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Anche il Trattato di Roma del 1957 mostra il carattere derivato della dimensione sociale. In
ogni caso, rilevano in particolar modo le seguenti norme:
➢ Art. 117: Gli Stati membri convengono sulla necessità di promuovere il
miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della manodopera che consenta la
loro parificazione nel progresso. Tale miglioramento discenderà dal funzionamento
del mercato comune, che favorirà l’armonizzazione dei sistemi sociali.
➢ Art. 3: L’azione della Comunità comporta il ravvicinamento delle legislazioni
nazionali nella misura necessaria al funzionamento del mercato comune.
➢ Art. 100: Il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione,
stabilisce direttive volte al riavvicinamento delle disposizioni legislative,
possibilità di prendere ogni iniziativa che sia necessaria per raggiungere uno dei
suoi obiettivi salvo che il Trattato non abbia previsto poteri specifici al riguardo.
La storia conseguente alla firma del Trattato di Roma conferma le difficoltà applicative dei
principi sociali ma presenta elementi di dinamismo imprevisti. Ecco perché può essere
fatto un excursus storico delle politiche sociali europee. In tal senso possono essere
individuate diverse fasi.
1a FASE – decennio dal ’50 al ’60: l’azione sociale si concentra in modo prevalentemente
sull’attuazione della libera circolazione della manodopera. Tale azione è sostenuta dal
Fondo Sociale Europeo (FES) e si inserisce in un periodo di crescita economica che fanno
prospettare un riassorbimento della disoccupazione. Inoltre, si comincia a sviluppare il
principio in base al quale si prevede che le politiche sociali debbano risultare dalla
consultazione tra i sindacati e le associazioni imprenditoriali, sia a livello nazionale sia a
livello europeo.
2a FASE – fine anni ’60: in questa fase si ha un clima di forte tensione sociale. Il primo
programma d’azione in materia sociale è approvato dal Consiglio nel 1974 e l’innovazione
più netta risiede proprio nella formula utilizzata di “politica sociale comunitaria”, che è
legata all’obiettivo di realizzare un’unione economica e monetaria. Nel programma del ’74
si enfatizza l’interdipendenza tra l’azione sociale e quella economica, affermando, inoltre,
che l’espansione economica non è un fine in sé ma deve tradursi in un miglioramento delle
qualità e del livello di vita. I 3 obiettivi prioritari sono la realizzazione del pieno e migliore
impiego nella Comunità, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e la
partecipazione crescente delle parti sociali alle decisioni economiche e sociali della
Comunità e dei lavoratori alla vita delle imprese. Lo strumento principale sono le
direttive, tra le quali possiamo ricordare quelle sulla parità tra uomo e donna in materia di
retribuzione, di condizioni di lavoro e di trattamenti previdenziali; quella sulla protezione
dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi o quella sulla tutela della salute. Nello
stesso periodo è creato il Centro Europeo per lo sviluppo della formazione professionale.
Tuttavia, non si riesce a perseguire l’obiettivo del pieno impiego.
3a FASE - anni ’80: la politica sociale europea risente dello shock petrolifero e
dell’indebolimento delle forze sindacali. Come rimedio si propugna l’introduzione di
forme diffuse di “deregulation” e di “flessibilità” nei sistemi nazionali e nel mercato
europeo. Tuttavia, si ha l’opposizione di molti governi nazionali, tra cui in particolare la
Gran Bretagna, che è riuscita per diversi anni a bloccare le iniziative delle autorità
comunitarie. Il vuoto di iniziativa è solo in parte colmato dagli interventi della Corte di
Giustizia e delle giurisprudenze nazionali. Inoltre, l’armonizzazione è resa ancor più
complicata per via dell’adesione di paesi come la Grecia, la Spagna e il Portogallo, che
sono caratterizzati da condizioni retributive e di lavoro di molto inferiori a quelle degli
altri stati membri, nonché da alti tassi di disoccupazione.
4a FASE – 1 luglio 1987: in questa data entra in vigore l’Atto Unico, con lo scopo di
superare la situazione di impasse in cui ci si trovava. Sembrava un clima economico
migliorato da una lieve crescita produttiva, anche se era ancora presente il problema della
disoccupazione. Il centro d’interesse dell’atto è ancora di tipo economico e punta ad
andare oltre il mercato unificato per arrivare entro il 31 dicembre 1992 ad una vera e
appunto ritrovabili nella Carta di Nizza, come anche sostenuto dall’avvocato generale
Tizzano nel caso Bectu di fronte alla Corte di Giustizia. Tuttavia, al rafforzamento dei valori
e degli obiettivi sociali non corrisponde l’adeguamento degli strumenti di attuazione.
10a FASE - il Trattato di Lisbona: siglato nel 2007 ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009,
introduce una serie di novità, che, essendo sparse nel testo, forse non facilitano la
trasparenza e la comprensione. In ogni caso le novità introdotte sono:
• Art. 2 TUE: inserisce tra i valori la dignità, l’eguaglianza, la solidarietà e la parità
fra uomini e donne, confermando l’impegno alla lotta contro le discriminazioni e le
esclusioni sociali e la tutela dei diritti dei minori.
• Art. 3 TUE: richiama la formula dell’economia sociale di mercato fortemente
competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale.
• Art. 6 TUE: riconosce ai diritti stabiliti dalla Carta di Nizza lo stesso valore giuridico
dei Trattati;
• Art. 48 TUE: riguarda il quorum richiesto per l’approvazione delle misure di
sicurezza sociale funzionali a rendere effettiva la libertà di circolazione del
lavoratori migranti.
• Art. 4.2.. lett. b TUE: la social policy è inclusa fra le materie di competenza
concorrente fra Unione e Stati membri.
• Art. 6 lett. e TUE: la formazione professionale rientra fra le competenze di sostegno.
• Il Trattato ribadisce l’impegno dell’U.E. per il coordinamento delle politiche
europee, sottolineando la necessità di garantire la coerenza fra le iniziative
economiche e quelle sociali. L’art. 156 TFUE rafforza il ruolo della Commissione per
il coordinamento e la promozione delle politiche sociali, per incoraggiare la
cooperazione tra gli stati membri. Resta cmq tutt’ora prevalente la logica per cui le
politiche sociali continuano ad essere sottratte all’intervento diretto dell’Unione.
• Art. 152 TFUE: rafforza gli elementi di sussidiarietà anche orizzontale del sistema,
ribadendo l’importanza del ruolo delle parti sociali e il metodo tripartito nella
definizione delle politiche sociali, con la formalizzazione del vertice sociale
trilaterale per la crescita e l’occupazione.
Il significato di tali innovazioni è suscettibile di diverse interpretazioni ma, secondo le
valutazioni più possibiliste, le scelte del Trattato spingono in avanti la dimensione sociale
dell’U.E. Tuttavia, ci sono elementi irrisolti come l’incertezza degli strumenti attuativi o le
divisioni politiche tra gli Stati membri: infatti, l’iniziativa europea ha inciso debolmente
nel ridurre le disuguaglianze fra aree forti e deboli dell’Europa e nel contrastare i fattori
che le stanno accrescendo. Ecco perché si è puntati solo su 2 obiettivi: investimenti
pubblici e privati in ricerca e sviluppo pari al 3% del PIL europeo e tasso di occupazione
del 70% entro il 2010. La crisi economica del 1008 ha indebolito l’iniziativa, che intanto
vede il profilarsi della Strategia Europa 2020 del Consiglio europeo del marzo 2010.
Questa nuova strategia mira a 3 priorità sintetizzate dalla formula “per una crescita
intelligente, sostenibile e inclusiva”, che mira tra le altre cose ad un’occupazione del 75% e
ad una diminuzione di 20 milioni di persone a rischio povertà. Gli strumenti predisposti a
tal fine, ancora una volta, non risultano maggiormente stringenti rispetto a quelli
sperimentati attraverso il MAC. La scarsa efficacia delle iniziative europee in materia
sociale è legata alla complessità dei target fissati anche alla scarsa determinazione nel
perseguire un modello sociale ed economico europeo da parte degli attori politici della
Comunità.
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Nell’area del diritto del lavoro l’adozione di normative europee è condizionata dalla
sussistenza di una specifica disposizione del Trattato in grado di costruirne il fondamento
di legittimità giuridica (c.d. base giuridica). Nel Trattato di Roma del 1957 le basi giuridiche
erano molto poche e l’unico potere generale era quello riconosciuto alla Commissione
dall’art. 118 di promuovere la cooperazione tra gli Stati membri. Dopo di esso potevano
essere individuati 4 ambiti fondamentali:
I. la libera circolazione dei lavoratori (art. 45 TFUE);
II. l’istituzione ed il funzionamento del FSE (art. 162 TFUE);
III. la formazione professionale (art. 166 TFUE);
IV. la parità retributiva tra uomo e donna (art. 157 TFUE).
La competenza riconosciuta all’U.E. in queste materie implica che le autorità possono
imporre regole proprie agli Stati membri, tramite regolamenti e direttive. Ciò è avvenuto
in modo diseguale tra questi 4 ambiti. Nella fase iniziale del processo d’integrazione
comunitaria si cercò di risolvere il problema della carenza di basi giuridiche specifiche
attraverso l’utilizzo di basi di carattere generale. Quindi, nell’area del diritto del lavoro si
utilizzano come basi giuridiche 2 norme fondamentali:
• Art. 100 TCEE (ora art. 115 TFUE): esso consente di adottare direttive volte al
ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli
Stati membri che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul
funzionamento del mercato. A questa base giuridica si è ricorso per l’adozione di
numerose direttive tra le quali possiamo ricordare la direttiva n. 75/117 sulla parità
di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici, la direttiva n. 75/129 in materia di
licenziamenti collettivi o la direttiva n. 77/187 sul mantenimento dei diritti dei
lavoratori in caso di trasferimento d’impresa.
• Art. 235 TCEE (ora art. 352 TFUE): esso consente l’adozione di regole comunitarie,
in assenza di basi giuridiche specifiche, tutte le volte in cui un’azione risulti
necessaria per raggiungere uno degli scopi degli obiettivi di cui ai Trattati. Esso è
stato utilizzato per l’adozione della direttiva n. 76/207 sull’attuazione del principio
di parità di trattamento fra lavoratori e lavoratrici in materia di condizioni di lavoro
e della direttiva n. 79/7 sulla graduale attuazione del principio di parità di
trattamento tra uomini e le donne in materia di scurezza sociale.
Le competenze dell’U.E. nell’area del diritto del lavoro sono state estese in maniera
rilevante con le innovazioni introdotte dal Trattato di Maastricht e di Amsterdam. Le
materie elencate nell’art. 153 TFUE, in cui il Consiglio può decidere a maggioranza o
all’unanimità ( a seconda dei casi), riguardano tutti i temi del rapporto individuale di
lavoro, eccezione fatta per la sola retribuzione; mentre resta esclusa l’area del diritto di
associazione sindacale, del diritto di sciopero e serrata. L’ampliamento delle competenze
sociali dell’U.E. è temperato da alcune cautele. Infatti, gli artt. 151 e 153 TFUE indicano che
tali competenze sono concorrenti con quelle degli Stati membri. Inoltre, le iniziative
comunitarie devono tener conto della diversità delle prassi nazionali, in particolare nelle
relazioni contrattuali, e della necessità di mantenere la competitività dell’economia
dell’U.E. Ancora, ex art. 5 TUE, tali competenze concorrenti vanno esercitate nel rispetto
sia del principio di sussidiarietà, che detta le condizioni per l’intervento dell’U.E. nelle
aree di competenza concorrente, sia del principio di proporzionalità, che detta condizioni
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La Corte di Giustizia ha svolto un ruolo cruciale nello sviluppo del diritto comunitario del
lavoro ed è competente a giudicare sia sulla base di ricorsi diretti, ovvero quando la
Commissione attivi una procedura d’infrazione per contestare ad uno Stato membro il
mancato adeguamento alle prescrizioni del diritto dell’U.E., sia sulla base di questioni
pregiudiziali concernenti l’interpretazione del diritto dell’U.E. Si deve ricordare che
l’intervento in via pregiudiziale della Corte è attivato dai giudici nazionali (e non dalle
parti della causa) in caso di dubbio sull’interpretazione ed applicazione del diritto
dell’U.E. Tale rinvio è rimesso alla discrezionalità del giudice nazione ed è obbligatorio
solo nel caso in cui la questione viene sollevata davanti a un giudice la cui decisione non è
assoggettabile ad altro ricorso (Corte di Cassazione e Corte Costituzione in Italia). E’
necessario che sia presente anche la condizione che l’interpretazione sia fondamentale ai
fini della decisione del caso concreto. La Corte di Giustizia non valuta il merito della
controversia ma si limita a dare l’interpretazione del diritto europeo. Inoltre, le norme
europee possono essere scritte in una pluralità di versioni linguistiche: l’orientamento
della Corte è costante nel ritenere che in caso di dubbio si esige che il diritto europeo sia
interpretato ed applicato alla luce dei testi redatti nelle altre lingue ufficiali. Entro questi
limiti, il suo giudizio della Corte di Giustizia non ha in nessun caso efficacia erga omnes e
si attiene al caso concreto. Ciò contribuisce a spiegare come proprio in giudizi di questo
genere si sia potuto esprimere maggiormente l’attivismo della Corte, la quale ha colto
l’occasione per affermare che, a seguito di sentenza emessa su domanda di pronuncia
pregiudiziale da cui risulti l’incompatibilità di una normativa nazionale con il diritto
comunitario, è compito delle autorità dello Stato membro interessato adottare i
provvedimenti generali o particolari idonei a garantire il rispetto del diritto comunitario,
nonché vigilare che il diritto nazionale sia rapidamente adeguato al diritto comunitario.
Invece, la Corte si è mostrata più prudente nei giudizi con efficienza diretta (come quelli
sui ricorsi della Commissione contro gli inadempimenti degli Stati membri): in questi casi,
è stata prevista la possibilità che la Corte condanni lo Stato membro, inottemperante ad
una sua precedenza sentenza di condanna, al pagamento di una somma forfettaria.
La TEORIA DEL PRIMATO nel contenzioso lavoristico della Corte di Giustizia: l’art.
288 TFUE enuclea le fonti del diritto dell’U.E. e ne traccia una summa divisio:
• Fonti vincolanti: esse sono:
➢ regolamento: è un atto normativo di portata generale, dotato di diretta
applicabilità negli ordinamenti giuridici nazionali.
➢ direttiva: è un atto normativo di portata generale, che, tuttavia, a differenza
del regolamento, vincola gli Stati membri al raggiungimento di un
determinato obiettivo, lasciandoli, però, liberi di scegliere le modalità di
perseguimento di tale obiettivo.
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sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciute, se i singoli non avessero la
possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione
del diritto comunitario imputabile ad uno stato membro.
Negli ultimi 15 anni il primato del diritto dell’U.E. è stato via via precisato. Ad esempio,
alle direttive, in pendenza del termine per la loro trasposizione nell’ordinamento
nazionale, si deve riconoscere la c.d. efficacia impeditiva delle scelte dei legislatori
nazionali: la direttiva entra in vigore alla data da essa stabilita o, in mancanza di
indicazioni, nel 20° giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Tale
circostanza è stata valorizzata alla luce del principio di leale cooperazione tra U.E. e Stati
membri. Il termine della direttiva è diretto a dare agli Stati membri il tempo necessario
all’adozione dei provvedimenti di trasposizione e non si può contestare agli stessi
l’omessa trasposizione della direttiva nel loro ordinamento giuridico interno prima della
scadenza di tale termine. In particolare, in una controversia relativa all’interpretazione
della direttiva n°1999/70 (relativa ai rapporti di lavoro a tempo determinato), la Corte ha
fornito delle importanti indicazioni, chiarendo che, nel caso di tardiva attuazione di una
direttiva, l’obbligo generale che incombe sui giudici nazionali di interpretare il diritto
interno in modo conforme alla direttiva esiste solamente a partire dalla scadenza del
termine di attuazione di quest’ultima. In assolvimento dell’obbligo di interpretazione
conforme, in ogni caso, resta escluso che il giudice debba o possa trasformarsi in una sorta
di sostituto del legislatore. Nel caso Adeneler, in particolare, la Corte è tornata ad
esprimersi a riguardo ribadendo che l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento
al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e applicazione delle norme nazionali
trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del
diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad un’interpretazione
contra legem del diritto nazionale. Inoltre, l’efficacia diretta verticale delle direttive è stata
riconosciuta solo ai dipendenti dello Stato, per avvalersi dei diritti assicurati dal diritto
dell’U.E., e non ai lavoratori dipendenti privati. La Corte di Giustizia non ha ignorato
questo divario di tutela e, dal caso Marshall I in poi, ha osservato che una distinzione del
genere potrebbe essere evitata se lo Stato membro avesse correttamente trasposto la
direttiva. Quindi, possiamo sostenere che la giurisprudenza sull’efficacia diretta delle
direttive è stata indirizzata a sostenere il principio del primato del diritto europeo, in base
al quale la preminenza delle disposizioni di una direttiva sul diritto nazionale può essere
fatta valere anche quando le norme nazionali siano di rango costituzionale. Quanto al
terzo pilastro della teoria del primato, la sentenza nel caso Francovich ha cercato di
risolvere la questione sulle condizioni che si possono ritenere sufficienti per l’insorgere
della responsabilità risarcitoria dello Stato inadempiente alle prescrizioni del diritto
europeo. In questa sentenza le condizioni sono state riconosciute in questi elementi:
• il risultato prescritto dalla direttiva implica l’attribuzione di diritti a favore dei
singoli;
• il contenuto di tali diritti deve poter essere individuato nelle disposizioni della
direttiva;
• deve sussistere un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello
Stato e il danno subito dai soggetti lesi;
• la violazione deve essere sufficientemente grave e manifesta.
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Modalità di attuazione del diritto europeo negli ordinamenti nazionali: la trasposizione nel
diritto interno di una direttiva non richiede necessariamente che le sue disposizioni
vengano riprese in modo formale e testuale in una norma di legge espressa e specifica ma
può essere sufficientemente un contesto giuridico generale, purché esso garantisca
effettivamente la piena applicazione della direttiva in modo sufficientemente chiaro e
preciso. In concreto, però, la Corte ha ristretto tale possibilità, che non è disponibile in
paesi (come il nostro) privi di un sistema di contrattazione collettiva ad efficacia generale.
Inoltre, le raccomandazioni, pur essendo una fonte non vincolante, non per questo devono
ritenersi prive di qualsiasi valore giuridico, visto che devono essere valorizzate dal giudice
nazionale in funzione interpretativa del diritto europeo o nazionale. Infine, il contenzioso
di matrice ha permesso alla Corte di sviluppare la propria giurisprudenza in materia di
sanzioni per violazioni del diritto europeo, le quali sono fondate su principi generali, come
l’obbligo di cooperazione leale (art. 4.3. TFUE). Un’ipotesi sanzionatoria è prevista dall’art.
17 della direttiva n°78/2000, il quale stabilisce che sono gli Stati membri a prevederle,
purché prevedano un risarcimento danni e siano effettive, proporzionate e dissuasive.
Nell’intreccio tra diritto del lavoro e diritto dell’U.E. è importante l’interpretazione del
principio di sussidiarietà. Infatti, la Corte, in una causa tra Regno Unito e Consiglio del
1996 sugli orari di lavoro, ha sostenuto la tesi secondo cui il miglioramento del livello di
tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori presuppone necessariamente un’azione
di dimensioni europee. Ecco perché interviene il principio di sussidiarietà, che è inteso
come criterio regolatore dell’esercizio delle competenze fra U.E. e Stati membri, che
permette l’intervento delle istituzioni dell’U.E. tutte le volte in cui è necessario un
intervento di più ampio raggio per la risoluzione di una determinata problematica che il
singolo Stato membro non ha la capacità di risolvere.
In merito al rapporto tra le fonti, la Corte si muove a favore della tesi dell’interdipendenza
progressista delle norme internazionali ed europee” in materia di lavoro, secondo la quale
eventuali contrasti fra le prime e le seconde dovrebbero sempre potersi superare facendo
ricorso al “principio del trattamento più favorevole”, per cui uno standard normativo
europeo, più elevato di quello previsto dalla corrispondente convenzione Oil, potrebbe
senz’altro essere rispettato dagli Stati membri, senza timore di incorrere in una violazione
degli obblighi internazionali; e viceversa. La stessa posizione viene seguita dalla
giurisprudenza della Corte sui rapporti fra diritto europeo e diritti nazionali. Nel contesto
della pronuncia sugli orari di lavoro (prima menzionata) la Corte ha chiarito che la
nozione di “prescrizioni minime” accolta dal trattato non pregiudica l’intensità dell’azione
che il Consiglio può ritenere necessaria e implica il riconoscimento della possibilità per gli
Stati membri di adottare norme più rigorose. L’interpretazione della nozione di
“prescrizioni minime” è strettamente intrecciata con la questione del rispetto del principio
di proporzionalità da parte delle autorità europee.
Principio di “non regresso”: se il legislatore dell’U.E. gode di una discrezionalità che può
dispiegarsi con ampiezza, il legislatore nazionale gode della stessa possibilità? E’ vero che
le direttive comportano un’obbligazione di risultato, ferma restando la competenza degli
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organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Tuttavia, va tenuto conto che le normative
nazionali di trasposizione devono misurarsi nell’area del diritto del lavoro con le
implicazioni del principio di “non regresso”. Nel caso Mangold la Corte ha confermato la
propria giurisprudenza sul valore giuridicamente vincolante delle clausole di non
regresso, visto che il vincolo non riguarda solo l’iniziale trasposizione ma anche ogni
misura nazionale intesa a garantire che l’obiettivo europeo possa essere raggiunto.
Tuttavia, il vincolo discendente dalla clausola di non regresso non comporta un divieto
assoluto di modifiche peggiorative rispetto al livello di tutela acquisito al momento
dell’attuazione della direttiva: l’eventuale riforma in pejus deve essere fondata su motivi
di politica sociale diversi dall’obbligo di trasposizione, ovvero può ammettersi solo
quando non è in alcun modo collegata con l’esigenza di dare attuazione a quelle regole
nell’ordinamento interno.
Il rispetto dei diritti fondamentali costituisce un criterio di giudizio ai fini del sindacato
giurisdizionale sulla validità degli atti adottati dalle istituzioni dell’U.E. e si impone come
un limite alla discrezionalità dei legislatori nazionali. Infatti, in una questione di disparità
di trattamento la Corte ha affermato proprio che tra i diritti fondamentali figura il
principio di uguaglianza e non discriminazione, aggiungendo che gli stessi fanno parte
integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza.
Inoltre, quando viene accertata una discriminazione, incompatibile col diritto europeo, e
finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, l’osservanza
del principio di uguaglianza può essere garantita solo mediante la concessione alle
persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le
persone della categoria privilegiata. Quindi, spetta al legislatore nazionale disapplicare
qualsiasi disposizione nazionale discriminatoria. Ovviamente, non mancano ormai i
richiami alle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, utilizzate come
parametro di riferimento per verificare il rispetto dei diritti fondamentali. Addirittura, in
un caso di discriminazione retributiva, la Corte si è occupata non direttamente della sua
lesione ma della lesione di un suo presupposto, che è stato riconosciuto nella possibilità di
contrarre matrimonio. Anche se a lungo la Corte si è mostrata riluttante a tener conto della
CEDU, in quanto non costituisce uno strumento giuridico vincolante, ora essa rappresenta
ha sicuramente guadagnato importanza per via dei numerosi richiami nei considerando di
diverse direttive, tant’è vero che è poi stata istituita l’Agenzia dell’U.E. per i diritti
fondamentali, col compito di fornire assistenza e consulenza in materia a istituzioni,
organi, uffici e agenzie dell’U.E. e agli Stati Membri. Con il Trattato di Lisbona si fa un
passo avanti nel riconoscimento dei diritti fondamentali, tant’è vero che l’art. 6 dispone
che i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri, fanno parte del diritto dell’unione in quanto principi generali. L’U.E. vi aderisce ed ha lo
stesso valore giuridico dei trattati.
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merci, dei servizi, dei capitali e la libera circolazione dei lavoratori. Per questo motivo, le
persone vanno intese fondamentalmente come soggetti economici, ossia lavoratori
subordinati (titolari del diritto di libera circolazione) e lavoratori autonomi o persone
giuridiche (beneficiarie della libertà di stabilimento e del diritto di libera prestazione di
servizi). Questo principio ha trovato pieno riconoscimento nell’art. 48 del Trattato di Roma
(attuale art. 45 TFUE): esso implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla
nazionalità, fra i lavoratori degli Stati membri con riguardo all’accesso all’impiego e alle condizioni
di lavoro e comprende i diritti di ingresso nel territorio di ciascuno Stato membro al fine di
rispondere ad un’offerta di lavoro, di soggiorno in detto territorio, nonché di mantenervi la propria
residenza dopo aver occupato un impiego. Questo pilastro ha attraversato 3 fasi di progressiva
realizzazione:
1) La prima disciplina in materia di libera circolazione si ebbe con il Regolamento n
°15/1961, il quale ha sancito che ogni cittadino di un altro Stato membro è
autorizzato ad occupare un impiego sul territorio di un altro Stato membro, qualora
non ne sia disponibile nel mercato regolare del lavoro di quello stato. Per questo
motivo era necessario il rilascio di un permesso di lavoro.
2) Con la successiva approvazione del Regolamento n°38/1964, è stato esteso l’elenco
dei soggetti beneficiari di questo diritto e non parlò più di mercato nazionale ma di
mercato comunitario.
3) La completa realizzazione del principio si è avuto con il Regolamento n°1612/1968
e con la direttiva n°360/1968. Queste norme sono poi state sostituite da una
direttiva del 2004, che oggi è confluita nel Regolamento n°492/2011, il quale ha
sancito la diretta applicabilità di queste disposizioni, cercando di attribuire il
significato più aperto e favorevole all’affermazione di questo principio, che è esteso
anche a lavoratori precari e calciatori, nonché prostitute.
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sostenuto la più ampia interpretazione di questo diritto, ammettendo il diritto del soggetto
a non essere allontanato dopo un certo periodo di tempo qualora provi di stare cercando
attivamente lavoro e che ha effettive possibilità di essere assunto. Tale diritto è
riconosciuto solo ai cittadini di uno degli Stati membri dell’U.E., la quale non ha
competenza in materia di cittadinanza. Inoltre, dobbiamo ricordare che un cittadino di uno
Stato membro, dipendente di un’impresa di altro Stato membro, non può essere sottoposto
allo svolgimento di una prestazione lavorativa che sia fatta oggetto di discriminazione. La
titolarità del diritto di libera circolazione spetta anche ai familiari di un lavoratore, purché
questi abbia previamente esercitato tale diritto. Quindi, sembrerebbe che il diritto di libera
circolazione dei familiari non sarebbe autonomo ma dipendente da quello del lavoratore
migrante. Tuttavia, la Corte di Giustizia ha nel tempo esteso l’applicabilità di questo
diritto anche al di fuori di questa precisazione. Ora, con la direttiva n°38/2004 i familiari
conservano il diritto di soggiorno su base personale in caso di decesso del cittadino
dell’U.E., di divorzio, annullamento del matrimonio o cessazione di un’unione registrata.
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Il lavoratore migrante gode degli stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali.
Sono stati considerati vantaggi sociali tutti quelli la cui estensione ai lavoratori cittadini di
altri Stati membri risulta atta a facilitare la loro mobilità nell’ambito dell’U.E., che connessi
o no ad un contratto di lavoro sono generalmente attribuiti ai lavoratori nazionali in
ragione del loro status. Sulla base di questo principio si è data la possibilità di convivere
more uxorio ai lavoratori di un cittadino di altro Stato membro se la medesima possibilità
è data dallo Stato membro dove lui lavora ai suoi cittadini. Quindi, possiamo ormai
affermare che lo Stato membro ospitante agevola l’ingresso e il soggiorno del partner con
cui il cittadino dell’U.E. abbia una relazione stabile debitamente attestata.
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professionale. La Corte, nel corso del tempo, ha esteso l’interpretazione di questa parte del
regolamento e ha fatto sì che i familiari fossero considerati beneficiari indiretti della parità
di trattamento riconosciuta al lavoratore migrante. Ciò trova una base normativa più forte,
rispetto al passato, nell’art. 24.1 della direttiva n°38/2004. Quindi, adesso, sono fortemente
riconosciuti il diritto del lavoratore di farsi raggiungere dalla famiglia e il diritto del figlio
del lavoratore di avere la possibilità di usufruire di sussidi scolastici e borse di studio.
L’esigenza del rispetto della vita familiare è sancito anche dall’art. 8 CEDU.
Come detto precedentemente, il principio di non discriminazione opera con riguardo sia
alle discriminazioni dirette sia a quelle indirette. Questa è la terminologia che attualmente
utilizza la giurisprudenza ma che, fondamentalmente, richiama quella passata che
distingueva tra discriminazioni dissimulate e discriminazioni palesi, per cui possiamo
sostenere l’idea secondo la quale si ha una summa divisione tra:
• discriminazioni dirette (o palesi): sono quelle disposizioni nazionali che in modo
chiaro ed evidente producono un risultato discriminatorio in capo ai destinatari;
• discriminazioni indirette (o dissimulate): sono quelle disposizioni nazionali che per
loro stessa natura tendono ad essere applicate più ai lavoratori migranti che a quelli
nazionali, determinando il rischio di essere sfavorevole in modo particolare ai
primi, senza che tale discriminazione possa essere obiettivamente giustificata e
adeguatamente commisurata allo scopo perseguito. Quindi, anche una condizione
di residenza potrebbe cessare di essere discriminatoria se sorretta da giustificazioni
oggettive, come potrebbe essere la tutela della sanità pubblica.
Il principio di non discriminazione, tuttavia, non può spingersi fino al punto da
legittimare forme di azioni positive nei confronti dei migranti europei ma, nonostante ciò,
la Corte di Giustizia si è espressa diverse volte su fenomeni di c.d. discriminazione alla
rovescia a danno dei cittadini del Paese dalla cui legislazione dipendeva l’applicazione
della misura contesta, come nel caso del rifiuto di un sussidio per adulti portatori di
handicap da parte delle autorità francese al figlio ivoriano adottivo di un lavoratore
francese che non aveva ai esercitato il diritto di libera circolazione. Ciò vuol dire che
situazioni del genere, tipiche di diritto interno, non possono essere colpite dal diritto
dell’U.E. La Corte di Giustizia è arrivata, poi, ad ammettere la rilevanza anche di ostacoli
non discriminatori, che consistono in normative che, benché applicate indipendentemente
dalla cittadinanza, comportino ostacoli alla libera circolazione dei lavoratori.
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territorio nazionale per recarsi in un altro Stato membro, senza possibilità di richiedere
alcun visto d’uscita né alcuna formalità equivalente; e viceversa in entrata. Quindi, con
l’entrata in vigore della direttiva n°38/2004 possiamo schematizzare in questo modo:
➢ SOGGIORNO INFERIORE A 3 MESI: non sono sottoposti ad alcuna condizione o
formalità, salvo la necessità di possedere una carta di identità o di un passaporto
validi.
➢ SOGGIORNO SUPERIORE A 3 MESI: mentre in passato era prevista una carta di
soggiorno, oggi è necessaria solo l’iscrizione presso le autorità competenti. Tuttavia,
bisogna distinguere tra:
o Soggetti economicamente non attivi: il diritto di soggiorno nel territorio di un
altro Stato membro è riconosciuto nel rispetto di alcune condizioni. Infatti,
l’art. 7.3 direttiva n°38/2004 stabilisce che il cittadino dell’U.E. che abbia
cessato di essere un lavoratore subordinato o autonomo conserva tale qualità
quando:
▪ l’interessato è temporaneamente inabile al lavoro a seguito di una
malattia o di un infortunio;
▪ trovandosi in uno stato di disoccupazione involontaria debitamente
comprovata dopo aver esercitato un’attività, si è registrato presso
l’ufficio di collocamento;
▪ segua un corso di formazione professionale, a condizione che esista
un collegamento tra l’attività professionale precedentemente svolta e
il corso.
Poi con riferimento ai soggetti non attivi, come ad esempio gli studenti, il
diritto di soggiorno era riconosciuto, purché si fosse in possesso di
un’assicurazione malattia e di risorse sufficienti.
o Soggetti economicamente attivi: il diritto di soggiorno è attribuito in modo
incondizionato. Ai fini del rilascio dell’attestazione d’iscrizione, lo Stato
d’accoglienza può prescrivere solo l’esibizione della carta di identità o del
passaporto validi e una conferma d’assunzione del datore di lavoro o un
certificato di lavoro. Questo attestato ha solo valore dichiarativo e non
costitutivo del diritto di soggiorno, in quanto la Corte di Giustizia ha
sostenuto che il diritto di ingresso e di soggiorno derivino direttamente dal
Trattato.
Ne deriva che la semplice omissione delle formalità relative all’ingresso, al trasferimento e
al soggiorno non può giustificare un provvedimento di espulsione. Per quanto riguarda il
nesso con eventuali sanzioni, la Corte nel tempo ha affinato la materia, partendo dalla
posizione assunta nel caso Royer (dove si esclude l’espulsione ma poi parla genericamente
di sanzioni senza specificarne il tipo) a quella assunta in occasione di una domanda
pregiudiziale proposta dal pretore di Milano, riguardante la compatibilità al diritto
europeo di una norma del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (TULPS). In
quell’occasione la Corte affermò che le sanzioni non devono essere talmente
sproporzionate rispetto alla gravità dell’infrazione che si vuole risolvere. Quindi, la Corte
ha inserito un principio di proporzionalità delle sanzioni. La direttiva n°38/2004
riconosce il diritto di soggiorno anche ai familiari (coniuge, partner con unione registrata,
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II. L’impiego nelle pubbliche amministrazioni: l’art. 45.4 TFUE afferma che le disposizioni
in tema di libera circolazione non sono applicabili agli impieghi nelle P.A. La norma
sembrerebbe legittimare una deroga della libertà di circolazione dei lavoratori. Allo
stato attuale un’interpretazione letterale della norma sembra ormai superata. Sul
punto è intervenuta la Corte di Giustizia, la quale, a fronte della dilatazione degli
interventi delle P.A., ha affermato che la portata della deroga avrebbe rischiato di
risultare ampliata a dismisura, per cui sostiene l’esigenza che la nozione di P.A.
debba essere interpretata ed applicata in modo uniforme nell’intera U.E.
Un’interpretazione funzionale non nega, infatti, che nell’impiego alle dipendenze di
enti pubblici possano esistere mansioni, le quali presuppongono, in chi le assolve,
l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato, nonché
la reciprocità di diritti e doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di
cittadinanza; ma è servita a ridimensionare il requisito della cittadinanza che è
richiesto solo quando si implica la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio
dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi
generali dello Stato. La Commissione indirizzò nel 1988 una comunicazione agli
Stati, nella quale si annunciava che, ai fini dell’applicazione della disciplina della
libera circolazione, essa avrebbe condotta un’azione sistemica in 4 settori: enti di
gestione di un servizio commerciale; servizi operativi nella sanità pubblica;
istruzione nelle scuole pubbliche; ricerca a fini civili presso istituti pubblici. Inoltre,
a prescindere dalla cittadinanza, possono essere posti limiti all’accesso all’impiego
in quelle mansioni della P.A. che richiedano il possesso di specifiche qualificazioni
professionali o la conoscenza di una determinata lingua. Una volta immesso, il
cittadino di altro Stato membro non deve essere discriminato in relazione alle
condizioni di lavoro.
La sicurezza sociale è stata intesa come un diritto funzionale a rendere possibile la libera
circolazione. La base giuridica è stata rinvenuta nell’art. 51 TCEE (ora art. 48 TFUE),
secondo il quale il Consiglio ha potuto adottare quei provvedimenti che garantissero, sia
per il sorgere sia per il calcolo, il cumulo di tutti i periodi presi in considerazione dalle
varie legislazioni nazionali. Tali insieme di norme sono state basate sul divieto di
discriminazione a causa della nazionalità o della residenza e sulla conservazione a favore
del lavoratore dei diritti acquistati in forza dei vari regimi previdenziali che gli sono stati
applicati. Questo insieme di norme e principi sono stati attuati mediante il Regolamento n
°1408/1971, il quale, tra l’altro, ha istituito un sistema di coordinamento tra i regimi
nazionali di previdenza. In pratica, viene utilizzata la tecnica del mutuo riconoscimento,
secondo la quale si produce la denazionalizzazione della legge regolatrice del rapporto
previdenziale, per cui ogni regime acquisisce fatti e circostanze maturate sotto una
legislazione diversa. Nel 2004 è stato adottato con regolamento un nuovo sistema di
coordinamento dei sistemi previdenziali e il regolamento del 1971 è stato definitivamente
abrogato con il Regolamento n°987/2009, che ha prodotto un ampliamento del suo ambito
di applicazione. Ecco alcuni dei principi fondamentali che bisogna attenzionare:
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Il problema della libertà di circolazione è sempre più pregnante, tenendo conto anche del
fatto che si verificano sempre più spesso fenomeni di distacco temporaneo di lavoratori in
uno Stato membro, da parte di imprese con sede in altro Stato membro. L’attenzione, però,
non deve essere posta solo sulla garanzia dello sviluppo del mercato europeo del lavoro
ma anche, e soprattutto, sulla necessità di evitare il realizzarsi di fenomeni di dumping
sociale. Quindi, alla mobilità all’interno dell’impiego si è cercato di dare risposta con la
direttiva n°71/1996. La giurisprudenza iniziale della Corte di Giustizia ha sostenuto che il
diritto dell’U.E. non osta a che gli Stati membri estendano l’applicazione delle loro leggi o
dei contratti collettivi di lavoro a chiunque svolga un lavoro subordinato, ancorché
temporaneo, nel loro territorio, indipendentemente dal Paese in cui è stabilito il datore di
lavoro. Successivamente la direttiva n°71/1996 si prefigge di affrontare un problema che è
originato dalla diversità dei sistemi di diritto internazionale privato degli Stati membri con
riguardo alle regole cui fare riferimento in caso di conflitto di differenti leggi nazionali. E’
per questo motivo che è stato varato il Regolamento n°593/2008, il quale stabilisce il
principio generale secondo il quale il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti; tale
scelta deve essere espressa o risultare in modo ragionevole. Questo regolamento, inoltre,
prevede che in assenza di scelta delle parti, il contratto di lavoro è regolato:
➢ dalla legge del Paese nel quale il lavoratore compie abitualmente il suo lavoro;
➢ dalla legge del Paese dove si trova la sede dell’impresa che ha assunto il lavoratore,
qualora questi non compia abitualmente il suo lavoro in uno stesso Paese;
➢ a meno che non risulti dall’insieme delle circostanze che il contratto di lavoro
presenta un collegamento più stretto con un altro Paese: in tal caso si applicherà la
legge di quest’altro Paese.
La scelta della legge applicabile non può determinare la rinuncia alle norme imperative
che si applicherebbero in mancanza di scelta. La direttiva, a differenza del regolamento, è
limitata all’inquadramento giuridico della situazione dei lavoratori temporaneamente
distaccati in un altro Stato membro e intende assolvere ad una funzione integratrice:
potremmo dire che la direttiva non ha lo scopo di armonizzare il contenuto materiale delle regole
applicabili nei diversi Paesi, ma di elaborare criteri per l’identificazione di tali regole, per cui si
presenta non come uno strumento di diritto del lavoro ma di diritto internazionale privato. La
direttiva si rivolge alle imprese stabilite in uno Stato membro che distacchino lavoratori
nel territorio di un altro Stato membro ed individua 3 situazioni tipiche:
1. appalto o subappalto transnazionale;
2. mobilità interaziendale o infragruppo;
3. lavoro interinale transfrontaliero.
Quindi, in accordo alla direttiva, gli Stati membri devono provvedere a che le imprese che
distaccano i lavoratori nel loro territorio garantiscano determinate condizioni di lavoro.
Queste condizioni devono essere stabilite da norme di legge regolamentari o
amministrative o da contratti collettivi con efficacia erga omnes e quelle da rispettare sono
quelle atte ad apprestare un nucleo di protezione sociale minima al lavoratore distaccato e
riguardano aspetti del rapporto di lavoro come i periodi massimi e minimi di riposo, la
durata minima delle ferie annuali o le tariffe salariali minime. Resta comunque consentito
agli Stati membri di imporre alle imprese nazionali ed estere in pari misura condizioni di
lavoro e di occupazione riguardanti materie diverse laddove si tratti di disposizioni di
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ordine pubblico. In pratica, questa direttiva cerca di governare nella globalizzazione i processi di
integrazione regionale dei mercati senza trascurarne le ricadute di carattere sociale.
Nei rapporti tra queste 2 direttive rimanevano comunque degli interrogativi, cui ha
cercato di dare una risposta la Corte di Giustizia attraverso 2 importanti sentenze: quella
del caso Laval e quella del caso Viking. Qui la Corte ha escluso che la circostanza che
l’U.E. non abbia competenza a disciplinare lo sciopero valga ad escluderlo dalla sfera
operativa delle regole del Trattato, che garantiscono le libertà economiche fondamentali.
Ecco perché è possibile esperire un’azione collettiva, in quanto tale diritto è riconosciuto
conforme al diritto europeo sul fondamento che esso rientra nella libertà di prestazione di
servizi. In definitiva, possiamo affermare che in entrambi i casi l’assunto di fondo è che i diritti
sociali fondamentali devono sempre ritenersi passibili di un’operazione di bilanciamento con le
libertà economiche fondamentali garantite dal Trattato, per cui il loro esercizio deve essere
conciliato con le esigenze relative ai diritti tutelati dal Trattato stesso, oltre che essere conforme al
principio di proporzionalità. Ciò produce una conferma al più alto gradino delle libertà
economiche e un ridimensionamento del principio di autodeterminazione. Altra
pronuncia fondamentale è quella nel caso Ruffert, in cui la Corte si è confrontata con il
criterio del trattamento più favorevole. L’aspetto cruciale sta nell’affermazione che una
tariffa salariale determinata dalla legge per il tramite del rinvio ad un contratto collettivo
non solo risponde alla nozione di tariffa minima accolta dalla direttiva, ma soprattutto non
può essere considerata una condizione di lavoro e di occupazione più favorevole, perché,
ai sensi della direttiva, possono esserlo soltanto quelle in vigore nel Paese di origine o
quelle cui eventualmente l’impresa (che ha distaccato i lavoratori) si sia sottoposta
stipulando volontariamente nello Stato membro ospitante un contratto collettivo di lavoro
più favorevole. Inoltre, resta escluso che lo Stato ospitante possa subordinare
l’effettuazione di una prestazione di servizi sul suo territorio al rispetto di condizioni di
lavoro e di occupazione che vadano al di là delle norme imperative di protezione minima,
per cui finisce che livelli minimi e standard massimi di tutela coincidono nella maggior
parte dei casi, visto che, tra l’altro, la Corte ha sostenuto che non sia possibile ammettere
ciò culla base dell’applicazione di norme di ordine pubblico.
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La Strategia Europea per l’Occupazione (SEO) viene indicata col nome di processo di
Lussemburgo e attraversa 2 fasi fondamentali:
• 1a FASE - Dal 1998 al 2002: gli orientamenti in materia di occupazione adottati dal
1998 si dividono in 4 pilastri, articolati in una ventina di linee-guida, i quali sono:
1. “Occupabilità”: nelle linee guida si trova marcata la crucialità delle misure di
politica attiva del lavoro, con un’enfasi particolare sulla formazione iniziale e
continua, ritenuta fondamentale per accrescere le opportunità di
occupazione. In particolare, si prevede che i giovani e gli adulti debbano
usufruire di misure di inserimento nel mercato del lavoro prima che siano
trascorsi rispettivamente 6 e 12 mesi di disoccupazione e, in generale, il
raggiungimento almeno del 20% dei disoccupati con queste misure attive.
2. “Imprenditorialità”: si punta alla diffusione del lavoro autonomo, perché
questo può dare impulso alla crescita di opportunità occupazionali.
3. “Adattabilità di imprese e lavoratori”: è il pilastro più controverso, perché le
sue indicazioni possono essere intese nell’esigenza di rendere produttive e
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prodotto con la SEO. Infatti, hanno giustamente rilevato che politiche del genere
riflettono i caratteri della disoccupazione in quei paesi dell’U.E., come la Gran
Bretagna, che da lungo tempo le hanno sperimentate; mentre sono giudicate
parziali ed insufficienti nei contesti nazionali segnati da forti squilibri regionali di
sviluppo economico, come l’Italia o la Spagna, dove sarebbe più opportuno
intervenire sul versante della domanda e delle risorse per sostenerla, come è poi
avvenuto in parte con il Consiglio europeo di Lisbona del 2000.
Da quel Consiglio si è cominciato a parlare di “Strategia di Lisbona”, la quale si è
concentrata su 2 obiettivi principali:
1. tasso medio di occupazione del 70% entro il 2010;
2. investimenti in ricerca e sviluppo in misura pari al 3% del PIL.
Tuttavia, questi obiettivi devono sempre mantenersi coerenti con gli indirizzi di massima
per le politiche economiche e non contraddire il Patto di stabilità. Queste politiche sono
mantenute ma, di certo, la SEO e la flexicurity stanno mostrando notevoli limiti di
insufficienza, soprattutto a partire dalla crisi economico-finanziaria ed occupazionale,
scoppiata nel 2008 e tutt’ora in corso.
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fondi strutturali. Quindi, il nuovo FSE, attraverso un regolamento del 1999, individua 3
obiettivi essenziali:
A. Obiettivo “Convergenza”: è il più importante, in quanto si propone di accelerare la
convergenza degli Stati membri e delle regioni in ritardo di sviluppo, migliorando
le condizioni per la crescita e l’occupazione tramite l’incremento e il miglioramento
della qualità degli investimenti in capitale fisico e umano.
B. Obiettivo “Competitività regionale e occupazione”: punta a rafforzare la competitività
delle regioni e l’occupazione, anticipando i cambiamenti economici e sociali.
C. Obiettivo “Cooperazione territoriale europea”: è inteso a rafforzare la cooperazione
transfrontaliera mediante iniziative congiunte locali e regionali.
I fondi europei contribuiscono al conseguimento dei 3 obiettivi indicati. Il FSE è coinvolto
nella realizzazione degli obiettivi Convergenza e Competitività e occupazione. Per questo
fondo si sono impiegati all’incirca 308 miliardi di euro e si tratta di somme che hanno un
carattere complementare dell’azione europea rispetto a quelle nazionali. La cooperazione
deve risultare operante con riguardo alla preparazione, all’attuazione, alla sorveglianza e
alla valutazione degli interventi. Il Regolamento n°1083/2006 ha previsto che il Consiglio
stabilisca orientamenti strategici per la coesione economica, sociale e territoriale definendo
un contesto indicativo per l’intervento dei Fondi. La tipologia degli interventi del Fondo è
identificata dall’art. 3 Regolamento n°1083/2006, con riguardo ad alcune aree prioritarie:
➢ accrescere l’adattabilità di lavoratori ed imprese, sviluppando l’apprendimento
permanente e la progettazione e diffusione di forme di organizzazione del lavoro
innovativo e più produttive;
➢ migliorare l’accesso all’occupazione e l’inserimento sostenibile nel mercato del
lavoro per le persone in cerca di lavoro e per quelle inattive, al fine di prevenire
anche la disoccupazione, soprattutto quella di lunga durata;
➢ potenziare l’inclusione sociale delle persone svantaggiate e combattere ogni forma
di discriminazione nel mercato del lavoro;
➢ potenziare il capitale umano, promuovendo l’elaborazione e l’introduzione di
riforme dei sistemi di istruzione e di formazione al fine di sviluppare l’occupabilità.
Quindi, possiamo sempre affermare che il FSE continua ad essere guardato come uno
strumento di politica dell’impiego e anche come strumento di politica di sviluppo regionale, che
abbraccia l’intero arco delle politiche del lavoro e dello sviluppo delle risorse umane.
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rappresentato dal voler ottenere una partecipazione alla scuola pre-elementare per almeno
il 95% dei bambini tra i 4-5 anni.
Un elemento di squilibrio dei mercati del lavoro europei è costituito dalla carenza di forza-
lavoro qualificata in determinate aree. In un simile contesto si comprende l’importanza
dell’azione atta favorire il riconoscimento reciproco fra gli Stati membri di certificati, titoli,
diplomi corrispondenti ai diversi livelli di qualificazione professionale. La prima iniziativa
è la decisione del Consiglio n°368/1985 relativa alla corrispondenza delle qualifiche di
formazione professionale tra gli Stati membri delle C.E. Essa prevedeva che la
Commissione provvedesse all’elaborazione di descrizioni comunitarie dei requisiti
professionali pratici, per le professioni o i gruppi di professioni previamente individuati.
Un’altra importante normativa è la direttiva n°48/1989 relativa ad un sistema generale di
riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore sulle formazioni professionali di una
durata minima di 3 anni. Nel caso Heylens la Corte si era trovata a giudicare delle
legittimità della decisione non motivata dell’autorità francese competente, con cui era
stato negato a un cittadino belga, titolare di un diploma conseguito nel proprio Paese,
l’accesso alla professione di allenatore di calcio; ed aveva concluso che, in ipotesi del
genere, il principio della libera circolazione dei lavoratori richiede che la decisione sia
soggetta ad un gravame di natura giurisdizionale che consenta di verificarne la legittimità
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rispetto al diritto comunitario e che l’interessato possa venire a conoscenza dei motivi che
stanno alla base della decisione. Questa è stata abrogata e trasfusa in una sorta di testo
unico, che è la direttiva n°36/2005, la quale:
• si applica a tutti i cittadini di uno Stato membro che vogliono esercitare, come
lavoratori subordinati, autonomi o liberi professionisti, una professione
regolamentata in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito le loro
qualifiche professionali;
• prevede che uno Stato membro deve consentire l’esercizio della professione per cui
è richiesta una determinata qualifica professionale a tutti coloro che sono in
possesso della stessa;
• indica le ipotesi in cui lo Stato ospitante può esigere al richiedente la prova del
possesso di un’esperienza professionale o di sottoporsi a un tirocinio o a una prova
attitudinale;
• prevede che la procedura di riconoscimento sia effettuata il prima possibile.
Ovviamente, non viene meno il requisito della conoscenza della lingua. Dal 2007 sono
state oltre 100 mila le decisioni di riconoscimento delle qualifiche professionali e di
autorizzazione all’esercizio di una professione, testimoniando come ci siano state diverse
condanne per il mancato riconoscimento delle stesse.
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limitare le possibilità di lavoro a tempo parziale. Va tenuto conto che l’accordo quadro ha
lo scopo di mantenere o introdurre disposizioni nazionali più favorevoli e, allo stesso
tempo, deve rispettare una clausola di non regresso, secondo la quale non si deve
peggiorare la situazione vigente in ciascuno Stato membro.
TUTELA ANTIDISCRIMINATORIA: la protezione contro le discriminazioni è presente nei
considerando, nel preambolo dell’accordo e nelle relative clausole. La finalità è quella di
assicurare la soppressione delle discriminazioni nei confronti dei lavoratori a tempo
parziale e di migliorare la qualità del lavoro a tempo parziale. Pertanto, i lavoratori a
tempo parziale non devono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a
tempo pieno comparabili. Nell’applicazione di questo principio si deve tener comunque
conto del principio pro rata temporis, che impone di distinguere gli istituti del rapporto
di lavoro rispetto ai quali si impone una regola di parità di trattamento in senso stretto
(come la retribuzione oraria) da quelli in relazione ai quali il trattamento dei lavorati part-
time va opportunamente riproporzionato in base alla ridotta entità delle prestazioni
lavorative (come la retribuzione globale). Questa disciplina può non essere applicata ai
part-timers occasionali ma in ogni caso essa riguarda le condizioni del rapporto di lavoro
ad esclusione dei trattamenti previdenziali pubblici, in quanto le relative questioni sono
rinviate alle decisioni degli Stati membri. Per evitare di svuotare di significato
l’affermazione di principio del divieto di discriminazione, si deve dare un’interpretazione
funzionale a questo principio delle possibili ragioni obiettive, che giustifichino trattamenti
differenti fra lavoratori a tempo parziale e a tempo pieno. L’accordo è strutturato in
maniera tale da enunciare un divieto di discriminazione diretta, per cui il riferimento a
ragioni obiettive di trattamenti differenziati dovrebbe essere inteso alla luce della
giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di discriminazioni, che non permette
cause di giustificazione. Ciò significa che possono ammettersi trattamenti diversi per i
lavoratori a tempo parziale solo se basati su motivazioni non legate al fatto che essi
svolgano attività lavorativa ad orario ridotto. Questa direttiva non si limita a stabilire un
divieto di discriminazione diretta: infatti, contiene anche l’esplicito richiamo delle norme
europee sulla parità fra lavoratori e lavoratrici e, quindi, ai divieti di discriminazione
indiretta oltre che diretta.
GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA: in relazione al lavoro a tempo
parziale, questa giurisprudenza ha sicuramente dato un notevole apporto all’eliminazione
di trattamenti meno favorevoli per le lavoratrici previsti in molti ordinamenti, dando un
contributo alla ridefinizione della disciplina in materia. Tale giurisprudenza si è sviluppata
in assenza di una disciplina europea che fosse specificamente rivolta alla
regolamentazione del lavoro atipico e sulla necessità di pronunciarsi in una serie di casi
concreti di trattamenti discriminatori, riguardanti le diversità di trattamento tra lavoratori
e lavoratrici, le prassi salariali e l’applicazione di discipline legali e/o collettive. In
particolare, la contrattazione collettiva nei confronti del lavoratore atipico presentava un
atteggiamento ambivalente, in quanto all’autonomia negoziale delle parti sociali era
lasciata la regolazione dello stesso e spesso non erano rispettati gli obiettivi della
normativa antidiscriminatoria. Ad esempio: diverse disposizioni del contratto collettivo
tedesco applicabile ai pubblici dipendenti sono state considerate dalla Corte di Giustizia
incompatibile col diritto comunitario; mentre, in una controversia relativa al trattamento
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La direttiva n°70/1999 riguarda il lavoro a tempo determinato: è esito del dialogo sociale
europeo e presenta gli stessi caratteri strutturali della direttiva riguardante il lavoro a
tempo parziale. Ciò che emerge dai considerando è una maggiore intenzione delle parti
sociali di attuare gli obiettivi della SEO. In questo caso l’accordo quadro prende in
considerazione solo le regole che possono essere applicate ai contratti di lavoro a tempo
determinato. Il lavoratore a tempo determinato è identificato con una persona con un
contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore. La
normativa comunitaria si propone essenzialmente 2 obiettivi:
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La direttiva n°140/2008 riguarda il lavoro tramite agenzia interinale. Diffusosi negli USA
nel secondo dopoguerra, in Europa c’era una situazione molto eterogenea in questa
disciplina. In Italia, addirittura, il lavoro tramite agenzia interinale è stato riconosciuto
solo nel 1997. Quindi, il legislatore europeo si è trovato di fronte a diversi modelli. In
particolare, se lo svolgimento della singola missione presso l’impresa utilizzatrice risulta
circoscritto nel tempo, ciò non implica sul piano logico che il contratto di lavoro che lega
l’interinale all’agenzia debba essere parimenti a tempo determinato. In effetti, però, nella
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maggior parte dei Paesi dell’U.E. tale criterio è il più diffuso, mentre nella Repubblica
Federale Tedesca è stato per molto tempo considerato a tempo indeterminato. Le direttiva
del 2008, però, non sceglie fra i diversi possibili modelli di lavoro interinale ma cerca,
piuttosto, di offrire a tali lavoratori un certo grado di tutela sulla base del principio di
parità di trattamento temperato da eccezioni. Anch’essa ribadisce che la regola è sempre il
rapporto di lavoro a tempo indeterminato, tant’è vero che gli interinali hanno il diritto di
essere informati dei posti vacanti nell’impresa utilizzatrice, affinché possano aspirare a
ricoprire posti di lavoro a tempo determinato.
CAMPO DI APPLICAZIONE E CONTENUTI DELLA DIRETTIVA: ex art. 1 della direttiva,
si dispone che essa si applichi ai lavoratori che hanno un contratto di lavoro o un rapporto
di lavoro con un’agenzia interinale e che sono assegnati ad imprese utilizzatrici per
lavorare temporaneamente e sotto il controllo e la direzione delle stesse. Quindi, per
lavoratore tramite agenzia interinale si intende quello che sottoscrive un contratto di lavoro o
inizia un rapporto di lavoro con un’agenzia interinale, al fine di essere inviato in missione presso
un’impresa utilizzatrice per prestare temporaneamente la propria opera sotto il controllo della
direzione della stessa. Allo stesso modo, per missione va inteso il periodo durante il quale il
lavoratore tramite agenzia interinale è messo a disposizione di un’impresa utilizzatrice affinché
presti temporaneamente la propria opera sotto il controllo e la direzione della stessa. La disciplina
sul lavoro interinale ruota attorno al principio di parità di trattamento dei lavoratori
interinali, per cui in qualche modo si deve assicurare che le loro condizioni di base di
lavoro ed occupazione siano identiche a quelle che si applicherebbero se fossero
direttamente assunti dall’impresa utilizzatrice per svolgere lo stesso lavoro. Ciò vuol dire
che la parità di trattamento non opera in generale ma limitatamente a quelle che la
direttiva considera condizioni di base di lavoro e di occupazione, inclusi gli aspetti della
disciplina dell’orario e della retribuzione. Quindi, al lavoratore interinale si deve
corrispondere una retribuzione non inferiore a quella del lavoratore. Questo punto era
diverso tra le varie legislazioni europee, per cui la direttiva ha effettuato
un’armonizzazione verso l’alto delle stesse. Devono, inoltre, essere applicate le normative
di tutela delle lavoratrici in gravidanza o in periodo di allattamento, dei bambini e dei
giovani, nonché i divieti di discriminazione di sesso, razza, religione, età e tendenze
sessuali. La parità di trattamento assicurata agli interinali è, però, accompagnata da molte
eccezioni, che sono:
➢ Agli stati membri si riconosce la facoltà di attribuire alle parti sociali l’opzione di
mantenere o concludere contratti collettivi, che prevedano modalità alternative
riguardanti le condizioni di lavoro e di occupazione, ferma restando la non
precisata condizione del rispetto della protezione globale dei lavoratori interinali.
➢ Gli stati membri, privi di contratti collettivi con efficacia erga omnes, possono
derogare al principio di parità di trattamento, ad esempio stabilendo un periodo di
attesa per il conseguimento della parità di trattamento, purché sia garantito un non
bene precisato livello adeguato di protezione.
A fronte pertanto di queste eccezioni si dovrà attendere la trasposizione della direttiva nei
vari ordinamenti nazionali per capire la reale tutela dei lavoratori interinali, ferma
restando la consueta clausola di non regresso. Nella direttiva c’è anche una disposizione
che ha lo scopo di superare i divieti e le restrizioni che il lavoro interinale presenta nei
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Anche con riguardo al telelavoro esiste disciplina europea. In questo caso, però, le parti
sociali europee hanno preferito concludere un accordo non destinato ad essere recepito in
una fonte formale, per cui la disciplina è il prodotto dell’autonomia collettiva da attuarsi
nei singoli Stati membri ad opera delle parti sociali nazionali. In proposito, possiamo
ricordare le linee guida definite dall’Accordo nel settore delle telecomunicazioni del 2001.
Questo accordo, innanzitutto, definisce il telelavoratore come colui che, usando tecnologie
dell’informazione e delle comunicazioni, esegue tutto il suo lavoro nella propria abitazione o effettua
regolarmente una parte del proprio lavoro nella propria abitazione, mentre la parte rimanente è
svolta nei locali dell’azienda. L’introduzione del telelavoro deve essere su base volontaria e
deve garantire la parità di trattamento con i lavoratori standard, soprattutto con
riferimento all’accesso ad opportunità di formazione professionale e di carriera e
all’applicazione delle norme a tutela della salute nei luoghi di lavoro e al godimento diritti
sindacali. L’accordo quadro sul telelavoro, stipulato nel 2002 tra la Confederazione
Europea dei Sindacati (CES) e le organizzazioni degli imprenditori, ha sviluppato e
generalizzato tali indicazioni. Quindi, adesso possiamo affermare che il telelavoratore è un
normale lavoratore subordinato caratterizzato dalla peculiarità relativa al luogo di
svolgimento della prestazione. Infatti, il telelavoro costituisce una forma di organizzazione o
svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologia dell’informazione in cui l’attività lavorativa,
che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori degli
stessi. Il telelavoro costituisce pertanto solo una diversa modalità di svolgimento del lavoro. Il
telelavoratore fruisce degli stessi diritti, garantiti dalla legislazione dai contratti collettivi,
previsti per un lavoratore comparabile che svolge attività nei locali dell’impresa. Nel
nostro ordinamento l’accordo quadro è stato recepito con l’accordo interconfederale del
2004.
Con l’adozione della direttiva sul lavoro interinale possiamo dire che la regolazione a
livello europeo del lavoro atipico è stata compiuta. Tuttavia, possiamo vedere come
rispetto alle prime proposte della Commissione ci sia un capovolgimento: infatti, all’inizio
si poneva l’accento sulla parità di diritti sul piano previdenziale e non c’era alcun accenno
alla parità di trattamento in materia retributiva, che, invece, è contenuto nelle direttive
adottate in materia di part-time, lavoro a termine, lavoro interinale e telelavoro. Queste,
però, escludono in maniera esplicita dalla propria sfera di operatività le questioni relative
ai regimi previdenziali pubblici, forse anche per via delle ostilità dei governi degli stati
membri a voler modificare i propri sistemi previdenziali. Altro elemento fondamentale
riguarda la fonte della regolazione introdotta che sostanzialmente è negoziale e ciò si
riflette sulla qualità delle regole sia per una approssimazione del linguaggio adottato sia
soprattutto per la prevalenza dell’affermazione di principi generali piuttosto che di
discipline di dettaglio. Quindi, possono essere considerate il risultato della mediazione tra
posizioni fortemente divaricate e per questo motivo si parla di soft law. Questo risultato è
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lavoro;
➢ sulla parità di trattamento in tema di sicurezza sociale obbligatoria;
➢ sulla parità nei regimi professionali di previdenza sociale;
➢ sulla parità di trattamento fra lavoratori e lavoratrici autonomi;
➢ sui congedi parentali;
➢ sull’onere della prova della discriminazione.
Dopo il trattato di Amsterdam e, in particolare, dopo il riconoscimento della parità sancito
in quello che ora è l’attuale art. 19 TFUE, il diritto comunitario antidiscriminatorio ha
allargato i suoi confini oltre la parità tra uomini e donne, riguardando anche la lotta alle
discriminazioni per razza e origine etnica (con la direttiva n°43/2000) e per religione o
convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali (con la direttiva n°78/2000). Si è,
poi, cercato di rendere organica questa disciplina, attraverso l’adozione della direttiva n
°54/2006.
Il fondamento del principio di parità retributiva si trova direttamente nell’art. 119 del
Trattato di Roma, che si ispirava alla Convenzione Oil del 1951. Il disposto di tale articolo è
confluito nella prima parte dell’art. 141 TCE, che oggi è l’art. 157 TFUE, il quale ora
riguarda il più generale principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra
uomini e donne in materia di occupazione e di impiego. La Corte di Giustizia ha affermato
che questo principio è ricondotto all’obiettivo di evitare una concorrenza nel mercato
comune che fosse basata sulla sotto retribuzione del lavoro femminile e, più in generale,
ad obiettivi di politica sociale che mirano al miglioramento delle condizioni di vita e di
lavoro negli Stati membri. Quindi, si può affermare che questi 2 principi convengono
sull’idea che il liberismo economico può essere combinato con il progresso sociale. L’art.
157 TFUE stabilisce alcuni contenuti essenziali della parità retributiva:
• Concetto di retribuzione: è definito in modo ampio ed è comprensivo della
retribuzione minima o normale e anche di qualsiasi compenso, corrisposto
direttamente o indirettamente in denaro o in natura dal datore di lavoro in
dipendenza del rapporto di lavoro.
• Termine di riferimento della parità di retribuzione: sancito originariamente per il lavoro
uguale, oggi è sancito per il lavoro di pari valore, così come sancito dalle
indicazioni dell’Oil.
• Criteri di computo della retribuzione: essi implicano 2 diversità:
o se la retribuzione è stabilita a tempo, essa deve essere uguale a parità di
posto di lavoro;
o se la retribuzione è commisurata a cottimo, essa deve fissarsi in base alle
stesse unità di misura del risultato.
Questo principio è ormai considerato un principio fondamentale dell’ordinamento
europeo e, con la sentenza Defrenne II, ne è stata riconosciuta l’efficacia diretta cei
confronti degli Stati membri e dei singoli datori di lavoro privati e pubblici. Si tratta,
infatti, di un caso in cui l’obbligazione stabilita dal Trattato risulta definita in maniera
precisa, cioè può considerarsi self executing.
La direttiva n°117/1975 sulla parità retributiva è ormai trasfusa nella direttiva n°54/2006
45
46
L’ormai abrogata direttiva n°207/1976 si occupava del principio di parità nelle condizioni
di lavoro, il quale è stato esteso a tutti gli aspetti della vita professionale. Tale estensione
generale è stata confermata dalla Corte di Giustizia in un caso che riguardava la L. n
°903/1977, la quale è stata ritenuta conforme alla direttiva in quanto vietava ogni atto
discriminatorio attinente al rapporto di lavoro. Un problema, invece, si è posto con
riguardo ai limiti di età per il prepensionamento in casi di crisi aziendale, in quanto spesso
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venivano fissati in misura diversa per gli uomini e per le donne. In questo caso la Corte ha
ritenuto che il principio di parità nelle condizioni di lavoro si riferisce anche al limite di età
per le dimissioni obbligatorie nel caso di licenziamenti collettivi, mentre le conseguenze
che la diversa età pensionabile comporta sulle prestazioni pensionistiche non comporta
diversità discriminatorie. Oggi ciò non vale più (ad esclusione delle pensioni pubbliche) a
seguito della sentenza Barber. Questa direttiva ha subito molte modifiche ed integrazioni
con la direttiva n°73/2002, la quale espressamente prevede l’applicazione della normativa
paritaria al lavoro autonomo; le discriminazioni dirette e indirette e l’inserimento nelle
discriminazioni delle molestie. Essa ha inoltre previsto delle disposizioni volte a garantire
l’attuazione del principio di parità di trattamento, come ad esempio la predisposizione di
misure per la protezione di chi denuncia le discriminazioni. Dobbiamo poi ricordare
l’espressa affermazione del mainstreaming, come metodo di azione politica degli Stati
membri, che hanno l’obbligo di incoraggiare i datori di lavoro ad attività di prevenzione
delle discriminazioni.
Il fenomeno delle molestie sessuali negli ambienti di lavoro è stato considerato solo
nell’ultimo ventennio, grazie anche alle esperienze statunitensi e canadesi. Dopo una
prima sollecitazione del Parlamento Europeo nel 1986, la Commissione interviene solo
diversi anni dopo con la raccomandazione n°131/1992, alla quale è allegato un codice di
condotta sui provvedimenti per la lotta contro le molestie sessuali. In questo codice, la
molestia sessuale viene definita come ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale o
ogni altro comportamento basato sul sesso che offenda la dignità degli uomini e delle donne nel
mondo del lavoro, inclusi atteggiamenti malaccetti di tipo fisico, verbale o non verbale. Questa
raccomandazione è un punto di riferimento per le direttive n°43 e n°78 del 2000, le quali
hanno introdotto la condanna delle molestie, che ormai vengono qualificate come una
discriminazione. Tuttavia, la successiva direttiva n°83/2002 divide il concetto di molestia
in 2 tipologie:
A. Molestia tour court: è quel comportamento indesiderato connesso al sesso che ha lo scopo o
l’effetto di violare la dignità della persona, creando un clima intimidatorio, ostile,
degradante, umiliante ed offensivo.
B. Molestia sessuale: sono quelle integrate da un comportamento indesiderato a
connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o non verbale, che ha lo scopo o
l’effetto di violare la dignità di una persona, creando un clima intimidatorio, ostile,
degradante, umiliante ed offensivo.
Altra forma di molestia, già presa in considerazione dalla raccomandazione del 1992 e
considerata sempre una discriminazione, è il ricatto sessuale, che consiste in qualsiasi
trattamento meno favorevole subito da una persona per il fatto di avere rifiutato atti indesiderati a
sfondo sessuale o esservisi sottomessa. Nell’ordinamento italiano queste definizioni sono state
letteralmente trasposte a partire dal 2005 e da ultimo con il D. Lgs. n°5/2010. Questa
normativa dispone che i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro, che sono stati
adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione a comportamenti sessualmente
molesti, sono nulli.
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Esistono cause di giustificazione dei provvedimenti con effetti molto sfavorevoli per i
lavoratori di un sesso che, quindi, ne escludono il carattere discriminatorio.
L’interpretazione più rigorosa vuole che l’illiceità si possa escludere quando le differenze
conseguano a caratteri essenziali al lavoro svolto e che sono perseguite tramite mezzi
adeguati e necessari. La Corte di Giustizia si è pronunciata in diversi casi ma lo ha fatto
con diseguale rigore, mostrando di conseguenza come si possano verificare delle lievi
oscillazioni nella sua giurisprudenza.
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del congedo può loro causare. Invece, le eccezioni non giustificate da motivi di protezione
specifica della donna in maternità sono state limitate dalla Corte.
L’obiettivo di redistribuire in modo più equilibrato fra i sessi ruoli e responsabilità nella
famiglia è stato preso in considerazione dalle istituzioni europee, le quali hanno ammesso
la possibilità che la custodia dei bambini sia permessa a uomini e donne in modo tale da
conciliare le loro responsabilità professionali con quelle familiari ed educative. Tali
obiettivi sono stati perseguiti in modo incisivo solo a partire dalla direttiva n°34/1996, che
recepisce un accordo quadro sul congedo parentale. Il congedo parentale consiste nel diritto
di tutti i lavoratori, di ambo i sessi, di astenersi dal lavoro in occasione della nascita o adozione di
un bambino, affinché possano averne cura per un periodo minimo di 3 mesi, fino ad un’età non
superiore ad 8 anni. Le autorità e le parti sociali nazionali stabiliranno le condizioni per
l’esercizio di tale diritto e le modalità di esercizio, nonché le motivazioni che possono
indurre il datore di lavoro ad ammettere il solo rinvio (ma non negazione) del diritto. dopo
la fruizione del congedo, il lavoratore ha diritto a tornare nel medesimo posto di lavoro o
in uno equivalente o analogo. Questa direttiva è stata recepita, da ultimo, con il D. Lgs. n
°151/2001. La materia è stata rafforzata dalla stipula di un nuovo accordo quadro, recepito
con direttiva n°18/2010. Tra le novità l’innalzamento a 4 mesi del periodo di congedo e le
norme di facilitazione del rientro, attraverso la rimodulazione dell’orario o dell’assetto di
lavoro. La Corte di Giustizia ha escluso che la nascita di gemelli dia diritto a tanti congedi
parentali quanti sono i figli nati.
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La parità di trattamento nella sicurezza sociale arriva solo con la direttiva n°7/1979, la
quale si applica contro i rischi di malattia, invalidità, vecchiaia, infortuni sul lavoro,
malattie professionali e disoccupazione. I soggetti destinatati della stessa sono tutti i
lavoratori, anche autonomi, pensionati e i lavoratori la cui attività sia interrotta per
malattia, infortunio o disoccupazione involontaria. Secondo la Corte di Giustizia, la
direttiva si deve applicare anche ai lavoratori che hanno interrotto la propria attività
lavorativa per dedicarsi di un parente invalido. Il divieto di discriminazione diretta e
indiretta nei sistemi di previdenza legale è stato interpretato come avente efficacia diretta
verticale nei confronti delle P.A. degli Stati membri. L’art. 7.1 della direttiva prevede delle
eccezioni al principio di parità, consentendo agli Stati membri di escludere dal suo campo di
applicazione:
• la fissazione del limite di età per la pensione di vecchiaia e le conseguenze relative
in ordine ad altre prestazioni;
• i vantaggi accordati a fini pensionistici di vecchiaia a persone che hanno
provveduto all’educazione dei figli;
• la concessione di diritti a prestazioni di vecchiaia o invalidità in base a diritti
derivati dal coniuge;
• la concessione di maggiorazioni delle prestazioni previdenziali per il coniuge a
carico.
Queste eccezioni, però, devono essere interpretate restrittivamente. Un’importante
decisione è la sentenza Barber, in quanto con essa la Corte di Giustizia ha modificato la
sua posizione precedente, facendo rientrare ora l’età pensionabile tra le materie di cui si
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La tutela contro le discriminazioni non di genere trova riscontro grazie alle direttive n
°43/2000 e n°78/2000, le quali trovano la loro base giuridica in quello che ora è l’art. 19
TFUE, il quale attribuisce al Consiglio il potere di adottare i provvedimenti opportuni per
combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le
convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali. Si tratta di un insieme di
caratteri dell’identità personale molto ampio ma non suscettibile di estensione in via
analogica, data la tassatività dell’elenco, come precisato dalla Corte di Giustizia. Tuttavia,
nel caso Coleman si afferma che i divieti di discriminazione tutelano non solo i lavoratori
essi stessi disabili ma anche il lavoratore penalizzato a causa della disabilità del figlio al
quale presta le sue cure. Entrambe le direttive non riguardano le discriminazioni sulla
nazionalità, per cui i soggetti provenienti da Paesi terzi sono tutelati con riferimento alle
discriminazioni riconducibili ai caratteri soggettivi, come la razza o l’etnia. Nell’unica
sentenza della Corte di Giustizia sulla direttiva n°43/2000 è stato rafforzato il concetto di
discriminazione diretta. Il suo art. 4, tuttavia, consente agli Stati membri di stabilire il
carattere non discriminatorio di una differenza di trattamento basata su una caratteristica
correlata alla razza o all’origine etnica laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per
il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e
determinante per il suo svolgimento e sempreché l’obiettivo sia legittimo e il requisito
proporzionato. Le forze armate sono escluse dall’osservanza di questi divieti. A favore dei
disabili, la direttiva n°78/2000 prescrive l’adozione di soluzioni ragionevoli, cioè di
provvedimenti appropriati alle esigenze delle situazioni concrete, consentendo comunque
ai portatori di handicap opportunità di lavoro e formazione, a condizione che tali
provvedimenti non comportino per il datore di lavoro un onere finanziario
sproporzionato: l’onere non lo è se è compensato da provvidenze statali. Le disparità di
trattamento collegate all’età non costituiscono discriminazioni ove siano giustificate
52
Le problematiche connesse alla regolazione dell’orario di lavoro sono state riprese dopo
l’approvazione della Carta dei diritti sociali fondamentali, tant’è vero che, sulla base di
alcune sue previsioni, la Commissione nel settembre 1990 presentò una proposta di
direttiva in materia di orario di lavoro. Qui, veniva sottolineata la crucialità delle misure di
ristrutturazione e flessibilità del tempo di lavoro, che erano rilevanti non solo per quanto
riguardava la creazione di nuova occupazione e della tutela della salute dei lavoratori ma
anche per le importanti implicazioni sulle condizioni di concorrenza fra le imprese.
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Proprio questo motivo vi era la necessità di una direttiva che contenesse alcune norme
minime. La direttiva, che fu successivamente approvata, ebbe dei contenuti molto
circoscritti, che riguardavano solo alcuni aspetti fondamentali dell’organizzazione
dell’orario di lavoro, considerati maggiormente importanti sotto il profilo della salute e
della sicurezza dei lavoratori. Dopo una prima riforma nel 2000, oggi il diritto vigente in
materia è si trova nella direttiva n°88/2003.
CONTENUTO DELLA DIRETTIVA: la direttiva è applicabile sia nel settore privato sia in
quello pubblico e riguarda la materia della durata settimanale del lavoro, dei riposi, del
lavoro a turni e del lavoro notturno, definendo, inoltre, l’orario di lavoro, il periodo di
riposo, il periodo notturno, il lavoratore notturno, il lavoro e il lavoratore a turni e il riposo
adeguato. L’orario di lavoro è inteso come quel periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a
disposizione (inteso come reperibilità) del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle
sue funzioni, secondo quanto previsto dalle legislazioni nazionali. I 3 criteri lì indicati sono
concorrenti e non alternativi, così come specificato dalla Corte di Giustizia. Il periodo
notturno si deve intendere come qualsiasi periodo di almeno 7 ore, definito dalla legislazione
nazionale e che comprenda in ogni caso l’intervallo fra le 24 e le 5. Quindi, il lavoratore notturno
è un qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga almeno 3 ore del suo tempo di
lavoro giornaliero, impiegate in modo normale. La durata massima settimanale della
prestazione lavorativa non può superare le 48 ore per ogni periodo di 7gg comprese le ore
di lavoro straordinario. Questo limite, però, è dato medio: infatti, le 48 ore devono essere
rispettate in un periodo di riferimento non superiore a 4 mesi, che la legge o i contratti
collettivi possono elevare fino a 6 mesi, a meno che quest’ultimi non siano stati autorizzati
dagli Stati membri ad elevarlo fino a un massimo di 1 anno a condizione che ricorrano
ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro. La direttiva non si
preoccupa di definire la durata massima giornaliera e si concentra, piuttosto, sull’insieme
della materia dei riposi giornaliero, settimanale e annuale. Tuttavia, in numerose
legislazioni nazionali è ancora presente una normativa riguardante la durata massima
giornaliera della prestazione lavorativa, perché l’obiettivo è quello di tutela della salute
dei lavoratori. Resta comunque ferma la possibilità degli Stati membri di applicare
normative più favorevoli. In tema di riposo annuale, dopo l’intervento del Parlamento
Europeo, è stata modificata la generica formulazione del diritto ad avere un periodo
minimo di ferie annuali con l’avere diritto ad un periodo minimo di almeno 4 settimane, il
quale non deve essere suscettibile di sostituzione con erogazioni patrimoniali, salvo in
caso di cessazione del rapporto di lavoro. Per quanto riguarda i riposi giornalieri e
settimanali, la direttiva fissa l’obbligo per gli Stati membri di adottare le misure necessarie
per assicurare che ogni lavoratore possa nel corso di 24 ore beneficiarie di un periodo
minimo di riposo di 11 ore consecutive e per ogni periodo di 7gg di un periodo minimo di
riposo ininterrotto di 24 ore, a cui si sommano le 11 ore di riposo giornaliero. Il riposo
settimanale può essere determinato anche con riguardo ad un periodo di riferimento
superiore a 7gg ma non superiore ai 14gg. Inoltre, il lavoratore ha diritto a godere di una
pausa se la prestazione lavorativa giornaliera supera le 6 ore. Le modalità e la durata della
pausa vengono fissate dalla contrattazione collettiva o in mancanza dalla legge.
La seconda parte della direttiva riguarda, invece, alcuni aspetti del lavoro notturno e del
lavoro a turni. Sulla base del Rapporto Taddei (è uno studio preparato per il governo
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lavoro della gente di mare e del personale di volo dell’aviazione civile; mentre la terza, che
è la direttiva n°34/2000, è la più importante perché ha modificato la direttiva n°104/1993
per comprendere i settori e le attività precedentemente esclusi. Il processo di adeguamento
degli ordinamenti nazionali alle prescrizioni europee in materia di orario di lavoro è
avvenuto in maniera molto faticosa e ciò è dimostrato dalle numerose procedure di
infrazione attivate dalla Commissione e dalle sentenze di condanna della Corte.
La Corte di Giustizia, nel corso del tempo, ha mantenuto ferma la propria giurisprudenza
in materia, consolidando la concezione binaria del tempo: infatti, ha precisato che la
nozione di orario di lavoro deve essere intesa in opposizione al periodo di riposo, in
quanto una esclude l’altra. Allo stesso modo le nozioni di orario di lavoro e di periodo di
riposo sono nozioni che devono essere definite secondo dei criteri oggettivi. Queste
indicazioni della Corte sono state criticate da parte di molti Stati membri, spingendo la
Commissione a presentare delle proposte di modifica, che non sono state ancora
approvate. Non meno importante è la giurisprudenza della Corte in materia di ferie.
Infatti, essa aveva affermato che l’espressione “secondo le condizioni di ottenimento e di
concessione previsti dalle legislazioni nazionali” si riferisce alle sole modalità di
applicazione delle ferie annuali retribuite nei diversi Stati membri, che devono essere
minimo di 4 settimane. E’ una norma in linea di principio inderogabile, senza avere
possibilità di sostituirvi un’attribuzione patrimoniale, se non in caso di cessazione del
rapporto di lavoro. Il nostro ordinamento, con il D. Lgs. n°213/2004, ha sì adottato il
periodo minimo di almeno 4 settimane di ferie annuali ma ha precisato che esso va goduto
per almeno 2 settimane nel corso dell’anno di maturazione e per le restanti nei 18 messi
successivi. La Corte di Giustizia ha affrontato il problema del rapporto tra diritto alle ferie
e malattia insorta durante il periodo di maturazione dello stesso, affermando che il diritto
alle ferie annuali retribuite non è un diritto che si matura solo se si ha effettivamente
lavorato durante il periodo di riferimento. Pertanto, uno Stato membro, che nelle linee
guida per l’attuazione dei diritti alle ferie e ai riposi indichi che il datore di lavoro non è
tenuto garantire che i lavoratori godano effettivamente di questi diritti, non garantisce
l’osservanza delle prescrizioni minime fissate e non persegue lo scopo fondamentale.
Quindi, qualora la violazione della norma europea determini un danno in capo al
lavoratore, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno, da corrispondere mediante la
concessione di tempo libero aggiuntivo o, in alternativa, mediante il pagamento di
un’indennità pecuniaria. La Corte ha anche puntualizzato che le varie nozioni di ambienti
di lavoro, sicurezza o salute possono essere interpretate estensivamente, facendo
ricomprendere tutti i fattori, fisici e di altra natura, in grado di incidere sulla salute e sulla
sicurezza del lavoratore.
La connessione fra la disciplina degli orari di lavoro e la politica della concorrenza è
venuto in rilievo proprio con riguardo a una questione legata al lavoro domenicale. Alla
Corte fu chiesto, infatti, di chiarire se una normativa nazionale, che vietava l’apertura
domenicale degli esercizi commerciali al minuto, potesse considerarsi una restrizione
quantitativa all’importazione, vietata da quello che l’attuale art. 30 TCEE. La risposta fu
negativa, perché la Corte spiegò che queste norme non hanno lo scopo di disciplinare i
flussi di scambio tra Stati membri ma sono espressione di determinate scelte politiche ed
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❖ direttiva n°364/1988 sulla proibizione di certi agenti specifici e/o di certe attività.
Queste direttive sono state trasposte in Italia con il D. Lgs. n°277/1991, il quale è ormai
trasfuso nel D. Lgs. n°81/2008, che è il c.d. Testo unico in materia di tutela della salute e
della sicurezza nei luoghi di lavoro. Ciò provocò polemiche. L’ordinamento italiano risulta
fondato sul criterio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, che è molto più rigoroso
di quelli che fanno leva sulla ragionevole praticabilità delle misure da adottare. Quindi, ci
si è chiesto se il legislatore italiano, stabilendo in relazione ai rischi da esposizione a
piombo e rumore l’obbligo di apprestare le misure concretamente attuabili, non abbia
voluto adeguarsi allo standard comunitario, con conseguente abbassamento del livello di
tutela già previsto nel nostro ordinamento. L’esperienza applicativa ha ridimensionato le
preoccupazioni, anche in considerazione del fatto che la formula “misure concretamente
attuabili” è indeterminata e permette un’interpretazione ampia e coincidente con la
normativa europea e con la normativa italiana previgente.
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La direttiva n°85/1992 riguarda l’ambito della tutela delle lavoratrici gestanti, puerpere o
in fase di allattamento. I contenuti della direttiva costituiscono il compromesso tra
l’esigenza di tutela delle lavoratrici e l’esigenza di non comportare per le imprese
l’imposizione di misure troppo gravose. In particolare, la direttiva prevede la possibilità
della lavoratrice di richiedere una modificazione delle condizioni di lavoro e/o dell’orario
di lavoro, nonché nei casi più gravi di una dispensa, che comunque garantisce alla
lavoratrice il percezione della retribuzione. Con riferimento al lavoro notturno, esse non
possono essere obbligate a svolgerlo durante la gravidanza o subito dopo; ma in questo
caso è necessaria un’attestazione medica. Il congedo di maternità ha la durata di 14
settimane, suddividibili tra prima e dopo il parto. L’art. 10 della direttiva dispone un
divieto di licenziamento, per tutelare le lavoratrici tra l’inizio della gravidanza e il termine
di congedo della maternità. La tutela non è legata allo stato obiettivo di gravidanza (come
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è in Italia) ma alla circostanza che il datore venga informato dalla lavoratrice del suo stato
interessante. Lo standard protettivo europeo è inferiore a quello del nostro ordinamento.
Tuttavia, il livello non può considerarsi più basso adesso, in quanto la direttiva prevede,
con una clausola di non regresso, che la sua trasposizione non può giustificare un
abbassamento della tutela già presente nell’ordinamento nazionale.
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Il contesto storico è quello del primo shock petrolifero, che si fece sentire con un
incremento del tasso di disoccupazione.
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Inoltre, è disposto che il trasferimento d’impresa non può costituire, di per sé,
motivo di licenziamento né per il cedente né per il cessionario, ferma restando la
possibilità di effettuare quei licenziamenti dovuti a motivi economici, tecnici o di
organizzazione che comportano valutazioni sul piano dell’occupazione. Quindi, per
capire se un licenziamento è in contrasto con la direttiva, bisogna valutare le
circostanze oggettive in cui il licenziamento è avvenuto: se, ad esempio, si è
verificato in data vicina al trasferimento e l’interessato è stato riassunto dal
cessionario è presumibile che il licenziamento sia irregolare, per cui anche in caso di
mancata riassunzione il contratto di lavoro deve essere considerato ancora esistente
nei confronti del cessionario. Infine, se, dopo il trasferimento, il contratto di lavoro
viene risolto a seguito di una sostanziale modifica delle condizioni di lavoro (da
considerarsi come modifica in pejus), la risoluzione deve considerarsi dovuta a
responsabilità del datore di lavoro, assicurando al lavoratore il versamento della
retribuzione e le altre prestazioni relative al periodo di preavviso.
II. Aspetti di diritto collettivo delle vicende circolatorie delle imprese: in materia di diritti
collettivi, va segnalata in primo luogo la protezione che la direttiva riconosce alle
rappresentanze aziendali dei lavoratori, le quali sono destinate a restare in funzione,
qualora l’entità trasferita conservi propria autonomia (in caso contrario, gli Stati
membri sono tenuti ad adottare le misure necessarie per assicurare ai lavoratori
trasferiti una rappresentanza durante il periodo necessario per la costituzione della
nuova rappresentanza aziendale). L’elemento importante è la previsione di una
procedura di informazione e consultazione, quale strumento di tutela. La direttiva
prevede l’obbligo per il cedente ed il cessionario di informare in tempo utile i
rappresentanti dei lavoratori ed indica l’oggetto dell’informazione (data del
trasferimento, motivi, conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori,
misure previste nei confronti degli stessi). All’informazione dovrà fare seguito una
consultazione sulle misure eventualmente previste nei confronti dei lavoratori, al
fine di ricercare un accordo, che non c’è obbligo di raggiungere. Gli obblighi
procedurali possono essere limitati laddove esista la possibilità per i rappresentanti
dei lavoratori di ricorrere ad un’istanza di arbitrato. In ogni caso gli Stati membri
possono escludere dalla soggezione alla procedura di informazione e consultazione
le imprese che non soddisfano (per quanto riguarda il numero dei lavoratori
occupati) le condizioni per la costituzione della rappresentanza aziendale dei
lavoratori. Il mancato adeguamento dell’ordinamento italiano alle previsioni della
direttiva in tema di informazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori è
stato a suo tempo sanzionato dalla Corte di Giustizia, che non si trovava di fronte a
contratti collettivi con efficacia erga omnes.
La direttiva in materia di trasferimenti d’imprese è stata presa in considerazione in
numerosissime occasioni dalla Corte di Giustizia.
Per quanto riguarda i destinatari della direttiva, essa si applica esclusivamente ai titolari
di rapporto di lavoro in corso alla data del trasferimento. Per individuare chi sono i
lavoratori, bisogna fare riferimento a una nozione europea, per cui, secondo la Corte, la
direttiva tutela solo coloro che sono, in un modo o nell’altro, protetti in quanto lavoratori
dalle norme dello Stato membro di cui trattasi. Tuttavia, la disciplina più recente precisa
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che la tutela non può essere negata ai part-timers, ai lavoratori a termine ed ai lavoratori
interinali per il solo fatto di essere coinvolti in un rapporto di lavoro atipico.
Per quanto riguarda l’ambito oggettivo della direttiva, la Corte ha delineato anche la
nozione di trasferimento d’impresa, cercando di allargarla il più possibile. In questo modo,
la direttiva è applicabile ai trasferimenti parziali d’impresa ed anche ad ipotesi di affitto di
azienda, in quanto i dipendenti dell’impresa che cambia imprenditore senza trasferimento
di proprietà si trovano in una situazione analoga a quella dei dipendenti dell’impresa
venduta. Più in generale la Corte, a partire dal caso Spijkers, ha elaborato un criterio
interpretativo di fondo in base al quale deve ritenersi che si ha trasferimento d’impresa ai
sensi della direttiva tutte le volte che la vicenda circolatoria riguardi un’entità economica
ancora esistente, la quale dopo il trasferimento conservi la propria identità. La verifica del
criterio dipende dalle circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione e a nessuna presa
singolarmente può riconoscersi rilievo decisivo. Non va dimenticato che il requisito della
cessione dei beni materiali non implica necessariamente il trasferimento della proprietà
degli stessi, come nel caso dei contratti di appalto, dove accade spesso che i mezzi
necessari all’esercizio dell’impresa vengano messi a disposizione di ogni successivo
appaltatore da parte del committente per la durata del contratto di appalto. Si manifesta,
così, la differenza tra il trasferimento di attività (cui non è applicabile la direttiva) e il
trasferimento d’impresa”. La Corte ha ritenuto inapplicabili i principi della direttiva
nell’ipotesi in cui il cedente sia stato dichiarato fallito, poiché potrebbe nuocere alla
salvaguardia dei posti di lavoro. Il legislatore europeo ha in linea di massima raccolto le
indicazioni della Corte e con la direttiva n°23/2001 ha voluto tracciare un nuovo punto di
equilibrio tra garanzie individuali dei lavoratori, tutela dei livelli occupazionali e
salvaguardia della sopravvivenza dell’impresa.
Per quanto riguarda la portata della direttiva, la Corte ha precisato che anche i diritti dei
lavoratori sorti anteriormente al trasferimento devono essere fatti valere nei confronti del
cessionario. Inoltre, l’imperatività della disciplina europea vuole che le disposizioni
devono ritenersi inderogabili tanto dall’autonomia privata individuale quanto da quella
collettiva.
Infine, la Corte, interpretando l’art. 3 della direttiva, ha chiarito che, in occasione di un
trasferimento d’impresa, le condizioni del rapporto di lavoro non possono essere
modificate. Qualora, però, il diritto nazionale consenta, al di fuori dell’ipotesi di un
trasferimento d’impresa, di modificare il rapporto di lavoro in senso sfavorevole ai
lavoratori, una modifica del genere non è esclusa per via del semplice fatto che l’impresa
sia stata nel frattempo trasferita. In merito alle sanzioni per violazione degli obblighi di
informazione e consultazione, la Corte ha ricordato che gli Stati membri conservano un
potere discrezionale in merito alla scelta delle sanzioni, le quali devono avere il medesimo
carattere di effettività, proporzionalità e capacità dissuasiva delle sanzioni previste per le
violazioni del diritto interno simili.
DIRETTIVA N°129/1975 – Licenziamenti collettivi: la sua base giuridica è quello che ora è
l’art. 115 TFUE e fu adottata per far fronte alle conseguenze derivanti dai licenziamenti
collettivi, cercando anche di delinearne le modalità e le procedure. La versione iniziale si
limita ad intervenire esclusivamente sugli aspetti procedurali delle riduzioni di personale
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progettate dai datori. Sulla scorta delle indicazioni contenute nella Carta dei diritti sociali
fondamentali dei lavoratori, ci sono state ulteriori modifiche e, da ultimo, la disciplina
vigente si trova nella direttiva n°59/1998. Il campo di applicazione è rappresentato dal
licenziamento collettivo ma cosa si intende per esso? A tal fine si fa riferimento a 2
caratteri:
1. Elemento quantitativo: per licenziamento collettivo deve intendersi il licenziamento
effettuato da un datore di lavoro per uno o più motivi non inerenti alla persona del
lavoratore, per cui la causa del provvedimento dovrà essere di ordine economico-
produttivo o tecnico-organizzativo.
2. Elemento qualitativo: un licenziamento può definirsi collettivo se l’estinzione del
rapporto riguarda:
• nell’arco di 30gg:
i. almeno 10 lavoratori in stabilimenti che occupano abitualmente più di
20 e meno di 100 lavoratori;
ii. almeno il 10% di lavoratori in stabilimenti che occupano abitualmente
almeno 100 e meno di 300 lavoratori;
iii.almeno 30 lavoratori negli stabilimenti che occupano abitualmente
almeno 300 lavoratori;
• nell’arco di 90gg almeno 20 lavoratori, a prescindere dalla consistenza
dell’organico dell’unità produttiva interessata.
La disciplina non riguarda i lavoratori a termine (a meno che il licenziamento non avvenga
prima della scadenza del termine), i pubblici dipendenti e gli equipaggi di navi marittime.
La Corte di Giustizia, precisando che per licenziamento collettivo si intende ogni
licenziamento effettuato dal datore di lavoro, ha ritenuto che il datore di lavoro non può
direttamente provvedere a un licenziamento collettivo solo in quanto versa in una
situazione di grave difficoltà finanziaria. Va tenuto conto, inoltre, che c’è la possibilità di
ricorrere ad altre forme di cessazione del rapporto di lavoro come il prepensionamento o le
dimissioni incentivate.
A fronte di una decisione di riduzione del personale, la direttiva impone al datore un
obbligo di informazione e di consultazione nei confronti dei rappresentanti dei lavoratori.
L’obbligo di informazione prevede che il datore fornisca in tempo utile tutte le informazioni
utili, affinché i rappresentanti dei lavoratori possano formulare proposte costruttive, e
comunichi per iscritto quelle espressamente indicate. L’obbligo di consultazione prevede che
in essa siano esaminate le possibilità di evitare o ridurre i licenziamenti collettivi, nonché
di attenuare le conseguenze ricorrendo a misure sociali di accompagnamento. L’obiettivo è
quello di giungere ad un accordo, per cui possiamo dire che sia presente solo un obbligo a
trattare. Gli obblighi di consultazione e informazione devono ritenersi operanti a
prescindere dal fatto che le decisioni riguardanti i licenziamenti collettivi siano prese dal
datore o da un’impresa che lo controlli. Si tratta di una previsione che ha delle assonanze
con la soluzione c.d. dell’ostaggio, accolta nel secondo progetto Vredeling: in pratica, il
datore diretto deve ritenersi in ogni caso soggetto ai vincoli imposti dal diritto europeo,
senza possibilità di ridurre la procedura di consultazione e informazione ad un
adempimento meramente formale. In caso di mancato accordo tra le parti è importante la
seconda fase della procedura preventiva al licenziamento collettivo, da svolgersi con
64
l’intervento della pubblica autorità competente. A tal fine il datore di lavoro deve
notificare per iscritto a quest’ultima ogni progetto di licenziamento collettivo. La
comunicazione (di contenuto simile a quella già fornita ai rappresentanti) dovrà anche
dare conto delle consultazioni svolte con quest’ultimi. Una volta notificato alla pubblica
autorità, un progetto di licenziamento collettivo non potrà avere effetto se non trascorso
un periodo di 30gg dalla notifica. Gli Stati membri hanno la facoltà di ridurre o prolungare
i termini standard; mentre anche quella di non applicare la fase amministrativa qualora il
licenziamento collettivo dipenda da cessazione dovuta a decisione giudiziaria. Non si
prevedono sanzioni a fronte del mancato svolgimento di detta procedura né risulta
garantita l’effettività di quest’ultima, anche se la Commissione aveva proposto di
sanzionare con la nullità del licenziamento collettivo, cosa che scomparve per
l’opposizione britannica.
La direttiva in materia di licenziamenti collettivi non ha suscitato una produzione
giurisprudenziale quantitativamente consistente. Nei pochi interventi della Corte di
Giustizia è evidente, tuttavia, il suo impegno a garantire l’effettività del diritto europeo. In
merito alle sanzioni ha pio ribadito che le violazioni devono comportare nei singoli
ordinamenti nazionali l’applicazione di sanzioni effettive, proporzionali e dissuasive. Tra
queste pronunce dobbiamo poi ricordare quelle di condanna al nostro Paese per via del
suo mancato adeguamento. Infatti, la Corte ha rilevato che:
➢ non esisteva in Italia nessuna disciplina dei licenziamenti collettivi nei settori
agricolo e commerciale;
➢ nel settore industriale le previsioni dell’accordo interconfederale non imponevano
all’imprenditore di comunicare per iscritto le ragioni del licenziamento;
➢ né gli facevano obbligo di sottoporsi ad una procedura conciliativa posta in essere
con l’intervento della pubblica autorità competente.
La L. n°223/1991 ha infine provveduto all’adeguamento del nostro ordinamento, anche se
rispetto alla direttiva si registra un allargamento della nozione di licenziamento collettivo.
Questo dovrebbe favorire l’applicazione della direttiva a un numero maggiore di casi e
quindi garantire una maggiore tutela nei confronti dei lavoratori, per cui dovrebbe essere
una deroga ammessa dalla direttiva essendo più favorevole.
DIRETTIVA N°987/1980 – Insolvenza del datore di lavoro: la base giuridica è l’attuale art.
115 TFUE e ha per oggetto il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri al fine di
garantire i crediti dei lavoratori in ipotesi di insolvenza del datore di lavoro. E’ fondata sul
riconoscimento ai lavoratori di un privilegio con riguardo ai propri crediti di lavoro
coinvolti in procedure concorsuali. Essa è stata modificata, anche alla luce della
giurisprudenza della Corte di Giustizia, con la direttiva n°74/2002, che si basa, però,
sull’art. 153 TFUE, il quale permette al Consiglio di dettare, attraverso direttive approvate
a maggioranza qualificata, prescrizioni minime in materia di condizioni di lavoro, e da
ultimo con la direttiva n°94/2008. Quest’ultima direttiva specifica che un datore di lavoro
può considerarsi in stato di insolvenza quando ricorrono 2 condizioni:
1. la richiesta di apertura di una procedura concorsuale fondata sull’insolvenza, che
comporti lo spossessamento anche solo parziale del datore di lavoro;
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66
pagamento di un salario differito (il TFR) sia perché tale pagamento è riconosciuto anche
in casi in cui il datore non sia assoggettabile a procedure concorsuali.
Caso Francovich: 2 giudici italiani si rivolsero alla Corte di Giustizia chiedendo se il
privato leso dalla mancata attuazione da parte dello Stato della direttiva n°987/1980
potesse citare in giudizio lo Stato inadempiente per ottenere il risarcimento dei danni
subiti. La risposta positiva si basò sulla constatazione che la piena efficacia delle norme
comunitarie sarebbe messa a repentaglio e la tutela dei diritti sarebbe infirmata, se i singoli
non avessero al possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una
violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro. Secondo le
indicazioni date nel caso Francovich, il diritto al risarcimento del danno potrà essere fatto
valere dal singolo a condizione che:
• il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei
singoli;
• il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della
direttiva;
• esista un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il
danno subito dai soggetti lesi.
Sussistendo questa triplice condizione spetterà al giudice nazionale provvedere a
determinare la misura del risarcimento del danno. Successivamente la Corte di Giustizia,
dopo aver chiarito che il risarcimento deve essere adeguato al danno subito al fine di
garantire una tutela effettiva dei diritti, ha sostenuto che un’applicazione retroattiva,
regolare e completa delle misure di attuazione della direttiva deve considerarsi a tal fine
sufficiente a meno che i beneficiari non dimostrino l’esistenza di danni ulteriori da essi
eventualmente subiti per non aver potuto fruire a suo tempo dei vantaggi pecuniari
garantiti dalla direttiva. L’ordinamento italiano si è adeguato ai principi della direttiva
europea con il D. Lgs. n°80/1992.
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tipico del sistema britannico. Altre diversità si hanno anche rispetto alla durata,
all’intensità e alla partecipazione al conflitto industriale.
I vari sistemi nazionali hanno reagito in modo diseguale alle nuove sfide. Le difficoltà
esistenti hanno indotto finora a contenere entro limiti definiti l’iniziativa dell’U.E. in
materia; cautela che è stata confermata a Maastricht e nei trattati successivi. Quindi, è
confermata la competenza esclusiva degli Stati membri per gli aspetti interni delle
dinamiche collettive. Della rappresentatività delle parti sociali la Commissione e il
Consiglio sono chiamati ad occuparsi ogniqualvolta le parti stesse siano firmatarie di un
accordo concluso ai sensi dell’art. 155 TFUE. In tal caso le autorità dell’U.E. devono
verificare se le parti sociali abbiano una rappresentatività cumulativa sufficiente e, in
assenza, devono negare l’attuazione dell’accordo. I criteri di rappresentatività sono in una
certa misura simili a quelli validi per le parti sociali nazionali e hanno riguardo in
particolare alla natura intercategoriale e al carattere generale delle organizzazioni. Nel
concreto le parti sociali:
▪ devono essere organizzate a livello europeo;
▪ devono essere composte da organizzazioni riconosciute come parte integrante delle
strutture delle parti sociali degli Stati Membri;
▪ devono avere la capacità di negoziare accordi;
▪ devono essere, per quanto possibile, rappresentative in tutti gli Stati membri;
▪ devono disporre di strutture adeguate che consentano loro di partecipare in modo
efficace al processo di consultazione.
Su base di questi elementi la Commissione ha formulato un elenco, periodicamente
aggiornato delle organizzazioni rappresentative. Si ritiene, anche se con alcuni dubbi, che
vi sia competenza comunitaria per quanto riguarda la contrattazione collettiva, perché può
farsi rientrare nel concetto di rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei
lavoratori e dei datori di lavoro, cui allude l’art. 153.3 TFUE. Le implicazioni di queste
esclusioni di competenza non sono facilmente accertabili: se non altro perché le accezioni
con cui vengono intesi i 3 diritti o libertà sono profondamente differenti nei vari Stati
membri. Ad esempio, è emblematico è il modo in cui è concepito e limitato il diritto di
sciopero negli ordinamenti dei singoli Paesi:
➢ diritto a titolarità individuale in Francia, Italia, Spagna;
➢ diritto rigorosamente riservato all’organizzazione sindacale nella tradizione tedesca
e nei fatti in quella inglese.
Diversi sono anche i limiti e le regole dello sciopero. Ad esempio in Germania i vincoli e le
procedure negoziali sono diretti alla realizzazione della pace sociale. Le tradizioni italiana
e francese non ammettono obblighi legali di pace e conoscono esperienze limitate di
autoregolazione e proceduralizzazione consensuale del conflitto ma maggiori limiti
esistono con riferimento agli scioperi nei servizi pubblici essenziali. La protezione delle
libertà sindacali è oggetto di controversie anche in Italia, in rapporto all’esercizio dei
poteri discrezionali del datore di lavoro, ed è sempre in delicato equilibrio con le esigenze
di sicurezza pubblica, nonché con la particolare natura di certe attività. Restano
controverse anche a livello internazionale almeno 2 questioni di principio:
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Il rilievo europeo dei diritti sindacali (libertà sindacale, diritto di sciopero e contrattazione)
ha sollevato questioni delicate nei rapporti fra questi diritti e altre libertà fondamentali,
come la libertà di concorrenza e la libertà di circolazione delle merci. Su tali rapporti la
Corte di Giustizia ha dato importanti indicazioni. Innanzi tutto la Corte ha affermato che
la tutela di un diritto fondamentale, quale la libertà di espressione e di riunione, si
configura come giustificazione legittima di una restrizione della libertà di circolazione
delle merci, sulla base di una valutazione alla stregua del principio di proporzionalità. Nel
caso Albany è stato affrontato il rapporto fra contrattazione collettiva e libertà di concorrenza.
In pratica, la Corte si è occupata di un contratto collettivo olandese istitutivo di un fondo
di pensione integrativa, esteso per decreto e quindi provvisto di efficacia erga omnes. La
Corte, pur assumendo che il fondo pensione avesse natura di impresa e quindi fosse
soggetto alla normativa in tema di concorrenza, ha ritenuto che il relativo accordo
istitutivo non rientrasse nel divieto di restrizione della concorrenza, in quanto si è
sostenuto che qualsiasi accordo collettivo, anche se non munito di efficacia generale, ha
effetti restrittivi della concorrenza. La Corte sembra sancire in tal modo l’immunità dalle
norme sulla concorrenza del contratto collettivo nazionale nella duplice versione di
accordo con efficacia limitata alle parti stipulanti e di accordo con efficacia generale. Nel
caso Van der Woude, che riguardava un contratto collettivo in tema di assicurazione
malattia, la Corte raggiunge conclusioni simili al caso Albany, sostenendole però con
argomentazioni che non eliminano gli aspetti problematici delle questioni affrontate. Da
non dimenticare poi l’analisi di altre 2 decisioni della Corte di Giustizia in questo tema, in
quanto possono avere una certa incidenza sul futuro delle relazioni industriali e sulla
tenuta degli standard sociali in Europa. Si tratta della:
❖ Sentenza Viking: riguarda un’azione collettiva di boicottaggio, decisa dal
sindacato finlandese, contro la decisione di Viking Line di cambiare bandiera ad
una sua nave, per sfruttare un contratto collettivo meno costoso. La Corte ammette
l’importanza delle azioni collettive e del diritto di sciopero ma afferma, allo stesso
tempo, che non possono prescindere da un confronto con la libertà fondamentale di
stabilimento riconosciuta dal Trattato. Quindi, secondo la Corte le azioni collettive,
che contrastano questa libertà di stabilimento, sono giustificate solo finché
perseguono obiettivi di tutela dei lavoratori e purché siano adeguate e necessaria al
raggiungimento degli stessi. Il giudice nazionale ha il compito di valutare se queste
condizioni sono soddisfatte.
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❖ Sentenza Laval: è successiva alla sentenza nel caso Viking ed è originata da uno
sciopero del sindacato svedese, diretto ad ottenere l’applicazione del contratto
collettivo degli edili di questo Paese da parte dell’impresa lettone Laval ai
lavoratori lettoni distaccati presso un cantiere in Svezia. La Corte afferma di nuovo
che l’azione collettiva è in principio legittima se ha lo scopo di proteggere i
lavoratori da pratiche di dumping sociale. Nel caso specifico, però, questa esigenza
non sussiste, perché la tutela si trova già nelle norme legali dello Stato membro, per
cui l’azione collettiva è contrastante con la libertà di prestazione di servizi.
Queste decisioni sono state criticate perché comportano una valutazione del giudice in
ordine alle motivazioni dell’azione collettiva, che è potenzialmente lesiva dell’autonomia
collettiva. Tale controllo giudiziale è ritenuto ancor più discutibile per il fatto che avviene
non in nome della tutela delle persone ma in nome delle libertà economiche, per cui si ha
uno squilibrio tra loro.
Nella sentenza Demir la Corte, innovando rispetto alle pronunce precedenti, ha ritenuto
di ricomprendere nel diritto di associazione, contemplato dall’art. 11 CEDU, anche il
diritto di contrattazione collettiva, osservando che i limiti a tale diritto possono essere
individuati solo in quanto necessari ad assicurare il buon funzionamento di una società
democratica e comunque in una logica di stretta interpretazione, nel rispetto del principio
di proporzionalità.
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L’intesa fra CGIL, CISL e UIL, diretta a costituire rappresentanze sindacali unitaria (RSU),
si raggiunge con un accordo nel 1993 e combina all’interno di tali organismi il principio
elettivo, esteso a tutti i lavoratori iscritti e non, con la garanzia di una rappresentanza
adeguata delle 3 componenti sindacali storiche. Invece, nei Paesi a doppio canale è la
forma elettiva a prevalere, assolvendo le funzioni essenziali di rappresentanza, comprese
quelle negoziali. Nei paesi nuovi membri dell’U.E. anche le forme di rappresentanza dei
lavoratori in azienda sono disomogenee e poco sviluppate, ad eccezione di Ungheria e
Slovenia che sono simili.
L’intervento del legislatore dell’U.E., come di quelli nazionali, non è rivolto direttamente
agli organismi in quanto tali, ma a favorire alcune attività di rappresentanza dei lavoratori
ritenute utili per la qualità dei rapporti di lavoro in azienda: diritti d’informazione,
consultazione e partecipazione, igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro. In alcuni casi il
legislatore dell’U.E. si è limitato a stabilire che l’esercizio di tali diritti è affidato alle forme
rappresentativa dei lavoratori quali previste nei vari sistemi nazionali. E’ il caso del
progetto Vredeling della direttiva n°391/1989 sul miglioramento della sicurezza e della
salute dei lavoratori. Nella direttiva sui c.d. Comitati Aziendali Europei (CAE) si è ritenuto
rafforzare la scelta promozionale di tali diritti, indicandone quale titolare uno specifico
organismo di diritto europeo, che è appunto il CAE. Questo organismo è stato delineato
solo nei tratti essenziali, per lasciare libertà di costituzione soprattutto con riferimento al
mix tra principio associativo ed elettivo. Gli orientamenti della Commissione e l’art. 137
TFUE sottolineano il ruolo centrale dell’impresa nel processo di europeizzazione delle
relazioni di lavoro e di organismi elettivi di rappresentanza dei lavoratori. L’evoluzione di
tali organismi può costituire un incentivo alla pratica transazionale di relazioni di lavoro
di tipo partecipativo e rappresentare un sostegno per la stessa attività di contrattazione in
azienda. Gli ultimi dati della CES segnalano oltre 900 CAE costituiti, che coprono circa il
60% dei lavoratori, con molti accordi già rinegoziati e si sono manifestate politiche attive
di human resource management, cioè di informazione e comunicazione dirette col personale,
carriere e retribuzioni personalizzate, percorsi formativi individuali, etc. Si tratta di
iniziative sollecitate dai cambiamenti del sistema produttivo post-fordista e della
composizione della forza lavoro.
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Sotto il profilo dei differenti gradi di diffusione del metodo contrattuale si può
accennare ad una partizione di massima fra:
▪ paesi continentali: il contratto nazionale di categoria o di settore rappresenta la
struttura portante direttamente o tramite accordi territoriali;
▪ Gran Bretagna: qui la contrattazione si svolge soprattutto a livello aziendale o di
stabilimento, con una declinante presenza di contratti nazionali;
▪ nuovi Stati membri dell’U.E.: qui c’è una relativa prevalenza del contratto aziendale.
Tali diversità influenzano evidentemente contenuti e funzioni del contratto collettivo:
• contratto collettivo nazionale: tende ad assumere il carattere di codice generale
minimo o standard della categoria ed è derogabile solo in melius;
• contratto collettivo aziendale: contiene la disciplina puntuale dei rapporti di lavoro,
legata alle realtà organizzative e produttive della singola impresa;
• contratto collettivo interconfederale: è usato per regolamentare questioni di rilevanza
generale, come è accaduto in periodo di crisi in Italia degli anni ’80. Una versione
informale è l’azione concertata, utilizzata in alcuni casi Germania.
Una netta diversità di pratiche negoziali riguarda i contenuti c.d. obbligatori o istituzionali
del contratto collettivo di categoria. Questi risultano molto diffusi in Paesi come la
Germania Federale; mentre sono molto poco o niente sviluppati in sistemi di relazioni
industriali conflittuali. Altrettanto divergente è la valutazione che i vari ordinamenti
operano circa la rilevanza e gli effetti giuridici della contrattazione collettiva quale
prodotto dell’attività negoziale. Una grande spartizione avviene anche in questo caso fra
ordinamenti europei continentali, che hanno tradizionalmente attribuito natura di
contratto vincolante fra le parti e fra i soggetti del rapporto individuale di lavoro, ed
orientamento britannico, che tende ad escludere in principio la rilevanza giuridica del
contratto collettivo per riconoscergli il solo il valore di gentlemen’s agreement. D’altra parte
gli stessi ordinamenti continentali si differenziano al loro interno su punti importanti,
come l’incidenza del contratto collettivo sul conflitto e la sua sfera di efficacia soggettiva.
L’obbligo di pace è necessario per la concezione tedesca mentre non lo è in Francia o Italia.
Inoltre, quasi tutti i paesi conoscono una procedura per attribuire al contratto efficacia erga
omnes ma essa non c’è in Italia. Ancora più eterogenea è la situazione nelle P.A.
La comune accettazione del metodo contrattuale in Europa ha posto fin dalle origini il
problema di una sua proiezione a livello transnazionale e comunitario. La questione ha
posto preoccupazioni di armonizzazione giuridica degli ordinamenti verso un prototipo di
istituto contrattuale costruito a tavolino, alla ricerca di pratiche contrattuali adattabili che
utilizzino il consenso verso il metodo negoziale, per diffonderlo senza ingabbiarlo in
forme giuridiche predefinite. La contrattazione collettiva è l’istituto più espressivo
dell’autonomia delle parti sociali, fortemente radicato nelle loro tradizioni e come tale
praticabile meglio al di fuori di forzature normative sia statali sia sovranazionali. Da ciò si
capisce che le pratiche negoziali sono fortemente nazionalistiche. L’esperienza europea si è
sviluppata in forme diverse e si è passati progressivamente da un riconoscimento
informale al riconoscimento giuridico nel Trattato di Maastricht. Al termine di questo
processo le varie forme di dialogo sociale hanno assunto forme diverse non solo di dialogo
sociale ma anche di governance istituzionale. Tuttavia, nonostante il riconoscimento
73
giuridico la contrattazione collettiva non ha mai ricevuto una regolazione nella normativa
secondaria dell’U.E. In ogni caso possiamo storicamente schematizzare 3 tipi di
contrattazione collettiva:
1. la negoziazione bilaterale o trilaterale di settore;
2. il dialogo sociale;
3. la contrattazione collettiva vera e propria.
Le prime attività collettive europee non prendono la forma di una vera e propria
contrattazione, in quanto si tratta di attività bilaterali fra le parti o trilaterali con la
presenza comunitaria. Esse sono rivolte a trovare orientamenti convergenti su temi
definiti, legati alla politica comunitaria. Il loro carattere comune è la settorialità, nel senso
che gli attori sono le organizzazioni sindacali di settore presenti nei vari paesi e/o a livello
europeo; e tali attività si collocano all’interno delle iniziative settoriali e dei comitati
consultivi. Il quadro istituzionale più comune è quello dei comitati paritari settoriali
nell’ambito della Commissione europea. I componenti sono nominati dalla Commissione
su proposta delle organizzazioni settoriali contrapposte ed hanno tipicamente funzioni
consultive rispetto al Consiglio e alla Commissione su materie di politica comunitaria. In
alcuni settori sono presenti commissioni paritetiche attivate per iniziativa esclusiva o
prevalente delle organizzazioni professionali, per realizzare forme di coordinamento
settoriale sovranazionale. I contratti fra le parti hanno dato origine a dichiarazioni comuni
che non hanno carattere di vero contratto collettivo, assumendo la forma di
raccomandazioni congiunte. Sedi istituzionali per la concentrazione sono anche il
Comitato economico e sociale e il Comitato permanente per l’impiego, dove le parti sociali
sono pure presenti. Quindi, è diventata una prassi la consultazione delle parti ad opera
del Consiglio e della Commissione riguardo alle decisioni di politica sociale e del lavoro,
facendo si che il metodo tripartito tenda a diventare permanente. I comitati paritari sono
stati sostituiti da Comitati di dialogo settoriale e la Commissione ne ha promosso
l’istituzione in tutti i settori. Essi hanno funzioni consultive sui processi a livello
comunitario che abbiano implicazioni sociali e hanno il compito di promuovere il dialogo
sociale a livello settoriale. All’interno dei comitati si sono sviluppate attività di carattere
negoziale, con la conclusione di significativi accordi, ancorché non giuridicamente
vincolanti. Allo stato il numero degli accordi conclusi supera i 500.
L’espressione “Dialogo sociale europeo”, coniata durante gli incontri di Val Duchesse a
Bruxelles, allude a forme di confronto e scambio di opinioni fra le parti sociali, promosse
dall’autorità comunitaria per ricercare posizioni convergenti su questioni di interesse
comune e rilevanza socioeconomica generale, non necessariamente da formalizzare in
accordi collettivi. L’importanza ed i suoi potenziali sviluppi, sanciti dall’art. 118 B
(introdotto dall’Atto Unico del 1987) ora sostituito dagli artt. 154 e 155 TFUE, sono visti
come un continuum. Le risoluzioni finali di Val Duchesse sono state configurate come
pareri comuni, per cui indicano che le parti si sono trovate d’accordo non su una regola
vincolante ma solo su un’opinione. L’accordo sull’opinione influisce variamente:
➢ verso i negoziatori nazionali si esprime tramite vincoli endoassociativi;
➢ verso le autorità comunitarie agisce come forma di orientamento e di pressione.
74
Gli argomenti trattati a Val Duchesse sono stati ordinati per grandi temi. A partire dal 1985
si è tenuta una serie di incontri sui temi della formazione, dell’impatto delle tecnologie,
della mobilità del lavoro e dell’occupazione, che però hanno avuto risultati deludenti. A
partire dagli anni ’90, invece, è la Commissione che assume diverse iniziative specifiche
per lo sviluppo del dialogo sociale sia a livello settoriale con la generalizzazione dei
comitati del dialogo sociale sia a livello intersettoriale. Tuttavia, mentre i comitati settoriali
lavorano sotto una sorta di induzione della Commissione, il dialogo sociale intersettoriale
conserva maggiormente il carattere informale e volontario. Per questo motivo i migliori
risultati si hanno in questo campo. Il Consiglio europeo straordinario sull’occupazione ha
sollecitato tutte le parti sociali a contribuire ai vari livelli alla definizione delle strategie
occupazionali e in particolare per quanto riguarda l’occupabilità e l’adattabilità. Gli esiti
sono stati diseguali a seconda delle materie specificatamente trattate. Negli ultimi anni il
dialogo sociale a livello interprofessionale si è svolto nell’ambito del Comitato del dialogo
sociale.
I normali ostacoli allo sviluppo di una vera e propria contrattazione collettiva sono:
i. la mancanza di attori sociali dotati di poteri decisionali a livello europeo;
ii. l’assenza di pratiche di conflitto a livello sopranazionale;
iii. l’assenza di riconoscimento del diritto al conflitto sul piano sovranazionale;
iv. la resistenza degli imprenditori ad accettare un ulteriore livello di normazione
sociale aggiuntivo rispetto a quelli esistenti;
v. l’esitazione dei sindacati a trasferire a livello europeo dei poteri decisori con rilievo
diretto sulle condizioni di lavoro dei loro aderenti.
E’ per questo motivo che le esperienze di contrattazione collettiva vera e propria si sono
avute solo a livello sovranazionale in alcuni grandi gruppi di imprese multinazionali. In
pratica, si tratta di accordi multinazionali, in quanto riguardano specifici paesi accomunati
fra loro dalla presenza di aziende o stabilimenti del gruppo, per cui il fattore unificante è
l’impresa. Ciò si traduce sull’identità degli interlocutori: per parte datoriale è la direzione
del gruppo o della società; per la parte sindacale l’attore è differenziato perché potrebbe
essere il sindacato nazionale o la federazione europea del sindacato di settore. Inoltre, dal
punto di vista contenutistico, tali accordi non incidono sul contenuto normativo della
disciplina del rapporto individuale di lavoro ma incidono sul contenuto procedurale, cioè
prevedono procedure di informazione e consultazione fra impresa e rappresentanze dei
lavoratori. La Commissione ha definito questi accordi come transnational texts, in quanto
hanno valore impegnativo nei confronti dell’impresa ma non esplicano nessun effetto diretto sui
lavoratori come parti del rapporto individuale. L’efficacia obbligatoria in capo all’azienda non è
molto problematica nella maggior parte dei Paesi e può essere configurata anche solo
rispetto alla società madre, da cui può essere estesa anche alle società figlie. In ogni caso,
possiamo ritenere che il peso della contrattazione collettiva d’impresa è destinato a
crescere anche a livello transnazionale così come è avvenuto nei sistemi nazionali. Il
riconoscimento dei Comitati Aziendali Europei (CAE) ha fornito una base istituzionale
utile per lo sviluppo di relazioni collettive in azienda; anche se i loro poteri sono
attualmente circoscritti e non direttamente funzionali alla contrattazione collettiva. Per
queste ragioni non solo i sindacati ma anche la Commissione ritengono importante che le
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L’incidenza dello strumento contrattuale europeo può variare a seconda che le parti
scelgano di darvi seguito secondo le procedure e le pratiche vigenti in ciascun Paese
oppure, nelle materie di competenza dell’U.E., attraverso una decisione del Consiglio. Per
questo motivo possiamo trattarle distintamente:
A. Efficacia della contrattazione collettiva europea secondo le regole nazionali: questa via
è indicata dall’art. 4 del Protocollo sulla politica sociale (che ora è trasfuso nell’art.
155 TFUE), il quale la fa consistere nello sviluppare i contenuti degli accordi tramite
contrattazione collettiva secondo le regole vigenti in ogni Stato membro, fermo
restando però che ciò non implica nessun obbligo degli Stati membri di modificare
la legislazione nazionale per facilitarne l’applicazione. Di recente la Commissione
ha ribadito che nessun intervento dell’U.E. a favore della contrattazione
transnazionale può sostituirsi alle norme e alle prassi nazionali. Quindi, nonostante
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realizzi una vera e propria alterazione dei connotati della contrattazione come atto
di autonomia, per privilegiare i caratteri di strumento ausiliario di regolazione
pubblica. In ogni caso, anche dopo la formale adozione con decisione del Consiglio,
affinché possano essere efficaci negli ordinamenti nazionali gli accordi richiedono di
essere attuati con gli strumenti previsti, per cui si tratta di una doppia attuazione.
La previsione pone delicati problemi interpretativi: innanzi tutto con riguardo al
“rapporto fra la fonte negoziale e decisione del Consiglio” e, in secondo luogo,
quanto alla “tecnica con cui la decisione del Consiglio può operare negli
ordinamenti nazionali”. Sul primo punto, è opinione comune che il contenuto del
contratto collettivo non può essere cambiato dal Consiglio ma solo accettato o
respinto in toto. In ogni caso la decisione del Consiglio può attuare una vera e
propria incorporazione oppure operare un mero rinvio formale. Nel primo caso la
disciplina è formalmente e sostanzialmente determinata in via di autorità e quindi
rimarrebbero irrilevanti le eventuali variazioni o disdette dell’accordo collettivo ad
opera delle parti. Nell’altra ipotesi la decisione del Consiglio si limiterebbe a dare
effetto erga omnes al contratto collettivo cui fa rinvio. Quindi, mentre la prima
soluzione ha il vantaggio della stabilità, la seconda è più conforme alla
valorizzazione dell’autonomia collettiva come fonte sostanziale di disciplina dei
rapporti di lavoro europei. Il termine decisione utilizzato nell’art. 155 TFUE è
volutamente generico e potrebbe coprire atti diversi del Consiglio. Anche se la
dottrina ha formulato soluzioni molteplici, il Consiglio ha sinora sempre adottato lo
strumento della direttiva, coinvolgendo anche il Parlamento Europeo. Prima di
presentare la proposta di recezione dell’accordo al Consiglio, la Commissione
procede ad una valutazione che tiene conto della rappresentatività delle parti
contraenti, del loro mandato e della legalità di ciascuna clausola del contratto
collettivo rispetto al diritto europeo. Si tratta di un potere di verifica che trova
fondamento nell’art. 17 TUE, secondo il quale la Commissione vigila
sull’applicazione dei Trattati e sulle misure adottate dalle istituzioni. In caso di esito
negativo, la Commissione è autorizzata a non sottoporre l’accordo al Consiglio.
Le formule usate per indicare sia le parti sia l’ambito della contrattazione sono generiche,
visto che si parla di accordi a livello comunitario e di parti sociali. L’indicazione relativa
alle parti non può che essere riferita alle organizzazioni rappresentative ai vari livelli e
competenti a negoziare. Il secondo requisito può richiedere specifiche indicazioni circa il
fondamento dei poteri. In ogni caso spetta alla Commissione procedere all’accertamento di
entrambi i requisiti. La genericità dell’ambito negoziale non presenta difficoltà specifiche
quando l’applicazione degli accordi collettivi segua le forme del diritto comune. Non v’è
ostacolo a ritenere che una simile soluzione possa operare per qualunque tipo di accordo,
stipulato da qualsiasi attore o per singoli Paesi. Più complessa è la soluzione quando si
tratti di applicare gli accordi con decisione del Consiglio. La genericità sembra indicare che
possano essere recepiti accordi diversi per ambito di copertura e per soggetti stipulanti.
Gli accordi d’impresa sembrano invece inadatti ad essere recepiti in questa fonte dell’U.E.
sia nei casi in cui gli accordi stipulati non riguardino tutti gli Stati membri sia quando essi
coinvolgano solo una parte degli schieramenti nazionali. In entrambi i casi un’estensione
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dell’accordo oltre l’ambito controllato dalle parti stipulanti dovrebbe basarsi su una
valutazione rigorosa circa l’opportunità di tale scelta, mirante a correggere la parzialità
della base contrattuale rappresentata. Di fatto sono stati finora recepiti soprattutto accordi
interprofessionali, riguardanti i congedi parentali, il lavoro a tempo parziale e i contratti a
tempo determinato. Restano esclusi, invece, i temi critici come la retribuzione e i diritti
sindacali.
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L’istituzione e la diffusione di questi diritti è avvenuta per lo più in via legislativa, mentre
in Italia e Gran Bretagna tramite la contrattazione collettiva. Solo i diritti d’informazione
hanno una diffusione generalizzata in tutti i Paesi membri, compresa l’Italia dove sono
previsti da tutti i maggiori contratti collettivi nazionali. Solo con il D. Lgs. n°25/2007 si è
avuto il riconoscimento legislativo. Forme di consultazione stabile e di partecipazione
istituzionale alle decisioni dell’impresa hanno un’estensione limitata in Paesi come Italia e
Gran Bretagna, caratterizzati da forti tradizioni contrattualistiche e rivendicative, mentre
sono generalizzate in altri Paesi ove hanno ricevuto esplicito riconoscimento e regolazione
per legge, come Germania e Olanda. La partecipazione organica è diffusa in Germania e si
prevede in tutte le imprese con più di 2000 dipendenti la presenza di rappresentanti dei
lavoratori nel consiglio di sorveglianza, con il presidente espresso dagli azionisti e
provvisto di voto doppio in caso di contrasto. Si utilizza la struttura dualistica delle società
per azioni, estesa anche in Italia, ove il consiglio di sorveglianza ha poteri di controllo e di
designazione degli amministratori; mentre i poteri di gestione sono riservati ad un altro
organo ristretto (presidenza, direzione). Tale struttura ha reso possibile la partecipazione
dei lavoratori a compiti di controllo senza coinvolgerli in compiti di gestione. Questa
distinzione è più difficile nei Paesi con struttura societaria unitaria, che ha un unico
organo di gestione (il consiglio di amministrazione), che peraltro può delegare parte dei
suoi poteri all’amministratore delegato o ad un comitato esecutivo. La partecipazione
esterna, invece, si realizza tramite organismi rappresentativi dei lavoratori.
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della società. Nel sistema dualistico ciò si realizza con la presenza nel consiglio di
sorveglianza, mentre nel sistema monistico con la presenza fra i membri non gestori del
consiglio di amministrazione.
L’obiettivo comune di tali iniziative è di porre rimedio ai marcati differenziali nei diritti
d’informazione/consultazione dei lavoratori esistenti nei vari Paesi membri, stabilendo
una base di regole comuni. Il progetto Vredeling perseguiva tale intento armonizzatore e
il suo aspetto più originale era quello di predisporre strumenti per forzare il centro di
decisione del gruppo d’imprese a fornire le informazioni riguardanti la situazione
complessiva del gruppo. La prima versione del progetto stabiliva che i rappresentanti dei
lavoratori avrebbero potuto avere accesso diretto al centro di decisione (impresa
dominante), anche se esterno alla Comunità. In una seconda versione si stabilì che tale
centro esterno potesse designare un agente autorizzato a fornire le informazioni e che, in
mancanza, avrebbe dovuto ritenersi responsabile la direzione di qualsiasi filiale presente
nella Comunità (soluzione dell’ostaggio). Questi ammorbidimenti non ridussero
l’opposizione delle organizzazioni imprenditoriali e fu per questo motivo che la
Commissione, attraverso l’Accordo sulla Politica Sociale (APS), si indirizzò verso i
Comitati Aziendali Europei (CAE), con l’adozione della direttiva n°45/1994. Nel
frattempo si cominciò a chiedere un rinnovamento di questa direttiva, per adeguarla alla
direttiva n°86/2001, riguardante la Società Europea (SE). L’adeguamento si ottenne con
l’adozione della direttiva n°38/2009. Questa normativa cercò di rafforzare l’effettività dei
diritti previsti, garantendo che l’informazione e la consultazione possano intervenire in
tempo utile, così da permettere un’efficace interlocuzione tra il CAE e la dirigenza
dell’impresa, ed esplicitando il diritto del CAE, o del suo Comitato ristretto, di essere
sentiti anche d’urgenza, in particolare nei casi di chiusura di stabilimenti e licenziamenti
collettivi. La direttiva prevede altresì un iniziale riconoscimento del ruolo delle
organizzazioni sindacali rappresentative a livello comunitario nel processo di formazione
dei CAE, stabilendo che la delegazione speciale di negoziazione (DSN) per l’istituzione del
CAE può richiedere l’assistenza di esperti, fra cui rappresentanti di queste organizzazioni.
Ex art. 1, al CAE fanno capo i diritti d’informazione e di consultazione dei lavoratori nelle imprese
e nei gruppi di dimensione comunitaria, riferiti alle questioni di carattere transnazionale. L’ambito
di applicazione della normativa comprende sia le imprese sia i gruppi aventi almeno 1000
dipendenti negli Stati membri, con stabilimenti situati in almeno 2 Stati e occupanti in
ciascuno almeno 150 lavoratori. Ex art. 2, la direttiva si riferisce alle imprese e ai gruppi di
imprese di dimensioni comunitarie. Inoltre, essa definisce il gruppo come composto da
un’impresa controllante e dalle imprese da essa controllate e l’impresa controllante come quella
che può esercitare un’influenza sulle controllate, indicando in via esemplificativa come indici di tale
influenza la maggioranza di capitale sottoscritto o il potere di nomina di più della metà dei membri
del consiglio di amministrazione, di direzione e di vigilanza. Sono escluse, invece, quelle che
non operano in più Stati membri. La procedura per la costituzione dei CAE e per la
definizione dei loro poteri è affidata in prima istanza all’accordo fra le parti stesse, affinché
le modalità di funzionamento e le procedure siano adeguate alla loro situazione
particolare. Le parti sono la direzione centrale dell’impresa o del gruppo e una
delegazione speciale di negoziazione (DSN) composta di rappresentanti dei lavoratori,
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❖ le decisioni della DSN sono assunte a maggioranza assoluta dei componenti, purché
questa rappresenti anche la maggioranza assoluta dei lavoratori. La maggioranza
qualificate di 2/3 di rappresentanti e lavoratori è richiesta per decisioni ritenute di
particolare rilievo;
❖ la garanzia del mantenimento dei diritti acquisiti, onde evitare che la costituzione di
una SE sia uno strumento per ridurre o cancellare i diritti di partecipazione;
❖ l’organo competente della società e la DSN devono negoziare con spirito di
cooperazione per arrivare a un accordo e le trattative devono concludersi entro 6
mesi, prorogabili fino a 1 anno, dalla costituzione della DSN;
❖ la scelte delle forme di coinvolgimento dei lavoratori è affidata in via prioritaria alla
contrattazione;
❖ che nei casi di SE costituita mediante fusione, si richiede la partecipazione almeno
del 25% dei lavoratori di tutte le società partecipanti;
❖ che nei casi di SE costituita mediante holding, si richiede la partecipazione del 50%
dei lavoratori;
❖ ex art. 7.3 della direttiva, gli Stati possono escludere l’applicazione delle
disposizioni di riferimento sulla partecipazione interna agli organismi della società
(detta partecipazione forte) nel caso di SE costituita mediante fusione, al fine di
tutelare i Paesi che non prevedono tale partecipazione come la Spagna;
❖ in caso di mancanza d’accordo tra le parti o in mancanza dei presupposti per
l’applicazione delle norme di partecipazione forte, la SE deve provvedere alla
costituzione di una rappresentanza dei lavoratori esterna agli organi societari,
titolare dei diritti di informazione e consultazione.
Questa direttiva è il risultato di un intricato compromesso fra l’esigenza di evitare un
arretramento dei livelli partecipativi preesistenti in alcuni Stati membri e la resistenza di
altri Stati membri a generalizzare standard partecipativi presenti in una minoranza di
ordinamenti. Una SE non necessariamente deve essere di dimensioni comunitaria, visto
che non necessita di requisiti relativi al numero di lavoratori occupati ma solo la necessità
che si tratti di una società per azioni con capitale sottoscritto di almeno 120 mila euro. Una
normativa parallela a questa si ha per la Società Cooperativa Europea (SCE).
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