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Riassunto Diritto del lavoro dell'Unione Europea Roccella,


Treu
Diritto del lavoro progredito (Università Cattolica del Sacro Cuore)

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DIRITTO DEL LAVORO DELL’UNIONE


EUROPEA
Di Roccella, Treu – VI edizione

CAPITOLO 1 – Principi ispiratori ed evoluzione storica delle politiche


comunitarie
Le motivazioni e le indicazioni fondamentali dei trattati comunitari sono economiche e
riguardano solo indirettamente i problemi del lavoro, perché c’era una radicata fiducia
nelle capacità spontanee del grande mercato unificato (fondato sulla concorrenza) di
promuovere e favorire l’armonizzazione dei sistemi sociali, così come affermato dall’art.
117 del trattato di Roma. Un’impostazione simile era già presente nel Trattato CECA di
Parigi, il quale costituisce il primo mercato unificato nei settori del carbone e dell’acciaio,
evidenziando agli artt. 2 e 3 affermazioni di rilievo sociale con alcuni obiettivi:
• incremento dell’occupazione;
• miglioramento del tenore di vita negli stati membri;
• attribuzione alle autorità CECA della promozione del miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro della mano d’opera nelle industrie del settore.
Tali enunciazioni non sono avvalorate da strumenti normativi: anzi, il Trattato esclude
ogni competenza sovranazionale in materia sociale. Gli interventi sociali più significativi
previsti riguardano la riconversione professionale e il riadattamento dei lavoratori
investiti dalle crisi aziendali e dalle ristrutturazioni conseguenti al mercato unico. Gli artt.
46 e 45 autorizzano l’elaborazione e il finanziamento di programmi di creazione di nuove
attività economicamente sane al fine di reimpiegare la manodopera: questo è un potere
non presente nel trattato CEE. Altro principio importante, rafforzato poi dal Trattato di
Roma, è quello del libero accesso alle occupazioni nei due settori senza discriminazione di
nazionalità per i lavoratori in possesso di una qualificazione professionale confermata. Nel
Trattato istitutivo dell’EURATOM si trovano principi analoghi.

Anche il Trattato di Roma del 1957 mostra il carattere derivato della dimensione sociale. In
ogni caso, rilevano in particolar modo le seguenti norme:
➢ Art. 117: Gli Stati membri convengono sulla necessità di promuovere il
miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della manodopera che consenta la
loro parificazione nel progresso. Tale miglioramento discenderà dal funzionamento
del mercato comune, che favorirà l’armonizzazione dei sistemi sociali.
➢ Art. 3: L’azione della Comunità comporta il ravvicinamento delle legislazioni
nazionali nella misura necessaria al funzionamento del mercato comune.
➢ Art. 100: Il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione,
stabilisce direttive volte al riavvicinamento delle disposizioni legislative,

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regolamentari ed amministrative degli Stati membri che abbiano un’incidenza


diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune.
In questo quadro vanno lette le singole disposizioni del Trattato concernenti gli aspetti
sociali, le quali sono gli artt. 48-51 sulla libera circolazione dei lavoratori, l’art. 100
sull’avvicinamento delle normative nazionali, gli artt. 117–122 che sono le disposizioni
sociali in senso proprio, l’art. 128 sulla formazione professionale e gli artt. 193–198 sul
comitato economico sociale. I contenuti di queste norme possono raccogliersi in 2 filoni:
• Politiche di sostegno dell’impiego e di regolazione del mercato del lavoro: questo filone
riguarda 3 gruppi di norme, riguardanti:
▪ “libera circolazione della manodopera”: è sostenuta al fine di favorire i flussi
migratori dai paesi con disoccupazione strutturale (tra cui l’Italia) verso i
paesi che presentavano tensioni sul mercato del lavoro (Belgio, Olanda e
Lussemburgo). In questo modo si realizza una politica dell’impiego che
riflette l’idea secondo cui l’allargamento dei mercati, tra i quali anche quello
del lavoro, favorisce l’espansione e la redistribuzione dell’occupazione utile.
▪ “Fondo sociale”: è stato istituito sulla base dell’idea che la mobilità dei
lavoratori richiede politiche di adeguamento formativo alle richieste esistenti
nei vari paesi. Per questo motivo, sostiene le iniziative nazionali dirette a far
conseguire ai lavoratori in cerca di impiego le professionalità richieste,
agevolandone le riconversione professionale e lo spostamento sul territorio.
▪ “formazione professionale”: l’art. 128 ne prevede la sua attuazione al fine di
contribuire allo sviluppo sia delle economie nazionali sia del mercato
comune.
• Armonizzazione delle normative sociali dei Paesi membri: questo filone si pone come
obiettivo la parificazione nel progresso delle condizioni di vita e di lavoro della
manodopera e ad esso sono finalizzati sia l’armonizzazione dei sistemi sociali sia il
ravvicinamento delle normative nazionali, con la conseguenza che sia
l’armonizzazione sia l’avvicinamento delle normative in materia sociale dovrebbe
attuarsi verso l’alto, cioè alle condizioni ed alle normative migliori fra quelle
esistenti negli stati membri. Sono state molte le difficoltà riscontrate. Tuttavia,
appare certo un punto: l’armonizzazione non implica unificazione, né identità delle
norme e degli istituti giuridici, per cui la diversità resta una realtà radicata in
Europa ed è parte della sua ricchezza. In pratica, si tratta di far convergere verso
obiettivi ritenuti più avanzati i sistemi sociali sottostanti alle norme, unico modo per
“armonizzare” le condizioni effettive di vita e di lavoro. L’art. 118 affida alla
Commissione il compito di promuovere una stretta collaborazione fra gli stati
membri nel campo sociale, con riferimento ad alcune materie come occupazione,
diritto al lavoro, formazione e perfezionamento professionale, sicurezza sociale,
diritto sindacale o contrattazione collettiva. Di fatto, però, la Corte di Giustizia
precisa che da tutto ciò deriva solo un vincolo di consultazione reciproca fra stati e
Commissione senza condizionamento alla libertà delle scelte nazionali. L’incidenza
normativa diretta si ha solo nell’art. 119 sulla parità retributiva fra lavoratori e
lavoratrici e nell’art. 120 sull’equivalenza dei trattamenti in materia di ferie. Infine,
da ricordare è l’art. 235 del Trattato, il quale riconosce agli organi comunitari la

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possibilità di prendere ogni iniziativa che sia necessaria per raggiungere uno dei
suoi obiettivi salvo che il Trattato non abbia previsto poteri specifici al riguardo.

La storia conseguente alla firma del Trattato di Roma conferma le difficoltà applicative dei
principi sociali ma presenta elementi di dinamismo imprevisti. Ecco perché può essere
fatto un excursus storico delle politiche sociali europee. In tal senso possono essere
individuate diverse fasi.
1a FASE – decennio dal ’50 al ’60: l’azione sociale si concentra in modo prevalentemente
sull’attuazione della libera circolazione della manodopera. Tale azione è sostenuta dal
Fondo Sociale Europeo (FES) e si inserisce in un periodo di crescita economica che fanno
prospettare un riassorbimento della disoccupazione. Inoltre, si comincia a sviluppare il
principio in base al quale si prevede che le politiche sociali debbano risultare dalla
consultazione tra i sindacati e le associazioni imprenditoriali, sia a livello nazionale sia a
livello europeo.
2a FASE – fine anni ’60: in questa fase si ha un clima di forte tensione sociale. Il primo
programma d’azione in materia sociale è approvato dal Consiglio nel 1974 e l’innovazione
più netta risiede proprio nella formula utilizzata di “politica sociale comunitaria”, che è
legata all’obiettivo di realizzare un’unione economica e monetaria. Nel programma del ’74
si enfatizza l’interdipendenza tra l’azione sociale e quella economica, affermando, inoltre,
che l’espansione economica non è un fine in sé ma deve tradursi in un miglioramento delle
qualità e del livello di vita. I 3 obiettivi prioritari sono la realizzazione del pieno e migliore
impiego nella Comunità, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e la
partecipazione crescente delle parti sociali alle decisioni economiche e sociali della
Comunità e dei lavoratori alla vita delle imprese. Lo strumento principale sono le
direttive, tra le quali possiamo ricordare quelle sulla parità tra uomo e donna in materia di
retribuzione, di condizioni di lavoro e di trattamenti previdenziali; quella sulla protezione
dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi o quella sulla tutela della salute. Nello
stesso periodo è creato il Centro Europeo per lo sviluppo della formazione professionale.
Tuttavia, non si riesce a perseguire l’obiettivo del pieno impiego.
3a FASE - anni ’80: la politica sociale europea risente dello shock petrolifero e
dell’indebolimento delle forze sindacali. Come rimedio si propugna l’introduzione di
forme diffuse di “deregulation” e di “flessibilità” nei sistemi nazionali e nel mercato
europeo. Tuttavia, si ha l’opposizione di molti governi nazionali, tra cui in particolare la
Gran Bretagna, che è riuscita per diversi anni a bloccare le iniziative delle autorità
comunitarie. Il vuoto di iniziativa è solo in parte colmato dagli interventi della Corte di
Giustizia e delle giurisprudenze nazionali. Inoltre, l’armonizzazione è resa ancor più
complicata per via dell’adesione di paesi come la Grecia, la Spagna e il Portogallo, che
sono caratterizzati da condizioni retributive e di lavoro di molto inferiori a quelle degli
altri stati membri, nonché da alti tassi di disoccupazione.
4a FASE – 1 luglio 1987: in questa data entra in vigore l’Atto Unico, con lo scopo di
superare la situazione di impasse in cui ci si trovava. Sembrava un clima economico
migliorato da una lieve crescita produttiva, anche se era ancora presente il problema della
disoccupazione. Il centro d’interesse dell’atto è ancora di tipo economico e punta ad
andare oltre il mercato unificato per arrivare entro il 31 dicembre 1992 ad una vera e

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propria unità economica e monetaria. Le innovazioni dell’Atto Unico, rilevanti in materia


sociale, possono essere individuate in 4 norme fondamentali:
➢ Art. 118 A: munito di effetti giuridici ampi, ribadisce l’importante obiettivo
dell’armonizzazione nel progresso delle condizioni di sicurezza e salute dei
lavoratori e impegna gli Stati membri al miglioramento dell’ambiente di lavoro
come strumento per proteggere sicurezza e salute. Stabilisce, inoltre, che le direttive
in materia possono essere adottate a maggioranza, superando la regola
dell’unanimità.
➢ Art. 100 A: sancisce che la regola dell’unanimità continua a valere per le
disposizioni relative ai diritti ed interessi dei lavoratori dipendenti.
➢ Art. 118 B: impegna la Commissione a sviluppare il dialogo fra le parti sociali a
livello europeo, con l’instaurazione di possibili relazioni convenzionali.
➢ Art. 130: esprime il concetto di coesione economica e sociale fra gli stati membri, il
quale ha l’obiettivo di ridurre il divario fra le diverse regioni ed il ritardo delle
regioni meno favorite.
a
5 FASE – 8-9 dicembre 1989: in questa data viene approvata la Carta comunitaria dei diritti
sociali fondamentali (Carta Sociale), che può essere considerata il risultato del riattivarsi
dei propositi comunitari in materia sociale. Il proposito originario era quello di fissare una
base sociale per tutti i lavoratori comunitari, cercando di impedire la concorrenza verso il
basso delle condizioni di lavoro (c.d. dumping sociale). L’ottica è quella della protezione di
alcuni diritti ritenuti essenziali per tutti i lavoratori. Ci sono stati diversi oppositori a
questa linea, tant’è vero che, nel tentativo di calmare gli animi, i contenuti della carta si
sono identificati con il minimo comune denominatore dei diritti già riconosciuti nei vari
sistemi nazionali, già presenti in altri documenti internazioni come le Convenzioni OIL.
Inoltre, bisogna ricordare che questa Carta non è vincolante ma ha un importante rilievo in
sede interpretativa. Gli anni successivi confermano le difficoltà del processo di
integrazione sociale europea, le quali sono dovute principalmente all’intrinseca debolezza
della strategia di armonizzazione, che non si è concentrata su basi giuridiche specifiche e
perché è stata avulsa da azioni coerenti di politica economica. Mancando quindi un
sostegno allo sviluppo dei diritti sociali fondamentali debolmente sanciti dalla carta
sociale. Questo metodo è il meno adatto a tener conto delle diversità dei sistemi nazionali
e delle esigenze di flessibilità espresse dalle imprese. Dunque, si invoca come rimedio il
principio del mutuo riconoscimento fra le legislazioni nazionali, anche se, applicato al
diritto del lavoro, potrebbe diventare uno strumento di deregolazione e di abbassamento
degli standard sociali. D’altra parte anche l’efficacia del metodo contrattuale si dimostra
scarsa per l’assenza di attori collettivi e di relazioni industriali capaci di estendersi oltre i
confini nazionali. In questo quadro le differenze sembrano mantenersi o addirittura
accentuarsi, soprattutto dopo il dilagare della crisi economica.
6a FASE – dicembre 1991: è il periodo in cui si ha il vertice che porterà alla conclusione del
Trattato di Maastricht, il quale se da un lato segna un forte progresso verso l’U.E.
(indicando le tappe e le condizioni per l’unione economica e monetaria e sancendo il
mutamento di nome a Comunità europea), dall’altro evidenzia la persistenza di forti
contrasti tra gli stati membri. Il trattato di Maastricht conferma quanto fino ad allora era

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stato acquisito in materia sociale ed introduce 3 innovazioni, le quali sono contenute in un


Protocollo separato che impegna 11 stati membri esclusa la Gran Bretagna:
1. L’Accordo sulla politica sociale (APS), allegato al Protocollo, amplia i compiti
comunitari nella sfera sociale e assegna tale iniziativa alla comunità e agli stati
membri congiuntamente. Quindi, l’art. 1 dell’APS, riformulando l’art. 117 del
Trattato, assegna a questi soggetti diversi obiettivi come la promozione
dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, il dialogo fra
imprese e lavoratori e lo sviluppo delle risorse umane con l’intento di realizzare alti
livelli di occupazione stabile e combattere l’esclusione. Le misure di attuazione
devono tenere conto delle diversità delle pratiche nazionali e della necessità di
mantenere la competitività dell’economia comunitaria.
2. L’art. 2 dell’APS rimedia all’evidente debolezza del processo di adozione degli
interventi comunitari in materia sociale, ossia alla regola che imponeva che la
generalità delle decisioni fosse assunta all’unanimità con la sola eccezione di quelle
in tema di ambiente di lavoro. Il rimedio è attuato attraverso l’ampliamento delle
materie le cui decisioni possono essere prese a maggioranza qualificata. Quindi,
oltre all’ambiente di lavoro, oggi questa possibilità si ha anche per le decisioni sulle
condizioni di lavoro, sull’informazione e la consultazione dei lavoratori,
sull’eguaglianza fra donne e uomini rispetto all’opportunità nel mercato del lavoro
e al trattamento sul lavoro. Si può ritenere che restino escluse solo materie per cui lo
stesso art. 2 riconferma la regola dell’unanimità, come la sicurezza sociale e la
protezione sociale dei lavoratori in caso di cessazione del rapporto di lavoro, difesa
degli interessi sia di lavoratori che dei datori o le condizioni di impiego dei cittadini
di paesi terzi legalmente residenti nella comunità. Questa norma non si applica ai
temi del diritto di associazione sindacale, del diritto di sciopero e della serrata, in
quanto esclusi dalla competenza comunitaria.
3. Il terzo gruppo di innovazioni è inserito negli artt. 3 e 4 dell’APS e propone una
forte accentuazione del metodo negoziale per ottenere diverse forme e gradi di
intensità. Ex art. 3 la Commissione ha il compito di promuovere il dialogo sociale
fra le parti (cioè il sostegno all’attività diretta di negoziazione fra le parti) e la
consultazione delle stesse a livello comunitario, in modo tale che tutto il processo di
elaborazione delle iniziative comunitarie diventi formalmente triangolare, cioè
preveda la partecipazione, consultiva ma necessaria, delle parti sociali. Le parti
possono informare la Commissione, in occasione della consultazione, che esse
intendono iniziare la procedura prevista dall’art. 4, che prevede l’utilizzo
dell’accordo contrattuale per regolare la materia. Ex art. 4 gli accordi conclusi a
livello comunitario tra le parti possono essere applicati secondo le procedure e le
pratiche in atto nei singoli stati membri (strada tradizionale) oppure nelle materie di
competenza comunitaria attraverso la decisione del consiglio su richiesta congiunta
delle parti e su proposta della commissione (in questo caso è lo stesso contratto
collettivo a diventare direttamente operante negli ordinamenti nazionali anche in
sostituzione di eventuali proposte della Commissione).

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Tali innovazioni procedurali non cancellano le difficoltà di costruire un consenso


sostanziale sui contenuti delle convergenze da raggiungere, sia sul piano negoziale sia in
sede di Consiglio.
7a FASE – dall’armonizzazione normativa al coordinamento per obiettivi: si ritiene che la portata
delle innovazioni istituzionali del vertice di Maastricht sul processo d’integrazione sociale
europea ha avuto un’incidenza diseguale. Infatti, si ritiene che esso abbia inciso poco o
nulla nell’area del welfare e dei rapporti collettivi, mentre si rileva maggiormente nelle
forme della coesione giuridica in quanto si è ridotto il peso dell’armonizzazione dall’alto
mentre sono cresciute quelle dal basso (promosse dagli attori sociali) e di tipo orizzontale
(introdotte dalla interdipendenza e dalla competizione fra sistemi nazionali).
L’indebolimento dell’attività normativa europea si manifesta progressivamente nella
riduzione del contenuto materiale e dell’effetto diretto della direttiva, che è lo strumento
principe dell’armonizzazione: infatti, essa molto spesso ha un contenuto leggero e si limita
a recepire accordi collettivi quadro (anch’essi a maglie larghe). In questo cambiamento, il
coordinamento per obiettivi è realizzato nelle forme del soft law, cioè mediante strumenti
regolativi non vincolanti, nonché attraverso sanzioni dissuasive per gli stati che si
discostino dagli orientamenti comunitari. Gli strumenti del soft law tipici sono:
▪ “Guidelines”: si tratta dell’adozione di linee guida comuni
▪ “Benchmarks”: si tratta di parametri di riferimento per la misurazione delle
performance nazionali, al fine di promuovere e trasferire i buoni esempi
▪ “Peer review”: si tratta della sorveglianza multilaterale dei governi nazionali.
Il metodo del coordinamento per obiettivi è avviato già al vertice di Essen del 1994 con le
prime linee guida sull’occupazione, sancite formalmente dal Trattato di Amsterdam del
1997. Il suo oggetto di intervento viene allargato dal Consiglio Europeo di Lisbona del
2000 e viene riferito a tutte le aree principali di politica sociale (esclusione sociale, povertà,
sicurezza sociale, istruzione, sanità ed immigrazione). Al metodo viene assegnato in nome
di Metodo Aperto di Coordinamento (MAC) e la sua importanza sta nel fatto che
attraverso di esso si è cercato di superare la situazione di impasse politico-istituzionale
dell’hard law, sfruttando le potenzialità dei processi virtuosi di mutual learning provenienti
dal basso. Tuttavia, presenta una debolezza intrinseca: esso affronta le resistenze degli
ordinamenti, su cui dovrebbe influire, senza il sostegno di procedure di verifica vincolanti,
per cui il rischio dell’adozione di tale metodo possa configurarsi come una vera propria
rinuncia a sostenere l’europeizzazione delle politiche sociali, portando a derive
deregolative. Valutazioni conclusive sono premature, soprattutto perché il principio di
sussidiarietà, sancito a Maastricht, avvalora un atteggiamento di self-restraint e può essere
inteso:
a) in senso verticale, in quanto tende a rafforzare le forme di decentramento e punta a
contenere interventi sopranazionali di tipo diretto;
b) in senso orizzontale, in quanto favorisce forme di deregolazione contratta e restituisce
fiducia all’azione del mercato.
Ciò non implica l’azione comunitaria si riduca a una mera enunciazione di linee guida,
visto che molti interventi possono avvalersi di strumenti di enforcement indiretti, come gli
incentivi finanziari. Le politiche dell’occupazione, pur essendo presenti tra gli obiettivi
della comunità fin quasi dai Trattati istitutivi, hanno risentito della sfasatura tra obiettivi

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proclamati e gli strumenti per perseguirli. Infatti, la politica economica dell’occupazione è


a lungo rimasta sottratta all’iniziativa comunitaria e l’impegno comunitario a combattere
la disoccupazione è stato indebolito dalla prevalente preoccupazione degli stati e delle
istituzioni europee per la stabilità monetaria imposta dai parametri di convergenza fissati
proprio a Maastricht.
8a FASE – Trattato di Amsterdam (1997): l’innovazione più importante per gli aspetti sociali
è l’inserimento del Titolo VIII sull’occupazione, determinando la costituzionalizzazione
delle politiche occupazionali. Si ha un maggior coinvolgimento del Parlamento europeo
nella definizione delle politiche comuni, semplificando e potenziando la procedura di
consultazione. Questo Trattato è molto importante perché, in materia sociale, incorpora
tutte le disposizioni dell’APS e precisa norme già esistenti. In tema di occupazione,
considerata questione di interesse comune degli Stati membri, l’U.E. si vede conferito il
compito di elaborare una strategia coordinata per raggiungere gli obiettivi occupazionali.
Tuttavia, si tratta solo di un’affermazione, visto che nella pratica le competenze restano in
capo agli Stati membri. L’intervento della Comunità in materia di occupazione si propone
il fine di promuovere il coordinamento fra le politiche degli stati membri per una strategia
coordinata per l’occupazione e lo scambio di informazioni e delle migliori prassi mediante
il ricorso a progetti pilota. Infine, viene costituito un Comitato per l’occupazione con
compiti consultivi e di elaborazione.
9a FASE - dal Trattato di Amsterdam alla Carta di Nizza: nel decennio successivo, da una
parte, c’è l’accresciuta competizione globale che incrementa la pressione sulle economie di
tutti i paesi e, dall’altra, c’è l’accelerazione delle innovazioni tecnologiche ed organizzative
che rivoluziona i sistemi produttivi e le forme standard di lavoro. Inoltre, non bisogna
dimenticare l’influenza proveniente dal processo di allargamento a numerosi paesi dell’est
europeo, in cui la diversità delle condizioni economiche e di lavoro è notevole. Una
risposta viene dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000, che individua la c.d. Agenda
economica e sociale Europa 2010 (cioè destinata fino al 2010). Il suo obiettivo è duplice:
1. vuole generare un’economia fondata su un a conoscenza competitiva in grado di
generare una crescita sostenibile;
2. vuole agire per la modernizzazione del modello sociale europeo, investendo nelle
persone e combattendo l’esclusione.
In pratica, si vuole recuperare il gap tecnologico e professionale che l’U.E. ha accumulato
nei confronti dei competitor come gli USA. In secondo luogo, va segnalata una rinnovata
attenzione al tema dei diritti fondamentali, che ha portato all’elaborazione della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza), che avrebbe dovuto
costituire il primo nucleo della futura costituzione europea: essa comprende i diritti di
prestazione sociale a fruizione individuale (sicurezza sociale, assistenza a soggetti deboli,
accesso al collocamento gratuito, etc.) e i diritti collettivi (diritto di associazione e riunione,
di contrattazione, diritto di sciopero, diritti d’informazione e consultazione e i diritti c.d. di
quarta generazione di contrasto dell’esclusione sociale). La carta è stata poi incorporata nel
Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa del 2004, il quale non è entrato in vigore
per via dell’esito negativo delle consultazioni referendarie francese ed olandese. Quindi,
resta fondamentale per l’Europa il bisogno di alcuni grandi valori di riferimento per
consolidare la propria identità economica, sociale e civile; valori che possono essere

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appunto ritrovabili nella Carta di Nizza, come anche sostenuto dall’avvocato generale
Tizzano nel caso Bectu di fronte alla Corte di Giustizia. Tuttavia, al rafforzamento dei valori
e degli obiettivi sociali non corrisponde l’adeguamento degli strumenti di attuazione.
10a FASE - il Trattato di Lisbona: siglato nel 2007 ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009,
introduce una serie di novità, che, essendo sparse nel testo, forse non facilitano la
trasparenza e la comprensione. In ogni caso le novità introdotte sono:
• Art. 2 TUE: inserisce tra i valori la dignità, l’eguaglianza, la solidarietà e la parità
fra uomini e donne, confermando l’impegno alla lotta contro le discriminazioni e le
esclusioni sociali e la tutela dei diritti dei minori.
• Art. 3 TUE: richiama la formula dell’economia sociale di mercato fortemente
competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale.
• Art. 6 TUE: riconosce ai diritti stabiliti dalla Carta di Nizza lo stesso valore giuridico
dei Trattati;
• Art. 48 TUE: riguarda il quorum richiesto per l’approvazione delle misure di
sicurezza sociale funzionali a rendere effettiva la libertà di circolazione del
lavoratori migranti.
• Art. 4.2.. lett. b TUE: la social policy è inclusa fra le materie di competenza
concorrente fra Unione e Stati membri.
• Art. 6 lett. e TUE: la formazione professionale rientra fra le competenze di sostegno.
• Il Trattato ribadisce l’impegno dell’U.E. per il coordinamento delle politiche
europee, sottolineando la necessità di garantire la coerenza fra le iniziative
economiche e quelle sociali. L’art. 156 TFUE rafforza il ruolo della Commissione per
il coordinamento e la promozione delle politiche sociali, per incoraggiare la
cooperazione tra gli stati membri. Resta cmq tutt’ora prevalente la logica per cui le
politiche sociali continuano ad essere sottratte all’intervento diretto dell’Unione.
• Art. 152 TFUE: rafforza gli elementi di sussidiarietà anche orizzontale del sistema,
ribadendo l’importanza del ruolo delle parti sociali e il metodo tripartito nella
definizione delle politiche sociali, con la formalizzazione del vertice sociale
trilaterale per la crescita e l’occupazione.
Il significato di tali innovazioni è suscettibile di diverse interpretazioni ma, secondo le
valutazioni più possibiliste, le scelte del Trattato spingono in avanti la dimensione sociale
dell’U.E. Tuttavia, ci sono elementi irrisolti come l’incertezza degli strumenti attuativi o le
divisioni politiche tra gli Stati membri: infatti, l’iniziativa europea ha inciso debolmente
nel ridurre le disuguaglianze fra aree forti e deboli dell’Europa e nel contrastare i fattori
che le stanno accrescendo. Ecco perché si è puntati solo su 2 obiettivi: investimenti
pubblici e privati in ricerca e sviluppo pari al 3% del PIL europeo e tasso di occupazione
del 70% entro il 2010. La crisi economica del 1008 ha indebolito l’iniziativa, che intanto
vede il profilarsi della Strategia Europa 2020 del Consiglio europeo del marzo 2010.
Questa nuova strategia mira a 3 priorità sintetizzate dalla formula “per una crescita
intelligente, sostenibile e inclusiva”, che mira tra le altre cose ad un’occupazione del 75% e
ad una diminuzione di 20 milioni di persone a rischio povertà. Gli strumenti predisposti a
tal fine, ancora una volta, non risultano maggiormente stringenti rispetto a quelli
sperimentati attraverso il MAC. La scarsa efficacia delle iniziative europee in materia
sociale è legata alla complessità dei target fissati anche alla scarsa determinazione nel

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perseguire un modello sociale ed economico europeo da parte degli attori politici della
Comunità.

In questo percorso di europeizzazione ci sono dei punti di criticità.


Il primo elemento è rappresentato dagli stessi contenuti e limiti del processo. L’impegno
verso la convergenza e il coordinamento delle politiche sociali non ha eliminato le spinte
contrarie verso la diversificazione in tutti gli ambiti di queste politiche. Tali spinte
appaiono anzi enfatizzate negli ultimi anni dall’accresciuta differenziazione del mercato
europeo sempre più internazionalizzato ed esposto a tensioni aggravate dalla crisi
economica. Quindi, il nuovo Trattato non si sbilancia né verso l’ipotesi di un federalismo
solidaristico né verso un federalismo competitivo, preferendo piuttosto una via
intermedia, che corrisponde ad una logica di reale cooperazione per gli obiettivi sociali.
Soprattutto la crisi economica spinge verso politiche protezionistiche degli Stati membri,
che puntano soprattutto a risolvere le emergenze finanziarie. Comunque, nei vari ambiti
delle politiche sociali coesistono elementi di convergenza, dove il coordinamento appare
efficace, e aree in cui prevale e si accentua la diversificazione, non frenata dalle fragili
procedure del soft law. Infatti, agli standard armonizzati di tutela si affiancano spazi di
maggiore flessibilità.
Altro elemento di criticità deriva dall’allargamento ai paesi dell’Est, caratterizzati da
condizioni economiche e sociali diverse da quelle del resto dell’U.E., dove ci sono costi e
condizioni di lavoro più bassi rispetto agli altri Stati membri. La soluzione non è né
l’estensione automatica delle condizioni e del diritto del lavoro dei vecchi stati ai nuovi né
lasciare una libera competizione al ribasso fra i diversi ordinamenti del lavoro. Il percorso
di integrazione richiede, dunque, l’intervento attivo dell’U.E. e dei singoli Stati membri in
2 direzioni: affrontare le cause strutturali delle disuguaglianze con politiche di sostegno
allo sviluppo delle aree più deboli e promuovere i diritti sociali fondamentali a beneficio
dei lavoratori meno protetti e delle aree meno sviluppate.
Un terzo punto di criticità riguarda i costi dell’integrazione, che rischiano di apparire
eccessivi rispetto ai benefici conseguibili e di spingere verso soluzioni sempre più
marcatamente nazionali delle questioni sociali. Spetta ai sostenitori dell’U.E. l’onere di
dimostrare il contrario.
Ciò comporta il riorientamento di alcune priorità dell’azione europea di politica
economica e sociale: si tratta di un riequilibrio delle condizioni strutturali delle diverse
aree del continente, che vanno dalla promozione del capitale umano agli interventi per la
diffusione delle conoscenze alle grandi infrastrutture, che sono necessari per favorire una
vera competitività solidale ed il progresso verso condizioni economiche di maggiore
crescita e insieme di maggiore equità. Sono chiamati a contribuire sono tutti gli attori
europei, sia le parti sociali sia le istituzioni, operanti nei vari ambiti e nei vari livelli; anche
se la responsabilità primaria spetta alle istituzioni dell’U.E. che dovrebbero indirizzare
l’operato di quelle nazionali. Le turbolenze dell’economia, la crisi internazionale e la
concorrenza, compresa quella fra gli Stati dell’U.E. hanno pesato sulle condizioni
occupazionali e sociali con gravità diversa a seconda della capacità di resistenza degli Stati
membri. Una spinta positiva potrebbe venire dal riconoscimento di un pieno valore
costituzionale ai diritti sociali fondamentali, elencati dalla Carta di Nizza, che non sarebbe

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comunque sufficiente a fronteggiare le tensioni delle dinamiche di mercato, per cui


occorrerebbero anche politiche sociali conseguenti. Tra i vari interventi possiamo ricordare
quelli fatti in merito all’emergenza economica attraverso il rafforzamento degli istituti di
sostegno dei lavoratori e delle imprese colpiti dalla crisi internazionale, nonché un
miglioramento nella finalizzazione del Fondo Sociale Europeo (FSE), volto a sostenere la
buona occupazione e promuovere iniziative in tema di flexicurity (flessibilità e sicurezza).
Inoltre, si è cercato di fissare (in modo flessibile) degli standard minimi e, a tal fine, si è
proposto di combinare l’uso del MAC con il ricorso a direttive quadro contenenti alcuni di
questi standard, differenziati in relazione al grado di sviluppo dei diversi sistemi di
welfare.
L’inadeguatezza degli strumenti utilizzati di politica sociale rispetto agli obiettivi prefissati
continua ad essere un punto critico della costruzione europea, per cui le procedure di
coordinamento potrebbero essere utilmente rafforzate. Ad esempio, in primo luogo si
possono precisare i targets quantitativi da raggiungere: non solo quelli generali come i
tassi di disoccupazione e occupazione ma anche quelli specifici o strumentali al
raggiungimento dei primi. Ad esempio, potrebbero essere previsti rimedi premiali e
sanzionatori più pregnanti di quelli attuali per rafforzare l’osservanza delle guidelines e
delle procedure. La Commissione, tuttavia, influenzata dalle resistenze nazionali, si è
dimostrata restia a rafforzare questi strumenti in materia di politiche sociali. Le
innovazioni più recenti si sono concentrate sulle misure di rigore finanziario. Quindi, si
mostra in modo sempre più evidente la necessità di orientare la politica gestionale verso i
molteplici attori non solo a livello statale ma anche decentrato, affinché si tenga conto delle
diverse condizioni locali. Strade nuove richiedono di essere battute anche nei rapporti
collettivi di lavoro, se si ritiene che il sostegno alla regolazione collettiva sia parte
integrante del modello sociale europeo, visto che il riconoscimento dei Comitati Aziendali
Europei (CAE) e della Società Europea (SE) non sono sufficienti in quanto concentrati nelle
grandi imprese. Quindi, nelle aree di imprese piccolissime e lavoratori atipici questi
condizioni possono favorirsi solo in via indiretta attraverso l’estensione di alcune tutele
fondamentali e forme di welfare diffuso e sostenendo la partecipazione dei sindacati.
L’ultimo punto critico è rappresentato dal fatto che il sistema istituzionale e regolativo, che
si è formato, si rivela meno lineare di quello sognato dai padri fondatori. Il sistema
europeo si è assunto il compito di guidare entro un quadro di policies condivise le
comunità nazionali in un’opera di riforma dei propri sistemi sociali, per cui non ci è dato
sapere in che misura il sistema europeo in itinere sarà capace di elaborare strumenti e
policies diversi da quelli sperimentati nel tempo. La strada seguita finora è quella dei
miglioramenti incrementali delle istituzioni, delle fonti e delle politiche. Quindi, possiamo
solo aspettare e vedere come l’U.E. uscirà fuori da questa crisi: rafforzata e convergente nei
punti comuni o divaricata dalle divergenze e dalle contraddizioni. In ogni caso, l’obiettivo
resta quello di diventare una vera e propria comunità federale con valori comuni, espressi
anche sul piano costituzionale, e guidata da un governo legittimato sul piano democratico.

CAPITOLO 2 – Fonti e rapporto fra le fonti. Diritto dell’Unione e


diritto del lavoro

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Nell’area del diritto del lavoro l’adozione di normative europee è condizionata dalla
sussistenza di una specifica disposizione del Trattato in grado di costruirne il fondamento
di legittimità giuridica (c.d. base giuridica). Nel Trattato di Roma del 1957 le basi giuridiche
erano molto poche e l’unico potere generale era quello riconosciuto alla Commissione
dall’art. 118 di promuovere la cooperazione tra gli Stati membri. Dopo di esso potevano
essere individuati 4 ambiti fondamentali:
I. la libera circolazione dei lavoratori (art. 45 TFUE);
II. l’istituzione ed il funzionamento del FSE (art. 162 TFUE);
III. la formazione professionale (art. 166 TFUE);
IV. la parità retributiva tra uomo e donna (art. 157 TFUE).
La competenza riconosciuta all’U.E. in queste materie implica che le autorità possono
imporre regole proprie agli Stati membri, tramite regolamenti e direttive. Ciò è avvenuto
in modo diseguale tra questi 4 ambiti. Nella fase iniziale del processo d’integrazione
comunitaria si cercò di risolvere il problema della carenza di basi giuridiche specifiche
attraverso l’utilizzo di basi di carattere generale. Quindi, nell’area del diritto del lavoro si
utilizzano come basi giuridiche 2 norme fondamentali:
• Art. 100 TCEE (ora art. 115 TFUE): esso consente di adottare direttive volte al
ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli
Stati membri che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul
funzionamento del mercato. A questa base giuridica si è ricorso per l’adozione di
numerose direttive tra le quali possiamo ricordare la direttiva n. 75/117 sulla parità
di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici, la direttiva n. 75/129 in materia di
licenziamenti collettivi o la direttiva n. 77/187 sul mantenimento dei diritti dei
lavoratori in caso di trasferimento d’impresa.
• Art. 235 TCEE (ora art. 352 TFUE): esso consente l’adozione di regole comunitarie,
in assenza di basi giuridiche specifiche, tutte le volte in cui un’azione risulti
necessaria per raggiungere uno degli scopi degli obiettivi di cui ai Trattati. Esso è
stato utilizzato per l’adozione della direttiva n. 76/207 sull’attuazione del principio
di parità di trattamento fra lavoratori e lavoratrici in materia di condizioni di lavoro
e della direttiva n. 79/7 sulla graduale attuazione del principio di parità di
trattamento tra uomini e le donne in materia di scurezza sociale.
Le competenze dell’U.E. nell’area del diritto del lavoro sono state estese in maniera
rilevante con le innovazioni introdotte dal Trattato di Maastricht e di Amsterdam. Le
materie elencate nell’art. 153 TFUE, in cui il Consiglio può decidere a maggioranza o
all’unanimità ( a seconda dei casi), riguardano tutti i temi del rapporto individuale di
lavoro, eccezione fatta per la sola retribuzione; mentre resta esclusa l’area del diritto di
associazione sindacale, del diritto di sciopero e serrata. L’ampliamento delle competenze
sociali dell’U.E. è temperato da alcune cautele. Infatti, gli artt. 151 e 153 TFUE indicano che
tali competenze sono concorrenti con quelle degli Stati membri. Inoltre, le iniziative
comunitarie devono tener conto della diversità delle prassi nazionali, in particolare nelle
relazioni contrattuali, e della necessità di mantenere la competitività dell’economia
dell’U.E. Ancora, ex art. 5 TUE, tali competenze concorrenti vanno esercitate nel rispetto
sia del principio di sussidiarietà, che detta le condizioni per l’intervento dell’U.E. nelle
aree di competenza concorrente, sia del principio di proporzionalità, che detta condizioni

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per determinare l’intensità e l’ampiezza dell’intervento anche nelle aree di competenza


esclusiva. Secondo tale principio, l’interevento normativo deve rivestire la forma più
semplice possibile e realizzarsi solo per quanto necessario, ad esempio preferendo per
quanto possibile una direttiva ad un regolamento essendo meno rigida.

La Corte di Giustizia ha svolto un ruolo cruciale nello sviluppo del diritto comunitario del
lavoro ed è competente a giudicare sia sulla base di ricorsi diretti, ovvero quando la
Commissione attivi una procedura d’infrazione per contestare ad uno Stato membro il
mancato adeguamento alle prescrizioni del diritto dell’U.E., sia sulla base di questioni
pregiudiziali concernenti l’interpretazione del diritto dell’U.E. Si deve ricordare che
l’intervento in via pregiudiziale della Corte è attivato dai giudici nazionali (e non dalle
parti della causa) in caso di dubbio sull’interpretazione ed applicazione del diritto
dell’U.E. Tale rinvio è rimesso alla discrezionalità del giudice nazione ed è obbligatorio
solo nel caso in cui la questione viene sollevata davanti a un giudice la cui decisione non è
assoggettabile ad altro ricorso (Corte di Cassazione e Corte Costituzione in Italia). E’
necessario che sia presente anche la condizione che l’interpretazione sia fondamentale ai
fini della decisione del caso concreto. La Corte di Giustizia non valuta il merito della
controversia ma si limita a dare l’interpretazione del diritto europeo. Inoltre, le norme
europee possono essere scritte in una pluralità di versioni linguistiche: l’orientamento
della Corte è costante nel ritenere che in caso di dubbio si esige che il diritto europeo sia
interpretato ed applicato alla luce dei testi redatti nelle altre lingue ufficiali. Entro questi
limiti, il suo giudizio della Corte di Giustizia non ha in nessun caso efficacia erga omnes e
si attiene al caso concreto. Ciò contribuisce a spiegare come proprio in giudizi di questo
genere si sia potuto esprimere maggiormente l’attivismo della Corte, la quale ha colto
l’occasione per affermare che, a seguito di sentenza emessa su domanda di pronuncia
pregiudiziale da cui risulti l’incompatibilità di una normativa nazionale con il diritto
comunitario, è compito delle autorità dello Stato membro interessato adottare i
provvedimenti generali o particolari idonei a garantire il rispetto del diritto comunitario,
nonché vigilare che il diritto nazionale sia rapidamente adeguato al diritto comunitario.
Invece, la Corte si è mostrata più prudente nei giudizi con efficienza diretta (come quelli
sui ricorsi della Commissione contro gli inadempimenti degli Stati membri): in questi casi,
è stata prevista la possibilità che la Corte condanni lo Stato membro, inottemperante ad
una sua precedenza sentenza di condanna, al pagamento di una somma forfettaria.

La TEORIA DEL PRIMATO nel contenzioso lavoristico della Corte di Giustizia: l’art.
288 TFUE enuclea le fonti del diritto dell’U.E. e ne traccia una summa divisio:
• Fonti vincolanti: esse sono:
➢ regolamento: è un atto normativo di portata generale, dotato di diretta
applicabilità negli ordinamenti giuridici nazionali.
➢ direttiva: è un atto normativo di portata generale, che, tuttavia, a differenza
del regolamento, vincola gli Stati membri al raggiungimento di un
determinato obiettivo, lasciandoli, però, liberi di scegliere le modalità di
perseguimento di tale obiettivo.

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➢ decisione: è un atto normativo obbligatorio solo per i destinatari da essa


designati.
• Fonti non vincolanti: esso sono:
➢ raccomandazione;
➢ parere.
La teoria del primato, quindi, si fonda su 3 pilastri:
I. 1° PILASTRO - Efficacia diretta delle direttive: si identifica in quella giurisprudenza
della Corte con la quale si attribuì ad altre fonti un tipo di efficacia giuridica
assimilabile a quella dei regolamenti. Quindi, poco a poco si è riconosciuto il
carattere della diretta efficacia ad alcune norme del Trattato (purché espresse in
termini chiari, precisi ed incondizionati) e alle disposizioni delle direttive
(limitatamente a quelle attributive di diritti, enunciate in maniera incondizionata e
con un grado di sufficiente precisione). Di conseguenza, si è affermata la possibilità
per i singoli di avvalersene dinanzi ai giudici nazionali, sia nel caso in cui la
direttiva non sia stata tempestivamente recepita sia nel caso in cui il recepimento sia
avvenuto in maniera non corretta. Nel contenzioso lavoristico della Corte
l’affermazione dell’efficacia diretta si è definitivamente consolidata nel caso
Marshall I, riguardante un licenziamento discriminatorio per ragioni di sesso.
Quindi, la natura cogente della direttiva, sulla quale è basata la possibilità di farla
valere dinanzi al giudice nazionale, esiste solo nei confronti dello Stato membro cui
è rivolta (c.d. efficacia diretta verticale). Da qui, emerge che le direttive comunitarie
possono entrare nell’ordinamento nazionale (ove non sia stato adempiuto l’obbligo
di trasposizione o la trasposizione sia stata operata in maniera inadeguata) non
soltanto qualora contengano disposizioni direttamente efficaci ma anche attraverso
una seconda modalità, che costituisce il 2° pilastro della teoria del primato.
II. 2° PILASTRO - Obbligo di interpretazione conforme: è stato teorizzato dalla Corte
inizialmente in relazione ad una controversia in materia di discriminazione di sesso
nell’accesso al lavoro ed è divenuto poi una costante nella giurisprudenza. In
pratica, questo obbligo impone ai giudici nazionali di interpretare il proprio diritto
nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva, a prescindere dalla
circostanza che la relativa normativa nazionale sia precedente o successiva
all’adozione della direttiva. Tale obbligo deve essere adempiuto mediante la scelta
di quel metodo interpretativo in vigore nel suo sistema giuridico che, rispetto agli
altri, gli consenta di dare alla disposizione di diritto nazionale un significato
compatibile con la direttiva. L’obbligo si arresta quando emerge un’incompatibilità
assoluta tra la norma sovranazionale e quella nazionale. Tale aspetto avrebbe
lasciato aperta la possibilità che in molteplici occasioni la violazione dei diritti
riconosciuti ai singoli dal diritto comunitario restasse senza conseguenza alcuna.
Ecco perché l’affermazione del 3° pilastro di questa teoria.
III. 3° PILASTRO - Responsabilità risarcitoria dello Stato membro: questo pilastro è stato
tratteggiato per la prima volta nell’ambito di una controversia lavoristica relativa
alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro. In
ogni caso, è fondamentale la sentenza Francovich, dalla quale emerge che per la
Corte sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e

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sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciute, se i singoli non avessero la
possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione
del diritto comunitario imputabile ad uno stato membro.
Negli ultimi 15 anni il primato del diritto dell’U.E. è stato via via precisato. Ad esempio,
alle direttive, in pendenza del termine per la loro trasposizione nell’ordinamento
nazionale, si deve riconoscere la c.d. efficacia impeditiva delle scelte dei legislatori
nazionali: la direttiva entra in vigore alla data da essa stabilita o, in mancanza di
indicazioni, nel 20° giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Tale
circostanza è stata valorizzata alla luce del principio di leale cooperazione tra U.E. e Stati
membri. Il termine della direttiva è diretto a dare agli Stati membri il tempo necessario
all’adozione dei provvedimenti di trasposizione e non si può contestare agli stessi
l’omessa trasposizione della direttiva nel loro ordinamento giuridico interno prima della
scadenza di tale termine. In particolare, in una controversia relativa all’interpretazione
della direttiva n°1999/70 (relativa ai rapporti di lavoro a tempo determinato), la Corte ha
fornito delle importanti indicazioni, chiarendo che, nel caso di tardiva attuazione di una
direttiva, l’obbligo generale che incombe sui giudici nazionali di interpretare il diritto
interno in modo conforme alla direttiva esiste solamente a partire dalla scadenza del
termine di attuazione di quest’ultima. In assolvimento dell’obbligo di interpretazione
conforme, in ogni caso, resta escluso che il giudice debba o possa trasformarsi in una sorta
di sostituto del legislatore. Nel caso Adeneler, in particolare, la Corte è tornata ad
esprimersi a riguardo ribadendo che l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento
al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e applicazione delle norme nazionali
trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del
diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad un’interpretazione
contra legem del diritto nazionale. Inoltre, l’efficacia diretta verticale delle direttive è stata
riconosciuta solo ai dipendenti dello Stato, per avvalersi dei diritti assicurati dal diritto
dell’U.E., e non ai lavoratori dipendenti privati. La Corte di Giustizia non ha ignorato
questo divario di tutela e, dal caso Marshall I in poi, ha osservato che una distinzione del
genere potrebbe essere evitata se lo Stato membro avesse correttamente trasposto la
direttiva. Quindi, possiamo sostenere che la giurisprudenza sull’efficacia diretta delle
direttive è stata indirizzata a sostenere il principio del primato del diritto europeo, in base
al quale la preminenza delle disposizioni di una direttiva sul diritto nazionale può essere
fatta valere anche quando le norme nazionali siano di rango costituzionale. Quanto al
terzo pilastro della teoria del primato, la sentenza nel caso Francovich ha cercato di
risolvere la questione sulle condizioni che si possono ritenere sufficienti per l’insorgere
della responsabilità risarcitoria dello Stato inadempiente alle prescrizioni del diritto
europeo. In questa sentenza le condizioni sono state riconosciute in questi elementi:
• il risultato prescritto dalla direttiva implica l’attribuzione di diritti a favore dei
singoli;
• il contenuto di tali diritti deve poter essere individuato nelle disposizioni della
direttiva;
• deve sussistere un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello
Stato e il danno subito dai soggetti lesi;
• la violazione deve essere sufficientemente grave e manifesta.

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Modalità di attuazione del diritto europeo negli ordinamenti nazionali: la trasposizione nel
diritto interno di una direttiva non richiede necessariamente che le sue disposizioni
vengano riprese in modo formale e testuale in una norma di legge espressa e specifica ma
può essere sufficientemente un contesto giuridico generale, purché esso garantisca
effettivamente la piena applicazione della direttiva in modo sufficientemente chiaro e
preciso. In concreto, però, la Corte ha ristretto tale possibilità, che non è disponibile in
paesi (come il nostro) privi di un sistema di contrattazione collettiva ad efficacia generale.
Inoltre, le raccomandazioni, pur essendo una fonte non vincolante, non per questo devono
ritenersi prive di qualsiasi valore giuridico, visto che devono essere valorizzate dal giudice
nazionale in funzione interpretativa del diritto europeo o nazionale. Infine, il contenzioso
di matrice ha permesso alla Corte di sviluppare la propria giurisprudenza in materia di
sanzioni per violazioni del diritto europeo, le quali sono fondate su principi generali, come
l’obbligo di cooperazione leale (art. 4.3. TFUE). Un’ipotesi sanzionatoria è prevista dall’art.
17 della direttiva n°78/2000, il quale stabilisce che sono gli Stati membri a prevederle,
purché prevedano un risarcimento danni e siano effettive, proporzionate e dissuasive.

Nell’intreccio tra diritto del lavoro e diritto dell’U.E. è importante l’interpretazione del
principio di sussidiarietà. Infatti, la Corte, in una causa tra Regno Unito e Consiglio del
1996 sugli orari di lavoro, ha sostenuto la tesi secondo cui il miglioramento del livello di
tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori presuppone necessariamente un’azione
di dimensioni europee. Ecco perché interviene il principio di sussidiarietà, che è inteso
come criterio regolatore dell’esercizio delle competenze fra U.E. e Stati membri, che
permette l’intervento delle istituzioni dell’U.E. tutte le volte in cui è necessario un
intervento di più ampio raggio per la risoluzione di una determinata problematica che il
singolo Stato membro non ha la capacità di risolvere.

In merito al rapporto tra le fonti, la Corte si muove a favore della tesi dell’interdipendenza
progressista delle norme internazionali ed europee” in materia di lavoro, secondo la quale
eventuali contrasti fra le prime e le seconde dovrebbero sempre potersi superare facendo
ricorso al “principio del trattamento più favorevole”, per cui uno standard normativo
europeo, più elevato di quello previsto dalla corrispondente convenzione Oil, potrebbe
senz’altro essere rispettato dagli Stati membri, senza timore di incorrere in una violazione
degli obblighi internazionali; e viceversa. La stessa posizione viene seguita dalla
giurisprudenza della Corte sui rapporti fra diritto europeo e diritti nazionali. Nel contesto
della pronuncia sugli orari di lavoro (prima menzionata) la Corte ha chiarito che la
nozione di “prescrizioni minime” accolta dal trattato non pregiudica l’intensità dell’azione
che il Consiglio può ritenere necessaria e implica il riconoscimento della possibilità per gli
Stati membri di adottare norme più rigorose. L’interpretazione della nozione di
“prescrizioni minime” è strettamente intrecciata con la questione del rispetto del principio
di proporzionalità da parte delle autorità europee.

Principio di “non regresso”: se il legislatore dell’U.E. gode di una discrezionalità che può
dispiegarsi con ampiezza, il legislatore nazionale gode della stessa possibilità? E’ vero che
le direttive comportano un’obbligazione di risultato, ferma restando la competenza degli

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organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Tuttavia, va tenuto conto che le normative
nazionali di trasposizione devono misurarsi nell’area del diritto del lavoro con le
implicazioni del principio di “non regresso”. Nel caso Mangold la Corte ha confermato la
propria giurisprudenza sul valore giuridicamente vincolante delle clausole di non
regresso, visto che il vincolo non riguarda solo l’iniziale trasposizione ma anche ogni
misura nazionale intesa a garantire che l’obiettivo europeo possa essere raggiunto.
Tuttavia, il vincolo discendente dalla clausola di non regresso non comporta un divieto
assoluto di modifiche peggiorative rispetto al livello di tutela acquisito al momento
dell’attuazione della direttiva: l’eventuale riforma in pejus deve essere fondata su motivi
di politica sociale diversi dall’obbligo di trasposizione, ovvero può ammettersi solo
quando non è in alcun modo collegata con l’esigenza di dare attuazione a quelle regole
nell’ordinamento interno.

Il rispetto dei diritti fondamentali costituisce un criterio di giudizio ai fini del sindacato
giurisdizionale sulla validità degli atti adottati dalle istituzioni dell’U.E. e si impone come
un limite alla discrezionalità dei legislatori nazionali. Infatti, in una questione di disparità
di trattamento la Corte ha affermato proprio che tra i diritti fondamentali figura il
principio di uguaglianza e non discriminazione, aggiungendo che gli stessi fanno parte
integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza.
Inoltre, quando viene accertata una discriminazione, incompatibile col diritto europeo, e
finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, l’osservanza
del principio di uguaglianza può essere garantita solo mediante la concessione alle
persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le
persone della categoria privilegiata. Quindi, spetta al legislatore nazionale disapplicare
qualsiasi disposizione nazionale discriminatoria. Ovviamente, non mancano ormai i
richiami alle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, utilizzate come
parametro di riferimento per verificare il rispetto dei diritti fondamentali. Addirittura, in
un caso di discriminazione retributiva, la Corte si è occupata non direttamente della sua
lesione ma della lesione di un suo presupposto, che è stato riconosciuto nella possibilità di
contrarre matrimonio. Anche se a lungo la Corte si è mostrata riluttante a tener conto della
CEDU, in quanto non costituisce uno strumento giuridico vincolante, ora essa rappresenta
ha sicuramente guadagnato importanza per via dei numerosi richiami nei considerando di
diverse direttive, tant’è vero che è poi stata istituita l’Agenzia dell’U.E. per i diritti
fondamentali, col compito di fornire assistenza e consulenza in materia a istituzioni,
organi, uffici e agenzie dell’U.E. e agli Stati Membri. Con il Trattato di Lisbona si fa un
passo avanti nel riconoscimento dei diritti fondamentali, tant’è vero che l’art. 6 dispone
che i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri, fanno parte del diritto dell’unione in quanto principi generali. L’U.E. vi aderisce ed ha lo
stesso valore giuridico dei trattati.

CAPITOLO 3 – Libera circolazione dei lavoratori


Le 4 libertà fondamentali dell’U.E., alla cui piena realizzazione mira l’art. 26 TFUE con la
realizzazione dell’attuazione del mercato interno, sono la liberazione circolazione delle

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merci, dei servizi, dei capitali e la libera circolazione dei lavoratori. Per questo motivo, le
persone vanno intese fondamentalmente come soggetti economici, ossia lavoratori
subordinati (titolari del diritto di libera circolazione) e lavoratori autonomi o persone
giuridiche (beneficiarie della libertà di stabilimento e del diritto di libera prestazione di
servizi). Questo principio ha trovato pieno riconoscimento nell’art. 48 del Trattato di Roma
(attuale art. 45 TFUE): esso implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla
nazionalità, fra i lavoratori degli Stati membri con riguardo all’accesso all’impiego e alle condizioni
di lavoro e comprende i diritti di ingresso nel territorio di ciascuno Stato membro al fine di
rispondere ad un’offerta di lavoro, di soggiorno in detto territorio, nonché di mantenervi la propria
residenza dopo aver occupato un impiego. Questo pilastro ha attraversato 3 fasi di progressiva
realizzazione:
1) La prima disciplina in materia di libera circolazione si ebbe con il Regolamento n
°15/1961, il quale ha sancito che ogni cittadino di un altro Stato membro è
autorizzato ad occupare un impiego sul territorio di un altro Stato membro, qualora
non ne sia disponibile nel mercato regolare del lavoro di quello stato. Per questo
motivo era necessario il rilascio di un permesso di lavoro.
2) Con la successiva approvazione del Regolamento n°38/1964, è stato esteso l’elenco
dei soggetti beneficiari di questo diritto e non parlò più di mercato nazionale ma di
mercato comunitario.
3) La completa realizzazione del principio si è avuto con il Regolamento n°1612/1968
e con la direttiva n°360/1968. Queste norme sono poi state sostituite da una
direttiva del 2004, che oggi è confluita nel Regolamento n°492/2011, il quale ha
sancito la diretta applicabilità di queste disposizioni, cercando di attribuire il
significato più aperto e favorevole all’affermazione di questo principio, che è esteso
anche a lavoratori precari e calciatori, nonché prostitute.

Le norme in materia di libera circolazione (artt. 45-48 TFUE) si riferiscono esclusivamente


al lavoro subordinato. La non riferibilità al lavoro autonomo emerge dall’interpretazione
sistematica del Trattato. Ma esiste una nozione europea di lavoro subordinato? La Corte di
Giustizia, in diverse sentenze a partire dal 1964, ha affermato che non dipende dal diritto
interno degli Stati membri ma dal diritto europeo e ha individuato 3 criteri:
1. svolgimento di una prestazione lavorativa;
2. in condizione di subordinazione;
3. dietro pagamento di una retribuzione.
Da precisare che le norme di tema di libera circolazione dei lavoratori si applicano anche
alla tipologia del lavoro atipico, come il part-time. In pratica, la Corte ha voluto
distinguere non tanto tra lavoratori subordinati e non quanto tra soggetti economicamente
attivi e non. Per l’applicabilità di queste norme non è essenziale che chi se ne avvale sia
qualificabile come lavoratore subordinato nel paese di provenienza, potendo trattarsi
anche di un disoccupato o di un lavoratore autonomo. L’elemento essenziale è che lo
spostamento da un Paese all’altro dell’Unione sia effettuato per accedere ad un’attività subordinata.
Ex art. 45 TFUE, il diritto di ingresso e di soggiorno in uno Stato membro sembrerebbero
subordinati alla titolarità di un posto di lavoro, visto che lì viene affermato il diritto di
rispondere ad offerte di lavoro effettive e di potersi spostare a tal fine. La Corte ha poi

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sostenuto la più ampia interpretazione di questo diritto, ammettendo il diritto del soggetto
a non essere allontanato dopo un certo periodo di tempo qualora provi di stare cercando
attivamente lavoro e che ha effettive possibilità di essere assunto. Tale diritto è
riconosciuto solo ai cittadini di uno degli Stati membri dell’U.E., la quale non ha
competenza in materia di cittadinanza. Inoltre, dobbiamo ricordare che un cittadino di uno
Stato membro, dipendente di un’impresa di altro Stato membro, non può essere sottoposto
allo svolgimento di una prestazione lavorativa che sia fatta oggetto di discriminazione. La
titolarità del diritto di libera circolazione spetta anche ai familiari di un lavoratore, purché
questi abbia previamente esercitato tale diritto. Quindi, sembrerebbe che il diritto di libera
circolazione dei familiari non sarebbe autonomo ma dipendente da quello del lavoratore
migrante. Tuttavia, la Corte di Giustizia ha nel tempo esteso l’applicabilità di questo
diritto anche al di fuori di questa precisazione. Ora, con la direttiva n°38/2004 i familiari
conservano il diritto di soggiorno su base personale in caso di decesso del cittadino
dell’U.E., di divorzio, annullamento del matrimonio o cessazione di un’unione registrata.

Il diritto di libera circolazione dei lavoratori è caratterizzato da 2 contenuti fondamentali:


➢ Parità di accesso all’impiego: consiste nella garanzia di pari trattamento in materia
di accesso ai posti di lavoro disponibili in ciascun Stato membro fra i lavoratori
nazionali e i lavoratori provenienti da altri paesi dell’U.E. L’art. 7 del Trattato (ora
art. 18 TFUE) afferma che è vietato ogni discriminazione effettuata in base alla
nazionalità. Per garantire la parità di trattamento è stata sancita l’inapplicabilità
delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di carattere
direttamente o indirettamente discriminatorio. Questa disposizione è accompagnata
da un elenco non tassativo di queste ipotesi, che sono quelle che limitano la
domanda e l’offerta di impiego, l’accesso e il suo esercizio o che hanno per scopo o
effetto esclusivo o principale di escludere i cittadini degli altri Stati membri
dall’impiego offerto. E’ prevista anche la nullità di diritto delle clausole
discriminatorie contenute in contratti collettivi o individuali. Per rendere effettiva la
libertà di circolazione dei lavoratori all’interno dell’U.E., l’art. 2 del Regolamento n
°492/2011 ha previsto un meccanismo di compensazione, atto a mettere in contatto
le offerte e le domande d’impiego fra i Paesi membri, fondato sulla collaborazione
fra l’Ufficio Europeo di Coordinamento e i servizi dell’impiego dei Paesi membri.
Questi meccanismi di compensazione, però, devono evitare di compromettere
gravemente il tenore di vita e il livello dell’occupazione delle diverse regioni e
industrie. La libera circolazione dei lavoratori può essere ostacolata dall’esigenza di
possedere determinati attestati di qualificazione professionale e dall’esigenza del
riconoscimento di titoli di studio da uno Stato membro all’altro. In questo caso,
l’autorità competente procederà alla valutazione ed emetterà una decisione
motivata, che è passibile di ricorso giurisdizionale. Se la competenza in materia di
libra circolazione dell’U.E. riguarda solo cittadini di uno Stato membro, ciò vuol
dire che con riferimento agli extracomunitari la competenza è statale. E’, quindi,
ravvisabile una lacuna solo parzialmente coperta dal principio della parità di
trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica
individuato dalla direttiva n°43/2000. Tuttavia, a partire dal Trattato di Amsterdam,

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si è sancito un maggior impegno in questo ambito come testimoniato dall’adozione


di diverse direttive, volte a garantire il medesimo trattamento a coloro che abbiano
ottenuto lo status di soggiornante di lungo periodo e volte a sanzionare i datori di
lavoro che sfruttano manodopera extracomunitaria in modo irregolare.
➢ Parità di trattamento in materia di condizioni di lavoro: questo principio si trova
sempre nel Regolamento n°492/2011, dove viene affermato che il lavoratore cittadino
di uno Stato membro non può ricevere sul territorio degli altri Stati membri, a motivo della
sua cittadinanza, un trattamento diverso da quello dei lavoratori nazionali, per quanto
concerne le condizioni d’impiego e di lavoro, che comprendono la retribuzione, le indennità,
il licenziamento, la reintegrazione professionale e il ricollocamento in caso di
disoccupazione. Tale trattamento può derivare da norme legali e anche da discipline
contrattuali, per cui è disposta la nullità di diritto di tutte le clausole di contratti
collettivi o individuali concernenti la retribuzione e le altre condizioni di lavoro e di
licenziamento, nella misura in cui prevedano o autorizzino condizioni
discriminatorie nei confronti dei lavoratori cittadini degli altri Stati membri. La
Corte di Giustizia ha il merito di aver puntualizzato il fatto che il principio di non
discriminazione ha una duplice valenza protettiva: nei confronti dei lavoratori
migranti nel mercato del lavoro del Paese di accoglienza e nei confronti dei
lavoratori cittadini di quel Paese, cui si deve garantire di non subire le conseguenze
sfavorevoli che potrebbero risultare dall’offerta o dall’accettazione da parte dei
cittadini degli altri Stati membri di condizioni di lavoro meno vantaggiose di quelle
contemplate dal proprio diritto nazionale. Al lavoratore migrante la tutela deve
essere riguardo alle discriminazioni dirette e indirette, di diritto e di fatto. Il
principio di parità non riguarda soltanto il piano del rapporto di lavoro ma anche la
sfera dei diritti collettivi. In questo ambito, il lavoratore migrante può essere escluso
dalla partecipazione alla gestione di organismi di diritto pubblico e dall’esercizio di
una funzione di diritto pubblico. Tra gli aspetti esterni al rapporto di lavoro su cui
incide questo principio possiamo ricordare la circostanza che il lavoratore migrante
fruisce allo stesso titolo e condizioni di quelli nazionali, dell’insegnamento delle
scuole professionali e dei centri di riadattamento o di rieducazione o l’alloggio.

Il lavoratore migrante gode degli stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali.
Sono stati considerati vantaggi sociali tutti quelli la cui estensione ai lavoratori cittadini di
altri Stati membri risulta atta a facilitare la loro mobilità nell’ambito dell’U.E., che connessi
o no ad un contratto di lavoro sono generalmente attribuiti ai lavoratori nazionali in
ragione del loro status. Sulla base di questo principio si è data la possibilità di convivere
more uxorio ai lavoratori di un cittadino di altro Stato membro se la medesima possibilità
è data dallo Stato membro dove lui lavora ai suoi cittadini. Quindi, possiamo ormai
affermare che lo Stato membro ospitante agevola l’ingresso e il soggiorno del partner con
cui il cittadino dell’U.E. abbia una relazione stabile debitamente attestata.

Oltre al diritto di soggiorno, ai familiari del lavoratore migrante è riconosciuto il diritto di


esercitare un’attività economica come lavoratori subordinati o autonomi, assicurando ai
suoi figli l’accesso ai corsi d’insegnamento generale, di apprendistato e di formazione

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professionale. La Corte, nel corso del tempo, ha esteso l’interpretazione di questa parte del
regolamento e ha fatto sì che i familiari fossero considerati beneficiari indiretti della parità
di trattamento riconosciuta al lavoratore migrante. Ciò trova una base normativa più forte,
rispetto al passato, nell’art. 24.1 della direttiva n°38/2004. Quindi, adesso, sono fortemente
riconosciuti il diritto del lavoratore di farsi raggiungere dalla famiglia e il diritto del figlio
del lavoratore di avere la possibilità di usufruire di sussidi scolastici e borse di studio.
L’esigenza del rispetto della vita familiare è sancito anche dall’art. 8 CEDU.

Come detto precedentemente, il principio di non discriminazione opera con riguardo sia
alle discriminazioni dirette sia a quelle indirette. Questa è la terminologia che attualmente
utilizza la giurisprudenza ma che, fondamentalmente, richiama quella passata che
distingueva tra discriminazioni dissimulate e discriminazioni palesi, per cui possiamo
sostenere l’idea secondo la quale si ha una summa divisione tra:
• discriminazioni dirette (o palesi): sono quelle disposizioni nazionali che in modo
chiaro ed evidente producono un risultato discriminatorio in capo ai destinatari;
• discriminazioni indirette (o dissimulate): sono quelle disposizioni nazionali che per
loro stessa natura tendono ad essere applicate più ai lavoratori migranti che a quelli
nazionali, determinando il rischio di essere sfavorevole in modo particolare ai
primi, senza che tale discriminazione possa essere obiettivamente giustificata e
adeguatamente commisurata allo scopo perseguito. Quindi, anche una condizione
di residenza potrebbe cessare di essere discriminatoria se sorretta da giustificazioni
oggettive, come potrebbe essere la tutela della sanità pubblica.
Il principio di non discriminazione, tuttavia, non può spingersi fino al punto da
legittimare forme di azioni positive nei confronti dei migranti europei ma, nonostante ciò,
la Corte di Giustizia si è espressa diverse volte su fenomeni di c.d. discriminazione alla
rovescia a danno dei cittadini del Paese dalla cui legislazione dipendeva l’applicazione
della misura contesta, come nel caso del rifiuto di un sussidio per adulti portatori di
handicap da parte delle autorità francese al figlio ivoriano adottivo di un lavoratore
francese che non aveva ai esercitato il diritto di libera circolazione. Ciò vuol dire che
situazioni del genere, tipiche di diritto interno, non possono essere colpite dal diritto
dell’U.E. La Corte di Giustizia è arrivata, poi, ad ammettere la rilevanza anche di ostacoli
non discriminatori, che consistono in normative che, benché applicate indipendentemente
dalla cittadinanza, comportino ostacoli alla libera circolazione dei lavoratori.

Carattere strumentale rispetto alla garanzia di non discriminazione nell’accesso


all’impiego rivestono anche i diritti d’ingresso e di soggiorno di cui è titolare il lavoratore
migrante. Si tratta di veri e propri diritti preliminari, tant’è vero che l’art. 45.3 TFUE
afferma che il principio della libera circolazione dei lavoratori implica il diritto di spostarsi
liberamente nel territorio degli Stati membri per rispondere ad offerte di lavoro, nonché di
prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un’attività di lavoro. La
disciplina di dettaglio è stata posta mediante diverse direttive, da ultimo inglobate nella
direttiva n°38/2004, la quale precisa il significato di libertà di spostamento all’interno della
Comunità, specificando che essa comporta l’obbligo degli Stati membri di riconoscere ai
propri cittadini, muniti di una carta d’identità o di passaporto validi, il diritto di lasciare il

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territorio nazionale per recarsi in un altro Stato membro, senza possibilità di richiedere
alcun visto d’uscita né alcuna formalità equivalente; e viceversa in entrata. Quindi, con
l’entrata in vigore della direttiva n°38/2004 possiamo schematizzare in questo modo:
➢ SOGGIORNO INFERIORE A 3 MESI: non sono sottoposti ad alcuna condizione o
formalità, salvo la necessità di possedere una carta di identità o di un passaporto
validi.
➢ SOGGIORNO SUPERIORE A 3 MESI: mentre in passato era prevista una carta di
soggiorno, oggi è necessaria solo l’iscrizione presso le autorità competenti. Tuttavia,
bisogna distinguere tra:
o Soggetti economicamente non attivi: il diritto di soggiorno nel territorio di un
altro Stato membro è riconosciuto nel rispetto di alcune condizioni. Infatti,
l’art. 7.3 direttiva n°38/2004 stabilisce che il cittadino dell’U.E. che abbia
cessato di essere un lavoratore subordinato o autonomo conserva tale qualità
quando:
▪ l’interessato è temporaneamente inabile al lavoro a seguito di una
malattia o di un infortunio;
▪ trovandosi in uno stato di disoccupazione involontaria debitamente
comprovata dopo aver esercitato un’attività, si è registrato presso
l’ufficio di collocamento;
▪ segua un corso di formazione professionale, a condizione che esista
un collegamento tra l’attività professionale precedentemente svolta e
il corso.
Poi con riferimento ai soggetti non attivi, come ad esempio gli studenti, il
diritto di soggiorno era riconosciuto, purché si fosse in possesso di
un’assicurazione malattia e di risorse sufficienti.
o Soggetti economicamente attivi: il diritto di soggiorno è attribuito in modo
incondizionato. Ai fini del rilascio dell’attestazione d’iscrizione, lo Stato
d’accoglienza può prescrivere solo l’esibizione della carta di identità o del
passaporto validi e una conferma d’assunzione del datore di lavoro o un
certificato di lavoro. Questo attestato ha solo valore dichiarativo e non
costitutivo del diritto di soggiorno, in quanto la Corte di Giustizia ha
sostenuto che il diritto di ingresso e di soggiorno derivino direttamente dal
Trattato.
Ne deriva che la semplice omissione delle formalità relative all’ingresso, al trasferimento e
al soggiorno non può giustificare un provvedimento di espulsione. Per quanto riguarda il
nesso con eventuali sanzioni, la Corte nel tempo ha affinato la materia, partendo dalla
posizione assunta nel caso Royer (dove si esclude l’espulsione ma poi parla genericamente
di sanzioni senza specificarne il tipo) a quella assunta in occasione di una domanda
pregiudiziale proposta dal pretore di Milano, riguardante la compatibilità al diritto
europeo di una norma del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (TULPS). In
quell’occasione la Corte affermò che le sanzioni non devono essere talmente
sproporzionate rispetto alla gravità dell’infrazione che si vuole risolvere. Quindi, la Corte
ha inserito un principio di proporzionalità delle sanzioni. La direttiva n°38/2004
riconosce il diritto di soggiorno anche ai familiari (coniuge, partner con unione registrata,

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discendenti a carico). A tutti i cittadini dell’U.E. è riconosciuto il diritto di soggiorno


permanente qualora essi abbiano soggiornato legalmente ed in via continuativa per 5 anni
nello Stato membro ospitante e può essere perduto solo a seguito di assenze dallo Stato
ospitante di durata superiore a 2 anni consecutivi.

L’art. 45 TFUE individua 2 limiti nel diritto di libera circolazione:


I. Motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità: questo primo limite, quindi, può
essere considerato bipartito e può essere analizzato separatamente:
a. “Sanità”: in passato, la limitazione del diritto di libera circolazione si aveva
in tutte quelle ipotesi indicate in un elenco allegato alla direttiva n°224/1964.
Oggi questa direttiva è stata abrogata, per cui le limitazioni a questo diritto
derivano solo da quelle malattie che abbiano un certo potenziale epidemico
secondo l’OMS, nonché le altre malattie infettive o parassitarie contagiose. I
provvedimenti, tuttavia, hanno efficacia solo se anche i cittadini dello Stato
ospitante ne siano destinatari.
b. “Ordine pubblico e sicurezza”: questo concetto può cambiare molto a
seconda delle circostanze storiche e dei contesti di riferimento. Ciò è stato
riconosciuto dalla Corte, la quale ha condiviso l’opportunità di lasciare alle
competenti autorità nazionali un certo potere discrezionale in materia di
individuazione della nozione di ordine pubblico. Tuttavia, non può essere
inteso in un senso talmente ampio da ricomprendere l’ordine pubblico
economico; anzi, l’interpretazione deve essere fatta in senso stretto. Inoltre,
vi è l’obbligo di adottare i provvedimenti in materia esclusivamente in
relazione al comportamento del destinatario, il quale deve consistere in una
minaccia effettiva ed abbastanza grave per uno degli interessi fondamentali
della collettività. In ogni caso, questi provvedimenti devono rispettare il
principio di proporzionalità: quanto più è forte l’integrazione tanto più
elevata dovrebbe essere la protezione contro l’allontanamento, per cui
bisogna tenere conto della durata del soggiorno, dell’età, delle condizioni di
salute e della situazione familiare ed economica.
Qualsiasi provvedimento restrittivo della libertà di circolazione deve essere
notificato per iscritto all’interessato con modalità tali da consentirgli di
comprenderne il contenuto e le conseguenze e devono esservi allegati le
motivazioni alla base del provvedimento. Coloro i quali sono stati colpiti da un
provvedimento restrittivo hanno l’onere d’impugnarlo in sede giurisdizionale o
amministrativa, ma anche di chiedere la provvisoria sospensione dell’esecuzione
del provvedimento di allontanamento, con la conseguenza che ad esso non si potrà
dare corso finché non intervenga non intervenga una decisione sull’istanza
dell’interessato. I mezzi di impugnazione devono consentire di esaminare sia il
merito sia la legittimità del provvedimento. Quindi, il provvedimento di espulsione
non potrà essere reso esecutivo fintantoché non sia stato posto in grado di proporre
ricorso e gli deve essere comunque garantita la possibilità di fruire di un equo
processo e di far valere il suo diritto di difesa.

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II. L’impiego nelle pubbliche amministrazioni: l’art. 45.4 TFUE afferma che le disposizioni
in tema di libera circolazione non sono applicabili agli impieghi nelle P.A. La norma
sembrerebbe legittimare una deroga della libertà di circolazione dei lavoratori. Allo
stato attuale un’interpretazione letterale della norma sembra ormai superata. Sul
punto è intervenuta la Corte di Giustizia, la quale, a fronte della dilatazione degli
interventi delle P.A., ha affermato che la portata della deroga avrebbe rischiato di
risultare ampliata a dismisura, per cui sostiene l’esigenza che la nozione di P.A.
debba essere interpretata ed applicata in modo uniforme nell’intera U.E.
Un’interpretazione funzionale non nega, infatti, che nell’impiego alle dipendenze di
enti pubblici possano esistere mansioni, le quali presuppongono, in chi le assolve,
l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato, nonché
la reciprocità di diritti e doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di
cittadinanza; ma è servita a ridimensionare il requisito della cittadinanza che è
richiesto solo quando si implica la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio
dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi
generali dello Stato. La Commissione indirizzò nel 1988 una comunicazione agli
Stati, nella quale si annunciava che, ai fini dell’applicazione della disciplina della
libera circolazione, essa avrebbe condotta un’azione sistemica in 4 settori: enti di
gestione di un servizio commerciale; servizi operativi nella sanità pubblica;
istruzione nelle scuole pubbliche; ricerca a fini civili presso istituti pubblici. Inoltre,
a prescindere dalla cittadinanza, possono essere posti limiti all’accesso all’impiego
in quelle mansioni della P.A. che richiedano il possesso di specifiche qualificazioni
professionali o la conoscenza di una determinata lingua. Una volta immesso, il
cittadino di altro Stato membro non deve essere discriminato in relazione alle
condizioni di lavoro.

La sicurezza sociale è stata intesa come un diritto funzionale a rendere possibile la libera
circolazione. La base giuridica è stata rinvenuta nell’art. 51 TCEE (ora art. 48 TFUE),
secondo il quale il Consiglio ha potuto adottare quei provvedimenti che garantissero, sia
per il sorgere sia per il calcolo, il cumulo di tutti i periodi presi in considerazione dalle
varie legislazioni nazionali. Tali insieme di norme sono state basate sul divieto di
discriminazione a causa della nazionalità o della residenza e sulla conservazione a favore
del lavoratore dei diritti acquistati in forza dei vari regimi previdenziali che gli sono stati
applicati. Questo insieme di norme e principi sono stati attuati mediante il Regolamento n
°1408/1971, il quale, tra l’altro, ha istituito un sistema di coordinamento tra i regimi
nazionali di previdenza. In pratica, viene utilizzata la tecnica del mutuo riconoscimento,
secondo la quale si produce la denazionalizzazione della legge regolatrice del rapporto
previdenziale, per cui ogni regime acquisisce fatti e circostanze maturate sotto una
legislazione diversa. Nel 2004 è stato adottato con regolamento un nuovo sistema di
coordinamento dei sistemi previdenziali e il regolamento del 1971 è stato definitivamente
abrogato con il Regolamento n°987/2009, che ha prodotto un ampliamento del suo ambito
di applicazione. Ecco alcuni dei principi fondamentali che bisogna attenzionare:

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1. Divieto di discriminazione diretta e indiretta: questo principio vale a tutte le situazioni


del rapporto previdenziale. La parità di trattamento è estesa anche al di fuori
dell’U.E.
2. Regola dell’unicità della legislazione applicabile e Divieto di cumulo dei periodi assicurativi
sincronici: comporta l’assoggettamento del lavoratore che trasferisca la propria
residenza o il luogo di lavoro ad una sola gestione previdenziale o regime di
sicurezza sociale. Quindi, in via generale, la legge applicabile è quella dello Stato in
cui il lavoratore esercita la propria attività (lex loci laboris). Tale principio non è
assoluto, perché ci sono delle eccezioni. Tuttavia, la Corte di Giustizia ha ritenuto
che possa trovare applicazione anche la legislazione del Paese di residenza, quando
questa comporti l’attribuzione di prestazioni non previste dalla lex loci laboris.
3. Principio di totalizzazione dei periodi assicurativi diacronici e di liquidazione pro-rata delle
prestazioni: è volto a garantire la conservazione delle aspettative e dei diritti
acquisiti dal singolo nell’ambito dei regimi previdenziali nazionali
successivamente applicati ai periodi lavorativi e contributivi intervenuti nella sua
carriera lavorativa. Esso si traduce nell’obbligo, per le istituzioni competenti di
ciascuno Stato membro, di prendere in considerazione i periodi maturati dal
lavoratore migrante in ogni altro Stato membro. Ne consegue che i diversi periodi
vengono cumulati nella misura necessaria, a condizione che non si sovrappongono,
a raggiungere il diritto alle prestazioni. Al termine di questa totalizzazione, il
lavoratore non riceve l’intera prestazione, come se avesse maturato i requisiti tutti
all’interno di uno Stato membro, ma ne riceve solo una parte , in proporzione al
periodo effettivamente trascorso in detto Stato: in ciò consiste la proratizzazione.
4. Principio della trasferibilità o esportabilità delle prestazioni: è da intendersi come revoca
o soppressione delle clausole di residenza, escludendo che il godimento delle
prestazioni ivi elencate possa essere ridotto, sospeso o revocato per il fatto che il
beneficiario abbia la propria residenza o la trasferisca in uno Stato membro diverso
da quello in cui ha lavorato. Una deroga può essere prevista quando la prestazione
assume le forme di prestazione assistenziale, che sono strettamente legate al
contesto socio-economico locale.
5. Divieto di cumulo delle prestazioni omogenee nello stesso periodo assicurativo: vuole
impedire che a causa delle differenti discipline nazionali un lavoratore migrante
possa conseguire un cumulo ingiustificato di prestazioni.
Se, inizialmente, il regolamento si applicava solo ai lavoratori subordinati, nel 1981 si è
avuta l’estensione anche a ogni cittadino e agli apolidi e ai rifugiati, nonché ai loro
familiari. Con il Regolamento n°883/2004 continua il processo di universalizzazione delle
norme di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, che ha riguardato i dipendenti
pubblici nel 1998 e gli studenti nel 1999. Tale regolamento si occupa dell’individuazione
della legislazione applicabile, nonché disposizioni riguardanti le varie categorie di
prestazioni (malattia, maternità, infortunio sul lavoro, assegni familiari per disoccupati,
prestazioni assistenziali a terzi per atti di vita quotidiana, etc.). Rimangono escluse le
prestazioni in genere e quelle in favore delle vittime di guerra, che sono oggetto di
legislazioni specifiche.

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Il problema della libertà di circolazione è sempre più pregnante, tenendo conto anche del
fatto che si verificano sempre più spesso fenomeni di distacco temporaneo di lavoratori in
uno Stato membro, da parte di imprese con sede in altro Stato membro. L’attenzione, però,
non deve essere posta solo sulla garanzia dello sviluppo del mercato europeo del lavoro
ma anche, e soprattutto, sulla necessità di evitare il realizzarsi di fenomeni di dumping
sociale. Quindi, alla mobilità all’interno dell’impiego si è cercato di dare risposta con la
direttiva n°71/1996. La giurisprudenza iniziale della Corte di Giustizia ha sostenuto che il
diritto dell’U.E. non osta a che gli Stati membri estendano l’applicazione delle loro leggi o
dei contratti collettivi di lavoro a chiunque svolga un lavoro subordinato, ancorché
temporaneo, nel loro territorio, indipendentemente dal Paese in cui è stabilito il datore di
lavoro. Successivamente la direttiva n°71/1996 si prefigge di affrontare un problema che è
originato dalla diversità dei sistemi di diritto internazionale privato degli Stati membri con
riguardo alle regole cui fare riferimento in caso di conflitto di differenti leggi nazionali. E’
per questo motivo che è stato varato il Regolamento n°593/2008, il quale stabilisce il
principio generale secondo il quale il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti; tale
scelta deve essere espressa o risultare in modo ragionevole. Questo regolamento, inoltre,
prevede che in assenza di scelta delle parti, il contratto di lavoro è regolato:
➢ dalla legge del Paese nel quale il lavoratore compie abitualmente il suo lavoro;
➢ dalla legge del Paese dove si trova la sede dell’impresa che ha assunto il lavoratore,
qualora questi non compia abitualmente il suo lavoro in uno stesso Paese;
➢ a meno che non risulti dall’insieme delle circostanze che il contratto di lavoro
presenta un collegamento più stretto con un altro Paese: in tal caso si applicherà la
legge di quest’altro Paese.
La scelta della legge applicabile non può determinare la rinuncia alle norme imperative
che si applicherebbero in mancanza di scelta. La direttiva, a differenza del regolamento, è
limitata all’inquadramento giuridico della situazione dei lavoratori temporaneamente
distaccati in un altro Stato membro e intende assolvere ad una funzione integratrice:
potremmo dire che la direttiva non ha lo scopo di armonizzare il contenuto materiale delle regole
applicabili nei diversi Paesi, ma di elaborare criteri per l’identificazione di tali regole, per cui si
presenta non come uno strumento di diritto del lavoro ma di diritto internazionale privato. La
direttiva si rivolge alle imprese stabilite in uno Stato membro che distacchino lavoratori
nel territorio di un altro Stato membro ed individua 3 situazioni tipiche:
1. appalto o subappalto transnazionale;
2. mobilità interaziendale o infragruppo;
3. lavoro interinale transfrontaliero.
Quindi, in accordo alla direttiva, gli Stati membri devono provvedere a che le imprese che
distaccano i lavoratori nel loro territorio garantiscano determinate condizioni di lavoro.
Queste condizioni devono essere stabilite da norme di legge regolamentari o
amministrative o da contratti collettivi con efficacia erga omnes e quelle da rispettare sono
quelle atte ad apprestare un nucleo di protezione sociale minima al lavoratore distaccato e
riguardano aspetti del rapporto di lavoro come i periodi massimi e minimi di riposo, la
durata minima delle ferie annuali o le tariffe salariali minime. Resta comunque consentito
agli Stati membri di imporre alle imprese nazionali ed estere in pari misura condizioni di
lavoro e di occupazione riguardanti materie diverse laddove si tratti di disposizioni di

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ordine pubblico. In pratica, questa direttiva cerca di governare nella globalizzazione i processi di
integrazione regionale dei mercati senza trascurarne le ricadute di carattere sociale.

Un altro elemento importante è l’analisi della direttiva n°123/2006, riguardante i servizi


del mercato interno. Essa è stata sottoposta ad un ampio dibattito, soprattutto nella sua
versione originaria, chiamata Bolkestein che era il nome del suo ispiratore. Infatti, si
pensava che essa potesse scatenare pratiche di dumping sociale, scatenando effetti di
destabilizzazione dei mercati del lavoro: in pratica, si pensava che, se si applicasse la
regola del Paese di origine, si permetterebbe sostanzialmente alle imprese di operare in un
qualsiasi Stato membro ma di sfruttare la legislazione di altro Stato membro col solo
mantenimento della sede legale in quello Stato. In realtà, non è così, in quanto questa
direttiva cerca di evitare eventuali contrasti con altre normative europee in materia di
accesso ad un’attività di servizi, stabilendo che in caso di sovrapposizioni prevarranno le
disposizioni di questi altri atti europei, tra cui vi rientra anche la direttiva n°71/1996
(intesa come lex specialis).

Nei rapporti tra queste 2 direttive rimanevano comunque degli interrogativi, cui ha
cercato di dare una risposta la Corte di Giustizia attraverso 2 importanti sentenze: quella
del caso Laval e quella del caso Viking. Qui la Corte ha escluso che la circostanza che
l’U.E. non abbia competenza a disciplinare lo sciopero valga ad escluderlo dalla sfera
operativa delle regole del Trattato, che garantiscono le libertà economiche fondamentali.
Ecco perché è possibile esperire un’azione collettiva, in quanto tale diritto è riconosciuto
conforme al diritto europeo sul fondamento che esso rientra nella libertà di prestazione di
servizi. In definitiva, possiamo affermare che in entrambi i casi l’assunto di fondo è che i diritti
sociali fondamentali devono sempre ritenersi passibili di un’operazione di bilanciamento con le
libertà economiche fondamentali garantite dal Trattato, per cui il loro esercizio deve essere
conciliato con le esigenze relative ai diritti tutelati dal Trattato stesso, oltre che essere conforme al
principio di proporzionalità. Ciò produce una conferma al più alto gradino delle libertà
economiche e un ridimensionamento del principio di autodeterminazione. Altra
pronuncia fondamentale è quella nel caso Ruffert, in cui la Corte si è confrontata con il
criterio del trattamento più favorevole. L’aspetto cruciale sta nell’affermazione che una
tariffa salariale determinata dalla legge per il tramite del rinvio ad un contratto collettivo
non solo risponde alla nozione di tariffa minima accolta dalla direttiva, ma soprattutto non
può essere considerata una condizione di lavoro e di occupazione più favorevole, perché,
ai sensi della direttiva, possono esserlo soltanto quelle in vigore nel Paese di origine o
quelle cui eventualmente l’impresa (che ha distaccato i lavoratori) si sia sottoposta
stipulando volontariamente nello Stato membro ospitante un contratto collettivo di lavoro
più favorevole. Inoltre, resta escluso che lo Stato ospitante possa subordinare
l’effettuazione di una prestazione di servizi sul suo territorio al rispetto di condizioni di
lavoro e di occupazione che vadano al di là delle norme imperative di protezione minima,
per cui finisce che livelli minimi e standard massimi di tutela coincidono nella maggior
parte dei casi, visto che, tra l’altro, la Corte ha sostenuto che non sia possibile ammettere
ciò culla base dell’applicazione di norme di ordine pubblico.

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CAPITOLO 4 – Promozione dell’impiego e formazione professionale


Tra gli impegni assunti dagli Stati membri c’è anche quello di garantire un alto livello di
occupazione. Nonostante ciò non è stata presa in considerazione dal Trattato di Roma,
visto che le scelte fondamentali connesse a tale politica restavano essenzialmente di
competenza degli Stati membri. Quindi, l’inserimento del Titolo dedicato all’occupazione
nel Trattato di Amsterdam è stato considerato un’innovazione di grande importanza.
Tuttavia, la c.d. Strategia Europea dell’Occupazione (SEO) non nasce ad Amsterdam:
infatti, il relativo Titolo VIII del Trattato s’ispira al metodo di Essen del 1994, dal nome della
località dove si cominciarono a definire linee di azione comuni a breve e a medio termine
in materia di occupazione. Il contesto in cui le scelte del Trattato di Amsterdam sono
maturate è quello della pesante crisi occupazionale degli anni ’90. E’ comunque alle
disposizioni dell’attuale Titolo IX del TFUE che bisogna guardare per avere idee più chiare
sulle modalità attraverso le quali gli Stati membri e l’U.E. si sono impegnati per sviluppare
una strategia coordinata a favore dell’occupazione. L’effetto più rilevante delle innovazioni di
Amsterdam va individuata nel fatto che l’U.E. risulta legittimata a sviluppare a dispiegare la
propria influenza in relazione alle politiche dell’occupazione e del mercato del lavoro, sino ad allora
di competenza esclusiva dei singoli Stati membri, fermo restando le loro competenze, che devono
essere rispettate dall’U.E. nella sua attività di coordinamento. Ex art. 148 TFUE, il Consiglio
europeo è chiamato ogni anno ad esaminare la situazione dell’occupazione nell’U.E. sulla
base di un rapporto congiunto della Commissione e del Consiglio. Quest’ultimo elabora i
propri orientamenti in materia di occupazione, di cui devono tener conto gli Stati membri
nelle rispettive politiche. Gli Stati membri, a loro volta, sono tenuti a trasmettere alla
Commissione ed al Consiglio una relazione annuale, contenente indicazioni sulle misure
di politica dell’occupazione assunte in forza degli orientamenti comunitari. Tali relazioni
sono oggetto d’esame, che può concludersi nell’adozione da parte del Consiglio di
raccomandazioni agli Stati membri, le cui politiche non siano in linea con i parametri
fissati negli orientamenti comunitari.

La Strategia Europea per l’Occupazione (SEO) viene indicata col nome di processo di
Lussemburgo e attraversa 2 fasi fondamentali:
• 1a FASE - Dal 1998 al 2002: gli orientamenti in materia di occupazione adottati dal
1998 si dividono in 4 pilastri, articolati in una ventina di linee-guida, i quali sono:
1. “Occupabilità”: nelle linee guida si trova marcata la crucialità delle misure di
politica attiva del lavoro, con un’enfasi particolare sulla formazione iniziale e
continua, ritenuta fondamentale per accrescere le opportunità di
occupazione. In particolare, si prevede che i giovani e gli adulti debbano
usufruire di misure di inserimento nel mercato del lavoro prima che siano
trascorsi rispettivamente 6 e 12 mesi di disoccupazione e, in generale, il
raggiungimento almeno del 20% dei disoccupati con queste misure attive.
2. “Imprenditorialità”: si punta alla diffusione del lavoro autonomo, perché
questo può dare impulso alla crescita di opportunità occupazionali.
3. “Adattabilità di imprese e lavoratori”: è il pilastro più controverso, perché le
sue indicazioni possono essere intese nell’esigenza di rendere produttive e

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competitive le imprese o nell’esigenza di raggiungere l’equilibrio tra


flessibilità e sicurezza e di migliorare la qualità del lavoro.
4. “Pari opportunità”: propone agli Stati membri l’obiettivo di rafforzare le
politiche volte all’incremento dell’occupazione femminile ed a combattere le
discriminazioni, anche attraverso l’adozione di misure in grado di favorire
un equilibrato rapporto tra lavoro e vita familiare.
Nel primi 5 anni di attuazione del SEO si è avuta una sostanziale stabilità, con un
certo sforzo di ampliamento e affinamento: si possono ricordare, in particolare,
l’attenzione sull’esigenza di sviluppare politiche di invecchiamento attivo volte ad
aumentare la capacità dei lavoratori più anziani di esercitare il più a lungo possibile
un’attività lavorativa e ad accrescere gli incentivi o sulla necessità di migliorare
l’efficienza dei servizi di collocamento o la lotta al lavoro sommerso.
• 2a FASE – Dal 2003 ad oggi: con la scelta del Consiglio europeo di Barcellona del 2002
di procedere alla razionalizzazione dei processi di coordinamento delle politiche,
pilastri e linee-guide sono scomparsi e si è preferito fissare 10 priorità d’azione, con
un’ulteriore riforma della SEO nel 2005 dell’ambito degli indirizzi di massima per le
politiche economiche. Nella fase più recente si può cogliere anche qualche
mutamento di contenuto: si continua ad insistere sulle politiche attive del mercato
del lavoro e della formazione e si punta sulla riforma dei mercati di lavoro,
basandola sulla coniugazione tra flessibilità e sicurezza, la c.d. flexicurity.
Il coordinamento delle politiche degli Stati membri in materia di occupazione si ispira
all’esperienza della sorveglianza multilaterale sulle politiche economiche nazionali. Il
Trattato, premesso che gli Stati membri considerano le loro politiche economiche una
questione di interesse comune, prevede che il Consiglio elabori un progetto di indirizzi di
massima e successivamente lo adotti attraverso una raccomandazione, che è un atto non
vincolante. L’adeguamento a tali indirizzi di massima ha costituito lo strumento per
verificare il rispetto dei parametri di convergenza e consente di monitorare l’osservanza
degli obblighi del c.d. Patto di stabilità. Il mancato adeguamento, tuttavia, produce un
effetto sanzionatorio indiretto di carattere politico-morale: ecco perché gli orientamenti in
materia di occupazione sono stati considerati una tipica manifestazione di “soft law”, che
costituisce l’insieme di quelle norme che, essendo solo d’indirizzo, sono suscettibili di
applicazione differenziata. Il Metodo Aperto di Coordinamento (MAC) ne rappresenta
l’esito più significativo di questo ricorso a tecniche normative di soft law. Al riguardo si è
innescata un’ampia discussione, che divide tra favorevoli e contrari:
A. Favorevoli: il favore al soft law muove dalla circostanza che strumenti come gli
orientamenti sembrano i più indicati quando si intendono perseguire obiettivi non
direttamente regolativi ma di coordinamento delle politiche degli Stati membri,
nonché dalla prospettazione che gli effetti di convergenza sarebbero risultati
maggiori del previsto. In effetti, molte indicazioni della SEO possono riconoscersi
nelle riforme del mercato del lavoro varate dalla gran parte degli Stati membri, per
cui non si può dimostrare con certezza che senza la SEO quelle riforme non
sarebbero state attuate.
B. Contrari: si basano sull’eccessivo sbilanciamento degli orientamenti in favore di
politiche centrate sul miglioramento delle caratteristiche della forza lavoro, che si è

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prodotto con la SEO. Infatti, hanno giustamente rilevato che politiche del genere
riflettono i caratteri della disoccupazione in quei paesi dell’U.E., come la Gran
Bretagna, che da lungo tempo le hanno sperimentate; mentre sono giudicate
parziali ed insufficienti nei contesti nazionali segnati da forti squilibri regionali di
sviluppo economico, come l’Italia o la Spagna, dove sarebbe più opportuno
intervenire sul versante della domanda e delle risorse per sostenerla, come è poi
avvenuto in parte con il Consiglio europeo di Lisbona del 2000.
Da quel Consiglio si è cominciato a parlare di “Strategia di Lisbona”, la quale si è
concentrata su 2 obiettivi principali:
1. tasso medio di occupazione del 70% entro il 2010;
2. investimenti in ricerca e sviluppo in misura pari al 3% del PIL.
Tuttavia, questi obiettivi devono sempre mantenersi coerenti con gli indirizzi di massima
per le politiche economiche e non contraddire il Patto di stabilità. Queste politiche sono
mantenute ma, di certo, la SEO e la flexicurity stanno mostrando notevoli limiti di
insufficienza, soprattutto a partire dalla crisi economico-finanziaria ed occupazionale,
scoppiata nel 2008 e tutt’ora in corso.

Le politiche sociali annunciate dall’Agenda di Lisbona non hanno prodotto i risultati


sperati. E’ per questo motivo che la gravità della situazione occupazionale si trova al
centro della c.d. Strategia Europa 2020, la quale è rafforzata anche dall’art. 5.3 TFUE, il
quale dispone che l’U.E. adotta misure per assicurare il coordinamento delle politiche
occupazionali, definendone gli orientamenti. La debolezza degli strumenti predisposti con
la Strategia Europa 2020 non fanno presagire importanti cambiamenti rispetto al passato,
soprattutto tenendo conto delle continue politiche della BCE volte al rigore finanziario. In
ogni caso, punti centrali della Strategia Europa 2020 sono la flexicurity e la consapevolezza
che le politiche regionali devono utilizzare pienamente le risorse (150 miliardi di euro)
destinate alla politica di coesione e crescita sostenibile. In particolare, la flexicurity è stata
ritenuta, da un parte, come un’indebita concessione rispetto all’agenda di sola flexibility e,
dall’altra, come un’agenda celata di deregolamentazione per la flessibilità del mercato del
lavoro che solo sulla carta salvaguarda le tutele dei lavoratori. Nonostante le notevoli
criticità, l’orientamento verso la flexicurity continua ad essere appoggiato con investimenti
propositivi da parte della Commissione, che ha cercato di adattare i vari aspetti col
consenso delle parti sociali e dei governi.

Il processo di Lussemburgo non prevede impegni finanziari adeguati a sostenere una


politica macroeconomica, su scala europea, di rilancio dell’occupazione. Le stesse misure
dei singoli Stati membri non sono più totalmente discrezionali, dovendo attenersi ai
vincoli di bilancio imposti dal Patto di stabilità. Un vincolo ulteriore è rappresentato
dall’esigenza di rispettare anche le regole del diritto della concorrenza. L’interferenza più
significativa fra diritto della concorrenza e politiche nazionali dell’occupazione si ha con
riguardo all’art. 107 TFU, ai sensi del quale le svariate misure di sostegno alle imprese
sono sottoponibili al controllo europeo, esercitato dalla Commissione, in quanto
potenzialmente suscettibili di costituire un aiuto di Stato illegittimo. I contrasti fra
Commissione e Stati membri vedono numerosi episodi, tra cui rientra anche l’Italia: un

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esempio emblematico è la risalente questione, ormai risolta, della compatibilità europea


del regime di sgravi e fiscalizzazione degli oneri sociali per le imprese meridionali. Il
controllo sulle politiche nazionali dell’occupazione è stato considerato un esempio di politica
dell’integrazione negativa, che allude a quelle misure che operano limitandosi all’abolizione di
tutti gli ostacoli che si pongono allo sviluppo di un mercato transazionale, creando barriere al
commercio o restrizioni alla concorrenza. La contraddizione non è attenuata dalla Corte di
Giustizia, che specifica, anzi, come la Commissione disponga di un ampio potere
discrezionale. Il tutto è alimentato anche da nozioni molto discutibili come quella di aiuti
di Stato, che solo dopo molto tempo la Corte ha affermato che vi rientrino solo i vantaggi
concessi direttamente o indirettamente mediante risorse statali e non quelli provenienti da
benefici di carattere puramente normativo. Ora, però, l’attività di controllo della
Commissione sugli aiuti di Stato è consolidata in un regolamento del 2002. Questo
regolamento è stato oggetto di un’impugnazione dinnanzi alla Corte di Giustizia, perché
avrebbe violato il principio di coerenza delle azioni comunitarie. Tuttavia, la Corte ha
mantenuto fermo tale regolamento, con la precisazione che il potere della Commissione in
materia di aiuti di Stato resta intatto anche quando la Commissione tende a voler garantire
che la concorrenza non sia falsata. Un successivo regolamento del 2008 ha modificato i
criteri che individuano l’area dello svantaggio e ha ristretto il numero delle categorie di
persone riconducibili a tale area rispetto al regolamento del 2002, con in evidenza
l’esclusione dei giovani, dei lavoratori migranti, degli inattivi, dei soggetti con dipendenze
e i detenuti.

Dall’originario Trattato di Roma l’U.E. ha sempre svolto una propria politica


dell’occupazione, basata su un principio (libera circolazione dei lavoratori) e su uno
strumento (Fondo sociale europeo, FSE). L’istituzione di un FSE si basa sulle norme
contenute nel Titolo XI TFUE. La vecchia norma prevedeva la creazione di un fondo con
specifiche finalità di politica dell’impiego, assegnando il compito di promuovere
all’interno della Comunità le possibilità di occupazione e la mobilità geografica e
professionale dei lavoratori. L’attuale art. 162 TFUE ha confermato l’obiettivo originario,
inserendo l’adeguamento dei lavoratori alle trasformazioni industriali e ai cambiamenti
dei sistemi di produzione e sottolineando il ruolo privilegiato della formazione e
riconversione professionale per il raggiungimento delle finalità del FSE. Le modalità di
funzionamento del FSE sono state più volte sottoposte a revisione. Tra queste revisioni
dobbiamo ricordare la riforma del 1988, conseguente alle disposizioni dell’Atto Unico
Europeo in materia di coesione economica e sociale: con esso fu fissato l’obiettivo del
rafforzamento della coesione economica e sociale della Comunità, da conseguirsi
attraverso diversi obiettivi:
▪ la riduzione del divario nei livelli di sviluppo fra le diverse regioni;
▪ la promozione dell’adeguamento strutturale delle regioni in ritardo di sviluppo;
▪ la riconversione delle regioni industriali in declino.
Per la realizzazione di tali obiettivi, quello che è l’attuale art. 177 TFUE ha previsto una
riorganizzazione dei fondi a finalità strutturale, per cui oggi il FSE non è in funzione come
strumento autonomo di intervento ma continua ad operare in combinazione con gli altri

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fondi strutturali. Quindi, il nuovo FSE, attraverso un regolamento del 1999, individua 3
obiettivi essenziali:
A. Obiettivo “Convergenza”: è il più importante, in quanto si propone di accelerare la
convergenza degli Stati membri e delle regioni in ritardo di sviluppo, migliorando
le condizioni per la crescita e l’occupazione tramite l’incremento e il miglioramento
della qualità degli investimenti in capitale fisico e umano.
B. Obiettivo “Competitività regionale e occupazione”: punta a rafforzare la competitività
delle regioni e l’occupazione, anticipando i cambiamenti economici e sociali.
C. Obiettivo “Cooperazione territoriale europea”: è inteso a rafforzare la cooperazione
transfrontaliera mediante iniziative congiunte locali e regionali.
I fondi europei contribuiscono al conseguimento dei 3 obiettivi indicati. Il FSE è coinvolto
nella realizzazione degli obiettivi Convergenza e Competitività e occupazione. Per questo
fondo si sono impiegati all’incirca 308 miliardi di euro e si tratta di somme che hanno un
carattere complementare dell’azione europea rispetto a quelle nazionali. La cooperazione
deve risultare operante con riguardo alla preparazione, all’attuazione, alla sorveglianza e
alla valutazione degli interventi. Il Regolamento n°1083/2006 ha previsto che il Consiglio
stabilisca orientamenti strategici per la coesione economica, sociale e territoriale definendo
un contesto indicativo per l’intervento dei Fondi. La tipologia degli interventi del Fondo è
identificata dall’art. 3 Regolamento n°1083/2006, con riguardo ad alcune aree prioritarie:
➢ accrescere l’adattabilità di lavoratori ed imprese, sviluppando l’apprendimento
permanente e la progettazione e diffusione di forme di organizzazione del lavoro
innovativo e più produttive;
➢ migliorare l’accesso all’occupazione e l’inserimento sostenibile nel mercato del
lavoro per le persone in cerca di lavoro e per quelle inattive, al fine di prevenire
anche la disoccupazione, soprattutto quella di lunga durata;
➢ potenziare l’inclusione sociale delle persone svantaggiate e combattere ogni forma
di discriminazione nel mercato del lavoro;
➢ potenziare il capitale umano, promuovendo l’elaborazione e l’introduzione di
riforme dei sistemi di istruzione e di formazione al fine di sviluppare l’occupabilità.
Quindi, possiamo sempre affermare che il FSE continua ad essere guardato come uno
strumento di politica dell’impiego e anche come strumento di politica di sviluppo regionale, che
abbraccia l’intero arco delle politiche del lavoro e dello sviluppo delle risorse umane.

L’urgenza di fronteggiare la crisi produttiva indotte dai fenomeni di globalizzazione ha


motivato l’iniziativa dell’U.E. di istituire nel 2006 il Fondo Europeo di adeguamento alla
Globalizzazione (FEG). L’intento è stato quello di creare una linea di finanziamento delle
politiche attive a sostegno dei lavoratori risultanti in esubero a causa della concorrenza
proveniente dai Paesi emergenti. L’aggravarsi della crisi economica ha necessitato delle
modifiche, che oggi ci permetto di affermare come il FEG sia impiegato anche per
sostenere i lavoratori in esubero come conseguenza diretta della crisi, riducendo il numero
necessario da 1000 a 500. Dopo le sue prime applicazioni, si è data una valutazione che nel
complesso è positiva ma che, di certo, non nasconde alcune criticità come quella di essere
stato applicato solo per circa 50.000 lavoratori a fronte di circa 570.000 lavoratori in
esubero o quella di riuscire a dare vantaggi solo di breve periodo.

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L’originario Trattato di Roma si occupava di formazione professionale in 2 disposizioni:


➢ Art. 118: disponeva che la Commissione ha il compito di stimolare la stretta
collaborazione fra gli Stati membri.
➢ Art. 128: disponeva che il Consiglio fissasse, su proposta della Commissione, i
principi generali per l’attuazione di una politica comune di formazione
professionale, volta a contribuire allo sviluppo armonioso sia delle economie
nazionali sia del mercato comune. In pratica, la norma delineava un obiettivo ma
non precisava quale fosse lo strumento e se le politiche comuni fosse vincolanti o
meno nei confronti degli Stati membri.
Si diede attuazione all’art. 128 attraverso la decisione del Consiglio n°266/1963, la quale
stabiliva che la formazione professionale fosse un diritto fondamentale di ogni persona,
garantendole la possibilità di scegliere liberamente la propria professione, l’istituto ed il
luogo di formazione, nonché il luogo di lavoro. A tal fine ha elaborato 10 principi, i quali si
preoccupano di definire la nozione di politica di formazione professionale e gli obiettivi
della stessa. Per politica comune deve intendersi una coerente e progressiva azione comune
che implichi, da ciascuno Stato membro, la definizione di programmi in linea con i
principi generali e con le future disposizioni di applicazione degli stessi. Tra i principi
rientrano anche quelli che mirano a rendere effettivo per tutti il diritto a ricevere
un’adeguata formazione professionale. Inoltre, la Commissione ha il potere di proporre al
Consiglio e agli Stati membri l’assunzione dei provvedimenti appropriati e c’è la
possibilità di finanziare a livello comunitario azioni intraprese per conseguire i fini della
politica comune di formazione professionale. Con il Regolamento n°337/1975 venne
istituito il Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale. Con l’adozione
di una risoluzione del Consiglio nel 1983 si attua un aggiornamento dei contenuti della
decisione del 1963, avviando un programma sulle politiche di formazione professionale.
Da allora questi programmi si sono moltiplicati, anche a seguito dell’approvazione
dell’Atto Unico Europeo. Tra questi programmi possiamo ricordare il programma
ERASMUS, che riguarda la mobilità degli studenti universitari. Tutti questi programmi si
fondano su un finanziamento assicurato dall’U.E. Dai primi anni ‘90 si ha un consenso
sempre maggiore nei confronti dei problemi legati alla formazione professionale, come
dimostrato da numerose iniziative europee e da esperienze di contrattazione collettiva
transnazionale. Nella Carta dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989 si fa
riferimento alla formazione professionale sia nel quadro delle misure prefigurate a tutela
dei giovani lavoratori e dei portatori di handicap sia nell’affermazione del diritto di ogni
lavoratore di accedere alla formazione professionale e beneficiarne nell’arco della vita
attiva senza discriminazioni basate sulla nazionalità. Una disposizione di segno analogo si
trova ora nella CEDU. Con l’art. 146 del Trattato di Maastricht (ora art. 162 TFUE) è stato
attribuito al FSE anche l’obiettivo di facilitare l’adeguamento dei lavoratori alle
trasformazioni industriali. L’U.E. può attuare una politica di formazione professionale con
una competenza concorrente a quella degli Stati membri e, quindi, nel pieno rispetto della
responsabilità di questi ultimi per quanto riguarda il contenuto e l’organizzazione della
formazione professionale. Inoltre, il Consiglio ha il potere di adottare le misure necessarie
alla realizzazione degli obiettivi di politica europea, tra cui quello più innovativo è

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rappresentato dal voler ottenere una partecipazione alla scuola pre-elementare per almeno
il 95% dei bambini tra i 4-5 anni.

L’apporto della Corte può essere apprezzato sotto 2 diversi profili:


a) rispetto alla determinazione della portata delle competenze comunitarie in materia;
b) rispetto alla definizione del concetto di formazione professionale.
La Corte è stata chiamata ad esprimere la sua opinione in relazione alle decisioni del
Consiglio con cui sono stati adottati i programmi Erasmus e Petra. La decisione del
Consiglio n°327/1987, con la quale si diede avvio al programma Erasmus, risultava
fondata sugli artt. 128 e 235 del Trattato (ora art. 352 TFUE). Secondo la Commissione, che
aveva presentato un ricorso per l’annullamento della decisione, l’assunzione dell’art. 235
come base giuridica sarebbe stata impropria, giacché provvedimenti operativi di
attuazione della politica comune di formazione professionale avrebbero potuto essere
adottati in forza del solo art. 128. Pur affermando la fondatezza del riferimento all’art. 235,
giacché il programma Erasmus prevedeva azioni non solo nel campo della formazione
professionale ma anche della ricerca scientifica, la Corte ha finito col sostenere la posizione
della Commissione. La successiva decisione assunta nel caso Comett II rappresenta
l’ultima tappa dell’elaborazione della nozione di formazione professionale. Qui, la Corte
afferma che anche la formazione permanente rientrava nel concetto di formazione
professionale dell’art. 128. Quindi, possiamo dire che tale nozione è stata delineata in
termini progressivamente sempre più ampi, ricomprendendo qualsiasi forma di
insegnamento che prepari ad una qualificazione per una determinata professione, mestiere
o attività. Non vi rientrano solo quei cicli di studio destinati esclusivamente
all’approfondimento di conoscenze generali senza essere volte ad intraprendere un’attività
lavorativa. Ciò vuol dire che, se un cittadino di uno Stato membro è ammesso a seguire un
corso di formazione in un altro Stato membro, questi ha diritto a soggiornarvi per la
durata del corso.

Un elemento di squilibrio dei mercati del lavoro europei è costituito dalla carenza di forza-
lavoro qualificata in determinate aree. In un simile contesto si comprende l’importanza
dell’azione atta favorire il riconoscimento reciproco fra gli Stati membri di certificati, titoli,
diplomi corrispondenti ai diversi livelli di qualificazione professionale. La prima iniziativa
è la decisione del Consiglio n°368/1985 relativa alla corrispondenza delle qualifiche di
formazione professionale tra gli Stati membri delle C.E. Essa prevedeva che la
Commissione provvedesse all’elaborazione di descrizioni comunitarie dei requisiti
professionali pratici, per le professioni o i gruppi di professioni previamente individuati.
Un’altra importante normativa è la direttiva n°48/1989 relativa ad un sistema generale di
riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore sulle formazioni professionali di una
durata minima di 3 anni. Nel caso Heylens la Corte si era trovata a giudicare delle
legittimità della decisione non motivata dell’autorità francese competente, con cui era
stato negato a un cittadino belga, titolare di un diploma conseguito nel proprio Paese,
l’accesso alla professione di allenatore di calcio; ed aveva concluso che, in ipotesi del
genere, il principio della libera circolazione dei lavoratori richiede che la decisione sia
soggetta ad un gravame di natura giurisdizionale che consenta di verificarne la legittimità

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rispetto al diritto comunitario e che l’interessato possa venire a conoscenza dei motivi che
stanno alla base della decisione. Questa è stata abrogata e trasfusa in una sorta di testo
unico, che è la direttiva n°36/2005, la quale:
• si applica a tutti i cittadini di uno Stato membro che vogliono esercitare, come
lavoratori subordinati, autonomi o liberi professionisti, una professione
regolamentata in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito le loro
qualifiche professionali;
• prevede che uno Stato membro deve consentire l’esercizio della professione per cui
è richiesta una determinata qualifica professionale a tutti coloro che sono in
possesso della stessa;
• indica le ipotesi in cui lo Stato ospitante può esigere al richiedente la prova del
possesso di un’esperienza professionale o di sottoporsi a un tirocinio o a una prova
attitudinale;
• prevede che la procedura di riconoscimento sia effettuata il prima possibile.
Ovviamente, non viene meno il requisito della conoscenza della lingua. Dal 2007 sono
state oltre 100 mila le decisioni di riconoscimento delle qualifiche professionali e di
autorizzazione all’esercizio di una professione, testimoniando come ci siano state diverse
condanne per il mancato riconoscimento delle stesse.

CAPITOLO 5 – Lavori atipici


Nel programma che la commissione aveva formulato per l’attuazione della Carta
comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, particolare rilievo fu dato alla
regolamentazione del lavoro atipico. L’argomento fu inizialmente affrontato con la
Risoluzione del Consiglio sulla ristrutturazione del tempo di lavoro, attraverso la quale si
raccolsero importanti informazioni sul lavoro a tempo parziale e sul lavoro temporaneo:
queste furono poi elaborate e costituirono il punto di riferimento per la formulazione da
parte della Commissione nel 1982 di 2 proposte di direttiva in materia di lavoro a tempo
parziale e in materia di lavoro temporaneo (contratto a tempo determinato e lavoro
interinale), che però non ebbero alcun esito. Nella Carta comunitaria dei diritti sociali
fondamentali, inoltre, il lavoro atipico era menzionato con riguardo al miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro e con riguardo all’occupazione e alla retribuzione. Sulla base
di ciò, la Commissione annunciò la presentazione di una proposta di direttiva volta ad
impedire fenomeni di dumping sociale. L’annuncio si tradusse nel 1990 nella formulazione
di 3 proposte di direttiva, relative a:
➢ condizioni di lavoro;
➢ distorsioni di concorrenza;
➢ misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei
lavoratori temporanei.
Solo quest’ultima, però, è stata approvata. Quindi, di fronte a numerosi insuccessi, la
Commissione decise di affrontare la situazione promuovendo un accordo fra le parti
sociali a livello comunitario: si tratta dell’Accordo sulla Politica Sociale (APS), allegato al
Trattato di Maastricht. In questo modo, si riuscì a trovare l’accordo con le parti sociali a
livello europeo in diverse materia, come il lavoro parziale, le assunzioni a tempo
determinato e il telelavoro.

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La direttiva n°81/1997 riguarda il lavoro a tempo parziale. Essa è costituita da un


preambolo di 26 considerando e da un corpo piuttosto limitato, che si occupa di dare
attuazione all’accordo quadro ad esse allegato. Tale accordo si compone di tre parti di un
preambolo e di diverse considerazioni, a cui fanno seguito 6 clausole. Qui, fra le diverse
forme di lavoro atipico, si dà particolare rilievo al part-time, per l’attitudine a contribuire
alla crescita dei livelli occupazionali e per il collegamento con l’occupazione femminile. La
direttiva ha come ispirazione di fondo quella di assicurare ai lavoratori a tempo parziale
condizioni di parità di trattamento rispetto ai lavoratori a tempo pieno.
AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA DIRETTIVA: per lavoratore a tempo parziale si
intende il lavoratore il cui orario di lavoro normale, calcolato su base settimanale o in media su un
periodo di impiego che può andare fino ad un anno, è inferiore a quello di un lavoratore a tempo
pieno comparabile, che è colui che lavora a tempo pieno nello stesso stabilimento o che svolge
un’attività lavorativa identica o simile. Quindi, il confronto va fatto tra posizioni omogenee,
potendo elementi come l’anzianità di servizio o le professionalità individuali determinare
legittime diversità di trattamento. Nella nozione di lavoratore a tempo parziale sono
ricomprese le più svariate forme di part-time (orizzontale, verticale, misto e con riduzione
di orario su base annua). C’è, però, la possibilità di escludere in tutto in parte i lavoratori
part-timer marginali, che lavorano occasionalmente.
OBIETTIVI E CONTENUTI DELLA DIRETTIVA: essi sono strettamente connessi e si
ravvisano dall’accordo quadro. Da qui emerge che la direttiva si propone di promuovere
lo sviluppo del lavoro a tempo parziale su base volontaria e di contribuire
all’organizzazione flessibile degli orari di lavoro, attraverso misure idonee a bilanciare le
esigenze dei datori di lavoro e dei lavoratori. Le misure necessarie sono individuate dai
legislatori nazionali in sede di recepimento della direttiva. L’elemento della volontarietà
del lavoro tempo parziale è considerato un obiettivo da assicurare nel momento in cui si
instaura il rapporto di lavoro ma anche in costanza dello stesso, tant’è vero che non può
costituire valido motivo di licenziamento il rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da
un lavoro a tempo pieno ad uno a tempo parziale o viceversa. Allo scopo del
raggiungimento degli obiettivi della direttiva sono stati elaborati dei criteri di
comportamento nelle politiche di gestione del personale, secondo i quali i datori di lavoro
dovrebbero prendere in considerazione:
❖ le domande di trasferimento dei lavoratori da tempo pieno a tempo parziale e
viceversa;
❖ la diffusione in tempo utile delle informazioni sui posti a tempo parziale e a tempo
pieno disponibili in stabilimento;
❖ le misure finalizzate a facilitare l’accesso al lavoro a tempo parziale a tutti i livelli
professionali.
Nell’ordinamento italiano la direttiva n°81/1997 è stata recepita con il D. Lgs. n°61/2000, il
quale non contiene, ad esempio, nessuna indicazione su misure di facilitazione del part-
time, mentre aveva mantenuto la previsione di un diritto di precedenza dei lavoratori a
tempo parziale in caso di assunzione di personale a tempo pieno: questo diritto è stato
svuotato dal D. Lgs. n°276/2003. L’aspetto più rilevante è il dovere degli Stati membri di
identificare ed eliminare tutti gli ostacoli di natura giuridica o amministrativa che possono

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limitare le possibilità di lavoro a tempo parziale. Va tenuto conto che l’accordo quadro ha
lo scopo di mantenere o introdurre disposizioni nazionali più favorevoli e, allo stesso
tempo, deve rispettare una clausola di non regresso, secondo la quale non si deve
peggiorare la situazione vigente in ciascuno Stato membro.
TUTELA ANTIDISCRIMINATORIA: la protezione contro le discriminazioni è presente nei
considerando, nel preambolo dell’accordo e nelle relative clausole. La finalità è quella di
assicurare la soppressione delle discriminazioni nei confronti dei lavoratori a tempo
parziale e di migliorare la qualità del lavoro a tempo parziale. Pertanto, i lavoratori a
tempo parziale non devono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a
tempo pieno comparabili. Nell’applicazione di questo principio si deve tener comunque
conto del principio pro rata temporis, che impone di distinguere gli istituti del rapporto
di lavoro rispetto ai quali si impone una regola di parità di trattamento in senso stretto
(come la retribuzione oraria) da quelli in relazione ai quali il trattamento dei lavorati part-
time va opportunamente riproporzionato in base alla ridotta entità delle prestazioni
lavorative (come la retribuzione globale). Questa disciplina può non essere applicata ai
part-timers occasionali ma in ogni caso essa riguarda le condizioni del rapporto di lavoro
ad esclusione dei trattamenti previdenziali pubblici, in quanto le relative questioni sono
rinviate alle decisioni degli Stati membri. Per evitare di svuotare di significato
l’affermazione di principio del divieto di discriminazione, si deve dare un’interpretazione
funzionale a questo principio delle possibili ragioni obiettive, che giustifichino trattamenti
differenti fra lavoratori a tempo parziale e a tempo pieno. L’accordo è strutturato in
maniera tale da enunciare un divieto di discriminazione diretta, per cui il riferimento a
ragioni obiettive di trattamenti differenziati dovrebbe essere inteso alla luce della
giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di discriminazioni, che non permette
cause di giustificazione. Ciò significa che possono ammettersi trattamenti diversi per i
lavoratori a tempo parziale solo se basati su motivazioni non legate al fatto che essi
svolgano attività lavorativa ad orario ridotto. Questa direttiva non si limita a stabilire un
divieto di discriminazione diretta: infatti, contiene anche l’esplicito richiamo delle norme
europee sulla parità fra lavoratori e lavoratrici e, quindi, ai divieti di discriminazione
indiretta oltre che diretta.
GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA: in relazione al lavoro a tempo
parziale, questa giurisprudenza ha sicuramente dato un notevole apporto all’eliminazione
di trattamenti meno favorevoli per le lavoratrici previsti in molti ordinamenti, dando un
contributo alla ridefinizione della disciplina in materia. Tale giurisprudenza si è sviluppata
in assenza di una disciplina europea che fosse specificamente rivolta alla
regolamentazione del lavoro atipico e sulla necessità di pronunciarsi in una serie di casi
concreti di trattamenti discriminatori, riguardanti le diversità di trattamento tra lavoratori
e lavoratrici, le prassi salariali e l’applicazione di discipline legali e/o collettive. In
particolare, la contrattazione collettiva nei confronti del lavoratore atipico presentava un
atteggiamento ambivalente, in quanto all’autonomia negoziale delle parti sociali era
lasciata la regolazione dello stesso e spesso non erano rispettati gli obiettivi della
normativa antidiscriminatoria. Ad esempio: diverse disposizioni del contratto collettivo
tedesco applicabile ai pubblici dipendenti sono state considerate dalla Corte di Giustizia
incompatibile col diritto comunitario; mentre, in una controversia relativa al trattamento

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retributivo diretto la Corte ha ritenuto di carattere indirettamente discriminatorio le


previsioni del medesimo contratto collettivo che stabilivano un sistema di promozione
automatico basato sull’anzianità di servizio, utilizzando criteri di calcolo di quest’ultima
penalizzanti per il lavoratori a tempo parziale. Quindi, possiamo osservare dall’insieme
della giurisprudenza della Corte in materia di lavoro tempo parziale che c’è una
particolare cautela nel ritenere non discriminatorio la disparità di trattamento basata
sull’anzianità di servizio. Infatti, la Corte ha affermato che sicuramente l’anzianità di
servizio permette l’acquisizione di un certo livello di conoscenza e di esperienza ma ciò
non può assurgere a criterio obiettivo capace di evitare ogni discriminazione. Per altro
verso sembra evidente l’assoluto rigore della Corte nell’applicazione del divieto di
discriminazione in materia retributiva, del quale è stato ribadito il carattere di principio
fondamentale del diritto comunitario, che nessuna norma nazionale può svuotare di
sostanza. Ovviamente, questi criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte devono
essere tenuti in considerazione dai legislatori nazionali in sede di trasposizione della
direttiva.

La direttiva n°383/1991 riguarda il lavoro temporaneo e può considerarsi appartenente


alla prima generazione dei tentativi di regolazione del lavoro atipico a livello europeo. Le
disposizioni in essa contenute riguardano i lavoratori temporanei assunti con contratto di
lavoro a tempo determinato o con un rapporto di lavoro interinale. Il lavoratore interinale
è colui il quale è assunto da un’agenzia fornitrice per essere messo a disposizione dell’impresa
utilizzatrice. Il principio cardine della direttiva è quello dettato dall’art. 5, che attribuisce
agli Stati membri la facoltà di vietare che si faccia ricorso a lavoratori temporanei per certi
lavori che formano oggetto di una sorveglianza medica speciale, secondo criteri che sono
definiti dalle legislazioni nazionali. Se vi si consente, dovrà essere assicurata l’appropriata
sorveglianza medica speciale con facoltà di prevedere che questa sorveglianza vada anche
oltre il termine di scadenza del rapporto di lavoro. La direttiva istituisce anche un diritto
di informazione e un diritto di formazione per i lavoratori temporanei, i quali prima
dell’inizio della propria attività dovranno essere informati dal datore di lavoro sui rischi
connessi all’esercizio della professione, ricevendo, se necessario, la formazione adeguata.
Limitatamente al lavoro interinale si prevede, inoltre, un obbligo di informazione ulteriore
a carico dell’agenzia fornitrice, che dovrà rendere note ai lavoratori le caratteristiche del
posto di lavoro da occupare e la qualifica professionale richiesta. Nell’ordinamento
italiano la direttiva n°383/1991 non è mai stata recepita in maniera formale, anche se il D.
Lgs. n°276/2003 contiene alcune disposizioni in linea con le finalità della direttiva.

La direttiva n°70/1999 riguarda il lavoro a tempo determinato: è esito del dialogo sociale
europeo e presenta gli stessi caratteri strutturali della direttiva riguardante il lavoro a
tempo parziale. Ciò che emerge dai considerando è una maggiore intenzione delle parti
sociali di attuare gli obiettivi della SEO. In questo caso l’accordo quadro prende in
considerazione solo le regole che possono essere applicate ai contratti di lavoro a tempo
determinato. Il lavoratore a tempo determinato è identificato con una persona con un
contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore. La
normativa comunitaria si propone essenzialmente 2 obiettivi:

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1) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato attraverso il rispetto del


principio di non discriminazione fra assunti termine i lavoratori stabili;
2) creare mezzi funzionali alla prevenzione degli abusi derivanti dalla reiterazione di
assunzioni con contratto a termine.
Nella direttiva sul lavoro a tempo determinato non si parla in alcun modo di voler
promuovere la diffusione del lavoro precario, tant’è vero che è ivi affermato che i contratti
a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di
lavoro, in quanto contribuiscono la qualità della vita dei lavoratori interessati e migliorano
il rendimento.
CAMPO D’APPLICAZIONE E CONTENUTI DELLA DIRETTIVA: la normativa europea, a
parte l’esclusione del lavoro interinale, può non essere applicata, secondo valutazioni
lasciate alla discrezionalità degli Stati membri e/o delle parti sociali nazionali, a quei
rapporti ove il carattere temporaneo è accompagnato ad una componente formativa o ad
obiettivi di inserimento lavorativo ed in primo luogo all’apprendistato. Per il resto tutte le
assunzioni a termine effettuate direttamente dal datore di lavoro rientrano nella sfera
applicativa della direttiva. Un’assunzione è a termine quando vi sono condizioni
oggettive, come il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito
specifico o il verificarsi di un evento specifico. Il ricorso ad una nozione a maglie larghe è
stato voluto per permettere di ricomprendere nella sfera applicativa della direttiva anche
quelle figure di contratto a tempo determinato indipendenti da giustificazioni causali
oggettive. Al fine di una politica di prevenzione degli abusi (derivanti dalla reiterazione
di tali contratti) l’attenzione si è concentrata non tanto sul contratto a termine in se stesso
ma sulla successione dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato. Per questo
motivo, gli Stati membri devono introdurre regole in materia di proroga del contratto e di
assunzioni successive a termine. La direttiva, in tal senso, dispone:
• la previsione di ragioni obiettive per consentire il rinnovo del contratto;
• la fissazione di una durata massima totale dei contratti a tempo determinato
successivi;
• la fissazione di un numero massimo di rinnovi dei suddetti contratti.
Allo scopo di migliorare la qualità del lavoro a termine e di attenuare le condizioni di
precarietà del rapporto risponde anche la previsione di un obbligo di informazione sui
posti vacanti a tempo indeterminato che si rendano disponibili nell’impresa, al quale il
datore di lavoro può ottemperare anche con un annuncio pubblico. In questo caso
l’informazione è unidirezionale, in quanto riguarda solo la possibilità di accesso di un
impiego stabile e non il contrario. Agli stessi obiettivi si riconduce la formazione, che i
datori di lavoro dovrebbero assicurare ai lavoratori a termine. Anche in questa direttiva
vale il principio di non discriminazione del lavoratore assunto termine rispetto al
lavoratore a tempo indeterminato comparabile. Quindi, il principio di parità riguarda tutte
le condizioni del rapporto di lavoro, ad eccezione dei trattamenti previdenziali pubblici.
Con una formulazione più rigorosa rispetto alla direttiva sul part-time, la direttiva n
°70/1990 prevede che i criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari
condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi per tutti i tipi di lavoratori, ferma restando
la possibilità di ricorrere a criteri diversi giustificati da ragioni oggettive, sempre nel
rispetto del principio del divieto di discriminazione indiretta. Nella clausola finale

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dell’accordo è prevista la possibilità da parte degli ordinamenti nazionali di introdurre


disposizioni più favorevoli per i lavoratori e la clausola di non regresso.
GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA: La Corte di Giustizia ha sempre avuto
un atteggiamento diffidente nei confronti del lavoro precario e ciò è emerso sin dalla sua
prima sentenza nel caso Adeneler. Qui, la Corte ha dapprima affermato che la finalità
dell’accordo quadro è quella di proteggere i lavoratori dall’instabilità dell’impiego, per cui
viene ribadito che i contratti a tempo indeterminato sono la regola dei rapporti di lavoro.
Successivamente, si è occupata di definire la nozione di “ragioni obiettive”, alla cui
sussistenza è condizionata la possibilità di rinnovare un contratto a termine: per essa
questa clausola va intesa nel senso che deve essere presente non solo la mera
autorizzazione del legislatore nazionale alla reiterazione dell’assunzione a termine ma
esige anche che il ricorso a questo tipo particolare di rapporti di lavoro sia giustificato
dalla presenza di elementi concreti relativi all’attività e alle condizioni del suo esercizio.
Quindi, la Corte ha chiarito che una disposizione nazionale che consideri successivi i soli
contratti di lavoro a tempo determinato separati da un lasso temporale inferiore o pari a
20gg lavorativi deve essere considerata tale da compromettere l’obiettivo, la finalità
nonché l’effettività dell’accordo quadro: infatti, se l’obiettivo è quello di evitare la
precarietà, un’applicazione rigida e restrittiva di questa definizione consentirebbe di
assumere lavoratori in modo precario per anni. Altra importante sentenza è quella resa
nell’ambito del caso Vassallo, con riferimento all’applicabilità di queste norme anche nel
settore pubblico. Tuttavia, la differenza con il settore privato sta nel fatto che, mentre nel
settore privato è possibile colpire l’abuso con la conversione del contratto reiterato in un
contratto a tempo indeterminato, nei rapporti di lavoro alle dipendenze della P.A. si
devono applicare sanzioni diverse, purché garantiscano tutela ai lavoratori in modo
effettivo ed equivalente. Una norma importante in tal senso è l’art. 36 D. Lgs. n°165/2001,
il quale dispone che ai lavoratori illegittimamente assunti a termine sia concesso il diritto
al risarcimento del danno. Tuttavia, l’utilizzo di questo strumento quale sanzione per la
reiterazione dei contratti è rimesso alla valutazione del giudice, per cui possiamo
affermare che il rispetto della direttiva europea dal nostro ordinamento deve essere
costantemente valutata. La direttiva sul lavoro a termine ha dato alla Corte l’occasione di
pronunciarsi sul valore giuridico delle clausole di non regresso ed ha, infatti, precisato che
non si può parlare di regresso quando le modifiche, introdotte nel diritto nazionale in sede
di recepimento della direttiva, riguardino una categoria circoscritta di lavoratori con un
contratto di lavoro a tempo determinato oppure siano idonee ad essere compensate
dall’adozione di misure preventive dell’utilizzo abusivo di contratti di lavoro a tempo
determinato successivi.

La direttiva n°140/2008 riguarda il lavoro tramite agenzia interinale. Diffusosi negli USA
nel secondo dopoguerra, in Europa c’era una situazione molto eterogenea in questa
disciplina. In Italia, addirittura, il lavoro tramite agenzia interinale è stato riconosciuto
solo nel 1997. Quindi, il legislatore europeo si è trovato di fronte a diversi modelli. In
particolare, se lo svolgimento della singola missione presso l’impresa utilizzatrice risulta
circoscritto nel tempo, ciò non implica sul piano logico che il contratto di lavoro che lega
l’interinale all’agenzia debba essere parimenti a tempo determinato. In effetti, però, nella

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maggior parte dei Paesi dell’U.E. tale criterio è il più diffuso, mentre nella Repubblica
Federale Tedesca è stato per molto tempo considerato a tempo indeterminato. Le direttiva
del 2008, però, non sceglie fra i diversi possibili modelli di lavoro interinale ma cerca,
piuttosto, di offrire a tali lavoratori un certo grado di tutela sulla base del principio di
parità di trattamento temperato da eccezioni. Anch’essa ribadisce che la regola è sempre il
rapporto di lavoro a tempo indeterminato, tant’è vero che gli interinali hanno il diritto di
essere informati dei posti vacanti nell’impresa utilizzatrice, affinché possano aspirare a
ricoprire posti di lavoro a tempo determinato.
CAMPO DI APPLICAZIONE E CONTENUTI DELLA DIRETTIVA: ex art. 1 della direttiva,
si dispone che essa si applichi ai lavoratori che hanno un contratto di lavoro o un rapporto
di lavoro con un’agenzia interinale e che sono assegnati ad imprese utilizzatrici per
lavorare temporaneamente e sotto il controllo e la direzione delle stesse. Quindi, per
lavoratore tramite agenzia interinale si intende quello che sottoscrive un contratto di lavoro o
inizia un rapporto di lavoro con un’agenzia interinale, al fine di essere inviato in missione presso
un’impresa utilizzatrice per prestare temporaneamente la propria opera sotto il controllo della
direzione della stessa. Allo stesso modo, per missione va inteso il periodo durante il quale il
lavoratore tramite agenzia interinale è messo a disposizione di un’impresa utilizzatrice affinché
presti temporaneamente la propria opera sotto il controllo e la direzione della stessa. La disciplina
sul lavoro interinale ruota attorno al principio di parità di trattamento dei lavoratori
interinali, per cui in qualche modo si deve assicurare che le loro condizioni di base di
lavoro ed occupazione siano identiche a quelle che si applicherebbero se fossero
direttamente assunti dall’impresa utilizzatrice per svolgere lo stesso lavoro. Ciò vuol dire
che la parità di trattamento non opera in generale ma limitatamente a quelle che la
direttiva considera condizioni di base di lavoro e di occupazione, inclusi gli aspetti della
disciplina dell’orario e della retribuzione. Quindi, al lavoratore interinale si deve
corrispondere una retribuzione non inferiore a quella del lavoratore. Questo punto era
diverso tra le varie legislazioni europee, per cui la direttiva ha effettuato
un’armonizzazione verso l’alto delle stesse. Devono, inoltre, essere applicate le normative
di tutela delle lavoratrici in gravidanza o in periodo di allattamento, dei bambini e dei
giovani, nonché i divieti di discriminazione di sesso, razza, religione, età e tendenze
sessuali. La parità di trattamento assicurata agli interinali è, però, accompagnata da molte
eccezioni, che sono:
➢ Agli stati membri si riconosce la facoltà di attribuire alle parti sociali l’opzione di
mantenere o concludere contratti collettivi, che prevedano modalità alternative
riguardanti le condizioni di lavoro e di occupazione, ferma restando la non
precisata condizione del rispetto della protezione globale dei lavoratori interinali.
➢ Gli stati membri, privi di contratti collettivi con efficacia erga omnes, possono
derogare al principio di parità di trattamento, ad esempio stabilendo un periodo di
attesa per il conseguimento della parità di trattamento, purché sia garantito un non
bene precisato livello adeguato di protezione.
A fronte pertanto di queste eccezioni si dovrà attendere la trasposizione della direttiva nei
vari ordinamenti nazionali per capire la reale tutela dei lavoratori interinali, ferma
restando la consueta clausola di non regresso. Nella direttiva c’è anche una disposizione
che ha lo scopo di superare i divieti e le restrizioni che il lavoro interinale presenta nei

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singoli ordinamenti: essi possono essere giustificati soltanto da ragioni di interesse


generale, che investono la tutela dei lavoratori tramite agenzia interinale, le prescrizioni in
materia di salute e sicurezza sul lavoro o la necessità di garantire il buon funzionamento
del mercato del lavoro e la prevenzione degli abusi.

Anche con riguardo al telelavoro esiste disciplina europea. In questo caso, però, le parti
sociali europee hanno preferito concludere un accordo non destinato ad essere recepito in
una fonte formale, per cui la disciplina è il prodotto dell’autonomia collettiva da attuarsi
nei singoli Stati membri ad opera delle parti sociali nazionali. In proposito, possiamo
ricordare le linee guida definite dall’Accordo nel settore delle telecomunicazioni del 2001.
Questo accordo, innanzitutto, definisce il telelavoratore come colui che, usando tecnologie
dell’informazione e delle comunicazioni, esegue tutto il suo lavoro nella propria abitazione o effettua
regolarmente una parte del proprio lavoro nella propria abitazione, mentre la parte rimanente è
svolta nei locali dell’azienda. L’introduzione del telelavoro deve essere su base volontaria e
deve garantire la parità di trattamento con i lavoratori standard, soprattutto con
riferimento all’accesso ad opportunità di formazione professionale e di carriera e
all’applicazione delle norme a tutela della salute nei luoghi di lavoro e al godimento diritti
sindacali. L’accordo quadro sul telelavoro, stipulato nel 2002 tra la Confederazione
Europea dei Sindacati (CES) e le organizzazioni degli imprenditori, ha sviluppato e
generalizzato tali indicazioni. Quindi, adesso possiamo affermare che il telelavoratore è un
normale lavoratore subordinato caratterizzato dalla peculiarità relativa al luogo di
svolgimento della prestazione. Infatti, il telelavoro costituisce una forma di organizzazione o
svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologia dell’informazione in cui l’attività lavorativa,
che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori degli
stessi. Il telelavoro costituisce pertanto solo una diversa modalità di svolgimento del lavoro. Il
telelavoratore fruisce degli stessi diritti, garantiti dalla legislazione dai contratti collettivi,
previsti per un lavoratore comparabile che svolge attività nei locali dell’impresa. Nel
nostro ordinamento l’accordo quadro è stato recepito con l’accordo interconfederale del
2004.

Con l’adozione della direttiva sul lavoro interinale possiamo dire che la regolazione a
livello europeo del lavoro atipico è stata compiuta. Tuttavia, possiamo vedere come
rispetto alle prime proposte della Commissione ci sia un capovolgimento: infatti, all’inizio
si poneva l’accento sulla parità di diritti sul piano previdenziale e non c’era alcun accenno
alla parità di trattamento in materia retributiva, che, invece, è contenuto nelle direttive
adottate in materia di part-time, lavoro a termine, lavoro interinale e telelavoro. Queste,
però, escludono in maniera esplicita dalla propria sfera di operatività le questioni relative
ai regimi previdenziali pubblici, forse anche per via delle ostilità dei governi degli stati
membri a voler modificare i propri sistemi previdenziali. Altro elemento fondamentale
riguarda la fonte della regolazione introdotta che sostanzialmente è negoziale e ciò si
riflette sulla qualità delle regole sia per una approssimazione del linguaggio adottato sia
soprattutto per la prevalenza dell’affermazione di principi generali piuttosto che di
discipline di dettaglio. Quindi, possono essere considerate il risultato della mediazione tra
posizioni fortemente divaricate e per questo motivo si parla di soft law. Questo risultato è

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stato oggetto di critiche e si è espressa la preoccupazione che l’eccessivo margine di


discrezionalità riconosciuto agli ordinamenti nazionali rispetto al recepimento delle
indicazioni dell’U.E. possa alimentare fenomeni di dumping sociale: infatti, molto spesso,
le direttive di recepimento degli accordi quadro hanno trascurato aspetti importanti, come
la mancata indicazione sulla forma del contratto di lavoro o sulla questione della
reiterabilità delle missioni nel interinali. Inoltre, la nozione di lavoratore a tempo parziale
si presenta neutra anche di fronte alle forme più elastiche di part-time come il lavoro a
chiamata (job on call): questo può presentarsi in una molteplicità di configurazioni che
vanno dalla possibilità del datore di lavoro di variare la collocazione temporale della
prestazione lavorativa a quella di variarne la durata. Quindi possiamo dire che la
legittimazione di simili forme di impiego resta rimessa ai singoli ordinamenti, dipendendo
da scelte nazionali di politica sociale, ferma restando l’obbligo di non trascurare i divieti
europei di discriminazione diretta ed indiretta. La tutela antidiscriminatoria riconosciuta
dal diritto dell’U.E. ai lavoratori atipici è stata considerata uno strumento sostitutivo e più
debole rispetto alla previsione di specifici diritti in favore degli stessi. Tuttavia, la Corte di
Giustizia ne ha sottolineato l’importanza. Quanto agli accordi collettivi autonomi, come
quello sul telelavoro, e dove si parla maggiormente di soft law, il loro limite sta nel
carattere puramente volontario, per cui si potrebbero verificare problemi di effettività delle
regole concordate.

CAPITOLO 6 – La prova del contratto di lavoro


La direttiva n°533/1991 riguarda l’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore
delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro. La direttiva indica sia il
contenuto della comunicazione scritta sia i mezzi attraverso i quali è possibile adempiere
all’obbligo di informazione. Quest’obbligo grava su quelli che la direttiva definisce
elementi essenziali del rapporto di lavoro, i quali sono:
a) identità delle parti;
b) luogo di lavoro;
c) contenuto delle mansioni;
d) data d’inizio del rapporto;
e) durata prevedibile dello stesso, se si tratta di rapporto di lavoro temporaneo;
f) modalità di attribuzione e determinazione delle ferie retribuite;
g) termini di preavviso in caso di cessazione del rapporto;
h) importo di base iniziale, composizione e periodicità di versamento della
retribuzione;
i) durata giornaliera o settimanale della prestazione;
j) eventuale riferimento al contratto collettivo che sia applicabile.
Questa elencazione non è tassativa. In particolare, l’informazione dovrà essere fornita non
oltre 2 mesi dall’inizio del rapporto, attraverso la consegna di un contratto di lavoro e/o di
una lettera di assunzione e, in mancanza, potrà consegnare una sua dichiarazione con tutti
questi elementi. Se la prestazione lavorativa si svolge all’estero per un tempo superiore ad
1 mese, il documento dovrà essere consegnato al lavoratore prima della partenza e, oltre
agli elementi già menzionati, deve contenere:
a) durata del lavoro all’estero;

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b) valuta della retribuzione;


c) eventuali vantaggi collegati all’espatrio;
d) condizioni di rimpatrio.
Le eventuali modifiche, intervenute durante lo svolgimento del rapporto, dovranno
risultare da un documento scritto, consegnato al lavoratore entro il termine di 1 mese dalla
data di attuazione della modifica.
CAMPO D’APPLICAZIONE E VASE GIURIDICA: nel programma di azione della
Commissione si sottolineava che questa disciplina avrebbe costituito uno strumento di
tutela soprattutto per i lavoratori atipici. Tuttavia, agli Stati membri è stata riconosciuta la
possibilità di prevedere la non applicabilità della direttiva nei confronti dei lavoratori il cui
contratto non sia superiore ad 1 mese e/o non superi le 8 ore settimanali, nonché di quelli
con rapporto occasionale. Tra l’altro, in molti Stati il contratto di lavoro atipico è
subordinato alla forma scritta, di cui, però, la direttiva non si occupa. Addirittura,
inizialmente si riteneva, da come era formulato il preambolo della proposta di direttiva,
che essa non si occupasse nemmeno della prova del contratto di lavoro. Tuttavia, nel testo
finale questa forma è stata modificata ed è espressamente previsto che essa si occupi di
stabilire l’obbligo generale in base al quale il lavoratore subordinato deve disporre di un
documento contenente informazioni sugli elementi essenziali del rapporto di lavoro. La
direttiva ha ribadito, però, che l’esistenza del contratto si può provare con qualsiasi mezzo
previsto dagli ordinamenti nazionali a prescindere dalla comunicazione scritta, che,
quindi, non è considerata l’unico mezzo di prova. Anche la Corte di Giustizia sostiene
questa interpretazione. In Italia la direttiva è stata recepita con il D. Lgs. n°152/1997. Gli
Stati Membri devono introdurre le misure necessarie per consentire ai lavoratori di
difendere i propri diritti in sede legale.

CAPITOLO 7 – Parità e non discriminazione


Il principio di parità e non discriminazione fra i sessi è uno dei contenuti più significativi
del diritto dell’U.E. e di più diretta incidenza nei diritti nazionali. Già con l’art. 119 del
Trattato di Roma (ora art. 157 TFUE) viene presa l’iniziativa di promuovere la parità,
costituendo un’eccezione per il Trattato, che affronta le questioni sociali generalmente in
funzione di quelle economiche, al fine di garantire il buon funzionamento del mercato.
Dalla sua individuazione sono stati ottenuti significativi adeguamenti da parte dei sistemi
nazionali grazie all’utilizzo di trattati, direttive, raccomandazioni, programmi di azione,
linee guida, nonché attraverso la giurisprudenza della Corte di Giustizia. Quindi, dopo
decenni di elaborazione, possiamo dire che stiamo trattando di un principio ispiratore
dell’Europa sociale. Il primo intervento sulla parità riguarda quella retributiva e deriva
dallo stesso art. 119 del Trattato. Inizialmente, l’applicazione di questo principio ha trovato
forte resistenza nella giurisprudenza degli Stati membri e, solo a metà degli anni ’70,
l’iniziativa comunitaria subisce una forte accelerazione, che porta la stessa Corte di
Giustizia ad affermare l’efficacia diretta, verticale ed orizzontale, dell’art. 119. Si ha, così,
un utilizzo molto ampio dello strumento della direttiva, tant’è vero che ne sono state
diverse, come per esempio quella:
➢ sulla parità retributiva (direttiva n°117/1975);
➢ sulla parità di accesso all’impiego, alla formazione professionale e alle condizioni di

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lavoro;
➢ sulla parità di trattamento in tema di sicurezza sociale obbligatoria;
➢ sulla parità nei regimi professionali di previdenza sociale;
➢ sulla parità di trattamento fra lavoratori e lavoratrici autonomi;
➢ sui congedi parentali;
➢ sull’onere della prova della discriminazione.
Dopo il trattato di Amsterdam e, in particolare, dopo il riconoscimento della parità sancito
in quello che ora è l’attuale art. 19 TFUE, il diritto comunitario antidiscriminatorio ha
allargato i suoi confini oltre la parità tra uomini e donne, riguardando anche la lotta alle
discriminazioni per razza e origine etnica (con la direttiva n°43/2000) e per religione o
convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali (con la direttiva n°78/2000). Si è,
poi, cercato di rendere organica questa disciplina, attraverso l’adozione della direttiva n
°54/2006.

Il fondamento del principio di parità retributiva si trova direttamente nell’art. 119 del
Trattato di Roma, che si ispirava alla Convenzione Oil del 1951. Il disposto di tale articolo è
confluito nella prima parte dell’art. 141 TCE, che oggi è l’art. 157 TFUE, il quale ora
riguarda il più generale principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra
uomini e donne in materia di occupazione e di impiego. La Corte di Giustizia ha affermato
che questo principio è ricondotto all’obiettivo di evitare una concorrenza nel mercato
comune che fosse basata sulla sotto retribuzione del lavoro femminile e, più in generale,
ad obiettivi di politica sociale che mirano al miglioramento delle condizioni di vita e di
lavoro negli Stati membri. Quindi, si può affermare che questi 2 principi convengono
sull’idea che il liberismo economico può essere combinato con il progresso sociale. L’art.
157 TFUE stabilisce alcuni contenuti essenziali della parità retributiva:
• Concetto di retribuzione: è definito in modo ampio ed è comprensivo della
retribuzione minima o normale e anche di qualsiasi compenso, corrisposto
direttamente o indirettamente in denaro o in natura dal datore di lavoro in
dipendenza del rapporto di lavoro.
• Termine di riferimento della parità di retribuzione: sancito originariamente per il lavoro
uguale, oggi è sancito per il lavoro di pari valore, così come sancito dalle
indicazioni dell’Oil.
• Criteri di computo della retribuzione: essi implicano 2 diversità:
o se la retribuzione è stabilita a tempo, essa deve essere uguale a parità di
posto di lavoro;
o se la retribuzione è commisurata a cottimo, essa deve fissarsi in base alle
stesse unità di misura del risultato.
Questo principio è ormai considerato un principio fondamentale dell’ordinamento
europeo e, con la sentenza Defrenne II, ne è stata riconosciuta l’efficacia diretta cei
confronti degli Stati membri e dei singoli datori di lavoro privati e pubblici. Si tratta,
infatti, di un caso in cui l’obbligazione stabilita dal Trattato risulta definita in maniera
precisa, cioè può considerarsi self executing.

La direttiva n°117/1975 sulla parità retributiva è ormai trasfusa nella direttiva n°54/2006

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ed entrambe hanno permesso il rafforzamento dell’effettiva applicazione di questo


principio. Un primo punto in tal senso è stato il riconoscimento dell’applicabilità del
principio non solo al lavoro uguale ma anche al lavoro di valore uguale (cottimo). Poi, è
stato specificato che tutti i sistemi devono utilizzare criteri comuni per i lavoratori dei 2
sessi, prevedendo la nullità di tutte le norme discriminatorie. Infine, ha stabilito in capo
agli Stati alcuni obblighi strumentali , come la possibilità dei lavoratori di agire in giudizio
contro le discriminazioni o di garantire la protezione contro il licenziamento dei lavoratori
che reagiscono alle discriminazioni. Si fa riferimento sia alle discriminazioni dirette sia a
quelle indirette. Fondamentale è poi l’intervento della Corte di Giustizia con la sua
giurisprudenza, che si è concentrata sull’ambito di applicazione della diretta e sul concetto
di retribuzione.

Con riferimento all’ambito di applicazione, la Corte ne ha sostenuto un’ampia


applicabilità, che non è subordinata all’esistenza di sistemi di classificazione del lavoro.
Ciò vuol dire che l’equivalenza delle mansioni è il presupposto necessario e sufficiente per
l’applicazione del principio, senza fare distinzioni di sesso. Quindi, l’equivalenza riguarda
sempre la valutazione delle analogie riscontrabili sul piano di valutazioni concrete relative a
prestazioni svolte nell’ambito dello stesso stabilimento, anche se in tempi diversi, da lavoratori di
sesso diverso. Il giudizio di comparazione non può essere fatto rispetto a un lavoratore
ipotetico. Tuttavia, la regola di parità lavoro a parità di qualifica permette una
comparazione che va oltre la singola azienda. Tenuto conto di questa attitudine, la Corte di
Giustizia ha escluso che il divieto di discriminazione sia applicabile limitatamente a
uomini e donne che svolgono la propria attività lavorativa per uno stesso datore di lavoro.
La Corte di Giustizia, però, ha negato che l’art. 157 TFUE possa essere invocato dai
lavoratori dell’impresa appaltatrice per rivendicare il migliore trattamento salariale dei
dipendenti dell’impresa appaltante che svolgono il medesimo servizio. Essa ha anche
avvalorato la rilevanza delle discriminazioni sia dirette sia indirette, che sono quelle che
risultano dalle conseguenze sproporzionatamente sfavorevoli sulla base di criteri di
valutazione non essenziali per il lavoro svolto, come il riferimento allo stato matrimoniale.
La definizione definitiva di discriminazione indiretta si trova nella direttiva n°54/2006 e
si ha quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in
una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto alle persone
dell’altro sesso, a meno che questa disposizione o criterio siano oggettivamente giustificati da una
finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.

Un’ipotesi di discriminazione retributiva indiretta molto diffusa è quella che classifica il


lavoro e, quindi, la retribuzione sulla base della forza fisica, come accade per esempio
nella Germania Federale. La Corte ha ritenuto che tali sistemi non sono incompatibili con
la direttiva n°117/1975, anche se possono svantaggiare le donne, a condizione che non
dissimulino una classificazione discriminatoria per sesso e siano giustificate in modo
oggettivo. In particolare, il datore di lavoro deve dimostrare che tale forza fisica è
giustificata perché è necessaria per lo svolgimento delle mansioni a cui i lavoratori sono
effettivamente preposti. Si distinguono, così, i lavori pesanti dai lavori leggeri, che,
generalmente, sono esclusivamente femminili e sotto retribuiti. Nel caso Danfoss si

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prendono in considerazione schemi classificatori che comportavano retribuzioni medie


inferiori per le lavoratrici rispetto a quelle dei colleghi. Il datore di lavoro si giustificò
riferendosi al diverso grado di formazione professionale richiesta. Quindi, la Corte gli
chiese di dimostrare che questi requisiti di formazione professionale fossero effettivamente
necessari per svolgere i compiti affidati ai dipendenti e precisò che qualora esso venga a
comportare trattamenti sistematicamente sfavorevoli per le lavoratrici, deve ritenersi
utilizzato in maniera illegittima. Invece, il criterio dell’anzianità lavorativa è ritenuto
conforme, perché normalmente è indicativo di maggiore esperienza professionale. Nel
caso Enderby, invece, la Corte ha precisato che, per giustificare la differenza
discriminatoria retributiva di 2 contratti collettivi di lavoro, non basta invocare l’origine
negoziale della disparità di trattamento, in quanto entrambi i contratti collettivi nel loro
ambito di applicazione non erano discriminatori. In pratica, la Corte ha affermato che, in
un caso del genere, spetta al giudice nazionale decidere se esistano ragioni di
giustificazione delle differenze retributive tra le 2 mansioni. Nel giudizio di comparazione
occorre tenere conto di un più ampio complesso di fattori, come la natura dell’attività svolta, le
condizioni di lavoro e la qualificazione professionale, per cui si giunge ad escludere l’equivalenza
lavorativa e retributiva qualora una stessa attività sia esercitata da lavoratori in possesso di
formazione e abilitazione professionale diversa. Nel nostro ordinamento solo a partire da una
legge del 1992 si sono riconosciute forme di discriminazione indiretta. Fra i primi oggetti
di discriminazione indiretta esaminati dalla Corte c’è il part-time e un esempio molto
importante è dato dal caso Jenkins in cui la Corte ha ritenuto che una retribuzione oraria
inferiore per i lavoratori a tempo parziale è discriminatoria qualora la percentuale di
questi lavoratori sia prevalentemente femminile, ferma restando la possibilità del datore di
lavoro di dimostrare che non c’è discriminazione perché quel tipo di lavoro ha un diverso
rendimento.

Con riferimento al concetto di retribuzione, la tendenza è stata quella di accogliere una


definizione ampia, comprensiva dei molteplici elementi retributivi legati a circostanze
specifiche, come le indennità e i premi. Sono escluse, invece, le contribuzioni che il datore
di lavoro paga agli istituti pubblici di previdenza obbligatoria e le prestazioni che questi
erogano, in quanto non costituiscono un compenso erogato lavoratore ma rispondono a
necessità di politica sociale. Rientra nel concetto di retribuzione il contributo che il datore
di lavoro paga nel caso di fondi pensionistici complementari ed integrativi. La Corte si
basa sul fatto che la contribuzione e la pensione hanno fondamento contrattuale e non
legale in questo caso, in quanto provengono dal datore anche se attraverso un fondo.
Infine, dobbiamo ricordare il caso Barber, perché l’ la Corte ha ritenuto discriminatoria la
diversa età pensionabile prevista a favore delle donne da un fondo pensione aziendale.

L’ormai abrogata direttiva n°207/1976 si occupava del principio di parità nelle condizioni
di lavoro, il quale è stato esteso a tutti gli aspetti della vita professionale. Tale estensione
generale è stata confermata dalla Corte di Giustizia in un caso che riguardava la L. n
°903/1977, la quale è stata ritenuta conforme alla direttiva in quanto vietava ogni atto
discriminatorio attinente al rapporto di lavoro. Un problema, invece, si è posto con
riguardo ai limiti di età per il prepensionamento in casi di crisi aziendale, in quanto spesso

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venivano fissati in misura diversa per gli uomini e per le donne. In questo caso la Corte ha
ritenuto che il principio di parità nelle condizioni di lavoro si riferisce anche al limite di età
per le dimissioni obbligatorie nel caso di licenziamenti collettivi, mentre le conseguenze
che la diversa età pensionabile comporta sulle prestazioni pensionistiche non comporta
diversità discriminatorie. Oggi ciò non vale più (ad esclusione delle pensioni pubbliche) a
seguito della sentenza Barber. Questa direttiva ha subito molte modifiche ed integrazioni
con la direttiva n°73/2002, la quale espressamente prevede l’applicazione della normativa
paritaria al lavoro autonomo; le discriminazioni dirette e indirette e l’inserimento nelle
discriminazioni delle molestie. Essa ha inoltre previsto delle disposizioni volte a garantire
l’attuazione del principio di parità di trattamento, come ad esempio la predisposizione di
misure per la protezione di chi denuncia le discriminazioni. Dobbiamo poi ricordare
l’espressa affermazione del mainstreaming, come metodo di azione politica degli Stati
membri, che hanno l’obbligo di incoraggiare i datori di lavoro ad attività di prevenzione
delle discriminazioni.

Il fenomeno delle molestie sessuali negli ambienti di lavoro è stato considerato solo
nell’ultimo ventennio, grazie anche alle esperienze statunitensi e canadesi. Dopo una
prima sollecitazione del Parlamento Europeo nel 1986, la Commissione interviene solo
diversi anni dopo con la raccomandazione n°131/1992, alla quale è allegato un codice di
condotta sui provvedimenti per la lotta contro le molestie sessuali. In questo codice, la
molestia sessuale viene definita come ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale o
ogni altro comportamento basato sul sesso che offenda la dignità degli uomini e delle donne nel
mondo del lavoro, inclusi atteggiamenti malaccetti di tipo fisico, verbale o non verbale. Questa
raccomandazione è un punto di riferimento per le direttive n°43 e n°78 del 2000, le quali
hanno introdotto la condanna delle molestie, che ormai vengono qualificate come una
discriminazione. Tuttavia, la successiva direttiva n°83/2002 divide il concetto di molestia
in 2 tipologie:
A. Molestia tour court: è quel comportamento indesiderato connesso al sesso che ha lo scopo o
l’effetto di violare la dignità della persona, creando un clima intimidatorio, ostile,
degradante, umiliante ed offensivo.
B. Molestia sessuale: sono quelle integrate da un comportamento indesiderato a
connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o non verbale, che ha lo scopo o
l’effetto di violare la dignità di una persona, creando un clima intimidatorio, ostile,
degradante, umiliante ed offensivo.
Altra forma di molestia, già presa in considerazione dalla raccomandazione del 1992 e
considerata sempre una discriminazione, è il ricatto sessuale, che consiste in qualsiasi
trattamento meno favorevole subito da una persona per il fatto di avere rifiutato atti indesiderati a
sfondo sessuale o esservisi sottomessa. Nell’ordinamento italiano queste definizioni sono state
letteralmente trasposte a partire dal 2005 e da ultimo con il D. Lgs. n°5/2010. Questa
normativa dispone che i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro, che sono stati
adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione a comportamenti sessualmente
molesti, sono nulli.

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Sin dall’inizio la direttiva n°207/1976 prevedeva delle esclusioni nell’applicazione del


principio di non discriminazione: ciò avveniva qualora le attività da svolgere per la loro
natura o per le condizioni di esercizio necessitavano una considerazione determinante del
sesso del lavoratore. La Corte di Giustizia a tal proposito ha richiesto la specificità delle
attività escluse, affinché potesse controllarne i motivi. Quindi, le possibili eccezioni alla
parità nell’accesso all’occupazione sono ammesse e ritenute legittime se tali differenze di
trattamento sono basate su una caratteristica specifica di sesso laddove, per la particolare
natura delle attività lavorative di cui trattasi o per il contesto in cui esse vengono espletate,
tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento
dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e il requisito proporzionato. Nel
nostro ordinamento il D. Lgs. n°198/2006 ammette solo esclusioni limitate ai settori dello
spettacolo, dell’arte e della moda, quando il sesso sia essenziale alla prestazione.

Esistono cause di giustificazione dei provvedimenti con effetti molto sfavorevoli per i
lavoratori di un sesso che, quindi, ne escludono il carattere discriminatorio.
L’interpretazione più rigorosa vuole che l’illiceità si possa escludere quando le differenze
conseguano a caratteri essenziali al lavoro svolto e che sono perseguite tramite mezzi
adeguati e necessari. La Corte di Giustizia si è pronunciata in diversi casi ma lo ha fatto
con diseguale rigore, mostrando di conseguenza come si possano verificare delle lievi
oscillazioni nella sua giurisprudenza.

Le implicazioni del principio di parità hanno creato incertezze su 2 piani diversi:


1. nei confronti delle normative tradizionali di tutela della donna lavoratrice;
2. nei confronti delle misure preferenziali per le donne dirette a rimuovere ostacoli di
fatto alle pari opportunità.
La direttiva n°54/2006 ammette la compatibilità con la normativa antidiscriminatoria delle
misure di protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la
maternità. Gli ordinamenti europei hanno adottato atteggiamenti diversificati. L’Italia,
invece, ha interpretato in modo rigoroso l’incompatibilità tra parità e protezioni
differenziali, lasciando in vigore solo il divieto di lavoro notturno per le donne,
attribuendo però alla contrattazione collettiva la possibilità di rimuoverlo. Tuttavia, la
deroga al lavoro notturno è stata eliminata da diverse pronunce della Corte di Giustizia.
Le principali deroghe sono quelle riferibili alla tutela della donna in caso di gravidanza e
maternità, come testimonia per esempio la condanna della Corte per il licenziamento di
una lavoratrice madre collegato all’assenza dovuta ad una malattia originata dalla
gravidanza. In particolare, si afferma il carattere discriminatorio di qualsiasi trattamento
meno favorevole basato sulla gravidanza o sul congedo per maternità e il diritto della
donna, che termina il congedo, di riprendere il proprio lavoro o un posto equivalente,
nonché a beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che le sarebbero
spettati in sua assenza. In pratica, si mostra come la Corte di Giustizia abbia voluto
riservare una garanzia particolare alla donna e ad un momento particolare della sua vita,
giudicando così conforme, ad esempio, la previsione aziendale di un assegno forfettario a
favore delle lavoratrici femminili, inteso a compensare gli svantaggi professionali che l’uso

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del congedo può loro causare. Invece, le eccezioni non giustificate da motivi di protezione
specifica della donna in maternità sono state limitate dalla Corte.

L’obiettivo di redistribuire in modo più equilibrato fra i sessi ruoli e responsabilità nella
famiglia è stato preso in considerazione dalle istituzioni europee, le quali hanno ammesso
la possibilità che la custodia dei bambini sia permessa a uomini e donne in modo tale da
conciliare le loro responsabilità professionali con quelle familiari ed educative. Tali
obiettivi sono stati perseguiti in modo incisivo solo a partire dalla direttiva n°34/1996, che
recepisce un accordo quadro sul congedo parentale. Il congedo parentale consiste nel diritto
di tutti i lavoratori, di ambo i sessi, di astenersi dal lavoro in occasione della nascita o adozione di
un bambino, affinché possano averne cura per un periodo minimo di 3 mesi, fino ad un’età non
superiore ad 8 anni. Le autorità e le parti sociali nazionali stabiliranno le condizioni per
l’esercizio di tale diritto e le modalità di esercizio, nonché le motivazioni che possono
indurre il datore di lavoro ad ammettere il solo rinvio (ma non negazione) del diritto. dopo
la fruizione del congedo, il lavoratore ha diritto a tornare nel medesimo posto di lavoro o
in uno equivalente o analogo. Questa direttiva è stata recepita, da ultimo, con il D. Lgs. n
°151/2001. La materia è stata rafforzata dalla stipula di un nuovo accordo quadro, recepito
con direttiva n°18/2010. Tra le novità l’innalzamento a 4 mesi del periodo di congedo e le
norme di facilitazione del rientro, attraverso la rimodulazione dell’orario o dell’assetto di
lavoro. La Corte di Giustizia ha escluso che la nascita di gemelli dia diritto a tanti congedi
parentali quanti sono i figli nati.

La legittimità dei trattamenti preferenziali a favore delle donne ha suscitato reazioni


contrastanti negli ordinamenti europei ma che, tuttavia, sono state giustificate in quanto
finalizzate non solo alla parità di trattamento ma anche alla parità di opportunità.
Nonostante ciò, alcuni interventi positivi si sono mostrati molto controversi (come quello
delle quote riservate alle donne). Dopo anni di silenzio la Corte di Giustizia, in diversi casi
e con valutazioni non proprio univoche, è intervenuta, affermando che una normativa
preferenziale a favore delle donne è legittima se la priorità non è assoluta, secondo quote rigide, ma
se ammette variazioni e deroghe riferite a qualità personali dei candidati, che siano oggettivamente
valutabili. Nonostante questa posizione l’ammissibilità delle misure che privilegiano la
collocazione lavorativa e la progressione di carriera delle donne permane limitata. Tra i
diversi casi possiamo ricordare la sentenza di condanna per l’Italia per le disparità di
trattamento presenti nel regime pensionistico gestito dall’Inpdap, da cui è recisamente
respinta l’idea che le azioni positive prefigurate dal Trattato possano essere ridotte a
semplici strumenti di compensazione ex post degli svantaggi patiti dalle lavoratrici.

L’attuazione giudiziale della disciplina antidiscriminatoria presenta aspetti di particolare


importanza. Infatti, la Corte di Giustizia ha affermato il fondamentale principio della
tutela giurisdizionale effettiva, che deve essere collegato ad un sistema adeguato di
sanzioni per risarcire il soggetto discriminato, rappresentando anche uno strumento di
deterrenza. Questa previsione è indebolita dal fatto che la scelta delle sanzioni è rimessa ai
giudici nazionali, i quali hanno preferito strumenti tradizionali come la nullità e il
risarcimento dei danni. La Corte di Giustizia ha, però, precisato che l’adeguatezza della

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sanzione vada valutata in relazione all’obiettivo di riparare la specifica violazione della


parità, disponendo, tra l’altro, l’impossibilità dello Stato di individuare tetti massimi
all’importo da risarcire. Della materia de ne occupa oggi la direttiva n°54/2006, la quale
richiede l’effettività, la proporzionalità e la dissuasività dei rimedi contro le
discriminazioni, siano essi rimedi in forma specifica (di carattere restitutorio-
ripristinatorio) o di carattere risarcitorio. Inoltre, le associazioni, organizzazioni o altre
persone giuridiche titolari di un legittimo interesse all’osservanza dei divieti di
discriminazione hanno il diritto di poter agire giudizialmente per conto o a sostegno della
persona che si ritiene lesa. Secondo la direttiva del 2006 spetta alle parti convenute provare
l’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento, se la parte che si
ritiene lessa abbia addotto elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia
stata discriminazione diretta o indiretta. Il risultato di questa disposizione è di origine
giurisprudenziale: i casi di riferimento sono la sentenza Danfoss e la sentenza Enderby,
nelle quali la Corte ha sostenuto che, in presenza di un sistema classificatorio
pregiudizievole nei confronti delle donne e non razionalmente giustificabile, è il datore di
lavoro a dover provare la motivazione non discriminatoria del sistema stesso. Si ha, cioè,
un’inversione dell’onere della prova. Per quanto riguarda i contratti collettivi, sappiamo che
essi non sono considerati strumenti sufficienti per l’attuazione di questo principio, a meno
che non abbiano efficacia erga omnes. In questo caso, la nullità delle clausole contrattuali
discriminatorie implica, secondo la Corte, che le retribuzioni da questi fissate siano
sostituite da quelle più alte stabilite per gli uomini.

La parità di trattamento nella sicurezza sociale arriva solo con la direttiva n°7/1979, la
quale si applica contro i rischi di malattia, invalidità, vecchiaia, infortuni sul lavoro,
malattie professionali e disoccupazione. I soggetti destinatati della stessa sono tutti i
lavoratori, anche autonomi, pensionati e i lavoratori la cui attività sia interrotta per
malattia, infortunio o disoccupazione involontaria. Secondo la Corte di Giustizia, la
direttiva si deve applicare anche ai lavoratori che hanno interrotto la propria attività
lavorativa per dedicarsi di un parente invalido. Il divieto di discriminazione diretta e
indiretta nei sistemi di previdenza legale è stato interpretato come avente efficacia diretta
verticale nei confronti delle P.A. degli Stati membri. L’art. 7.1 della direttiva prevede delle
eccezioni al principio di parità, consentendo agli Stati membri di escludere dal suo campo di
applicazione:
• la fissazione del limite di età per la pensione di vecchiaia e le conseguenze relative
in ordine ad altre prestazioni;
• i vantaggi accordati a fini pensionistici di vecchiaia a persone che hanno
provveduto all’educazione dei figli;
• la concessione di diritti a prestazioni di vecchiaia o invalidità in base a diritti
derivati dal coniuge;
• la concessione di maggiorazioni delle prestazioni previdenziali per il coniuge a
carico.
Queste eccezioni, però, devono essere interpretate restrittivamente. Un’importante
decisione è la sentenza Barber, in quanto con essa la Corte di Giustizia ha modificato la
sua posizione precedente, facendo rientrare ora l’età pensionabile tra le materie di cui si

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occupa il principio di parità di trattamento. Le differenze ancora permanente nel settore


pubblico sono state giustificate solo nell’ambito dell’aver concesso ai sistemi legali di
adeguarsi al nuovo principio. Le conseguenze sono davvero importanti: è per questo
motivo che ci sono stati altri interventi con direttive, poi confluite nell’unica direttiva n
°54/2006. Qui, sono dichiarate contrarie al principio di parità tutte le disposizioni basate
direttamente o indirettamente sul sesso, come le modalità dell’adesione, l’età di accesso, la
durata utile per ottenere le prestazioni o i livelli delle prestazioni.

La direttiva n°54/2006 nasce dall’esigenza di far confluire in un unico ed organico testo le


diverse discipline comunitarie in tema di parità, cercando anche di modificare i punti
problematici delle vecchie disposizioni. Le direttive che questa è andata a sostituire sono 4:
➢ direttiva n°117/1975 sulla parità retributiva;
➢ direttiva n°207/1976 sulla parità nelle condizioni di lavoro;
➢ direttiva n°378/1986 sulla parità nei regimi professionali di sicurezza sociale;
➢ direttiva n°7/1979 sulla parità nei regimi pubblici obbligatori di sicurezza sociale.
Il merito di questa direttiva è anche quello di estendere le definizioni di discriminazioni
dirette e indirette a tutti gli ambiti considerati da essa e di dare valenza generale anche alle
definizioni di molestia e molestia sessuale, che rientrano tra le discriminazioni.

La tutela contro le discriminazioni non di genere trova riscontro grazie alle direttive n
°43/2000 e n°78/2000, le quali trovano la loro base giuridica in quello che ora è l’art. 19
TFUE, il quale attribuisce al Consiglio il potere di adottare i provvedimenti opportuni per
combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le
convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali. Si tratta di un insieme di
caratteri dell’identità personale molto ampio ma non suscettibile di estensione in via
analogica, data la tassatività dell’elenco, come precisato dalla Corte di Giustizia. Tuttavia,
nel caso Coleman si afferma che i divieti di discriminazione tutelano non solo i lavoratori
essi stessi disabili ma anche il lavoratore penalizzato a causa della disabilità del figlio al
quale presta le sue cure. Entrambe le direttive non riguardano le discriminazioni sulla
nazionalità, per cui i soggetti provenienti da Paesi terzi sono tutelati con riferimento alle
discriminazioni riconducibili ai caratteri soggettivi, come la razza o l’etnia. Nell’unica
sentenza della Corte di Giustizia sulla direttiva n°43/2000 è stato rafforzato il concetto di
discriminazione diretta. Il suo art. 4, tuttavia, consente agli Stati membri di stabilire il
carattere non discriminatorio di una differenza di trattamento basata su una caratteristica
correlata alla razza o all’origine etnica laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per
il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e
determinante per il suo svolgimento e sempreché l’obiettivo sia legittimo e il requisito
proporzionato. Le forze armate sono escluse dall’osservanza di questi divieti. A favore dei
disabili, la direttiva n°78/2000 prescrive l’adozione di soluzioni ragionevoli, cioè di
provvedimenti appropriati alle esigenze delle situazioni concrete, consentendo comunque
ai portatori di handicap opportunità di lavoro e formazione, a condizione che tali
provvedimenti non comportino per il datore di lavoro un onere finanziario
sproporzionato: l’onere non lo è se è compensato da provvidenze statali. Le disparità di
trattamento collegate all’età non costituiscono discriminazioni ove siano giustificate

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oggettivamente e ragionevolmente dal diritto nazionale, per il perseguimento di politiche


del lavoro e di formazione. Tra queste previsioni possiamo ricordare, per esempio, la
fissazione di condizioni minime di età e di esperienza professionale per lo svolgimento di
determinate attività. A partire dall’importante sentenza resa nel caso Mangold la Corte di
Giustizia si è pronunciata più volte sulla portata del divieto europeo di discriminazioni
basate sull’età. Si tratta di controversie, nelle maggior parte delle volte, riguardanti
lavoratori in età avanzata che hanno voluto contrastare le discipline nazionali che
prevedevano la cessazione obbligatoria del rapporto di lavoro al compimento dell’età utile
per il pensionamento. In generale, possiamo dire che queste 2 direttive sanciscono la
legittimità delle azioni positive, fornendo così un appiglio europeo alle iniziative promozionali
eventualmente intraprese nel silenzio della legislazione nazionale. Entrambe hanno carattere di
norme minime, per cui prevedono che gli Stati membri debbano prendere disposizioni atte
a promuoverne l’effettività e ribadiscono il principio della parziale inversione dell’onere
della prova e dell’accesso alla tutela giurisdizionale. In particolare poi, la direttiva n
°43/2000 impone agli Stati membri di istituire uno o più organismi per la promozione
della parità di trattamento. Sono state recepite nel nostro ordinamento con i D. Lgs. n°215
e n°216 del 2003, che grossomodo riprendono le prescrizioni europee, senza prevedere
però quel coordinamento necessario. Per questo motivo siamo stati condannati dalla
Commissione e poi abbiamo adeguato il tutto.

CAPITOLO 8 – L’orario di lavoro


In questa materia il Trattato di Roma non riconosceva specifici poteri di intervento alle
autorità comunitarie, ad eccezione del generale compito di promuovere una stretta
collaborazione tra gli Stati membri su tutti gli aspetti relativi alle condizioni di lavoro. La
difficoltà di rintracciare una base giuridica nel trattato e la delicatezza e complessità della
materia spiegano la debolezza dei tentativi di regolazione che si sono succeduti a partire
dalla metà degli anni ‘70. La questione delle ferie retribuite fu così ripresa nella
Raccomandazione del Consiglio del luglio 1975, nella quale si invitavano gli Stati membri
a fissare entro il 31 dicembre 1978 la durata minima delle ferie annue retribuite in 4
settimane. Invece, per quanto riguarda la durata settimanale del lavoro si stabiliva il
principio che, in tutta l’U.E., la durata normale della settimana lavorativa non avrebbe
dovuto superare le 40 ore. Qualche anno dopo la Risoluzione del Consiglio del dicembre
1979 sulla ristrutturazione del tempo di lavoro dava delle indicazioni in materia di lavoro
atipico, fissando alcune linee guida con riguardo al lavoro a turni, e sosteneva di limitare il
ricorso sistematico al lavoro straordinario con l’introduzione dell’istituto del riposo
compensativo.

Le problematiche connesse alla regolazione dell’orario di lavoro sono state riprese dopo
l’approvazione della Carta dei diritti sociali fondamentali, tant’è vero che, sulla base di
alcune sue previsioni, la Commissione nel settembre 1990 presentò una proposta di
direttiva in materia di orario di lavoro. Qui, veniva sottolineata la crucialità delle misure di
ristrutturazione e flessibilità del tempo di lavoro, che erano rilevanti non solo per quanto
riguardava la creazione di nuova occupazione e della tutela della salute dei lavoratori ma
anche per le importanti implicazioni sulle condizioni di concorrenza fra le imprese.

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Proprio questo motivo vi era la necessità di una direttiva che contenesse alcune norme
minime. La direttiva, che fu successivamente approvata, ebbe dei contenuti molto
circoscritti, che riguardavano solo alcuni aspetti fondamentali dell’organizzazione
dell’orario di lavoro, considerati maggiormente importanti sotto il profilo della salute e
della sicurezza dei lavoratori. Dopo una prima riforma nel 2000, oggi il diritto vigente in
materia è si trova nella direttiva n°88/2003.
CONTENUTO DELLA DIRETTIVA: la direttiva è applicabile sia nel settore privato sia in
quello pubblico e riguarda la materia della durata settimanale del lavoro, dei riposi, del
lavoro a turni e del lavoro notturno, definendo, inoltre, l’orario di lavoro, il periodo di
riposo, il periodo notturno, il lavoratore notturno, il lavoro e il lavoratore a turni e il riposo
adeguato. L’orario di lavoro è inteso come quel periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a
disposizione (inteso come reperibilità) del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle
sue funzioni, secondo quanto previsto dalle legislazioni nazionali. I 3 criteri lì indicati sono
concorrenti e non alternativi, così come specificato dalla Corte di Giustizia. Il periodo
notturno si deve intendere come qualsiasi periodo di almeno 7 ore, definito dalla legislazione
nazionale e che comprenda in ogni caso l’intervallo fra le 24 e le 5. Quindi, il lavoratore notturno
è un qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga almeno 3 ore del suo tempo di
lavoro giornaliero, impiegate in modo normale. La durata massima settimanale della
prestazione lavorativa non può superare le 48 ore per ogni periodo di 7gg comprese le ore
di lavoro straordinario. Questo limite, però, è dato medio: infatti, le 48 ore devono essere
rispettate in un periodo di riferimento non superiore a 4 mesi, che la legge o i contratti
collettivi possono elevare fino a 6 mesi, a meno che quest’ultimi non siano stati autorizzati
dagli Stati membri ad elevarlo fino a un massimo di 1 anno a condizione che ricorrano
ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro. La direttiva non si
preoccupa di definire la durata massima giornaliera e si concentra, piuttosto, sull’insieme
della materia dei riposi giornaliero, settimanale e annuale. Tuttavia, in numerose
legislazioni nazionali è ancora presente una normativa riguardante la durata massima
giornaliera della prestazione lavorativa, perché l’obiettivo è quello di tutela della salute
dei lavoratori. Resta comunque ferma la possibilità degli Stati membri di applicare
normative più favorevoli. In tema di riposo annuale, dopo l’intervento del Parlamento
Europeo, è stata modificata la generica formulazione del diritto ad avere un periodo
minimo di ferie annuali con l’avere diritto ad un periodo minimo di almeno 4 settimane, il
quale non deve essere suscettibile di sostituzione con erogazioni patrimoniali, salvo in
caso di cessazione del rapporto di lavoro. Per quanto riguarda i riposi giornalieri e
settimanali, la direttiva fissa l’obbligo per gli Stati membri di adottare le misure necessarie
per assicurare che ogni lavoratore possa nel corso di 24 ore beneficiarie di un periodo
minimo di riposo di 11 ore consecutive e per ogni periodo di 7gg di un periodo minimo di
riposo ininterrotto di 24 ore, a cui si sommano le 11 ore di riposo giornaliero. Il riposo
settimanale può essere determinato anche con riguardo ad un periodo di riferimento
superiore a 7gg ma non superiore ai 14gg. Inoltre, il lavoratore ha diritto a godere di una
pausa se la prestazione lavorativa giornaliera supera le 6 ore. Le modalità e la durata della
pausa vengono fissate dalla contrattazione collettiva o in mancanza dalla legge.
La seconda parte della direttiva riguarda, invece, alcuni aspetti del lavoro notturno e del
lavoro a turni. Sulla base del Rapporto Taddei (è uno studio preparato per il governo

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francese ma poi rielaborato su incarico della Commissione) la Commissione si è espressa


favorevolmente al ricorso al lavoro a turni, in quanto l’ha considerato uno strumento
adeguato per incrementare le capacità produttive delle imprese e i livelli occupazionali. La
normativa adotta, però, delle cautele sul lavoro notturno ed evidenzia la necessità di
particolari controlli medici per coloro che vi sono coinvolti. Per questo motivo sono stati
individuati una serie di criteri volti alla tutela della salute del lavoratore:
➢ l’orario di lavoro normale dei lavoratori notturni non deve superare le 8 ore in
media per periodo di 24 ore;
➢ i lavoratori notturni, soggetti a rischi particolari o a rilevanti tensioni fisiche o
mentali, non devono lavorare più di 8 ore nel periodo di 24 ore in cui effettuano un
lavoro notturno;
➢ i lavoratori notturni devono beneficiare di una valutazione gratuita del loro stato di
salute prima della loro assegnazione ed in seguito ad intervalli regolari;
➢ qualora risultino dei problemi di salute, che presentino un nesso riconosciuto con la
prestazione di lavoro notturno, devono essere trasferiti, quando possibile, ad un
lavoro diurno per il quale risultino idonei;
➢ il datore di lavoro, che fa regolarmente ricorso a lavoratori notturni, ha l’obbligo di
informare le autorità competenti;
➢ i lavoratori notturni e quelli inseriti in turni devono beneficiare di un livello di
protezione in materia di sicurezza e di salute che sia adattato alla natura del lavoro.
Le disposizioni della direttiva che riguardano gli obiettivi di tutela della salute devono
considerarsi inderogabili. Tuttavia, sono ammesse delle deroghe in tema di riposo
giornaliero e settimanale, di pause, di durata del lavoro notturno o di periodi di
riferimento per l’applicazione delle regole sul riposo settimanale. Le disposizioni
derogatorie, contenute nell’art. 17, non possono essere invocate direttamente nei confronti
dei singoli ma spetta ai legislatori nazionali scegliere se avvalersene o meno. In questo
modo la direttiva garantisce anche gli obiettivi di flessibilità, che sono tanto voluti nel
mercato. Il massimo di elasticità della normativa comunitaria va rintracciato nella
previsione con la quale viene riconosciuta all’autonomia contrattuale individuale il potere
di derogare alle regole in tema di durata settimanale nella prestazione lavorativa. Il
consenso individuale, però, non può essere surrogato da quello sindacale. Tale
disposizione è stata oggetto di critiche da parte di alcuni Stati membri (tra cui l’Italia) e
solo in parte sono state attenuate dall’inserimento di una clausola di non regresso, in forza
della quale si dispone l’attuazione di una normativa comunitaria non costituisce una
giustificazione per il regresso del livello generale di protezione dei lavoratori.

La direttiva affronta le problematiche degli orari di lavoro con lo specifico intento di


salvaguardare la sicurezza e la salute dei lavoratori, incidendo in qualche modo anche
sull’occupazione. Negli anni seguenti all’adozione della direttiva i profili relativi alla
riorganizzazione e/o riduzione dei tempi di lavoro sono stati ripresi in ambito
comunitario solo con interventi di carattere non vincolante; anche se sul piano normativo
viene estesa la sfera di operatività della direttiva n°104/1993, che prima non si applicava
in certi settori, come i trasporti aerei o ferroviari. Il processo di estensione è avvenuto con
l’adozione di 3 direttive di carattere settoriale. 2 di queste hanno riguardato l’orario di

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lavoro della gente di mare e del personale di volo dell’aviazione civile; mentre la terza, che
è la direttiva n°34/2000, è la più importante perché ha modificato la direttiva n°104/1993
per comprendere i settori e le attività precedentemente esclusi. Il processo di adeguamento
degli ordinamenti nazionali alle prescrizioni europee in materia di orario di lavoro è
avvenuto in maniera molto faticosa e ciò è dimostrato dalle numerose procedure di
infrazione attivate dalla Commissione e dalle sentenze di condanna della Corte.

La Corte di Giustizia, nel corso del tempo, ha mantenuto ferma la propria giurisprudenza
in materia, consolidando la concezione binaria del tempo: infatti, ha precisato che la
nozione di orario di lavoro deve essere intesa in opposizione al periodo di riposo, in
quanto una esclude l’altra. Allo stesso modo le nozioni di orario di lavoro e di periodo di
riposo sono nozioni che devono essere definite secondo dei criteri oggettivi. Queste
indicazioni della Corte sono state criticate da parte di molti Stati membri, spingendo la
Commissione a presentare delle proposte di modifica, che non sono state ancora
approvate. Non meno importante è la giurisprudenza della Corte in materia di ferie.
Infatti, essa aveva affermato che l’espressione “secondo le condizioni di ottenimento e di
concessione previsti dalle legislazioni nazionali” si riferisce alle sole modalità di
applicazione delle ferie annuali retribuite nei diversi Stati membri, che devono essere
minimo di 4 settimane. E’ una norma in linea di principio inderogabile, senza avere
possibilità di sostituirvi un’attribuzione patrimoniale, se non in caso di cessazione del
rapporto di lavoro. Il nostro ordinamento, con il D. Lgs. n°213/2004, ha sì adottato il
periodo minimo di almeno 4 settimane di ferie annuali ma ha precisato che esso va goduto
per almeno 2 settimane nel corso dell’anno di maturazione e per le restanti nei 18 messi
successivi. La Corte di Giustizia ha affrontato il problema del rapporto tra diritto alle ferie
e malattia insorta durante il periodo di maturazione dello stesso, affermando che il diritto
alle ferie annuali retribuite non è un diritto che si matura solo se si ha effettivamente
lavorato durante il periodo di riferimento. Pertanto, uno Stato membro, che nelle linee
guida per l’attuazione dei diritti alle ferie e ai riposi indichi che il datore di lavoro non è
tenuto garantire che i lavoratori godano effettivamente di questi diritti, non garantisce
l’osservanza delle prescrizioni minime fissate e non persegue lo scopo fondamentale.
Quindi, qualora la violazione della norma europea determini un danno in capo al
lavoratore, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno, da corrispondere mediante la
concessione di tempo libero aggiuntivo o, in alternativa, mediante il pagamento di
un’indennità pecuniaria. La Corte ha anche puntualizzato che le varie nozioni di ambienti
di lavoro, sicurezza o salute possono essere interpretate estensivamente, facendo
ricomprendere tutti i fattori, fisici e di altra natura, in grado di incidere sulla salute e sulla
sicurezza del lavoratore.
La connessione fra la disciplina degli orari di lavoro e la politica della concorrenza è
venuto in rilievo proprio con riguardo a una questione legata al lavoro domenicale. Alla
Corte fu chiesto, infatti, di chiarire se una normativa nazionale, che vietava l’apertura
domenicale degli esercizi commerciali al minuto, potesse considerarsi una restrizione
quantitativa all’importazione, vietata da quello che l’attuale art. 30 TCEE. La risposta fu
negativa, perché la Corte spiegò che queste norme non hanno lo scopo di disciplinare i
flussi di scambio tra Stati membri ma sono espressione di determinate scelte politiche ed

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economiche legate alla peculiarità socio-culturale nazionale o regionale, la cui valutazione


spetta agli Stati membri. Con riferimento al lavoro notturno femminile dobbiamo fare
riferimento al caso Stoeckel, il quale nasceva da un procedimento penale a carico di un
imprenditore accusato di aver violato le disposizioni legali francesi, che vietavano il lavoro
notturno delle donne. A differenza del caso riguardante il lavoro notturno nelle panetterie,
la Corte non prese in considerazione l’esistenza di una normativa Oil che avrebbe potuto
avvalorare il divieto e si orientò per un’applicazione rigida dei principi paritari fissati
dalla direttiva n°207/1976, perché essa non avrebbe la finalità di disciplinare questioni
relative all’organizzazione della famiglia o di modificare la ripartizione delle
responsabilità all’interno della coppia e, quanto ai rischi di aggressione che incombono
sulle donne, ammesso che siano maggiori di notte che di giorno, possono essere
predisposte misure adeguate senza pregiudicare il principio fondamentale della parità di
trattamento tra uomini e donne. La Corte di Giustizia fa salvi i casi di donne in gravidanza
e maternità, in quanto i rischi sono diversi. Questa decisione provocò reazioni contrastanti,
al punto che la Corte nel successivo caso Lavy assunse una posizione molto più cauta. In
pratica, essa ha affermato che neppure l’esigenza di rispettare il principio fondamentale di
parità di trattamento può consentire ad uno Stato membro di sottrarsi agli obblighi
derivanti da convenzioni internazionali, concluse anteriormente all’entrata in vigore del
Trattato medesimo. Quindi, possiamo affermare che gli orientamenti della Corte di
Giustizia sono rimasti immutati: per un verso, è stata ribadita la piena compatibilità del
divieto di lavoro notturno delle donne in gravidanza e, per altro verso, ha condannato
diversi Stati membri (tra cui Francia e Italia) per aver mantenuto in vigore disposizioni che
vietavano il lavoro notturno delle donne.

CAPITOLO 9 – Sicurezza e ambiente di lavoro


Le disposizioni introdotte nel Trattato di Roma con l’Atto Unico del 1987 hanno dato
grande impulso all’azione europea di tutela delle condizioni di salute e sicurezza dei
lavoratori nei luoghi di lavoro. Le prime iniziative in materia si inquadrano nell’ambito
del Trattato CECA. Nel 1957, dopo la sciagura di Marcinelle nella quale 264 lavoratori
italiani morirono in una miniera belga per lo scoppio di un incendio, fu creato Organo
permanente per la sicurezza nelle miniere di carbone, a cui fu affidato il compito di preparare
proposte da sottoporre agli Stati membri in questa materia. Una svolta si ha nel 1974 con il
“Programma di azione sociale”, con il quale il Consiglio ha riconosciuto il rilievo delle
iniziative in materia di salute, di sicurezza dei lavoratori e di promozione del
miglioramento delle condizioni di lavoro. Fu costituito nello stesso anno il “Comitato
consultivo per la sicurezza, l’igiene e la tutela della salute sul luogo di lavoro. Gli anni ’80
furono gli anni dell’approvazione di numerose direttive, cui la prima viene considerata la
madre delle altre 4:
❖ direttiva n°1107/1980 sulla protezione contro i rischi derivanti dall’esposizione ad
agenti chimici, fisici e biologici;
❖ direttiva n°605/1982 sulla protezione contro i rischi connessi all’esposizione al
piombo metallico;
❖ direttiva n°477/1983 sull’esposizione all’amianto;
❖ direttiva n°188/1986 sull’esposizione al rumore;

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❖ direttiva n°364/1988 sulla proibizione di certi agenti specifici e/o di certe attività.
Queste direttive sono state trasposte in Italia con il D. Lgs. n°277/1991, il quale è ormai
trasfuso nel D. Lgs. n°81/2008, che è il c.d. Testo unico in materia di tutela della salute e
della sicurezza nei luoghi di lavoro. Ciò provocò polemiche. L’ordinamento italiano risulta
fondato sul criterio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, che è molto più rigoroso
di quelli che fanno leva sulla ragionevole praticabilità delle misure da adottare. Quindi, ci
si è chiesto se il legislatore italiano, stabilendo in relazione ai rischi da esposizione a
piombo e rumore l’obbligo di apprestare le misure concretamente attuabili, non abbia
voluto adeguarsi allo standard comunitario, con conseguente abbassamento del livello di
tutela già previsto nel nostro ordinamento. L’esperienza applicativa ha ridimensionato le
preoccupazioni, anche in considerazione del fatto che la formula “misure concretamente
attuabili” è indeterminata e permette un’interpretazione ampia e coincidente con la
normativa europea e con la normativa italiana previgente.

Se in passato le direttive basate sull’art. 100 TCEE richiedevano il raggiungimento


dell’unanimità per la loro approvazione, a partire dal 1986, con l’inserimento nel Trattato
dell’art. 118°, si ammise la possibilità che le deliberazioni in materia avvenissero a
maggioranza qualificata. Successivamente, con l’inserimento dell’art. 137 TCE (attuale art.
153), sono stati legittimati gli interventi normativi dell’U.E. sull’insieme delle condizioni di
lavoro. In ogni caso, il concetto di “prescrizioni minime” deve essere interpretato nel senso
di riconoscere la possibilità degli Stati Membri di adottare norme più rigorose di quelle
che sono oggetto dell’intervento comunitario. Inoltre, le direttive devono evitare di
imporre vincoli amministrativi, finanziari e giuridici tali da ostacolare la creazione e lo
sviluppo di piccole e medie imprese.

Dopo l’approvazione dell’Atto Unico si avvia un terzo programma di azione in materia di


sicurezza, igiene e salute nei luoghi di lavoro attraverso la Risoluzione del Consiglio del
dicembre 1987. Il risultato più evidente di questo programma è l’approvazione della
direttiva n°391/1989, la quale contiene misure volte a promuovere il miglioramento della
sicurezza e della salute dei lavoratori. In questa direttiva si afferma che il miglioramento
delle condizioni di salute e sicurezza non può dipendere da considerazioni di carattere
puramente economico. Essa si applica a tutti i settori di attività pubbliche e private, con
poche eccezioni per le forze armate, polizia e servizi di protezione civile. La direttiva si
articola in 2 sezioni, riguardanti gli obblighi delle parti contrattuali:
1. Obblighi del datore di lavoro: egli deve garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori,
assumendo le misure necessarie per la protezione della loro sicurezza e salute. La
responsabilità è personale e può essere esclusa o attenuata solo con riguardo ad
eventi eccezionali e imprevedibili, come la forza maggiore. Il datore di lavoro non
può delegare i suoi poteri in materia di sicurezza. I principi generali di prevenzione
dispongono di tenere certe condotte:
• evitare i rischi;
• valutare quelli che non possono essere evitati;
• combattere i rischi alla fonte;
• attenuare il lavoro monotono e ripetitivo;

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• dare priorità alle misure di protezione collettiva;


• impartire adeguate istruzioni ai lavoratori.
Il datore di lavoro è tenuto anche all’obbligo di aggiornamento scientifico, nonché
di specifici doveri in materia di pronto soccorso, lotta antincendio o evacuazione
dei lavoratori. Quando sullo stesso luogo di lavoro ci sono lavoratori di diverse
imprese i datori di lavoro devono cooperare all’attuazione delle disposizioni
relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute, coordinando i metodi di protezione e
di prevenzione dei rischi. Il datore di lavoro deve anche fornire ai lavoratori e/o ai
loro rappresentanti tutte le informazioni necessarie riguardanti i rischi per la
sicurezza e la salute, nonché le misure e le attività di protezione e prevenzione,
garantendo a ciascun lavoratore la formazione sufficiente ed adeguata. I lavoratori
hanno diritto di essere consultati e di partecipare su tutte le questioni riguardanti
questa materia e possono presentare (come anche i loro rappresentanti) delle
proposte.
2. Obblighi del lavoratore: deve prendersi cura della propria sicurezza, della propria
salute e delle persone su cui possono ricadere le conseguenze delle sue azioni od
omissioni. Ciò vuol dire che, per esempio, il lavoratore deve utilizzare in modo
corretto i macchinari.
Sulla base dell’art. 16 direttiva n°391/1989, che prevede espressamente l’adozione di
direttive particolari, sono state approvate ben 19 direttive figlie riguardanti vari temi
(segnaletica e sicurezza, vibrazioni, rumori o campi elettromagnetici sono degli esempi).
Anche se gli interventi normativi sono diminuiti, l’attenzione è sempre alta visto che gli
infortuni sul lavoro sono ancora alti. Possiamo ricordare anche l’istituzione dell’Agenzia
europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, il programma SAFE per promuovere la corretta
applicazione della normativa nelle piccole e medie imprese ed il programma Phare per il
sostegno finanziario per l’adeguamento degli ambienti di lavoro. Un altro importante dato
è offerto dall’accordo tra le parti sociali europee in merito ai problemi derivanti da stress
da lavoro, rivisto nel 2008, e che contiene la definizione di stress, che inteso come uno stato
che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali e che consegue dal fatto
che le persone non si sentono in grado di superare i gap rispetto alle richieste o alle attese nei loro
confronti.

La direttiva n°85/1992 riguarda l’ambito della tutela delle lavoratrici gestanti, puerpere o
in fase di allattamento. I contenuti della direttiva costituiscono il compromesso tra
l’esigenza di tutela delle lavoratrici e l’esigenza di non comportare per le imprese
l’imposizione di misure troppo gravose. In particolare, la direttiva prevede la possibilità
della lavoratrice di richiedere una modificazione delle condizioni di lavoro e/o dell’orario
di lavoro, nonché nei casi più gravi di una dispensa, che comunque garantisce alla
lavoratrice il percezione della retribuzione. Con riferimento al lavoro notturno, esse non
possono essere obbligate a svolgerlo durante la gravidanza o subito dopo; ma in questo
caso è necessaria un’attestazione medica. Il congedo di maternità ha la durata di 14
settimane, suddividibili tra prima e dopo il parto. L’art. 10 della direttiva dispone un
divieto di licenziamento, per tutelare le lavoratrici tra l’inizio della gravidanza e il termine
di congedo della maternità. La tutela non è legata allo stato obiettivo di gravidanza (come

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è in Italia) ma alla circostanza che il datore venga informato dalla lavoratrice del suo stato
interessante. Lo standard protettivo europeo è inferiore a quello del nostro ordinamento.
Tuttavia, il livello non può considerarsi più basso adesso, in quanto la direttiva prevede,
con una clausola di non regresso, che la sua trasposizione non può giustificare un
abbassamento della tutela già presente nell’ordinamento nazionale.

La direttiva n°33/1994 riguarda la protezione dell’infanzia e degli adolescenti. Essa ha il


compito di proteggere i giovani dallo sfruttamento economico e da ogni possibile lavoro
che nuoce alla loro salute, sicurezza e sviluppo fisico e psicologico, compromettendone la
loro istruzione. La tutela del lavoro giovanile dev’essere assicurata attraverso misure
concernenti l’età minima di accesso al lavoro, la durata dell’orario di lavoro, il lavoro
notturno e i riposi. Riguarda tutte le persone di età inferiore a 18 anni, che abbiano
stipulato un contratto o un rapporto di lavoro. Inoltre, distingue tra:
A. Bambini: sono i giovani che non hanno ancora compiuto i 15 anni e hanno ancora gli
obblighi scolastici a tempo pieno imposti dalla legislazione nazionale. In linea di
principio, è vietato che possa farsi lavorare un bambino, per cui ne segue che l’età
minima di ammissione al lavoro si raggiunge almeno con il compimento dei 15 anni
di età, a meno che non ci siano obblighi scolastici da assolvere. I bambini possono
essere ammessi a lavoro ma solo con riferimento all’impiego in attività di carattere
culturale, artistico, sportivo o pubblicitario. Non possono lavorare più di 7 ore al
giorno e più di 35 ore alla settimana e hanno diritto a 14 ore di riposo consecutive
ogni periodo di 24 ore e di 2gg ogni periodo di 7gg. Per loro è fatto un rigoroso
divieto di lavoro notturno, per cui essi non possono lavorare fra le ore 20 e le 6.
B. Adolescenti: sono i giovani di almeno 15 anni che non hanno ancora compiuto 18
anni e che non hanno più obblighi scolastici a tempo pieno. Non possono lavorare
più di 8 ore al giorno e più di 40 ore alla settimana e hanno diritto a 12 ore di riposo
consecutive ogni periodi 24 ore e di 2gg ogni periodo di 7gg. Essi non possono
lavorare tra le ore 22 e le 6 oppure tra le ore 23 e le 7.
Sia bambini sia adolescenti non possono lavorare quando si tratti di attività:
➢ che vadano oltre le loro capacità;
➢ che implichino un’esposizione nociva ad agenti di diverso tipo, come possono
essere le radiazioni;
➢ che presentino rischi di incidenti dovuti al loro scarso senso di sicurezza;
➢ che implichino pericolo per la loro salute in generale.

CAPITOLO 10 – Ristrutturazioni e crisi di impresa


Sono 3 le direttive che sono state varate a partire dal 1974 per cercare di attenuare le
conseguenze sui lavoratori delle ristrutturazioni e riorganizzazioni aziendali o nel caso di
situazioni di crisi d’impresa:
➢ direttiva sui licenziamenti collettivi;
➢ direttiva in materia di trasferimento d’impresa;
➢ direttiva sull’insolvenza del datore di lavoro.

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Il contesto storico è quello del primo shock petrolifero, che si fece sentire con un
incremento del tasso di disoccupazione.

DIRETTIVA N°187/1977 – Trasferimento d’imprese: essa trova la sua base giuridica in


quello che è l’attuale art. 115 TFUE (sulla possibilità di proporre direttive di
ravvicinamento volte a un miglior funzionamento del mercato interno). E’ stata
successivamente modificata e formalmente abrogata dalla direttiva n°23/2001. In pratica,
questa direttiva si riferisce ai casi di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di
imprese o di stabilimenti ad un nuovo imprenditore in seguito a cessione contrattuale o a
fusione, purché il complesso aziendale da trasferire si trovi ubicato nel territorio dell’U.E.
Ne è la P.A. in senso stretto. Quest’ultima direttiva definisce trasferimento d’impresa
quello di un’entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi
organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria. L’obiettivo è
quello di impedire che la ristrutturazione nell’ambito del mercato comune si effettui a
danno dei lavoratori delle imprese coinvolte, garantendo la salvaguardia dei diritti dei
lavoratori in caso di cambiamento di datore di lavoro e permettendo loro di restare alle
dipendenze del cessionario nella stessa situazione convenuta con il cedente. Tale obiettivo
è perseguito mediante una duplice serie di disposizioni, che riguardano:
I. Mantenimento dei diritti dei singoli: sul piano individuale, la norma cardine è l’art. 3.1,
il quale assicura la continuità dei contratti di lavoro, cioè i diritti e gli obblighi, che
risultano per il cedente da un contratto di lavoro esistente alla data del
trasferimento sono, ipso iure, trasferiti al cessionario. Il principio di mantenimento
dei diritti dei lavoratori risulterebbe, peraltro, largamente svuotato di contenuto se
non potesse applicarsi anche alle condizioni di lavoro fissate dai contratti collettivi.
Pertanto, al fine di evitare tale svuotamento, il legislatore ha preso in considerazione
2 ipotesi:
a. nel caso in cui non risulti applicato alcun contratto collettivo da parte
dell’imprenditore cessionario, questi sarà tenuto a dare applicazione alle
discipline collettive applicate dal cedente, fino alla data della loro scadenza;
b. l’imprenditore cessionario non è vincolato al rispetto dei contratti collettivi,
applicati nell’impresa del cedente, nella differente ipotesi in cui egli dia
applicazione ad un proprio contratto collettivo, già presente prima della
scadenza del contratto collettivo applicato dal cedente e quindi presente al
momento del trasferimento.
I problemi che si vengono a creare sono evidenti: infatti, a fronte di sistemi di
contrattazione collettiva articolati su più livelli negoziali, il problema cruciale per
determinare l’ampiezza degli obblighi gravanti sull’imprenditore cessionario è
quello di accertare a quale livello possa ritenersi operante l’effetto di sostituzione.
Nel nostro ordinamenti il problema è stato risolto dal D. Lgs. n°18/2001, il quale,
dopo aver stabilito che il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e
normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti
alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri
contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario, precisa che l’effetto di
sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello.

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Inoltre, è disposto che il trasferimento d’impresa non può costituire, di per sé,
motivo di licenziamento né per il cedente né per il cessionario, ferma restando la
possibilità di effettuare quei licenziamenti dovuti a motivi economici, tecnici o di
organizzazione che comportano valutazioni sul piano dell’occupazione. Quindi, per
capire se un licenziamento è in contrasto con la direttiva, bisogna valutare le
circostanze oggettive in cui il licenziamento è avvenuto: se, ad esempio, si è
verificato in data vicina al trasferimento e l’interessato è stato riassunto dal
cessionario è presumibile che il licenziamento sia irregolare, per cui anche in caso di
mancata riassunzione il contratto di lavoro deve essere considerato ancora esistente
nei confronti del cessionario. Infine, se, dopo il trasferimento, il contratto di lavoro
viene risolto a seguito di una sostanziale modifica delle condizioni di lavoro (da
considerarsi come modifica in pejus), la risoluzione deve considerarsi dovuta a
responsabilità del datore di lavoro, assicurando al lavoratore il versamento della
retribuzione e le altre prestazioni relative al periodo di preavviso.
II. Aspetti di diritto collettivo delle vicende circolatorie delle imprese: in materia di diritti
collettivi, va segnalata in primo luogo la protezione che la direttiva riconosce alle
rappresentanze aziendali dei lavoratori, le quali sono destinate a restare in funzione,
qualora l’entità trasferita conservi propria autonomia (in caso contrario, gli Stati
membri sono tenuti ad adottare le misure necessarie per assicurare ai lavoratori
trasferiti una rappresentanza durante il periodo necessario per la costituzione della
nuova rappresentanza aziendale). L’elemento importante è la previsione di una
procedura di informazione e consultazione, quale strumento di tutela. La direttiva
prevede l’obbligo per il cedente ed il cessionario di informare in tempo utile i
rappresentanti dei lavoratori ed indica l’oggetto dell’informazione (data del
trasferimento, motivi, conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori,
misure previste nei confronti degli stessi). All’informazione dovrà fare seguito una
consultazione sulle misure eventualmente previste nei confronti dei lavoratori, al
fine di ricercare un accordo, che non c’è obbligo di raggiungere. Gli obblighi
procedurali possono essere limitati laddove esista la possibilità per i rappresentanti
dei lavoratori di ricorrere ad un’istanza di arbitrato. In ogni caso gli Stati membri
possono escludere dalla soggezione alla procedura di informazione e consultazione
le imprese che non soddisfano (per quanto riguarda il numero dei lavoratori
occupati) le condizioni per la costituzione della rappresentanza aziendale dei
lavoratori. Il mancato adeguamento dell’ordinamento italiano alle previsioni della
direttiva in tema di informazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori è
stato a suo tempo sanzionato dalla Corte di Giustizia, che non si trovava di fronte a
contratti collettivi con efficacia erga omnes.
La direttiva in materia di trasferimenti d’imprese è stata presa in considerazione in
numerosissime occasioni dalla Corte di Giustizia.
Per quanto riguarda i destinatari della direttiva, essa si applica esclusivamente ai titolari
di rapporto di lavoro in corso alla data del trasferimento. Per individuare chi sono i
lavoratori, bisogna fare riferimento a una nozione europea, per cui, secondo la Corte, la
direttiva tutela solo coloro che sono, in un modo o nell’altro, protetti in quanto lavoratori
dalle norme dello Stato membro di cui trattasi. Tuttavia, la disciplina più recente precisa

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che la tutela non può essere negata ai part-timers, ai lavoratori a termine ed ai lavoratori
interinali per il solo fatto di essere coinvolti in un rapporto di lavoro atipico.
Per quanto riguarda l’ambito oggettivo della direttiva, la Corte ha delineato anche la
nozione di trasferimento d’impresa, cercando di allargarla il più possibile. In questo modo,
la direttiva è applicabile ai trasferimenti parziali d’impresa ed anche ad ipotesi di affitto di
azienda, in quanto i dipendenti dell’impresa che cambia imprenditore senza trasferimento
di proprietà si trovano in una situazione analoga a quella dei dipendenti dell’impresa
venduta. Più in generale la Corte, a partire dal caso Spijkers, ha elaborato un criterio
interpretativo di fondo in base al quale deve ritenersi che si ha trasferimento d’impresa ai
sensi della direttiva tutte le volte che la vicenda circolatoria riguardi un’entità economica
ancora esistente, la quale dopo il trasferimento conservi la propria identità. La verifica del
criterio dipende dalle circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione e a nessuna presa
singolarmente può riconoscersi rilievo decisivo. Non va dimenticato che il requisito della
cessione dei beni materiali non implica necessariamente il trasferimento della proprietà
degli stessi, come nel caso dei contratti di appalto, dove accade spesso che i mezzi
necessari all’esercizio dell’impresa vengano messi a disposizione di ogni successivo
appaltatore da parte del committente per la durata del contratto di appalto. Si manifesta,
così, la differenza tra il trasferimento di attività (cui non è applicabile la direttiva) e il
trasferimento d’impresa”. La Corte ha ritenuto inapplicabili i principi della direttiva
nell’ipotesi in cui il cedente sia stato dichiarato fallito, poiché potrebbe nuocere alla
salvaguardia dei posti di lavoro. Il legislatore europeo ha in linea di massima raccolto le
indicazioni della Corte e con la direttiva n°23/2001 ha voluto tracciare un nuovo punto di
equilibrio tra garanzie individuali dei lavoratori, tutela dei livelli occupazionali e
salvaguardia della sopravvivenza dell’impresa.
Per quanto riguarda la portata della direttiva, la Corte ha precisato che anche i diritti dei
lavoratori sorti anteriormente al trasferimento devono essere fatti valere nei confronti del
cessionario. Inoltre, l’imperatività della disciplina europea vuole che le disposizioni
devono ritenersi inderogabili tanto dall’autonomia privata individuale quanto da quella
collettiva.
Infine, la Corte, interpretando l’art. 3 della direttiva, ha chiarito che, in occasione di un
trasferimento d’impresa, le condizioni del rapporto di lavoro non possono essere
modificate. Qualora, però, il diritto nazionale consenta, al di fuori dell’ipotesi di un
trasferimento d’impresa, di modificare il rapporto di lavoro in senso sfavorevole ai
lavoratori, una modifica del genere non è esclusa per via del semplice fatto che l’impresa
sia stata nel frattempo trasferita. In merito alle sanzioni per violazione degli obblighi di
informazione e consultazione, la Corte ha ricordato che gli Stati membri conservano un
potere discrezionale in merito alla scelta delle sanzioni, le quali devono avere il medesimo
carattere di effettività, proporzionalità e capacità dissuasiva delle sanzioni previste per le
violazioni del diritto interno simili.

DIRETTIVA N°129/1975 – Licenziamenti collettivi: la sua base giuridica è quello che ora è
l’art. 115 TFUE e fu adottata per far fronte alle conseguenze derivanti dai licenziamenti
collettivi, cercando anche di delinearne le modalità e le procedure. La versione iniziale si
limita ad intervenire esclusivamente sugli aspetti procedurali delle riduzioni di personale

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progettate dai datori. Sulla scorta delle indicazioni contenute nella Carta dei diritti sociali
fondamentali dei lavoratori, ci sono state ulteriori modifiche e, da ultimo, la disciplina
vigente si trova nella direttiva n°59/1998. Il campo di applicazione è rappresentato dal
licenziamento collettivo ma cosa si intende per esso? A tal fine si fa riferimento a 2
caratteri:
1. Elemento quantitativo: per licenziamento collettivo deve intendersi il licenziamento
effettuato da un datore di lavoro per uno o più motivi non inerenti alla persona del
lavoratore, per cui la causa del provvedimento dovrà essere di ordine economico-
produttivo o tecnico-organizzativo.
2. Elemento qualitativo: un licenziamento può definirsi collettivo se l’estinzione del
rapporto riguarda:
• nell’arco di 30gg:
i. almeno 10 lavoratori in stabilimenti che occupano abitualmente più di
20 e meno di 100 lavoratori;
ii. almeno il 10% di lavoratori in stabilimenti che occupano abitualmente
almeno 100 e meno di 300 lavoratori;
iii.almeno 30 lavoratori negli stabilimenti che occupano abitualmente
almeno 300 lavoratori;
• nell’arco di 90gg almeno 20 lavoratori, a prescindere dalla consistenza
dell’organico dell’unità produttiva interessata.
La disciplina non riguarda i lavoratori a termine (a meno che il licenziamento non avvenga
prima della scadenza del termine), i pubblici dipendenti e gli equipaggi di navi marittime.
La Corte di Giustizia, precisando che per licenziamento collettivo si intende ogni
licenziamento effettuato dal datore di lavoro, ha ritenuto che il datore di lavoro non può
direttamente provvedere a un licenziamento collettivo solo in quanto versa in una
situazione di grave difficoltà finanziaria. Va tenuto conto, inoltre, che c’è la possibilità di
ricorrere ad altre forme di cessazione del rapporto di lavoro come il prepensionamento o le
dimissioni incentivate.
A fronte di una decisione di riduzione del personale, la direttiva impone al datore un
obbligo di informazione e di consultazione nei confronti dei rappresentanti dei lavoratori.
L’obbligo di informazione prevede che il datore fornisca in tempo utile tutte le informazioni
utili, affinché i rappresentanti dei lavoratori possano formulare proposte costruttive, e
comunichi per iscritto quelle espressamente indicate. L’obbligo di consultazione prevede che
in essa siano esaminate le possibilità di evitare o ridurre i licenziamenti collettivi, nonché
di attenuare le conseguenze ricorrendo a misure sociali di accompagnamento. L’obiettivo è
quello di giungere ad un accordo, per cui possiamo dire che sia presente solo un obbligo a
trattare. Gli obblighi di consultazione e informazione devono ritenersi operanti a
prescindere dal fatto che le decisioni riguardanti i licenziamenti collettivi siano prese dal
datore o da un’impresa che lo controlli. Si tratta di una previsione che ha delle assonanze
con la soluzione c.d. dell’ostaggio, accolta nel secondo progetto Vredeling: in pratica, il
datore diretto deve ritenersi in ogni caso soggetto ai vincoli imposti dal diritto europeo,
senza possibilità di ridurre la procedura di consultazione e informazione ad un
adempimento meramente formale. In caso di mancato accordo tra le parti è importante la
seconda fase della procedura preventiva al licenziamento collettivo, da svolgersi con

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l’intervento della pubblica autorità competente. A tal fine il datore di lavoro deve
notificare per iscritto a quest’ultima ogni progetto di licenziamento collettivo. La
comunicazione (di contenuto simile a quella già fornita ai rappresentanti) dovrà anche
dare conto delle consultazioni svolte con quest’ultimi. Una volta notificato alla pubblica
autorità, un progetto di licenziamento collettivo non potrà avere effetto se non trascorso
un periodo di 30gg dalla notifica. Gli Stati membri hanno la facoltà di ridurre o prolungare
i termini standard; mentre anche quella di non applicare la fase amministrativa qualora il
licenziamento collettivo dipenda da cessazione dovuta a decisione giudiziaria. Non si
prevedono sanzioni a fronte del mancato svolgimento di detta procedura né risulta
garantita l’effettività di quest’ultima, anche se la Commissione aveva proposto di
sanzionare con la nullità del licenziamento collettivo, cosa che scomparve per
l’opposizione britannica.
La direttiva in materia di licenziamenti collettivi non ha suscitato una produzione
giurisprudenziale quantitativamente consistente. Nei pochi interventi della Corte di
Giustizia è evidente, tuttavia, il suo impegno a garantire l’effettività del diritto europeo. In
merito alle sanzioni ha pio ribadito che le violazioni devono comportare nei singoli
ordinamenti nazionali l’applicazione di sanzioni effettive, proporzionali e dissuasive. Tra
queste pronunce dobbiamo poi ricordare quelle di condanna al nostro Paese per via del
suo mancato adeguamento. Infatti, la Corte ha rilevato che:
➢ non esisteva in Italia nessuna disciplina dei licenziamenti collettivi nei settori
agricolo e commerciale;
➢ nel settore industriale le previsioni dell’accordo interconfederale non imponevano
all’imprenditore di comunicare per iscritto le ragioni del licenziamento;
➢ né gli facevano obbligo di sottoporsi ad una procedura conciliativa posta in essere
con l’intervento della pubblica autorità competente.
La L. n°223/1991 ha infine provveduto all’adeguamento del nostro ordinamento, anche se
rispetto alla direttiva si registra un allargamento della nozione di licenziamento collettivo.
Questo dovrebbe favorire l’applicazione della direttiva a un numero maggiore di casi e
quindi garantire una maggiore tutela nei confronti dei lavoratori, per cui dovrebbe essere
una deroga ammessa dalla direttiva essendo più favorevole.

DIRETTIVA N°987/1980 – Insolvenza del datore di lavoro: la base giuridica è l’attuale art.
115 TFUE e ha per oggetto il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri al fine di
garantire i crediti dei lavoratori in ipotesi di insolvenza del datore di lavoro. E’ fondata sul
riconoscimento ai lavoratori di un privilegio con riguardo ai propri crediti di lavoro
coinvolti in procedure concorsuali. Essa è stata modificata, anche alla luce della
giurisprudenza della Corte di Giustizia, con la direttiva n°74/2002, che si basa, però,
sull’art. 153 TFUE, il quale permette al Consiglio di dettare, attraverso direttive approvate
a maggioranza qualificata, prescrizioni minime in materia di condizioni di lavoro, e da
ultimo con la direttiva n°94/2008. Quest’ultima direttiva specifica che un datore di lavoro
può considerarsi in stato di insolvenza quando ricorrono 2 condizioni:
1. la richiesta di apertura di una procedura concorsuale fondata sull’insolvenza, che
comporti lo spossessamento anche solo parziale del datore di lavoro;

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2. l’apertura della procedura ad opera dell’autorità competente o della constatazione


da parte di quest’ultima della chiusura definitiva dell’impresa e dell’insufficienza
dell’attivo disponibile per giustificare l’apertura del procedimento.
Le nozioni datore di lavoro e retribuzione sono accertabili in base a criteri propri di
ciascun ordinamento, mentre la nozione di lavoratore, sempre individuabile da criteri
nazionali, non può escludere i part-timers, i lavoratori a termine ed i lavoratori interinali,
secondo quanto disposto dall’ultima direttiva. La tutela non può essere condizionata
nemmeno ad una durata minima del rapporto di lavoro. Possono essere esclusi solo coloro
che in qualche modo possono accedere ad un’altra forma di garanzia, che deve essere
equivalente a quella europea per valere. Il meccanismo di tutela prefigurato ruota attorno
all’istituzione di appositi organismi di garanzia, di cui gli Stati membri possono fissare le
modalità di organizzazione, finanziamento e funzionamento, purché sia assicurato il
rispetto di tre principi di fondo:
a) il patrimonio degli organismi deve essere indipendente dal capitale di esercizio dei
datori di lavoro e costituito in modo da non poter essere sequestrato in un
procedimento in caso di insolvenza;
b) i datori di lavoro devono contribuire al finanziamento, a meno che quest’ultimo non
sia integralmente assicurato dai pubblici poteri;
c) l’obbligo di pagamento a carico degli organismi va adempiuto, indipendentemente
dal rispetto degli obblighi di contribuire al finanziamento.
Nei rapporti di lavoro transnazionali (cioè instaurati da imprese aventi attività sul
territorio di almeno 2 Stati membri) ha competenza l’organismo di garanzia dello Stato
membro sul cui territorio il lavoratore presta o prestava abitualmente il suo lavoro. La
tutela prospettata dalla direttiva riguarda il pagamento, da parte degli organismi di
garanzia, dei crediti retributivi maturati in relazione al periodo situato prima o dopo una
determinata data dagli Stati membri, con la precisazione secondo cui devono essere
ricomprese anche le indennità dovute ai lavoratori a seguito dello scioglimento del
rapporto di lavoro. La novella del 2002 ha confermato la facoltà degli Stati membri di
limitare nel tempo l’obbligo di pagamento degli organismi di garanzia ma ha abrogato
l’originaria previsione che consentiva loro di scegliere fra 3 date alternative (insorgere
dell’insolvenza, comunicazione del preavviso di licenziamento, cessazione del rapporto di
lavoro) da cui far decorrere l’arco temporale di riferimento per commisurare la garanzia
retributiva, rimettendo pertanto alla discrezionalità dei legislatori nazionali la
determinazione del dies a quo. Devono comunque essere garantite almeno le retribuzioni
maturate negli ultimi 3 mesi di rapporto di lavoro entro un periodo di riferimento non
inferiore a 6 mesi. Qualora venga fissato un periodo di riferimento di 18 mesi, devono
essere garantite le retribuzioni delle 8 settimane più favorevoli per il lavoratore. E’ stata
confermata anche la facoltà di fissare un tetto ai pagamenti effettuati dall’organismo di
garanzia: i massimali non devono essere inferiori ad una soglia socialmente compatibile
con l’obiettivo sociale della direttiva. Inoltre, la disciplina europea si limita ad autorizzare
gli Stati membri a non imporre ai fondi di garanzia l’onere dei contributi non versati dal
datore insolvente, dando loro la possibilità di scegliere a tal fine un altro sistema di
garanzia dei diritti dei lavoratori alle prestazioni previdenziali. La L. n°297/1982, istitutiva
del Fondo di garanzia, ha introdotto disposizioni ancora migliori sia perché assicura il

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pagamento di un salario differito (il TFR) sia perché tale pagamento è riconosciuto anche
in casi in cui il datore non sia assoggettabile a procedure concorsuali.
Caso Francovich: 2 giudici italiani si rivolsero alla Corte di Giustizia chiedendo se il
privato leso dalla mancata attuazione da parte dello Stato della direttiva n°987/1980
potesse citare in giudizio lo Stato inadempiente per ottenere il risarcimento dei danni
subiti. La risposta positiva si basò sulla constatazione che la piena efficacia delle norme
comunitarie sarebbe messa a repentaglio e la tutela dei diritti sarebbe infirmata, se i singoli
non avessero al possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una
violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro. Secondo le
indicazioni date nel caso Francovich, il diritto al risarcimento del danno potrà essere fatto
valere dal singolo a condizione che:
• il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei
singoli;
• il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della
direttiva;
• esista un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il
danno subito dai soggetti lesi.
Sussistendo questa triplice condizione spetterà al giudice nazionale provvedere a
determinare la misura del risarcimento del danno. Successivamente la Corte di Giustizia,
dopo aver chiarito che il risarcimento deve essere adeguato al danno subito al fine di
garantire una tutela effettiva dei diritti, ha sostenuto che un’applicazione retroattiva,
regolare e completa delle misure di attuazione della direttiva deve considerarsi a tal fine
sufficiente a meno che i beneficiari non dimostrino l’esistenza di danni ulteriori da essi
eventualmente subiti per non aver potuto fruire a suo tempo dei vantaggi pecuniari
garantiti dalla direttiva. L’ordinamento italiano si è adeguato ai principi della direttiva
europea con il D. Lgs. n°80/1992.

CAPITOLO 11 – L’europeizzazione dei rapporti collettivi


I rapporti collettivi di lavoro costituiscono materia resistente all’influenza del diritto
comunitario per via della marcata eterogeneità dei vari ordinamenti collettivi europei. Ciò
riguarda sia elementi fattuali dei rapporti collettivi di lavoro sia le forme di regolazione
giuridica di tali rapporti. Inoltre, c’è la ferma convinzione che i fenomeni collettivi
debbano essere per quanto possibile lasciati all’autonomia delle parti, per cui il potere
statale si limiterebbe eventualmente a stabilire regole di quadro e forme elementari di
riconoscimento e sostegno dell’autonomia collettiva. Per quanto riguarda le caratteristiche
di fatto delle relazioni collettive, la diversità è profonda in tutti gli elementi strutturali: il
tipo ed il grado di sindacalizzazione, la struttura ed i contenuti della contrattazione
collettiva, le dimensioni del conflitto, le forme e gli ambiti della partecipazione. Si va da
movimenti sindacali forti ed unitari come quelli belga e svedese a sindacati divisi e deboli
come quelli francese e spagnolo. Italia e Gran Bretagna rappresentano casi intermedi in cui
la forza sindacale è ancora considerevole ma indebolita dalle trasformazioni economico-
sociali e da conflitti interni. La struttura della contrattazione collettiva varia dal
tradizionale assetto basata sul contratto nazionale di categoria al forte decentramento

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tipico del sistema britannico. Altre diversità si hanno anche rispetto alla durata,
all’intensità e alla partecipazione al conflitto industriale.

I vari sistemi nazionali hanno reagito in modo diseguale alle nuove sfide. Le difficoltà
esistenti hanno indotto finora a contenere entro limiti definiti l’iniziativa dell’U.E. in
materia; cautela che è stata confermata a Maastricht e nei trattati successivi. Quindi, è
confermata la competenza esclusiva degli Stati membri per gli aspetti interni delle
dinamiche collettive. Della rappresentatività delle parti sociali la Commissione e il
Consiglio sono chiamati ad occuparsi ogniqualvolta le parti stesse siano firmatarie di un
accordo concluso ai sensi dell’art. 155 TFUE. In tal caso le autorità dell’U.E. devono
verificare se le parti sociali abbiano una rappresentatività cumulativa sufficiente e, in
assenza, devono negare l’attuazione dell’accordo. I criteri di rappresentatività sono in una
certa misura simili a quelli validi per le parti sociali nazionali e hanno riguardo in
particolare alla natura intercategoriale e al carattere generale delle organizzazioni. Nel
concreto le parti sociali:
▪ devono essere organizzate a livello europeo;
▪ devono essere composte da organizzazioni riconosciute come parte integrante delle
strutture delle parti sociali degli Stati Membri;
▪ devono avere la capacità di negoziare accordi;
▪ devono essere, per quanto possibile, rappresentative in tutti gli Stati membri;
▪ devono disporre di strutture adeguate che consentano loro di partecipare in modo
efficace al processo di consultazione.
Su base di questi elementi la Commissione ha formulato un elenco, periodicamente
aggiornato delle organizzazioni rappresentative. Si ritiene, anche se con alcuni dubbi, che
vi sia competenza comunitaria per quanto riguarda la contrattazione collettiva, perché può
farsi rientrare nel concetto di rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei
lavoratori e dei datori di lavoro, cui allude l’art. 153.3 TFUE. Le implicazioni di queste
esclusioni di competenza non sono facilmente accertabili: se non altro perché le accezioni
con cui vengono intesi i 3 diritti o libertà sono profondamente differenti nei vari Stati
membri. Ad esempio, è emblematico è il modo in cui è concepito e limitato il diritto di
sciopero negli ordinamenti dei singoli Paesi:
➢ diritto a titolarità individuale in Francia, Italia, Spagna;
➢ diritto rigorosamente riservato all’organizzazione sindacale nella tradizione tedesca
e nei fatti in quella inglese.
Diversi sono anche i limiti e le regole dello sciopero. Ad esempio in Germania i vincoli e le
procedure negoziali sono diretti alla realizzazione della pace sociale. Le tradizioni italiana
e francese non ammettono obblighi legali di pace e conoscono esperienze limitate di
autoregolazione e proceduralizzazione consensuale del conflitto ma maggiori limiti
esistono con riferimento agli scioperi nei servizi pubblici essenziali. La protezione delle
libertà sindacali è oggetto di controversie anche in Italia, in rapporto all’esercizio dei
poteri discrezionali del datore di lavoro, ed è sempre in delicato equilibrio con le esigenze
di sicurezza pubblica, nonché con la particolare natura di certe attività. Restano
controverse anche a livello internazionale almeno 2 questioni di principio:

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I. il fondamento e la rilevanza della c.d. libertà sindacale negativa, da sempre


riconosciuta nei sistemi sindacali continentali ma variamente limitata nella
tradizione britannica;
II. l’ambito di libertà del conflitto lato degli imprenditori, cioè del diritto di serrata, il
quale è escluso nella maggior parte dei Paesi, come l’Italia, ma protetto in altri,
come la Germania Federale.
Attenzione anche per i diritti di informazione e consultazione dei lavoratori nell’impresa,
la cui importanza può ravvisarsi anche dal fatto che sono stati inseriti fra i diritti
riconosciuti dalla Carta di Nizza.

Il rilievo europeo dei diritti sindacali (libertà sindacale, diritto di sciopero e contrattazione)
ha sollevato questioni delicate nei rapporti fra questi diritti e altre libertà fondamentali,
come la libertà di concorrenza e la libertà di circolazione delle merci. Su tali rapporti la
Corte di Giustizia ha dato importanti indicazioni. Innanzi tutto la Corte ha affermato che
la tutela di un diritto fondamentale, quale la libertà di espressione e di riunione, si
configura come giustificazione legittima di una restrizione della libertà di circolazione
delle merci, sulla base di una valutazione alla stregua del principio di proporzionalità. Nel
caso Albany è stato affrontato il rapporto fra contrattazione collettiva e libertà di concorrenza.
In pratica, la Corte si è occupata di un contratto collettivo olandese istitutivo di un fondo
di pensione integrativa, esteso per decreto e quindi provvisto di efficacia erga omnes. La
Corte, pur assumendo che il fondo pensione avesse natura di impresa e quindi fosse
soggetto alla normativa in tema di concorrenza, ha ritenuto che il relativo accordo
istitutivo non rientrasse nel divieto di restrizione della concorrenza, in quanto si è
sostenuto che qualsiasi accordo collettivo, anche se non munito di efficacia generale, ha
effetti restrittivi della concorrenza. La Corte sembra sancire in tal modo l’immunità dalle
norme sulla concorrenza del contratto collettivo nazionale nella duplice versione di
accordo con efficacia limitata alle parti stipulanti e di accordo con efficacia generale. Nel
caso Van der Woude, che riguardava un contratto collettivo in tema di assicurazione
malattia, la Corte raggiunge conclusioni simili al caso Albany, sostenendole però con
argomentazioni che non eliminano gli aspetti problematici delle questioni affrontate. Da
non dimenticare poi l’analisi di altre 2 decisioni della Corte di Giustizia in questo tema, in
quanto possono avere una certa incidenza sul futuro delle relazioni industriali e sulla
tenuta degli standard sociali in Europa. Si tratta della:
❖ Sentenza Viking: riguarda un’azione collettiva di boicottaggio, decisa dal
sindacato finlandese, contro la decisione di Viking Line di cambiare bandiera ad
una sua nave, per sfruttare un contratto collettivo meno costoso. La Corte ammette
l’importanza delle azioni collettive e del diritto di sciopero ma afferma, allo stesso
tempo, che non possono prescindere da un confronto con la libertà fondamentale di
stabilimento riconosciuta dal Trattato. Quindi, secondo la Corte le azioni collettive,
che contrastano questa libertà di stabilimento, sono giustificate solo finché
perseguono obiettivi di tutela dei lavoratori e purché siano adeguate e necessaria al
raggiungimento degli stessi. Il giudice nazionale ha il compito di valutare se queste
condizioni sono soddisfatte.

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❖ Sentenza Laval: è successiva alla sentenza nel caso Viking ed è originata da uno
sciopero del sindacato svedese, diretto ad ottenere l’applicazione del contratto
collettivo degli edili di questo Paese da parte dell’impresa lettone Laval ai
lavoratori lettoni distaccati presso un cantiere in Svezia. La Corte afferma di nuovo
che l’azione collettiva è in principio legittima se ha lo scopo di proteggere i
lavoratori da pratiche di dumping sociale. Nel caso specifico, però, questa esigenza
non sussiste, perché la tutela si trova già nelle norme legali dello Stato membro, per
cui l’azione collettiva è contrastante con la libertà di prestazione di servizi.
Queste decisioni sono state criticate perché comportano una valutazione del giudice in
ordine alle motivazioni dell’azione collettiva, che è potenzialmente lesiva dell’autonomia
collettiva. Tale controllo giudiziale è ritenuto ancor più discutibile per il fatto che avviene
non in nome della tutela delle persone ma in nome delle libertà economiche, per cui si ha
uno squilibrio tra loro.

Nella sentenza Demir la Corte, innovando rispetto alle pronunce precedenti, ha ritenuto
di ricomprendere nel diritto di associazione, contemplato dall’art. 11 CEDU, anche il
diritto di contrattazione collettiva, osservando che i limiti a tale diritto possono essere
individuati solo in quanto necessari ad assicurare il buon funzionamento di una società
democratica e comunque in una logica di stretta interpretazione, nel rispetto del principio
di proporzionalità.

CAPITOLO 12 – Sindacati europei e organizzazioni aziendali


Il sindacalismo europeo si è costruito molto lentamente sulla base di componenti nazionali
alquanto differenti sia per struttura e consistenza organizzativa sia per tradizioni
ideologiche e pratiche contrattuali. I sindacati comunisti (la CGIL in Italia e la CGT in
Francia) adottarono all’inizio una posizione critica nei confronti della CECA e della CEE.
Invece, i sindacati non comunisti, riuniti a livello internazionale nella CISL e nella CISC,
poi CMT, furono da sempre favorevoli all’integrazione europea ma inizialmente si
limitarono a stabilire a Bruxelles dei segretariati che funzionavano come dei centri di
rappresentanza. La costruzione di un vero e proprio sindacato europeo si ebbe con la
fondazione nel 1973 della Confederazione Europea dei Sindacati (CES), in cui
confluirono progressivamente tutte le maggiori organizzazioni europee. Attualmente la
CES organizza come membri sia le 82 confederazioni sindacali nazionali sia i c.d. comitati
industriali europei o federazioni di settore e le sue organizzazioni settoriali sono presenti
nei diversi organismi comunitari e al di fuori dell’U.E. mantengono contatti con il
Consiglio d’Europa e l’OCSE. La struttura sia della CES sia delle federazioni è debole sul
piano finanziario e organizzativo; le basi della rappresentatività e dei relativi poteri sono
fragili; molto scarsa è la capacità di mobilitazione dei lavoratori a livello sovranazionale.
Parallelo è stato il processo di coordinamento sul piano europeo degli imprenditori. A
livello europeo sono 4 le organizzazioni rappresentative:
1. UNICE: organizza gli industriali e, in genere, gli imprenditori privati. Oggi è
chiamata BusinessEurope;
2. CEEP: organizza le imprese pubbliche anche se sta perdendo consistenza e aderenti;
3. COPA: organizza le impresse agricole;

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4. COGECA: organizza le piccole e medie imprese e l’artigianato.


Le organizzazioni degli imprenditori sono centrali prive di poteri rappresentativi e deboli
sul piano organizzativo. Gli accordi da concludere devono essere approvati all’unanimità,
mentre le organizzazioni sindacali sfruttano il principio della maggioranza. La crescente
integrazione europea e l’internazionalizzazione dell’economia hanno modificato i rapporti
sindacali e gli equilibri tra le parti sociali. Infatti, l’internazionalizzazione ha enfatizzato la
capacità delle imprese di assumere l’iniziativa nelle relazioni industriali, a differenza dei
sindacati dei lavoratori che sono più legati al territorio. Inoltre, le modifiche dei mercati
internazionali nell’organizzazione del lavoro e nella composizione della forza lavoro
hanno posto i sindacati dei lavoratori davanti alla sfida riguardante la loro capacità
rappresentativa. L’esito di questa sfida dipende dalla capacità di reazione delle strutture di
base e nazionali, per cui statisticamente i sindacati che reggono la sfida sono quelli
coinvolti nell’amministrazione dei servizi di welfare e, in particolare, delle indennità e
servizi in caso di disoccupazione. Un tentativo di rafforzare la CES è stato posto in essere
con lo statuto approvato nel 1991, il quel prevede l’inserimento di rappresentanti dei
comitati sindacali di settore nell’esecutivo confederale con voto deliberativo e profila
l’obiettivo di trasferire alla centrale europea funzioni rappresentative effettive per lo più di
carattere politico generale. Un’ulteriore novità è stata sancita dal Congresso di Helsinki,
che ha autorizzato l’esecutivo della CES a negoziare accordi quadro europei con un
mandato ottenuto non più all’unanimità ma con la maggioranza qualificata dei voti. Da
queste prospettive dipende, quindi, l’evoluzione dei progetti in Europa sociale.

Rappresentanze dei lavoratori in azienda: in tale ambito è tradizionale la differenza fra la


maggioranza dei sistemi (come Francia, Spagna e Germania) dove in azienda è presente
una duplicità o pluralità di forme rappresentative, alcune diretta espressione dei sindacati
e altre elette direttamente dai lavoratori, e la restante parte dei sistemi in cui esiste il solo
canale sindacale (come gran Bretagna e Italia). Sono in crescita forme rappresentative dei
lavoratori specializzate su alcune materie, talora operanti unilateralmente, altre volte
unitamente a rappresentanti dei datori. A tali distinzioni organizzative fa riscontro pure
una distribuzione delle funzioni rappresentative in azienda. Mentre esse sono tutte
concentrate, compresa quella contrattuale, nel canale sindacale dove questo è esclusivo,
negli altri Paesi vengono distinte in vario modo: agli organismi eletti dai lavoratori
spettano funzioni di tipo rappresentativo e partecipativo in senso lato, mentre le funzioni
contrattuali tendono ad essere loro sottratte, almeno formalmente, e riservate al sindacato.
Quindi, in definitiva, possiamo affermare che sono approssimative le differenze
contenutistiche e di metodo fra diversi tipi di attività collettiva. Neppure le distinzioni
organizzative possono essere sovrastimate. La presenza di diversi canali formali non
esclude che essi possano venire controllati largamente dalle organizzazioni sindacali.
D’altra parte la presenza di un canale unico sindacale non esclude che, soprattutto in
azienda, il sindacato ricerchi forma di partecipazione dei lavoratori alla costituzione delle
sue rappresentanze per evidenti motivi di opportunità.
Caso italiano: nei delegati e nei consigli di fabbrica i sindacati italiani cercarono di
combinare i 2 aspetti di struttura di base dotata di tutti i poteri sindacali in azienda,
compreso quello di contrattazione collettiva, e di organismo eletto da tutti i lavoratori.

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L’intesa fra CGIL, CISL e UIL, diretta a costituire rappresentanze sindacali unitaria (RSU),
si raggiunge con un accordo nel 1993 e combina all’interno di tali organismi il principio
elettivo, esteso a tutti i lavoratori iscritti e non, con la garanzia di una rappresentanza
adeguata delle 3 componenti sindacali storiche. Invece, nei Paesi a doppio canale è la
forma elettiva a prevalere, assolvendo le funzioni essenziali di rappresentanza, comprese
quelle negoziali. Nei paesi nuovi membri dell’U.E. anche le forme di rappresentanza dei
lavoratori in azienda sono disomogenee e poco sviluppate, ad eccezione di Ungheria e
Slovenia che sono simili.

L’intervento del legislatore dell’U.E., come di quelli nazionali, non è rivolto direttamente
agli organismi in quanto tali, ma a favorire alcune attività di rappresentanza dei lavoratori
ritenute utili per la qualità dei rapporti di lavoro in azienda: diritti d’informazione,
consultazione e partecipazione, igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro. In alcuni casi il
legislatore dell’U.E. si è limitato a stabilire che l’esercizio di tali diritti è affidato alle forme
rappresentativa dei lavoratori quali previste nei vari sistemi nazionali. E’ il caso del
progetto Vredeling della direttiva n°391/1989 sul miglioramento della sicurezza e della
salute dei lavoratori. Nella direttiva sui c.d. Comitati Aziendali Europei (CAE) si è ritenuto
rafforzare la scelta promozionale di tali diritti, indicandone quale titolare uno specifico
organismo di diritto europeo, che è appunto il CAE. Questo organismo è stato delineato
solo nei tratti essenziali, per lasciare libertà di costituzione soprattutto con riferimento al
mix tra principio associativo ed elettivo. Gli orientamenti della Commissione e l’art. 137
TFUE sottolineano il ruolo centrale dell’impresa nel processo di europeizzazione delle
relazioni di lavoro e di organismi elettivi di rappresentanza dei lavoratori. L’evoluzione di
tali organismi può costituire un incentivo alla pratica transazionale di relazioni di lavoro
di tipo partecipativo e rappresentare un sostegno per la stessa attività di contrattazione in
azienda. Gli ultimi dati della CES segnalano oltre 900 CAE costituiti, che coprono circa il
60% dei lavoratori, con molti accordi già rinegoziati e si sono manifestate politiche attive
di human resource management, cioè di informazione e comunicazione dirette col personale,
carriere e retribuzioni personalizzate, percorsi formativi individuali, etc. Si tratta di
iniziative sollecitate dai cambiamenti del sistema produttivo post-fordista e della
composizione della forza lavoro.

CAPITOLO 13 – Contrattazione collettiva europea


La contrattazione collettiva costituisce la forma di attività collettiva e di regolazione delle
condizioni di lavoro più diffusa e rilevante in U.E.: infatti, riceve riconoscimento nei vari
ordinamenti nazionali quale strumento fondamentale di disciplina dei rapporti individuali
e collettivi di lavoro. Ciò avviene per lo più ad opera di una legislazione specifica, che ne
definisce e sostiene in vario modo gli effetti e le condizioni di esercizio, ed in qualche caso,
come in Italia, ad opera della giurisprudenza. Quindi, si va affermando una progressiva
equiparazione della fonte contrattuale a quella legale in tema di regolazione sociale. Il
riconoscimento della contrattazione collettiva è presente anche nella Carta dei diritti
sociali fondamentali del 1989 e nella Carta di Nizza e ha trovato sanzione nel Trattato.

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Sotto il profilo dei differenti gradi di diffusione del metodo contrattuale si può
accennare ad una partizione di massima fra:
▪ paesi continentali: il contratto nazionale di categoria o di settore rappresenta la
struttura portante direttamente o tramite accordi territoriali;
▪ Gran Bretagna: qui la contrattazione si svolge soprattutto a livello aziendale o di
stabilimento, con una declinante presenza di contratti nazionali;
▪ nuovi Stati membri dell’U.E.: qui c’è una relativa prevalenza del contratto aziendale.
Tali diversità influenzano evidentemente contenuti e funzioni del contratto collettivo:
• contratto collettivo nazionale: tende ad assumere il carattere di codice generale
minimo o standard della categoria ed è derogabile solo in melius;
• contratto collettivo aziendale: contiene la disciplina puntuale dei rapporti di lavoro,
legata alle realtà organizzative e produttive della singola impresa;
• contratto collettivo interconfederale: è usato per regolamentare questioni di rilevanza
generale, come è accaduto in periodo di crisi in Italia degli anni ’80. Una versione
informale è l’azione concertata, utilizzata in alcuni casi Germania.
Una netta diversità di pratiche negoziali riguarda i contenuti c.d. obbligatori o istituzionali
del contratto collettivo di categoria. Questi risultano molto diffusi in Paesi come la
Germania Federale; mentre sono molto poco o niente sviluppati in sistemi di relazioni
industriali conflittuali. Altrettanto divergente è la valutazione che i vari ordinamenti
operano circa la rilevanza e gli effetti giuridici della contrattazione collettiva quale
prodotto dell’attività negoziale. Una grande spartizione avviene anche in questo caso fra
ordinamenti europei continentali, che hanno tradizionalmente attribuito natura di
contratto vincolante fra le parti e fra i soggetti del rapporto individuale di lavoro, ed
orientamento britannico, che tende ad escludere in principio la rilevanza giuridica del
contratto collettivo per riconoscergli il solo il valore di gentlemen’s agreement. D’altra parte
gli stessi ordinamenti continentali si differenziano al loro interno su punti importanti,
come l’incidenza del contratto collettivo sul conflitto e la sua sfera di efficacia soggettiva.
L’obbligo di pace è necessario per la concezione tedesca mentre non lo è in Francia o Italia.
Inoltre, quasi tutti i paesi conoscono una procedura per attribuire al contratto efficacia erga
omnes ma essa non c’è in Italia. Ancora più eterogenea è la situazione nelle P.A.

La comune accettazione del metodo contrattuale in Europa ha posto fin dalle origini il
problema di una sua proiezione a livello transnazionale e comunitario. La questione ha
posto preoccupazioni di armonizzazione giuridica degli ordinamenti verso un prototipo di
istituto contrattuale costruito a tavolino, alla ricerca di pratiche contrattuali adattabili che
utilizzino il consenso verso il metodo negoziale, per diffonderlo senza ingabbiarlo in
forme giuridiche predefinite. La contrattazione collettiva è l’istituto più espressivo
dell’autonomia delle parti sociali, fortemente radicato nelle loro tradizioni e come tale
praticabile meglio al di fuori di forzature normative sia statali sia sovranazionali. Da ciò si
capisce che le pratiche negoziali sono fortemente nazionalistiche. L’esperienza europea si è
sviluppata in forme diverse e si è passati progressivamente da un riconoscimento
informale al riconoscimento giuridico nel Trattato di Maastricht. Al termine di questo
processo le varie forme di dialogo sociale hanno assunto forme diverse non solo di dialogo
sociale ma anche di governance istituzionale. Tuttavia, nonostante il riconoscimento

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giuridico la contrattazione collettiva non ha mai ricevuto una regolazione nella normativa
secondaria dell’U.E. In ogni caso possiamo storicamente schematizzare 3 tipi di
contrattazione collettiva:
1. la negoziazione bilaterale o trilaterale di settore;
2. il dialogo sociale;
3. la contrattazione collettiva vera e propria.

Le prime attività collettive europee non prendono la forma di una vera e propria
contrattazione, in quanto si tratta di attività bilaterali fra le parti o trilaterali con la
presenza comunitaria. Esse sono rivolte a trovare orientamenti convergenti su temi
definiti, legati alla politica comunitaria. Il loro carattere comune è la settorialità, nel senso
che gli attori sono le organizzazioni sindacali di settore presenti nei vari paesi e/o a livello
europeo; e tali attività si collocano all’interno delle iniziative settoriali e dei comitati
consultivi. Il quadro istituzionale più comune è quello dei comitati paritari settoriali
nell’ambito della Commissione europea. I componenti sono nominati dalla Commissione
su proposta delle organizzazioni settoriali contrapposte ed hanno tipicamente funzioni
consultive rispetto al Consiglio e alla Commissione su materie di politica comunitaria. In
alcuni settori sono presenti commissioni paritetiche attivate per iniziativa esclusiva o
prevalente delle organizzazioni professionali, per realizzare forme di coordinamento
settoriale sovranazionale. I contratti fra le parti hanno dato origine a dichiarazioni comuni
che non hanno carattere di vero contratto collettivo, assumendo la forma di
raccomandazioni congiunte. Sedi istituzionali per la concentrazione sono anche il
Comitato economico e sociale e il Comitato permanente per l’impiego, dove le parti sociali
sono pure presenti. Quindi, è diventata una prassi la consultazione delle parti ad opera
del Consiglio e della Commissione riguardo alle decisioni di politica sociale e del lavoro,
facendo si che il metodo tripartito tenda a diventare permanente. I comitati paritari sono
stati sostituiti da Comitati di dialogo settoriale e la Commissione ne ha promosso
l’istituzione in tutti i settori. Essi hanno funzioni consultive sui processi a livello
comunitario che abbiano implicazioni sociali e hanno il compito di promuovere il dialogo
sociale a livello settoriale. All’interno dei comitati si sono sviluppate attività di carattere
negoziale, con la conclusione di significativi accordi, ancorché non giuridicamente
vincolanti. Allo stato il numero degli accordi conclusi supera i 500.

L’espressione “Dialogo sociale europeo”, coniata durante gli incontri di Val Duchesse a
Bruxelles, allude a forme di confronto e scambio di opinioni fra le parti sociali, promosse
dall’autorità comunitaria per ricercare posizioni convergenti su questioni di interesse
comune e rilevanza socioeconomica generale, non necessariamente da formalizzare in
accordi collettivi. L’importanza ed i suoi potenziali sviluppi, sanciti dall’art. 118 B
(introdotto dall’Atto Unico del 1987) ora sostituito dagli artt. 154 e 155 TFUE, sono visti
come un continuum. Le risoluzioni finali di Val Duchesse sono state configurate come
pareri comuni, per cui indicano che le parti si sono trovate d’accordo non su una regola
vincolante ma solo su un’opinione. L’accordo sull’opinione influisce variamente:
➢ verso i negoziatori nazionali si esprime tramite vincoli endoassociativi;
➢ verso le autorità comunitarie agisce come forma di orientamento e di pressione.

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Gli argomenti trattati a Val Duchesse sono stati ordinati per grandi temi. A partire dal 1985
si è tenuta una serie di incontri sui temi della formazione, dell’impatto delle tecnologie,
della mobilità del lavoro e dell’occupazione, che però hanno avuto risultati deludenti. A
partire dagli anni ’90, invece, è la Commissione che assume diverse iniziative specifiche
per lo sviluppo del dialogo sociale sia a livello settoriale con la generalizzazione dei
comitati del dialogo sociale sia a livello intersettoriale. Tuttavia, mentre i comitati settoriali
lavorano sotto una sorta di induzione della Commissione, il dialogo sociale intersettoriale
conserva maggiormente il carattere informale e volontario. Per questo motivo i migliori
risultati si hanno in questo campo. Il Consiglio europeo straordinario sull’occupazione ha
sollecitato tutte le parti sociali a contribuire ai vari livelli alla definizione delle strategie
occupazionali e in particolare per quanto riguarda l’occupabilità e l’adattabilità. Gli esiti
sono stati diseguali a seconda delle materie specificatamente trattate. Negli ultimi anni il
dialogo sociale a livello interprofessionale si è svolto nell’ambito del Comitato del dialogo
sociale.

I normali ostacoli allo sviluppo di una vera e propria contrattazione collettiva sono:
i. la mancanza di attori sociali dotati di poteri decisionali a livello europeo;
ii. l’assenza di pratiche di conflitto a livello sopranazionale;
iii. l’assenza di riconoscimento del diritto al conflitto sul piano sovranazionale;
iv. la resistenza degli imprenditori ad accettare un ulteriore livello di normazione
sociale aggiuntivo rispetto a quelli esistenti;
v. l’esitazione dei sindacati a trasferire a livello europeo dei poteri decisori con rilievo
diretto sulle condizioni di lavoro dei loro aderenti.
E’ per questo motivo che le esperienze di contrattazione collettiva vera e propria si sono
avute solo a livello sovranazionale in alcuni grandi gruppi di imprese multinazionali. In
pratica, si tratta di accordi multinazionali, in quanto riguardano specifici paesi accomunati
fra loro dalla presenza di aziende o stabilimenti del gruppo, per cui il fattore unificante è
l’impresa. Ciò si traduce sull’identità degli interlocutori: per parte datoriale è la direzione
del gruppo o della società; per la parte sindacale l’attore è differenziato perché potrebbe
essere il sindacato nazionale o la federazione europea del sindacato di settore. Inoltre, dal
punto di vista contenutistico, tali accordi non incidono sul contenuto normativo della
disciplina del rapporto individuale di lavoro ma incidono sul contenuto procedurale, cioè
prevedono procedure di informazione e consultazione fra impresa e rappresentanze dei
lavoratori. La Commissione ha definito questi accordi come transnational texts, in quanto
hanno valore impegnativo nei confronti dell’impresa ma non esplicano nessun effetto diretto sui
lavoratori come parti del rapporto individuale. L’efficacia obbligatoria in capo all’azienda non è
molto problematica nella maggior parte dei Paesi e può essere configurata anche solo
rispetto alla società madre, da cui può essere estesa anche alle società figlie. In ogni caso,
possiamo ritenere che il peso della contrattazione collettiva d’impresa è destinato a
crescere anche a livello transnazionale così come è avvenuto nei sistemi nazionali. Il
riconoscimento dei Comitati Aziendali Europei (CAE) ha fornito una base istituzionale
utile per lo sviluppo di relazioni collettive in azienda; anche se i loro poteri sono
attualmente circoscritti e non direttamente funzionali alla contrattazione collettiva. Per
queste ragioni non solo i sindacati ma anche la Commissione ritengono importante che le

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pratiche contrattuali anche transnazionali si sviluppino su più livelli. Il coordinamento


sovranazionale della contrattazione collettiva di settore è promosso dalle federazioni
sindacali europee con l’obiettivo di favorire la convergenza dei vari sistemi contrattuali. La
dimensione transnazionale della contrattazione collettiva potrebbe assumere crescente
rilievo a seguito dei fenomeni di mobilità dei lavoratori distaccati nell’ambito di una
prestazione di servizi. Simili fenomeni hanno già dato luogo a controversie, comprensive
di azioni di sciopero a livello transnazionale, che però hanno avuto esiti incerti anche a
causa di una giurisprudenza della Corte di Giustizia non di certo favorevole.

Il Protocollo sociale di Maastricht ha dato un particolare rilievo alle attività collettive


delle parti sociali in tutte le accezioni, dalla partecipazione al processo decisionale della
comunità, nonché dal dialogo sociale alla contrattazione collettiva bilaterale vera e
propria. Tale Protocollo ci dà 2 importanti innovazioni:
A. Prima innovazione: riguarda l’affidamento alla Commissione del compito di
promuovere il dialogo sociale fra le parti e la consultazione delle stesse rispetto alle
decisioni comunitarie. La funzione di stimolo del dialogo sociale si può esercitare
tramite diversi interventi di mediazione e di aiuto ai negoziatori, nonché di
incentivo alle migliori pratiche seguite. Inoltre, il sostegno deve essere equilibrato,
cioè non solo ai sindacati dei lavoratori ma ad entrambe le parti. La consultazione
delle parti sociali è richiesta sia prima che la Commissione presenti proposte in
materia sociale, per ricavarne un possibile orientamento, sia dopo la sua decisione
di prendere un’iniziativa. Si tratta dunque di una proceduralizzazione generale
delle iniziative comunitarie, che comprende una partecipazione consultiva
obbligatoria delle parti sociale, ancorché non vincolante.
B. Seconda innovazione: è quella più rilevante e riguarda la possibilità che l’iniziativa
contrattuale delle parti sociali possa sostituire lo stesso intervento regolatorio della
Commissione. La decisione delle parti di utilizzare lo strumento contrattuale per
disciplinare le varie materie ha il potere di bloccare l’iniziativa della Commissione
ma per un periodo di durata definita: 9 mesi, prorogabili di intesa fra le parti e la
Commissione. Tale novità è resa possibile dall’accordo raggiunto da UNICE e CES
(le organizzazioni di vertice delle parti sociali) nell’ottobre 1991.

L’incidenza dello strumento contrattuale europeo può variare a seconda che le parti
scelgano di darvi seguito secondo le procedure e le pratiche vigenti in ciascun Paese
oppure, nelle materie di competenza dell’U.E., attraverso una decisione del Consiglio. Per
questo motivo possiamo trattarle distintamente:
A. Efficacia della contrattazione collettiva europea secondo le regole nazionali: questa via
è indicata dall’art. 4 del Protocollo sulla politica sociale (che ora è trasfuso nell’art.
155 TFUE), il quale la fa consistere nello sviluppare i contenuti degli accordi tramite
contrattazione collettiva secondo le regole vigenti in ogni Stato membro, fermo
restando però che ciò non implica nessun obbligo degli Stati membri di modificare
la legislazione nazionale per facilitarne l’applicazione. Di recente la Commissione
ha ribadito che nessun intervento dell’U.E. a favore della contrattazione
transnazionale può sostituirsi alle norme e alle prassi nazionali. Quindi, nonostante

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la Commissione si impegni ad assistere le parti sociali, promuovendo lo scambio di


esperienze, deve rimanere fermo il dato che si tratta comunque di atti aventi
carattere volontario. Questa precisazione sul carattere volontario dell’attuazione di
questi accordi ha un valore particolare per l’Italia, dove l’attribuzione dell’efficacia
erga omnes ai contratti collettivi implicherebbe la modifica dell’art. 39 Cost. La
prima indicazione sembra invece alludere al fatto che nell’attuale stato dei rapporti
sindacali un eventuale contratto europeo non avrebbe effetto diretto, ancorché
limitato, negli ordinamenti nazionali ma servirebbe piuttosto come accordo quadro
da adattare e applicare in ogni Paese attraverso accordi collettivi conclusi fra le parti
nazionali. E’ una valutazione realistica, che sconta, da una parte, l’assenza di regole
generali uniformi sull’efficacia del contratto collettivo e, dall’altra, la già rilevata
mancanza di organizzazioni rappresentative sovranazionali capaci di impegnare
direttamente, in via contrattuale, le corrispondenti organizzazioni nazionali. In ogni
caso, dall’art. 155 TFUE non discende alcun obbligo per le parti sociali di dare
seguito in sede nazionale, attraverso contratti applicativi, ad eventuali intese
raggiunte a livello dell’U.E. La Commissione auspica una stretta sinergia fra le parti
sociali e gli Stati membri nell’implementazione degli accordi europei a livello
interno. Tali rapporti di implementazione possono andare da regole giuridicamente
vincolanti a forme di soft law, se non addirittura di liquid law. Ad esempio, un
obbligo di implementazione può essere previsto esplicitamente nello stesso
contratto europeo, che in tal modo formerebbe il quadro obbligatorio per il
comportamento delle parti nazionali. In ogni caso è da escludere che un accordo
collettivo europeo o sovranazionale possa operare con effetti normativi univoci in
paesi diversi, in quanto l’efficacia diretta dipenderebbe sempre dagli ordinamenti
nazionali. Nel caso italiano, ad esempio, troverebbe il limite della sfera soggettiva di
efficacia del contratto collettivo, notoriamente circoscritta agli aderenti alle
organizzazioni stipulanti. Ovviamente, niente vieta che un accordo stipulato fra le
parti di diversa nazionalità ed eseguibile in diversi ordinamenti sia soggetto a
regimi giuridici differenti a seconda del Paese ma per reggere tale diversità occorre
una forte determinazione degli attori. Il limite derivante dalla diversa efficacia dei
contratti collettivi nei vari Paesi incide anche sulla previsione secondo cui uno Stato
membro può affidare alle parti, a loro richiesta congiunta ma sotto sorveglianza
dello Stesso stato, il compito di applicare le direttive adottate nelle materie sociali di
competenza comunitaria. La previsione può considerarsi un ulteriore segnale della
valorizzazione del metodo contrattuale realizzata a Maastricht, anche la sua
rilevanza innovativa deve ritenersi limitata.
B. Efficacia della contrattazione collettiva europea mediante decisione del Consiglio:
questa via è indicata dall’art. 155 TFUE e sembra scontare la precarietà della
configurazione giuridica del contratto collettivo nei vari paesi. Non volendo o non
potendo armonizzare tale configurazione nei vari sistemi, la norma supera
l’ostacolo, prevedendo la possibilità che il contratto collettivo europeo, nelle materie
di competenza dell’U.E., diventi direttamente una fonte del diritto europeo a
prescindere dalla sua natura originaria. La natura giuridica del contratto collettivo
recepito dalla decisione del Consiglio è variamente considerata. Si è ritenuto che si

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realizzi una vera e propria alterazione dei connotati della contrattazione come atto
di autonomia, per privilegiare i caratteri di strumento ausiliario di regolazione
pubblica. In ogni caso, anche dopo la formale adozione con decisione del Consiglio,
affinché possano essere efficaci negli ordinamenti nazionali gli accordi richiedono di
essere attuati con gli strumenti previsti, per cui si tratta di una doppia attuazione.
La previsione pone delicati problemi interpretativi: innanzi tutto con riguardo al
“rapporto fra la fonte negoziale e decisione del Consiglio” e, in secondo luogo,
quanto alla “tecnica con cui la decisione del Consiglio può operare negli
ordinamenti nazionali”. Sul primo punto, è opinione comune che il contenuto del
contratto collettivo non può essere cambiato dal Consiglio ma solo accettato o
respinto in toto. In ogni caso la decisione del Consiglio può attuare una vera e
propria incorporazione oppure operare un mero rinvio formale. Nel primo caso la
disciplina è formalmente e sostanzialmente determinata in via di autorità e quindi
rimarrebbero irrilevanti le eventuali variazioni o disdette dell’accordo collettivo ad
opera delle parti. Nell’altra ipotesi la decisione del Consiglio si limiterebbe a dare
effetto erga omnes al contratto collettivo cui fa rinvio. Quindi, mentre la prima
soluzione ha il vantaggio della stabilità, la seconda è più conforme alla
valorizzazione dell’autonomia collettiva come fonte sostanziale di disciplina dei
rapporti di lavoro europei. Il termine decisione utilizzato nell’art. 155 TFUE è
volutamente generico e potrebbe coprire atti diversi del Consiglio. Anche se la
dottrina ha formulato soluzioni molteplici, il Consiglio ha sinora sempre adottato lo
strumento della direttiva, coinvolgendo anche il Parlamento Europeo. Prima di
presentare la proposta di recezione dell’accordo al Consiglio, la Commissione
procede ad una valutazione che tiene conto della rappresentatività delle parti
contraenti, del loro mandato e della legalità di ciascuna clausola del contratto
collettivo rispetto al diritto europeo. Si tratta di un potere di verifica che trova
fondamento nell’art. 17 TUE, secondo il quale la Commissione vigila
sull’applicazione dei Trattati e sulle misure adottate dalle istituzioni. In caso di esito
negativo, la Commissione è autorizzata a non sottoporre l’accordo al Consiglio.

Le formule usate per indicare sia le parti sia l’ambito della contrattazione sono generiche,
visto che si parla di accordi a livello comunitario e di parti sociali. L’indicazione relativa
alle parti non può che essere riferita alle organizzazioni rappresentative ai vari livelli e
competenti a negoziare. Il secondo requisito può richiedere specifiche indicazioni circa il
fondamento dei poteri. In ogni caso spetta alla Commissione procedere all’accertamento di
entrambi i requisiti. La genericità dell’ambito negoziale non presenta difficoltà specifiche
quando l’applicazione degli accordi collettivi segua le forme del diritto comune. Non v’è
ostacolo a ritenere che una simile soluzione possa operare per qualunque tipo di accordo,
stipulato da qualsiasi attore o per singoli Paesi. Più complessa è la soluzione quando si
tratti di applicare gli accordi con decisione del Consiglio. La genericità sembra indicare che
possano essere recepiti accordi diversi per ambito di copertura e per soggetti stipulanti.
Gli accordi d’impresa sembrano invece inadatti ad essere recepiti in questa fonte dell’U.E.
sia nei casi in cui gli accordi stipulati non riguardino tutti gli Stati membri sia quando essi
coinvolgano solo una parte degli schieramenti nazionali. In entrambi i casi un’estensione

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dell’accordo oltre l’ambito controllato dalle parti stipulanti dovrebbe basarsi su una
valutazione rigorosa circa l’opportunità di tale scelta, mirante a correggere la parzialità
della base contrattuale rappresentata. Di fatto sono stati finora recepiti soprattutto accordi
interprofessionali, riguardanti i congedi parentali, il lavoro a tempo parziale e i contratti a
tempo determinato. Restano esclusi, invece, i temi critici come la retribuzione e i diritti
sindacali.

A partire dal 2000 hanno acquistato crescente rilevanza iniziative di contrattazione


autonoma o non istituzionale sia nella forma della contrattazione transnazionale
volontaria (cioè intrapresa dalle parti indipendentemente dalle decisioni e dalle iniziative
della Commissione) sia nella forma della contrattazione transnazionale autonoma (cioè
fatta a prescindere dalla decisione del Consiglio). La Commissione, oltre ad impegnarsi ad
assistere le parti in tali attività, le ha incoraggiate a servirsi di tecniche ispirate al Metodo
Aperto di Coordinamento (MAC), facendo sì che questo dialogo gli si affiancasse,
rafforzando gli strumenti di soft law. Questa prevalenza può essere spiegata anche sulla
base dei diversi contenuti affrontati, che in questo tipo di contrattazione sono meno densi
rispetto alla contrattazione istituzionale. Si tratta delle materia della formazione, del
telelavoro, dello stress da lavoro, delle molestie e della violenza. I risultati di queste forme
di contrattazione è il più vario, per cui non si può stabilire se senza di esse si sarebbero
comunque raggiunte lo stesso le approvazioni delle direttive in queste materie. I
transnational texts, invece, sono forme di contrattazione multinazionale effettuato a
livello delle imprese multi nazione, cioè presenti in almeno 2 Stati membri. Ecco perché la
Commissione ha cercato di favorire delle forme di contrattazione collettiva
transnazionale (TCB dal nome inglese per indicarla), affidandone il compito ad
un’apposita commissione. Tuttavia, il rapporto che ne è seguito propone un quadro
regolativo leggero dagli effetti della TCB, che è utilizzabile solo su base volontaria. La
procedura sarebbe riferibile a tutti gli accordi, i quali dovrebbero ricevere attuazione in via
indiretta attraverso la loro trasposizione in provvedimenti datoriali nell’ambito di
riferimento dell’intesa. In quest’ultimo caso la capacità dell’accordo transazionale di
vincolare i singoli datori di lavoro del settore avrebbe un incerto fondamento giuridico.
Nonostante le cautele della proposta delineata dal rapporto essa ha sollevato più riserve
che consensi tra le parti sociali.

CAPITOLO 14 – Informazione, consultazione, partecipazione


Tali diritti sono intesi in senso generale e alludono ad ipotesi diverse di coinvolgimento
dei lavoratori e/o delle loro rappresentanze nelle decisioni dell’impresa. L’attività della
Comunità si è sviluppata sin dal 1970 secondo 2 prospettive:
1. Prospettiva del diritto delle relazioni industriali: ci rientra la proposta di direttiva del
1980, nota col nome di Vredeling, concernente l’informazione e la consultazione dei
lavoratori nell’ambito di imprese e di gruppi multinazionali.
2. Prospettiva del diritto societario: ci rientra la direttiva n°45/1994 sui Comitati
Aziendali Europei (CAE), relativa all’informazione e consultazione dei dipendenti
delle imprese e dei gruppi d’imprese di dimensioni comunitarie.

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L’istituzione e la diffusione di questi diritti è avvenuta per lo più in via legislativa, mentre
in Italia e Gran Bretagna tramite la contrattazione collettiva. Solo i diritti d’informazione
hanno una diffusione generalizzata in tutti i Paesi membri, compresa l’Italia dove sono
previsti da tutti i maggiori contratti collettivi nazionali. Solo con il D. Lgs. n°25/2007 si è
avuto il riconoscimento legislativo. Forme di consultazione stabile e di partecipazione
istituzionale alle decisioni dell’impresa hanno un’estensione limitata in Paesi come Italia e
Gran Bretagna, caratterizzati da forti tradizioni contrattualistiche e rivendicative, mentre
sono generalizzate in altri Paesi ove hanno ricevuto esplicito riconoscimento e regolazione
per legge, come Germania e Olanda. La partecipazione organica è diffusa in Germania e si
prevede in tutte le imprese con più di 2000 dipendenti la presenza di rappresentanti dei
lavoratori nel consiglio di sorveglianza, con il presidente espresso dagli azionisti e
provvisto di voto doppio in caso di contrasto. Si utilizza la struttura dualistica delle società
per azioni, estesa anche in Italia, ove il consiglio di sorveglianza ha poteri di controllo e di
designazione degli amministratori; mentre i poteri di gestione sono riservati ad un altro
organo ristretto (presidenza, direzione). Tale struttura ha reso possibile la partecipazione
dei lavoratori a compiti di controllo senza coinvolgerli in compiti di gestione. Questa
distinzione è più difficile nei Paesi con struttura societaria unitaria, che ha un unico
organo di gestione (il consiglio di amministrazione), che peraltro può delegare parte dei
suoi poteri all’amministratore delegato o ad un comitato esecutivo. La partecipazione
esterna, invece, si realizza tramite organismi rappresentativi dei lavoratori.

Motivi delle iniziative comunitarie: la disomogeneità delle pratiche nazionali dipende


spesso dalla diversità delle prassi nazionali nelle relazioni contrattuali, di cui il legislatore
dell’U.E. deve tenere conto. Si può ipotizzare che l’intervento europeo sia stato sollecitato
dalla consapevolezza delle criticità delle relazioni di lavoro nell’impresa, rispetto ai
rapporti intercorrenti ad altri livelli e regolati dalla contrattazione collettiva territoriale o
nazionale. Il diffondersi a livello aziendale di pratiche partecipative è guardato con favore
per l’efficienza produttiva e la pace sociale. Tra l’altro c’è l’appoggio anche di partner
nazionali forti come la Germania e la Francia. I diritti di informazione e consultazione, ex
art. 153.2 TFUE, rientrano tra le materie soggette a decisione a maggioranza qualificata,
mentre non ci rientra la codeterminazione.

La conferma dell’importanza dell’armonizzazione del diritto societario si ha nel fatto che


le prime iniziative della Commissione riguardano la partecipazione nell’ambito
societario. La proposta originaria di uno statuto di Società per azioni europea è del 1970,
mentre la prima proposta di direttiva sull’armonizzazione dei diritti societari dei Paesi
membri (la V direttiva) risale al 1972 e occorre attendere, invece, il 1980 perché veda luce la
proposta Vredeling sui diritti d’informazione. La proposta originaria di V direttiva
indicava un modello unico di società, comprensivo di una sola forma di partecipazione di
lavoratori, obbligatoria per tutti i Paesi membri. La proposta modificata di V direttiva
(1983) consentiva alle società anonime di optare per un sistema monista o duale, lasciando
agli Stati membri la scelta dei modelli partecipativi. In pratica, si distingueva all’interno
del consiglio di amministrazione fra funzioni di gestione e funzioni di controllo e la
partecipazione dei lavoratori era prevista solo per le funzioni di controllo e non di gestione

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della società. Nel sistema dualistico ciò si realizza con la presenza nel consiglio di
sorveglianza, mentre nel sistema monistico con la presenza fra i membri non gestori del
consiglio di amministrazione.

L’obiettivo comune di tali iniziative è di porre rimedio ai marcati differenziali nei diritti
d’informazione/consultazione dei lavoratori esistenti nei vari Paesi membri, stabilendo
una base di regole comuni. Il progetto Vredeling perseguiva tale intento armonizzatore e
il suo aspetto più originale era quello di predisporre strumenti per forzare il centro di
decisione del gruppo d’imprese a fornire le informazioni riguardanti la situazione
complessiva del gruppo. La prima versione del progetto stabiliva che i rappresentanti dei
lavoratori avrebbero potuto avere accesso diretto al centro di decisione (impresa
dominante), anche se esterno alla Comunità. In una seconda versione si stabilì che tale
centro esterno potesse designare un agente autorizzato a fornire le informazioni e che, in
mancanza, avrebbe dovuto ritenersi responsabile la direzione di qualsiasi filiale presente
nella Comunità (soluzione dell’ostaggio). Questi ammorbidimenti non ridussero
l’opposizione delle organizzazioni imprenditoriali e fu per questo motivo che la
Commissione, attraverso l’Accordo sulla Politica Sociale (APS), si indirizzò verso i
Comitati Aziendali Europei (CAE), con l’adozione della direttiva n°45/1994. Nel
frattempo si cominciò a chiedere un rinnovamento di questa direttiva, per adeguarla alla
direttiva n°86/2001, riguardante la Società Europea (SE). L’adeguamento si ottenne con
l’adozione della direttiva n°38/2009. Questa normativa cercò di rafforzare l’effettività dei
diritti previsti, garantendo che l’informazione e la consultazione possano intervenire in
tempo utile, così da permettere un’efficace interlocuzione tra il CAE e la dirigenza
dell’impresa, ed esplicitando il diritto del CAE, o del suo Comitato ristretto, di essere
sentiti anche d’urgenza, in particolare nei casi di chiusura di stabilimenti e licenziamenti
collettivi. La direttiva prevede altresì un iniziale riconoscimento del ruolo delle
organizzazioni sindacali rappresentative a livello comunitario nel processo di formazione
dei CAE, stabilendo che la delegazione speciale di negoziazione (DSN) per l’istituzione del
CAE può richiedere l’assistenza di esperti, fra cui rappresentanti di queste organizzazioni.
Ex art. 1, al CAE fanno capo i diritti d’informazione e di consultazione dei lavoratori nelle imprese
e nei gruppi di dimensione comunitaria, riferiti alle questioni di carattere transnazionale. L’ambito
di applicazione della normativa comprende sia le imprese sia i gruppi aventi almeno 1000
dipendenti negli Stati membri, con stabilimenti situati in almeno 2 Stati e occupanti in
ciascuno almeno 150 lavoratori. Ex art. 2, la direttiva si riferisce alle imprese e ai gruppi di
imprese di dimensioni comunitarie. Inoltre, essa definisce il gruppo come composto da
un’impresa controllante e dalle imprese da essa controllate e l’impresa controllante come quella
che può esercitare un’influenza sulle controllate, indicando in via esemplificativa come indici di tale
influenza la maggioranza di capitale sottoscritto o il potere di nomina di più della metà dei membri
del consiglio di amministrazione, di direzione e di vigilanza. Sono escluse, invece, quelle che
non operano in più Stati membri. La procedura per la costituzione dei CAE e per la
definizione dei loro poteri è affidata in prima istanza all’accordo fra le parti stesse, affinché
le modalità di funzionamento e le procedure siano adeguate alla loro situazione
particolare. Le parti sono la direzione centrale dell’impresa o del gruppo e una
delegazione speciale di negoziazione (DSN) composta di rappresentanti dei lavoratori,

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eletti o designati in numero proporzionale ai dipendenti occupati in ogni Stato


dall’impresa o dal gruppo, garantendo a ciascuno Stato un rappresentante ogni 10% (o
frazione) di dipendenti occupati nel totale degli Stati. Le modalità di designazione dei
rappresentanti sono lasciate agli Stati membri; ma si prevede che tale rappresentanza
debba essere garantita anche nelle imprese ove non esistono strutture rappresentative per
motivi indipendenti dalla volontà dei lavoratori. La trattativa per l’istituzione del CAE
può cominciare su iniziativa della direzione centrale aziendale o su richiesta scritta di
almeno 100 lavoratori (o dei loro rappresentanti) di almeno 2 imprese o stabilimenti situati
in almeno 2 Stati. La direttiva fissa in 3 anni la durata massima del negoziato e prevede
uno schema dettagliato di indicazioni per l’accordo da stipulare in regime di buona fede.
In alternativa, le parti possono istituire una o più procedure per l’informazione e la
consultazione. Ad esempio, una possibilità è quella che la DSN decida con almeno 2/3 dei
voti di non avviare negoziati o di chiudere quelli in corso. L’effetto è di escludere la
negoziazione diretta all’istituzione del CAE o della procedura d’informazione anche nella
versione minima prevista dalle prescrizioni accessorie allegate alla direttiva, e di
precludere la ripresa delle trattative per almeno 2 anni. Le prescrizioni accessorie sono
destinate ad operare qualora la direzione centrale rifiuti il negoziato ovvero le parti non
trovino l’accordo entro 3 anni dalla richiesta di incontro. Tali prescrizioni, da attuarsi
tramite la legislazione statale, stabiliscono il contenuto minimo del diritto in questione: la
composizione del CAE (proporzionale ai dipendenti) e di un comitato ristretto (al
massimo di 5 membri), l’oggetto dell’informazione, la frequenza delle riunioni con la
direzione centrale (almeno 1 volta l’anno). Le informazioni devono essere fornite in tempo
utile e comunque prima della decisione.

La direttiva n°14/2002 ha istituito un quadro generale relativo all’informazione e alla


consultazione dei lavoratori nella Comunità europea. Tale direttiva è contraddistinta da
una regolazione leggera di tipo promozionale, dove un ampio spazio è lasciato agli attori
sociali nazionali, secondo il principio di sussidiarietà orizzontale, per cui le sue
disposizioni possono essere derogate in melius. Questa direttiva dà seguito all’art. 27 della
Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. che riconosce i diritti di informazione e
consultazione come fondamentali. E’ stata recepita in Italia con il D. Lgs. n°25/2007 e si
applica a tutte le imprese dell’U.E. che occupano in uno Stato membro almeno 50
dipendenti. La Corte di Giustizia ha precisato, però, che ai fini del computo numerico non
possono valere norme nazionali atte ad escludere una certa categoria di lavoratori. In ogni
caso, il campo di applicazione è molto esteso, visto che le imprese con più di 50 addetti
(che rappresentano meno del 3% di tutte le imprese dell’area U.E.) occupano circa il 50%
dei lavoratori attivi. Le modalità dell’informazione e della consultazione sono definite e
applicate in modo tale da garantire l’efficacia dell’iniziativa. Questa direttiva è importante
per le definizioni che ci da di:
• rappresentanti dei lavoratori sono coloro i quali vengono considerati tali dalle
legislazioni o prassi nazionali;
• informazione è la trasmissione di dati da parte del datore di lavoro ai rappresentanti dei
lavoratori per consentir loro di prendere conoscenza della questione ed esaminarla;

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• consultazione è lo scambio di opinioni e l’instaurazione di un dialogo tra i rappresentanti e


il datore.
Le modalità di esercizio del diritto all’informazione e alla consultazione sono
determinate dagli Stati membri, in conformità ai criteri fissati dall’art. 4 della direttiva.
L’informazione e la consultazione devono riguardare:
a) l’informazione sull’evoluzione recente e quella probabile delle attività dell’impresa
o dello stabilimento e della situazione economica;
b) l’informazione e la consultazione sulla situazione, la struttura e l’evoluzione
probabile dell’occupazione nell’ambito dell’impresa o dello stabilimento, nonché
sulle eventuali misure anticipatrici previste in caso di minaccia per l’occupazione;
c) l’informazione e la consultazione sulle decisioni suscettibili di comportare
cambiamenti di rilievo in materia di organizzazione del lavoro, nonché di contratti
di lavoro.
L’informazione deve essere funzionale alla successiva consultazione, per cui deve
rispondere a criteri di tempo e contenuto. La direttiva, inoltre, obbliga gli Stati membri a
colpire le violazioni della suddetta direttiva con sanzioni effettive, proporzionate e
dissuasive.

La proposta di Società europea ha incontrato forti resistenze da parte dei sindacati


europei e delle organizzazioni imprenditoriali. Le obiezioni maggiori dei sindacati
riguardavano 2 punti: l’indicazione del progetto secondo cui il potere di scelta fra i
modelli in caso di dissenso veniva affidato alla direzione aziendale; la non equivalenza fra
i diritti d’informazione e partecipazione riservati ai rappresentanti dei lavoratori nei vari
modelli. L’accordo finale è giunto col vertice di Nizza del 2000, il cui risultato fu il
Regolamento n°2157/2001 (relativo allo statuto delle Società europea) e la direttiva n
°86/2001 (che completa lo statuto della Società europea per quanto riguarda il
coinvolgimento dei lavoratori). Viene usato il termine coinvolgimento per indicare il
complesso dei meccanismi, ivi comprese informazione, consultazione e partecipazione. La
partecipazione è dunque una specie del genere coinvolgimento, definita come l’influenza
dell’organo di rappresentanza dei lavoratori e/o di loro rappresentanti nelle attività di una
società mediante: il diritto di eleggere o designare alcuni dei membri dell’organo di
vigilanza o di amministrazione della società; il diritto di raccomandare la designazione di
alcuni o di tutti i membri dell’organo di vigilanza o di amministrazione dell’entità
giuridica e/o di opporvisi. Esistono 4 possibilità attraverso cui si verifica la costituzione:
1. fusione per società;
2. creazione di una holding da parte di più società;
3. creazione di una filiale comune o di una società controllata;
4. trasformazione di una società già esistente in una SE.

I punti fondamentali della SE sono:


❖ creazione di una delegazione speciale di negoziazione (DSN) rappresentante dei
lavoratori al momento del progetto di costituzione di una SE, con la designazione
dei componenti in proporzione al numero dei lavoratori impiegati nei vari Stati
dalle società partecipanti;

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❖ le decisioni della DSN sono assunte a maggioranza assoluta dei componenti, purché
questa rappresenti anche la maggioranza assoluta dei lavoratori. La maggioranza
qualificate di 2/3 di rappresentanti e lavoratori è richiesta per decisioni ritenute di
particolare rilievo;
❖ la garanzia del mantenimento dei diritti acquisiti, onde evitare che la costituzione di
una SE sia uno strumento per ridurre o cancellare i diritti di partecipazione;
❖ l’organo competente della società e la DSN devono negoziare con spirito di
cooperazione per arrivare a un accordo e le trattative devono concludersi entro 6
mesi, prorogabili fino a 1 anno, dalla costituzione della DSN;
❖ la scelte delle forme di coinvolgimento dei lavoratori è affidata in via prioritaria alla
contrattazione;
❖ che nei casi di SE costituita mediante fusione, si richiede la partecipazione almeno
del 25% dei lavoratori di tutte le società partecipanti;
❖ che nei casi di SE costituita mediante holding, si richiede la partecipazione del 50%
dei lavoratori;
❖ ex art. 7.3 della direttiva, gli Stati possono escludere l’applicazione delle
disposizioni di riferimento sulla partecipazione interna agli organismi della società
(detta partecipazione forte) nel caso di SE costituita mediante fusione, al fine di
tutelare i Paesi che non prevedono tale partecipazione come la Spagna;
❖ in caso di mancanza d’accordo tra le parti o in mancanza dei presupposti per
l’applicazione delle norme di partecipazione forte, la SE deve provvedere alla
costituzione di una rappresentanza dei lavoratori esterna agli organi societari,
titolare dei diritti di informazione e consultazione.
Questa direttiva è il risultato di un intricato compromesso fra l’esigenza di evitare un
arretramento dei livelli partecipativi preesistenti in alcuni Stati membri e la resistenza di
altri Stati membri a generalizzare standard partecipativi presenti in una minoranza di
ordinamenti. Una SE non necessariamente deve essere di dimensioni comunitaria, visto
che non necessita di requisiti relativi al numero di lavoratori occupati ma solo la necessità
che si tratti di una società per azioni con capitale sottoscritto di almeno 120 mila euro. Una
normativa parallela a questa si ha per la Società Cooperativa Europea (SCE).

Nonostante diverse difficoltà, le normative sui CAE e sui diritti di informazione e


consultazione hanno avuto un buon successo operativo. L’effetto più significativo è stato
l’alimentazione di un flusso di informazioni tra realtà produttive e sindacali diverse, che
hanno prodotto una certa vivacità nelle relazioni industriali. Inoltre, i CAE, pur non
avendo competenze contrattuali, di fatto hanno spesso svolto funzioni negoziali specie nei
casi di ristrutturazioni aziendali. Invece, per quanto riguarda la SE, la sua diffusione
dipenderà dalle valutazioni di convenienza delle imprese nei vari contesti nazionali.
Infatti, soprattutto le forme di partecipazione interna agli organismi della società sono
viste come un rischio, perché esse potrebbero vedersi applicare un sistema partecipativo
estraneo alla propria tradizione. Quindi, si può ritenere che le imprese siano propense ad
accettare questa sorta di rischio se ci siano certi vantaggi fiscali o di promozione dei
rapporti transnazionali, come la possibilità di compensare le perdite subite da singoli
stabilimenti con i profitti provenienti da tutta la SE.

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Un importante dato è la Raccomandazione n°443/1992, che si occupa della partecipazione


finanziaria dei lavoratori. Si basa sul Primo rapporto Pepper, il quale è stato commissionato
dalla Commissione per fornire le caratteristiche principali delle varie forme esistenti
nell’U.E. di partecipazione finanziaria sia ai risultati economici sia alla proprietà. La
raccomandazione sostiene l’utilità di promuovere tale partecipazione, anche con incintevi
fiscali o finanziari, in quanto strumento funzionale per conseguire una ripartizione più
vasta della ricchezza delle imprese e per stimolare un maggior coinvolgimento dei
lavoratori nelle aziende. L’ultimo rapporto Pepper del 2009 parla di una discreta
diffusione di queste forme partecipative, le quali non possono comunque sostituirsi alla
contrattazione nazionale sui salari fissi.

L’elaborazione da parte dell’U.E. di questo tema delle forme partecipative ha contribuito a


risvegliare il dibattito teorico. Tuttavia, l’accettazione delle direttive riguardanti i CAI e i
diritti di informazione e partecipazione è stata agevole grazie all’esperienza di origine
contrattuale in materia. Anche le forme di partecipazione finanziaria hanno cominciato a
diffondersi a partire dall’accordo del 1993, specie nelle forme della retribuzione legata ai
risultati, mentre è meno diffusa è la partecipazione a forme di azionariato operaio. La
situazione italiana delle relazioni industriali non è stata storicamente favorevole
all’introduzione di forme partecipative dei lavoratori negli organi delle società, tant’è vero
che i diritti di informazione contrattualmente acquisiti sono spesso sottoutilizzati. Una
modifica al comportamento restio dei sindacati verso questo tema, si è avuta di recente,
anche per via della modifica del diritto societario, grazie al fatto che la SE può essere
costituita secondo un sistema di governo duale, che dà la possibilità ai rappresentanti dei
lavoratori di essere presenti non nel consiglio di amministrazione ma in un consiglio di
vigilanza con compiti di indirizzo e controllo. Questa normativa è stata trasposta nel
nostro ordinamento grazie al D. Lgs. n°188/2005.

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