. Infatti se così non fosse le cariche elettriche libere si
muoverebbero dai punti di potenziale minore a quelli di potenziale maggiore e viceversa, fino a quando tutti i punti del conduttore
non si trovano allo stesso potenziale.

Essendo un conduttore in EQUILIBRIO EQUIPOTENZIALE, ne discende anche che il campo elettrico all’interno del conduttore è nullo.
Infatti, essendo il potenziale uguale nei vari punti del conduttore, il gradiente di potenziale e, di conseguenza, il campo elettrico
sono nulli.

La distribuzione delle cariche in eccesso in superficie è l’unica compatibile con un campo elettrico nullo all’interno del conduttore.
Se il conduttore viene caricato con quantità di carica diverse q 1 , q 2 , q 3 , … esso assume potenziali diversi V 1 ,V 2 , V 3 , … Il
rapporto tra la quantità di carica q fornita al conduttore e il potenziale V che esso acquista è costante. Questa costante è chiamata
CAPACITÀ DEL CONDUTTORE:
q1 q2 q 3
C= = = =.. . .. .
V1 V2 V3
La capacità C di un conduttore dipende quindi esclusivamente dalla forma e dalle dimensioni del conduttore stesso.

Il potenziale del conduttore è lo stesso in ogni punto e quindi basta calcolarlo in un punto qualsiasi, per esempio al centro del
conduttore. Per il principio di sovrapposizione, il potenziale nel centro O è dato dalla somma dei potenziali dovuti alle singole
cariche presenti in superficie:
1 1
V= ( ) ( q ' + q' ' + q' ' ' +. .. . ) = 1 q
( )
4 πε R 4 πε R
il rapporto q /V è costante. Tale costante rappresenta appunto la capacità del conduttore, che per una sfera di raggio R , è data
pertanto da:
C=4 πεR

La capacità di un condensatore è definita come il rapporto tra la quantità di carica presente su ciascuno dei conduttori o armature
del condensatore e la differenza di potenziale (anche detta tensione e indicata con il simbolo V ) che si stabilisce tra le armature:
Q Q
C= =
V 1−V 2 ∆ V

CAPACITORE O CONDENSATORE: un condensatore può essere carico o scarico; può essere ad esempio caricato collegando le sue
due armature ad una batteria.

Il termine capacità di un condensatore è di accumulare (immagazzinare) carica elettrica.

In molte applicazioni si accumula la carica elettrica su condensatori per usarla in momenti successivi.

La capacità di un condensatore dipende, oltre che dalla forma e dalle dimensioni del condensatore, anche dal materiale interposto
tra le due armature.

Il condensatore più comune è quello a facce piane e parallele.


La capacità di un condensatore a facce piane e parallele (condensatore piano) dipende dall’area S delle armature, dalla distanza d
tra le armature e dalla costante dielettrica e del mezzo interposto tra le armature:
Q Q Q S
C= = = =ε
∆ V Ed Q d
d
εS
σ Q
Il campo elettrico fra le armature (molto vicine) di un condensatore piano è dato da E= = , dove S = area delle lamine
ε εS
(facce) del condensatore. Si deduce anche che all’aumentare della superficie della armature, quindi per armature più grandi,
aumenta la capacità del condensatore.

Un condensatore cilindrico, nel caso in cui δ ≪R , ha la capacità è data da:


l
C=ε 2 πR
δ

COLLEGAMENTO TRA CONDENSATORI (I CIRCUITI ELETTRICI): un circuito elettrico è un insieme di elementi circuitali (batterie,
resistori, condensatori, misuratori di corrente e tensione, diodi, transistors, ecc.) connessi fra loro da fili conduttori.

 COLLEGAMENTO IN SERIE: se hanno in comune uno solo dei loro terminali (non si tratteranno i casi di elementi con più di
due terminali come ad esempio i transistor);
 COLLEGAMENTO IN PARALLELO: se ciascuno dei due terminali del primo elemento si trova allo stesso potenziale del
rispettivo terminale del secondo elemento, fermo restando che i due terminali di ciascun elemento possano essere a
potenziali diversi.

Due o più condensatori sono disposti IN SERIE quando la carica elettrica sulle armature dei diversi condensatori è la stessa, mentre
la differenza di potenziale (d . d . p .) tra le armature di ogni singolo condensatore è inversamente proporzionale alla sua capacità.
Se Q è la carica totale fornita al circuito dalla batteria, ai cui capi esiste una differenza di potenziale ΔV , si ha:
∆ V =∆ V 1 +∆ V 2
Se si vuole determinare il valore di della capacità equivalente dei due condensatori ( C eq), cioè che abbia nel circuito lo stesso
effetto dei due condensatori originali. Tenendo conto che per i due condensatori si ha:
Q Q
∆ V 1= ∆ V 2=
C1 C2
Per i condensatori in serie, la capacità equivalente (C eq) è:
1 1 1 1
= + + +. . . ..
Ceq C 1 C2 C 3

Nel caso invece di due condensatori IN PARALLELO la d . d . p . (differenza di potenziale) ΔV tra le armature dei singoli
condensatori è la stessa, mentre la carica elettrica è proporzionale alla capacità. Tenendo conto della conservazione della carica
elettrica per un sistema isolato e del fatto che quando la carica passa attraverso un punto di incontro di più di due conduttori
(nodo) si divide sui diversi conduttori, si ottiene quindi:
Q=Q 1 +Q 2
Q=C eq ∆V
C eq ∆ V =C 1 ∆ V +C2 ∆ V
Per condensatori disposti in parallelo, la capacità totale è uguale alla somma delle capacità dei singoli condensatori:
C eq=C 1 +C2 +C 3 +.. . .

MEZZO IN UN CONDENSATORE: se si suppone di poter misurare con un voltametro la d . d . p . fra le armature di uno stesso
condensatore con e senza dielettrico si ottiene:
∆V0
∆V =
εr
dove ΔV è la d . d . p . in presenza di dielettrico, ∆ V 0 in assenza di dielettrico ed ε r la costante dielettrica relativa del materiale,
si ha:
Q0 Q Q
C= = 0 =ε r 0 =ε r C 0
∆ V ∆V 0 ∆V 0
εr

CORRENTE ELETTRICA
La CORRENTE CONTINUA è un moto di cariche elettriche che produce un flusso netto di carica in una direzione.
Per realizzare una corrente continua in un conduttore bisogna quindi creare nel conduttore un campo elettrico che solleciti le
cariche elettriche a muoversi nella stessa direzione. Questo può essere ottenuto generando alle due estremità del conduttore una
differenza di potenziale (d . d .
p .) costante. In queste condizioni gli elettroni si muovono dai punti a potenziale minore ai punti a
potenziale maggiore tendendo ad annullare la d . d . p .; si noti bene che gli elettroni si muovono in questo verso perché sono
cariche negative. Infatti i sistemi fisici tendono a muoversi nella direzione di energia minore che per cariche negative corrisponde a
potenziali maggiori in valore assoluto, e per cariche positive a potenziali minori in valore assoluto. Se la d . d . p . viene mantenuta
costante, mediante un generatore che eroghi sufficiente energia, si ottiene un flusso continuo di elettroni nel conduttore. Si
definisce INTENSITÀ DI CORRENTE ELETTRICA MEDIA la quantità:
∆Q
I m=
∆t
può essere generalizzata e si può definire la corrente istantanea come il suo limite per ∆ t →0 :
∆ Q dQ
I = lim =
∆ t →0 ∆t dt
La corrente non è un vettore e, quindi, per la trattazione dei diversi casi fisici si deve definirne il verso positivo per convenzione: si
sceglie come verso positivo quello della corrente di cariche positive. Il verso positivo della corrente è quindi opposto al flusso
elettronico.

L’espressione dell’intensità di corrente tramite parametri microscopici, si suppone che la corrente sia costituita da particelle
(elettroni, ioni, buche elettroniche, …) dette PORTATORI DI CARICA. Se n è il numero di portatori di carica mobili per unità di
volume e si suppone che essi si spostino di un tratto ∆ x l nel tempo Δt si ha:
∆ Q=nA ∆ x 1 q
dove q è la carica del singolo portatore e A l’area della sezione del conduttore, assunta costante lungo il conduttore stesso.

Se si assume che lungo il conduttore i portatori si muovano con velocità media costante v d , detta VELOCITÀ DI DERIVA, cioè tutti i
portatori si spostino assieme di un tratto ∆ x l , si ottiene:
∆ Q=nA ∆ x 1 q=nA v d ∆ tq

∆Q
I m= =nA v d q
∆t

J è definita come la quantità di carica che attraversa un’unità di sezione del conduttore nell’unità di tempo:
La densità di corrente
∆Q
J= ∆ t=nq v d
A

RESISTENZA ELETTRICA E LEGGE DI OHM: il moto delle cariche all’interno del conduttore non è un moto rettilineo. Se infatti si
immagina come il conduttore (ad esempio un filo di rame) appare microscopicamente, si deve pensare ad atomi di rame
impacchettati all’interno del reticolo cristallino. Questi atomi fungono da barriera fisica al passaggio di particelle cariche (ad
esempio elettroni) le quali, pur attraversando il conduttore per effetto dell’esistenza di una d . d . p . ai suoi capi che ne stimola il
moto, subiscono continuamente urti principalmente con gli atomi del materiale e compiono un percorso “a zig-zag”. Da questo tipo
di comportamento deriva il termine resistenza di un conduttore, in quanto rappresenta proprio la resistenza offerta dal materiale al
passaggio di corrente al suo interno.

Se con opportuni strumenti si è in grado di misurare sperimentalmente la d . d . p . elettrica ai capi del conduttore e la corrente
che lo attraversa, si trova che per la maggior parte dei conduttori, compresi i conduttori elettrolitici, la densità di corrente J è
proporzionale al campo elettrico agente:
J=σE
dove la costante di proporzionalità σ viene chiamata CONDUCIBILITÀ. Questa è una conseguenza del fatto che la velocità media di
trascinamento (o velocità di deriva, si veda il paragrafo precedente) delle cariche che si muovono sotto azione del campo elettrico è
proporzionale alla forza agente e quindi al campo elettrico.

La legge di Ohm equivale all’assunzione che la velocità di trascinamento delle cariche elettriche libere in un conduttore sia
proporzionale al campo elettrico agente. Per VELOCITÀ DI TRASCINAMENTO si intende la velocità media di regime (costante nel
tempo) che una carica elettrica raggiunge quando viene accelerata ad una velocità tale per cui la forza agente è esattamente
equilibrata dalla forza di attrito e pertanto la carica prosegue con velocità costante. Si consideri un conduttore di sezione di area A
e si supponga che le cariche libere siano elettroni. Si pone che la velocità di trascinamento sia proporzionale alla forza agente sulla
carica e sull’elettrone:
v=μeE
μ è una costante chiamata MOBILITÀ.
dove

Come visto in precedenza, la quantità di carica ΔQ che attraversa una sezione del conduttore nel tempo ΔQ è data dal prodotto
della densità di carica ne degli elettroni liberi per il volume AvΔt che rappresenta il volume che contiene gli elettroni che nel
tempo t sono transitati attraverso la sezione di area A del conduttore. Si ottiene pertanto che:
∆Q ∆t
J= =neAv =nev=neμeE=σE
A∆t A∆t

Le 2 espressioni sono equivalenti con la conducibilità è data da σ =n e 2 μ .


La legge di Ohm è enunciata comunemente in un’altra forma. Si consideri un conduttore ai cui estremi a e b sia applicata una
d . d . p . costante. La legge di Ohm stabilisce che il rapporto tra la d . d . p . alle estremità del conduttore e l’intensità della
corrente elettrica che attraversa il conduttore è costante:
V a−V b ∆ V
= =R
I I
La costante R è chiamata resistenza elettrica del conduttore e dipende dal tipo di conduttore e dalla sua geometria secondo la
seguente relazione, talvolta chiamata seconda legge di Ohm:
l
R=ρ
A
dove l = lunghezza, A = area della sezione e ρ è una costante chiamata resistenza specifica o RESISTIVITÀ. E’ valida nelle condizioni
in cui ρ sia costante nel tratto di conduttore considerato. La resistività dipende dal tipo di materiale considerato e dalla
temperatura. Si può dimostrare sperimentalmente che nella maggior parte dei metalli, in un intervallo limitato di temperatura, la
resistività dipende dalla temperatura secondo la legge:
ρ=ρ 0 ¿
dove ρ è la resistività ad una data temperatura T , ρ0 è la resistività alla temperatura di riferimento T 0=20 ° C e α è chiamato
coefficiente termico di resistività.

Si consideri per semplicità un conduttore cilindrico a sezione costante e sia V A −V B la d . d . p . agli estremi. Il campo elettrico
nel conduttore B è dato da:
^ A −V B)
l(V
E=−grad V =
l
Il campo elettrico nel conduttore è stato assunto uniforme pertanto si ricava:
A (V A −V B )
I =JA=σ
l

ENERGIA E POTENZA ELETTRICA: l’energia chimica della batteria viene trasformata in parte in energia cinetica degli elettroni e in
parte in energia interna dei tratti di conduttore resistivo (il resistore o resistenza).
Nei modelli di circuito i tratti rettilinei sono composti da conduttori di resistenza idealmente nulla o comunque molto piccola
rispetto a quella tipica dei componenti resistivi.

Quindi i portatori di carica elettrica che passano nel circuito dissipano parte della propria energia cinetica, per effetto degli urti dei
portatori di carica con gli atomi, soltanto nei resistori. Durante le collisioni, i portatori di carica perdono energia cinetica a favore
dell’aumento di energia interna del resistore causato appunto dagli urti portatori-atomi. Globalmente, quando una carica percorre
un circuito da b ad a una parte dell’energia chimica fornita dalla batteria viene quindi trasformata in energia interna del resistore.
Si consideri la rapidità con cui il sistema perde energia potenziale elettrica quando una carica Q attraversa il resistore:
dU d (Q ∆ V ) dQ
= = ∙ ∆V =I ∆V
dt dt dt
dove I è la corrente nel circuito e ΔV è la d . d . p . ai capi del resistore.

Quando il sistema di cariche riattraversa la batteria dopo che ha finito un intero giro, riacquista energia a scapito dell’energia
chimica della batteria.

Per definizione di potenza, essa rappresenta la rapidità con cui l’energia è fornita al resistore (sotto forma di aumento di energia
interna) e si può usare per determinare la potenza trasferita da una sorgente di tensione a un dispositivo qualsiasi che trasporti
corrente I e avente una d . d . p . ΔV ai suoi capi.

Usando la legge di Ohm la si può anche riscrivere:


( ∆V )2
P=IΔV =I 2 R=
R
L’unità di potenza nel SI è il watt. Il consumo di energia elettrica in genere è fornito in termini di kilowattora, definito da:
1 kWh=1· 103 W· 3600 s=3.6 ·106 J

FORZA ELETTROMOTRICE E CIRCUITI IN CORRENTE CONTINUA: Il passaggio di una corrente continua attraverso un conduttore può
venire instaurato applicando una d . d . p . ai capi dei conduttori mediante un opportuno dispositivo: batteria o generatore di
energia elettrica.

Un generatore è essenzialmente un dispositivo che trasforma in energia elettrica un’energia di altra natura ed è capace di
mantenere una d . d . p . costante ai suoi capi (equivale alla capacità di continuare nel tempo ad “iniettare” cariche in un circuito).

Si definisce FORZA ELETTROMOTRICE ( f . e .m .) di un generatore il lavoro f che il campo elettromotore (del generatore) compie
per far percorrere ad una carica unitaria positiva l’intero giro del circuito. Il generatore nei circuiti è rappresentato da due linee
verticali di lunghezza diversa: la più corta rappresenta il polo a potenziale negativo e la più lunga il polo a potenziale positivo. Il
campo elettromotore avrà origine chimica, meccanica, termica o altra, a seconda del tipo di generatore.

Laf . e .m . di un generatore è uguale alla d . d . p . misurata ai suoi morsetti quando non eroga corrente (circuito aperto). Infatti,
si consideri una resistenzaR e si chiuda un circuito sul generatore; in questa situazione si verifica sperimentalmente che è
necessario tenere conto dell’esistenza di una resistenza interna r del generatore stesso. Quindi, a circuito chiuso, ai capi del
generatore si ha una d . d . p . V A −V B che, vista la definizione della f . e .m . f , è data da:
V A −V B =f −rI
Considerata la legge di Ohm:
V A −V B =RI
si ottiene:
f
f =( R+r ) I I =
R+r
dove I è la corrente che circola nel circuito chiuso e R la resistenza esterna (di carico). A circuito aperto ( I =0) si ha
V A −V B =f .

Generatore di energia elettrica. Nel generatore a circuito aperto le cariche elettriche assumono una configurazione di equilibrio,
con un eccesso di cariche positive da un lato e di cariche negative dall’altro. Nel generatore agiscono dunque delle forze attive
(forze di un campo elettromotore Em ) che mantengono separate le cariche di segno opposto, forze che sono opposte al campo
elettrico attrattivo nel generatore.

Quando il generatore viene chiuso su un circuito esterno si ha un moto d’insieme di cariche elettriche nel circuito (corrente
elettrica). In generale un circuito elettrico contiene elementi circuitali passivi (le resistenze esterne R , le capacità C dei conduttori
e le induttanze L) ed elementi attivi (i generatori). Questi ultimi possono essere considerati alternativamente generatori di
d . d . p . oppure generatori di corrente a seconda dell’entità della resistenza R del circuito rispetto alla resistenza interna r del
generatore. Nel caso in cui R≫r il generatore fornisce ai suoi terminali una d . d . p . praticamente indipendente dalla corrente
che esso eroga [il fattore r·I è trascurabile]. Quando invece R≪r il generatore eroga una corrente che risulta, applicando
sempre la, praticamente indipendente dalla d . d . p . fra i suoi terminali. In generale tuttavia, un generatore fornisce ai suoi capi
una d . d . p . che è funzione della corrente erogata e viceversa.

COLLEGAMENTI TRA RESISTENZE: resistenze collegate in serie:


∆ V =I R1−I R 2=I ( R 1−R2 )=I R eq Req =R1 + R2
Resistenze collegate in parallelo:
∆V ∆V ∆V ∆V 1 1 1
I =I 1+ I 2= + = = = +
R1 R 2 R1 + R2 Req Req R1 R 2

PRINCIPI DI KIRCHHOFF
1A PRINCIPIO (legge dei nodi): la somma algebrica delle intensità di corrente in un nodo è uguale a zero.

2a PRINCIPIO (legge delle maglie): in ciascuna maglia di un circuito la somma algebrica delle cadute di potenziale in ciascuna
resistenza è uguale alla somma delle d . d . p . ai morsetti dei generatori (in questo paragrafo indicata con ε ) presenti nella maglia.
La legge della maglie deriva dalla conservazione dell’energia, assunto di nuovo il circuito come isolato. Per quanto riguarda il
generatore, si assume ΔV positivo se il verso convenzionale positivo di circolazione attraversa il generatore dal polo negativo a
quello positivo, e negativo se è vero il contrario.

Maglia I −i 1 R1 −i2 R2 +V =0
Maglie II −i 3 R3 −i 3 R4 + i2 R2=0
Legge dei nodi i 1=i 2+ i3

EFFETTO TERMICO DELLA CORRENTE: EFFETTO JOULE


In un conduttore metallico le cariche si muovono sotto l’azione del campo elettrico creato nel conduttore dal generatore. Il moto
degli elettroni viene tuttavia ostacolato da continui urti con altri elettroni e con gli ioni del metallo. L’energia cinetica che un
elettrone acquista nel tratto tra una collisione e la successiva viene ceduta durante la collisione agli ioni del reticolo cristallino che di
conseguenza aumentano la propria energia cinetica di agitazione termica. È quindi comprensibile che il passaggio di corrente
produca il riscaldamento del conduttore. Per valutare la quantità di calore Q che si sviluppa nel conduttore si, se si indica con V la
d . d . p . agli estremi del conduttore e con q la carica elettrica, dalla definizione di potenziale elettrico discende che la quantità:
2 V2
L=Vq → L=iVt=i Rt = t
R
Il lavoro L si trasforma integralmente in calore Q e pertanto, utilizzando il principio di equivalenza calore-lavoro, si ottiene che il
calore misurato in calorie sviluppato in un conduttore al passaggio della corrente è:
Q=0,24 i 2 Rt=0,24 iVt=0,24 V 2 / Rt
dove, esprimendo i in ampère , R in ohm e V in volt , si ottiene Q in calorie . La potenza dissipata dal conduttore è:
L Q
P= =i 2 R P= =0,24 i 2 R
t t
a seconda che si usino come unità di misura joule /s=watt oppure cal /srispettivamente.

MAGNETISMO
CAMPO MAGNETICO: cariche elettriche in movimento e i campi elettrici siano variabili nel tempo: accanto al vettore campo
elettrico, si introduce, il campo magnetico, che permette di rappresentare le forze che si esercitano tra cariche elettriche quando
esse sono in movimento.

Le forze elettrostatiche e le forze magnetiche sono due aspetti particolari della forza d’interazione elettromagnetica. La sintesi delle
leggi dell’elettromagnetismo è contenuta nelle equazioni di Maxwell.

Ogni qualvolta si abbiano delle cariche elettriche in moto, fra di esse si esercitano delle forze: le FORZE MAGNETICHE. Le forze
magnetiche in verità si manifestano nella realtà quotidiana, in apparente assenza di moti di cariche macroscopiche, anche fra
materiali naturali o artificiali che posseggono la proprietà di attrarre o respingere oggetti, ad esempio di ferro, e di attrarsi o
respingersi vicendevolmente, a seconda del loro posizionamento.

Le calamite, ormai di uso comune per diversi scopi, e alle bussole, strumenti per l’orientamento atti a determinare la direzione del
nord magnetico sfruttando l’azione del campo magnetico terrestre su un ago magnetico. Il campo magnetico terrestre è generato
principalmente da ossidi di ferro contenuti nelle rocce del pianeta, i quali sono i principali responsabili dello spostamento dell’ago
contenuto all’interno della bussola, in assenza di altre fonti di forze magnetiche. I materiali responsabili di un campo magnetico
sono spesso chiamati MAGNETI.

FORZA MAGNETICA: da osservazioni sperimentali si conclude che in presenza di due circuiti (o molecole o atomi) percorsi da
corrente elettrica (elettronica) si sviluppano forze fra di essi chiamate forze magnetiche.

Si considerano due conduttori filiformi rettilinei indefiniti, percorsi da correnti di intensità i 1 e i 2 rispettivamente e disposti
parallelamente tra di loro ad una distanza d .
Sperimentalmente si trova che la forza F , che il filo 1 esercita sul filo 2, giace nel piano individuato dai due fili ed è attrattiva o
repulsiva a seconda che le due correnti siano dirette nello stesso senso o in senso opposto. Se si considera un tratto a contatto
mobile ∆ l del filo 2, si trova che l’intensità della forza, che agisce su di esso, è direttamente proporzionale alle intensità di correnti
i 1 e i 2 e alla lunghezza ∆ l del tratto, mentre è inversamente proporzionale alla distanza d :
μ i 1 i 2 ∆l
F=
2π d
Nel Sistema Internazionale, la costante di proporzionalità viene scritta, per convenienza, comeμ/2 π e μ è chiamata
PERMEABILITÀ MAGNETICA del mezzo. Può essere scomposta, analogamente alla costante dielettrica ε ( ε=ε 0 ε r ), nella
2
permeabilità magnetica del vuoto μ0 ( μ0 =4 π 10 kg m/coulomb ).
−7

Nella permeabilità magnetica relativa μr (adimensionale) si ha μ=μ 0 μr . Si deve però osservare che, a differenza di quanto
avviene nell’elettrostatica, ove ε r è sempre maggiore di 1, μr può essere minore di 1 (sostanze diamagnetiche), oppure maggiore
di 1 (sostanze paramagnetiche), oppure molto maggiore di 1 (sostanze ferromagnetiche).
LEGGE DI LA PLACE: la forza magnetica permette di definire l’ampère nel SI. Questa unità è infatti definita come la corrente
elettrica continua che, mantenuta in due conduttori paralleli rettilinei di lunghezza infinita e di sezione circolare trascurabile, posti
alla distanza di un metro uno dall’altro nel vuoto, produce fra questi conduttori una forza pari a 2 ·10−7 newton per ogni metro
di lunghezza. In queste condizioni la permeabilità magnetica nel vuoto μ=μ 0, risulta pari a 4 π 10−7 kg mC−2 . In analogia a
quanto sviluppato sopra a proposito delle azioni di forza fra due cariche elettriche, si può affermare che il filo 1 crea nello spazio
circostante un campo di forze chiamato campo magnetico e che un tratto Δl del filo 2, posto in questo campo magnetico, è
sollecitato da una forza. La forza può quindi venire scritta nella forma:
μ i 1 i 2 ∆l
F= → F=Bi 2 ∆ l
2π d
dove F è la forza, mentre B indica il modulo di un vettore che rappresenta il campo magnetico generato dal filo 1. Il vettore B
prende il nome di vettore induzione magnetica o vettore campo magnetico. Se si ripete l’esperimento facendo ruotare il filo 2, si
vede che la forza F varia in funzione dell’angolo che il filo forma col piano della figura e si annulla quando il filo è perpendicolare al
piano. Questa, con ad altre osservazioni, ha portato a postulare per la forza F la seguente espressione vettoriale (legge di Laplace):
F=∆ l i 2 × B
dove è indicato con i 2 un vettore avente modulo i 2, la direzione del filo 2 e verso della corrente i 2, e con B il vettore induzione
magnetica generato dal filo 1 sul tratto Δl del filo 2.

F risulta normale al piano individuato dai vettori i 2 e B. Inoltre il modulo di F è:


Dalla definizione di prodotto vettoriale, la forza

Bi ∆ l sinθ , dove θ è l’angolo, minore di 180 °, formato dai vettori B e i 2.


2

i i ∆l
Sostituendo F=Bi 2 ∆ l nell’equazione F= μ 1 2 si ha:
2π d
μ i1
B=
2π d
che rappresenta il campo magnetico ad una distanza d da un filo attraversato da una corrente i 1.

LEGGE DI BIOT E SAVART: dato un filo di forma qualsiasi attraversato da una corrente I . Il campo magnetico in un punto
P distante
r dal filo può essere calcolato considerando dapprima l’espressione del campo magnetico infinitesimo dB generato dal tratto d s
del filo. Tale campo risulta:
μ Ids× r^
dB=
4 π r2
μ i 1 se il filo è rettilineo e indefinito, integrando da
Questa legge generale si riduce a B= −∞ a + ∞.
2π d

La direzione e il verso del vettore B si ottengono invece misurando la forza F che agisce su un filo esplorante, percorso da
corrente elettrica. Una fondamentale caratteristica del vettore B è che le sue linee di forza sono sempre linee chiuse, abbraccianti i
fili percorsi da correnti. Un campo vettoriale che gode di questa proprietà si dice SOLENOIDALE. L’unità di misura del vettore campo
magnetico nel SI è il tesla (T ), dato da:
newton /(ampère · m)=newton · s /(coulomb · m)=volt · s /m2=tesla(T )
Un’altra unità di misura comunemente usata per il campo magnetico è il gauss (G ), dove 1 T =104 G. Il gauss si presta
meglio per misurare piccoli campi magnetici quali, per esempio, quello della Terra, che all’equatore è di circa 0 , 5 G, oppure i
campi magnetici generati nei sistemi biologici dalle correnti elettriche che trasportano i segnali nervosi e che sono tipicamente
dell’ordine del millesimo di gauss.

Per descrivere il campo magnetico nello spazio, in modo che esso sia indipendente dal mezzo materiale che occupa lo spazio stesso,
ricordando che:
μ=μ 0 μr
si può introdurre il vettore:
B
H=
μ
Il vettore H è parallelo con verso concorde a B e le unità di misura sono diverse per H e per B. La descrizione del campo
magnetico può essere svolta indifferentemente con il vettore H o con il vettore B, essendo i due vettori proporzionali l’uno
all’altro.

FORZA DI LORENTZ: è il moto di una particella carica in un campo magnetico uniforme.


La legge di Laplace ( F=∆ l i 2 × B ) definisce la forza che agisce su un filo percorso da corrente elettrica che si trovi immerso in un
campo magnetico.
Lo stesso tipo di forza agisce anche su una particella carica che si muove in un campo magnetico. Una carica elettrica q , in moto
con velocità v , equivale ad una corrente elettrica che scorre in un filo ideale lungo la traiettoria della particella stessa. La
generalizzazione della legge di Laplace prende il nome di FORZA DI LORENTZ:
F B=qv × B
Per le proprietà del prodotto vettoriale, la forza di Lorentz risulta sempre perpendicolare alla direzione della velocità della
particella. Tale forza è, ovviamente, nulla quando il vettore campo magnetico è parallelo alla velocità.

La forma della forza di Lorentz discende dalle seguenti osservazioni sperimentali realizzate con prove successive su una particella
carica (q ) in moto con velocità v in un campo magnetico B:
 la forza magnetica F B è proporzionale alla carica q e al modulo della velocità v della particella;
 il modulo e la direzione di F B dipendono dalla direzione relativa di B e v ;
 quando la particella si muove in direzione parallela a B, si ha F B=0;
 detto θ l’angolo fra v e B, F B agisce in direzione perpendicolare sia a v sia a B;
 F B agente su una carica positiva è opposta a F B agente su una carica negativa che si muove nello stesso verso;
 il modulo di F B è proporzionale a sin θ .

FORZA ELETTRICA vs FORZA MAGNETICA:


1. la forza elettrica è sempre parallela o antiparallela alla direzione del campo elettrico, mentre la forza magnetica è
perpendicolare al campo magnetico;
2. la forza elettrica agisce su una particella carica indipendentemente dalla sua velocità, mentre la forza magnetica agisce su
una particella carica solo quando essa è in movimento;
3. la forza elettrica compie lavoro spostando una particella carica, mentre la forza magnetica associata ad un campo
magnetico costante non compie lavoro quando la particella carica viene deflessa dal campo magnetico.
Quando una carica è in movimento in un campo magnetico costante, la forza magnetica è sempre perpendicolare allo
spostamento, cioè, F B ds=F B v dt=0 , perché F B è perpendicolare a v. Quindi, considerando anche il teorema dell’energia
cinetica, l’energia cinetica di una particella carica non può essere alterata dalla presenza del solo campo magnetico, cioè il campo
magnetico può alterare soltanto la direzione orientata della velocità.

CAMPO MAGNETICO GENERATO DA UNA SPIRA E DA UN SOLENOIDE: in una spira circolare percorsa da corrente, il campo
magnetico nel centro della spira risulta diretto normalmente al piano della spira, mentre nei pressi del filo le linee di forza tendono
a disporsi intorno al filo. Il modulo del campo magnetico nel centro della spira (nel vuoto) risulta dato da:
μ0 i
B=
2R
con R raggio della spira.

Un SOLENOIDE è costituito da un grande numero di spire ottenuto avvolgendo un filo intorno a un cilindro. Se il solenoide è
abbastanza lungo, le linee di forza del campo magnetico generato quando il solenoide viene attraversato da una corrente i,
risultano addensate all’interno del solenoide dove sono parallele all’asse del solenoide stesso. Le linee di forza si chiudono
all’esterno in spire così ampie che il valore del campo magnetico si può considerare nullo all’esterno del solenoide.

Il modulo del campo magnetico (nel vuoto) all’interno del solenoide è dato da:
B=μ0 ∈¿
N
dove n= è il numero di spire per unità di lunghezza del solenoide.
L

TEOREMA DI AMPERE: in questo esperimento, alcuni aghi magnetici (che seguono le linee del campo) sono posti in un piano
orizzontale nelle vicinanze di un lungo filo verticale. Quando il filo non è percorso da corrente, tutti gli aghi magnetici sono orientati
nello stesso verso, quello del campo magnetico terrestre. Quando nel filo passa una corrente continua sufficientemente intensa,
invece, gli aghi magnetici si orientano lungo la tangente ad una circonferenza avente il centro sul filo. Essendo gli aghi magnetici
diretti nel verso di B, le cui linee di campo formano circonferenze concentriche. Per questioni di simmetria, l’intensità di B è la
stessa ovunque su una circonferenza avente centro sul filo e giacente in un piano perpendicolare al filo. Variando l’intensità della
corrente e la distanza dal filo, si trova che B è direttamente proporzionale alla corrente e inversamente proporzionale alla distanza
dal filo.
Il teorema di Gauss è una relazione fra una carica elettrica e il campo elettrico prodotto e si può usare per determinare il campo
elettrico in condizioni di simmetria, il teorema di Ampere è l’equivalente per il campo magnetico.

Il Teorema definisce una relazione per determinare il campo magnetico generato da una distribuzione di corrente simmetrica.
Afferma che la circuitazione del vettore campo magnetico è uguale alla corrente concatenata per μ0, se nel vuoto:
∮ B ds=B ∮ ds=μ0 I
dove ∮ ds=2 π r è la lunghezza della circonferenza e I è la corrente continua totale concatenata con il percorso chiuso. Nel
caso particolare di un percorso circolare che avvolge il filo, può essere applicato, in generale, ad un qualsiasi percorso chiuso
concatenato con una corrente continua.

Per poter applicare il teorema di Ampere al calcolo di un campo magnetico, si deve trovare un cammino di integrazione che soddisfi
una o più delle seguenti condizioni:
 si può dedurre il valore costante del campo magnetico sull’intero percorso per simmetria;
 il prodotto scalare nell’Equazione di Ampere si può esprimere come un semplice prodotto algebrico Bds poiché B e ds
sono paralleli;
 il prodotto scalare nell’Equazione di Ampere è zero poiché B e ds sono perpendicolari;
 si può dedurre che il campo magnetico è nullo in tutti i punti del percorso.

INDUZIONE MAGNETICA: un circuito percorso da una corrente elettrica genera nello spazio circostante un campo di forze che
agisce su un altro circuito “sonda” percorso da corrente posto a sua volta nel campo di forze. Questo campo di forze è il campo
magnetico, mentre il vettore B è l’intensità del campo magnetico.

Si consideri il caso di un circuito chiuso che si trovi in un campo magnetico di intensità costante e avente linee di forza parallele fra
loro. Si definisce flusso Φ del campo magnetico concatenato al circuito (spira) di superficie con area totale A , l’espressione:
Φ=∮ B dA
S di area A e dA è un vettore associato a un’area infinitesima della superficie e
dove l’integrale è effettuato su tutta la superficie
perpendicolare ad essa. Se, come nel caso considerato, B è costante e l’angolo fra B e i vettori dA associati alle diverse superfici
infinitesime è costante (spira piana), si riduce a:
Φ=BA cos α
dove A è l’area della superficie S delimitata dal circuito chiuso e α è l’angolo formato tra la direzione del vettore B e la normale
alla superficie S.
INDUZIONE MAGNETICA: LEGGE DI FARADAY-NEWMANN: il flusso Φ concatenato al circuito può variare nel tempo se per esempio
il circuito viene fatto ruotare nel campo magnetico oppure se l’intensità del campo magnetico viene fatta variare nel tempo. Si
osserva sperimentalmente che se il flusso Φ concatenato al circuito non varia nel tempo non succede nulla.

Viceversa se Φ varia nel tempo, tra i punti A e B del circuito aperto si stabilisce una d . d . p . per tutto il tempo in cui dura la
variazione del flusso. È questa una f . e .m . INDOTTA. Se il circuito viene chiuso, la f . e .m . indotta genera una corrente indotta.
Si ricordi che la forza elettromotrice ( f . e .m .) coincide con la d . d . p . tra i poli di un generatore quando il generatore è aperto
oppure è chiuso su un circuito di resistenza grande rispetto alla resistenza interna del generatore stesso.

Il legame quantitativo tra la f . e .m . indotta e la variazione nel tempo del flusso è stabilito dalla legge di Faraday-Newmann:
−d Φ
ε=
dt
dove ε è la f . e .m . indotta e dΦ è la variazione infinitesima di flusso che ha luogo nell’intervallo di tempo dt . Il segno meno
nella sta ad indicare che la corrente indotta deve avere verso tale da opporsi, con il campo magnetico da essa prodotto, alla
variazione di flusso che l’ha generata. Se si hanno N spire, la f . e .m . ε viene moltiplicata per N .

Una f . e .m . indotta può essere generata in diversi modi:


1) quando varia nel tempo il modulo di B;
2) quando varia nel tempo l’area della superficie S del circuito;
3) quando varia nel tempo l’angolo fra B e la normale a S;
4) con una combinazione dei casi 1−3 .

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