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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO

Facoltà di Filosofia
Anno Accademico 2016/2017

Storia delle dottrine politiche


Prof. Nicola Arturo Del Corno

Rivoluzione e libertà nel XIX secolo:


Bakunin, Marx, Mazzini, Stuart Mill.
Appunti del corso

Francesco Marsigli
Introduzione
Quale sia l'oggetto di questo corso e cosa voglia dire “politiche” è la domanda da cui partire: il
termine ha origine nella lingua greca e letteralmente indica “tutto ciò che riguarda la pòlis”, ovvero
la comunità politica. La politica è lo sforzo di dare ordine alla vita delle comunità umane,
determinandone regole per i rapporti tra i singoli o tra i gruppi che partecipano alla vita comune,
regolando i conflitti, la distribuzione o la produzione. La politica è la produzione di regole per dare
ordine alla vita della comunità, ossia degli uomini riunitisi insieme.
Per moltissimi degli autori che affronteremo, per avere l'ordine è strettamente necessario il “potere”;
questo diventa dunque uno dei temi principali della riflessione politica e si declina in numerose altre
questioni. Il potere viene generalmente inteso come lo stabilire le regole del vivere insieme, il farle
rispettare e la facoltà di punire chi non le rispetta. Per alcuni autori, cioè quelli appartenenti alla
corrente anarchica, il potere non è necessario in politica, mentre per la stragrande maggioranza
invece lo è. Ciò che distingue internamente questo secondo gruppo sono invece le risposte che gli
autori danno a diverse questioni; “come nasce il potere” è già, ad esempio, un tema di grande
discussione: una possibile origine è Dio, che detiene tutti i poteri e delega il potere politico all'uomo
perché venga esercitato in un determinato moto; altri autori rispondono invece “l'uomo”, sostenendo
quindi la tesi che sia la libera scelta dell'essere umano, che elabora un sistema politico e “crea” il
potere tramite il proprio consenso a questo sistema; per altri ancora il potere è nato insieme
all'uomo e dunque la sua origine precisa si perde nella storia, poiché esso è sempre stato presente.
Altre questioni riguardano invece non l'origine ma i soggetti, gli oggetti, le forme e il fine del
potere: chi ha potere? Su chi agisce il potere? In che modo viene esercitato il potere? Quale deve
essere l'obiettivo del potere? Anche di fronte a queste domande gli autori si dividono dando risposte
molteplici e differenti. Sappiamo infatti che nella storia umana il potere è stato ed è esercitato da
soggetti diversi con diverse caratteristiche: può essere un individuo, un ceto, una classe, l'insieme
dei cittadini più o meno completo, una Chiesa, una razza o una nazione. Se osserviamo il problema
dal punto di vista degli oggetti del potere, vengono immediate domande come “perché si obbedisce”
o “fino a che punto si debba obbedire”. Dal punto di vista storico ci sono molti modi diversi di
ottenere obbedienza: si può obbedire in seguito ad un atto di forza altrui (per diritto di conquista);
per motivi religiosi: il Dio in cui si crede ha stabilito un ordine e ribellarsi a quest'ordine sarebbe
prima di tutto peccato mortale e blasfemia; oppure si obbedisce tramite ragione: ognuno acconsente
ad obbedire ad un ordine politico conforme alla propria volontà. Anche il problema del fine del
potere vede numerose sfaccettature: può infatti essere il prestigio e la potenza di chi detiene il
potere, la libertà dei cittadini, l'eguaglianza, il benessere, la felicità, l'utilità privata o pubblica.
Parallelo a tutto questo scorre il discorso relativo alle istituzioni politiche, alle forme in cui il potere
si organizza e si esercita: l'analisi di queste tende a delinearne il funzionamento, i vantaggi, gli
svantaggi e i limiti che si pongono al potere. A proposito di questo possiamo delineare infatti limiti
costituzionali, basati su di una carta costituzionale che li stabilisca, limiti naturali, basati invece
sulla naturalità e l'inviolabilità dei diritti umani, oppure limiti tradizionali o imposti dalla religione.
Possono anche non esserci limiti al potere, facendoci ricadere nelle questioni relative a tirannia,
dispotismo e dittatura.
A livello accademico la materia nasce negli '20 grazie a Gaetano Mosca, docente di “Storia delle
dottrine e delle istituzioni politiche”; è solo negli anni '30 che la materia viene separata in “Storia
delle dottrine politiche” e “Storia delle istituzioni politiche”. La storia delle dottrine pone infatti la
sua attenzione a quei sistemi di pensiero compiuti e completi; è sempre stata una materia di confine,
dato che appartiene all'ambito giuridico e filosofico non meno che all'ambito storico. È sempre stato
molto acceso il dibattito relativo all'oggetto di studio effettivo della materia: vi è chi sostiene che
siano oggetto di studio esclusivamente le dottrine, ossia i sistemi perfetti elaborati da autori
coscienti del proprio fine, e chi invece include anche le dottrine in via di sviluppo o le
manifestazioni della politica nelle altre attività umane, comprendendo quindi anche giornali,
canzoni o dipinti. I testi classici sono infatti fondamentali per lo studio delle dottrine politiche ma
non sono l'unica ed esclusiva manifestazione di quel vasto mondo che è la politica.
Niccolò Machiavelli (1469-1527)
L'inizio della storia delle dottrine politiche è segnato da Niccolò Machiavelli, poiché è il primo
autore a scindere la politica dalla morale religiosa proclamandone l'autonomia nei confronti di ogni
altra attività umana. Il suo pensiero è stato spesso tacciato di immoralità ma questo non è vero: la
politica machiavelliana è semmai “amorale” dato che possiede una propria etica specifica e legata
alle caratteristiche della politica stessa.
La sua opera principale è Il principe, scritta durante l'esilio dall'attività politica nel 1513 e dedicata
alla signoria medicea; il libretto vide le stampe solo dopo la morte dell'autore, ossia nel 1532, con
un altro titolo rispetto a quello originale. Come dice nella Lettera a Francesco Vettori, X dicembre
1513, Machiavelli ha composto un opuscolo intitolato De Principatibus, ossia Sui Principati, in cui
non vuole analizzare la persona del principe quanto piuttosto le caratteristiche del principato inteso
come stato e istituzione. L'incipit dell'opera è infatti il seguente «Tutti li stati, tutti e’ dominii che
hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati»; fin dal
principio Machiavelli prende le distanze dalla filosofia politica classica, che seguiva la tripartizione
aristotelica delle forme di governo, e riduce a due le possibilità che ha la politica di organizzarsi. La
differenza tra principato e repubblica è data dalle istituzioni e dalla finalità differente: una
repubblica opera per l'interesse pubblico, mentre un principato ha come finalità l'interesse privato
del principe. L'analisi che Machiavelli compie sui principati è capillare e va ad esaminare ogni
aspetto: i principati possono essere ereditari, misti (possedimenti aggiunti in vario modo a domini
preesistenti) o nuovi (creati dal nulla per nuovi principi); i principati nuovi si possono acquistare in
vario modo: con armi proprie o con armi altrui, per virtù o per fortuna, in modo scellerato o con il
favore dei propri sudditi.
È nei capitoli centrali del Principe (cap. 15-23) che vengono esaminati i modi di agire del principe
nel rapporto con la politica, ossia con il proprio stato, con le istituzioni del proprio potere e con i
propri sudditi. Trattandosi di “scienza politica”, Machiavelli vuole basarsi esclusivamente sulla
realtà storica, istituzionale, antropologica e culturale, senza appoggiarsi all'immaginazione di cose
migliori o utopie. Egli vuole scrivere un'opera utile e l'utopia, l'immaginarsi cose migliori di quelle
che sono realmente, non è esercizio utile alla politica poiché porta alla rovina. Allo stesso modo
cadrà in rovina il principe che vuole apparire buono e giusto, poiché il metro di giudizio in politica
non è quello dell'etica cristiana ma piuttosto quello dell'etica politica. Esiste infatti una etica della
politica secondo Machiavelli che è però utilitaristica, dato che infatti l'utile e l'interesse sono il fine
stesso della politica. Il principe non deve infatti mai considerare la moralità delle sue azioni ma la
loro utilità rispetto al fine supremo, ossia la potenza, il successo e la conservazione dello stato. Per
questo motivo il principe può comportarsi in modi diversi e spesso opposti nel corso del tempo, può
essere ora crudele ora pietoso, ora parsimonioso ora generoso; tutto dipende dalle condizioni del
momento e da cosa sia più utile fare in queste condizioni. Il principe, dice Machiavelli in un celebre
passo, deve essere volpe e leone al tempo stesso, in modo da poter usare la forza o l'astuzia a
seconda delle circostanze. Le azioni degli uomini politici non devono essere valutate dunque in base
all'etica religiosa (anche se è utile per il principe mantenere i valori religiosi come copertura
ideologica per ottenere il consenso dei sudditi): l'unico metro di giudizio è dato dall'utilità rispetto al
fine dello stato, ossia conservare il principato e aumentare se possibile la sua potenza e il suo
prestigio.
L'etica cristiana non viene delegittimata dalla riflessione di Machiavelli e rimane sempre valida,
perde però il suo carattere universale dato che viene delineato un ambito, quello politico,
completamente autonomo. L'antropologia machiavelliana che traspare dalle pagine del principe è
infatti in contrasto con la visione dell'uomo che l'etica cristiana vuole proporre: l'uomo è imperfetto
e pieno di vizi, è cattivo e ha successo solo quando sconfigge altri uomini. Machiavelli afferma
infatti che gli uomini politici che hanno fatto grandi cose (grandi, non buone, non si tratta di un
giudizio morale) sono quelli che hanno saputo aggirare i cervelli degli altri uomini rendendo grande
il proprio stato: «non di manco si vede, per esperienzia ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto
gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’
cervelli delli uomini; et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà».
Il fatto che si debba dimenticare la morale costringe gli uomini politici ad amare lo stato più della
propria anima, come si dice nella Lettera a Francesco Vettori del 1527. Per usare le parole dello
storico tedesco Gerhard Ritter, l'uomo politico deve conoscere “il volto demoniaco del potere”,
ossia deve sapere che è necessario sporcarsi mani e coscienza. Potenza e successo dello stato non
sono opzioni della politica ma fine necessario dell'agire politico e per ottenerle il principe deve
essere insieme fortunato e virtuoso. La fortuna deve essere intesa come sorte, ossia come casualità
inevitabile della storia, e deve essere tratta a sé dal principe tramite la virtù, ossia la capacità di
adattarsi al caso, di prepararsi ad esso e prevederne gli effetti negativi.

I discorsi sopra la prima decade di Tito Livio sono l'altra faccia della politica secondo Machiavelli:
se nel Principe si interessava di scienza politica, ossia di analisi limitata al principato, nei Discorsi
sceglie di seguire la propria passione repubblicana. In essi Machiavelli sostiene infatti, seguendo le
proprie passioni, che il miglior stato possibile sia quello repubblicano poiché è il regime che meglio
corrisponde alla condizione ideale del “vivere civile”. Questa condizione si verifica quando la vita è
regolata da buone leggi di fronte alle quali tutti i cittadini sono uguali e quando gli stessi cittadini
sono liberi. È evidente che queste condizioni si verifichino più facilmente in una repubblica
piuttosto che in un principato: anche se è possibile che un sovrano produca buone leggi, è più
probabile che ciò avvenga in una repubblica dove tutti i cittadini concorrono a produrre le leggi.
Inoltre in una repubblica si è decisamente più liberi poiché non si è sottomessi alla mutevole
volontà di un principe che potrebbe scegliere di modificare le leggi, essendovi praticamente
estraneo.
Un'altra grande differenza tra repubblica e principato è data dalla virtù necessaria a raggiungere il
fine dello stato: nel principato si tratta di forza e astuzia, mentre in una repubblica è invece l'amore
per la propria patria. L'amore per la propria patria è il principale motore che permette di raggiungere
il fine dello stato repubblicano, ossia l'interesse comune dei cittadini.

Il principe e Machiavelli secondo lo Chevallier


Machiavelli tralascia la trattazione dei principati ereditari e di quelli ecclesiastici, volendosi
dedicare soprattutto ai principati “nuovi”; già dalle prime pagine del Principe si può notare come
l'autore prediliga di gran lunga le ragioni della forza, dato che manca una qualsiasi trattazione del
concetto di diritto, ovvero della legittimità dell'acquisizione di un principato da parte di qualcuno.
Per Machiavelli si tratta di una semplice constatazione: la politica si gioca con la guerra e avere
forze sufficienti è l'unico modo per acquisire e conservare un principato. I principali fondamenti di
ogni stato sono le buone leggi e le buone armi: buone armi non sono quelle mercenarie ma le
milizie nazionali.
È centrale in Machiavelli il confronto tra fortuna, intesa in senso neutro, e virtù; secondo l'autore le
nostre azioni sono determinate per metà dalla fortuna e per l'altra metà dalla nostra virtù, ma questi
due elementi agiscono in modo diverso: la fortuna è impetuosa e improvvisa, mentre la virtù è da
applicare su un lungo periodo di tempo per prepararsi al rivolgersi della sorte. Da fortuna e virtù
deriva un prima distinzione tra i principi, ovvero quelli che hanno conquistato il principato con le
proprie armi (e dunque con la propria virtù) e quelli che invece hanno conquistato il potere con le
armi altrui (ovvero con la fortuna). Tra i primi Machiavelli inserisce Romolo, Ciro il Grande, Teseo
e Mosè e dice che questi hanno ottenuto il potere con grandi difficoltà ma l'hanno mantenuto con
semplicità; per il secondo gruppo è invece il contrario e il modello a cui bisogna ispirarsi è colui
che, pur avendo ottenuto il principato per fortuna, ha fatto il più possibile con la sua virtù per
mantenerlo e solo la sorte avversa l'ha sconfitto, Cesare Borgia. Il Duca Valentino non è da inserirsi
tra i principi venuti al potere per scelleratezza poiché questi sono coloro che hanno agito senza
alcuna virtù e con violenza inutile: per Machiavelli un principe deve usare la violenza per
consolidare il proprio potere ma tutta insieme all'inizio del principato o molto di rado, altrimenti
risulterà inviso al popolo per la sua crudeltà mal eseguita.
Un'altra importante intuizione di Machiavelli è che, a seconda del governo di un principato, esso è
più o meno semplice da acquistare e da mantenere: un principato dispotico, dove tutti i cittadini
sono schiavi del sovrano, è difficile da conquistare ma facile da mantenere; un principato
aristocratico è invece più facile da conquistare per le inimicizie interne ma molto più difficile da
mantenere. Le repubbliche invece sono difficilissime da mantenere perché i cittadini sono abituati
ad essere liberi e per loro un principe sarà sempre un despota.
Un principe deve fare qualsiasi cosa gli sia richiesta per il mantenimento dello Stato: Machiavelli sa
bene distinguere tra bene e male ma ritiene che la politica sia un'arte tecnica da cui devono essere
espulsi tutti i giudizi morali. Per questo il principe deve essere per metà uomo e per metà bestia e
deve avere due bestie a modello, il leone e la volpe, in modo da saper usare la forza ma anche
l'astuzia ed essere pronto a tutto. Alla classica domanda “se sia meglio essere temuti od amati”
Machiavelli risponde che sarebbe meglio entrambi ma siccome è difficile allora è meglio essere
temuti, il che non vuol dire essere odiati, ma essere riconosciuti in grado di colpire con forza tutto
ciò che si frappone tra il principe e il suo obiettivo. Per mantenere lo Stato con successo
servirebbero numerosissime qualità ma, siccome è difficile averle tutte, è importante che il principe
finga di averle, simulando e dissimulando di continuo in modo apparire più forte e virtuoso di
quello che è realmente. Vi sono altre regole di politica interna ed estera da tenere conto ma, se il
principe nuovo seguirà i consigli di Machiavelli, riuscirà senz'altro a mantenere il proprio stato con
più sicurezza di quanto potrebbe fare un principe ereditario, dato che le azioni di un principe nuovo
vengono osservate con più attenzione di quelle di uno ereditario.
Nell'ultimo capitolo del libretto Machiavelli rivela quella che è la sua speranza, ovvero che si possa
liberare l'Italia dagli stranieri e unirla: probabilmente aveva già sperato nella costituzione di una
repubblica italiana ma dopo la rovina di Firenze, disperando della possibilità che questo avvenisse
tramite una repubblica, si è evidentemente rivolto ai principi. Dove Cesare Borgia non è riuscito
con l'appoggio di Alessandro VI forse riuscirà un Medici con l'aiuto di Leone X; secondo
Machiavelli infatti non ci sono mai state condizioni tanto favorevoli come ora.
Il principe viene inviato a Lorenzo de' Medici, duca di Urbino, che però non lo prese mai in
considerazione e morì poco dopo averlo ricevuto; l'opera non circolò molto ed ebbe giudizi poco
lusinghieri. Machiavelli si riavvicinò comunque ai Medici, che gli affidarono diversi incarichi tra
cui la scrittura delle Istorie Fiorentine, ma nel 1527, dopo la restaurazione della repubblica a
Firenze, Machiavelli fu emarginato dalla vita politica e morì poco dopo. Nel 1531 Il principe viene
stampato e si diffonde in Europa entrando però nella controversia della Riforma: durante il Concilio
di Trento il libretto verrà duramente criticato e messo all'Indice; in Francia sarà legato alla strage di
San Bartolomeo e quindi disprezzato anche dai protestanti. È solo nel XVII secolo che i teorici
dell'assolutismo monarchico rivaluteranno Machiavelli e il Principe.
La riforma protestante e la politica: Lutero e Calvino
La riforma protestante è centrale nello studio della storia delle dottrine politiche dell'età moderna e
contemporanea perché pone una netta svolta nel rapporto tra religione e politica. Per l'intera durata
dell'età medievale l'Europa era intesa come christianitas, ossia come unione sotto il magistero
spirituale del papato e sotto la potestà temporale dell'impero. La riforma protestante infrange questo
schema proponendo una alternativa dal punto di vista religioso che si traduce in una separazione
anche politica. La storia europea del XVI e del XVII secolo vedono infatti la contrapposizione
teorica e pratica tra protestanti, che vogliono instaurare una nuova Chiesa e una nuova concezione
della realtà sociale e politica, e cattolici, che vogliono invece tornare all'unità tradizionale
dell'Europa cristiana. Le nuove domande per la riflessione politica vertono quindi su temi religiosi o
comunque connessi alla religione: lo stato ha il potere di imporre una religione ai sudditi? Se
detiene questo potere, deve farlo? È lecita la ribellione contro un sovrano eretico?
La soluzione pratica a queste problematiche appare per la prima volta nel 1555 con la pace di
Augusta, che stabilisce il principio del cuius regio eius religio, secondo cui i sudditi sono tenuti ad
osservare la stessa religione del proprio sovrano; coloro che non appartengono alla stessa
confessione religiosa del principe possono scegliere se convertirsi o emigrare. La pace di Augusta
riconosceva solo il luteranesimo come confessione alternativa a quella cattolica e questo porterà
ulteriori conflitti che saranno conclusi solo nel 1648 (pace di Vestfalia) con l'inclusione del
calvinismo tra la confessioni accettate nel Sacro Romano Impero.

Martin Lutero (1483-1546) è il principale autore della riforma protestante dato che è lui nel 1517 ad
iniziare la protesta contro la vendita delle indulgenze promossa da Alberto di Hohenzollern in
accordo con il pontefice. Lutero sfida in prima istanza la gerarchia tradizionale della Chiesa in virtù
della libertà e uguaglianza di ogni credente e sviluppa un forte senso critico contro le imposizioni
dogmatiche da parte di questo organismo corrotto. Lutero afferma che tutti i credenti hanno uguale
capacità di rapportarsi direttamente al testo sacro in virtù della loro libertà di coscienza e che
debbano essere liberi dalla Chiesa romana, che è ormai screditata da ogni punto di vista (religioso,
ma anche morale, culturale e intellettuale); lo stesso diritto canonico tradizionale, fondamento della
vita religiosa di tutti i credenti, viene rifiutato in quanto proveniente da una fonte corrotta.
Il posto centrale della riflessione luterana è affidato al singolo individuo, piuttosto che alle
istituzioni o alle corporazioni. Non vi è una classe privilegiata che detenga un principio di autorità
in materia religiosa: gli individui hanno lo stesso potere e la stessa autorità, sono uguali, come
d'altronde insegna il Vangelo. In virtù di queste affermazioni si può dire che Lutero opera una
radicale democratizzazione della religione: il movimento di riforma deve infatti coinvolgere tutto il
popolo per liberarsi dalle strutture ecclesiastiche gerarchiche imposte dalla tradizione. Sotto questi
aspetti Lutero si inserisce chiaramente nella tradizione dell'umanesimo, che nell'Europa centro-
settentrionale ha connotati decisamente più religiosi e riformisti rispetto all'umanesimo
mediterraneo. La protesta è portata avanti, in accordo con questi principi, con uno stile forte e
diretto che arriva a chiunque, a prescindere dalla sua classe sociale. Un buon esempio di questo stile
appare dalla lettera che Lutero scrive a Leone X nel 1520 e poi pubblica: si rivolge al papa dandogli
del tu e privandolo di tutti gli attributi onorifici, afferma chiaramente che è da Roma che proviene la
rovina dell'umanità cristiana e la corruzione morale e non si preoccupa a chiamare “anticristo” lo
stesso pontefice.
Dal punto di vista teologico Lutero opera una netta rottura sia con il passato sia con l'umanesimo
che contraddistingue la pars destruens. Alla base di tutto c'è il disegno provvidenziale di Dio che è
assolutamente imperscrutabile per l'uomo secondo il quale Dio assegna la grazia agli uomini;
nessuno sa con certezza come ottenere la grazia ma Lutero insiste sul fatto che non sono le opere a
salvare poiché questo sarebbe scavalcare il progetto di Dio. L'uomo non può infatti avere la
presunzione di operare per sé stesso contro il disegno di Dio e quindi non deve cercare di cambiare
la sua situazione: non ci si può salvare da sé poiché la salvezza è esclusiva opera di Dio. L'uomo
dunque non è autonomo ma totalmente servo di Dio e della Sua volontà.
La protesta di Lutero trova l'appoggio di molti principi tedeschi, a cui la riforma è utile anche e
soprattutto dal punto di vista politico e istituzionale: privando la Chiesa di potere temporale, i beni
ecclesiastici vengono infatti incamerati dai principi. Inoltre Lutero insiste sul tema dell'assoluta
obbedienza che i sudditi devono al proprio sovrano: l'uomo limitato e peccatore dell'antropologia
luterana non è in grado di governarsi da sé e quindi necessita di una autorità che lo guidi. In questa
prospettiva, il potere politico è voluto da Dio per permettere la sopravvivenza del genere umano,
che altrimenti si sterminerebbe a vicenda; anche i principi sono uomini e quindi possono essere
governanti incapaci o sanguinari tiranni, ma ribellarsi ad essi è innanzitutto un peccato grave pari a
quello degli angeli ribelli. Nel 1526 Lutero pubblica Se anche le genti di guerra possano giungere
alla beatitudine, nel quale opera una piena distinzione tra foro interno e foro esterno della
coscienza: tutti possono avere torto o ragione, ma nessuno può stabilirlo chiaramente e intervenire
su colui che è giudicato essere nel torto. Nel foro interno ciascuno è libero di decidere per sé cosa è
giusto e cosa è sbagliato, ma nel foro esterno solo Dio ha l'autorità di stabilire chi è veramente nel
torto e solo le autorità politiche, che ricevono il potere da Dio, possono intervenire. Dio è dunque la
fonte non solo del potere politico ma anche dell'impianto coercitivo del potere e legittima la
punizione violenta di chi si ribella all'ordine costituito.
Questa posizione della dottrina luterana trovò subito una applicazione pratica: tra 1524 e 1526
dilagò in Germania, soprattutto nelle regioni meridionali una rivolta popolare il cui impianto
ideologico si basava sul principio di libertà di ogni cristiano proposto da Lutero. Thomas Müntzer,
il predicatore a capo della rivolta, sosteneva infatti che ogni cristiano fosse libero signore di tutte le
cose, trasportando la libertà e l'autonomia garantita da Lutero in ambito religioso e in foro interno
ad ogni aspetto della vita pubblica. I contadini di Müntzer sostenevano che dovevano essere
riformati tutti i rapporti di potere tradizionali e chiedevano di conseguenza la cancellazione dei ceti
e dei privilegi, l'abolizione della servitù della gleba, la possibilità per ogni comunità di eleggere il
proprio parroco e la distribuzione delle terre tramite lo smembramento dei latifondi ecclesiastici e
laici. Lutero, che già non condivideva la ribellione all'ordine costituito, rischiò anche di perdere il
favore dei principi, che lo accusavano di fomentare queste rivolte; pubblicò allora L'esortazione
alla pace a proposito dei dodici articoli dei contadini di Svevia in cui prendeva una punizione netta
contro i contadini. Lutero separa infatti ambito spirituale e ambito temporale: solo in ambito
religioso e all'interno della propria coscienza l'individuo è libero e uguale, “l'uomo della carne”
invece deve restare sempre sottomesso all'autorità. Questa autorità, di fronte ad una aperta ribellione
(come accade nel caso dei contadini), deve rispondere con crudeltà, poiché solo la crudeltà e la
violenza possono ristabilire la pace e la tranquillità e mantenere stabile l'ordine costituito.
La protesta di Lutero propone anche una riflessione riguardo la forte identità culturale e politica del
mondo tedesco. Si può dire dunque che la riforma sia anche una rivoluzione proto-nazionalistica
che tende ad affermare la libertà e l'autonomia della nazione tedesca nei confronti del mondo latino
che trova in Roma la sua capitale. Non si tratta però solo di una presa di coscienza della propria
identità culturale ma vengono stabilite grandi aspettative e aspirazioni per il popolo tedesco, che è
destinato ad assumere un ruolo centrale e straordinario nella storia europea e mondiale. Questi temi
verranno poi ripresi dal nazionalismo tedesco del XIX secolo e quindi di conseguenza anche dal
nazismo: è Fichte a proporre la figura di Lutero come eroe della nazione tedesca.

L'altro filone della riforma è rappresentato da Giovanni Calvino: nato in Francia nel 1509, già
durante gli studi a Parigi si avvicina alle idee luterane e per questo è costretto a fuggire a Ginevra,
dove morirà nel 1564. A Ginevra Calvino elabora la propria dottrina e la mette in pratica in tutti i
suoi aspetti, compresi quelli politici: con le Ordinanze di Ginevra riorganizza la città in una
repubblica in cui il potere politico è affiancato (ma in realtà sottomesso) dalla visione religiosa e
morale di Calvino. Dal punto di vista teologico è accentuato il tema della predestinazione dell'uomo
alla salvezza o alla dannazione: la destinazione finale di ogni individuo è già stata decisa da Dio ma
non per questo l'uomo deve abbandonarsi alla passività. L'etica di Calvino sprona infatti alla attività
e all'impegno costante, dato che il successo è segno della grazia divina; ognuno quindi deve aver
fiducia in sé stesso, esaltare le proprie capacità e lavorare per il bene della comunità. In quest'ottica
fare soldi non è peccato ma segno della benedizione divina: l'individuo non deve però essere avido
e rimettere in circolo la ricchezza che ha ottenuto, non solo tramite l'elemosina ma anche e
soprattutto creando nuove opportunità di lavoro e successo per gli altri membri della comunità.
Questa attenzione al lavoro e la spinta alla competizione economica, proprie del calvinismo, hanno
portato alcuni studiosi, tra cui il sociologo tedesco Max Weber, a legare l'etica calvinista del lavoro
con lo sviluppo del capitalismo.
Il calvinismo diventa religione di maggioranza in poche comunità ma si diffonde in tutta Europa
andando a costituire quasi ovunque una forte minoranza; questo trasforma in parte il pensiero di
Calvino riguardo al tema del rapporto con le autorità politiche eretiche e della libertà in foro
esterno. Calvino è infatti molto vicino alla linea di Lutero e sostiene il principio dell'assoluta
obbedienza per mantenere la pace e la tranquillità. Il successore di Calvino, Theodore de Beze
(1519-1605), inizialmente segue la strada tracciata dal maestro e da Lutero; nel 1554 interviene nel
dibattito successivo l'esecuzione di Michele Serveto con l'opera Haereticis a civili magistratu
puniendus (Circa gli eretici, chi debba essere punito dal magistrato): qui sostiene che un magistrato
debba tutelare l'ordine di tutte le cose, pubbliche e private, sacre e profane affinché i cittadini
vivano bene, onestamente e felicemente. Michele Serveto si era reso colpevole per motivi religiosi e
per una critica all'interpretazione delle Scritture senza però mai mettere in pratica una ribellione
aperta; de Beze giudica comunque anche questa una violazione dell'ordine pubblico e legittima
l'intervento dei magistrati contro questi “crimini”. Dopo la tragica notte di San Bartolomeo però de
Beze cambia nettamente la sua opinione: in Diritti dei magistrati sui loro soggetti (1574) sostiene
che gli ugonotti (i calvinisti francesi) hanno il diritto di resistere e organizzarsi militarmente contro
il sovrano che gli impedisca di professare la loro fede. Theodore de Beze giunge quindi a sostenere
che la religione non sia motivo di disordine per l'ordine e politico e a teorizzare il diritto alla libertà
religiosa.

Dalla riflessione calvinista nascerà in seguito il movimento dei monarcomachi, secondo i quali il
potere è dato da Dio agli uomini, che scelgono di affidarlo ad un governo, invece che al sovrano
stesso. In virtù di questa “sovranità popolare” gli uomini possono legittimamente far guerra a quel
sovrano che limita le libertà dei sudditi.
L'assolutismo cristiano: Bodin e Bossuet
I due autori in questione, Jean Bodin (1529-1596) e Jacques Bossuet (1627-1704), sono
fondamentali nella storia delle dottrine politiche per il contributo alla definizione dell'assolutismo,
affrontando però la questione del potere politico dalla prospettiva cristiana, recuperando alcuni temi
tradizionali. Per questa presa di posizione risaltano in netto contrasto con autori come Machiavelli o
Hobbes che pure avevano supportato l'assolutismo.

Jean Bodin visse nella Francia della seconda metà del XVI secolo, sconvolta dalle guerre di
religione e marcata dall'episodio della strage degli ugonotti di fatto commissionata dalla corte;
Bodin, percependo la situazione in cui verteva non solo la Francia ma anche il resto d'Europa come
fortemente negativa e temendo uno sviluppo ulteriore di questi conflitti, comincia ad interessarsi di
politica. Bodin appartiene al partito dei politiques, la cui idea di fondo è che la tolleranza sia
fondamentale per vivere bene in uno stato e che il sovrano debba essere una entità super partes,
egualmente distante da tutti i suoi sudditi di cui deve essere il garante. Nel 1574 pubblicò la sua
opera principale, I sei libri della repubblica, in cui si propone di definire e riformulare i concetti
della politica; il suo fine è quello di restaurare l'istituzione dello stato definendo con precisione il
concetto di “sovranità”.
La sovranità, per Bodin, è il potere assoluto e perpetuo che ha lo stato che si configura con la
potestà di fare leggi e farle rispettare, unendo dunque nel concetto potere esecutivo e legislativo. Lo
Stato è invece il governo giusto che si esercita tramite il potere sovrano sulle famiglie e ciò che le
famiglie hanno in comune. Queste sono le definizioni che Bodin dà dei due concetti più importanti
per la sua riflessione politica. È importante notare come lo Stato non sia un insieme di individui ma
di famiglie, che sono già una società prestatale: lo Stato è un collante necessario tra le parti della
società umana che funziona in virtù della propria sovranità. La sovranità deve essere assoluta, ossia
sciolta da ogni legge e vincolo, perché deve stare sopra di tutto; non è alienabile né divisibile anche
se può appartenere ad una moltitudine, nel caso di un governo democratico, ad una minoranza, nel
caso di una aristocrazia, o ad un individuo, nel caso della monarchia. L'insistenza di Bodin sul
carattere indivisibile e inalienabile della sovranità è anche una critica feroce al feudalesimo, che
pretende una spartizione della sovranità in cui il sovrano risulta solo un primus inter pares, e
all'universalismo del papato e dell'impero, che pretendono di posizionarsi al di sopra delle singole
sovranità. Anche per questo motivo le preferenze di Bodin vanno di gran lunga alla monarchia come
forma di governo: la monarchia permette infatti di mantenere intatta la sovranità; inoltre la
monarchia è anche la forma di sovranità più conforme alla natura: vi è un solo padre in ogni
famiglia, un solo Sole in cielo, un solo Dio e la storia dimostra che è la prima organizzazione a
nascere. La sovranità non nasce da un contratto tra gli uomini ma è naturale e dunque deriva dal
creatore della Natura, cioè Dio; secondo Bodin le famiglie sono naturalmente spinte ad unirsi e a
collaborare e da questa unione nascono lo Stato e la sovranità.
Bodin sostiene quindi che il migliore governo possibile sia la monarchia assoluta, che però rischia
di tramutarsi in tirannide; la differenza tra tirannide e monarchia consiste nel rispetto o meno delle
leggi di natura imposte da Dio. Un sovrano non è tenuto a rispettare le leggi umane poiché ne è la
fonte e ne è superiore ma deve sempre rispettare la vita e le proprietà dei sudditi, altrimenti si
tramuta in tiranno e commette una grave violazione: si rende colpevole di “lesa maestà divina”. Il
fatto che la sovranità sia detenuta da un tiranno non permette comunque ai sudditi di ribellarsi
perché il potere politico viene direttamente da Dio. La tesi della discendenza divina delle autorità
civili e quindi della legittimità del potere, anche repressivo, si legge in San Paolo, Romani, 13 1-5:
Dio ha dato all'autorità la spada e l'autorità è «al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera
il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per
ragioni di coscienza». Ribellarsi a chi detiene la sovranità è dunque sempre ribellione contro
l'ordine stabilito da Dio e quindi ribellione nei Suoi confronti. Bodin indulge anche in una lunga e
dettagliata descrizione di ciò che distingue le azioni del tiranno da quelle del sovrano: il tiranno usa
violenza e crudeltà, agisce per interesse personale contro i sudditi che odia e da cui è odiato e
temuto, ma soprattutto calpesta le leggi di natura. È interessante notare come il tiranno descritto da
Bodin assomigli molto al principe descritto da Machiavelli.
Altro passo molto importante della riflessione di Bodin è la distinzione che egli opera tra sovranità e
governo: la sovranità è la pura titolarità del potere e deve essere sempre unica e assoluta, il governo
invece è l'effettivo esercizio del potere. In base a questa distinzione Bodin può affermare che il
governo, l'esercizio pratico della sovranità, può essere diviso tra più persone e istituzioni; il sovrano
può e deve fare affidamento ad altre persone, scegliendole in base ai criteri che preferisce e
ricompensandole o meno come meglio crede.

Jacques Bossuet fu invece un vescovo che nel 1660 ricevette da Luigi XIV l'incarico di educare il
giovane Delfino, anche e soprattutto dal punto di vista della formazione politica. A partire da questo
incarico, Bossuet si dedica a scrivere la sua opera fondamentale La politica tratta dalle Sacre
Scritture, che verrà pubblicata postuma; il libro contiene la teoria politica di Bossuet e vuole essere
una sorta di guida per tutti i sovrani europei. Già dal titolo è chiara l'impostazione che Bossuet dà
alla sua riflessione: la politica non è laica né inventata dall'uomo, la politica è già data da Dio nelle
Scritture e bisogna solo estrapolarla da queste. Nell'ottica di Bossuet la politica è subalterna alla
religione, poiché sono le Scritture e la religione ad insegnare cosa deve fare il sovrano e perché solo
la politica tratta dalla religione permette il vivere civile. La necessità di trovare una forte base etica
e religiosa per la politica deriva da una antropologia negativa di Bossuet, che ritiene l'uomo
corrotto, cattivo e degenerato a causa del peccato originale. Gli uomini non sono animali sociali e
non hanno la capacità di autoregolarsi: c'è necessità di una autorità che controlli gli istinti malvagi
dell'uomo. Il potere politico è stato istituito da Dio per assolvere a questo compito. La monarchia
assoluta è la forma più antica e naturale del potere politico e trova il suo modello nella figura
paterna, unico sovrano della famiglia; deve avere tre caratteristiche, ossia essere ereditaria,
ragionevole e paterna. Secondo Bossuet tutti gli uomini nascono già sudditi del potere politico e non
possono ribellarvisi; i sovrani invece sono totalmente liberi dai vincoli umani, sono “dei in terra”,
secondo le parole di Bossuet, che non devono rendere conto a nessun uomo delle proprie azioni.
L'essere dei in terra consente ai sovrani di essere superiori a tutti gli uomini ma li lascia inferiori a
Dio, a cui dovranno rendere conto, come tutti gli altri uomini, nel giorno del giudizio: Bossuet
afferma che di fronte a Dio un re sarà giudicato al pari dell'ultimo dei sudditi, anzi con un metro di
giudizio più severo. Per questo motivo il sovrano deve seguire i precetti religiosi, badare al bene
pubblico ed essere clemente.
La dimensione etica è sempre dominante in Bossuet su quella politica, poiché la politica deve
sempre rendere conto del suo operato alla religione. Per Bossuet, in aperto contrasto con
Machiavelli, il metro di giudizio con cui giudicare il buon governo non è il successo dello Stato ma
il rispetto delle Scritture. Infatti per il vescovo francese « il trono è sempre rafforzato dalla
clemenza »: tutte le virtù religiose, se rispettate, non sono utili solo al sovrano al momento del
giudizio divino ma anche alla stabilità e alla forza del trono. In questo modo Bossuet critica
fortemente la posizione di Machiavelli, secondo cui il principe deve fare ciò che è più utile nelle
condizioni in cui si trova.
Rimane da chiarire cosa succede nel caso in cui un sovrano si comporti in modo tirannico, non
rispettando i precetti divini; in questo caso Bossuet parla di potere arbitrario, distinguendolo da
quello assoluto che è giusto e legittimo. Anche nel caso della tirannide, i sudditi devono sempre
obbedire al sovrano, non è legittimato alcun diritto di resistenza e disobbedienza agli ordini
dell'autorità. Lo Chevallier nel suo manuale si contraddice e sbaglia quando afferma (pag. 102) che
per Bossuet è legittima la resistenza ad un sovrano qualora egli ordini qualcosa contrario a Dio;
questa eccezione però è totalmente azzerata da numerose altre argomentazioni dello stesso Bossuet.

I sei libri della Repubblica e Bodin secondo lo Chevallier


A differenza del Principe, I sei libri della repubblica hanno trovato immediato successo, hanno
segnato profondamente il XVII secolo e dato vita a precisi movimenti e decisioni politiche in
Europa ma soprattutto in Francia. Nel periodo delle guerre di religione in Francia, il paese è
nettamente spaccato nei due partiti religiosi contrapposti che non sopportano più il dualismo
religioso e cercano di tirare il re dalla propria parte per schiacciare gli avversari. L'anno
immediatamente successivo alla strage di San Bartolomeo viene pubblicato un breve pamphlet di
François Hotman con un grandissimo successo tra i protestanti, intitolato Franco-Gallia: il libretto
si presenta come uno studio imparziale sulla nascita dell'istituto monarchico in Francia, sostenendo
che inizialmente il re veniva eletto secondo leggi e condizioni stabilite e non in quanto tirannico
detentore di un potere assoluto. Il potere monarchico assoluto è dunque illegittimo e il popolo
dovrebbe riprendersi il potere per ristabilire la reale costituzione francese, ovvero una costituzione
mista che divida la sovranità tra autorità reale, aristocratica e popolare.
A rispondere a questa accusa è un rappresentante del partito dei politiques, ovvero coloro che, anche
se in maggioranza cattolici, accettavano come un fatto compiuto la frattura dell'unità cristiana e
sostenevano le ragioni della tolleranza religiosa, ponendo però sempre il re al di sopra di ogni parte,
ritenendolo un arbitro e un protettore dello Stato piuttosto che un capo-fazione. Jean Bodin,
magistrato, professore di diritto e deputato agli Stati Generali del 1576, si impegna con la sua opera
a rispondere sia al monarcomaco Hotman, reo di attaccare il potere regio, che ai machiavellici, rei ci
attaccare la morale divina.
Per Bodin una repubblica è, in senso antico, la cosa pubblica e viene definita come «governo giusto
di più nuclei familiari e delle loro cose con potere sovrano»: alla base di tutto c'è la famiglia e la
proprietà ma soprattutto il potere sovrano, che deve essere perpetuo e assoluto. Bodin è infatti
fondamentale nella storia del pensiero politico per la sua formulazione del concetto di sovranità, che
diventa la forza coesiva e unificatrice di una qualsiasi comunità politica che sarebbe nulla senza di
essa. La prima e principale caratteristica della sovranità consiste nel potere assoluto da parte del
sovrano di fare e abrogare le leggi, senza essere obbligato da niente o da nessuno; tutti gli altri
attributi della sovranità dipendono in ultima istanza dal potere di fare e abrogare leggi. Per Bodin la
sovranità può teoricamente risiedere nella moltitudine (democrazia), in un piccolo gruppo
(aristocrazia) o in un uomo solo (monarchia), ma le sue preferenze vanno di gran lunga all'ultima
forma di governo. In un colpo solo Bodin elimina ogni legittimità di poteri feudali, governi misti
protestanti, pretese imperiali e pretese papali: il re di Francia è sovrano e quindi per definizione non
dipende da nessun uomo né deve rispondere ad essi del suo operato. La teoria del governo misto
proposta da Hotman, che trovava alcune basi anche nella realtà istituzionale francese (vedi gli Stati
Generali), corrisponde ad un crimine di lesa maestà, poiché pone i sudditi sullo stesso piano del
sovrano. Una repubblica mista non è una vera repubblica poiché non vi sarà mai pace ed equilibrio
finché la sovranità non sarà tutta nelle mani di un unico potere, che sia questo monarchico, popolare
o aristocratico.
Bodin sostiene che le vere forme di repubblica non sono più di tre ma tra queste forme egli predilige
di gran lunga la monarchia e i motivi sono molto semplici. Essa è infatti il regime più conforme alla
natura: vi è un solo padre nella famiglia, un solo Sole in cielo, un solo Dio ed è stata la prima forma
di governo ad apparire sulla terra. La monarchia è inoltre la forma che permette la concentrazione
della sovranità assoluta e perpetua anche nella pratica e non solo nella teoria; infine la monarchia
assicura sempre maggiori garanzie nella scelta delle competenze. La monarchia prediletta da Bodin
non è però certamente quella tirannica, ovvero quella che disprezza le leggi di natura e fa schiavi i
propri sudditi; al contrario egli parla della monarchia regia e legittima, dove i sudditi obbediscono
alle leggi del monarca, il monarca obbedisce alle leggi di natura e non viola mai la libertà naturale e
la proprietà dei beni dei propri sudditi.
La sovranità va distinta dal governo, ovvero dal modo in cui la sovranità viene esercitata: esistono
infatti monarchie governate popolarmente, dove si seguono criteri egualitari per l'assegnazione delle
cariche, o monarchie governate aristocraticamente, dove si guarda ai meriti e alle risorse delle
persone (a queste ultime va la preferenza di Bodin).

La Politique e Bossuet secondo lo Chevallier


In Francia, a differenza che in Inghilterra, la crisi dell'assolutismo di metà secolo viene superata con
relativa facilità, andando a rafforzare il potere monarchico nella figura di Richielieu prima e di
Luigi XIV poi. Bossuet fu precettore del Delfino di Francia tra il 1670 e il 1679 e si dedicò molto
alla formazione politica dell'erede del Re Sole; negli ultimi anni della sua vita si dedicò a
raccogliere la propria teoria politica in un manuale ad uso dei futuri sovrani di Francia.
Il manuale di politica di Bossuet parte dalla affermazione aristotelica sulla naturalità dei rapporti
sociali tra gli uomini per passare immediatamente ad una descrizione dello stato di natura simile a
quella di Hobbes, usando la scorciatoia del peccato originale. In questo modo Bossuet rende
necessaria l'istituzione di una autorità politica, ma rifiuta assolutamente la giustificazione
contrattualistica di Hobbes, poiché è troppo legata ad una concezione individualistica: l'idea
dell'autorità politica è generata in natura nell'uomo grazie al paragone con l'autorità paterna e
divina. A proposito della discussione sulle forme di governo, Bossuet si schiera nettamente a favore
della monarchia, poiché rispecchia l'unica autorità divina, poiché è la forma di governo più naturale
e la più antica. È la Scrittura stessa a prescrivere agli uomini di istituire le monarchie paterne, dove
il sovrano governa a vantaggio dei propri sudditi, come se fossero i suoi figli. Bossuet è
consapevole dell'esistenza di altre forme di governo, di cui nella Scrittura non si parla così
approfonditamente: forse il potere politico di queste non deriva da Dio? Bossuet risponde che tutte
le forme politiche legittime ricevono il proprio potere da Dio e che quindi tutti devono obbedire al
proprio governo, qualunque forma abbia. Bossuet si concentra dunque sui caratteri della monarchia:
in primo luogo la monarchia è sacra, i principi sono ministri di Dio in terra e attentare alla loro
persona o autorità corrisponde ad un sacrilegio. I re ottengono il loro potere da Dio e devono usarlo
per fare il bene dei loro sudditi, ma comunque devono rendere conto delle proprie azioni solamente
a Dio. Non esiste ulteriore possibilità di giudizio dopo che il re ha giudicato, non esiste alcuna
coazione contro i re: non sono obbligati a seguire le leggi ma sono tenuti a rispettare l'equità sotto la
legge e i loro contenuti, in modo da essere un esempio di tutela nella giustizia. Non sono comunque
punibili se violano qualche legge, perché il principe deve essere invincibile.
Non si tratta però di una monarchia assoluta identica a quella di Hobbes, che spesso sfocia
nell'autoritarismo più crudele: Bossuet pensa ad un potere assoluto a cui faccia da contrappeso il
timore di Dio. Il sovrano deve essere un padre per i propri sudditi e non un tiranno, ovvero colui che
con potere assoluto viola impunemente le leggi di Dio e pensa solo a sé stesso. La monarchia ideale
è, secondo Bossuet, sottomessa alla ragione.
Il contrattualismo: Thomas Hobbes
A differenza degli autori medievali e moderni già trattati, per i contrattualisti il potere politico nasce
da un contratto, ossia da un patto libero tra uomini consapevoli della scelta che stanno compiendo;
il potere politico ha dunque una legittimazione e una origine umana e non più divina o naturale. Per
contrattualismo si intendono tutte quelle teorie politiche che vedono l'origine della società politica
in un contratto che segnerà la fine dello stato di natura e darà il via allo stato politico; in un senso
più stretto il termine indica la scuola di pensiero nata in Europa tra '600 e '700 e che vede tra i suoi
massimi rappresentanti autori come Thomas Hobbes e John Locke, ma anche Spinoza, Rousseau,
Kant. Questa scuola di pensiero non ha un comune orientamento politico ma usa una comune
struttura concettuale per razionalizzare la forza politica e basare il potere politico su consenso e
libera scelta di ogni individuo. Per tutti questi autori un potere politico è legittimo solo se si basa sul
consenso liberamente e razionalmente accordato da ciascun individuo. Una delle loro mire è di
conseguenza la critica a chi non opera una netta distinzione tra società politica, domestica e
padronale, che si differenziano appunto per il fondamento dell'autorità: ciascuna società ha un
diverso tipo di legittimità, dunque un diverso tipo di autorità e dunque un diverso tipo di obbedienza
dovuta ad essa. Nella società domestica, la famiglia, dobbiamo obbedienza a nostro padre perché è
lui ad averci generato, dunque la sua autorità è fondata sulla natura; nella società padronale, invece
l'obbedienza si ottiene con la forza contro la volontà di chi è sottomesso. La società politica si
distingue perché l'obbedienza nasce da un contratto stipulato razionalmente, liberamente e
individualmente, scelto per convenienza rispetto allo stato di natura; si sceglie di sottostare alla
autorità politica. Questo comporta che il sovrano debba basare la sua autorità unicamente sul
consenso, non sulla natura né sulla forza né sull'investitura divina; molti autori sostengono anche
che i governati possano anche non obbedire al sovrano che si comporti come un tiranno, basandosi
sulla forza, o come un padre, basandosi sulla natura, perché questi non sono fonti legittime di
autorità. Il patto non è pensato dagli autori come un avvenimento storico pur perso nella notte dei
tempi, è una costruzione mentale degli autori che serve a legittimare un potere politico basato sulla
volontà degli uomini.

Il contrattualismo nasce già in epoca medievale, alcune tracce se ne possono trovare anche nelle
Scritture, e prevede normalmente due passaggi, ossia due contratti distinti: un patto di associazione
tra gli uomini e un patto di sottomissione al detentore della sovranità. Il primo patto costituisce la
società civile, mentre col secondo si instaura il potere politico vero e proprio; il primo contratto
stabilisce il Diritto, ossia le regole dei rapporti tra i cittadini, mentre il secondo crea il monopolio
della forza per far rispettare l'ordine costituito. Nei due patti la posizione dei contraenti risulta
diversa: il primo vede tutti sullo stesso piano di eguaglianza, mentre il secondo crea una autorità che
sta sopra i sudditi e quindi produce un rapporto di subordinazione. Questo è il contrattualismo
classico, abbozzato in epoca medievale, che però non insiste sull'individualità della scelta.
Thomas Hobbes e Jean-Jacques Rousseau rielaborano il contrattualismo classico, riducendo i due
contratti al solo patto di associazione, da cui però derivano due situazioni diverse: in Hobbes gli
uomini si uniscono dando vita direttamente all'autorità politica che però non stringe alcun patto coi
propri sudditi; secondo Rousseau, unendosi in un contratto sociale, gli uomini costituiscono una
volontà generale che mantiene tutti sullo stesso piano dove ciascuno, obbedendo agli altri,
obbedisce anche a sé.

Thomas Hobbes (1588-1679) vive durante il periodo delle guerre civili tra il parlamento inglese e
Carlo I Stuart, assiste alla decapitazione del monarca, alla repubblica di Cromwell e al tentativo di
restaurazione della monarchia da parte di Carlo II. Le guerre civili e l'insicurezza che dominano il
periodo lo spingono a cercare una soluzione politica che garantisca ai cittadini soprattutto il quieto
vivere. Hobbes sviluppa una antropologia fortemente negativa che però non costituisce un giudizio
morale negativo sugli uomini ma il punto di partenza della sua riflessione politica: contro questa
naturale impossibilità a vivere in tranquillità, Hobbes teorizza la necessità di un forte potere
politico. Viene respinta totalmente la tesi aristotelica della naturale socievolezza dell'uomo: nello
stato di natura descritto da Hobbes ogni individuo agisce solo per fuggire il dolore e procurarsi
piacere, soddisfacendo le proprie necessità naturali (alimentazione, protezione, riproduzione).
L'uomo si comporta così perché detiene un diritto naturale, primario e insopprimibile a tutte le cose
utili; l'unica limitazione a questo diritto è dato dallo stesso diritto detenuto dagli altri uomini e dal
fatto che le risorse naturali sono poche e insufficienti per l'umanità intera. Questa serie di condizioni
si sviluppa in un bellum omnium contra omnes che viene combattuta in materia bestiale da uomini
che vedono gli altri esclusivamente come concorrenti (homo homini lupus). Nello stato di natura
dunque ciascuno cerca di sopraffare con la forza tutti gli altri per garantirsi il piacere; inoltre lo
stato di guerra continua impedisce qualunque forma di vita sociale. Per Hobbes non è neanche
possibile che un uomo riesca a sottomettere tutti gli altri con la forza stabilmente, poiché con
l'astuzia oppure una unione temporanea gli altri uomini riescono senza problema a liberarsene. In
queste condizioni la specie umana è condannata all'autodistruzione.
L'uomo, a differenza degli altri animali, possiede la ragione, che è semplicemente l'abilità di
calcolare conseguenze, benefici e danni delle azioni che compie; la razionalità porta l'uomo a
considerare che solo la pace e la tranquillità permettono la salvezza e la migliore situazione
possibile rispetto allo stato di natura. Per ottenere pace e tranquillità l'individuo capisce che deve
rinunciare al suo diritto naturale a possedere ciò che vuole, stringendo un patto con gli altri uomini:
gli uomini alienano tutti i propri diritti naturali ad un terzo, il sovrano, che non stringe nessun patto
nei confronti di coloro che ora sono i suoi sudditi. L'unico obbligo del sovrano è quello di far
rispettare pace e tranquillità per garantire la sicurezza personale che mancava nello stato di natura.
L'alienazione dei diritti in favore del sovrano stipulata comporta immediatamente la sottomissione a
questo, unendo così i due patti del contrattualismo classico in un unico accordo. Questa unione è lo
Stato ed ha origine totalmente umana, Hobbes lo chiama “Leviatano”, un mostro marino descritto in
Giobbe, 41, 25-26 così « Nessuno sulla terra è pari a lui, fatto per non aver paura. Lo teme ogni
essere più altero; egli è il re su tutte le bestie più superbe ». Il Leviatano è un uomo artificiale,
creato dagli uomini, per avere da lui protezione e tranquillità. Nel 1651 viene pubblicato l'opera
principale di Hobbes, appunto Il Leviatano (Leviathan or The Matter, Forme and Power of a
Common Wealth Ecclesiastical and Civil), la cui copertina è già molto chiara sulle caratteristiche
che ha lo Stato-Leviatano: è un uomo immenso, il cui corpo è composto da tanti piccoli individui,
che sovrasta una città tenendo in mano una spada, simbolo del potere politico, e un bastone
pastorale, simbolo del potere religioso.
Lo stato di natura garantisce la massima libertà, ma questa deve essere abbandonata perché non
concede alcuna sicurezza di poterla esercitare; con un calcolo razionale si vede che, rinunciando a
questa libertà, si ottiene la sicurezza, la pace e la tranquillità. Dunque si sceglie di costituire lo Stato
che però, non stilando un contratto con i sudditi, detiene un potere assoluto, irrevocabile,
indivisibile, insindacabile, che non deve rendere conto di nulla a nessuno ed è dunque irresponsabile
(nel senso che non ha responsabilità nei confronti dei sudditi). Per Hobbes, anche chi non ha voluto
alienare i propri diritti deve sottomettersi alla decisione della maggioranza e quindi verrà privato
con forza dei propri diritti dal Leviatano. Con il contratto nasce anche la proprietà privata, che
inizialmente è esclusiva del sovrano, il quale la divide poi con i sudditi.
Hobbes dà molta importanza al potere legislativo, che è totalmente libero da vincoli: le leggi divine
riguardano solo il foro interno, mentre le leggi stipulate da altri sovrani non hanno più valore se il
Leviatano lo desidera. Il potere del sovrano è certamente assoluto ma non arbitrario: questo vuol
dire che è libero da vincoli legislativi ma non può, per esempio mandare a morte un suddito senza
motivo; è un potere da usare in accordo alle leggi che esso stesso promuove. Le leggi vengono
infatti promulgate per proteggere i cittadini e l'arbitrarietà sarebbe una violazione dell'ultimo diritto
rimasto ai sudditi, quello alla sicurezza, e anche dell'unico obbligo del sovrano nei confronti dei
suoi sottoposti. Quando si è condannati a morte, anche in modo legittimo, è lecita per Hobbes la
possibilità della fuga, perché la volontà che muove l'uomo è sempre la propria incolumità che in
questo caso verrebbe violata, anche se in accordo con le leggi. Vi è anche l'obbligo per il sovrano di
assicurare ai sudditi il maggior benessere possibile senza che questo rovini la tranquillità creata.
Vengono garantite, a discrezione del sovrano e tramite la legislazione, alcune libertà relative alla
vita privata che possono migliorare l'esistenza dei cittadini; sono “libertà innocenti” che non
disturbano la pace della società civile. Le leggi non devono dunque essere fatte per intralciare la
vita quotidiana e privata dei sudditi ma per garantirla e migliorarla; per Hobbes, le leggi dovrebbero
come le siepi nella campagna inglese, che indicano la strada senza intralciarla. Dove ci sono poche
leggi lo Stato è migliore, poiché garantisce sicurezza ai sudditi senza limitarne le libertà: non
regolando questi ambiti tramite la legge, i cittadini hanno libertà economica, libertà di scegliere il
proprio modo di vivere, la propria dimora, il proprio lavoro, il proprio cibo, libertà di scegliere il
modo in cui educare i propri figli. Molti hanno associato, non a torto, la riflessione di Thomas
Hobbes ad una prima riflessione dello stato minimo liberale, che però si distingue per la netta e
inviolabile separazione dei poteri. La religione deve essere posta sotto il controllo del Leviatano
perché è chiaramente causa di possibili lotte ma l'obbligo ad obbedire alla Chiesa del sovrano è solo
esterno, dato che non c'è modo di operare sul foro interno di ogni uomo.

Ultima questione da affrontare è la “mortalità” del Leviatano: uno Stato può venire meno quando
non si garantiscono più pace e sicurezza, dato che viene meno il motivo per cui è stato istituito.
Hobbes fa l'esempio di una guerra in cui il proprio Stato viene invaso e non c'è più alcuna sicurezza,
pace e tranquillità: il Leviatano non è più in grado di proteggere i sudditi che quindi piombano
nuovamente nello stato di natura e nel continuo timore di morte. Questo stato di insicurezza
costringe gli uomini a riformulare nuovamente il contratto con un nuovo sovrano, solitamente
l'invasore, che possa garantirci la sicurezza perduta. Non vi è solo la sconfitta in guerra come causa
della morte del Leviatano, Hobbes inserisce anche la ribellione in questo discorso (evento storico a
cui assistette in prima persona). Su questo punto si generano molte contraddizioni: per tutto il libro
si dice che il popolo non può ribellarsi, che è lecito al massimo fuggire per non essere condannati a
morte, mentre qui sostiene che lo Stato può venir meno per una ribellione, a cui gli uomini possono
liberamente aderire.

Il Leviatano e Thomas Hobbes secondo lo Chevallier


Il XVII secolo, il secolo d'oro dell'assolutismo, vede alla sua metà due tremendi colpi venire
assestati contro le idee assolutiste: le due fronde in Francia e la decapitazione di Carlo I in
Inghilterra. Nel 1651, sotto la dittatura militare di Cromwell, appare a Londra un libro intitolato Il
Leviatano, o la materia, la forma e il potere di un Commonwealth ecclesiastico e civile; il
frontespizio del libro è molto particolare e mostra un uomo gigantesco, che detiene i simboli del
potere ecclesiastico e civile, ergersi sulle città e i campi, dominando ogni cosa. Già
nell'introduzione l'autore cerca di spiegare cosa sia il Leviatano di cui parla: si tratta di un uomo
artificiale, di dimensione molto maggiore e di molta più forza che un uomo normale, per la cui
difesa è stato concepito. L'autore, Thomas Hobbes, è un uomo timoroso, amante della tranquillità
che si ritrova a vivere nel periodo più turbolento della storia inglese a cui però cerca, con il suo
lavoro intellettuale, di portare una soluzione. Si muove su di un'asse materialista e razionalista che
riconduce ogni regola del mondo morale, psicologico e fisico al movimento; non per nulla la sua
formazione filosofica non avviene tanto sui testi di Platone e Aristotele quanto su quelli di
Democrito ed Epicuro.
Il libro si propone quindi di spiegare cosa sia l'uomo artificiale descrivendone in primo luogo la
materia e l'artefice (ovvero l'uomo naturale, da cui tutto ha inizio), in secondo luogo i patti da cui
nasce il Leviatano e i suoi poteri, e infine spiegando cosa sia uno Stato Cristiano. Tutto inizia con
l'uomo naturale e con il suo movimento verso il bene e lontano dal male, dove bene e male sono
esclusivamente giudizi soggettivi determinati da ciò che dà piacere o dispiacere. Due sono i
movimenti principali dell'uomo naturale: la fuga dal male supremo, ovvero la morte, e la ricerca di
del bene supremo, ovvero la potenza. Il suo desiderio di potenza lo porta però inevitabilmente a
scontrarsi con altri uomini, generando una guerra di tutti contro tutti che impedisce ogni sviluppo
commerciale, industriale e culturale e anche la stessa possibilità della proprietà privata. In questa
situazione insicura si rischia la distruzione della specie umana ma l'uomo può uscirne grazie al fatto
di temere la morte violenta più di ogni altra cosa e di essere un animale razionale in grado di
pensare condizioni di pace vantaggiose su cui accordarsi con gli altri uomini. Dato però che il
desiderio di ogni uomo a possedere tutto è ancora molto forte, serve una potenza irresistibile,
superiore ad ogni uomo, che controlli tutto, poiché «i patti senza la spada non sono altro che
parole».
Gli uomini dunque si uniscono per cedersi reciprocamente i propri diritti al possesso del mondo
intero e generano un uomo artificiale, estraneo al contratto, che detiene tutto il potere, assoluto e
indivisibile. Il contrattualismo non è una teoria inventata completamente da Hobbes ed esiste già nel
medioevo e nell'età antica, proponendo sempre però due contratti (unione e sottomissione); gli
stessi monarcomachi come Hotman propongono una tesi contrattualista dell'origine del potere per
giustificare le proprie azioni e rivendicazioni. La novità della tesi di Hobbes consiste nel teorizzare
un solo contratto da cui derivi una sovranità assoluta, addirittura più radicale di quella teorizzata da
Bodin: la sovranità del Leviatano è legittima, poiché gli uomini hanno scelto volontariamente di
aderire al contratto, e illimitata, poiché non è sottomessa a nessun accordo con altri soggetti. Anche
se le caratteristiche della sovranità secondo Hobbes sono le stesse di Bodin (fare e abrogare le leggi)
Hobbes è molto più radicale, poiché fa piazza pulita di qualsiasi residuo di teorie del diritto
naturale. Ogni forma di diritto deriva dallo Stato e dal potere assoluto come forma di benevola
concessione che può sempre essere ritratta: la proprietà privata, come tutte le altri leggi, non
obbligano il Leviatano a rispettarle, poiché deve essere sempre a legibus solutus.
Lo Stato dunque non ha mai obblighi ma solo doveri: deve procurare ai sudditi la sicurezza per la
quale è stato istituito e anche la possibilità per i sudditi di vivere felici, dando dunque loro una
ragionevole libertà (per Hobbes libertà vuol dire assenza di vincoli). Inoltre deve garantire
eguaglianza di fronte alla legge e agli incarichi pubblici, istruzione ed educazione e deve fare in
modo da combattere l'inattività e la disoccupazione poiché la prosperità materiale è l'unica
ricchezza utile a soddisfare i desideri degli uomini. Il Leviatano diventa quindi uno Stato liberale e
umano, che concede ai cittadini la possibilità della proprietà privata in modo che prosperino e si
preoccupa della loro libertà, stabilendo solo poche leggi necessarie a mantenere l'ordine.

Il rapporto tra il potere civile e il potere ecclesiastico diventa centrale nella terza parte del
Leviatano, poiché, trattando di ciò che può distruggere il Leviatano (con grande danno per tutti i
sudditi) vi si trova tanto la contestazione del potere sovrano quanto l'errata comprensione dei
rapporti tra religione e politica. Hobbes infatti cerca di seguire la via già medievale della religione
civile, che non ha come obiettivo la comprensione o l'affermazione di una volontà assoluta ma che
pone l'accento sulla pratica e dunque sullo stabilire la pace tra i sudditi. Ogni uomo religioso segue
gli obblighi che trae dall'interpretazione della Scrittura ma nello stato di natura ogni uomo ha il
diritto a compiere la propria interpretazione. Questo porta inevitabilmente all'aggravarsi del
conflitto finché, con l'istituzione del Leviatano, il diritto all'interpretazione viene ceduto: il sovrano
non è più dunque solo l'organo dello Stato ma anche della Chiesa. Non vi possono più essere due
padroni a cui obbedire per i sudditi e quindi il sovrano deve avere ogni potere ecclesiastico e non
può esservi alcuna autorità spirituale che si erga a rivale del sovrano. Il sovrano è dunque capo della
Chiesa e supremo interprete delle Scritture, detiene tutti i poteri ma non si deve curare della verità
religiosa intrinseca o di ciò che realmente pensano i sudditi in materia religiosa. L'importante è che
negli atti esteriori nessun suddito si distacchi dal potere sovrano.
Il contrattualismo e il diritto di resistenza: John Locke e i Monarcomachi
John Locke (1632-1704) vive una generazione dopo Hobbes sempre in Inghilterra, dove lavora al
servizio di lord Shafetsbury, uno dei principali esponenti dell'opposizione parlamentare a Carlo II e
Giacomo II. A differenza di Thomas Hobbes, Locke assiste alla fine delle guerre civili con la
gloriosa rivoluzione del 1688 che segnerà un importante svolta nella storia politica europea. Alla
riflessione politica di quegli anni Locke contribuisce nel 1690 con i Due trattati sul governo: il
primo di questi è una critica alla teoria del diritto divino dei re formulata da Robert Filmer nel suo
testo Il patriarca. Nel Secondo trattato sul governo invece erige a sistema politico la divisione dei
poteri, costruendo una teoria contrattualista che sarà la base teorica della monarchia costituzionale
inglese. Locke parte da premesse simili a quelle di Hobbes, ossia il passaggio dallo stato di natura
allo stato civile tramite un patto libero tra gli uomini e la legittimazione umana del potere politico,
ma si distanzia subito negli intenti: Locke non vuole rafforzare il potere politico, ma vuole porvi dei
limiti. Lo stato di natura descritto da Locke vede l'uomo nascere libero e dotato di tre diritti naturali
e inalienabili: diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà. Non si tratta di una condizione selvaggia e
brutale ma di una situazione pacifica e benigna dove gli uomini, guidati dalla ragione, convivono
pacificamente in libertà e eguaglianza. Tutti gli uomini hanno diritto di proprietà privata sul proprio
corpo, che dunque non può essere violato da nessuno, e su ciò che il proprio corpo produce tramite
il lavoro. È proprio il lavoro e il consumo a distribuire le risorse naturali tra gli uomini che ne
assumono la proprietà. La ragione naturale, ossia propria dell'uomo nello stato di natura, insegna a
non cercare mai di spezzare l'equilibrio ma, siccome può accadere che un altro individuo violi i
nostri diritti, ci concede anche il diritto alla punizione, che deve essere sempre proporzionata al
danno ricevuto.
Per che motivo allora, vista la situazione quasi idilliaca dello stato di natura, gli uomini ne escono
volontariamente tramite un patto? Locke risponde che ciò avviene per la mancanza di un giudizio
imparziale sulle controversie che sorgono quando un individuo viola i diritti naturali di qualcuno.
Gli uomini allora scelgono di stipulare due contratti: il primo patto di unione prevede che tutti i
contraenti siano uguali tra loro e che il consenso accordato sia perfettamente libero e individuale,
chi non vuole abbandonare lo stato di natura può rifiutarsi di entrare a far parte della società civile.
Il secondo patto è invece di soggezione, tramite cui all'interno della società civile si incarica un
individuo di assumere la sovranità. Quando si crea la società civile non si perdono i propri diritti
naturali ma solo il diritto alla punizione, che viene affidato allo Stato e da cui consegue il
monopolio legittimo della forza. Lo stato infatti ottiene il diritto/dovere di legiferare e di far
rispettare le leggi; i poteri non sono però ceduti insieme alla stessa istituzione, Locke teorizza una
separazione qualitativa dei poteri ben diversa da quella contemporanea, elaborata da Montesquieu.
Secondo Locke esistono due poteri principali, legislativo (affidato al parlamento) ed esecutivo
(affidato al sovrano) e due poteri minori, ossia quello federativo (il potere di stringere alleanze,
competenza del re) e la “prerogativa regia”, ossia la possibilità da parte del monarca di intervenire
direttamente, senza confronto con il parlamento, in casi di estrema necessità. I poteri devono restare
separati tra loro e rispettare ciascuno le prerogative e i compiti dell'altro ma soprattutto devono
agire per il bene comune dei sudditi e senza mai violarne i tre diritti fondamentali. Con il contratto
il popolo ha infatti ceduto il diritto di fare leggi e di punire i colpevoli ma ha acquisito il diritto
all'insurrezione. Il potere politico nasce dall'uomo con uno scopo preciso tramite il consenso libero
e individuale che però può essere ritirato quando le autorità non rispettano i diritti alla vita, alla
libertà e alla proprietà, esulando dall'area di propria competenza, ossia il fare leggi e applicarle. Se
lo stato viola l'ordine costituito dal contratto in qualsiasi modo, il popolo può e deve riprendersi il
potere che hanno consegnato alle istituzioni per trattare una nuova sovranità con nuove istituzioni.
Locke venne fortemente criticato per la sua legittimazione del diritto alla rivoluzione da coloro che
temevano che il popolo potesse abusare di questo diritto, cosa che per Locke non è possibile: è il
popolo ad aver voluto l'autorità politica e quindi vi si ribellerà solo nel caso estremo in cui si rischia
l'arbitrarietà e l'incertezza dello stato di natura. È importante notare che non viene mai annullato il
patto di unione ma solo quello di soggezione, che viene poi immediatamente ristabilito con una
nuova autorità.
John Locke e I trattati sul governo secondo lo Chevallier
La vita di John Locke è ben inserita nei profondi mutamenti politici che investono la vita
dell'Inghilterra a partire da metà del XVII secolo: suo padre combatté nella guerra civile dalla parte
del parlamento e Locke compì i suoi studi sotto la dittatura militare di Cromwell. Dopo la
restaurazione da parte di Carlo II, Locke entrò nelle grazie di Lord Shafetsbury, leader
dell'opposizione parlamentare, che seguì nell'esilio in Olanda. La risposta parlamentare e
protestante a Giacomo II con la gloriosa rivoluzione permise a Locke di tornare in patria. Nel 1690
verranno pubblicati anonimi i Due trattati sul governo: il primo è una risposta al saggio Patriarca
di Robert Filmer, che sostiene la tesi del diritto divino da cui discende il potere del re, mentre il
secondo è un'opera costruttiva con cui esporre la propria teoria dello Stato.
Come vuole la moda intellettuale del tempo, anche Locke comincia il suo trattato con la descrizione
dello stato di natura e dei diritti naturali degli uomini: lo stato di natura non è uno stato caotico e
violento come quello descritto da Hobbes, poiché è governato dalla ragione. Gli uomini dello stato
di natura sono uguali e hanno gli stessi diritti, tra cui la proprietà privata, la vita, la libertà e
soprattutto il diritto di punire chi non rispetta i diritti naturali. Nello stato di natura gli uomini
stanno bene ma decidono di passare allo stato di società per stare meglio: mancano infatti leggi
chiare e stabilite e il diritto a punire chi non rispetta le libertà altrui può sfociare in una minaccia
alla libertà, all'eguaglianza e alla proprietà. Gli uomini decidono dunque di fondare il potere politico
a cui danno il proprio consenso, che la sola e unica possibilità per fondare un governo legittimo;
l'assolutismo, che genera una situazione radicalmente peggiore a quella descritta nello stato di
natura, non può dunque avere nessun consenso né quindi essere un governo legittimo.
Nello stato di natura l'uomo ha due poteri, di cui si spoglia dando il proprio consenso alla società
politica: l'uomo può decidere cosa è giusto per sé (potere legislativo) e può punire chi non rispetta i
diritti naturali (potere esecutivo). I due poteri vengono ereditati dalla società, che però deve tenerli
in mani separate per evitare che l'eventuale detentore di entrambi se ne approfitti e perché non c'è
necessità di una continua legiferazione. I due poteri non sono però uguali: il legislativo è anima
dello stato, potere supremo, mentre l'esecutivo si trova in posizione subordinata ma, dice Locke, “è
bene che molto sia lasciato alla discrezione del detentore dell'esecutivo, poiché è difficile prevedere
tutte le situazioni che una legge dovrebbe comprendere”. Il legislativo è il primo e principale
depositario dei poteri degli uomini e quindi deve rispettare l'incarico che gli è stato affidato, questo
vale a fortiori per l'esecutivo. Se uno dei due poteri svicola dalle proprie prerogative allora il
depositante della sovranità, ovvero il popolo, ha diritto a ribellarsi e a resistere, in modo da
ristabilire l'ordine, l'equilibrio ed una nuova società a cui affidare il proprio consenso.

I monarcomachi
La teorizzazione del legittimo diritto all'insurrezione non è una invenzione di John Locke ma si
tratta della rielaborazione della riflessione dei cosiddetti “monarcomachi”, attributo spregiativo
coniato nel 1600 dall'assolutista William Barclay in De regno et regali potestate. I monarcomachi
sono coloro che si oppongono non alla monarchia in sé come forma di governo ma piuttosto agli
abusi di potere attuati dai sovrani. I monarcomachi elaborano la propria teoria della resistenza attiva
ai tiranni su basi religiose, tanto che i testi usati come riferimento sono le Scritture (Deuteronomio
29 e IV libro dei re 11, 23). I primi autori sono di religione protestante ma ben presto molti altri
autori, anche cattolici, si trovano a sostenere le stesse tesi contro l'assolutismo tipico dei sovrani
europei del XVII secolo.
L'opera principale, da cui si fa iniziare la riflessione dei monarcomachi è un opuscolo, pubblicato
nel 1579, che si inserisce nel contesto di quelle opere scritte in seguito alla strage di San
Bartolomeo. Il libretto in latino, intitolato Vindiciae contra tyrannos, venne poi tradotto in francese
ed ebbe diffusione europea; l'autore si firma con lo pseudonimo di Giunio Bruto, che ricorda sia
Lucio Giunio Bruto, che cacciò Tarquinio il superbo istituendo la repubblica romana, sia Marco
Giunio Bruto, cesaricida. I reali autori sono invece Philippe Duplessis-Mornay e Hubert Languet,
protestanti francesi scampati alla strage. Nel testo sono presentate quattro domande a cui ci si
propone di dare una risposta:
 I sudditi devono obbedire al sovrano che comanda contro le leggi di Dio? No.
 Se un sovrano comanda contro le leggi di Dio, è lecito scacciarlo? Sì.
 Si può resistere attivamente anche contro un sovrano che governi male pur senza violare le
leggi di Dio? Sì.
 È lecito ai sovrani confinanti aiutare coloro che si ribellano al tiranno? Sì.

Viste le domande e le risposte date dagli autori, possiamo esaminare in che modo questi intendano il
contrattualismo. Secondo i monarcomachi esistono due patti separati: il primo è stipulato tra Dio e il
re alla presenza del popolo, mentre il secondo tra popolo e re; col primo contratto il sovrano riceve
da Dio la sovranità e l'incarico di proteggere e guidare il popolo, presente al contratto, che Dio gli
affida. Il secondo contratto invece prevede l'impegno da parte del sovrano nei confronti del popolo a
governare bene e a rispettare le leggi, mentre il popolo accetta di sottomettersi all'autorità politica.
In questa prospettiva il sovrano gode di una doppia investitura, divina e umana, ma ha l'obbligo, in
virtù del primo contratto stipulato con Dio, di impegnarsi nel gestire il popolo: governare non è
considerato un privilegio ma un compito difficile che necessita anche di grande sacrificio da parte
del regnante. Quando un sovrano non governa bene o si pone manifestamente contro le leggi divine,
il popolo può e deve ribellarsi sempre in virtù del primo contratto: il popolo partecipa all'accordo tra
Dio e il re non come pubblico muto, ma come garante dei termini del contratto. Quando avviene
una qualunque violazione del contratto, il re sta facendo un torto a Dio, diventando tiranno, e
dunque il popolo è chiamato a difendere Dio contro di questi. È anche interessante la quarta
domanda posta da Duplessis-Mornay e Languet: legittimando l'intervento di sovrani stranieri nelle
questioni interne, anche nelle questioni religiose, i due autori si pongono in netto contrasto con il
principio della pace di Augusta (cuius regio eius religio) e con il concetto di sovranità elaborato da
Bodin.

A voler confrontare la posizione dei due autori ugonotti con quella di Locke, si nota una differenza
fondamentale: Locke vuole fondare un nuovo ordine istituzionale guidato dalla separazione e
accordo dei poteri, Duplessis-Mornay e Languet vogliono semplicemente modificare e chiarire
aspetti del sistema attuale, senza riformarlo completamente.
L'illuminismo
Il XVIII secolo è fondamentale per la storia della politica poiché è il secolo delle due grandi
rivoluzioni che forgiano la modernità, ossia quella americana e quella francese; le due rivoluzioni
sono anche la messa in pratica di una serie di istanze elaborate dal movimento culturale che si
sviluppa tra 1715 e 1789, l'illuminismo. A Parigi e in Francia nasce quello che è chiamato dagli
stessi autori il “movimento dei Lumi”, che, lungi da essere un movimento compatto, sviluppa però
temi di riflessione comune e nuovi concetti sia culturali che politici: si comincia infatti a parlare in
nome della ragione di diritti politici, libertà civili, tolleranza, giustizia, cosmopolitismo e viene
portata una forte critica alle formulazioni dogmatiche tradizionali. Dalla Francia, dove vengono
pubblicate le prime opere, l'illuminismo si diffonde in tutta Europa e anche oltreoceano, nelle
colonie americane. Elementi tipici della cultura illuminista, a prescindere dalle idee e dai concetti
sviluppati, sono i salotti e i caffè, dove si sviluppa il dibattito pubblico tra intellettuali, o le
pubblicazioni periodiche rivolte ad un pubblico in costante crescita. È stato fatto notare come, in
concomitanza con lo sviluppo dell'illuminismo, nasca negli stati europei l'opinione pubblica, capace
di influenzare la politica e le attività del governo.
L'illuminismo ha tante voci, idee contrastanti e gradazioni diverse delle stesse idee, come vedremo,
ma presenta alcuni tratti comuni. Uno dei tratti più interessanti è la creazione di una sorta di
“repubblica delle lettere”, ossia di una società comune di tutti gli intellettuali illuministi, diffusa e
trans-nazionale, che promuova la collaborazione per la ricerca della verità seguendo la ragione. In
questo secolo le potenze europee si stanno riorganizzando per modernizzare i processi politici e
renderli più efficienti, cercano di eliminare i residui medievali come i poteri feudali, gli stati per
ceti, i privilegi fiscali e l'intromissione da parte di altre entità, prima fra tutte la Chiesa Cattolica,
nella propria politica. Gli illuministi vogliono far parte di questo progetto e si propongono ai
sovrani come consiglieri o uomini politici, ma allo stesso tempo si trovano anche all'opposizione
contro quei governi che non vogliono concedere diritti civili e politici.
Tratti comuni della riflessione politica degli illuministi sono dunque la netta presa di distanza da
qualsiasi tipo di investitura divina dell'autorità politica: la politica è una attività umana che deve
trovare la sua legittimazione negli uomini. Vi è inoltre una critica al sapere dogmatico, imposto
solitamente dalle autorità religiose, che frena il progresso umano e all'immobilità della società
tradizionale: il criterio del merito e della competenza nell'assegnazione delle cariche pubbliche è
sostenuto con forza contro il criterio della nascita e della ricchezza tipico della società per ceti. La
società deve quindi essere riformata capillarmente sulla base dell'uguaglianza di diritti politici e
civili. Sulla scia dei contrattualisti inglesi e in contrasto con la tradizione, gli illuministi rivalutano
positivamente l'individuo, le sue caratteristiche e il suo ruolo all'interno della società umana. I
pensatori che si riconoscono in queste istanze vanno a formare il partito dei “philosophes”,
composto da intellettuali che, a metà strada tra la popolazione e i governanti, cercano di illuminare
sia l'opinione pubblica sia i governi, sviluppando la libera discussione intorno a svariati temi.
L'opera fondamentale dell'illuminismo, che presenta le varie istanze comuni, è sicuramente
l'Enciclopedia, o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, stampata tra 1750 e
1772 in volumi. All'opera, redatta sotto la direzione di Diderot e D'Alembert, partecipano
moltissimi autori di tutta Europa, anche se in prevalenza francesi: troviamo infatti voci curate da
Montesquieu, da Rousseau o da Turgot. L'Enciclopedia ha lo scopo esplicito, presentato da
D'Alembert nel Discorso preliminare di riunire le conoscenze umane sparse sulla terra per poi
presentarle e tramandarle agli uomini, in modo che i posteri, più istruiti, siano anche più virtuosi e
felici. Tutti gli elementi comuni qui presentati si ritrovano nei numerosi volumi dell'Enciclopedia;
ora cercheremo di guardare più da vicino gli autori.

L'illuminismo francese
Il pensiero politico di Denis Diderot (1713-1784) è contenuto nella voce autorità politica, da lui
redatta; risulta evidente il suo interesse per le tesi contrattualiste e in particolare per il pensiero di
Locke. Secondo Diderot nessuno riceve dalla natura il potere di comandare sugli altri, poiché solo
un patto e il consenso possono creare l'autorità politica. Il patto deve essere stipulato tra uomini
liberi secondo ragione, con moderazione e mantenendo alcune riserve, ovvero impegnando il
sovrano a rispettare i diritti naturali, precedenti il contratto, e i diritti civili, stabiliti dal contratto. In
questo modo si costituisce lo Stato che non è di proprietà del sovrano, anzi il principe appartiene
allo Stato e ha l'obbligo di rispettare i cittadini, dai quali proviene la sua autorità. Diderot insiste
sulla necessità della separazione dei poteri: non c'è libertà né rispetto dei diritti per i cittadini di stati
in cui una istituzione controlla due o più poteri. Il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo
devono rimanere separati ed indipendenti.
Nel Supplemento ai viaggi di Bouganville del 1763, Diderot recupera la descrizione dell'isola di
Tahiti fatta dal navigatore francese e vi proietta una società utopica dove tutti gli uomini vivono
felici e in pace dopo aver messo in comune non solo i beni ma anche gli affetti. In questo modo vige
una perfetta uguaglianza tra gli isolani e persino la parità tra uomini e donne.

François Marie Auret, detto Voltaire, (1694-1778) è uno degli autori più famosi dell'illuminismo
francese, tanto da essere conosciuto e stimato anche nelle colonie americane; le sue pubblicazioni
ebbero risonanza internazionale e gli attirarono le simpatie e le attenzioni di molti sovrani stranieri,
tra cui Federico II di Prussia e Caterina di Russia. Dalle sue opere traspare una ammirazione
sconfinata per il modello politico e sociale dell'Inghilterra sorto in seguito alla gloriosa rivoluzione
del 1688: Voltaire visse in Inghilterra per due anni finché nel 1728 non fu costretto a fuggire per
problemi giudiziari. Nel 1734 pubblica le Lettere filosofiche, in cui mostra i caratteri della società
inglese e i motivi per cui è la migliore possibile. Elemento che lo colpisce è l'estrema ricchezza di
confessioni religiose che convivono in pace e armonia, tollerandosi a vicenda: nella V lettera scrive
« un inglese, da uomo libero, va in cielo per la strada che più gli piace », a sottolineare la libertà
concessa dalla società e dal governo a tutti gli individui. Il sistema parlamentare inglese, che ritiene
unico al mondo, è il migliore poiché permette a tutti gli uomini di partecipare attivamente alla
politica e pone dei limiti al potere sovrano del monarca. Inoltre tutti sono tutelati e uguali di fronte
alla legge, poiché vige l'idea che l'utile del singolo individuo sia fondamentale per il progresso e il
benessere comune. Altri aspetti che Voltaire ammira sono la meritocrazia presente nella società e
l'esistenza di una vera e propria opinione pubblica in cui vi è un vivace dibattito su più temi capace
di influenzare la politica del governo.
Il quadro mostrato da Voltaire è fortemente idealizzato al fine di poter polemizzare meglio, tramite
un confronto, contro la società francese, arretrata dal punto di vista civile, politico e culturale. In
Francia non vi è uguaglianza di fronte alla legge, il clero interviene spesso su questioni politiche
che esulano dalla materia religiosa, non vi è libertà di fede e i retaggi oscurantisti e medievali
impediscono il progresso del paese. Per riformare questa situazione Voltaire insiste sul principio
della rappresentazione politica degli individui: propone un parlamento sul modello inglese che
rispecchi gli interessi individuali e non quelli di un ceto intero. I diritti civili e politici degli uomini
possono essere garantiti solo in uno stato dove vige la libertà e dove questa libertà è a sua volta
tutelata dalla tolleranza. La tolleranza, a cui Voltaire dedica un intero trattato, è uno degli elementi
costitutivi di ogni stato giusto: ogni opinione e credo religioso deve essere tollerato nel privato
come nel pubblico, poiché la tolleranza è l'unico strumento per governare pacificamente, in quanto
elimina la possibilità dello scontro violento e privilegia il dialogo. Gli unici individui che non
meritano tolleranza sono gli oziosi e i fannulloni, cioè coloro che vivono di rendita in maniera
parassitaria senza contribuire al progresso della società.

L'illuminismo francese
Soprattutto dalla seconda metà del XVIII secolo, l'illuminismo francese si radicalizza come forza di
opposizione alla politica tradizionale, rivendicando anche diritti economici e non solo politici.
Claude-Adrien Helvetius (1715-1771) scrive nel 1758 l'opera Sullo spirito in cui teorizza l'identità
tra interesse generale e interesse dello stato: lo stato migliore per Helvetius si ha quando il governo
si preoccupa del benessere dei cittadini e i cittadini si preoccupano del benessere dello stato. Per
ottenere questa situazione i cittadini devono essere stimolati alla virtù dalle leggi, che per riuscire in
questo compito devono essere “buone”, ossia uguali per tutti. La ricerca dell'uguaglianza è insita nel
progresso umano e ogni cosa deve essere fatta con l'obiettivo dell'uguaglianza. Gli autori della
disuguaglianza vigente sono gli ordinamenti tradizionali e in modo particolare le autorità religiose,
che devono quindi essere colpiti dalle riforme. Secondo Helvetius, il primo e più importante passo
verso l'uguaglianza è lo stabilire una educazione pubblica uguale per tutti.
Etienne-Gabriel Morelly (1717-1778) nel Codice della natura delinea una società comunista: solo
l'abolizione della proprietà privata può condurre l'uomo alla totale eguaglianza. Lo stato deve
fornire i mezzi materiali per la sopravvivenza dei cittadini e non deve avere troppo potere:
l'esecutivo, per il mantenimento dell'ordine pubblico, deve essere delegato alle associazioni di
famiglie; il potere legislativo deve essere affidato esclusivamente ai rappresentanti del popolo. Solo
con queste condizioni sarà possibile abolire la proprietà privata, redistribuire la ricchezza e portare
tutti gli uomini alla felicità.
Paul-Henry D'Holbach (1723-1789), nel Sistema della natura del 1770, denuncia la convergenza di
interessi di sovrani, nobiltà e clero volta a tenere la popolazione nell'ignoranza, rendendola così vile
e cattiva. Nonostante questa situazione, non serve una rivoluzione violenta ma un'opera di
persuasione e quindi di riforma che parta dagli intellettuali per arrivare alle orecchie dei governanti,
passando dalla voce dell'opinione pubblica.

L'illuminismo in Inghilterra
In Inghilterra l'illuminismo politico non trova grande risonanza e dunque dagli intellettuali è
percepita solo come movimento di rinnovazione culturale e scientifica. Joseph Priestley e Richard
Price furono gli unici inglesi a trattare temi politici, chiedendo un ampliamento delle sfere di
democrazia all'interno del parlamento inglese e maggiori diritti per la popolazione. Le idee di
entrambi i pensatori non derivano però dalla riflessione di autori francesi ma dalla rielaborazione di
temi già presenti all'interno del dibattito pubblico e religioso fin dal XVII secolo. David Hume
invece riprende e fa proprie alcune riflessioni di autori francesi sul progresso come un processo
immanente e inevitabile.

L'illuminismo in area germanica


In Germania e Austria l'illuminismo sostiene e collabora a stretto contatto con i sovrani, che cercano
di esercitare il loro potere nella figura di “primi servitori dello Stato”. Si sviluppa così il concetto di
dispotismo illuminato: il potere è accentrato nelle mani del sovrano perché possa legiferare e
riformare per il bene di tutti, senza l'opposizione di quelle parti più retrograde e oscurantiste della
società. Il protagonista dell'illuminismo tedesco che segue questa teoria politica è uno stesso
monarca, ossia Federico II di Prussia, che si dedicò a combattere la superstizione e l'irrazionalità
fondando accademie scientifiche e delle arti, istituendo l'educazione pubblica e sviluppando la
burocrazia. Dall'opera di Federico II nasce quello che è definito “cameralismo”, la teoria politica
secondo cui il benessere viene calato dall'alto sulla popolazione tramite un efficiente ed onesto
sistema burocratico in cui le cariche sono assegnate in base alle capacità dei cittadini.

Decisamente contraria è la posizione di Immanuel Kant, che nella Metafisica dei costumi critica
fortemente il dispotismo e il paternalismo dei sovrani assoluti. Kant immagina uno stato liberale,
dove ogni cittadino è libero di scegliere da sé come vivere bene, dato che la felicità è un fatto
personale su cui lo Stato non può dire niente; il potere deve essere decentrato e separato tra le
istituzioni in modo da tutelare i cittadini e i loro diritti.

L'illuminismo in Italia
In Italia gli illuministi devono fare i conti con due aspetti caratteristici della penisola: il primo
problema è il radicamento spirituale e istituzionale della Chiesa cattolica, che esercita una forte
censura sulle pubblicazioni e controllo direttamente l'educazione sulla maggior parte del territorio.
Altro problema è l'estrema frammentazione politica in piccoli principati che possono essere più o
meno rigidi a seconda del sovrano. Da un lato gli illuministi italiani si ritrovano compatti nella
critica alla Chiesa e al suo strapotere, mentre si dividono sull'atteggiamento da tenere nei confronti
dei sovrani, dato che alcuni di questi si mostrano disposti ad ascoltare i consigli degli intellettuali e
a intrattenere un dialogo produttivo con questi. I temi principali su cui si dibatte in Italia sono
dunque l'economia, la giustizia e l'educazione, temi importanti per gli illuministi a cui i sovrani
possono interessarsi senza rischiare di perdere stabilità politica.

Il modenese Lodovico Muratori (1672-1750) è una delle voci più importanti dell'illuminismo
italiano e con la sua principale opera politica, Della pubblica felicità, oggetto dei buoni principi,
non vuole entrare in contrasto con le autorità politiche né ecclesiastiche, alle quali contesta solo
l'ingerenza in materia non religiosa e la diffusione della superstizione. Muratori sostiene che la
pubblica felicità sia il fine a cui i sovrani devono tendere e che, per ottenerla, sia necessario dare
ascolto agli intellettuali e alle loro proposte di riforma di giustizia, economia, istruzione,
amministrazione e diffusione delle arti e della cultura scientifica.
Antonio Genovesi (1712-1769), che vive nel Regno di Napoli, si contraddistingue per una forte nota
anticlericale e antibaronale; auspica la creazione di una nuova classe dirigente, contraria al
dogmatismo e ampiamente meritocratica, che si ispiri al modello inglese. È necessario riformare
l'istruzione per renderla pubblica e disponibile a tutti e concedere la libertà di stampa per favorire la
circolazione delle idee e della cultura. Genovesi è tra i primi pensatori a proporre non solo il
modello politico e sociale inglese ma anche quello economico e dunque a chiedere riforme
economiche di stampo liberale.
A Milano, sotto il dominio austriaco, la politica riformista di Maria Teresa e Giuseppe II porta gli
illuministi Cesare Beccaria e Pietro Verri a riporre grande fiducia nelle autorità politiche. Insistono
entrambi sulla necessità di cancellare ogni retaggio del mondo medievale per permettere il pieno
progresso verso una società egualitaria. Le riforme non devono limitarsi ad eliminare i privilegi di
nobiltà e clero ma devono anche migliorare la condizione di vita delle classi meno agiate,
diffondendo cultura e istruzione. Molto importante e conosciuta la polemica di Beccaria contro il
sistema giuridico tradizionale che prevedeva l'utilizzo della pena di morte e della tortura.

Montesquieu (1689-1755)
Nato nel 1689 in una famiglia da più generazioni impegnata in magistratura e quindi nobile di toga,
Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu è uno dei pensatori illuministi politici più
importanti; la sua opera più famosa è Lo spirito delle leggi, composta da 31 volumi e pubblicata
definitivamente nel 1748, sette anni prima di morire. La sua opera verrà recepita immediatamente:
la costituzione degli Stati Uniti d'America riprende consapevolmente moltissimi punti del pensiero
politico di Montesquieu.
Montesquieu riprende la classica tripartizione aristotelica delle forme di governo ma non si ferma
ad una distinzione quantitativa (quanti uomini detengono il potere), aggiungendovi anche una
distinzione qualitativa. Esistono repubbliche, che possono essere democratiche o aristocratiche,
monarchie e dispotismi, ma la vera distinzione è tra governi moderati e governi immoderati. Per
avere un governo moderato, si deve fissare un rapporto armonico tra leggi, libertà e costituzione,
che devono reggersi a vicenda. La costituzione è composta da leggi per tutelare la libertà mentre la
legge deve sempre rispettare la costituzione dello Stato e la libertà dei cittadini. La libertà non
corrisponde al fare ciò che si vuole ma al fare ciò che le leggi permettono; lo Stato deve essere
organizzato in modo da garantire la sicurezza dei cittadini, elemento importante della libertà. Un
governo immoderato è invece contraddistinto da rapporti instabili che non garantiscono alcuna
sicurezza ai cittadini. Per evitare che un governo diventi immoderato, Montesquieu insiste
fortemente sulla separazione e l'indipendenza dei poteri.
Uno dei punti più importanti della riflessione di Montesquieu è la distinzione tra natura e principio
di un governo: la natura corrisponde alla forma con cui uno Stato si organizza, mentre il principio è
lo spirito che lo anima; da questi due aspetti derivano alcune leggi peculiari e fondamentali per ogni
stato. Vediamo nel particolare:
 una repubblica democratica è animata dal principio della virtù, ossia l'assoluta dedizione alla
patria e alle sue leggi. Le leggi fondamentali di una repubblica democratica riguardano, dal
lato della forma, la presenza di elezioni e di forme di controllo sui governanti incaricati
mentre, dal lato del principio, devono essere stabiliti uguaglianza e moralità.
 Una repubblica aristocratica è invece animata dal principio della moderazione, di modo da
evitare estrema disuguaglianza tra i cittadini. Le leggi fondamentali stabiliscono i criteri
attraverso i quali si distinguono governati e governanti.
 La monarchia è animata dal principio dell'onore, ossia dalla volontà di far rispettare le
funzioni proprie di ciascun individuo in base alla sua classe. È fondamentale istituire dei ceti
intermedi (la nobiltà) che faccia da mediatore tra sovrano e popolo; altro aspetto importante
della monarchia è stabilire un deposito di leggi fondamentali, affidato al potere giudiziario, a
cui sovrani e parlamenti debbano obbedire.
 Un dispotismo si fonda invece sulla paura e deve istituire pene severe in modo da ottenere
obbedienza assoluta da parte dei sudditi.

Montesquieu e Lo Spirito delle leggi secondo lo Chevallier


Montesquieu si pone il problema di cercare lo “spirito” delle leggi, ovvero le motivazioni, i principi
e gli impulsi in base ai quali vengono stilate le leggi; perché vi sono leggi più o meno efficaci in un
mondo in cui tutto sembra una successione di eventi casuali, come aveva mostrato Montaigne?
Secondo Montesquieu non serve fare appello né alla fortuna, come aveva fatto Machiavelli, né alla
provvidenza, come hanno fatto gli autori cristiani, basta richiamarsi alla ragione umana, che è
capace di comprendere lo spirito delle leggi e dunque di redigerle e applicarle nel modo più
corretto, sbrogliando l'apparente caos che sembra vigere nel mondo delle leggi e delle istituzioni.
L'operazione che si propone di compiere Montesquieu è la stessa che compiono tutti gli studiosi
illuministi: sezionare e sperimentare per trovare la molla generale, la regola, che sottosta a tutti gli
eventi. I princìpi dell'opera di Montesquieu sono abbastanza semplici: non bisogna studiare le leggi
in sé ma i rapporti che le leggi hanno tra di loro e con tutti gli elementi che costituiscono la vita
dello Stato; infatti questi rapporti fondano lo Spirito delle leggi. Montesquieu è soprattutto teorico
politico, non storico, e sembra faticare molto nello stilare una genealogia del potere politico, mentre
non manca di soffermarsi sull'analisi e sulla teorizzazione delle leggi generali attuali.

La sua teoria dei governi, presentata nei primi otto libri dello Spirito delle leggi, ne è un esempio.
Colpisce subito come Montesquieu abbandoni la classificazione tradizionale “monarchia –
aristocrazia – democrazia” per abbracciarne una nuova composta da quattro termini: repubblica, che
può essere con ordinamento democratico o aristocratico, monarchia e dispotismo. Bisogna sempre
distinguere in ogni forma di governo la “natura”, ovvero la struttura, ciò che lo fa essere tale, e il
“principio”, ovvero la pulsione che muove ciò che fa. È dunque la natura a distinguere le forme di
governo: la natura di una repubblica è il potere sovrano detenuto dal popolo in parte o per intero, la
natura della monarchia è il potere sovrano detenuto da uno solo attraverso leggi fisse e stabilite, la
natura del dispotismo è il potere sovrano detenuto da un solo uomo che lo esercita secondo la
propria volontà senza leggi.
In una repubblica democratica il principio è costituito dalla virtù, ovvero dal continuo sacrificio di
sé che i cittadini offrono allo Stato e alla comunità e che li rende tutti uguali. Se la virtù viene meno
la repubblica crolla, dunque tutte le leggi devono essere intese a sviluppare questa virtù nei cittadini
e quindi devono favorire l'educazione sopra ogni altro aspetto. In una repubblica aristocratica
invece non serve tanto la virtù quanto piuttosto un certo spirito di moderazione da parte dei nobili
che comandano in modo da non risultare ambiziosi e causando conflitti intestini. La forma della
monarchia, che passa per leggi fisse e stabilite, richiede l'istituzione di poteri intermedi, ovvero dei
nobili o dei corpi religiosi che incanalino il potere assoluto del monarca, e di un deposito delle
leggi, un organo indipendente, un altro potere intermedio, che custodisca le leggi fisse e le ricordi
costantemente al re. Il principio della monarchia è l'onore, cioè il pregiudizio di ogni persona e di
ogni condizione: si tratta dell'ambizione personale di ognuno a che i pregiudizi della propria
condizione sociale vengano riconosciuti e rispettati in ogni luogo. Ogni membro dello stato
monarchico ha le proprie prerogative e i propri privilegi che non possono essere negati, pena la
corruzione dello Stato; questo succede anche quando il sovrano cerca di accentrare in sé tutto il
potere, esautorando le prerogative degli altri ceti. Il dispotismo non è considerato da Montesquieu
una perversione della monarchia ma una vera e propria forma di governo antitetica basata su di un
altro principio, la paura. In un dispotismo il principe governa ottenendo l'obbedienza assoluta dei
sudditi tramite la paura della punizione e lasciandoli nell'ignoranza più completa; non ci sono
sfumature e tutto avviene in modo diretto.

Appena conclusa la trattazione della teoria dei governi, Montesquieu cambia totalmente registro e
comincia a parlare della libertà politica, a cui tutti i governi tendono per non cadere nel dispotismo:
la libertà politica non consiste nel fare ciò che si vuole, ma nel fare tutto ciò che le leggi
permettono, ovvero nel fare ciò che si deve volere. La libertà politica è anche lo stato di tranquillità
che ogni cittadino riceve dal sentirsi sicuro: violare la legge significa perdere la libertà politica,
poiché legittima tutti quanti a fare lo stesso e a rompere lo stato di tranquillità. La libertà politica
non si trova ovunque perché in tutte le forme di governo è possibile l'abuso di potere: chiunque
detenga potere è invogliato ad abusarne e può essere limitato solamente da un altro potere. Dunque
diventa necessaria la separazione dei poteri, per avere la libertà politica. Montesquieu, a differenza
di Locke, indica tre poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, in maniera astratta. Dal
punto di vista pratico invece elabora una sorta di Costituzione mista che si avvicina molto a quella
inglese sorta dopo il 1688. Dato che ogni uomo ha diritto ad autogovernarsi, il popolo deve detenere
il potere legislativo ed esercitarlo tramite rappresentanti; anche la nobiltà, ereditaria, detiene il
potere legislativo, ma con prerogative diverse: i nobili devono infatti avere la facoltà di impedire e
la facoltà di statuire (correggere, emendare) ciò che gli altri rappresentanti hanno fatto. La
monarchia detiene invece il potere esecutivo, che necessita di azioni rapide e quindi prive di lunghe
discussioni. Il punto importante di Montesquieu è che i due poteri, divisi in questo modo tra i tre
corpi dello Stato, siano vincolati l'uno all'altro in modo da non poter mai essere sottomessi:
all'organo legislativo dovranno essere garantite sessioni periodiche e il voto annuale in materia
finanziaria e militare, inoltre deve detenere esclusivamente la facoltà di deliberare le leggi e può
controllare il sovrano mettendo sotto giudizio i suoi ministri. Da parte sua il sovrano è il solo a
potere convocare il potere legislativo e a scioglierlo e a detenere un diritto di veto sulle leggi votate
in parlamento; la persona del sovrano è sacra e inviolabile e non può mai essere sottoposta a
giudizio per le sue azioni.
Non sono soltanto le cause morali a definire la politica ma anche alcune cause fisiche, tra cui i
climi, di cui ne esistono tre: l'uomo nordico è brutale e impetuoso e si governa in base alla forza;
l'uomo del Mezzogiorno è portato per lo studio delle scienze occulte, è misterioso e parla molto e si
governa tramite la religione; l'uomo del clima temperato invece si trova in una condizione mediana,
è meno forte dell'uomo nordico e più ragionevole dell'uomo del Sud e per questo si governa in base
a ragione e giustizia. Non sono solo i climi ad influire sulla vita degli uomini o sui loro costumi,
dato che la disciplina o, al contrario, il rilassamento possono invertire la tendenza naturale degli
uomini e portarli a governarsi in modo diverso da quello che per natura si addice loro.

Gli uomini sono dunque governati da molte cose diverse da cui si forma uno spirito generale che
esalta alcuni caratteri dominanti, in base alle qualità della popolazione: i selvaggi sono coloro che si
fanno più governare dal clima e dal terreno, i Cinesi si governano tramite le usanze, i costumi sono
il tratto dominante degli Spartani, le massime di governo dominano invece i Romani. In che modo
però si rapportano tra di loro i costumi e le leggi è una delle ultime grandi questioni di Montesquieu
che ritiene poco utile cercare di modificare i costumi dei popoli se questi mescolano in modo
armonico vizi e virtù, dando un risultato positivo. L'intervento delle leggi in materia di costumi e
usanze è spesso tirannico e poco utile, poiché devono essere le leggi a basarsi sulle consuetudini
piuttosto che il contrario. Montesquieu ammette però che le leggi fondamentali dello Stato possano
contribuire ad influenzarne il carattere: così i popoli che sono hanno libertà politica per legge
temono soprattutto di perdere la loro libertà e lottano fino alla morte per mantenersi liberi.
Jean-Jacques Rousseau (1712-1778)
Rousseau è sicuramente il pensatore che più di tutti si distacca dalle idee comuni dell'illuminismo
pur rimanendo all'interno del movimento; la sua riflessione politica diventa la base ideologica delle
correnti di pensiero più radicali della rivoluzione francese, in particolare è autore apprezzatissimo
dai giacobini.
La sua opera politica più famosa è Il contratto sociale (1762), il cui incipit è molto famoso:
«L'uomo è nato libero e dappertutto è in catene. Persino chi si crede il padrone degli altri non è
meno schiavo di costoro. Come si è prodotto questo mutamento?» Rousseau sostiene che ogni
uomo sia nato libero nello stato di natura e adesso, nella società politica, si trovi schiavo; questo è
avvenuto perché non si è stilato il giusto contratto, che avrebbe dovuto unire alla libertà dello stato
di natura la sicurezza che deriva dal vivere in uno stato civile. Questa formula politica è possibile,
per Rousseau, solo tramite la totale alienazione, senza riserve e da parte di chiunque voglia
associarsi, dei propri diritti. I diritti vengono alienati alla comunità in modo che chiunque ne faccia
parte acquista l'equivalente di ciò che ha ceduto sugli altri; dunque non si perde nulla di ciò che si
cede, anzi si guadagna la forza e la sicurezza derivanti dall'unione. Il risultato del patto, che non
viene sottoscritto da tutti ma solo dagli uomini che lo desiderano, è di mantenere l'uguaglianza e la
libertà dello stato di natura, a cui si aggiunge il valore della socievolezza e della fratellanza.
Secondo Rousseau, l'alienazione dei propri diritti forma quella che è chiamata “volontà generale”;
la volontà generale (un cui sinonimo potrebbe essere “corpo politico” o “cosa pubblica”) non
corrisponde alla volontà di tutti, o alla volontà della maggioranza, ma coincide con l'espressione
comune della pubblica autorità. La volontà di tutti altro non è che la semplice somma delle volontà
particolari, che sono interessate solo all'utile privato e non all'utile comune. Chi si trova in
disaccordo con la volontà generale per Rousseau è in errore e non è libero, perché schiavo del suo
interesse personale che lo acceca, gli altri cittadini devono costringere costui a tornare libero e ad
accettare la volontà generale. Le leggi a garanzia dei cittadini vanno stabilite da un grande
legislatore (gli esempi di Rousseau sono Licurgo, Solone, Mosè, Calvino) il quale, meglio se
straniero, deve studiare la popolazione e stilare un codice di leggi adatto da proporre alla volontà
generale che, se accetta questa legislazione, la rende effettiva. La volontà generale detiene la
sovranità ma il governo viene affidato ad un gruppo di uomini che è il mero esecutore materiale
delle disposizioni della volontà generale; il governo è separato dalla sovranità. Alla volontà generale
inoltre appartengono tutti i beni, che vengono redistribuiti tra i cittadini per eliminare le
disuguaglianze economiche e sociali e riequilibrare quelle differenze che si trovano in natura. La
religione è intesa da Rousseau come una professione di fede civile, i cui dogmi sono sentimenti di
socievolezza e fratellanza atti a legare il singolo alla volontà generale e a santificare il contratto
sociale stesso. Altro punto di distacco tra Rousseau e gli altri illuministi è il giudizio che il
ginevrino dà del sistema politico inglese. Per Rousseau il sistema rappresentativo inglese è un
pessimo sistema politico, dove il cittadino è veramente libero solamente al momento delle elezioni;
un sistema parlamentare rappresentativo come quello inglese si limita ad essere espressione della
volontà dei più e non della volontà generale.

Rousseau e il Contratto sociale secondo lo Chevallier


Jean-Jacques Rousseau aveva abbozzato una opera politica dal titolo Istituzioni politiche, la cui
pubblicazione era stata ritardata dal lavoro alla Novella Eloisa prima e all'Emilio poi; ritenendo che
le Istituzioni necessitassero ancora di molti anni di lavoro, decise di estrapolarne alcune sezioni
meglio composte e di lavorare a quelle per dare alle stampe il Contratto sociale, o Principi del
diritto politico. Nonostante il tema del contrattualismo, dopo Hobbes e Locke, sembri poco
originale, Rousseau riesce nell'impresa di inventare qualcosa di nuovo: Rousseau tratta
coerentemente il tema della libertà e dell'uguaglianza dell'essere umano, che esistono in natura ma
che nella società umana si ritrovano snaturate, andando ad animare una differente natura umana.

Rousseau parte dalla considerazione che gli uomini, liberi in natura, sono ovunque in catene e si
chiede come sia stato possibile questo cambiamento e soprattutto come fare affinché si possa
considerare legittimo. L'obbligo sociale si basa sul diritto e non sulla forza e non è fondato su di una
autorità naturale ma nasce, secondo Rousseau, solamente tramite la convenzione stabilita tra tutti i
membri di una società che sono tenuti a contrattare solamente con sé stessi e con la propria volontà.
La formula del contratto è infatti: “ognuno mette in comune la sua persona ed ogni suo potere sotto
la suprema direzione della volontà generale e accoglie ciascuno come parte indivisibile del tutto”.
In questo modo si salvano sia la libertà che l'obbedienza: ciascuno acquista su gli altri lo stesso
diritto che cede su di sé, non perdendo nulla nel contratto, e diventando nella società
contemporaneamente suddito e sovrano, obbedendo a quelle stesse leggi che ha stabilito tramite la
volontà generale. La volontà generale non è da considerarsi la somma delle volontà particolari, che
si legano agli interessi personali e individuali, ma richiama l'interesse generale; se la libertà dello
stato di natura consisteva nel poter seguire i propri interessi particolari, la libertà snaturata della
società civile consiste nel sottomettere la propria volontà particolare alla volontà generale e
all'interesse comune. Riportare all'obbedienza chi cerca di seguire il proprio interesse invece che
quello della comunità, costringere una minoranza a rispettare le leggi sono violazioni della libertà
solamente nello stato di natura, mentre nello Stato civile è il contrario: si tratta di costringere alla
libertà, a quella libertà tipica dello stato civile. Cambia quindi il tipo di libertà da uno stato all'altro,
mentre l'uguaglianza morale e legittima si sostituisce alla disuguaglianza fisica presente in natura:
nessuno può avere così tanto potere più di un altro da usargli violenza, mentre per quanto riguarda
l'uguaglianza delle ricchezze e dei beni la cosa diventa più complessa. Lo Stato è infatti, secondo il
contratto sociale, padrone di tutti i beni, i quali sono però concessi ai cittadini sostituendo la
proprietà de facto di una cosa, tipica dello stato di natura, con la proprietà de iure, dunque legittima
anche nei confronti della volontà generale. L'importante è che i gradi estremi di povertà e ricchezza
siano avvicinati, facendo in modo che non ci siano cittadini abbastanza ricchi da comprare altri
cittadini e cittadini talmente poveri da essere costretti a vendersi. In ultima istanza il passaggio allo
stato civile ha prodotto nell'uomo dei cambiamenti radicali: ha sostituito la giustizia all'istinto, ha
fatto scoprire la moralità e ha reso tutti gli uomini uguali e parte dello stessa unità.

I caratteri della sovranità secondo Rousseau, che appartiene al popolo sovrano, ovvero al popolo
nell'atto di emanare la volontà generale, derivano direttamente dal contratto sociale. La sovranità è
inalienabile: non può essere ceduta né sottomessa a nessuno, questo esclude di fatto la possibilità di
una repubblica rappresentativa; indivisibile: per lo stesso motivo che causa l'inalienabilità (“la
volontà o generale o non lo è”) è impossibile dividere la sovranità senza ucciderla; i poteri non sono
“parti” della sovranità ma “emanazioni”. Infallibile: la volontà generale non può sbagliare poiché è
sempre espressione del bene comune e dell'interesse generale; assoluta: il contratto sociale dà al
corpo politico un potere assoluto su tutti i suoi membri che viene esercitato per disporre ogni parte
nella maniera più conveniente al tutto.
La legge è espressione della volontà generale e diventa, agli occhi di Rousseau, qualcosa di sacro,
in cui si può trovare l'unico rimedio al capriccio e all'arbitrio degli uomini particolari; per rispettare
questo arduo compito la legge non deve mai riguardare materia particolare ma solo generale, come
la volontà che decreta: deve quindi sempre considerare i cittadini come un corpo unico e le azioni in
senso astratto. Secondo Rousseau le leggi non possono essere ingiuste, poiché il popolo sovrano
legifera per sé stesso e dunque non potrebbe mai essere ingiusto verso sé stesso; potrebbe però
compiere un errore di giudizio e questo rende necessaria la figura del Legislatore. Rousseau ha in
mente le figure dei grandi legislatori, quasi sempre stranieri e ispirati divinamente, come Solone,
Licurgo, Mosè e Calvino, che grazie al loro intelletto superiore sanno comprendere le passioni
umane e stilare le leggi migliori per una popolazione. Un legislatore non è però un sovrano, non
comanda niente né ha un ruolo privilegiato, si limita ad osservare e a proporre una legislazione che
viene poi sottoposta al suffragio del popolo e solo in seguito resa esecutiva. Il ruolo del legislatore è
un ruolo religioso e sacrale, poiché il legislatore fa parlare gli dei e stila leggi secondo l'ispirazione
divina; inoltre non si occupa solamente di redigere codici ma di sviluppare nei cittadini costumi e
consuetudini su cui tutte le leggi si reggano.
Se la legge non ha come oggetto che le cose generali, l'esecuzione della legge deve per forza
riguardare casi particolari; sembra che Rousseau debba rinunciare nella pratica alle aspirazioni
generali che lo avevano condotto fin qui e ridursi al particolare. Questo avviene però in una forma
molto innovativa che consente a Rousseau di mantenere valido il discorso precedente e passa
attraverso la distinzione tra sovrano e governo: se il sovrano “vuole”, poiché è volontà generale, il
governo “agisce”. Il governo è totalmente al servizio della volontà generale ed è un “ministro del
sovrano”, un corpo intermedio tra cittadini e volontà generale; è molto importante notare che il
governo non viene stabilito tramite un secondo contratto ma tramite una legge. Esiste quindi anche
in Rousseau una teoria delle forme di governo: la distinzione tra democrazia, aristocrazia e
monarchia non è però quella classica poiché la legittimità si basa sulla distinzione tra governo e
sovrano. Sono legittime solo quelle costituzioni dove il popolo sovrano esercita direttamente il
potere legislativo e dove il governo, inteso come detentore del potere esecutivo, non sconfina mai
nelle competenze del sovrano. La democrazia è dunque la forma di governo dove il corpo del
popolo stabilisce le leggi e decide le misure con cui queste vengano eseguite; è una cattiva forma di
governo poiché vi è confusione tra governo e sovrano e perché non vi è distinzione tra chi si occupa
di cose particolari e chi invece si occupa di cose generali. L'aristocrazia elettiva è la forma di
governo migliore poiché si delega agli uomini più saggi il compito di eseguire le cose particolari.
La monarchia è invece la forma di governo più forte, poiché il corpo governativo è concentrato in
una sola persona. Il discorso di Rousseau diventa però bruscamente anti-monarchico, allorché
considera la monarchia assolutista ed ereditaria “illegittima”, poiché posta al di fuori del contratto
sociale. Non sembra esservi una opinione definitiva di Rousseau riguardo alla bontà essenziale di
una forma di governo, questo perché il governo è sempre contaminato da un vizio imperdonabile:
come la volontà particolare è sempre opposta alla volontà generale, così il governo fa uno sforzo
continuo contro la sovranità. Il governo è infatti un corpo intermedio tra sovrani e sudditi e, in
quanto porzione dell'intero corpo politico, ha interessi particolari e la tendenza ad accrescere la
propria forza a scapito dell'intera società. È un vizio inevitabile della politica, sempre presente, che
può essere solo ritardato: dato che la volontà generale non può essere distrutta senza perdere la
comunità politica, il governo vorrebbe piuttosto subordinarla alla propria volontà particolare. Per
evitare che questo accada vi sono dei mezzi normali, come le assemblee di tutti i cittadini, e dei
mezzi straordinari, ovvero l'istituzione di magistrati senza reali poteri attivi ma con la possibilità di
impedire tutto, come furono gli efori spartani o i tribuni della plebe.

L'ultimo capitolo del Contratto sociale è dedicato alla religione: Rousseau analizza la storia dei
popoli antichi, notando che non furono mai combattute guerre di religione tra di essi poiché per loro
la religione è relegata nei confini nazioni e si confondeva con lo Stato. La venuta di Cristo ha
cambiato tutto poiché ha separato religione e politica, generando una dualità di autorità e le
conseguenti divisioni nella società moderna. Esistono per Rousseau una religione dell'uomo, una
religione del cittadino e un terzo tipo di religione, “più bizzarro”: la religione dell'uomo è il
cristianesimo delle origini, sacro, puro, semplice eppure sublime, che lega tutti gli uomini in una
società che non si scinde nemmeno con la morte. Purtroppo la religione dell'uomo è inutile sotto un
punto di vista politico poiché non lega i cittadini allo Stato anzi li distacca da esso come da qualsiasi
altra cosa terrena. La religione del cittadino è invece quella della Roma antica, che lega
profondamente i cittadini al loro Stato, riunendo culto divino e amore per le leggi: chi viola le leggi
è empio, chi muore per il proprio paese è un martire; purtroppo è fondata sulla menzogna e perverte
nell'uomo la reale nozione di Dio. Il terzo tipo di religione include per Rousseau gran parte del
cattolicesimo, che da agli uomini “due legislazioni, due capi, due patrie, li sottopone a doveri
contraddittori e impedisce loro di poter essere contemporaneamente devoti e cittadini”. Rousseau
propone allora la religione civile, una formula che riprenda i vantaggi della religione del cittadino,
senza attentare alla libertà interiore dell'uomo, né alla verità, senza imporre contenuti dogmatici da
cui si generi ignoranza; deve essere una religione simile a quella descritta da Hobbes, che rafforzi il
legame sociale e l'obbedienza al sovrano. La religione civile deve soprattutto produrre nel cittadino
un senso di sacralità nei confronti del contratto sociale con cui si originata la società e delle leggi,
poiché queste sono le basi della società.
La rivoluzione francese e le sue interpretazioni
A proposito della rivoluzione francese vi è sempre stato un ricco dibattito sulla continuità tra il
pensiero rivoluzionario e quello illuminista; non è infatti facile legare una scuola di pensiero così
complessa e articolata come l'illuminismo ad un fenomeno pragmatico delle proporzioni della
rivoluzione francese, la quale a sua volta presenta numerose sfumature ideologiche. Sicuramente vi
sono moltissimi punti di contatto: i protagonisti della rivoluzione appartengono alla generazione
immediatamente successiva a quella dei più famosi autori illuministi, di cui sono appassionati lettori
e studiosi; ritorna lo stesso lessico e le stesse idee già presentate, con la differenza che la
rivoluzione le mette esplicitamente in pratica. Le aspirazioni politiche degli illuministi, come
l'uguaglianza, la libertà e la democrazia, vengono messe in pratica dai rivoluzionari insieme alla
lotta al dogmatismo e ai privilegi di provenienza medievale in nome della ragione.
Per il nostro corso ci limiteremo ad osservare il dibattito intorno al tema centrale dell'uguaglianza e
alle sue interpretazioni in campo giuridico, politico, etico ed economico che si svolse negli anni
della monarchia costituzionale e della repubblica (1790-1799).

Nel 1776 le colonie americane dichiarano la propria indipendenza dalla madrepatria inglese e
stilano una lista di diritti inalienabili dell'uomo di ispirazione chiaramente illuminista, a cui i
francesi più illuminati applaudono. La Francia è in un periodo di grande crisi economica che le
riforme calate dall'alto da Luigi XV e Luigi XVI non riescono a risolvere; nel maggio del 1789
vengono convocati gli Stati Generali di modo che il sovrano e i suoi ministri possano confrontarsi
con la rappresentanza nazionale sulla decisione da prendere. L'assemblea si divide però sulla
modalità di voto: non trovandosi accordi, il terzo stato si riunisce e il 24 maggio si autoproclama
Assemblea Nazionale con l'incarico di dare una costituzione alla Francia. Il 27 agosto 1789
l'Assemblea Nazionale pubblica la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino dove, secondo
il modello americano, vengono dichiarati inalienabili e propri di ogni uomo il diritto alla libertà, alla
proprietà, alla vita, alla resistenza, si proclama inoltre l'uguaglianza e si affida la sovranità al popolo
francese. Nel settembre 1791 diventa esecutiva la prima costituzione: viene stabilita la monarchia
costituzionale modellata su quella inglese e si inserisce una distinzione censitaria tra cittadini attivi
e cittadini passivi; solo chi è cittadino attivo può esercitare i diritti politici, mentre tutti godono
indistintamente dei diritti civili.
La prima costituzione lascia insoddisfatte le correnti più radicali della rivoluzione (giacobini e
cordiglieri), che trovano la propria voce nella protesta di Condorcet, secondo il quale la
Costituzione del '91 evita solo il rischio dell'assolutismo monarchico ma non rispetta i diritti stabiliti
dalla Dichiarazione. Il tema di maggior dibattito è quello dell'uguaglianza a cui è legato il problema
della proprietà privata: la divisione in ceti è stata infatti abolita ma è stata introdotta una distinzione
basata sul censo. Per Condorcet e gli altri radicali, tutelare la proprietà privata come un diritto
fondamentale e inserire una distinzione censitaria per l'esercizio degli altri diritti è una negazione di
quello che dovrebbe essere il valore centrale della rivoluzione, ossia l'uguaglianza.
La Francia rivoluzionaria è stretta dall'invasione delle forze reazionarie europee e questo, insieme
alle proteste di Condorcet e dei radicali e alla carestia del 1791-1792, accresce il malcontento
popolare finché il 10 agosto 1792 la Convenzione Nazionale (il parlamento francese) dichiara
decaduta la monarchia e instaura la repubblica. La repubblica è da subito divisa tra i Girondini, ora
più moderati, guidati da Condorcet, e Montagnardi (giacobini, herbertisti), i rivoluzionari più
radicali, che sotto la guida di Robespierre ottengono uno stretto controllo sulle istituzioni.
Robespierre e i giacobini ritengono che la disuguaglianza economica sia la prima fonte della
disuguaglianza politica: per questi la proprietà non è un diritto imprescindibile dell'uomo a cui lo
Stato deve subordinare gli altri, anzi il contrario. In favore di una forte rivalutazione dell'impegno
sociale di cui lo Stato deve farsi carico Robespierre critica sia la rivoluzione inglese sia quella
americana, facendo notare come in America, nonostante non vi sia una nobiltà di sangue, si sia
formata una aristocrazia basata sul censo. Lo Stato deve dunque intervenire e imporsi per evitare gli
eccessi di disuguaglianza redistribuendo dove serve la proprietà; inoltre, basandosi sui testi di
Rousseau, sostiene che sia necessari ad una repubblica democratica gli uomini virtuosi, ossia coloro
in cui l'interesse comune prevale sull'interesse privato. Nel giugno del 1793, anche a causa della
minaccia armata portata dai movimenti popolari di arrabbiati e sanculotti, la Convenzione
Nazionale vota una nuova Costituzione di ispirazione giacobina, che non diventerà però mai
esecutiva a causa delle gravi condizioni di instabilità della Francia. La Costituzione del '93 è
preceduta da una Dichiarazione dei diritti di cui l'uguaglianza è il punto cardine, a cui i diritti civili
di libertà e proprietà privata sono subordinati. Per quanto riguarda l'organizzazione dello Stato,
viene stabilito un parlamento monocamerale con il compito di nominare e controllare il consiglio
esecutivo; il parlamento, eletto da tutti i cittadini, è dunque il fulcro dello Stato e concentra in sé
tutti i poteri. Come si è detto la Costituzione del '93 non entrerà mai in funzione per l'emergenza
bellica, lo stesso motivo per cui si affidano tutti i poteri al Comitato di Salute Pubblica guidato da
Robespierre, il quale lavorò con tutti i mezzi a sua disposizione per trasformare in realtà la
repubblica popolare radicale.
Dopo la caduta di Robespierre (27 luglio 1794, 9 termidoro) viene stabilita la repubblica del
Direttorio, più moderata: la Costituzione dell'anno III, entrata in vigore nel 1795, prevede un
parlamento bicamerale, detentore del potere legislativo, ed un organo esecutivo, il Direttorio,
formato da cinque membri, separati e indipendenti tra loro. La Dichiarazione dei diritti preliminare
alla costituzione stabilisce diritti e doveri dei cittadini e fissa come unico requisito per il voto
l'essere sufficientemente alfabetizzati da poter firmare. Dopo la caduta dei giacobini, il tema
dell'uguaglianza radicale viene ripreso da Gracchus Babeuf, che propone la comunanza dei beni
come unica via per l'uguaglianza sostanziale e anche formale.

In Italia è il pisano Filippo Buonarroti a sviluppare la riflessione sul tema dell'uguaglianza radicale
e sui rapporti che si hanno tra questa e la proprietà privata. Per Buonarroti è inutile trasferire il
potere da una istituzione all'altra senza andare ad incidere sui rapporti di proprietà privata, la quale
determina la disuguaglianza; è necessaria una rivoluzione che porti una cesura radicale col passato e
che cancelli la proprietà privata. Viene teorizzata anche la dittatura rivoluzionaria: secondo
Buonarroti è necessario un potere dittatoriale forte che agisca per fini collettivi in modo da portare a
compimento il progetto di rivoluzione e che infine si sciolga, restituendo la sovranità al popolo.

L'abate Sieyès e il terzo stato


Protagonista delle prime fasi della Rivoluzione, l'abate Sieyès (1748-1836) fu eletto come
rappresentante del terzo stato agli Stati Generali e fu uno dei principali ideatori della riunione nella
sala della pallacorda e della formazione dell'Assemblea Nazionale. La sua carriera politica continuò
fino al 1799, quando si accordò con Napoleone Bonaparte per il colpo di stato del 18 brumaio; in
seguito fu relegato ai margini della politica imperiale e nel 1814, in seguito alla restaurazione, fu
costretto all'esilio in Inghilterra con l'accusa di regicidio,
Nel gennaio 1789 l'abate Sieyès pubblica un piccolo opuscolo intitolato Che cos'è il terzo stato? in
cui si pone le seguenti domande:
 Che cos'è il terzo stato? Tutto.
 Che cos'è stato fin'ora? Nulla.
 Che cosa chiede? Di diventare qualcosa.
Per Sieyès il terzo stato è composto dai “cittadini laboriosi e utili”: non si tratta di una distinzione
operata sul reddito o la nascita ma che riguarda il lavoro, unica fonte di progresso materiale per una
nazione. Il parassitismo della nobiltà è inutile, poiché non porta nessun guadagno allo Stato, anzi è
dannoso perché assorbe moltissime risorse per il proprio interesse personale. Il terzo stato è il
maggior autore del progresso francese ma questa sua utilità non viene in alcun modo ricompensata
con la possibilità di intervenire nelle decisioni politiche. Non si tratta solo di una questione di utilità
ma anche di numero: rappresentando la stragrande maggioranza dei francesi, il terzo stato è la
nazione vera e propria. Così dice Sieyès «chi dunque oserà dire che il terzo stato non ha in sé tutti
ciò che serve per formare una nazione intera? Il terzo stato è l'uomo forte e robusto un braccio del
quale è ancora incatenato. Se si eliminasse la nobiltà, la nazione non avrebbe nulla di meno, anzi ne
riceverebbe qualcosa in più.»
L'abate Sieyès rivendica per il terzo stato il diritto naturale alla libertà, alla partecipazione politica e
all'uguaglianza politica che si può esprimere solo tramite il voto per testa agli Stati Generali; se si
guardano i numeri (200.000 nobili contro 26 milioni di francesi del terzo stato) si capisce come il
parlamento per ceti non possa essere una giusta rappresentanza della nazione. Con questa
argomentazione Sieyès lega indissolubilmente il concetto del numero alla politica di rappresentanza
e al voto democratico, sostituendolo con una netta cesura ai criteri della tradizione gerarchica di
ancien regime.

Sieyès, Che cosa è il terzo stato? secondo lo Chevallier


La parte più colta e benestante del terzo stato, che ormai da un secolo leggeva opere di politica
illuministe e inglesi, soprattutto dopo il Contratto sociale cominciò ad agitarsi contro la monarchia
francese e la nobiltà, che impedivano ogni sviluppo della borghesia. Già nel 1788 scoppia un'altra
Fronda parlamentare che costringe il re a promettere la convocazione degli Stati Generali, con
grande speranza di tutte le classi sociali: i nobili speravano di riappropriarsi del potere usurpato
dalla corona, i poveri di abbassare le tasse e i borghesi di stabilire una giusta Costituzione, sul
modello inglese. Tutte queste speranze si tradussero in opuscoli che cominciarono a circolare per la
nazione, tra questi il più famoso si intitola Che cosa è il terzo stato?, scritto dall'abate Sieyès ma
pubblicato anonimamente fino alla quarta edizione.
Alla sua prima domanda, che cosa è il terzo stato?, Sieyès risponde che esso è tutto, ovvero che è
una nazione completa: perché una nazione sussista e prosperi sono infatti necessarie attività private,
che il terzo stato compie da solo perché è l'unico a lavorare, e funzioni pubbliche (amministrazione,
Chiesa, toga e spada), di cui il terzo stato costituisce i 19/20 ma è escluso dalle cariche più alte e
remunerative. L'ordine privilegiato, la nobiltà, non costituisce una nazione completa ed anzi vi è
estraneo, gravando con i propri costi sulla reale nazione. Che cosa è stato, fino ad ora,
nell'organizzazione politica? Niente. Il terzo stato è completamente schiacciato e deve addirittura
legarsi a qualcuno dell'ordine privilegiato per avere una rappresentanza politica; i diritti pubblici e
politici del terzo stato sono nulli ed esso non è libero, quindi nemmeno la nazione francese è da
considerarsi libera. Che cosa chiede? Di diventare qualcosa: le richieste che il popolo invia al
governo sono davvero semplici e mostrano la volontà di “essere qualcosa e, in verità, il meno
possibile”. Le richieste sono infatti solo tre: essere rappresentati da deputati tratti realmente dal
terzo stato, avere un numero di deputati pari a quello di clero e nobiltà insieme e votare per testa
invece che per ordine. Le argomentazioni di Sieyès vertono non soltanto sull'importanza
straordinaria che ha il terzo stato nella vita francese ma anche sui semplici numeri: non si può
permettere che nell'organo di rappresentanza della nazione non si rispetti il reale rapporto numerico
tra ordine privilegiato e terzo stato. Pretendere di mantenere il voto per ordine significa volere che
la nazione sia in totale balia della minoranza oppressiva degli ordini privilegiati, dalla cui generosità
dipende il terzo stato.
Negli ultimi tre capitoli Sieyès si perde in ragionamenti astratti su ciò che si sarebbe dovuto fare e
su ciò che rimane da fare, presentando i suoi princìpi politici generali; è importante il tema con cui
chiude, ovvero la costituzione. Se la Francia ha già una costituzione, allora si tratta di una
costituzione ingiusta che deve essere riscritta, mentre se non ce l'ha è tempo che se ne formuli una:
solo la volontà generale della nazione può formulare la costituzione dunque servono gli Stati
Generali. Qualora però gli Stati Generali siano composti ingiustamente, in modo tale da escludere la
vera nazione, allora il terzo stato dovrebbe riunirsi a parte, poiché anche da solo è una nazione.

Le critiche controrivoluzionarie
Alle numerose interpretazioni favorevoli alla rivoluzione si contrappongono molti autori europei
che negano l'esistenza di un diritto ad organizzare autonomamente il proprio assetto politico sulla
base della volontà e della ragione individuali. I reazionari sostengono che Dio ha stabilito questo
determinato assetto politico gerarchico, il quale è anche naturale e che comunque si è consolidato
nel tempo. È una ambizione astratta di persone che stanno rinchiuse nel loro studio a pensare senza
conoscere la realtà fattuale del mondo quella di voler cancellare l'ordine costituito sulla base di
princìpi individuali privi di riscontro nella natura e nella storia dell'uomo. Gli uomini infatti non
nascono tutti uguali: sono diversi per capacità, per caratteristiche fisiche, per condizione e luogo di
nascita. I rivoluzionari e gli illuministi non considerano l'uomo nella sua effettiva realtà ma solo
l'uomo come vorrebbero che fosse. Gli uomini inoltre non nascono liberi ma sono già inseriti per
natura in strutture sociali gerarchiche, come ad esempio la famiglia, a cui sono tenuti ad obbedire; i
singoli individui sono obbligati a conservare la propria posizione poiché ciò che importa è la società
intera e non i singoli, che da soli non possono niente. Si critica anche la ricerca del progresso
scientifico, economico e sociale, richiesta a gran voce da illuministi e rivoluzionari: è Dio che
stabilisce, oltre all'ordine politico, il progresso che l'umanità può e deve raggiungere col tempo.
Questo processo non può essere accelerato dagli uomini senza commettere un atto blasfemo.
L'eguaglianza sociale non è in alcun modo da ricercare sulla terra, poiché Dio l'ha prevista per gli
uomini solo alla fine dei tempi.
Grazie ai contatti con la tradizione cattolica, i reazionari si legano molto alle autorità ecclesiastiche
in funzione controrivoluzionaria anche e soprattutto dopo la restaurazione, quando la maggior parte
dei monarchi europei affidano molti incarichi di rilievo, quali la censura e l'istruzione, alla Chiesa.

Edmund Burke (1729-1797) è la prima voce autorevole della parte reazionaria, nonostante sia parte
della componente Whig (la fazione più democratica) del parlamento inglese. Nel novembre del 1790
Burke pubblica Riflessioni sulla rivoluzione in Francia in risposta al testo dell'anno precedente di
Richard Price in cui si paragonavano rivoluzione francese e gloriosa rivoluzione. Burke sostiene che
la gloriosa rivoluzione non abbia niente a che vedere con quella francese, dato che si trattava di una
restaurazione dei preesistenti diritti del parlamento contro il tentativo assolutistico di Carlo II, dove
non vi era mai stata l'intenzione di operare una netta cesura col passato. Nelle pagine di Burke si
trovano tutti i temi della pubblicistica reazionaria: l'elogio della comunità organica, composta da
ceti diversi ed ineguali; l'elogio di ciò che è convalidato dalla storia e dall'esperienza; la valutazione
positiva della Chiesa e della religione come fattori di stabilità; critica alla ragione astratta che ignora
la realtà del mondo.
È molto interessante il fatto che Burke non critichi la rivoluzione americana ma che la riconosca
come un evento inevitabile, culmine di un processo naturale verso l'indipendenza che è presente in
moltissime comunità. Secondo Burke, ogni cosa ha un suo momento che si prepara con il tempo, in
modo da non risultare mai una cesura netta e innaturale con il passato: si cambia per preservare e
non per ribaltare, per riparare e non per distruggere; in politica serve sempre prudenza e grande
rispetto per il passato.

Edmund Burke e le Riflessioni sulla rivoluzione francese secondo lo Chevallier


Dopo aver ispirato il movimento illuminista e le idee politiche che hanno animato la classe
intellettuale francese per tutto il XVIII secolo, dal 1790 l'Inghilterra diventa la prima nazione ad
opporsi con violenza alla Rivoluzione. Il primo a lanciare l'allarme è Edmund Burke, membro del
partito Whig e strenuo difensore della libertà politica, uno dei tanti parlamentari ad opporsi al
tentativo di restaurazione del potere personale e assoluto di Giorgio III. Burke prova una sorta di
disgusto intellettuale verso quelle che vengono chiamate idee francesi, impregnate di razionalismo
inopportuno in materia religiosa e totalmente astratte in materia politica; non tollera che queste idee
che si stanno concretizzando in Francia possano essere confuse con la politica liberale di cui e
portatore, soprattutto non vuole che si accostino la Gloriosa rivoluzione e la rivoluzione francese.
Decide così, dopo l'incidente del 4 novembre 1789 (un gruppo Whig durante i festeggiamenti per la
gloriosa rivoluzione volle inviare all'Assemblea Nazionale Costituente una lettera con offerte di
pace e amicizia), di mettere per iscritto tutto quello che pensa, componendo così le Riflessioni sulla
rivoluzione francese.
Il testo si può dividere in due parti: nella prima parte Burke traccia un confronto tra rivoluzione
inglese del 1688 e rivoluzione francese del 1789, ponendo in luce le grandi differenze tra le due e
spiegando perché la prima sia la migliore; nella seconda parte si rivolge invece direttamente a
criticare le decisioni prese dall'Assemblea Nazionale Costituente. Dalle pesanti critiche che rivolge
ai francesi bisogna espungere tutte quelle che chiamano in causa le condizioni economiche e sociali
della Francia nel 1789, poiché Burke non ne ha assolutamente una conoscenza approfondita.
Rimane però valido il processo alla concezione astratta, razionalista e individualista della società
civile che i francesi stanno mettendo in pratica; la lotta ai pregiudizi basata sull'idea di natura e sulla
ragione è sbagliata, secondo Burke, poiché cancella tutto ciò che viaggia insieme ai pregiudizi,
ovvero lo spirito storico, le tradizioni, le istituzioni religiose e le gerarchie. La critica di Burke allo
“spirito del secolo” si può classificare sotto tre categorie: orrore dell'astratto, nozione inedita di
natura e nozione originale della ragione generale o politica.
Già nei suoi discorsi sulla rivoluzione americana Burke esprimeva il suo orrore per tutto ciò che era
astratto e ora vi torna con forza: la nozione astratta ed assoluta dei diritti dell'uomo risulta infatti
erronea. Le discussioni sui diritti astratti sono inutili, poiché questi non esistono in modo così
assoluto come si vorrebbe far credere, risiedono piuttosto in una certa medietà impossibile da
definire ma anche da non essere avvertita. Le astrazioni portano all'errata concezione delle
istituzioni come impersonali: si tratta di una concezione errata, perché le istituzioni sono sempre
incarnate in una persona, e sbagliata moralmente, poiché non si possono generare negli uomini
sentimenti di attaccamento e amore verso altro che non siano persone. La concezione meccanica e
pseudo-geometrica della politica, tipica di uomini barbari dai cuori di ghiaccio, è infine erronea:
Montesquieu, con cui Burke concorda, aveva mostrato l'infinita complessità delle cose politiche e
sociali e una discussione astratta sulla divisione dei poteri e sui diritti umani è una inutile
generalizzazione.
Secondo Burke i filosofi della rivoluzione francese hanno anche compreso male il concetto di
natura: non è naturale infatti ciò che vale per tutti gli uomini né ciò che appartiene all'essenza
umana, ma ciò che è il frutto di un lungo sviluppo storico e di una lunga abitudine. La natura segue
quindi la storia e l'eredità, mentre i cambiamenti repentini le fanno orrore. Su questa base Burke
critica il sermone di Price con cui la gloriosa rivoluzione veniva paragonata al 1789: la gloriosa
rivoluzione è stata una restaurazione dell'ordine naturale, formatosi con il tempo, che gli Stuart
avevano voluto distruggere. Anche il pregiudizio è naturale per Burke, poiché rifugge dalla logica
astratta e artificiale: le differenze tra gli uomini sono innegabili e ciascuno naturalmente si batte per
mantenere ciò che è suo; il livellamento, l'uguaglianza, proposte dai rivoluzionari, sono artificiali
pretese errate, poiché è naturale che ci sia una classe che domini. La critica viene rivolta anche alle
idee di rappresentanza politica basata sul numero, che annulla ogni considerazione sul valore delle
persone. La società naturale non deve essere concepita come immobile e conservatrice, poiché non
è così: i cambiamenti vi sono ma devono essere naturali, ovvero avvenire quasi impercettibilmente
sul lungo periodo. La critica viene colorata dal paragone tra le costituzioni e i giardini: come i
giardini all'inglese lasciano crescere con calma le piante, dando loro lo spazio, il tempo e le forme
che la natura ha predisposto, così fa la Costituzione inglese; i francesi invece, in politica come nei
giardini, livellano tutto e lo tagliano alla stessa altezza. Ultimo punto delle Riflessioni è la
rivalutazione del concetto di ragione generale o politica, contrapposta a quella individuale, che il
XVIII secolo venera: per Burke la ragione individuale è debole e inefficace di fronte ai pregiudizi
generali, ovvero quelli derivati dagli antenati attraverso la natura e la storia. Il pregiudizio è una
sorta di verità nascosta che informa la società e gli animi dei cittadini, non abbandonandoli mai
nello scetticismo, nel dubbio e nell'irresolutezza provocati invece dalla ragione individuale.
Le Riflessioni sulla rivoluzione francese ebbero uno straordinario successo e modificarono
nettamente l'opinione generale inglese al riguardo della Rivoluzione, verso cui prima si registravano
entusiasmi e consensi. Dopo la decapitazione di Luigi XVI il disdegno provocato dalla lettura delle
Riflessioni si tramutò in odio e collera, portando alla partecipazione della Gran Bretagna alle guerre
europee contro la Francia.
La rivoluzione americana e il federalismo
Federalismo e confederalismo indicano un assetto politico in cui la sovranità non è unica e assoluta
e i poteri sono distribuiti tra enti politici diversi, posti solitamente su un piano di parità ma con
competenze amministrative distinte. Il nome deriva dal latino foedus, ossia “patto”, e si trovano
esempi di confederazioni già nei tempi antichi: gli stati federali greci, ad esempio, presentano una
divisione delle competenze e dei poteri su due piani, uno locale e uno centrale. In queste
organizzazioni si cerca di trovare un equilibrio tra la necessità di proteggersi dalle possibili
aggressioni di altri stati e la volontà di preservare l'autonomia dei singoli appartenenti alla
confederazione. Differenze fondamentali con le leghe militari erano il carattere permanente
dell'accordo e la duplice cittadinanza, locale e federale. Nell'Europa di età moderna esistono ancora
degli esempi di confederazione, ossia le Province Unite dei Paesi Bassi e la Confederazione
Elvetica, che riunivano sotto un unica guida militare diversi stati autonomi ma accomunati dal
punto di vista culturale, geografico ed economico.

La rivoluzione americana (1775-1779) porta, dopo la Dichiarazione di indipendenza del 1776, alla
creazione di una confederazione di stati americani che unisca le tredici colonie; nel 1777 vengono
redatti i Tredici articoli di confederazione, in cui si miscelano tesi contrattualiste e giusnaturaliste. È
interessante vedere come gli articoli, il patto attraverso cui i cittadini si uniscono, siano scritti,
dando una formulazione fisica al contratto, che negli autori contrattualisti classici era solamente
immaginato e collocato nel passato senza precisa determinazione temporale. Per quanto riguarda la
storia delle colonie, la formazione di una nuova autorità politica non prevedeva l'accordo tra
cittadini almeno fino al 1620. Prima di questa data era il monarca a concedere una patente che
comportava l'incarico di fondare una comunità e di guidarla; nel 1620 però, i padri pellegrini,
sfuggendo alle persecuzioni religiose, si recano nel nuovo mondo e stipulano un patto libero tra
uomini uguali, chiamato covenant. Moltissimi coloni americani partono con l'aspirazione di fondare
una nuova comunità tollerante e libera dove tutti gli uomini possano sentirsi uguali. Questo
aspirazione è riportata nella Dichiarazione di indipendenza, scritta da John Adams, Benjamin
Franklin e Thomas Jefferson, che afferma l'esistenza di diritti inalienabili di tutti gli uomini. I più
importanti sono il diritto alla vita, alla libertà, alla resistenza contro i governanti che non rispettano i
diritti e il diritto alla felicità, che trova qui la sua prima formulazione.
I Tredici articoli, che regolavano la vita delle colonie indipendenti dal 1777, si dimostrano
insufficienti e non adatti a realizzare il “destino manifesto” degli Stati Uniti fin dal periodo
immediatamente successivo la guerra. Il congresso, l'organo di rappresentanza dei cittadini, è troppo
debole, non si possono imporre tasse comuni, non viene garantito un sistema economico in grado di
sviluppare egualmente tutti gli stati, vi è la possibilità di porre dogane interne, sorgono conflitti tra i
singoli stati e non vi è un legame diretto tra la debole autorità centrale e i cittadini degli stati. Per
risolvere questi problemi si riunisce nel 1787 a Philadelphia una convezione con l'incarico di
discutere i problemi e stilare una costituzione efficiente, da sottoporre a plebiscito e da rendere
esecutiva in seguita all'approvazione di nove stati su tredici. La costituzione prodotta è un
compromesso pratico tra le posizioni centraliste e federaliste: la sovranità è duale, in quanto i poteri
appartengono tanto all'autorità centrale quanto a quelle locali e vengono divisi sulla base dell'ambito
in cui sono esercitati; si toglie il veto alla tassazione diretta da parte del governo centrale e si
rinnovano le istituzioni politiche. Ogni stato ha la possibilità di regolare la vita quotidiana dei propri
cittadini ma viene privato dal governo federale di alcuni poteri in materia fiscale, monetaria,
militare e di politica estera; nessuno stato può impedire accordi tra cittadini di stati diversi né può
imporre dogane sulle merci provenienti da altri stati membri. Viene istituito un parlamento
bicamerale eletto su base statale, composto da Congresso (il cui numero di deputati per stato è
calcolato proporzionalmente) e Senato (per il quale vengono eletti due senatori per stato,
indipendentemente dalla popolazione). Il potere esecutivo è affidato al presidente, eletto su base
statale, che l'incarico di formare il governo e un mandato di quattro anni. Il potere giudiziario è
diviso tra Unione e stati a seconda dell'ambito del processo; sono elettori tutti i cittadini maschi e
maggiorenni, senza distinzione di censo o nascita.
Tramite la Costituzione, gli Stati Uniti diventano una federazione: la confederazione è infatti un
patto che mira ad obiettivi limitati e non mette mai in discussione la sovranità dei singoli contraenti,
mentre una federazione crea, tramite la rinuncia a parte della sovranità dei contraenti, una entità
superiore con una politica indipendente da quella degli stati che la compongono.

L'opera principale del pensiero politico federalista è sicuramente il Federalist, una raccolta di 85
articoli scritti tra il 1787 e il 1788 per convincere gli americani ad approvare la Costituzione; gli
autori di questi articoli si firmano tutti con lo pseudonimo di “Publius” ma si possono ricondurre
con certezza a tre importanti pensatori politici americani dell'epoca: John Jay (che scrive però solo
cinque articoli), Alexander Hamilton e James Madison. Il Federalist mostra bene come la
Costituzione sia un compromesso necessario tra le parti, dato che Hamilton era decisamente
centralista, ossia a favore di una forte autorità centrale, mentre Madison voleva mantenere il
massimo di autonomia possibile per i singoli stati. I due autori intrapresero anche carriera politica,
contrastandosi lungo gli anni: Hamilton fu ministro del tesoro sotto la prima presidenza di George
Washington e istituì la Banca Centrale, accentrando la sovranità monetaria nella mani del governo;
Madison invece fu eletto presidente dopo il secondo mandato di Washington e si adoperò per
mantenere separati gli ambiti di amministrazione locale e federale.
La storia degli Stati Uniti dimostra come i contrasti tra federalisti e centralisti furono costanti ma si
risolsero quasi sempre a favore del governo centrale, aumentandone l'autorità: uno dei momenti di
massimo scontro fu la guerra civile, in cui alcuni stati scelsero di abbandonare la federazione. Una
volta conclusasi la guerra con la vittoria dell'Unione, fu inserito nella Costituzione un articolo che
negava la possibilità di ritirarsi dalla federazione. I poteri del presidente sono cresciuti durante gli
anni e ne è testimonianza lo scontro contemporaneo tra i mandati di Trump e la protesta delle corti
dei singoli stati, che si rifiutano di approvare alcune disposizioni.
Il nazionalismo tedesco: Fichte
Nei primi anni del XIX secolo in Germania comincia a svilupparsi il pensiero nazionalistico grazie
all'opera di Johan Gottlieb Fichte (1762-1814): nato in Sassonia in una famiglia molto povera,
riuscirà ad ottenere borse di studio e a frequentare le università di Jena, Lipsia e Koenigsberg, dove
incontra Kant che lo aiuta nella pubblicazione delle prime opere. Conclusi gli studi Fichte comincia
ad insegnare a Jena ma viene cacciato con l'accusa di ateismo; negli ultimi anni di vita riuscirà ad
insegnare a Berlino, da dove dirigerà la sua campagna fortemente polemica nei confronti dei soldati
francesi che occupano la Prussia.
Il pensiero politico di Fichte si differenzia molto tra il periodo della gioventù e quello della
maturità: il primo Fichte è infatti strettamente legato al mondo illuminista e rivoluzionario francese
di ispirazione rousseauiana, anche se è presente anche una forte esaltazione del ruolo dell'individuo
e dei suoi valori che contrasta con una volontà generale totalizzante. Fichte auspica che si possa
raggiungere l'uguaglianza tra gli uomini e nel contempo applicare la meritocrazia ai singoli
individui. Per quanto riguarda la politica estera, si colloca sulla scia di Kant, proponendo una sorta
di federazione degli stati europei che abbia il compito di fare da arbitrato e che possegga una forza
armata internazionale in grado di far rispettare le norme del diritto transnazionale.
Con la rivoluzione francese e soprattutto con l'imperialismo napoleonico, Fichte cambia
radicalmente il proprio pensiero politico: abbandonati i tratti individualisti, ritiene che si debba
appartenere alla comunità più che a sé stessi e che ogni azione debba essere in funzione del
benessere della comunità. Con la lettura del Principe di Machiavelli, abbandona anche la teoria del
diritto internazionale per abbracciare l'uso della forza secondo la ragion di stato nella risoluzione
delle controversie. Nonostante questo mantiene alcuni tratti del pensiero rivoluzionario e giacobino:
gli è particolarmente caro il tema del popolo in armi e afferma con forza l'importanza
dell'uguaglianza politica e sociale contro qualsiasi forma di privilegio presente nella società. Opera
principale del secondo Fichte sono i Discorsi alla nazione tedesca, tenuti in università a Berlino tra
il 15/12/1807 e il 5/05/1808, durante il periodo dell'occupazione francese. Fino al 1794 Fichte si
dichiarava cosmopolita e “francese” per le proprie idee rivoluzionarie ma nei quattordici Discorsi si
dichiara tedesco ed esalta la nazione tedesca, la quale, anche se non è ancora uno stato, esiste ed è
superiore a tutte le altre nazioni. Fichte delinea una superiorità culturale (non razziale e biologica)
dei tedeschi rispetto a tutte le altre popolazioni europee: questo deriva in particolare dalla lingua che
è viva (ovvero non derivata da una lingua morta, come il latino) che rispecchia la vitalità della
società tedesca. La cultura tedesca funge da elemento di identità nazionale e si pone al di sopra delle
altre culture e quindi delle altre nazioni. L'obiettivo polemico di Fichte sono ovviamente i francesi
invasori: la nazione francese è per Fichte un io-storico, ossia è stata costruita artificialmente a tappe
durante un percorso storico preciso; la nazione tedesca è invece un io-metafisico, ovvero è una
nazione che esiste a prescindere dalla storia e anche senza uno stato perché è composta
primariamente da una cultura unitaria e vivace. La nazione tedesca deve liberarsi dall'invasore per
compiere la propria missione, la costruzione di uno stato unitario e forte che si erga ad occupare il
proprio posto nella gerarchia degli stati europei. Questo percorso avviene tramite l'operato del
popolo tedesco unito, senza distinzione di ceto: serve una riforma dell'educazione che trasformi tutti
i tedeschi in autori della comunità tedesca e che eviti il diffondersi dell'individualismo o di culture
inferiori. I Discorsi non sono rivolti solamente ai prussiani ma a tutti coloro che parlano tedesco,
poiché è il popolo intero a rappresentare il “genio creatore della storia”. Ovviamente vi sono figure
particolari che danno voce e incarnano il popolo tedesco, portandone avanti la missione: l'eroe di
Fichte è infatti Lutero, che con la sua riforma ha rivendicato l'autonomia della nazione tedesca
contro l'egemonia della cultura latina e romana. La riforma è stata anche un fatto popolare ed
egualitario poiché ha abbattuto le gerarchie ecclesiastiche e ha posto tutti sullo stesso piano; inoltre,
con la traduzione della Bibbia, ha dato grande importanza alla lingua tedesca.
I Discorsi possono essere considerati l'opera di nascita del nazionalismo tedesco e infatti verranno
ristampati nel 1870, nel 1914 e sotto il terzo reich, vista l'esaltazione della Germania e gli elementi
autarchici e xenofobi in essi contenuti.
Fichte e i Discorsi alla nazione tedesca secondo lo Chevallier
Da appassionato cosmopolita e ammiratore della Francia, complice l'occupazione francese della
Prussia, Fichte comincia a rivalutare la posizione patriottica e decide, dopo aver letto Machiavelli,
di intervenire nella questione politica con dei Discorsi che abbiano come argomento l'educazione. È
solo trasformando radicalmente il sistema educativo, l'unico che rimane in mano al governo
prussiano, che potrà sorgere il mondo nuovo che porterà la salvezza alla nazione tedesca.
L'educazione antica ha guidato i pochi bambini a cui si rivolgeva solamente con la speranza o il
timore di risultati materiali, mentre la nuova educazione dovrà essere “nazionale”, non limitata ad
una classe, e dovrà sviluppare tanto lo spirito creativo quanto l'abilità manuale e il corpo. Si tratta di
una educazione che richiede la separazione della comunità dei bambini da quella degli adulti e potrà
essere messa in atto solamente dallo Stato: serviranno immense spese ma vi si guadagneranno
generazioni formate all'amore della collettività, al lavoro e alla disciplina morale.
Dal quarto discorso si inserisce anche al componente nazionalista: soltanto i tedeschi sono adatti a
questa straordinaria educazione, poiché sono l'unico popolo europeo a parlare ancora la propria
lingua primitiva, non corrotta dal latino dell'Impero Romano. Tutti i popoli che parlano lingue neo-
latine hanno una lingua e una cultura “morte”, a differenza della lingua e della cultura tedesche che
sono invece “vive”: questo permette ai tedeschi di comprendere meglio il latino e anche le lingue
neolatine, poiché sono liberi nel cercarne le radici. Soltanto il popolo tedesco è dunque un vero
popolo, libero e autonomo da qualsiasi costrizione, ed ha compiuto straordinarie imprese in virtù di
questo suo carattere fondamentale: è l'unico adatta alla nuova educazione, è l'unico a poter costruire
uno stato razionale ed è l'unico ad aver legato religione e filosofia.
I discorsi non furono certamente un importante avvenimento intellettuale nell'inverno del 1807-
1808 ma ottennero un tiepido successo quando furono stampati; il vero riconoscimento del valore di
Fichte fu nel 1871, quando la Germania unita lo riconobbe come un eroe e un padre della patria.
Il liberalismo e la democrazia: Alexis de Tocqueville
Durante il XIX secolo si sviluppa, come altra forma di risposta all'assolutismo monarchico, il
liberalismo, che si incentra sull'individualismo inteso come tutela e valorizzazione della autonomia
del singolo contro le imposizioni dei gruppi. L'autonomia di ogni singolo individuo deve essere
difesa da tutte le istituzioni, compreso lo Stato; questa tutela viene messa in atto tramite il
costituzionalismo, ossia la stesura di una costituzione che fissi le sfere di competenze e limiti il
potere dello stato. Questo avviene nel pratico tramite la separazione dei poteri, la subordinazione di
ogni atto pubblico alla legge (alla cui stesura concorrono tutti i cittadini), l'esplicitazione di diritti
individuali di ogni uomo sotto forma di norma e l'istituzione di organi per il controllo. Tutte queste
regole servono a mantenere comunque uno Stato il quale, seppur limitato, deve necessariamente
esistere per assolvere la sua primaria funzione, quella di guardiano delle libertà dei cittadini. Infatti
a poter attentare alla libertà dei cittadini non è solo lo Stato, ma anche altre istituzioni e altri privati
cittadini. Con queste premesse, accanto al liberalismo si sviluppa il sistema democratico, inteso
però come estensione della partecipazione dei cittadini al governo e non come ricerca
dell'uguaglianza sostanziale tra essi. Gli autori principali che definiscono il pensiero politico
liberale sono Benjamin Costant, autore di La libertà degli antichi, Alexis de Tocqueville e
soprattutto John Stuart Mill.

Tocqueville nasce nel 1805 da una famiglia nobile, duramente colpita dalla rivoluzione, proveniente
dalla Bretagna, regione con forti tendenze autonomiste verso il governo centrale. Si dedica allo
studio del diritto e nel 1831 vince una borsa di studio per un viaggio negli Stati Uniti d'America
dove osserva non solo il sistema penitenziario e giudiziario ma anche la politica e i costumi di
questa neonata democrazia. Nel 1835 pubblica infatti il primo dei due volumi di La democrazia in
America, intitolato Rapporti tra istituzioni e società, che avrà molto successo. Altro volume molto
importante è L'antico regime e la rivoluzione, nel quale traccia una continuità tra monarchia
assoluta e repubblica rivoluzionaria alla luce dell'accentramento di potere e dell'esautorazione delle
autonomie regionali. Alexis de Tocqueville intraprenderà poi la carriera politica e morirà nel 1859.
Il viaggio in America di Tocqueville è dominato dalla ricerca di un modello concreto dove si fosse
realizzata quella che lui chiama “Rivoluzione”, intendendo un totale stravolgimento dei rapporti
sociali e politici preesistenti. Ritenendo di aver trovato questo modello negli USA, lo studia con
attenzione dato che Tocqueville concepisce la Rivoluzione come un processo inevitabile verso cui la
Storia tende: bisogna studiare l'America per capire cosa aspettarci in Europa. Negli Stati Uniti vi è
stato un completo ribaltamento della prospettiva politica e sociale in favore dell'eguaglianza; questa
diventa il solo metro di riferimento per tutti i processi politici, ma non è solo politica e tende ad
investire tutti gli aspetti del vivere civile. L'uguaglianza realizzata porta il massimo di felicità per
tutti i cittadini poiché ha leggi uguali per tutti e formulate da tutti; non si tratta poi di un
appianamento dei cittadini sullo stesso piano ma è anche in grado di rispettare i meriti dei singoli. A
nessun uomo è precluso nulla nella società americana poiché viene valorizzato il talento individuale
e rifiutato ciò che è passato: ne è un esempio Andrew Jackson, il settimo presidente degli USA, che
è nato da una famiglia molto povera. Altra faccia dell'uguaglianza è ovviamente la democrazia: tutti
i cittadini maschi maggiorenni possono votare in modo che tutti possano ugualmente concorrere a
determinare le proprie leggi.

Tocqueville fa però notare che ci sono molti rischi nella società americana, modello di quella futura
europea: innanzitutto la democrazia riduce le questioni politiche ad un mero fatto quantitativo,
inoltre si rischia di cadere nella “tirannia della maggioranza”. Chi infatti non si conforma al
pensiero della maggioranza, viene escluso e considerato eccentrico: si crea quindi una massa
dominata dal pensiero unico, che non può creare nuovi modi di ragionare né proporre soluzioni
alternative. Se però manca la possibilità del dialogo e del confronto, le conseguenze sono due: la
massificazione oppure l'estremo individualismo, poiché il singolo smette di interessarsi alla politica
se la maggioranza ha già preso la decisione.
Entrambe le conseguenze portano quindi inevitabilmente alla morte della democrazia ma, dice
Tocqueville, in America si sono sviluppati tre antidoti a questo problema:
 il primo antidoto è di natura istituzionale: lo Stato promuove le autonomie municipali e
regionali tramite la costituzione federale; in questo modo ogni cittadino deve impegnarsi
costantemente di politica a più livelli e possiede un potere concreto e attivo. L'attività
politica diventa quindi ampiamente partecipativa e il gran numero di questioni diverse
permette una costante modifica delle opinioni e della composizione della maggioranza.
 Il secondo antidoto è di natura sociale e consiste nell'associazionismo: gli americani sono
infatti abituati ad associarsi per risolvere i loro problemi dal basso, senza aspettare
l'intervento dello stato, che è sempre interessato e riporta i cittadini al rango di sudditi.
L'associazionismo permette ai cittadini di autogovernarsi direttamente e darsi le proprie
regole senza chiedere continuo aiuto alla politica.
 Il terzo antidoto è un elemento spirituale insito nella storia degli USA: essendo fuggiti in
America per scampare alle persecuzioni religiose, i coloni hanno trasmesso ai discendenti
americani la tolleranza, per evitare di ricreare la situazione da cui erano scappati. La
tolleranza religiosa educa al rispetto e combatte le inclinazioni degenerative della
democrazia: tra le sette religiose degli Stati Uniti vi è concorrenza ma mai intolleranza.

Tra le altre particolarità che Tocqueville nota nel suo viaggio studio vi è anche il largo proliferare di
giornali liberi di parlare di politica anche usando toni molto duri.
Lo studio di Tocqueville è rivolto anche alla situazione degli indigeni americani e dei neri: per
quanto riguarda gli indiani d'America, la loro condizione è pessima poiché rifiutano in toto la
società americana e si auto-esiliano per non avervi nulla a che fare. Auspica invece libertà ed
emancipazione per i neri, confidando nel fatto che il processo egualitario li coinvolgerà; nota infatti
che vi è spirito di emulazione dei neri verso i bianchi e questo renderà più semplice la parificazione
dei diritti.

Tocqueville e La democrazia in America secondo lo Chevallier


Di famiglia nobile, il Conte Alexis de Tocqueville aveva iniziato nel 1827 la carriera da magistrato
ma era angustiato dal problema del futuro della società europea, da quarant'anni ormai scossa da
continue rivoluzioni. Sperando di trovare una risposta nella società statunitense, dove era scoppiata
la prima rivoluzione, propose al governo un viaggio per studiare il sistema penitenziario degli Stati
Uniti di modo da riprodurlo in Francia: accordatagli la missione, giunse in America nel 1831. Nel
biennio successivo compose l'opera che raccoglieva le sue osservazioni sulla politica e la società
americane, che appena fu pubblicato anonimamente riscosse un grandissimo successo da tutte le
parti politiche francesi e anche all'estero. L'opera è divisa in due parti: nella prima tratta dei costumi
politici degli americani e della democrazia come forma di governo, mentre nella seconda parla
invece dei costumi privati e dell'influsso che la democrazia ha sulle idee generali degli americani;
questa seconda parte, pubblicata nel 1841 riscosse molto meno successo.
Il fatto che ha maggiormente colpito Tocqueville negli Stati Uniti è stata l'eguaglianza delle
condizioni, che è per lui la forza generatrice da cui deriva ogni fatto particolare e che si ritrova in
ogni aspetto della nazione americana. L'eguaglianza delle condizioni è il fine verso cui tutte le
rivoluzioni, anche quelle in Europa stanno tendendo da molto tempo; si tratta di una irresistibile
forza rivoluzionaria che in America è giunta a compimento e che colpirà anche l'Europa. La società
aristocratica è ormai morta, mentre la società democratica è in grande crescita e, se fosse ben
regolata, sarebbe in grado di procurare agli uomini la felicità più grande che ci sia. Si ha certamente
meno splendore, meno forza, meno gloria di una società aristocratica, ma la maggioranza dei
cittadini godrà di una sorte ben più prospera e si mostrerà pacifica. Tocqueville non si sbilancia però
con un giudizio chiaro sulla bontà o meno del governo repubblicano e democratico: semplicemente
ritiene che sia un processo inarrestabile che è da considerarsi compiuto o vicino a compiersi;
bisogna quindi solamente comprenderlo per poi scoprirne, se possibile, i mezzi con cui renderla
vantaggioso. Tocqueville non è infatti un uomo di partito poiché, come dice lui stesso, è nato troppo
tardi per far parte della società aristocratica e troppo presto per far parte di quella democratica.
Nel 1830 gli Stati Uniti, a detta di Tocqueville, rappresentano il tipo più affascinante di assetto
egualitario: la passione per l'eguaglianza è più potente di quella della libertà poiché, a differenza
della passione per la libertà, l'eguaglianza è connessa in maniera esclusiva alla democrazia.
L'uguaglianza politica può esprimersi in due modi: o tramite la sovranità del popolo, come avviene
in America, o tramite la sovranità assoluta di un individuo su tutti gli altri; la sovranità del popolo
prende dunque la forma del potere assoluto della maggioranza: “fuori dalla maggioranza non c'è
nulla che resista”. La maggioranza è infatti onnipotente e talvolta può risultare tirannica ma ha
come controparte un forte individualismo: ogni uomo cerca infatti le sue idee, opinioni e credenze
in sé stesso. In una società egualitaria allora si stabilisce l'autorità intellettuale nella massa e
nell'opinione del pubblico, ma questa non si occuperà mai di tutto quanto: nasce allora
l'individualismo, che è un grandissimo male morale e politico, perché conduce all'anarchia o al
dispotismo se non vi sono modifiche nelle leggi o nei costumi della nazione. La rivoluzione
egualitaria concepisce il corpo sociale come un unicum indissolubile e dunque elimina tutti quei
poteri intermedi che venivano indicati da Montesquieu e altri; questo consegna allo Stato tutto il
potere e conduce alla centralizzazione, che Tocqueville giudica estremamente negativa. Tocqueville
teme per la libertà e dunque rifugge il dispotismo ma sostiene che nella società egualitaria e
democratica sorgerà un dispotismo completamente nuovo, quello della maggioranza.

Se questi sono i mali, le conseguenze naturali della rivoluzione inevitabile, quale può essere la cura
per renderla vantaggiosa? Secondo Tocqueville si tratta della libertà e della volontà a fondare
l'impero pacifico della maggioranza: la sfera di indipendenza individuale non sarà mai così larga
come nella società aristocratica e la società sarà sempre più forte, ma si può vincere
l'individualismo attraverso istituzioni libere. Questo non si ottiene tramite i governi misti, in cui la
sovranità è divisa, ma tramite libertà locali e associazioni: le libertà locali portano infatti alla
decentralizzazione amministrativa e alla crescita dell'autonomia politica degli uomini, che devono
essere cittadini e non sudditi amministrati; le libere associazioni invece si adoperano per risolvere
problemi in modo autonomo dal governo, che si deve quindi occupare solo degli ambiti in cui le
associazioni non arrivano. Altro punto di straordinaria importanza per la libertà americana è
costituito dal grandissimo numero di confessioni e sette religiose che sono costrette alla tolleranza e
facilitano il funzionamento della democrazia. Sono utili ad ogni stato, contribuendo al
mantenimento delle istituzioni politiche, e sono utili ai cittadini, sviluppandone la moralità e il
senso di libertà e tolleranza.
Socialismo utopista: Owen, Fourier e Saint-Simon
Con i termini socialismo e comunismo si indicano in senso generico tutte le dottrine politiche che
propongono la creazione di una comunità di uguali in cui le differenze economiche sono azzerate o
ridotte al minimo. Ne esistono esempi nel mondo antico e nel mondo medievale evangelico e molti
autori illuministi legati alla rivoluzione francese e in particolare al giacobinismo possono essere
categorizzati sotto questi termini. La voce “uguaglianza”, redatta da Voltaire per L'enciclopedia,
spiega che l'uguaglianza è naturale e chimerica al tempo stesso, in quanto difficilissima da
riprodurre artificialmente tramite la politica. Per i socialisti utopisti (così definiti da Marx)
l'uguaglianza corrisponde alla mancanza di sfruttamento: bisogna rispettare il merito personale e
l'economia deve essere organizzata e pianificata per il benessere dell'umanità, poiché se viene
lasciata libera si sviluppano sentimenti di concorrenza, odio ed egoismo. Gli autori utopisti non
sostengono la necessità di una rivoluzione armata ma vogliono mettere in pratica esperimenti sociali
che facciano da esempio per costruire una società migliore.

Robert Owen (1771-1858) nasce in Scozia e fin da piccolo è costretto a lavorare in una manifattura
tessile di cui in seguito diventerà proprietario; una volta raggiunto il controllo della fabbrica, Owen
mise in pratica le sue idee: abolizione del lavoro minorile, riduzione degli orari, costruzione di case
e servizi sociali per gli operai, istituzione di una cassa comune di soccorso. La fabbrica di New
Lanark fallì dopo poco a causa della concorrenza e Owen decise di trasferirsi negli Stati Uniti per
fondare una comunità cooperativa completamente nuova, da lui chiamata New Harmony. Anche
New Harmony fallì ma nacquero diverse comunità simili, fondate sul regime cooperativistico ideato
da Owen, che ritorno in Inghilterra e si dedicò al sindacalismo.
Secondo Owen esistono alcune leggi naturali e razionali che devono essere rispettate e messe in
pratica dagli uomini, eliminando così tutto ciò che razionale non è; l'individualismo economico
deve sparire perché causa squilibri sempre più forti nella società, invece di essere il massimo
motore del benessere generale, come sostenevano i liberisti classici Smith e Ricardo. Owen critica
tutto ciò che è artificiale in economia, ovvero il profitto, il plusvalore, il commercio e soprattutto la
moneta. L'economia finanziaria è un gravissimo errore della storia umana poiché l'unica cosa che
naturalmente crea e mantiene il valore è il lavoro; la moneta è invece passibile di speculazione e
sottoposta al rischio di inflazione, perdendo o alterando il proprio valore in risposta a giochi
finanziari. Secondo Owen la moneta dovrebbe quindi essere sostituita da “buoni di lavoro” che
riportano il valore che ogni uomo ha prodotto con il proprio lavoro e che dunque possono essere
usati all'interno della comunità come moneta di scambio; i buoni hanno un valore reale inalterabile
perché quantificato in tempo. La costruzione di una società cooperativa priva di moneta porterà
maggiore socievolezza e ricchezza per tutti, dato che la produzione sarà organizzata e pianificata in
modo da soddisfare i bisogni di tutti senza dover togliere niente a nessuno.

Il francese Charles Fourier (1772-1837) fu duramente criticato per i suoi lavori, giudicati perversi e
lascivi; i suoi scritti furono per questo motivo dimenticati ma nel 1968 fu riscoperto il suo valore.
Secondo Fourier la società borghese e liberale ha fallito, poiché non è stata in grado di portare
benessere per tutti e ha creato una nuova aristocrazia fondata sulla ricchezza; la sua critica è rivolta
soprattutto alla formazione di monopoli, che impediscono lo sviluppo del mercato in senso equo
dato che annullano la concorrenza. Il capitalismo liberale ha disumanizzato la società, portando
all'anarchia della produzione, allo squilibrio dei salari, alla schiavitù nelle manifatture e
trasformando il denaro nell'unico mezzo e fine di tutte le azioni. L'elemento più grave della società
liberale è il rinchiudere l'uomo in una unidimensionalità che non gli è propria per natura: ogni
lavoratore compie un solo movimento in fabbrica, ogni uomo ha una sola moglie, una sola famiglia
e un solo lavoro. Secondo Fourier l'uomo è naturalmente predisposto alla multidimensionalità, alle
molteplici esperienze; solo lasciando l'uomo libero di svilupparsi in ogni direzione si potrà creare
un mondo nuovo, armonico dove tutti gli uomini e le donne potranno vivere eguali e felici. Punto
cardine di questo progetto di rinnovamento (e delle critiche rivolte a Fourier) è l'estrema libertà
sessuale che deve essere concessa: non ci deve essere nessuna pregiudizio di tipo morale sulle
pratiche sessuali degli uomini, che siano omosessuali, di gruppo o altro. Il suo progetto concreto
prevede la creazione di falansteri, grandi villaggi-fabbriche abitati da 1600-2200 individui, dove si
vive e si lavora in comune. Nei falansteri il lavoro è continuo ma piacevole, dato che ogni uomo
cambia la propria occupazione più volte al giorno; ogni abitante lavora per la comunità, anche le
donne e i bambini, e ne ricevono un merito. Ovviamente nei falansteri è ritenuto legittimo ed è
incoraggiato il sesso in tutte le sue forme. Non vi è uguaglianza totale ma i cittadini sono divisi in
classi, la collocazione nelle quali dipende da prodotto lavorativo, talento personale e quantità di
azioni possedute (ciascun abitante possiede una quota di azioni del falansterio). È garantita la totale
comunione dei beni e l'uguaglianza politica (tutti votano all'interno del falansterio) ma non quella
economica. I falansteri non furono mai costruiti, sebbene la minuziosità di dettagli del progetto di
Fourier, ma furono da modello per la costruzione di comuni nei secoli successivi

Saint-Simon (1760-1825) è un autore minore di cui però colpisce la lucidità nel notare come il
metro di giudizio da usare sulla società sia cambiato repentinamente. Nel 1819 pubblica una sorta di
parabola in cui chiede di immaginarsi cosa succederebbe se morissero i 50 migliori lavoratori di
ciascuna professione, per un totale di 3000 individui, e cosa invece se morissero 30.000
rappresentanti dell'alta nobiltà francese. Nel primo caso la Francia perderebbe tutta la sua forza,
mentre nel secondo caso la potenza della Francia non ne soffrirebbe, anzi si liberebbe di individui
parassitari che non portano nessun vantaggio alla nazione. La società è dunque male organizzata e
servirebbe una radicale trasformazione per dare il giusto potere a chi lo merita, ossia a chi si è
impegnato per diventare più utile alla Francia. Per questo motivo progetta una rigorosa
pianificazione economica che dia più uguaglianza a tutti; questa prevede una cooperazione tra
operai e industriali, che considera sullo stesso piano, e non ne vede l'antagonismo.
Anarchismo
Nel dibattito politico il termine “anarchia” è sempre stato presente ma con un valore negativo,
poiché legato ad un idea di disordine e caos; l'anarchismo è invece una dottrina politica che nasce
alla fine del XVIII secolo. L'anarchismo rifiuta qualsiasi forma di autorità e propone l'estinzione o
la distruzione dello Stato per fare posto ad una società di autogoverno dove tutti sono liberi e uguali.
Gli anarchici riprendono temi propri della riflessione liberale, ovvero la supremazia dell'individuo e
delle sue libertà rispetto a qualunque istituzione, e temi socialisti, tra cui la volontà di imporre la
massima uguaglianza. Si propongono di sviluppare una solidarietà mondiale tra gli individui che
tramite una libera intesa e interessi comuni vanno a formare una comunità libera dalle imposizioni
del potere politico.

William Godwin (1756-1836) può essere considerato uno dei primi teorizzatori del pensiero
anarchico moderno; inizia una carriera ecclesiastica entrando in contatto con la congregazione dei
dissenzienti, che poi abbandona per dedicarsi allo studio della filosofia. Si sposò con Mary
Wollstonecraft, antesignana del femminismo e pedagoga. Godwin è chiaramente figlio del tardo
illuminismo ed è infatti assolutamente convinto della supremazia della ragione; per lui l'ignoranza è
la fonte di ogni male perché spinge ad accettare passivamente qualsiasi ordine e forma di
legittimazione del potere. Le sue critiche sono rivolte soprattutto al contrattualismo hobbesiano che
sostengono che il potere politico sia un male necessario per frenare le pulsioni umane. Nella sua
analisi tende a dividere società e Stato: la società è infatti una dimensione naturale che nasce dal
desiderio naturale e razionale di ogni uomo alla vita comune e al mutuo soccorso; lo stato è invece
artificiale e governa tramite il monopolio della forza e la minaccia preventiva, portando
necessariamente all'uniformità di comportamento che non è propria dell'uomo. Secondo Godwin, la
socievolezza è naturale e non c'è bisogno di uno Stato che imponga con la forza il rispetto dei diritti
altrui. Gli uomini sono infatti naturalmente portati a non violare i diritti altrui e comprendono
razionalmente che solo il mutuo soccorso e la solidarietà possono portare progresso. Accettare
ordini passivamente equivale quindi a rinnegare la propria natura umana razionale, dando campo
libero alle autorità che mortificano l'umanità in una logica di immobilismo irrazionale e anti-
progressivo. Il fine razionale dell'umanità è dunque una società senza stato, che si può costruire solo
con una ricomposizione della società in micro-comunità autonome e indipendenti dove sia più facile
autogovernarsi e sia permesso il dissenso. Dovrebbero essere mobili e dinamiche in modo da
permettere a chiunque di cambiare comunità in base alle proprie preferenze e dovrebbero
rapportarsi pacificamente l'una alle altre con solidarietà. Fondamentale per ottenere questa
situazione è l'educazione, che deve investire ogni aspetto della vita di ogni individuo (di qualsiasi
sesso e classe sociale) in modo da sconfiggere l'ignoranza. Bisogna tenere a mente che Godwin usa
ancora il termine “anarchia” in senso negativo, anche se la sua riflessione va senz'altro inserita tra le
dottrine anarchiche.

Pierre-Joseph Proudhon (1801-1865) è il primo a definirsi orgogliosamente anarchico nel 1840,


dando così una interpretazione positiva al termine: nell'opera Che cos'è la proprietà? Proudhon
dichiara che l'anarchismo corrisponde all'ordine e non al disordine e che solo chi ama l'ordine può
essere anarchico. Nelle sue analisi Proudhon fa notare come vi sia un processo storico di lunga
durata che sopravviene a tutte le modifiche istituzionali e le rivoluzioni, ovvero l'accentramento del
potere e contemporaneamente l'espansione delle aree di competenze dello Stato. Gli apparati
amministrativi si sono espansi e pervadono ogni aspetto della vivere civile, portandovi estrema
burocrazia, corruzione e clientelismo; il costituzionalismo liberale non riesce a mettere un freno a
questo processo. Bisogna dunque cancellare lo Stato per restituire benessere a tutti gli individui;
questo procedimento non può essere imposto con la rivoluzione violenta, poiché questa genera
necessariamente un regime violento e dunque un'altra rivoluzione. Bisogna modificare il modo di
pensare e di comportarsi in un processo infinito guidato dai principi di uguaglianza, condivisione
dei beni e mancanza di autorità. Tutti devono poter godere dei beni delle classi privilegiate tramite
la diffusione del possesso e di processi produttivi che non sfruttino il lavoro altrui; si deve anche
concedere a tutti la possibilità di fare emergere le proprie capacità ed è necessario ricompensare
questi individui. Per Proudhon esiste una netta differenza tra proprietà e possesso: la proprietà è un
furto, poiché si genera tramite lo sfruttamento del lavoro altrui; il possesso coincide invece con l'uso
di qualsiasi cosa senza lo sfruttamento. Il processo che in cui lo Stato si estingue è infinito e ci si
muove per piccoli passi verso una società utopica che di fatto non si realizzerà mai; uno di questi
passi è il federalismo, ossia la divisione dei poteri autoritario tra molteplici istituzioni più piccole e
più vicine agli individui.
Proudhon ha ricevuto molte critiche per il suo antisemitismo (quando si scaglia contro il mondo
finanziario parla proprio di “ebrei”) e la sua misoginia: in effetti l'anarchico francese relega la
donna in casa, dandole però il compito straordinariamente importante di educare i figli.

Peter Kropotkin (1842-1921) nacque in una famiglia dell'altissima nobiltà russa e vide il periodo
d'oro dell'anarchismo (1870-1910), prospettandolo su basi scientifiche anche all'interno dell'alta
società europea; fu anche l'ultimo anarchico a ricevere una manifestazione pubblica, il suo funerale,
nella Russia comunista. Kropotkin è stato geografo e antropologo di chiara fama, inserito nella
comunità scientifica dell'epoca e direttamente in dialogo con Comte e Darwin. La sua etica laica lo
avvicina fin da giovanissimo ai ceti subalterni e, una volta più maturo, Kropotkin si dedica ad uno
studio scientifico delle comunità siberiane.
Nel suo pensiero, l'anarchismo è una teoria onnicomprensiva che va a sanare la frattura tra pratiche
umane naturali e caratteristiche della società umana. L'uomo dovrebbe essere infatti socievole per
natura e cerca costantemente il mutuo soccorso e la collaborazione con gli altri individui. Il suo
materialismo scientifico viene trasposto in politica, tanto da sostenere che vi sia un nesso tra
biologia e storia: la società è infatti, come ogni corpo naturale, soggetta a leggi proprie che ne
governano la vita e l'evoluzione e non ha bisogna di leggi positive imposte con la forza. Questa sua
teoria gli viene confermata dallo studio delle popolazioni siberiane le quali, pur lontane dal governo
di Mosca, si autogovernano in modo armonico e pacifico senza bisogno di autorità politiche. Il
principio cooperativo è il motore del progresso umano e l'unica possibilità che l'uomo ha di
sopravvivere in condizione avverse. Contro le letture nazionalistiche di Darwin, che sostenevano il
principio della lotta continua e della sopraffazione del più debole da parte del più forte, Kropotkin
fa notare come l'evoluzionismo confermi che il progresso di una specie viene solo dalla
collaborazione tra gli individui membri. Il conflitto e la legge delle giungla sono solo conseguenze
di momenti di estrema pressione sugli individui causata da situazioni innaturali, come la società
borghese individualistica. Durante la sua vita Kropotkin fu costretto all'esilio ma tornò in Russia nel
1917 per prendere parte attiva nella rivoluzione ma si scontrò ideologicamente con il comunismo di
Lenin, nonostante i molti punti comuni della teoria economica di entrambi.
Introduzione a Marx
Karl Marx (1818-1883) è considerato a buon merito il padre del comunismo. Incentra tutto sulla sua
concezione materialistica della Storia, per cui tutti i fenomeni di un'epoca sono uniti e collegati gli
uni agli altri. Il motore della Storia è la conflittualità che si sviluppa in tesi-antitesi-sintesi;
l'andamento dialettico della Storia è scandito da rivoluzioni che rispondono all'accumularsi di
piccole modifiche instaurando un ordine più consono. La dialettica marxiana si distacca da quella
hegeliana per la sua attenzione alla materia e alla prassi: è infatti composta da mutamenti concreti
determinati dall'attività pratica dell'uomo, ossia il lavoro, che è volto a dominare la natura per
ricavarne i beni con cui sopravvivere. Il lavoro è una dimensione di incontro tra gli uomini che
stabiliscono dei “rapporti di produzione” (salari, contratti, forme di impiego, etc) per organizzare
meglio le forze produttive (lavoro, materiali, mezzi di produzione). L'intreccio tra rapporti di
produzione e forze produttive genera i modi di produzione, che caratterizzano le epoche storiche;
quando un modo di produzione entra in contrasto con le forze produttive che lo hanno generato
allora scoppia la rivoluzione che stabilisce un nuovo modo di produzione. La conflittualità che fa da
motore della storia si configura quindi come lotta di classe, che è sempre stata presente all'interno
dei rapporti di produzione: vi è sempre stata una classe dominante, che possiede e sfrutta il lavoro
altrui, e una classe costretta a vendere sé stessa e il proprio lavoro pur di sopravvivere. Per Marx
una classe è un gruppo di individui che si trova nella stessa posizione rispetto ai mezzi di
produzione. Nel XIX secolo le due classi contrapposte sono borghesia, che possiede i capitali e i
mezzi di produzione, e il proletariato, che deve rendere sé stesso e la propria forza-lavoro una merce
a tutti gli effetti (sottoposta dunque a svalutazione, concorrenza, etc). L'insieme dei rapporti di
produzione determina quella che Marx chiama la struttura della società, da cui dipende la
sovrastruttura, ossia la cultura, la religione e l'organizzazione politica della società. Il rapporto tra
i modi di produzione e Stato è particolarmente stretto dato che secondo Marx lo Stato è un apparato
di potere della classe dominante formato ad hoc per preservare la struttura e amministrare gli affare
della borghesia.
Il capitalismo, ossia il modo di produzione dell'epoca moderna, sta già andando incontro ad una
crisi di sovrapproduzione, una delle tante contraddizioni che lo porteranno al crollo tramite la
rivoluzione. La rivoluzione è inevitabile ma deve essere armata e violenta perché la violenza è la
levatrice della Storia (Il Capitale, cap. XXIV): come un bambino la rivoluzione è in procinto di
nascere ma serve una levatrice che aiuti il parto. Alla fine della rivoluzione si creerà una società
nuova, priva di Stato, che vedrà la fine della lotta di classe e la fine della Storia. La rivoluzione deve
instaurare una dittatura del proletariato temporanea che però non deve essere, come era nel pensiero
giacobino, una dittatura di una élite ristretta: si tratta di una dittatura dell'intera classe operaia. Nel
Manifesto del partito comunista si parla solo di “atti di dispotismo” da parte del proletariato, mentre
il termine “dittatura del proletariato” appare solo in Lotte di classe in Francia 1848-1850 e nella
Critica al programma di Gotha. La dittatura serve a privare la borghesia del capitale e ad accentrare
i messi di produzione nelle mani dello Stato, guidato ora dalla classe operaia; quando questo
processo si concluderà spariranno le classi e di conseguenza anche l'apparato statale: liberando sé
stesso, il proletariato libererà la società intera. Marx non ha mai descritto la concretizzazione
istituzionale della dittatura del proletariato ma sostiene che la cosa più vicina ad essa sia la Comune
di Parigi del 1871. Si può dunque immaginare la dittatura del proletariato con i caratteri della
democrazia radicale già immaginata dal giacobinismo: governo diretto del popolo tramite un
organismo di rappresentanza dei lavoratori che abbia competenze esecutive e legislative; i
consiglieri e i giudici devono essere eletti a suffragio universale ma immediatamente revocabili dal
popolo stesso. Non serve un esercito o una forza di polizia poiché sarà il popolo stesso in armi e il
territorio nazionale deve essere diviso in piccole comuni autonome e autogovernate in accordo con
le altre.
Marx non descrisse neanche la società comunista che si andrà a creare dopo l'abolizione delle classi
e dello Stato poiché non vuole prospettare una utopia come gli altri pensatori socialisti, ma dai suoi
scritti si possono ricavare alcuni elementi. La società comunista risolverà il grave problema della
alienazione: l'uomo moderno infatti aliena sé stesso e il prodotto del proprio lavoro mentre nella
società comunista sarà padrone di sé e darà alla comunità solo secondo le proprie capacità e riceverà
da essa beni secondo i propri bisogni. Sarà una società internazionale, poiché la divisione in nazioni
è frutto dell'imperialismo della classe borghese dominate, e atea, dato che la religione distrae dalla
realtà e promette l'uguaglianza reale solo in un mondo immaginario. Nella società comunista il
lavoro sarà pianificato secondo ritmi precisi per produrre benessere e non per il profitto; nonostante
questo sarà una società più ricca perché priva di concorrenza. Anche l'uomo cambierà e sarà un
uomo nuovo, sociale, solidale con gli altri che supererà lo stato di alienazione e sarà in grado di
usare i beni materiali in quanto tali e non solo come mezzi per aumentare il proprio capitale.

Interpretazioni successive di Marx


Nell'ultimo decennio del XIX secolo, soprattutto dopo la morte di Marx, i marxisti guidati da
Engels (1820-1895) riprendono e reinterpretano il pensiero di Marx alla luce dei nuovi equilibri
politici. In particolare attira le attenzioni dei marxisti il consenso politico ed elettorale che sta
ottenendo la social-democrazia in Germania con l'SPD; molti, tra cui Engels, cominciano a proporre
una nuova strategia, pensando che la pratica rivoluzionaria violenta che aveva portato alla Comune
di Parigi sia ormai inefficace contro gli stati borghesi più avanzati. Si fa strada la possibilità di
conquistare lo stato pacificamente dal suo interno sfruttandone il suo meccanismo elettorale e
appoggiandosi al voto del proletariato, la maggioranza della popolazione. Engels formula questa
ipotesi prima privatamente in una lettera a Wilhelm Liebknecht, padre dello spartachista Karl, nel
1891 e poi pubblicamente nel 1895 nell'introduzione ad una riedizione delle Lotte di classe in
Francia.

Lenin
Vladimir Ilic Ulianov “Lenin” (1870-1924) è l'indiscusso leader della rivoluzione russa e del
comunismo sovietico fino al maggio 1922, quando, colpito da un ictus, è costretto a ritirarsi dalla
vita politica attiva. La sua interpretazione del marxismo è interamente politica e parte dalla
constatazione che alla rivoluzione non si arrivi con un progresso determinato e obbiettivamente
valido, con un processo storico inevitabile. Secondo Lenin serve una avanguardia politica in grado
di forzare gli eventi e di condurre il popolo alla rivoluzione, che comunque seguirà le tappe
descritte da Marx. La premessa della rivoluzione attuale (da non attendersi passivamente) è il punto
di partenza di tutte le riflessioni di Lenin che sono sempre improntate all'attualità politica e che
sempre si trasformano in azione. Ogni giudizio formulato da Lenin è dato in funzione della
rivoluzione: è bene ciò che aiuta la rivoluzione e male ciò che la rallenta. Tutti gli scritti di Lenin
sono quindi sempre inseriti nel dibattito politico coevo e dunque risultano dei veri e propri atti
politici.
L'azione politica è ciò che crea la storia e produce le condizioni favorevoli alla rivoluzione; non si
può contare sulla spontaneità e sulla predeterminazione della rivoluzione ma bisogna, tramite la
politica, prendere controllo di tutti i movimenti innovativi e deviarli verso il fine supremo della
rivoluzione. La rivoluzione d'ottobre segue precisamente la teoria di Lenin, dato che si sviluppa da
movimenti autonomi in condizioni molto diverse da quelle descritte da Marx ma viene portata verso
il comunismo dalle avanguardie politiche comuniste. I rivoluzionari sono dunque costretti ad agire
politicamente, cercando alleanze di comodo e accettando i compromessi temporanei nel momento
del bisogno. Lenin parla infatti di “primato della politica”: è la politica a preparare le condizioni per
la rivoluzione e a guidarla, è la strategia politica lo strumento per creare la storia. È dunque
necessario un partito politico, una élite che guidi dall'alto i movimenti spontanei, altrimenti dannosi
per la rivoluzione stessa. Questo tema è argomento di dibattito con gli spartachisti di Rosa
Luxemburg, che criticavano l'eccessivo verticismo della rivoluzione russa e sostenevano la
necessità di una maggiore partecipazione democratica e popolare. Lenin critica anche il
revisionismo di Bernstein, che colloca la rivoluzione e la nascita della società comunista in un
tempo indefinitamente lontano e che quindi sostiene l'importanza della via democratica e riformista
per migliorare concretamente le condizioni di vita della classe operaia.
In Stato e rivoluzione Lenin sostiene che il proletariato ha un bisogno temporaneo dell'apparato
statale, ossia dell'amministrazione burocratica e della forza militare, prima che lo stato stesso
deperisca con l'abolizione delle classi sociali. Il fine del comunismo, dice Lenin, non è dissimile da
quello degli anarchici, ma il mezzo è molto diverso: la rivoluzione è un atto autoritario e violento
necessario ad imporre e mantenere il nuovo ordine, altrimenti le forze controrivoluzionarie
potrebbero organizzarsi e riprendere il potere. Lenin definisce la rivoluzione come l'atto in cui una
parte della popolazione impone la propria volontà all'altra parte con le armi e ribadisce la necessità
che questo processo sia guidato da una avanguardia politica. Vi è infatti una forte sfiducia nelle
masse, che devono essere guidate da professionisti della rivoluzione: la rivoluzione è infatti una
azione politica e la politica è «una scienza e un'arte». È chiara la teoria di Lenin soprattutto nel
osservare il rapporto con i soviet: questi sono infatti consigli di fabbrica, assemblee democratica
della classe operaia che prevedono il governo diretto dei lavoratori; sotto la guida di Lenin i soviet
si strutturano in modo gerarchico, basandosi sul principio della rappresentanza piuttosto che sul
governo diretto, e diventando organi di confronto con il partito e il governo centrale. L'idea della
avanguardia politica e della stretta guida da parte del partito è già presente in Che fare?, scritto del
1902. Tema importante della riflessione di Lenin, non affrontato da Marx, è la durata della dittatura
del proletariato: nel 1917 Lenin fissa una durata approssimativa di circa dieci anni, nel 1919 questo
termine era posto a circa trenta anni di distanza e infine la data sparisce dall'orizzonte immediato
poiché comincia a svilupparsi l'idea di uno stato comunista come macchina per abbattere il
capitalismo anche in altre nazioni. Il dibattito relativo a come portare la rivoluzione comunista dalla
Russia in altre nazioni, in particolare quelle europee dove sembra molto difficile riuscire a far
scoppiare la rivoluzione, è particolarmente accesso e diventa il campo di scontro tra i due successori
alla guida del partito, Stalin e Trockij. Stalin sostiene la necessità di rafforzare l'Unione Sovietica e
rimandare la visione internazionalista a tempi più adatti; per Trockij invece bisogna esportare subito
la rivoluzione negli altri paesi, altrimenti anche l'Unione Sovietica non riuscirà a sopravvivere.

Lenin e Stato e Rivoluzione secondo lo Chevallier


Nei primi anni del '900 il socialismo è in piena crisi: esistono i rivoluzionari, che si ritrovano
sempre più isolati nell'estrema sinistra, e i parlamentari, che invece ritengono che la via democratica
al socialismo sia la migliore, perché permette loro di agire nella legalità; con lo scoppio della prima
guerra mondiale l'Internazionale esplode in tutte le sue divergenze. Kautzky, prima strenuo
oppositore dell'opportunismo della socialdemocrazia, vira drasticamente su una politica centrista,
ricevendo critica da ogni parte. Colpisce per la sua ferocia la critica mossagli dal partito marxista
russo e da Lenin, che inneggia alla trasformazione della guerra imperialista in guerra civile. Lenin
era riuscito a fondare un partito marxista unitario, forte, con una strategia precisa nella Russia
zarista; per lui teoria e azione sono indissolubilmente unite e ciascuna fa progredire l'altra. La teoria
non è certo fissata una volta per tutta ma deve sempre seguire le pietre angolari gettate da Marx ed
Engels. Lenin non si preoccupò di scrivere un'opera politica teorica ma fu sempre attento alla
situazione contingente, spiegando al massimo come si sarebbe dovuto sfruttare un avvenimento o
cosa fare nell'immediato.
Il partito marxista russo si era diviso sulla scelta tra opportunismo parlamentare e intransigenza
rivoluzionaria ma Lenin era riuscito a cacciare tutti i menscevichi e a mantenere unito il partito
sotto la bandiera bolscevica in tempo per affrontare la prima guerra mondiale. Secondo Lenin, il
capitalismo si era evoluto in una fase contraddistinta dalla creazione di monopoli finanziari in cui le
condizioni di vita peggiorano drasticamente; si tratta di una fase di stagnazione che attende una
esplosione, la fase suprema del capitalismo e la vigilia della rivoluzione socialista, si tratta
dell'imperialismo. Allo scoppio della guerra socialista la seconda Internazionale si divide poiché
tutti i partiti europei sembrano voler difendere la patria, Lenin scrive allora un articolo criticando i
social-sciovinisti e fondando la terza Internazionale comunista. Nell'aprile del 1917 Lenin torna in
Russia dopo un lungo esilio e dichiara compiuta la fase borghese della rivoluzione, che va quindi
trasformata in rivoluzione socialista appoggiandosi sul crescente potere dei Soviet, che vengono
paragonati alla Comune di Parigi. Basandosi sui numerosi scritti di Marx ed Engels, Lenin cerca di
sviluppare una teoria marxista dello Stato, per avere una dottrina organica per guidare la
rivoluzione.
Lo Stato non è sempre esistito e non è una entità al di sopra o al di fuori della società perché è nato
dalla società ad un certo punto dello sviluppo economico; una volta nato, lo Stato si allontana
sempre di più dalla società, diventando l'organizzazione speciale della forza con cui reprimere la
classe dominata. L'ordine creato dallo Stato consiste nel togliere alla classe dominata i mezzi con
cui rovesciare i dominatori e nell'accumulare i mezzi per imporre e mantenere la volontà di classe
degli oppressori: questa accumulazione costituisce l'apparato del potere di Stato o macchina di
Stato. La macchina dello Stato è composta principalmente di due elementi, esercito permanente e
burocrazia, con cui opprime il proletariato, il quale deve organizzarsi con un partito operaio,
avanguardia di classe con il compito di educare politicamente tutto il proletariato. Il proletariato
guidato dal partito prende conquista lo Stato con una rivoluzione violenta, instaura la propria
dittatura, reprime la classe borghese e nazionalizza le industrie; in questo modo vengono distrutte le
condizioni che hanno portato alla creazione dello Stato. Il modello da prendere a esempio deve
essere la Comune di Parigi in cui si inizia a vedere un nuovo modello di Stato che corrisponde
all'inizio del deperimento dello Stato: lo Stato proletario infatti non viene abolito ma deperisce, non
essendo più necessario a mantenere il dominio di una classe sull'altra. La società comunista, appena
sorta dalla rivoluzione, porta ancora le stimmate della vecchia società in tutti i campi; l'ingiustizia
della classe borghese è finita ma ne esiste ancora una, che consiste nel ripartire gli oggetti di
consumo secondo il lavoro effettuato e non secondo i bisogni, non tenendo conto delle differenze
tra gli uomini. Questa ripartizione dei beni è impossibile nel corso della prima fase del comunismo,
poiché il diritto non può mai essere più avanzato dell'ordine economico che vi corrisponde: dovrà
dunque sussistere per un certo tempo lo Stato borghese ma senza borghesia. Lenin paragona quindi
la prima società comunista ad un grande ufficio o una grande fabbrica, dove tutti lavoro con lo
stesso salario sotto il controllo del proletariato in armi. Questo non è assolutamente lo scopo finale
ma un gradino necessario in cui ogni uomo imparerà e si abituerà alla pacifica convivenza senza
bisogno di un apparato coercitivo che lo sottometta; lo Stato allora deperirà e la società vivrà
secondo la regola da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i propri bisogni.

Georges Sorel
Nato in una famiglia borghese, ingegnere civile al servizio del ministero delle infrastrutture
francese, Georges Sorel (1847-1922) si dichiara inizialmente socialdemocratico ma, dopo la crisi
francese di fine secolo, comincia ad interessarsi al revisionismo di Bernstein e ad una visione
decisamente più rivoluzionaria. Inizia così a criticare la democrazia borghese e a collaborare
attivamente al socialismo rivoluzionario francese scrivendo e pubblicando articoli, che nel 1908
verranno raccolti e pubblicati sotto il titolo di Riflessioni sulla violenza. Il testo si apre con una
distinzione molto importante tra “forza”, che contraddistingue gli atti di autorità, e “violenza”, che
contraddistingue gli atti di rivolta, elogiando nettamente quest'ultima. Sorel sostiene che la classe
operaia debba distinguersi dalla borghesia in ogni suo aspetto e rivendicare la propria autonomia
contro l'ideologia borghese che si compone di positivismo, politica, immobilismo e pacifismo. Tutti
questi valori sono propri della classe borghese e dunque non devono essere inseriti nella mentalità
della classe operaia rivoluzionaria. Per Sorel, la borghesia è mediocre, pacifica per codardia e
opportunismo, troppo attaccata alla comodità della loro vita per rischiare e preferisce dunque un
lento progredire attuato attraverso la politica. Il parlamentarismo e la democrazia riflettono
l'ideologia borghese e quindi Sorel critica la socialdemocrazia e il socialismo politico, che si
riducono ad accettare le regole del gioco politico liberale.
Il vero socialismo è rivoluzionario, violento e attivo: la classe dei produttori (operai e contadini)
deve rifiutare ogni riferimento alla borghesia e organizzarsi da sé tramite il sindacalismo. I
sindacalisti compiono infatti una azione concreta e diretta, come lo sciopero, che dà autonomia al
proletariato; lo sciopero non deve però essere rivendicativo, poiché rischia di cadere nel
compromesso con i capitalisti, bensì politico, ossia deve mirare all'instaurazione di un nuovo
ordine. Sorel teorizza la sciopero generale (non nazionale) come unica via per la rivoluzione e per
costruire la nuova società dove il proletariato potrà imporre i propri valori e organizzarsi da sé.
Della teoria marxiana originale Sorel conserva sicuramente l'idea della contrapposizione di classe
ma critica la dittatura del proletariato e il determinismo storico di Marx che può portare all'attesa
passiva della rivoluzione. Sorel sostiene infatti che il socialismo può anche non avverarsi mai e in
questa prospettiva lo sciopero generale diventa un mito, una immagine motrice che spinge le
coscienze operaie verso l'autodeterminazione. È un mito che però crea una nuova morale operaia da
contrapporre a quella borghese: una morale attiva ed eroica, ispirata dalle letture di Nietzsche e
Proudhon, che propone la classe operaia come salvatrice della civiltà dalla barbarie a cui la
borghesia la sta conducendo. Tutto si svolge in una atmosfera irrazionale e mitica dove viene
esaltata l'azione e l'attivismo del proletariato contro l'immobilismo e la prudenza, caratteri tipici
della classe borghese.
Alla fine degli anni dieci del XX secolo, Sorel si interessa molto al lavoro di due uomini politici
europei, Lenin e Mussolini, non vedendo però a causa della propria morte l'evoluzione che avranno
i due modelli. Per la sua esaltazione della violenza e la critica feroce alla democrazia liberale e
borghese, Sorel è stato molto apprezzato non solo da socialisti e sindacalisti europei ma anche dalle
forze nazionalistiche di estrema destra: lo stesso Mussolini indicò nel 1919 i fasci di combattimento
appena fondati come “soreliani”.

Georges Sorel e le Riflessioni sulla violenza secondo lo Chevallier


Il pensiero politico di Sorel è estremamente difficile da collocare sotto una etichetta precisa, poiché
sembra essere una miscela (sapiente o confusa a giudizio del lettore) di moltissimi elementi: Marx,
Proudhon, Bergson e Nietzsche sono i principali. Inizialmente socialista democratico Sorel diventa
sindacalista rivoluzionario e nemico del socialismo politico prima e poi, attorno al 1910, simpatizza
con Maurras e il nazionalismo integrale. In Sorel convivono due anime: quella del tecnico e quella
del moralista pessimista. Sorel si trova di fronte alla piega democratica che ha preso la Seconda
Internazionale e al revisionismo di Bernstein, che sembrava voler privare il marxismo della sua
anima rivoluzionaria; decide quindi di ricercare il vero marxismo nei sindacati autonomi operai. A
sorta di manifesto della nuova scuola del “neo-marxismo sindacalista”, Sorel compone le
Riflessioni sulla violenza, un insieme di articoli scritti negli anni che, seppur confuso, appare
dominato da due idee: una negativa, ovvero il rifiuto totale del compromesso democratico e del
socialismo parlamentare, e una positiva, ovvero l'apologia della violenza, che guidata dal mito dello
sciopero generale sarà in grado di suscitare la nuova morale socialista.
La critica alla democrazia parlamentare passa attraverso la critica alla filosofia del XVIII secolo su
cui si basa: una filosofia idealista e ottimista che si culla nel diritto naturale e crede che le cose
siano semplici; questi uomini politici tendono a lasciar accadere le cose, confidando nel loro buon
esito. Sono però gli stessi uomini che possono cadere preda di una collera sanguinaria tremenda,
come è accaduto con il Terrore rivoluzionario. È questa stessa filosofia a rendersi ipocrita parlando
di supremazia del diritto quando essa stessa ha guidato ed è nata con una rivoluzione violenta. Gli
stessi meccanismi elettorali e parlamentari sono bugiardi e sbagliati: innanzitutto i socialisti
democratici pretendono di raggruppare gli interessi di esponenti di classi sociali diverse, in barba
alla teoria marxiana della lotta di classe, poi si inseriscono in parlamento a giocare con gli altri
politici, presentandosi come i capi e i moderatori della rivoluzione proletaria, unici esponenti con
cui dialogare. I parlamentari socialdemocratici temono le reali organizzazioni proletarie autonome e
il loro possibile sciopero generale politico, ben diverso dallo sciopero proletario organizzato dai
sindacati ufficiali, in accordo con i partiti socialisti. I socialisti democratici fanno il gioco della
borghesia, accrescendo il potere dello Stato e sperando, un giorno, di diventare Stato; non si
rendono conto che non è possibile mantenere lo Stato integro ma bisogna distruggerlo per mettere a
nudo la realtà materiale delle cose. Questa volontà di scissione e tutto ciò che ne deriva è ciò a cui
Sorel si riferisce con il termine violenza.
Il socialismo non potrebbe sussistere senza una apologia della violenza, violenza che va distinta
tanto da “forza” quanto da “brutalità”: la forza ha per oggetto l'imposizione di un certo ordine
sociale, mentre la brutalità invece non tende a limitarsi nel raggiungimento del proprio scopo e
agisce con grande odio. La violenza è necessaria nel marxismo poiché la rivoluzione dovrà colpire
il capitalismo nel momento della sua massima vitalità, altrimenti diventerà una rivoluzione sterile.
Nel VI capitolo, Moralità della violenza, Sorel lotta contro i pregiudizi rivolti alla violenza da parte
di coloro che preferiscono pace e dolcezza: si ritiene un progresso aver sostituito la barbarie dei
tempi passati con l'astuzia ma non è affatto così, poiché l'uso della violenza continua subdolo e
solamente chi compie atti violenti alla luce del sole viene punito. Non si tratta di un progresso ma
semplicemente di una partita di nascondino. La violenza proletaria è guidata da un mito preciso,
ovvero quello dello sciopero generale: un mito è un insieme irrazionale e non passabile di
discussione di immagini motrici; non importano le singole immagini ma solo l'insieme. Il mito che
guida il sindacalismo rivoluzionario è quello dello sciopero generale, paragonato da Sorel alla
battaglia napoleonica che schiaccia il nemico e conclude il conflitto. La violenza, illuminata da
questo mito, diventa per i sindacalisti rivoluzionari il mezzo attraverso cui educare il proletariato
alla nuova morale dei produttori, che spinge a compiere le cose sempre meglio e che sarà la base
fondante il mondo dell'avvenire.
Il nuovo pensiero reazionario: il nazionalismo
Tra il XIX e il XX secolo il pensiero reazionario e controrivoluzionario è costretto dalle mutate
condizioni socio-culturali e politiche a mutare la propria forma: deve infatti confrontarsi con i
principali avversari politici, liberalismo e socialismo, elevando l'ordine sociale a valore principale
della società, e ottenere il consenso della massa, nuovo attore della scena politica. Per attirarsi i
favori delle masse diventa allora nazionalismo, facendo leva sul senso di appartenenza alla nazione
e montando il popolo contro i nemici esterni, le altre nazioni, e quelli interni, ovvero i socialisti, gli
ebrei e i massoni. L'antisemitismo è un tratto comune del nazionalismo europeo, in particolare in
Francia e in Germania, dove gli ebrei sono considerati quasi degli stranieri, residenti nello stato ma
non appartenenti alla nazione. Anche tutte le ideologie che incitano all'internazionalismo, come il
socialismo o la massoneria, sono da considerarsi nemiche della nazione. Il fine del pensiero politico
nazionalista è la costruzione di una società gerarchica rigidamente ordinata dove l'individuo sia
subordinato alla comunità. La realizzazione concreta del progetto nazionalista e reazionario si ha
nel XX secolo con lo sviluppo di nazismo e fascismo, che rappresentano il punto ultimo del
processo di evoluzione di queste ideologie. Fascismo e nazismo si liberano completamente della
visione tradizionale di ancien regime: non si propone più un monarca assoluto il cui potere è basato
sul diritto divino o sul diritto naturale, il potere è assunto da un capo carismatico in grado di
trascinare le masse e di interpretare con la sua persona il volere della nazione intera. Si rompe anche
il rapporto stretto con il cattolicesimo radicale, trasformando le due ideologie in “religioni atee”.

Il nazionalismo francese
Nel 1881 la Francia repubblicana è colpita dallo scandalo del Canale di Panama: grandi imprese
finanziarie francesi avevano iniziato lo scavo del Canale, pensando di ripetere l'impresa di Suez, ma
si erano trovate in grosse difficoltà economiche e avevano ottenuto, grazie alla corruzione di
numerosi parlamentari, sovvenzioni statali. Il giornalista antisemita e di estrema destra Edouard
Drumont denunciò il fatto con asprissime critiche ai capitalisti “ebrei” che portavano oltreoceano i
capitali francesi sfruttandoli per il proprio interesse. Nel 1894 scoppiò invece l'affaire Dreyfus: il
tenente dell'esercito francese Alfred Dreyfus, ebreo, fu accusato (ingiustamente) di aver venduto
segreti militari alla Germania. La Francia si divise allora tra coloro che difendevano Dreyfus,
ovvero liberali e democratici, tra cui Emile Zola, e coloro che invece volevano la condanna, i
nazionalisti e i rappresentanti dell'estrema destra antisemita.
È in questo clima che i protagonisti del nazionalismo francese danno forma e vita ai propri
movimenti, critici nei confronti delle istituzioni democratiche e degli ebrei. Georges Boulanger
(1837-1891) cominciò la sua carriera politica a metà degli anni '80, forte di un grande sostegno
popolare che lo esaltava come un salvatore della patria e un restauratore della monarchia. Nel 1889
tentò un colpo di stato che però fallì e fu costretto a fuggire in Inghilterra, dove si suicidò due anni
dopo. Boulanger critica la tesi marxista della lotta di classe poiché ritiene che la vera opposizione
sia quella tra governo e popolo francese; propone il superamento della distinzione tra destra e
sinistra, richiamandosi all'idea dell'unità nazionale che deve essere prodotta da un leader
carismatico.

Dopo la sua morte il suo progetto non rimane senza eredi ma diventa una componente influente
della politica francese; nel movimento boulangista milita anche il giornalista e in seguito
parlamentare Maurice Barres (1862-1923). Barres polemizza con le astrazioni razionalistiche che
sono state inserite nella vita politica per eliminare quella che è la vera dimensione fondante della
società, ovvero tutto ciò che è tradizione e sentimento. Secondo Barres non esiste una vera e propria
libertà di pensiero poiché ogni uomo è influenzato dai propri avi, dalle tradizioni della propria terra
e dai sentimenti che prova. Porta come esempio l'Antigone di Sofocle, dove Antigone non si piega
alla legge imposta da Creonte, re straniero, pur di far valere gli usi tradizionali e l'amore per la
propria famiglia. Per affermare questo con più forza, Barres scrive anche un romanzo, Gli sradicati,
che racconta la storia di tre contadini francesi che, recandosi a Parigi e abbandonando la propria vita
di sempre, incorrono in una serie di tragiche sventure. Il mondo della concretezza e del realismo si
contrappongono nettamente alle astrazioni che Barres vede nella società liberale; vengono
evidenziate e criticate principalmente due astrazioni, una economica e una politica. L'astrazione
economica corrisponde al capitalismo finanziario che diventa agli occhi di Barres una nuova forma
di feudalesimo: i politici infatti sono costretti a stringere rapporti di subordinazione e di dipendenza
nei confronti di stranieri (gli ebrei) svincolati dalle tradizioni francesi. Oltre al controllo sulla
politica e quindi sui francesi stessi, gli ebrei esportano i capitali francesi in altre nazioni, non
curandosi della Francia ma solo dei propri interessi. La seconda astrazione da combattere è invece
l'accentramento dei poteri dello stato, fenomeno che non appartiene alla tradizione francese, che
invece protegge l'autonomia regionale. La politica liberale è il culmine di questo processo, dato che
porta a Parigi tutte le decisioni e gli uomini politici, mettendoli nelle mani del parlamento, dove
ognuno agisce per il proprio interesse invece che per quello nazionale e non difende gli interessi
delle regioni che invece dovrebbe difendere.
A queste astrazioni bisogna opporre la realtà storica concreta della nazione francese, ovvero la sua
politica e la sua economia tradizionale: bisogna istituire dei piccoli parlamenti regionali che siano
più attenti ai problemi locali e più facilmente controllabili dai cittadini economici (questa idea viene
esplicitamente tratta dai testi di Proudhon, tanto che su iniziativa di Barres nasceranno i “circoli
Proudhon”). Per quanto riguarda l'economia, Barres propone un rinnovato corporativismo: per non
esasperare la lotta di classe bisogna creare una corporazione di capitalisti e proletari che, sotto il
controllo dello stato, produca per la nazione e non per i singoli imprenditori. È strettamente
necessario anche il protezionismo riguardo i propri prodotti nazionali e verso il lavoro, limitando
l'immigrazione di lavoratori stranieri.
Barres non si dimostra completamente critico nei confronti della rivoluzione del 1789, come invece
lo erano molti altri nazionalisti a causa del carattere internazionalistico della Dichiarazione dei
diritti dell'uomo e del cittadino e considerandola il primo passo verso l'indigesta democrazia
liberale. Per Barres la rivoluzione non superò mai nei fatti i confini imposti dalla realtà storica della
nazione francese e anzi fu un periodo glorioso che mostrò, nei confronti bellici con le altre nazioni,
il potere della nazione in armi. In conclusione Barres accetta anche il regime repubblicano, pur
preferendo la monarchia, dato che la dinastia borbonica si era ormai estinta.

Charles Maurras (1868-1952) è invece antirivoluzionario e antirepubblicano, fonda il movimento


politico di estrema destra Action Française e fu sempre favorevole a soluzioni autoritarie e
dittatoriali, come dimostra la sua collaborazione con i nazisti durante l'occupazione tedesca. La sua
opera principale è L'inchiesta sulla monarchia, una raccolta, pubblicata nel 1909, di interviste fatte
nel primo decennio del XX secolo agli esponenti dell'aristocrazia francese. Il suo scopo è cercare di
capire se e come sia possibile il ritorno della monarchia: la sua risposta è che con un colpo di stato
che ponga sul trono un membro delle grandi dinastie nobiliari si può riuscire, dato che dall'Inchiesta
risulta che le masse popolari e l'esercito sono filo-monarchici. Maurras critica duramente la
rivoluzione francese, che ritiene essere stata importata a forza da oltreoceano e oltremanica;
secondo Maurras il principale colpevole è John Locke, che ha posto in primo piano i diritti astratti
dell'individuo. La rivoluzione si è trasformata in una tirannia dello stato che è continuata sotto
Napoleone e si è poi evoluta nella democrazia liberale. Maurras riprende il dibattito che vedeva
opposti neoclassicismo e romanticismo e lo ripropone in senso politico: è da preferire il primo per il
rigore formale, l'ordine, la concretezza e la dimensione comunitaria che lo contraddistinguono e che
devono essere elementi fondanti lo stato; il romanticismo è invece capriccio individuale, esaltazione
del piacere e del gesto eclatante fine a sé stesso. La democrazia è un sistema malato che non può
funzionare perché è influenzata dal potere occulto dei cittadini non francesi che agiscono per i
propri interessi personali o internazionali e perché il sistema partitico ed elettorale rompe l'unità
della nazione; inoltre la fiducia nel numero e nella quantità è tipica dei barbari. Serve un monarca
che rappresenti la nazione intera, come avveniva prima della rivoluzione, e non un presidente, che
rappresenta solo la maggioranza. La monarchia deve essere quindi tradizionale, ereditaria, anti-
parlamentare e decentrata.
Charles Maurras e L'inchiesta sulla monarchia secondo lo Chevallier
Dopo Burke, altri filosofi si scagliano contro quell'obbrobrio che era ai loro occhi la Repubblica
rivoluzionaria francese: due aristocratici, il conte de Maistre e il visconte de Bonald, criticano con
forza l'astrattismo che guida i rivoluzionari e soprattutto l'individualismo della nuova società, che ha
distrutto l'ordine naturale dell'ancien regime. Le loro critiche sono riprese da Auguste Comte,
filosofo di mestiere, che riprendere i punti salienti della dottrina politica dei due nobili, laicizzandoli
e integrandoli al positivismo: dall'epoca organica che era il Medioevo la riforma protestante ha
prodotto lo spiritico critico che è stato coronato dalla Rivoluzione; farà seguito una nuova epoca
organica che sarà l'età positiva, dove tutto sarà guidato dalla scienza, anziché dalla religione. Verrà
liquidato il liberalismo e l'individualismo, saranno restaurati i doveri dei cittadini e i concetti di
autorità e gerarchia, che come insegna la sociologia sono naturali. Altri autori si aggiungono a
formare una forte corrente tradizionalista e nazionalista che, dopo il 1870, critica fortemente la
repubblica presidenziale in quanto opportunista, come dimostrano gli affari di Panama e l'affare
Dreyfus.
A proporre un modello alternativo al colpo di stato dei boulangisti, una vera e propria dottrina
politica coerente, è Charles Maurras, che ritiene necessario tornare alla vera forma politica
nazionalista, ovvero la monarchia ereditaria e anti-parlamentare. Sulla Gazette de France Maurras
invita l'élite intellettuale, politica ed economica francese a rispondere alla domanda sì o no?
L'istituzione di una monarchia tradizionale, ereditaria, anti-parlamentare e decentralizzata è di
pubblica utilità? Bisogna tornare ad una monarchia tradizionale, ovvero a una politica che torni ad
occuparsi della realtà e non delle fantasie della ragione individuale, poiché esiste in Francia un
movimento spirituale favorevole al ritorno alla tradizione. Questo movimento è anche favorevole
alla ricostruzione della famiglia e dunque alla monarchia ereditaria, che vuole così affermare la
supremazia della famiglia sul singolo individuo. La monarchia deve essere ereditaria anche perché
“il principe” è un mestiere e dunque come tutti i mestieri si apprende già in famiglia: così il principe
ereditario è il più adatto a governare, dato che non solo è competente ma ha anche gli stessi interessi
della nazione, poiché vuole migliorarla per passarla al figlio. La continuità, tramite l'eredità, è la
cosa migliore per una nazione ma non si può ottenere tramite una repubblica, che è separata è
frantumata per sua stessa natura. Le argomentazioni di Maurras sono semplici e lineari e vengono
tratte da una sorta di analisi scientifica della società francese.
L'antiparlamentarismo è un altro dei caratteri fondamentali della monarchia che ha in mente
Maurras, il problema è che questo carattere sembra richiedere una dittatura personale di stile
bonapartista. Per Maurras la soluzione è chiara ed evidente: se si vuole abbandonare il
parlamentarismo bisogna tornare ad una monarchia tradizionale, che regni e governi tramite i
consigli, poiché essi insieme al re forniscono la reale rappresentanza di cui la nazione ha bisogno. Il
parlamento è fonte di divisione e di estrema debolezza per la nazione, lede e avvilisce lo stato, non
può dunque rimanere dopo la Restaurazione reazionaria invocata da Maurras, nemmeno nella forma
della monarchia parlamentare dove il sovrano corregge i rappresentati. La Francia è schiacciata e
stretta nella morsa del governo parlamentare, che per dare una parvenza di unità cerca di gestire
ogni aspetto della vita pubblica, politica ed economica dei francesi, riuscendoci efficacemente
solamente in quelle attività facilmente gestibili dai cittadini stessi. La monarchia è l'unico governo
che può mantenere l'unità della nazione e allo stesso tempo può decentralizzare il proprio potere: la
monarchia assolve correttamente alle vere funzioni dello Stato (diplomazia, esercito, finanze) e
dunque può lasciare gli affari privati in mani private. Maurras risponde a coloro che vogliono
vedere un percorso unitario di centralizzazione del potere che inizia da Luigi XIV e Richelieu e
continua con la Rivoluzione e la terza repubblica che si tratta di una centralizzazione diversa: Luigi
XIV ha sì centralizzato ma non ha mai inventato forme di governo astratte che non riuscissero a
gestire le vere funzioni dello stato.
Se dunque ora il movimento neo-monarchico e nazionalista ha una dottrina politica, mancano solo
le modalità di attuazione: Maurras sostiene che solo tramite l'unione dei reazionari neo-monarchici
si potrà essere abbastanza forti da rovesciare la repubblica.
Nazismo e fascismo
Gli storici e i politologi sono concordi nel riconoscere che tra nazismo e fascismo, nonostante i
molti punti in comune vi sia una sostanziale differenza: il nazismo risulta infatti molto più radicale e
comporta una rottura netta con il passato. Il fascismo può essere considerato una autocrazia classica
che propone la restaurazione del potere dello stato secondo i modelli classici dell'ideologia
reazionaria; il nazismo invece non sostiene la supremazia dello stato bensì quella del partito: il
partito è la realtà politica al cui servizio si deve porre lo stato. L'ideologia nazista concorda con idee
nazionalistiche, reazionarie e fasciste ma trova il suo elemento di concretezza non nella storia della
nazione ma nel sostrato che è motore della storia, ovvero la lotta tra razze. Questo delinea una linea
guida molto semplice per il programma politico nazista: bisogna fare in modo che la razza ariana
trionfi sulle altre.

Teorico ideologico del nazismo non è tanto Adolf Hitler quanto Alfred Rosenberg (1893-1946),
russo-tedesco di Tallin che si trasferisce ben presto a Monaco per collaborare con il neonato partito
nazista. Una volta che il partito avrà preso la guida della Germania, Rosenberg lavorerà prima a
stretto contatto con Goebbels e poi sarà ministro dei territori orientali. Secondo Rosenberg i tre
elementi che fondano la società umana sono popolo, razza e sangue: un popolo, unione culturale di
lingua e costumi, è espressione di una razza che si distingue dalle altre per il proprio sangue.
L'obiettivo principale a cui gli uomini devono lavorare è la purezza del sangue. Rosenberg è
consapevole che parlare di purezza del sangue nel XX secolo sembra paradossale e dunque dice
esplicitamente che si tratta di un mito; nel suo pensiero però un mito può e deve essere accettato
come verità se può condurre alla realizzazione di un obiettivo politico contemporaneo e contingente
che consiste nella ricostituzione dell'uomo tedesco. Nella sua opera principale, Il mito del XX
secolo, Rosenberg propone la sua visione secondo cui ogni grande figura storica, ogni fonte di
civiltà, derivi direttamente dal germanesimo e dalla razza ariana, che ha colonizzato il mondo
intero. Il mito riprende moltissime leggende che suffragano questa tesi, tra cui la dottrina eretica
secondo la quale Gesù era tedesco; se si accetta questo mito, Cristo diventa il primo tedesco ucciso
dagli ebrei e questo suffraga la tesi della lotta tra le razze e incita alla lotta contro gli ebrei. Secondo
Rosenberg la natura ha fatto gli uomini diseguali e divisi in razze, disposte in modo gerarchico con i
tedeschi in cima, che si sono poi andate a mescolare creando obbrobri come la democrazia e la
doppia morale (tesi ripresa da Nietzsche). Esistono infatti due morali: una eroica, aristocratica e
guerriera, propria del popolo tedesco, e una che invece spinge all'amore e alla fratellanza nei
confronti di tutti. Gli ebrei seguono ipocritamente la seconda morale e cercano di imporla ovunque
tramite la democrazia in modo da limitare la potenza della razza ariana.
Secondo il pensiero politico di Rosenberg la sovranità appartiene al popolo e quindi alla razza, non
allo stato, e dunque l'organo principale per la realizzazione del proprio fine è il partito, vera
espressione del popolo. Lo stato non è mai un fine ma un mezzo attraverso cui il partito nazista
conduce il popolo tedesco alla posto che gli spetta di diritto. Per quanto riguarda l'organizzazione
del partito e della politica, Rosenberg elogia l'opera dell'eroe che sarà in grado di restituire onore e
potenza al popolo tedesco, ovvero Adolf Hitler, vertice del partito e dello stato. Nella sua teoria,
Hitler non è erede del re ma appare più come un sovrano primitivo in grado di incarnare la comunità
e in contatto con potenze invisibili e soprannaturali che gli danno la forza e le idee per completare il
destino della razza ariana. Dal punto di vista economico, lo stato deve essere sociale per contrastare
il capitalismo finanziario in mano agli ebrei ma mai egualitario.

Adolf Hitler (1889-1945) nel Mein Kampf si preoccupa di fondare il razzismo su basi biologiche e
non filosofiche o mitiche. Basta osservare la natura per rendersi conto che ogni animale si accoppia
solo con membri della sua specie e questa è una legge naturale, comprovata dal fatto che, nel caso
di accoppiamenti interpsecie, la natura si difende generando individui estremamente deboli. La
debolezza degli individui nati da accoppiamenti interspecie deriva dal fatto che il proprio valore è la
media dei valori estremamente diseguali dei genitori. Quando infatti membri della stessa razza si
accoppiano, il prodotto sarà un individuo ugualmente o maggiormente forte rispetto ai genitori. Per
queste leggi naturali e biologiche non deve essere consentito l'accoppiamento tra membri di una
razza superiore e quelli di una inferiore, dato che altrimenti si viene ad invertire il processo di
miglioramento insito nella natura. Secondo Hitler gli ebrei, razza inferiore, sono i colpevoli di ogni
debolezza osservabile nella razza ariana: mescolandosi alle razze superiori, hanno dato vita alla
democrazia e hanno causato la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale.
L'intero programma politico è volto al miglioramento della razza ariana e alla preservazione della
sua purezza (punto fondamentale è la cura di corpo e mente dei tedeschi); per fare questo bisogna
mantenere l'unità del popolo tedesco e dunque creare un partito unico e uno stato senza opposizioni
guidato da un uomo solo. La persona al vertice dello stato detiene tutto il potere in virtù del fine
supremo della supremazia ariana e germanica; gli uomini che lo aiutano sono solo suoi delegati e
hanno funzione esclusivamente consultiva, senza alcun potere decisionale reale. Il partito deve
avere la funzione di collegamento e di mediazione tra capo e popolo, mentre lo stato è solo uno
strumento per nazionalizzare le masse, ovvero riunire tutti i tedeschi e porli al posto di guida
dell'umanità che spetta loro per natura.

Adolf Hitler e il Mein Kampf secondo lo Chevallier


Il Mein Kampf è una autobiografia che si propone di mostrare la storia delle idee che hanno portato
alla fondazione del partito nazionalsocialista tedesco: nato a Branau, Hitler viene instradato al
nazionalismo fin dalla giovane età, grazie ad un professore di storia che gli insegna come l'Austria
abbia tradito il germanesimo e alle sue esperienze a Vienna, dove incontra soprattutto non-tedeschi
dalla vita decisamente migliore della sua. A Vienna lavora e prende contatto con degli operai
socialdemocratici che vorrebbero farlo entrare nel sindacato ma Hitler è disgustato dagli insulti
verso tutto quello che ha sempre reputato “sacro”, ovvero la Patria, la Nazione, le leggi, la scuola, la
religione. Prova a discutere con gli operai che però lo minacciano e allora impara due lezioni
importanti: in politica trionfa il più forte e il terrore che si sta sviluppando nelle fabbriche deve
essere contrastato da un altro terrore uguale. Hitler comincia a studiare i testi dei socialisti e ritiene
che siano oscuri, che nascondano qualcosa, un piano malvagio che va al di là del materialismo e
della dialettica; si illumina finalmente: sono ebrei tutti gli autori e i capi socialdemocratici, l'ebreo è
colui che comanda la socialdemocrazia, non sono gli operai i colpevoli, sono gli ebrei che hanno
annebbiato le loro menti. Vienna ha già rivelato ad Hitler due nemici del popolo tedesco, ovvero
marxismo e giudaismo; se ne aggiunge presto un terzo, il parlamentarismo: la regola della decisione
della maggioranza uccide ogni nozione di responsabilità e va contro il principio aristocratico della
natura: è infatti difficile che le masse eleggano un vero uomo di stato quando serve ed è chiaro a
chiunque studi storia che le azioni straordinarie sono sempre azioni individuali. I due partiti che
Hitler preferisce sono il partito cristiano-sociale, che comprende l'importanza della questione
operaia ma disconosce la potenza dell'idea nazionalista, e il partito nazional-tedesco, che al
contrario non era abbastanza sociale per parlare alle masse e strapparle al marxismo. Nel 1912
abbandona Vienna con le sue idee politiche e si stabilisce a Monaco; allo scoppio della guerra è
entusiasta del patriottismo delle masse operaie, che abbandonano l'internazionalismo e i loro
dirigenti ebrei. La fine della guerra vede le rivolte degli operai e dei comunisti, l'abdicazione di
Guglielmo II e la fine dell'Impero tedesco: Hitler è distrutto da questi fatti che rinnovano il suo odio
verso gli ebrei comunisti, ai quali il kaiser aveva teso la mano e dai quali era stato pugnalato alle
spalle nel momento del bisogno. Organizza allora il partito nazionalsocialista con altri delusi e tenta
il colpo di Stato a Monaco, ma viene arrestato e incarcerato.
La seconda parte del Mein Kampf presenta la teoria di Hitler in forma organica, non più come la si
poteva intuire dall'autobiografia che componeva la prima parte. Il programma prevede la
rigenerazione razziale, la divisione tra tedeschi e non-tedeschi, l'obbligo dell'educazione fisica, la
riforma del sistema di insegnamento, la denuncia della corruzione parlamentare e dello spirito
ebraico-materialista che pervade il mondo tedesco, la centralizzazione del Reich e l'affermazione di
un cristianesimo positivo. Sul piano della politica estera invece gli obiettivi fondamentali erano la
riunione di tutti i tedeschi in una Grande Germania, la soppressione delle catene imposte alla
Germania dal Trattato di Versailles e la restituzione delle colonie tedesche. Sul piano sociale invece
il programma voleva proteggere la classe media, favorendo i piccoli negozi e i piccoli artigiani o
l'industria di stato. Questo era il programma già presentato nel 1920 e riproposto nel Mein Kampf,
integrato però dalla presentazione della Weltanschauung che guidava Hitler, ovvero il razzismo su
base biologica: esistono delle razze all'interno della specie umana che non devono mescolarsi tra di
loro, pena la perdita di purezza della superiore razza tedesca e ariana. Il partito nazionalsocialista,
conscio di questo, deve forgiare uno Stato etico, antiparlamentare e antipartitico, fondato sulla guida
mistica del Capo e mosso da un partito unico che faccia da intermediario tra le masse e il Capo. Lo
Stato non è che un apparato, uno strumento per affermare la razza superiore e difenderla, ma per
farlo deve essere in mano a uomini consapevoli di questa missione. La missione dello Stato si
svolge su due piani: sul piano interno deve migliorare e conservare la razza di cui è espressione,
vigilando quindi affinché cessi ogni incrocio razziale; lo stato razzista dispone di due mezzi per fare
ciò, ovvero la propaganda e l'educazione. La propaganda di un popolo che lotta per la propria
esistenza non deve preoccuparsi di alcuna umanità o buona fede intellettuale, deve essere un mezzo
per uno scopo altissimo, ovvero la conservazione della razza superiore. La propaganda deve
rivolgersi alle masse, adattare i suoi argomenti ai più semplici e parlare ai sentimenti tramite la
volontà e la forza. L'educazione deve avere invece come primo obbiettivo lo sviluppo fisico, poi la
formazione del carattere e infine la cultura delle facoltà intellettuali: il Reich ha bisogno di
combattenti, non di intellettuali, ma tutti devono conoscere cosa sia la purezza del sangue.
L'educazione deve costruire un tedesco vero, convinto della superiorità assoluta dei tedeschi sugli
altri popoli e della necessità di una giustizia sociale all'interno della propria nazione; il fine è che
uno spazzino si senta più onorato di essere cittadino del Reich che di essere re in un paese
straniero. All'interno della comunità nazionale deve però essere chiaro che il criterio non è più la
maggioranza ma la personalità e che non sia assolutamente vero il motto ebraico-marxista “ogni
uomo vale un altro”.
La missione dello Stato sul piano esterno deve essere volta a colpire la Francia, vera nemica della
Germania, cercando l'aiuto di Italia e Inghilterra, possibili rivali della nazione francese. La Francia è
infatti quel paese dove il governo è già segretamente d'accordo con i vertici ebraici per cancellare la
Germania e la razza ariana dalla Terra. La Francia è solo uno degli obiettivi, un altro e il più
importante è la conquista del Lebensraum, dello spazio vitale: l'annientamento della Francia è solo
l'inizio in vista dell'estensione dell'insediamento tedesco verso l'Est, verso la Russia bolscevica,
altra nemica della razza ariana.

Fascismo
Una questione interessante da porsi su cui si è divisa la critica è se il fascismo sia stato un regime
totalitario: sicuramente condivide molti tratti del nazismo ma non è stato del tutto totalitario. Vi è
sempre stata una dualità formale di poteri e inoltre vi sono stati luoghi e istituzioni in cui il fascismo
non è riuscito a penetrare: tutto ciò che era sotto il controllo ecclesiastico per esempio fu
indipendente dalle decisioni del governo fascista. Il fascismo riprende i grandi momenti della storia
italiana, in particolare la Roma imperiale, per giustificare la propria missione, ovvero rendere lo
stato italiano nuovamente forte e prestigioso. Nel 1932 Benito Mussolini e altri teorici del fascismo
compongono la voce Dottrina del fascismo per l'enciclopedia Treccani: il fascismo nacque nel 1919
come volontà di azione e di movimento e non ebbe una propria dottrina politica stabilita; nel 1921
venne poi chiarita l'indeterminatezza ideologica del fascismo, il che vuol dire che si sceglie di volta
in volta l'ideologia più comoda per raggiungere il fine supremo dello stato.
Il programma politico del 1919 è radicalmente democratico e propone il suffragio universale (anche
femminile), l'abbassamento della maggiore età, l'istituzione del voto proporzionale, l'abolizione del
senato di nomina regia e addirittura la formazione di una assemblea costituente eletta dal popolo
che scelga tra repubblica e monarchia. Una volta che il fascismo comincia a trovare appoggi nelle
classi più abbienti e nobiliari, i richiami alla democrazia si attenuano fino a svanire del tutto dopo la
presa del potere politico. Si sostituisce alla democrazia radicale la critica del pensiero reazionario
all'egualitarismo politico e allo stesso regime democratico.
Lo stato fascista deve essere rafforzato in modo da essere il sommo custode della nazione e da
educare il popolo alle virtù civili, che comprendono anche il patriottismo, il coraggio e l'obbedienza
in modo da preparare gli italiani alla guerra. Secondo Mussolini la guerra è un fatto esistenziale
inevitabile, poiché i trattati di pace tra le nazioni liberali non sono eterni: la guerra è la
continuazione dell'azione politica e serve ad affermare il prestigio dell'Italia in Europa.
La teoria delle forme di governo di Norberto Bobbio
Uno dei temi principali e di maggior interesse affrontati da Bobbio nel suo studio è la distinzione tra
i termini “tirannia”, “dispotismo” e “dittatura”, che spesso nel dibattito pubblico vengono usati
erroneamente come sinonimi. Una prima distinzione da fare è quella etimologica: tirannia e
dispotismo sono provenienti dalla tradizione greca, mentre dittatura è un termine romano. Tutte e tre
sono cariche monocratiche e detengono poteri straordinari ma si distinguono in base alla loro
legittimità e alla temporaneità: la dittatura è legittima e temporanea, poiché risponde ad una
necessità contingente; il dispotismo è legittimo (spesso si tratta di una legittimità legata alla storia e
al luogo in cui si forma) ma ha durata indefinita; la tirannia è invece totalmente illegittima e non è
necessaria a risolvere una crisi.

Il dictator era una carica istituzionale e ben definita prevista dall'ordinamento della Repubblica
romana: in caso di stretta necessità i cittadini romani eleggevano un dittatore che aveva l'incarico di
risolvere la crisi e che per questo motivo deteneva poteri straordinari per soli sei mesi, dopodiché
veniva deposto. Nel XXIV capitolo dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio Machiavelli
analizza la figura del dittatore e polemizza con coloro che sostenevano che la dittatura romana fosse
stata causa della tirannia che l’ha seguita: per il fiorentino la colpa della tirannia è da imputare ai
singoli individui che hanno prolungato la dittatura oltre il termine prestabilito dalla legge.
Istituzionalmente il dittatore non poteva far nulla in “diminuzione dello stato”, ovvero doveva
esercitare solamente il potere esecutivo e mai quello legislativo, in modo che non potesse mai
modificare la costituzione dello Stato. La mancanza di un potere sovrano e la temporaneità della
carica produsse in molti autori un giudizio positivo verso la dittatura.
Bodin definisce la dittatura una “commissione per un fine”, insistendo sul fatto che sia la necessità a
generare la dittatura, che però rimane limitata nella durata e nei poteri, avendo al massimo facoltà di
sospendere le leggi e mai di modificarle. Al concetto di dittatura Rousseau dedica un capitolo intero
del Contratto sociale e la considera come una delega a qualcuno di un potere particolare in una
situazione straordinaria. Per Rousseau il dittatore può detenere solo il potere esecutivo dato che il
legislativo appartiene alla volontà generale ma deve essergli concessa la facoltà di fare tutto (tranne
modificare le leggi) per risolvere la crisi contingente. Importante misura anti-tirannica secondo
Rousseau è quella di definire in anticipo la durata della carica e di non concedere alcun modo
tramite cui prolungarla.
Partendo dalla definizione di Bodin, il politologo tedesco Karl Schmidt ha distinto la dittatura in
“dittatura commissaria”, che è quella tradizionale di tipo romano, e “dittatura sovrana”, che invece
nasce con la Rivoluzione francese. La prima sospende la costituzione per difendere la costituzione
stessa; la dittatura sovrana invece mira a risolvere una crisi più complessa insita all'interno dello
stesso sistema politico e quindi deve eliminare la vecchia costituzione per imporne una nuova. In
questo secondo caso la dittatura deve detenere un potere sovrano che comprenda anche il
legislativo. Anche la dittatura sovrana dovrebbe essere temporanea (dovrebbe durare il tempo
necessario a scrivere e rendere effettiva la nuova costituzione) ma, siccome il compito che deve
svolgere è molto complesso, la durata è spesso indefinita. Rimane quindi una certa continuità tra i
due tipi di dittatura, ovvero la crisi in cui nasce e la temporaneità della carica, ma anche due
differenze significative: i poteri di una dittatura sovrana sono ampliati e spesso la dittatura sovrana
si auto-investe di questi poteri.
Anche altri rivoluzionari, come Buonarroti o Mazzini, ritengono che spesso sia necessaria una
dittatura militare che avrebbe infine ceduto il proprio potere dopo aver portato a compimento la
rivoluzione. La dittatura sovrana perde spesso il carattere monocratico, dato che il potere è spesso
detenuto da un gruppo di persone; nel XVIII secolo Marx teorizza un nuovo tipo di dittatura, ovvero
quella di una intera classe: la dittatura del proletariato, che è sovrana e limitata nel tempo dal fine
dell'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione.

Per Bobbio è molto difficile distinguere tra le due dittature che Schmidt evidenzia e sostiene che la
dittatura sovrana sia la stessa forma di potere che gli autori classici avrebbero definito “tirannia”. La
tirannia infatti prevede, nella sua forma classica, un uomo o un gruppo di uomini che si appropriano
di un potere superiore a quello che gli spetta. Platone ne parla come della peggiore forma di
governo, sottolineando il fatto che il tiranno è un uomo violento e senza freni; nel Politico vengono
nominate tre giuste forme di governo (monarchia, aristocrazia e democrazia) e le loro degenerazioni
(rispettivamente, tirannide, oligarchia, democrazia corrotta). Le buone forme di governo si
impongono grazie al consenso, sono dunque legittime e operano legalmente; le forme degenerate si
impongono e operano con la violenza e in modo arbitrario. Per Aristotele, che ripropone le stesse
forme e la stessa graduatoria, la distinzione è dovuta al fatto che il governa segua o meno l'interesse
pubblico. Secondo Aristotele infatti il potere politico ha questa caratteristica, lo svolgersi
nell'interesse della comunità intera, che lo distingue dal potere padronale (nell'interesse del padrone)
e da quello paterno (nell'interesse dei figli). Le forme degenerate di governo sono quelle che non
agiscono nell'interesse della comunità ma solo di una minoranza, portando così la distinzione non
soltanto sul chi governa ma anche sul come si governo.
Nel trattare la monarchia Aristotele parla anche del dispotismo, sostenendo che sia una forma di
governo tipicamente orientale: in Asia gli uomini sono più servili e per questo danno il loro
consenso ad un uomo che governa come fa il padrone sugli schiavi ma che rimane, almeno agli
occhi degli orientali, legittimo.
Nel medioevo la tirannide, ovvero il governo di qualcuno che ha conquistato il potere con la forza e
lo esercita contro alla morale comune cristiana, diventa un tema centrale. Bartolo da Sassoferrato
nel XIV secolo distingue tra due modi di essere tiranno: il governante legittimo che si comporta con
violenza e invece colui che conquista il potere in modo violento senza avere alcun diritto ad
esercitarlo. Sempre nel XIV secolo, Coluccio Salutati riprende una classificazione operata da San
Tommaso e riconducibile ad Aristotele per distinguere tra tre modi che un principe ha per esercitare
il potere. Un governo può essere principatus regius, dove il re governa come un padre sui figli,
ovvero nell'interesse dei sudditi, principatus politicus, dove il re governa come il marito sulla
moglie, ovvero nell'interesse di entrambi, oppure principatus dispoticus, dove il re governa come il
padrone sugli schiavi, nel proprio interesse. Tiranno è colui che conquista territori con la forza delle
armi e non detiene alcun diritto a governarli, ma anche colui che esercita un legittimo potere
violando le leggi, operando arbitrariamente e commettendo violenza ai sudditi.
Nella prima parte del Principe, descrivendo le forme dei nuovi principati, Machiavelli parla anche
di coloro che si appropriano del potere con atti scellerati e definisce costoro “tiranni”; sebbene si
sottolinei come questi siano violenti e crudeli, Machiavelli non considera la tirannia un termine
associato ad un giudizio negativo di ordine morale, dato che l'unico criterio con cui valutare la
bontà della politica è il successo. Per Machiavelli dunque sono buoni tiranni coloro che riescono a
mantenere il proprio potere.
Per Bodin, l'inventore della distinzione tra sovranità e governo, tra titolarità ed esercizio di governo,
solo le forme di governo possono essere degenerate: in questo modo una monarchia, sempre
legittima, può essere regia, dove il re obbedisce sempre alle leggi di natura, dispotica, quando il re
si fa signore delle persone e delle cose per diritto d'armi, oppure tirannica, quando il re calpesta le
leggi di natura e abusa dei sudditi come se fossero schiavi. Allo stesso modo anche democrazie e
aristocrazie possono essere legittime, dispotiche o tiranniche. La distinzione tra monarchia dispotica
e monarchia tirannica è data dal fatto che la prima è considerata legittima grazie al diritto che deriva
dalla vittoria in una guerra giusta, mentre la tirannia è totalmente illegittima. Bodin parla anche di
“dispotismo coloniale”, ovvero quello esercitato dai conquistatori sulle popolazioni indigene
dell'America: esistono popoli naturalmente servili che si governano già tramite il dispotismo (come
facevano gli orientali per Aristotele) e che quindi sono abituati al governo dispotico da parte degli
europei.
Per Montesquieu esistono solo tre forme di governo, che si distinguono in base a chi detiene il
potere e a come lo si esercita: governo repubblicano, dove il potere è condiviso (sia aristocrazia che
democrazia), governo monarchico, dove governa uno solo seguendo le leggi, e governo dispotico,
dove governa uno solo senza leggi o freni. Le prime due forme di governo si rifanno alla distinzione
di Machiavelli basata sul numero, mentre monarchia e dispotismo si distinguono per come viene
esercitato il potere: Montesquieu parla del dispotismo come i medievali parlavano del tiranno
titolato, ovvero si di un governo legittimo esercitato in modo scorretto e illegale. Montesquieu
dedica gran parte del suo Spirito delle leggi ad analizzare questa forma di potere a sé stante che è il
dispotismo e ne mette in luce tutti gli elementi che lo facilitano, compresi clima, morfologia ed
estensione della regione, tipo di leggi tradizionali, carattere degli abitanti e religione maggioritaria
della popolazione.
Sempre sotto l'illuminismo il dispotismo comincia ad avere una connotazione positiva nella forma
del dispotismo illuminato, tesi elaborata e sostenuta da moltissimi fisiocratici. Per questi filosofi il
dominio da cui gli uomini dovrebbero lasciarsi guidare è esclusivamente quello delle leggi di natura
che la ragione ci permette di svelare, ma gli uomini sono stati corrotti da pregiudizi, soprattutto di
ordine religioso, dimenticando le leggi naturali e sostituendole con leggi positive. Per correggere
questa tendenza basta un solo principe illuminato con il compito di mettere in pratica le leggi della
natura e che detenga tutto il potere esecutivo; il despota illuminato infatti non ha bisogno di scrivere
le leggi perché è la natura a detenere il potere legislativo. Dupont de Nemours polemizza con
Montesquieu e la sua divisione dei poteri, sostenendo che basta una autorità unica che applichi le
leggi e lasci libere le persone, dato che il compito dello stato è “vegliare su tutti mentre ciascuno si
occupa dei suoi affari”. Una delle opere più famose del dispotismo illuminato è quella di Lemercier
de La Riviere che spiega come il buon governo sia dato dalla chiarezza e dalla evidenza, che ci
possono essere solo dove vi è un solo sovrano. Deve dunque esistere un solo potere, che deve essere
dispotico senza aver timore del termine, che fino a quel momento aveva caratterizzato governi
autoritari, violenti
Hegel si interessa alla costituzione di uno stato, ovvero la determinazione prima che segna il
passaggio da una idea astratta alla sua forma concreta; secondo Hegel, la costituzione è un
passaggio storico che trasporta l'uomo dalla sfrenatezza della natura alla libertà garantita dalle
istituzioni, attraverso un percorso di educazione e un progresso delle forme di governo. Dal
dispotismo orientale, dove uno solo è libero, si passa al mondo ellenico, dove parte della
popolazione è libera, e infine si giunge alla monarchia occidentale, dove è presente la società civile,
articolata in sfere autonome e libera sotto il legittimo governo del sovrano.
La democrazia secondo Mazzini
Giuseppe Mazzini (1805-1872) nasce a Genova da un padre che si era occupato di politica
all'interno della neonata Repubblica Ligure per appena tre anni e da una madre molto religiosa e
fervente giansenista, critica nei confronti delle gerarchia. Studia giurisprudenza e nel 1827 si laurea
anche se è molto attratto dalla letteratura e dal dibattito tra neoclassicismo e romanticismo, tra cui
predilige l'ultimo. Nel 1829 pubblica il suo primo articolo in cui declina il romanticismo in senso
politico e specificatamente democratico, con cui si attira gli interessi benevoli della carboneria
genovese in cui entra, nonostante la sua critica agli aspetti misteriosi e rituali della carboneria che
allontanano il popolo. Nel 1831 viene arrestato ed esiliato a Marsiglia dove fonda la Giovine Italia,
una associazione che riunisce tutti coloro che desiderano l'unità italiana e una radicale
trasformazione politica in senso democratico. Nella presentazione del suo programma politico
Mazzini si dimostra fortemente contrario alla tesi del giusto mezzo e del compromesso con le forze
governative monarchiche. Il pensiero politico di Mazzini prevede l'istituzione repubblicana, unica in
grado di rendere gli uomini liberi, uguali e fratelli, e il rapporto costante con il popolo: sono
necessari intellettuali che educhino il popolo e lo avvicinino alla causa politica, nazionale e
repubblicana di cui deve essere protagonista. Per questo motivo Mazzini sostiene il suffragio
universale, concesso a uomini e donne, e prospetta una sorta di politica spirituale che si basi sulla
completa dedizione di ogni individuo alla comune causa politica (volontarismo) e sul
riconoscimento della presenza di Dio nella storia come motore di un inevitabile progresso.
Fallito un primo moto di insurrezione organizzato in Savoia, Mazzini si rifugia in Svizzera dove a
Berna fonda nel 1834 la Giovane Europa, in accordo con altri rivoluzionari europei, che ha il
compito di riunire i giovani intellettuali in grado di educare il popolo e di guidarlo al rinnovamento
politico, sociale ed economico, creando così una “Europa di popoli e non di re”.
Nel 1837 si trasferisce invece a Londra dove rifonda la Giovine Italia ed entra in competizione con i
democratici di destra, più moderati e inclini alla collaborazione con le monarchie pur di ottenere
l'unità d'Italia. In Inghilterra cerca di attirare nel suo progetto il movimento cartista, che chiede
suffragio universale, segretezza del voto, indennità parlamentare e diritti per i lavoratori; i cartisti si
ispirano molto al pensiero di Robert Owen e ritengono che la rivoluzione debba essere politica e
sociale. Mazzini cerca di attirare a sé l'ala più moderata del movimento cartista, guidata da William
Lovett, nello stesso momento in cui Marx ed Engels cercano l'appoggio del cartismo più radicale,
guidato da Feargus O' Connor.
Durante il biennio rivoluzionario 1848-1849 Mazzini è molto attivo ma continua a cambiare il
proprio progetto pratico di fronte alle circostanze: durante le cinque giornate di Milano sostiene la
necessità della guerra contro l'Austria e la priorità della liberazione e unificazione nazionale,
rimandando ad un momento successivo la costituzione della Repubblica; in questo modo entra in
contrasto con il patriota milanese Carlo Cattaneo. Nel 1849 è nominato triumviro della Repubblica
romana e incita alla guerra di popolo per una liberazione dell'Italia contemporanea alla
democratizzazione e all'istituzione immediata di una repubblica per cancellare i possibili residui del
passato. Il biennio è deludente poiché i patrioti riportano sconfitte ovunque ma Mazzini è
soddisfatto nel constatare che il popolo sta assumendo coscienza politica e ha partecipato
attivamente ai moti. Nella sua riflessione Mazzini comincia però ad essere criticato da una sinistra
sempre più organizzata sotto l'egida marxiana, che gli rimprovera di essere schierato sulla stessa
posizione di Owen e quindi di sottovalutare la dimensione della lotta di classe, ritenendo possibile
la collaborazione tra borghesi e proletariato. Inoltre Mazzini è minacciato anche da destra, dato che
la strategia pragmatica del Conte di Cavour comincia ad apparire decisamente più efficace per
ottenere l'unità d'Italia. Nel 1859, alle porte della seconda guerra di indipendenza, Mazzini critica
Cavour e, temendo che la guerra si trasformi in una guerra tra sovrani, esorta i repubblicani a non
prendervi parte; di fronte però allo scontro con l'Austria e alla concreta possibilità di liberare l'Italia
è costretto, pur di non perdere l'appoggio del suo stesso schieramento, a concedere un nulla osta.
Chiede però ai patrioti repubblicani di fomentare moti insurrezionali in tutta Italia in modo da
portare il popolo al centro dell'azione politica. Dopo la guerra, vista la mancanza di Roma e Veneto,
Mazzini critica l'attendentismo del neonato governo italiano ma, allo scoppio della terza guerra di
indipendenza del 1866, si schiera da subito con Vittorio Emanuele a favore della guerra. In seguito
all'annessione del Veneto Mazzini riprende la propaganda politica e repubblicana e cerca di
organizzare altri moti per conquistare Roma e istituire la repubblica, ma ormai è privo del largo
consenso che aveva in precedenza. Il suo spiritualismo politico non convince più i giovani, più
attirati da positivismo e materialismo, e lo stesso movimento è ormai spaccato tra moderati, che
hanno accettato il gioco parlamentare del Regno d'Italia, e radicali, che sono entrati nei movimenti
comunisti, anarchici e socialisti. Con la dura critica mossa alla Comune di Parigi e alle violenze dei
proletari sui borghesi Mazzini perde il poco seguito che gli rimane: morirà nel 1872, privo ormai di
peso all'interno della sinistra extra-parlamentare, a Pisa sotto il falso nome di John Brown per
nascondersi alla condanna in contumacia inflittagli da diversi tribunali italiani.

I pensieri sulla democrazia


Nel periodo londinese, sicuramente il più prolifico della sua carriera, data la piena agibilità politica
e la grande autorità che detiene, Mazzini scrive i Pensieri sulla democrazia, ovvero otto articoli
pubblicati tra il 1846 e il 1847 sul People's Journal. Nelle idee di Mazzini gli articoli dovrebbero
andare a costituire la base per il manifesto di un ipotetico partito democratico e repubblicano esteso,
con un programma politico comune a tutta l'Europa. Il pensiero mazziniano ritiene che ogni nazione
realmente democratica debba essere una repubblica con un governo di rappresentanza eletto a
suffragio universale. Il popolo deve essere educato per fare emergere la coscienza politica che andrà
poi ad esprimere tramite le elezioni; il popolo deve eleggere anche una assemblea costituente per
scegliere da sé le istituzioni in cui organizzare la propria sovranità.
Il timore di Mazzini è che a parlare di democrazia il pubblico pensi immediatamente al
giacobinismo oppure alla democrazia instabile dei comuni italiani medievali; per questo motivo
negli articoli si tratta della “democrazia del futuro” che si baserà su libertà, uguaglianza,
consapevolezza dei propri diritti e dei propri poteri, spiritualità e cooperazione fraterna e solidale.
Mazzini critica le diverse declinazioni di questi termini sia nella sinistra socialista e comunista sia
nella destra liberale, ritenendole troppo legate al materialismo, e cerca di definire cosa sia la reale
democrazia. I valori democratici vengono troppo spesso sbandierati senza coerenza e soprattutto
senza definirli correttamente e senza assegnare loro il giusto peso: la democrazia non può
coincidere con la libertà individuale come proposta dai liberali poiché si deve guardare al bene della
comunità. I diritti individuali sono importantissimi e necessari ma non devono essere gli unici ad
essere salvaguardati per ottenere una democrazia reale; per questo motivo serve anche una autorità
che permetta la libertà. L'autorità deve provenire dal basso, in modo che sia legittimata dal popolo,
e deve occuparsi di rendere effettive le libertà personali di tutti e di costruire l'unità, ovvero
eliminare le disuguaglianze di base che impediscono l'effettivo uso dei propri diritti. Lo Stato non è
quindi un male necessario, come ritengono i liberali, ma una istituzione necessaria con un compito
etico preciso, ovvero limitare gli egoismi personali ed educare il popolo.
Mazzini critica duramente tutte quelle visioni che pongono la libertà individuale al primo posto,
poiché ritiene che il fine della comunità sia la coesione sociale. In questa prospettiva si scaglia
contro l'utilitarismo di Jeremy Bentham e Mill padre e il liberalismo, poiché ritiene che questi
pensieri politici promuovano solo l'uguaglianza formale e non quella sostanziale. Secondo Mazzini
infatti non serve a niente dichiarare che tutti hanno uguali diritti se nella sostanza solo le classi
agiate sono in grado di esercitarli. Mazzini è dunque consapevole dell'esistenza di classi diverse ed
è critico nei confronti della borghesia liberale, ritenendola individualista ed egoista, ma non
condivide i sistemi sociali elaborati dai socialisti e dai comunisti. La sua critica è rivolta soprattutto
a Fourier e Saint-Simon, a cui rimprovera il non poter conciliare autoritarismo e democrazia e il non
avere principi etici e spirituali. Il comunismo invece viene criticato per la nuova sopraffazione che
viene esercitata dal proletariato sulla borghesia e quindi Mazzini teme il prevalere di egoismi di
classe.

 I articolo: per Mazzini la democrazia è un «moto di ascesa delle classi popolari che
vogliono partecipare alla vita politica»; non è prevista la sostituzione delle classi al potere
ma la semplice ridistribuzione di questo in modo uguale tra tutti, di modo che si possano
eleggere come governanti i “migliori e i più saggi”. La democrazia del futuro deve
estendersi a tutta Europa e compattare il fronte democratico, frantumato in numerose
ideologie e partiti che portano con sé ciascuno un pezzo di democrazia. È necessaria una
grande idea democratica che guidi il mondo e che non si limiti ad un solo aspetto
(istituzionale, politico, economico e sociale); per Mazzini la democrazia deve essere
“comunicativa”, dove tutti sono posti sullo stesso livello e danno il proprio contributo
culturale a migliorare gli altri.
 II articolo: Secondo Mazzini esistono due anime democratiche in Europa, una di sinistra che
si lega agli ambienti socialisti, e una di destra, più moderata e liberale; in questo articolo
Mazzini muove contro l'utilitarismo di Bentham e il liberalismo, riconoscendo l'importanza
delle battaglie per i diritti individuali ma sostenendo che queste non siano sufficienti a
costruire una società solidale e unita. Bisogna che tutti migliorino tutti e bisogna agire non
tanto per il popolo ma piuttosto con il popolo.
 III articolo: le due anime democratiche europee, socialismo e liberalismo, trovano un
terreno comune di incontro per la loro visione materialista, che ritiene che il progresso sia
solo economico, dimenticando la dimensione etica e spirituale della democrazia.
 IV articolo: la critica a Saint-Simon e allo stato tecnocratico è mossa dall'assunto che non si
debba calare dall'alto interventi per il popolo, poiché questo deve essere coinvolto
attivamente nell'azione politica per avere la reale democrazia. La società non va guidata
dall'alto ma si deve ordinare dal basso a partire dal popolo, che non può essere solo il
termine e il fine delle azioni politiche ma deve essere la fonte e lo strumento della politica.
 V articolo: Mazzini critica Fourier e il suo edonismo che ritiene limitante per la costruzione
di una società solidale e coesa, dato che si dedica solo alla soddisfazione del piacere
materiale e individuale. Fourier e Saint-Simon sono “creatori di utopie” che immaginano
una società dove il popolo non sia coinvolto: non basta rendere effettivi i diritti individuali e
pensare al benessere collettivo per costruire la democrazia, serve anche la reale
partecipazione del popolo.
 VI articolo: nell'articolo di critica al comunismo Mazzini prefigura con estrema precisione
quello che sarà il socialismo reale sovietico. Secondo Mazzini, si creerà uno stato autoritario
che sarà al tempo stesso produttore e distributore di ogni bene, annullando la volontà singola
degli individui; distribuire poi i beni “secondo i bisogni di tutti” necessita la costruzione di
una mostruosa macchina burocratica. Questa grande burocrazia sarà divisa necessariamente
in una classe dirigente con il potere di decidere tutto e una classe sottomessa, andando a
riproporre la situazione che il comunismo voleva abbattere.
 VII articolo: il concetto di “nazione” è imprescindibile per creare la democrazia, poiché la
nazione è la base aggregante della società e solo con le nazioni sarà possibile la fratellanza
trai popoli.
 VIII articolo: l'ultimo articolo è una risposta a due lettere di critica inviate al People's
Journal da fourieristi e comunisti; Mazzini coglie l'occasione per affermare nuovamente la
propria posizione politica. Si definisce dunque un democratico con il solo intento di
migliorare l'umanità basandosi su tre parole: “tradizione”, dato che per Mazzini è sbagliato e
inutile realizzare progetti completamente innovativi, “progresso” e “cooperazione”, intesa
tra uomini e nazioni liberi e uguali dal punto di vista morale e culturale, ma non economico.

Secondo Mazzini la democrazia è fortemente collegata all'educazione e all'istruzione, poiché per far
sentire la propria legittima voce il popolo deve essere educato a partecipare alla vita politica e alla
gestione della cosa pubblica. Punto cardine è infatti la partecipazione attiva alla politica e non la
mera delegazione delle scelte, poiché il progresso non è rappresentato dall'applicazione formale di
mezzi democratici. Per Mazzini “democrazia” significa volere che l'uomo migliori e cresca nelle
aspettative, ma per fare questo è necessario non soltanto concedergli i diritti politici ma anche
educarlo ad esercitarli. La democrazia conosciuta fino al momento in cui Mazzini scrive è una
democrazia fatta solamente di diritti formali che non permette realmente l'esercizio di questi ai ceti
subalterni. Una vera democrazia necessita che tutti siano uguali e ha bisogno per fare questo di una
autorità centrale riconosciuta da tutti che regoli la vita dei cittadini; il mezzo privilegiato per
costituire questa autorità è la rivoluzione, che permette a tutti di scegliere liberamente la forma
politica migliore e che costruisce una nuova società, unita e priva di distinzioni di classe. Questo
ragionamento pone Mazzini in netta contrapposizione con il pensiero assolutista, comunista e
socialista, ovvero tutte quelle ideologie che dividono la società in classi contrapposte, cosa che per
Mazzini non è assolutamente vera.
La libertà è, secondo Mazzini, un mezzo per raggiungere il vero fine della politica, ovvero il
miglioramento dell'uomo; la democrazia è la forma di governo dove si esprimono maggiormente le
libertà umane e che quindi riceve i consensi di Mazzini. Le rivoluzioni borghesi hanno spinto la
società verso la democrazia ma hanno compiuto un errore fondamentale a cui bisogna porre
rimedio: si sono infatti arrestate al riconoscimento dei bisogni della classe borghese, riconoscendo
libertà formale a tutti ma sostanziale solo per i borghesi. Cosa sono infatti i diritti per chi non ha
modo di accedervi, si chiede Mazzini.

Per questa visione molto radicale Mazzini entra in contrasto con molte filosofie politiche
democratiche a lui contemporanee. Critica fortemente l'utilitarismo di Jeremy Bentham, a cui molti
democratici stanno dando consenso, poiché ritiene che il mondo non si può trasformare solo sulla
base di interesse e piacere, dato che una trasformazione radicale richiede spesso grandi sacrifici.
Inoltre accusa le dottrine di Saint-Simon di voler calare dall'alto le riforme per le classi subalterne
senza però coinvolgerle; questo atteggiamento è profondamente sbagliato: non si può e non si deve
riformare la società senza coinvolgere direttamente tutti, non si deve fare tutto per il popolo, ma si
deve fare tutto per e attraverso il popolo. È dunque necessario coinvolgere il popolo attraverso il
metodo democratico e in particolare il suffragio universale, dato che il popolo vuole essere educato
ma non da guardiani autoritari privi di consenso.
È interessante la critica profetica che Mazzini rivolge alla società comunista, che necessariamente
dovrà elaborare una burocrazia estremamente complessa per definire e gestire meriti e bisogni di
ciascun individuo. L'organismo burocratico diventerà quindi uno strumento di comando assoluto
sulla popolazione, trasformando dunque il governo in una dittatura.
Il manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels
Karl Marx nasce nel 1818 a Treviri e la sua istruzione filosofica prende fin da subito una piega
nettamente materialista, pur formandosi e rimanendo all'interno della giovane sinistra hegeliana.
All'inizio degli anni '40 Marx lavora come redattore all'interno di una rivista liberale tedesca di
orientamento democratico e si interroga sul pensiero socialista francese che si sta diffondendo in
Europa; la rivista verrà chiusa dal governo prussiano e Marx comincia a pubblicare riflessioni sui
problemi politici e istituzionali della società moderna, corredandole con analisi storiche e
scientifiche basate sui primi accenni di materialismo storico. Nel 1843 Marx viene allontanato dalle
Prussia e si reca a Parigi, dove può assistere al grande sviluppo industriale francese e al conseguente
peggioramento delle condizioni di vita del proletariato (termine che sviluppa proprio in questi anni),
il quale però comincia ad organizzarsi per proteste e scioperi. Nel 1844 conosce Friedrich Engels,
figlio di ricchi imprenditori tessili tedeschi che conosce bene il mondo industriale inglese, e inizia a
collaborare con lui. La collaborazione con un giornale di emigrati politici tedeschi costa però a
Marx l'espulsione dalla Francia: si reca a Bruxelles dove, raggiunto da Engels, comincia ad
organizzare una fitta rete di militanti politici comunisti, che cerca di operare in senso internazionale.
Il biennio 45-46, in cui visita anche Londra, è fondamentale per Marx poiché lo mette in contatto
con il mondo progressista e gli fa abbandonare definitivamente Hegel in favore di una concezione
materialistica della storia e del mondo. Nel febbraio del 1847 Marx ed Engels aderiscono alla Lega
dei giusti, nata a Parigi da operai tedeschi emigrati e ora influente in molti paesi europei; lo stesso
anno, sotto l'influenza di Marx ed Engels, la lega si trasferisce a Londra e viene rinominata Lega
dei comunisti. Il mutamento non è solo formale ma anche sostanziale: viene data una maggiore
struttura organizzativa, il programma diventa più rivoluzionario e comunista, il motto passa da tutti
gli uomini sono fratelli a proletari di tutto il mondo unitevi, lo scopo della Lega diventa
dichiaratamente l'abbattimento della borghesia, il dominio del proletariato e una nuova società
senza classi e senza proprietà privata.
Nonostante la nuova organizzazione e la stesura del Manifesto del partito comunista, la Lega non si
trasforma in quel grande partito rivoluzionario che Marx sperava e pertanto, nel 1852, si scioglie.
Nel frattempo Marx si ormai stabilito definitivamente a Londra, dove continua gli studi e la stesura
del Capitale, abbandonando temporaneamente la pratica politica; nel 1867, alla pubblicazione del I
libro del Capitale, Marx fonda la Lega internazionale dei lavoratori, con cui riprende l'attività
politica.

Il Manifesto viene scritto tra dicembre 1847 e febbraio 1848, prima dello scoppio della Primavera
dei popoli, e viene pubblicato come breve articolo sul Deutsche Londoner Zeitung, accompagnato
dalla promessa di tradurlo in altre lingue europee per fargli raggiungere la diffusione necessaria.
L'articolo viene ripubblicato anonimamente fino al 1850, anno in cui Marx ed Engels lo pubblicano
in inglese sulla rivista Red Republicans firmandosi. Il Manifesto del partito comunista viene
continuamente ripubblicato durante il XIX secolo, accompagnato da diverse prefazioni a seconda
degli avvenimenti più recenti o della traduzione di quella specifica edizione. Le più importanti
prefazioni sono le seguenti:
 Prefazione all'edizione tedesca del 1872: Marx ed Engels ripubblicano il Manifesto l'anno
successivo all'esperienza della Comune di Parigi, spiegando come le idee contenute
nell'opera siano sempre valide e attuali. Alla luce della Comune parigina si deve però
correggere la sezione del Manifesto relativa alla pratica rivoluzionaria, poiché la Comune ha
dimostrato alcuni errori nella tempistica prevista da Marx e soprattutto ha dimostrato come
non ci si possa semplicemente impadronire della macchina statale e usarla ai fini del
proletariato. La Comune dimostra che la macchina statale borghese è troppo corrotta e che
quindi è necessario distruggerla e crearne una nuova adatta alle esigenze del proletariato.
 Prefazione all'edizione russa del 1882: la prima edizione russa è una traduzione del
Manifesto del 1860 stesa da Bakunin, ancora in buoni rapporti con Marx ed Engels; la
prefazione si concentra sulla crescente importanza all'interno della lotta di classe di due
paesi mai citati nelle opere di Marx fino ad ora: la Russia e gli Stati Uniti. Negli Stati Uniti
infatti l'industrializzazione crescente sta creando un boom capitalistico di dimensioni mai
viste prime, che porta con sé un numero sempre crescente di proletari. La stessa cosa sta
accadendo in Russia, che improvvisa si ritrova piene di operai proletari pronti ad ingrossare
le fila della lotta di classe. La prefazione è firmata solo da Engels, che ricorda l'amico Marx
appena morto, e ribadisce la grande validità ed attualità dei suoi lavori.
 Prefazione all'edizione del 1° maggio 1890: in questa prefazione Engels celebra le
manifestazioni dei lavoratori che da alcuni anni si tengono in questo giorno in diversi paesi e
che mostrano la forza del proletariato, unito e pronto a lottare per la rivoluzione. Engels
spiega dunque che merito di questa organizzazione internazionale è dovuto proprio al
Manifesto, che viene letto in tutto il mondo e che fa da base comune per i partiti e i
sindacati.
 Prefazione all'edizione italiana del 1893: la prima edizione italiana del Manifesto è stampata
nel 1893, in una traduzione stesa dall'avvocato e agitatore anarchico Pietro Gori. In Italia la
tradizione marxiana arriva molto tardi rispetto agli altri paesi europei e solo attraverso la
mediazione delle organizzazioni anarchiche, molto più influenti in Italia rispetto a quelle
comuniste. Anche quando le opere di Marx arrivano in Italia si diffondono e diventano
oggetto di dibattito solo all'interno della élite intellettuale italiana, mentre i ceti più bassi
preferiscono gli slogan semplici e diretti degli agitatori. Nella prefazione Engels parla del
Risorgimento, spiegando come sia stato un passo necessario nella storia della lotta di classe
italiana: il Risorgimento corrisponde alla tappa borghese della rivoluzione ed è solo dopo di
esso che si può parlare di capitalismo in Italia.

Nonostante le numerose diverse prefazioni, il testo del Manifesto è rimasto sempre uguale nelle
varie edizioni; è composto da un celeberrimo prologo e quattro capitoli: Borghesi e proletari;
Proletari e comunisti; Letteratura socialista e comunista; Posizione dei comunisti di fronte ai
diversi partiti d'opposizione. Il prologo spiega come a metà XIX secolo sia ormai chiara
l'importanza del comunismo, che si sta diffondendo per tutta Europa e contro cui tutte le potenze
europee si stanno alleando. Nel momento in cui ormai tutte le potenze europee riconoscono il
comunismo come potenza loro pari, è tempo di esporre apertamente il modo di vere, gli scopi e le
tendenze dei comunisti così da sostituire alla fiaba dello spettro del comunismo, un vero e proprio
manifesto del partito.
Il primo capitolo del Manifesto riassume la teoria del materialismo storico e della lotta di classe
come base della realtà storica, sottolineando come l'opposizione tra borghesia e proletariato sia
l'ultimo antagonismo rimasto nei tempi moderni. In epoca antica la lotta di classe era molto più
articolata e sfumata ma ora, grazie alla progressione economica e politica della borghesia, i
contendenti sono rimasti solo due. Viene dunque tracciata una sorta di storia economica della
trasformazione da società feudale a società borghese: la rapida espansione del mercato tramite le
scoperte geografiche compiute all'interno della società feudale rese insufficiente la produzione
dell'organizzazione feudale o corporativa e dunque nacque la manifattura; la continua crescita dei
mercati richiese però lo sviluppo della manifattura in industria. Marx ed Engels compiono un vero e
proprio elogio del ruolo rivoluzionario che ha avuto la borghesia, la quale ha rivoluzionato
l'economia e la politica e dunque ha cambiato completamente il mondo. Da ceto oppresso sotto il
dominio dei signori feudali, la borghesia ha distrutto il mondo feudale e ha ridotto tutti i rapporti
sociali in numero, quantità e interesse economico; lo sfruttamento mascherato con illusioni religiose
e politiche tipico del mondo medievale è stato cancellato dalla borghesia che ha portato alla luce lo
sfruttamento economico nella sua forma nuda e cruda. Punto molto importante dello sviluppo della
borghesia è quella che oggi chiameremmo “globalizzazione”: l'espansione del mercato, lo
spostamento di industrie, uomini e prodotti grezzi e lavorati sono i mezzi con cui la borghesia cerca
i nuovi sbocchi economici di cui ha costantemente bisogno. Tramite una politica concorrenziale di
bassi prezzi, la borghesia sta plasmando il mondo a propria immagine e somiglianza, imponendo
ovunque il sistema produttivo capitalista.
Come già avvenuto per il passaggio tra società feudale e società borghese, all'interno del sistema di
produzione capitalista le forze produttive stanno cominciando a ribellarsi ai rapporti di produzione,
non corrispondendovi più. I proletari stanno infatti cominciando a perdere il potere d'acquisto
necessario a sostenere il mercato capitalista che quindi sta per crollare. Tipica crisi economica del
sistema capitalista è infatti la crisi di sovrapproduzione, mai vista prima nella storia dell'economia,
che ha effetti devastanti: i prodotti invenduti vengono distrutti, le fabbriche chiudono e i lavoratori
vengono licenziati. Tutti i mezzi con cui la borghesia cerca di risolvere le crisi di sovrapproduzione
(distruggendo forze produttive e aprendo nuovi mercati o sfruttando ulteriormente quelli già
esistenti) non fanno altro che preparare una nuova crisi ancora più estesa e violenta. La fine del
capitalismo è dunque ormai vicina, dato che la stessa borghesia vi contribuisce, creando le armi con
cui verrà distrutta (le crisi) e coloro che le imbracceranno (il proletariato). Gli operai hanno già
cominciato a lottare e a riunirsi in masse, accrescendo la propria potenza in risposta al crescente
sviluppo della borghesia. Più forte diventa la borghesia più forte diventa il proletariato, dati gli
strettissimi rapporti tra le due classi; tutti coloro che non sono ancora allineati con una delle due
classi lo saranno presto, dato che la nobiltà è destinata a sparire e i piccoli produttori sono
condannati a chiudere bottega, non potendo più reggere la concorrenza dei prodotti industriali.
Secondo l'analisi di Marx ed Engels ben presto tutti gli individui saranno assoggettati ad una delle
due classi rimaste: i piccoli produttori, gli artigiani e i contadini, che combattono la borghesia con
tendenze conservatrici e vogliono tornare ad una situazione precedente l'ascesa del capitalismo,
presto saranno sconfitti e diventeranno proletari. Il sottoproletariato invece, la massa di accattoni,
delinquenti e prostitute che Bakunin apprezza, saranno invece comprati dal denaro della borghesia,
andando ad accrescere le file dei reazionari.
Le forze in campo sono dunque solamente due e si danno battaglia su ogni campo e al di là dei
confini nazionali: dato che la borghesia domina non soltanto in campo economico ma anche in
campo sociale, politico, morale e religioso, il proletariato deve contrattaccare in tutti questi ambiti,
dato che è l'unica forza in grado di far progredire la storia.

Il secondo capitolo del Manifesto, Proletari e comunisti, cerca di spiegare il ruolo del partito
comunista e inizia con una dichiarazione molto forte: il partito comunista non si differenzia dagli
altri partiti socialisti nei fini immediati, né per l'istituzione di princìpi particolari. I comunisti si
distinguono perché mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni del proletariato
internazionale e perché rappresentano l'interesse del movimento complessivo, ovvero conoscono le
condizioni, l'andamento e i risultati generali del movimento dialettico della Storia. I comunisti sono
calati del senso della Storia e lo comprendono appieno, per questo sono i più adatti a portare avanti
la contesa tra borghesia e proletariato e a supportare il movimento progressivo degli operai. Lo
scopo immediato del partito comunista è lo stesso degli altri partiti socialisti o filo-operai
(educazione politica del proletariato, conquista dello Stato e sfruttamento della macchina statale al
fine operaio) ma, a differenza degli altri partiti, il partito comunista comprende meglio il processo e
i mezzi con cui attuare il proprio scopo. I princìpi dei comunisti inoltre non si basano su idee
campate per aria o inventate ma esclusivamente sullo studio accurato della storia.
In questo capitolo Marx ed Engels rispondono alle numerose accuse che sono rivolte ai comunisti,
prima fra tutti quella di voler abolire la proprietà privata: Marx ed Engels sostengono che è stato il
regime borghese il primo ad abolire la proprietà privata basata sul lavoro per sostituirvi quella
basata sullo sfruttamento del lavoro altrui. I comunisti vogliono abolire la proprietà privata
borghese, che si basa sul possesso dei mezzi di produzione e sullo sfruttamento del plusvalore, per
restaurare una proprietà privata basata sul lavoro personale: il lavoro salariato non crea infatti
proprietà privata del lavoratore ma capitale, che finisce nelle mani del borghese. Secondo l'analisi di
Marx, 9/10 della popolazione mondiale non hanno alcuna proprietà privata e possiedono solo il
proprio lavoro, che sono però costretti a vendere per sopravvivere. Ai comunisti viene spesso rivolta
l'accusa di voler distruggere l'economia, sostenendo che in una società comunista nessuno
metterebbe impegno nel proprio lavoro, visto che non ha la possibilità di guadagnare. Marx ed
Engels rispondono che questo non è vero, poiché anche adesso il proletariato lavora per
sopravvivere e non per guadagnare e che quindi la sua condizione nella società comunista migliora,
poiché il lavoro è diretto alla comunità. Altra critica è quella di voler distruggere la società naturale
della famiglia, mettendo le donne in comune (critica mossa anche a Fourier) ma Marx ed Engels
rispondono che il comunismo vuole solo mettere uomini e donne sullo stesso piano e che già la
borghesia ha distrutto la famiglia naturale. I capitalisti sfruttano infatti anche il lavoro di bambini e
donne, che vengono così ridotte ad una sorta di prostituzione. Non regge neanche l'accusa di voler
uniformare le nazioni, poiché è stata la borghesia la prima a superare i confini delle nazioni tramite
il commercio su scala globale.
Nello stesso secondo capitolo, viene anche spiegata la pratica rivoluzionaria (unico punto che, a
detta stessa degli autori, può essere modificato a seconda delle circostanze). Secondo l'analisi
marxiana, la rivoluzione avverrà prima nei paesi dove il capitalismo è più sviluppato poiché è in
questi che le contraddizioni interne sono esasperate. Il proletariato dovrà allora prendere le redini
dello Stato solamente tramite la rivoluzione violenta e armate e mai tramite il gioco politico liberal-
borghese. Marx segna nel manifesto un decalogo delle prime misure da adottare una volta ottenuto
il potere politico:
1. espropriazione della proprietà fondiaria e impiego della rendita fondiaria per le spese statali.
2. Imposta fortemente progressiva.
3. Abolizione del diritto di eredità.
4. Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.
5. Accentramento del credito nelle mani dello Stato per mezzo di una banca nazionale con
capitale di Stato e con monopolio esclusivo.
6. Accentramento dei mezzi di trasporto nelle mani dello Stato.
7. Aumento delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, dissodamento e
miglioramento dei terreni secondo un piano comune.
8. Eguale obbligo di lavoro per tutti, istituzione di eserciti industriali specialmente per
l'agricoltura.
9. Unificazione dell'esercizio dell'agricoltura e di quello dell'industria (misure atte ad eliminare
gradualmente l'antagonismo tra città e campagna).
10. Educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli, abolizione del lavoro minorile nelle
fabbriche. Unificazione dell'educazione e della produzione materiale.
Tramite l'adozione di queste misure le differenze di classe spariranno e il potere pubblico perderà il
proprio carattere politico, segnando così l'abolizione dello Stato e della società divisa in classi. Al
posto della vecchia società, subentrerà una associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è
la condizione per il libero sviluppo di tutti.

Nel terzo capitolo Marx ed Engels prendono le distanze da tutte le altre teorie socialiste, che non
sono considerate al pari del comunismo: vi sono tre grandi categorie di socialismo negativo, quello
reazionario, quello conservatore o borghese e quello utopico. Il socialismo reazionario vuole portare
indietro le lancette della storia per tornare ad una situazione antecedente l'ascesa della borghesia e si
divide a sua volta in tre gruppi. Esistono infatti il socialismo feudale, tipico dell'aristocrazia che si
richiama al mondo antico, il socialismo piccolo-borghese, ovvero quello dei piccoli produttori che
vogliono tornare alle botteghe (Sismondi è l'ideatore di questa letteratura), e il socialismo tedesco o
“vero” socialismo, elaborato da Grün, Hess, Bauer e Ruge, esponenti della sinistra hegeliana. Il
“vero” socialismo viene criticato per la fiducia che ripone nell'idealismo e nello Spirito e la
mancanza di un approccio materialistico alla realtà e alla Storia.
Il socialismo borghese o conservatore, che fa riferimento alla Filosofia della miseria di Proudhon,
non si propone assolutamente di superare il capitalismo ma vuole mantenere la situazione presente
modificandone gli aspetti negativi con piccole riforme mirate. Vuole eliminare la parte
rivoluzionaria della società e trasformare tutti in borghesi, sostenendo che i borghesi sono borghesi
nell'interesse della classe operaia
Il socialismo utopico è invece quello di Owen, Fourier, Saint-Simon e Cabet, che si pongono fuori
dalla Storia, pensando che il cambiamento si ottenga senza la lotta e soprattutto senza un ruolo
autonomo e attivo del proletariato. Questi pensatori prediligono, al posto del graduale organizzarsi
del proletariato, un'organizzazione della società escogitata di sana pianta; considerano il proletariato
solamente sotto l'aspetto di “classe che soffre più di tutte” e portano loro un progetto pacifico
piovuto come manna dal cielo per risolvere tutti i problemi. Questa loro descrizione fantastica della
società, secondo la quale basta mostrare un progetto perché questo avvenga pacificamente senza
violenza, dimostra la loro posizione utopista nei confronti del mondo e della Rivoluzione. Questi
autori sono però ritenuti importanti perché ricchi di elementi critici verso la società borghese e
perché in questo modo hanno fornito elementi di grandissimo valore per illuminare gli operai. A
poco a poco però cadono nella categoria dei socialisti reazionari o conservatori e finiscono per
opporsi con accanimento nel movimento politico degli operai.

Nel quarto capitolo Marx ed Engels affermano che i comunisti sono pronti a sostenere e supportare
attivamente tutti i movimenti di opposizione alla società borghese e allo status quo, non smettendo
però mai di perseguire il proprio scopo e di sviluppare tra gli operai una coscienza politica e storica.
Nel momento in cui si scrive il Manifesto i comunisti stanno guardando con attenzione alla
Germania, all'Inghilterra e alla Francia, dove la borghesia e il proletariato sono più sviluppati.
I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Essi dichiarano
apertamente che i loro scopi non possono essere raggiunti che con l'abbattimento violento di ogni
ordinamento sociale esistente. Tremino pure le classi dominanti davanti a una rivoluzione
comunista. I proletari non hanno nulla da perdere in essa che le loro catene. E hanno un mondo da
guadagnare

PROLETARI DI TUTTO IL MONDO


UNITEVI
John Stuart Mill
John Stuart Mill è stato un protagonista del dibattito politico del XIX secolo, ponendosi sempre
dalla parte dell'individuo, con le sue capacità e i suoi meriti. Nato in Inghilterra nel 1806 e morto
nel 1873 ad Avignone, lavorò come giornalista per la rivista Westminster review, come funzionario
della East India Company e fu parlamentare. Il padre James Mill, grande amico di Jeremy Bentham,
istruì il figlio con l'esplicita intenzione di ottenere un genio precoce che sviluppasse la filosofia
utilitarista. Verso i vent'anni questa educazione molto rigida portò J. S. Mill alla depressione, ad un
parziale rifiuto delle idee utilitariste e alla rivalutazione della “cultura dei sentimenti”, sviluppando
così un pensiero più autonomo. Mill comincia così ad interessarsi della vita dell'individuo in tutti i
suoi aspetti e in particolar modo alla difesa dell'individualità dalle interferenze da parte dello Stato e
dell'opinione pubblica.
Mill fu autore prolifico e poliedrico, scrivendo di moltissimi ambiti diversi tra cui la logica,
l'economia ma soprattutto la filosofia politica: i temi sviluppati in Principi di economia politica
verranno poi ripresi nei suoi testi successivi. La sua riflessione verte sull'importanza dei meriti
personali e sulla dignità e autonomia che ogni individuo, uomo e donna che sia, possiede: ognuno è
il miglior giudice di sé stesso e ha il diritto di autorealizzarsi, poiché ciascuno ha enormi
potenzialità da esprimere che non devono mai essere mortificate. L'economia deve agire con spirito
corporativistico per produrre maggiori benefici per la società, mentre lo Stato deve intervenire solo
dove è necessario salvaguardare l'ordine pubblico e proteggere beni irrinunciabili come la cultura e
l'istruzione. Altro testo molto importante, oltre al saggio On liberty che è la sua opera principale, è
Considerazioni sul governo rappresentativo, in cui analizza ed elogia il sistema democratico.
Scegliere i propri rappresentanti è molto importante poiché spinge i cittadini ad informarsi, a
partecipare attivamente, a migliorarsi e ad educarsi politicamente; inoltre costringe anche la classe
politica a migliorarsi costantemente, se vuole ottenere il consenso di elettori sempre più
consapevoli. La democrazia è utile al miglioramento dei cittadini ma solamente quando tutela la
vivacità del dibattito politico, ovvero quando permette a tutte le idee e opinioni di essere espresse.
Per rispettare non solo i principi democratici ma anche quelli meritocratici, Mill propone la
soluzione del voto plurimo: tutti gli alfabetizzati, uomini o donne che siano, possono votare ma
alcune persone, dotate di una dimostrata superiorità culturale, detengono più di un voto.
Discriminando in base alla competenza lavorativa e intellettuale e non al censo, ci si può aspettare
che la società sia sempre indirizzata verso le scelte migliori pur mantenendo il suffragio universale;
non si tratta di una limitazione per Mill ma di una concessione operata nell'interesse stesso dello
democrazia, che così evita la gara al ribasso delle forze populiste. Il diritto di voto non è inoltre
soltanto un mezzo per difendere i membri della società civile nei confronti dello Stato ma anche un
mezzo per responsabilizzare il singolo e contribuire al suo miglioramento.
Altro testo importante che denota il carattere progressista di Mill è Sulla soggezione delle donne,
ideato e scritto insieme alla moglie Harriette Taylor, militante femminista che influenzò molto il suo
pensiero. All'interno dell'ambiente utilitarista, la riflessione sull'emancipazione femminile era già
iniziata con Bentham nel 1780 ma continua e si sviluppa pienamente con Mill. Secondo Mill, la
soggezione delle donne è un anacronismo basato su di una concezione sbagliata della donna: tutti i
difetti che sono attribuiti alla donna come innati non in realtà artificiali, perché frutto di una
educazione particolare rivolta al genere femminile. Bisogna mutare la “doppia morale” che vige
soprattutto nell'ambito familiare secondo cui ciò che è permesso ai maschi non è permesso alle
femmine. Il problema è infatti situato nell'educazione che mira a preparare le donne solo al
matrimonio e alla riproduzione, impedendo di espandere le proprie libertà e potenzialità in direzioni
diverse. In questo modo non si danneggiano solo le donne ma anche l'intera comunità, poiché ci si
priva di una grossa fetta di opinioni e possibili contributi materiali alla società.

Il saggio On liberty
Tema di questo saggio non è la “libertà della volontà” e i problemi filosofici legati al libero arbitrio
ma piuttosto la libertà politica, che è sempre stata latente nella storia del pensiero e che ora, giunti a
questo progresso nella storia umana, deve essere analizzata con attenzione. Il conflitto tra libertà e
autorità oppressiva è sempre stato presente nella storia dell'uomo ma non come critica all'autorità
politica, bensì come lotta contro uno specifico tiranno o una casta dominante. Progressivamente si
affermano come mezzi di opposizione al potere politico il riconoscimento di certe immunità dei
sudditi, la cui violazione da parte del sovrano avrebbe causato la rivolta, oppure l'istituzione di
limiti costituzionali, ovvero di organismi rappresentativi volti a limitare il potere del sovrano. La
lotta per la libertà continua per obbiettivi progressivi: dopo i limiti posti al sovrano assoluto,
l'umanità chiede governanti elettivi e revocabili, poi l'identificazione di governo e popolo. Lo studio
delle repubbliche democratiche ha dimostrato come i termini “autogoverno” e “potere del popolo su
sé stesso” non corrispondano al vero stato delle cose, poiché vi si sviluppa la tirannia della
maggioranza. Ancora peggio della tirannia della maggioranza, che può agire solamente tramite i
propri magistrati, è la tirannia della società sui singoli individui che la compongono. Bisogna
dunque proteggersi dalla tirannide dell'opinione e del sentimento predominante.
Scopo di questo saggio è affermare e mostrare la validità di questo principio: il solo scopo per cui si
può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una società civilizzata, contro la
sua volontà, è per evitare danni agli altri. Non si può costringere nessuno a fare qualcosa perché è
meglio per lui, perché lo renderà più felice oppure perché è ritenuto opportuno. Su sé stesso, sulla
sua mente e sul suo corpo, l'individuo è sovrano.

II. Della libertà di pensiero e di espressione


Nessuno, né uomo, né società, né Stato, può esercitare un potere coercitivo nei confronti delle
opinioni altrui: si tratta infatti di un potere illegittimo indipendentemente dal numero di persone che
supportano una opinione e dal fatto che questa opinione sia vera o falsa. Non possiamo mai essere
certi che l'opinione che stiamo cercando di soffocare sia falsa, ma sarebbe illegittimo anche qualora
sapessimo con assoluta certezza esserla. Ogni soppressione della discussione è una affermazione di
infallibilità assoluta e universale, che non può mai corrispondere alla realtà dell'uomo, dato che
ognuno trae le proprie opinioni per lo più da eventi contingenti, come il luogo di nascita, l'istruzione
o la classe sociale. Esiste soltanto una “sicurezza sufficiente” nelle opinioni che consente di
prendere decisioni e agire ma che non può mai giustificare la soppressione di una opinione. La forza
e il valore del giudizio umano sta nella possibilità di venir meno dopo una esperienza e nella
successiva correzione in una forma di giudizio più corretta, ma quasi mai vera in assoluto. La natura
dell'intelletto umano consente solamente agli uomini che ascoltano le opinioni e i giudizi contrari a
sé e ai propri e ne traggono ciò che è vero per alimentare le proprie idee di diventare saggi. Una
obiezione è che il criterio per soffocare le opinioni non sia la verità ma l'utilità; diventa necessario
allora vietare le opinioni dei malvagi o tutte quelle che possono causare del male. Così facendo però
viene semplicemente spostata la presunzione di infallibilità: l'utilità di una opinione deve essere
infatti essa stessa argomento di libera discussione. Sono esemplari del rischio che si corre a non
permettere la discussione le vite di Cristo e di Socrate, i quali vennero condannati per avere delle
opinioni contrarie a quelle comunemente accettate. Mill cita anche il caso di Marco Aurelio, che
ritenne più utile cercare di soffocare il cristianesimo, pur essendo l'uomo dal miglior ingegno di
quei tempi. È un errore ingenuo credere che la verità di una opinione sia sufficiente a farla trionfare
nonostante le persecuzioni, perché moltissime opinioni sono sparite del tutto e il successo di molte
altre dipendeva da eventi contingenti. Se non si conoscono le opinioni degli eretici, la discussione
non è equa e gli intelletti di coloro che eretici non sono non possono svilupparsi e si richiudono per
paura dell'eresia. Uno dei motivi principali per non sopprimere l'opinione della minoranza è infatti
la necessità di conoscere le opinioni contrarie alle proprie in modo da formulare critiche e obiezioni
a queste, fortificando di conseguenza le proprie. Senza la discussione si perdono i fondamenti delle
proprie opinioni e anche il loro stesso significato: Mill fa notare che una volta che una religione è
diventata almeno accettata si comincia a perdere il significato reale delle parole e le opinioni
vengono semplicemente tramandate in modo passivo. Ogni cristiano per esempio ha una
grandissima collezione di massime etiche che però sa a memoria senza conoscerne il reale
significato e senza basarvi abitualmente sopra la propria vita.
Dunque l'argomentazione di Mill prevede che:
 in primo luogo, ogni opinione costretta al silenzio può, per quanto possiamo sapere con
certezza, essere vera. Negarlo significa presumere di essere infallibili.
 In secondo luogo, anche se l'opinione repressa è un errore, può contenere (e molto spesso
contiene) una parte di verità; e poiché l'opinione generale o prevalente su qualsiasi questione
è raramente (o mai) l'intera verità, è soltanto mediante lo scontro tra opinioni opposte che il
resto della verità ha una possibilità di emergere.
 In terzo luogo, anche se l'opinione comunemente accettata è non solo vera ma costituisce
anche l'intera verità, se non si permette che sia vigorosamente e accanitamente contestata, la
maggior parte dei suoi seguaci l'accetterà come se fosse un pregiudizio, con scarsa
comprensione e percezione dei suoi fondamenti razionali.
 In quarto luogo, senza la contestazione all'opinione che costituisce la piena verità, il
significato stesso della dottrina rischierà di affievolirsi e svanire, e perderà il suo carattere
vitale sul comportamento degli uomini: come dogma diventerà un'asserzione puramente
formale e priva di efficacia benefica, costituendo anzi un ostacolo allo sviluppo di qualsiasi
convinzione derivante dal ragionamento o dall'esperienza personale.

III. Dell'individualità come elemento del bene comune


Una volta constato che è imperativo che gli uomini siano liberi di formarsi le proprie opinioni,
bisogna considerare se, per gli stessi motivi, non sia necessario che gli uomini siano liberi di agire
secondo le proprie opinioni. Condizione primaria perché questo avvenga è che gli uomini agiscano
a proprio esclusivo rischio e pericolo: nessuno infatti pretende che le azioni debbano essere libere
quanto le opinioni. In quest'ottica anche le opinioni perdono la loro immunità qualora siano
proferite in un contesto che le renda realmente nocive; la libertà dell'individuo deve avere infatti
come limite il non creare fastidi agli altri. Gli stessi principi enunciati nel capitolo precedente (gli
uomini non sono infallibili, le loro verità sono per la maggior parte delle mezze verità e l'unanimità,
a meno che non sia il risultato del più completo e libero confronto di opinioni opposte, non è
auspicabile) sono applicabili anche alle azioni. Il fine dell'uomo, secondo Mill e Wilhelm von
Humboldt, è «il più elevato e armonioso sviluppo dei suoi poteri in una unità completa e coerente»,
è l'individualità del potere e dello sviluppo. Una volta che l'uomo è giunto alla pienezza della sua
facoltà, è suo privilegio e giusta condizione interpretare l'esperienza a suo modo; certamente
l'educazione, le tradizioni e i costumi costituiscono una prima interpretazione, che però può essere
limitata o scorretta, oppure può non adattarsi alla caratteristiche dell'individuo in questione. Inoltre
il conformarsi semplicemente alla consuetudine in quanto tale non educa né sviluppa nell'individuo
quelle proprietà mentali e morali che sono il patrimonio caratteristico dell'essere umano. Chi
permette agli altri di scegliergli la vita ho bisogno solo dell'imitazione, ovvero della facoltà delle
scimmie, non di percezione, giudizio, discernimento, attività mentale e preferenza morale.
In un primo periodo, la forza degli impulsi e dei desideri degli uomini era troppo grande e
l'elemento di individualità e spontaneità era eccessivo; così la società ha progressivamente
affermato il suo controllo su tutti gli uomini, in modo da ridurre all'obbedienza anche gli uomini
fisicamente o mentalmente più vigorosi. Oggi la società ha prevalso sull'individualità e il pericolo
che minaccia la natura umana non è più l'eccesso di impulsi ma la carenza: non ci si chiede più
«Che cosa preferisco?» o «Che cosa si addice al mio carattere?» o ancora «Cosa permetterebbe alle
mia qualità migliori e più elevate di crescere ancora?»; piuttosto ci si chiede «Come si comportano
abitualmente le persone della mia condizione economica e sociale?» oppure, peggio ancora, «Come
si comportano abitualmente le persone della condizione economica-sociale superiore alla mia?».
Non è nell'idea cristiano calvinista del totale controllo di sé e dei propri impulsi in favore del
“dovere” che si trova la condizione auspicabile della natura umana, ma in un ideale che si avvicina
a quello pagano della “affermazione di sé”.
Lo sviluppo di ognuno ha una certa utilità anche per chi non si sviluppa. Innanzitutto questi ultimi
non avrebbero la possibilità di imparare cose nuove dagli altri, dato che c'è sempre bisogno di gente
che scopra nuove verità, inizi attività nuove e dia esempio di comportamenti più illuminati. Il genio
può respirare liberamente soltanto in una atmosfera di libertà. La diversità e l'originalità sono inoltre
causa del progresso continuo che investe le società e le nazioni e che costituisce la principale forza
e il miglior bene dell'umanità. Il dispotismo della consuetudine è altamente negativo poiché rende
difficilissimo il progresso, richiedendo che tutti cambino insieme ed eliminando le individualità che
possono portare appunto il progresso. L'esempio che porta Mill è un confronto tra le nazioni
europee e la Cina, dove il dispotismo della consuetudine è ormai affermato.

IV. Dei limiti all'autorità della società sull'individuo


Poste tutte le condizioni dei capitoli precedenti, dove comincia l'autorità della società? Quanto della
vita umana spetta alla società e quanto all'individuo? Anche se la società non nasce da un contratto,
chiunque benefici della sua protezione deve ripagare questo beneficio e vivere in società obbliga
chiunque a rispettare una certa condotta nei confronti degli altri: in particolare non si devono
danneggiare certi interessi che chiamiamo “diritti” e ciascuno è tenuto a fare la propria parte per
difendere la società e i suoi membri. In questi casi la società punisce chi non rispetta queste
condizioni tramite la legge; nel caso in cui gli atti di un individuo arrechino danni ad altri o non
tengano in giusta considerazione il benessere altrui, senza però giungere al punto di violare alcun
diritto, il colpevole viene condannato dall'opinione invece che dallo Stato. Quando invece le azioni
di un individuo coinvolgono esclusivamente sé stesso o altri individui consenzienti (sempre
maggiorenni e dotati di normali facoltà mentali), bisogna lasciare piena libertà di agire e di subirne
le conseguenze. Mill ammette e considera naturale che le azioni compiute da ogni uomo nella
propria sfera individuale influenzino le opinioni che le altre persone hanno nei suoi confronti e che,
entro certi limiti, queste opinioni causino determinate azioni. È normale, secondo Mill, che si eviti
la compagnia di persone la cui azioni personali ci provocano disgusto e che si sconsigli ad altri la
compagnia di queste persone. D'altra parte, questi comportamenti sono l'unica misura consentita in
risposta alle azioni compiute nelle sfera individuale, poiché nessuno e nessun gruppo ha il diritto di
impedirle. Vi è differenza tra la riprovazione per coloro che ledono i diritti altrui e per coloro che
invece danneggiano sé stessi: verso questi ultimi proviamo infatti antipatia ma non ira o
risentimento, non abbiamo il desiderio di punirli, poiché si stanno già rovinando da soli. Quando
invece le conseguenze negative degli atti di una persona non ricadono su di lui ma su altri, allora la
società, protettrice comune di tutti, deve punirlo, anche con severità. In un caso siamo chiamati, in
quanto società a giudicare e punire la persona, nell'altro non è nostro compito infliggergli
sofferenze, in quanto già sta soffrendo le conseguenze su di sé delle proprie azioni.
Il male fatto a noi stessi può però colpire gravemente, sia negli affetti che negli interessi, le persone
a noi legate e di conseguenza anche la società intera e in questo caso si diventa passibili di
riprovazione morale e di giusta punizione. Se un uomo per intemperanza diventa insolvente o
incapace di mantenere una famiglia, allora andrà meritatamente riprovato e giustamente punito ma
solo per il fatto di essere insolvente, non per la sua intemperanza. Chi, col suo comportamento, si
rende incapace di compiere un preciso dovere verso il pubblico è colpevole di un reato sociale e può
essere punito: nessuno può essere punito perché ubriaco, ma un poliziotto può essere punito perché
ubriaco in servizio. In presenza di un preciso danno o di un rischio di danno per il pubblico o per
altri individui, il caso esula dalla sfera della libertà e rientra in quella della moralità e della legge.
L'unico momento in cui la società ha potere sull'individuo, gli impedisce comportamenti dannosi
per sé e cerca di educarlo ad evitare questi comportamenti è durante l'infanzia e l'adolescenza,
quando gli individui sono sottoposti all'educazione. La società moderna, dice Mill, ha tutti i mezzi e
il controllo sull'educazione necessari a formare una nuova generazione migliore di quella
precedente, in cui gli individui siano educati ad adottare comportamenti razionali e sociali, piuttosto
che ad agire contro sé stessi e gli altri. L'argomento più forte contro l'interferenza del pubblico nel
privato è costituito dal fatto che questo intervento avviene quasi sempre nei modi e nel luogo
sbagliato: nelle questioni di moralità sociale si segue l'opinione pubblica, ovvero il giudizio della
maggioranza, ma questa opinione ha uguali possibilità di essere giusta o sbagliata e soprattutto
spesso ignora i sentimenti e le esigenze dei biasimati, pensando soltanto alla propria preferenza.
Molti considerano lesiva dei propri sentimenti qualsiasi condotta che dispiaccia loro, ma ciò che
uno pensa della propria opinione e ciò che un altro, a cui dispiace questa opinione, pensa di essa
non sono da porre sullo stesso piano. Da condannare non sono le condotte irrazionali, per quanto
queste siano da sconsigliare durante il periodo dell'infanzia e della adolescenza tramite l'educazione,
ma le conseguenze su altri delle condotte irrazionali.

V. Applicazioni
I princìpi enunciati nei capitoli precedenti, che devono costituire la base generale di una discussione
più particolareggiata prima di tentarne una coerente applicazione, si possono riassumere in due
proposizioni. In primo luogo, l'individuo non deve rendere conto alla società delle proprie azioni
nella misura in cui esse non riguardano gli interessi di altri che lui stesso, se lo si ritiene necessario
per il proprio bene, gli altri possono consigliare, istruire, persuadere o evitare l'individuo in
questione. In secondo luogo, l'individuo deve rendere conto delle azioni che possano pregiudicare
gli interessi altrui, e può essere sottoposto a punizioni sociali o legali se la società ritiene le une o le
altre necessarie per proteggersi.
Analizzando le applicazioni dei princìpi della libertà individuale in campo economico, Mill
riconosce l'esistenza di molteplici vincoli solitamente volti a fin di bene, come ad esempio i limiti
alla vendita di sostanze tossiche. In questo caso non si sta violando la libertà dei venditori o dei
produttori ma quella dell'acquirente, poiché i veleni hanno anche utilizzi innocui o addirittura utili:
è ammissibile vendere veleni ma con l'accortezza di venderli a persone dotate di piene facoltà
mentali e di informarli della pericolosità del prodotto. La società ha sì il diritto di prevenire i mali
che le sono rivolti contro ma senza per questo andare a violare un atto che può anche essere
legittimo, perché danneggia solamente chi lo compie o persone consenzienti. Vi sono atti che
compiuti privatamente non sono condannabili poiché non danneggiano nessuno se non chi vi prende
consapevolmente parte ma che vanno vietati quando eseguiti pubblicamente o quando si incita
pubblicamente la gente a compierli: è il caso di atti contro la pubblica decenza, dell'apertura di
bische per il gioco d'azzardo o dei bordelli. Un'altra questione che affronta Mill è se sia legittimo
rendere più difficile ma comunque non vietare un certo comportamento, ad esempio tassando
maggiormente gli alcolici: secondo Mill si tratta di una pratica illegittima poiché limita la libertà di
coloro che non hanno i mezzi sufficienti ad acquistare alcolici, ma ammette che uno Stato debba
imporre delle tasse per funzionare e che quindi sia naturale che scelga di tassare ciò che ritiene
pericoloso. Il discorso sul punire le conseguenze viene allargato da Mill, che sostiene anche di
esercitare un maggiore controllo su quelle persone che si sono dimostrate maggiormente
intemperanti e di punire con più severità i recidivi. È molto particolare la posizione di Mill sul
suicidio: quando un uomo vuole porre fine ai suoi interessi, la società può e deve intervenire poiché
ha il dovere di preservare gli interessi di ognuno; in altre parole, nessuno ha la libertà di cedere la
propria libertà.
Per quanto riguarda l'educazione, uno degli argomenti più sentiti da Mill, egli sostiene che vi debba
essere l'obbligo, se non altro almeno morale, di istruire i fanciulli ma non per forza esclusivamente
tramite una scuola pubblica, che sarebbe in mano all'opinione dominante del governo e
annullerebbe la differenza di opinioni. Piuttosto è meglio una scuola pubblica e gratuita in
concorrenza con scuole private, di modo che sia possibile una scelta tra le istituzioni scolastiche ma
che l'istruzione sia comunque fornita a tutti. In questo sistema ipotetico delineato da Mill, lo Stato
dovrebbe occuparsi solamente di verificare le conoscenze acquisite a livello nazionale tramite esami
standard, i quali non vadano però a testare la fede in una o più dottrine ma solamente la conoscenze
e le abilità, comminando una pena pecuniaria ai genitori e alle scuole che non sono state in grado di
educare adeguatamente i giovani. Inoltre Mill sostiene che, siccome mettere al mondo dei figli che
non si è in grado di mantenere si può considerare un reato sociale, bisognerà che lo Stato vieti i
matrimoni di coloro che non sono in grado di provvedere a una famiglia.

In conclusione Mill riprende il discorso enunciando tra casi in base ai quali opporsi all'interferenza
del governo:
1. quando l'azione da compiere ha probabilità di essere compiuta meglio da singoli individui
che dal governo, ovvero nessuno è tanto adatto a condurre degli affari e a decidere come o
da chi vadano condotti quanto coloro che vi hanno un interesse personale. Per questo
motivo il governo non deve intromettersi nelle normali attività di industria o di commercio.
2. In molti casi, anche se i singoli non sono in grado di svolgere una data attività altrettanto
bene quanto il governo, è bene che questa sia svolta dagli individui come mezzo di
educazione intellettuale. Questo è il principale argomento a favore dell'istituzione di
associazioni locali, municipali e popolari, della gestione di iniziative industriali e
filantropiche da parte di volontari e della composizione di giurie popolari (salvo che nei
processi politici). Queste non sono infatti questioni che riguardano esclusivamente la libertà
ma anche lo sviluppo.
3. Ultimo argomento contro l'interferenza dello Stato è il voler impedire quella grande sciagura
costituita da una inutile espansione del suo potere. Se infatti si lasciasse gestire tutto allo
Stato si formerebbe una burocrazia estremamente potente in cui tutti coloro che vogliono
fare carriera desidererebbero entrare, trasformando così la propria ambizione individuale in
dipendenza dal governo. A lungo termine, il valore di uno Stato è il valore degli individui
che lo compongono; e uno Stato che agli interessi del loro sviluppo e miglioramento
intellettuale antepone una capacità amministrativa lievemente maggiore, o quella sua
parvenza conferita dalla pratica minuta; uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini perché
possano essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a fini benefici, scoprirà che con
dei piccoli uomini non si possono compiere cose veramente grandi; e che la perfezione
meccanica cui ha tutto sacrificato alla fine non gli servirà a nulla, perché mancherà la forza
vitale che, per far funzionare meglio la macchina, ha preferito bandire.
Michail Bakunin
Bakunin nasce in Russia nel 1814 in una famiglia benestante dell'alta borghesia e cresce in un
periodo cupo per la storia russa, che dal 1825 registra continue repressioni delle rivolte liberali da
parte dello Zar. Bakunin tenta la carriera militare ma la abbandona dopo poco per dedicarsi allo
studio della filosofia; all'inizio degli anni '40 inizia un viaggio studio in Europa tra Francia e
Germania, dove entra in contatto con la Lega dei Giusti. Dall'Europa comincia a criticare il governo
zarista che per tanto lo condanna in contumacia al carcere duro: Bakunin decide allora di restare in
Europa, dove conosce Proudhon, Marx, Engels e altri rivoluzionari. L'Europa rimane una delle più
grandi delusioni di Bakunin che vede gran parte della popolazione sottomessa, sfruttata e priva di
diritti politici, oppressa dagli stati polizieschi e denigrata dall'opinione pubblica. Bakunin partecipa
allora ai moti di Dresda nel 1848 ma viene arrestato e incarcerato, la condanna a morte viene
commutata in ergastolo ma il governo russo ne chiede l'estradizione. Su consiglio di un amico di
famiglia Bakunin chiede la grazia allo zar Nicola I che lo fa esiliare in Siberia, dalla quale fuggirà e
attraversando il Giappone e gli Stati Uniti tornerà in Europa. Nel 1864 si stabilisce allora in Italia
con l'aiuto dell'amico Giuseppe Mazzini, girando tra Napoli, Firenze e Genova, da cui scapperà nel
1869 ripiegando in Svizzera. Nel periodo italiano e svizzero, il più attivo della sua vita, entra in
contrasto con gli altri rivoluzionari, criticando aspramente Mazzini per la sua presa di posizione di
fronte alla Comune di Parigi e venendo espulso dall'Internazionale per le sue critica al marxismo.
Dalla Svizzera stampa diverse opere importanti come L'impero knouto-germanico o Stato e
anarchia, scritto di getto nel 1873 per rispondere alle critiche mossegli al momento dell'espulsione
dall'Internazionale. Nel 1874 pianifica una insurrezione dei contadini emiliani che fallisce e allora
torna in Svizzera, dove le sue condizioni di salute peggiorano improvvisamente e drasticamente: il
1° luglio del 1876 si spegne a Berna Michail Bakunin.

Bakunin parte dalla ricerca di una forma di società che prescinda dal potere politico, il quale è
sempre violento e repressivo, come ha avuto prova durante la sua gioventù in Russia. Nel suo
viaggio in Europa spera infatti di trovare nuove forme di stato da portare in Russia ma rimane
deluso dal constatare che la situazione non è poi tanto diversa: la spinta progressista iniziata con la
Rivoluzione Francese si è arrestata di fronte alla riorganizzazione degli apparati statali e con il
mutamento della borghesia da forza rivoluzionaria a forza conservatrice. Secondo Bakunin è
necessario trovare una nuova forza sociale che possa farsi carico del processo rivoluzionario e
portarlo avanti: inizialmente individua questa forza nei movimenti di affermazione patriottici e in
particolare nel panslavismo. In Bakunin si fa strada l'idea romantica che un popolo abbia peculiarità
proprie in virtù delle quali si possa dare vita ad un'organizzazione sociale che prescinda dal potere
politico e dal nazionalismo aggressivo. Nei popoli si può trovare un ordine naturale della società
che faccia capo ai bisogni del popolo intero e non a quelli di una élite limitata: occorre ricostruire le
patrie (non le nazioni o gli stati) e supportare i movimenti patriottici poiché essi reclamano l'ordine
naturale contro quello politico. Secondo Bakunin la storia è fatta non di lotta di classe ma di lotta tra
Stati che finisce sempre per opprimere gli sfruttati: questa lotta è continua perché legata alla
tendenza, insita al potere politico, ad affermarsi sugli altri. La logica dello Stato segue infatti il
principio mors tua, vita mea che lo porta ad armarsi e a potenziarsi per prevalere sugli altri,
sviluppando l'esercito e diventando sempre più efficiente tramite centralizzazione e burocrazia.
L'organizzazione bellica va però a rovinare i rapporti tra Stato e società civile, dato che lo Stato
tende a reprimere la società civile adottando nei suoi confronti lo stesso atteggiamento che riserva
agli altri Stati. Lo Stato è dunque parziale, poiché si rivolge ad una minima parte dell'umanità, ed è
opposto a quell'universale che è l'umanità intera: lo Stato è addirittura negazione della stessa
umanità, poiché ragiona secondo una logica non naturale e tende a reprimere il normale sviluppo
dell'umanità. La critica di Bakunin non è limitata solamente alla Stato e alla sua organizzazione ma
anche alla “sorella cadetta” di questo: la religione. La religione abitua l'uomo all'obbedienza passiva
e alla dipendenza da un ordine superiore che va semplicemente obbedito senza discussione; inoltre
la religione priva l'uomo della possibilità di scegliere come organizzare la propria vita, dato che
propone un unico modello. In parole povere la religione fornisce allo Stato un uomo passivo, pronto
ad obbedire al governo come fa con Dio.
Il punto centrale della riflessione di Bakunin ruota intorno al termine “libertà”, ovvero un fatto
individuale e collettivo allo stesso tempo: la libertà è assoluta, infinita e inarrestabile ma si
concretizza solamente insieme alla libertà altrui. La libertà altrui non limita la mia libertà ma anzi e
necessaria a confermarla, poiché nessuno è libero da solo. Attraverso la propria coscienza
individuale, ognuno sa dove arrestare le proprie azioni per salvaguardare la libertà altrui, senza la
quale nemmeno la propria varrebbe qualcosa. Per Bakunin l'uomo è fondamentalmente buono e può
vivere in società pacifiche senza bisogno di un imperativo superiore di alcun genere. Facciamo
attenzione al fatto che Bakunin parli di società e mai di Stati: società e Stato sono opposti e solo
nella prima si è liberi, mentre nel secondo si è limitati da leggi positive e artificiali. La società è il
mondo naturale della comunità umana, sorge senza alcun contratto e si regola tramite costumi e
abitudini, invece che con leggi artificiali, arbitrarie e imposte; la società progredisce lentamente ma
armonicamente grazie al contributo e all'impulso di tutti gli individui. Esistono delle leggi naturali
che regolano la vita della comunità ma sono insite in ogni uomo e in ogni società fin dall'inizio:
sono sempre esistite e da sempre funzionano. Lo Stato è tutto il contrario di questo: non è naturale,
è sempre autoritario e si pone sempre al di sopra degli uomini, reputati incapaci di governarsi da sé.
Questa è la situazione permanente di qualsiasi Stato e qualsiasi istituzione, anche se democratici,
poiché dove c'è uno stato c'è sempre una dicotomia tra governanti e governati che vede la volontà di
una minoranza imporsi sulla maggioranza.
Anarchia è allora libertà, uguaglianza, ordine sociale privo di un apparato statale e si impone
tramite una rivoluzione violenta da parte di tutti i poveri, gli sfruttati e gli oppressi (operai,
contadini, piccoli artigiani, sottoproletariato) i quali lotteranno fino all'ultimo uomo, non avendo
nulla da perdere. Secondo l'analisi di Bakunin la rivoluzione scoppierà nei paesi più poveri, non in
quelli più industrializzati, e sarà guidata dal ceto più sfruttato: i contadini italiani e spagnoli, presso
cui Bakunin si reca, sono i perfetti rivoluzionari. Lo scopo della rivoluzione è l'abbattimento
immediato di qualsiasi forma di autorità, che sia essa Stato, Chiesa o dittatura rivoluzionaria, le
quali sono tutte forme di dispotismo. Secondo Bakunin la rivoluzione deve portare lo Stato alla
bancarotta, sciogliere l'esercito, la magistratura e il clero, confiscare i mezzi di produzione e i
capitali e infine distruggere tutti i contratti, le leggi e la burocrazia: solo in questo modo si potrà
vivere in pace e in anarchia. La rivoluzione deve essere un fatto spontaneo e non guidato da una
élite, serviranno sicuramente dei comitati rivoluzionari che però avranno solamente il compito di
spingere la massa a ribellarsi, senza dare ordine precisi né organizzare la rivoluzione. Non bisogna
assolutamente fondare istituzioni rivoluzionarie, come i partiti o i sindacati, poiché bisogna lasciare
che le masse si auto-organizzino in una movimento di cooperazione federalista.
I punti di contrasto tra Marx e Bakunin sono molteplici: Marx sostiene che la rivoluzione sia
limitata alla classe operaia, mentre Bakunin parla sempre di “masse”, accusando Marx di snobismo
nei confronti di contadini e sottoproletariato. Inoltre secondo Bakunin non esiste nulla come la lotta
di classe, ma solo una la dominazione da parte dello Stato sugli oppressi, che hanno il compito di
rivoltarsi contro il proprio destino di sfruttati, togliendo la rivoluzione da quel percorso quasi
provvidenzialistico che Marx traccia, parlandone come di un accadimento necessario e inserito in
un percorso storico ben definito. Altro punto di grande contrasto è il tema dell'uguaglianza: per
Bakunin l'uguaglianza non è mai economica ma di condizioni, ovvero una uguaglianza di istruzione.
Chi sa di più finirà sempre per dominare colui che sa di meno, dunque serve una istruzione integrale
che prepari tutti a fare tutto; sicuramente ci saranno specialisti in alcuni campi, dotati quindi di una
maggiore autorità in un ambito specifico, ma l'istruzione deve insegnare ad usare la propria ragione
tramite cui scegliere se seguire o meno l'autorità specialistica. Ultimo punto di contrasto, che si
ripercuoterà nella divisione tra anarchici comunisti e anarchici collettivisti, è appunto l'economia:
Bakunin abbraccia il collettivismo, dove tutti lavorano attraverso mezzi di produzione in comune
ma si dividono i beni in base alla quantità di lavoro svolto dai singoli. Questo punto sarà causa di
forti scontri con Marx, dato che ciascuno dei due pensatori accusa l'altro di istituire una autorità
superiore burocratica per far funzionare l'economia: in Marx per giudicare i bisogni in base ai quali
si dividono i beni, in Bakunin per quantificare il lavoro svolto.

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