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OBAMA E LA CRISI MONDIALE

egemonia neocorporativa e multilaterale del credito


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Carla Filosa

Ormai manca quasi un mese all’insediamento di Obama alla presidenza Usa. L’eco dell’inedito tripudio
con cui è stato eletto si è fatta più lontana, e le attese, le speranze, gli atti di fede nel rinnovamento, il
sentimento di palingenesi di una popolazione colorata e trasversale sfocano nelle urgenze di materializzare
ogni strumento a difesa dalla crisi mondiale. Il dopo Bush sembra già iniziato, Bush presente, in una
transizione troppo lunga per i licenziamenti in corso e annunciati, oltre che troppo ambigua per le continuità
sotterranee del passaggio di consegne, e le differenze per ora solo nei nomi rinnovati – e nemmeno tutti –
dello staff democratico.
Piuttosto che alla sensibilità al colore della pelle, ai sorrisi invitanti, agli affetti familiari e così via
esternando, è preferibile leggere il colore politico dalle scelte economiche, dalla qualità e quantità degli affari
in corso di allestimento. Obama è stato eletto forse perché presumibilmente incarnava in modo più credibile
il cammello che avrebbe dovuto trasportare gli Usa dentro (e fuori?) la crisi, senza farsi cadere addosso
l’ultima insostenibile piuma. Nell’immagine di riscatto sociale cucitagli addosso, ha fatto sognare di
conciliare l’inconciliabile, riunendo tutto e tutti nella simpatia, se non adorazione, della sua persona, proprio
come ci si aspetta dal carisma di ogni leader destinato a cavalcare importanti mutamenti. Il “change” reale
però – quello della crisi – si era già verificato prima delle elezioni, lascerà in apparenza alle abilità di Obama
solo la gestione sia della crisi mondiale, sia dell’irreversibile declino dell’egemonia Usa.
Nell’analisi di Bruce Marshall [cfr. no.122, marzo] già si esplicitava il sostegno di interessi e
finanziamenti dietro la figura del nuovo presidente, ancora da eleggere. Il condizionamento delle centrali
finanziarie che contano a livello mondiale non lascerà ora, ad Obama eletto, nessuna autonomia decisionale.
Non solo. Dichiarazioni attendibili da parte di Zbigniew Brzezinski (cofondatore della Trilateral e consigliere
di punta di Obama), di Joe Biden (vicepresidente), di Colin Powell, di Madeleine Albright e di altri
consiglieri del Pentagono hanno profetizzato che tra il 21 e 22 gennaio, comunque entro i primi 270 giorni
della nuova presidenza, Obama sarà costretto ad affrontare una crisi internazionale che richiederà
provvedimenti “duri e impopolari” e che “metteranno alla prova la stoffa di quest’uomo”. Viene anche det to
che siffatta “crisi” può essere “generated”, ovvero procurata alla stessa stregua delle altre determinate dalla
Cia come: la Rivoluzione iraniana o la Baia dei Porci, o le “false flag” dell’incidente nel Golfo del Tonchino,
dell’attentato del 1993 all’Omc o di quello dell’11 settembre [cfr. Paul Joseph Watson, Prison Planet, e Steve
Watson, Infowars.net].
Se le previsioni provenienti dal pianeta americano debbono farci riflettere su come il sistema di capitale
può operare di fronte a una crisi allo stesso tempo consueta e inedita, dobbiamo abbandonare i falsi schermi
dietro cui finora la politica mediatica tende a ridurci. Nessuna differenza di genere, di razza, di partito, ecc.
conta per l’egemonia mondiale, che non sia acquiescenza totale alla necessità di concentrazione di ogni
sforzo – ormai inevitabilmente bipartisan ovunque, in alternanza o meno – per l’accumulazione di
plusvalore. Questa crisi, che tutti si sono affannati a definire finanziaria con ricaduta sull’economia reale, in
ossequio al totale capovolgimento della realtà di cui il capitale ha bisogno per dissimularsi, è in atto sin dagli
anni ‘60. Sempre deviata e fatta esplodere a piccoli pezzi, in paesi diversi (le cosiddette crisi asiatiche,
messicane, russe, ecc.), con i “flying capitals” in debito d’accumulazione e quindi rivoltisi alla speculazione
selvaggia, all’indebitamento di paesi, privati e singoli, pur di risucchiare tutto il plusvalore possibile, dopo
quarant’anni di rapine tra di loro e nei confronti delle popolazioni ignare (nulla “bruciano” le Borse, bensì
ripartiscono, sottraendo agli uni ciò che accaparrano gli altri!), ora è giunta alla fine, all’e splosione della
funzione del credito come multi-bolla globale.
L’evento internazionale ultimo, l’attentato di Mumbai, è stato attribuito ad al Qăīda – presumibilmente –
da parte dell’universo mediatico. Quali interessi, quali “intelligence” dietro quest’inespugnabile centrale
clandestina da anni in funzione, per definizione in grado di colpire chiunque e ovunque? Certamente è di per
sé una priorità, già messa a fuoco dal consigliere Bruce Ridel, imposta per le politiche di sicurezza nel sud-
est asiatico. Certo è che oltre a mantenere continuamente alta la tensione internazionale, pone gli interessi
Usa non più in contrapposizione, ma in coincidenza con quelli mondiali. Inoltre si tratta della più che visibile
continuità presidenziale Bush-Obama, anche se per ora in merito a condoglianze alle vittime, promesse di
aiuto all’India, condanna al terrorismo (con tanto di partenza per Mumbai di investigatori high profile del-

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l’intelligence Usa), necessità di aumento della cooperazione antiterrorismo con l’India. Al momento nulla si
dice di sapere sui “mujahiddin del Deccan” sedicenti autori dell’attentato, ma si approntano armi, alleanze e
necessarie cooperazioni strategiche con uno dei due paesi al mondo ancora in crescita economica.
Per quanto riguarda la continuità con l’amministrazione repubblicana, Obama non ha mai fatto mistero di
voler condurre una politica “bipartisan”, ancor prima di essere eletto. La reciproca cordialità nei confronti
dell’ex avversario Mc Cain, nei confronti dei Bush alla Casa Bianca, la riconferma del repubblicano Robert
Gates alla Difesa e dell’ex comandante della Nato James Jones al Consiglio per la Sicurezza Nazionale,
danno a noi, vecchi europei, e per giunta italiani, la sensazione del déjà vu: dell’ecumenismo, ancorché laico,
eretto sul consenso del cuore, del socialismo in rovesciata popular-destrorsa, del gattopardismo plebeo e
perciò maggiormente irriconoscibile, addirittura in versione colored per un eventuale usa-e-getta più
indifferente (a giudicare dalle scommesse, nel Maine, circa la sua eliminazione, alla Kennedy, cui peraltro
Obama si è tanto richiamato!). Versione moderna dei “superiori interessi della nazione” cui la
neocorporazione mondiale dovrà “sacrificare” ogni identità altra da quella del potere “democratico”,
decentrato nei singoli stati-nazione in qualità di guardiani.
Ulteriore elemento di continuità tra il presidente eletto e l’attuale ministro del tesoro Henry Paulson, si
riscontra sull’“emergenza”, la cui strategia d’azione è condivisa, per interventi straordinari quali: gli 800 mrd
$ per il credito al consumo e sblocco di alcuni mutui, il salvataggio di Citigroup, acquisto per 100 mrd $ da
parte della Fed dei titoli “traballanti” di Fannie Mae e Freddie Mac, per altri 500 mrd di mutui cartellizzati
emessi dagli stessi enti e ora non liquidabili, annunciati poi altri 200 mrd nel programma Talf [ Term asset-
backed securities loan facility] operativo solo a febbraio per sostenere carte di credito, prestiti a studenti, ecc.
Il tutto in aggiunta ai già stanziati 700 mrd, sempre su proposta Paulson, già fatti approvare da Bush al
Congresso, data la diminuzione del Pil dello 0,5% nel terzo trimestre e il 46% in più di banche a rischio,
senza contare quello in prospettiva di un’inflazione senza precedenti.
Per ora la crisi reale, precedente a quella finanziaria, porta il nome di Ford, Daimler Chrysler, General
Motors, ecc. che ora battono cassa allo stato federale, per il valore di 500 o 700 mrd $ (banale lo
stanziamento dei 175 mrd di cui Obama parlava solo in campagna elettorale!). Il sostegno globale
all’economia, tra cui gli sgravi fiscali alle imprese e alle classi medio-alte, costeranno subito il licenziamento
del 14% della forza-lavoro americana, senza contare i numeri del sommerso e quelli che seguiranno a
grappolo. Dall’inizio del 2008 sono stati persi 1,2 milioni di posti di lavoro, il tasso di disoccupazione è
salito al 6,5% nel mese di ottobre (oltre 10 milioni di persone) e si prevede per il 2009 che potrebbe arrivare
al 7,6% della popolazione attiva. Solo in febbraio ne sono previsti 63.000. Nessuna penalizzazione alle
banche. D. Rothkopf, ex sottosegretario al commercio di Bill Clinton, riferendosi anche ad Obama, in un suo
libro ha coniato il “modello violino” di questa politica: “tenere il potere con la mano sinistra e suonare con la
mano destra”.
L’evidenziazione delle continuità, anche con le amministrazioni democratiche precedenti, potrebbe
continuare a lungo, a partire dalla conferma dell’ex avversaria Hillary Clinton a Segretario di Stato. Ciò che
qui però è utile focalizzare è il binario unico della funzionalità al sistema del nuovo presidente, che già Bush
nelle sue ultime affermazioni ha dichiarato “valer la pena” di salvare, sia con l’intervento sia con il non
intervento (Lehman Brothers) soterico dello stato. Mentre i presidenti si alternano, mutano i singoli agenti
operativi al mutare delle fasi, l’imperialismo e le rispettive strategie restano, adeguate, queste, soltanto alle
necessarie modifiche dei tempi.
Obama non può che “scegliere” la continuità delle strategie Usa fin qui seguite, di cui si è impegnato ad
essere garante durante tutta la campagna elettorale. La ripetizione ossessiva del “change”, definita da alcuni
addirittura una forma mantrica di persuasione più o meno subliminale, era un pubblico dichiarare, ai propri
sponsor, di essere in grado – “yes, we can” – di porsi alla ricerca spasmodica di profitti carenti. La necessità
di mutamento della fase, il “must” del compito a lui affidato è infatti la “multipolarità” o trasnazionalità del
capitale, che impone ora agli Usa una perdita d’egemonia e un inserimento entro la cordata altamente
conflittuale degli interessi multinazionali. Le due opzioni (rispettivamente rappresentate da Wolfowitz e
Brzezinski) precedentemente stabilizzatesi all’interno dei due partiti in alternanza, seppure non in modo
rigidamente fissato, dovranno ora convivere entro una sopravvivenza del dollaro e un’aggressività da prima
potenza mondiale sempre pronta a scatenarsi contro il o i nemici di turno.
L’ambito di scelta della Casa Bianca è da sempre estremamente ridotto. La politica, soprattutto quella
internazionale, viene decisa dai gruppi finanziari dominanti, dalle multinazionali di cui i presidenti politici,
in avvicendamento funzionale alla stabile (?) credibilità popolare, sono gli esecutori visibili, i piazzisti che
pagheranno di persona, il volto presentabile – e fulcro dell’auspicato consenso mondiale – delle centrali
clandestine del potere reale. D’ora in poi, dal primo G.20 di novembre al secondo che si terrà in aprile, con
Obama presidente in carica, la fine dell’egemonia Usa e l’ingresso nella fase multipolare dell’im perialismo
mondiale richiederà probabilmente una sapiente fusione delle due strategie finora adottate dall’imperialismo
anglofono.

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Il governo mondiale che dovrà gestire la crisi non risparmierà guerre per creare una “ripresa”, cioè un
problematico nuovo avvio degli investimenti produttivi entro un’aumentata conflittualità tra capitali in grado
di gestire anche la minaccia nucleare – stando alle loro dichiarazioni – dove più risulterà loro vantaggioso. Il
ritiro dall’Iraq in 16 mesi, programma annunciato dal presidente eletto non deve trarre in inganno circa la
necessità di conflitti armati – primo tra tutti quello in corso in Afghanistan – cui saranno coinvolti sempre più
eserciti, anche qui: per socializzare le perdite e spartire dietro le facciate statuali i profitti conquistabili. Ciò
significa incrementare il controllo su ogni aspetto della vita civile di ogni paese, eliminando in maniera
consensuale o coatta l’opposizione istituzionale e “della piazza”. Per la prima, va solo portato a termine il
suicidio comunista nella manipolazione eternizzante dell’unico sistema possibile. Per la seconda, i
“facinorosi” o “eversivi” sempre più a tappeto verranno demonizzati (già è il nostro presente), e i sindacati e
gli organizzatori del dissenso saranno corrotti in modo da far stemperare le forze nel loro esaurimento
interno.
Il concetto di “occidente” già altre volte qui segnalato, serve, ormai completato nella crisi attuale, a
stringere nella morsa della sopravvivenza non del tutto certa del sistema, le risorse in ricchezza reale, la
forma monetaria, il materiale umano riuniti nel ricatto del dominio finché possibile – “ yes, we can” – oltre il
quale si precipiterebbe nell’esser dominati. Il tutto dovrà avvenire entro la facciata della “legalità”. Ove
questo non sarà possibile si passerà alla legittimazione, con l’“adattamento delle leggi”, cioè con la loro
forzatura a negazione reale dei princìpi dichiarati. Si pensi, ad esempio, alla “guerra preventiva” cui ora si
potrebbe aggiungere l’uso dell’arma nucleare di ultima generazione, “to prevent damage”. Si renderanno
impraticabili eventuali scelte autonome da parte di un’Europa non ancora politicamente compatta, mediante
l’obbligo a sottostare alle decisioni Nato, richieste all’unanimità, anche con il già sperimentato ricorso alla
“invocazione da parte delle vittime” cui viene “risposto”.
Per ora si è dato spazio di preferenza alle guerre di media (come in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq) e bassa
intensità (conflitti provocati tra paesi confinanti, attraverso movimenti paramilitari o terroristici, con
coinvolgimento militare scarso o del tutto assente da parte degli Usa). Le low wars (come ora in Congo)
presentano il vantaggio di far meno rumore e di essere più “intelligenti” (la violenza è solo indiretta e
pertanto meno visibile; viene usata, a seconda dei casi, l’arma della destabilizzazione, della corruzione, del
ricatto anche di leader locali, della demonizzazione di campagne mediatiche, degli embargo e blocchi
commerciali, dei colpi di stato, dei movimenti separatisti, delle guerre di confine, ecc., il tutto predisposto e
organizzato dai servizi segreti) [cfr. What will the Us foreign policy be tomorrow? da
<michel.collon@skynet.be>].
Un presidente, in particolare giovane, che solo dal colore della pelle mostra un possibile superamento dei
peccati originali degli americani (razzismo e schiavismo), che incarna l’ideale dell’eguaglianza dei popoli
nell’american dream profetizzato da M.L.King, è dunque il ristabilimento di quell’autorità morale che gli
Usa hanno da tempo perso in tutto il mondo. Obama rappresentava dunque una miscela ottimale di credibilità
e verosimiglianza di cui le istituzioni internazionali del capitale (Fmi, Bm, Omc, ecc.) avevano disperato
bisogno per traghettare le scialuppe dei potenti lontano dal Titanic in affondamento (scandali finanziari,
fallimenti economici e politici, guerre perdute o con costi anche umani illimitati, perdita delle libertà
individuali, deriva da stato di polizia con pratiche di tortura e di detenzioni illegali, carceri clandestine o non
legittimabili, ecc.).
L’elezione di questo presidente “abbronzato” – decisa e finanziata da lobbies legate alla scuola di Chicago
di Friedman per la sua “malleabilità” alle esigenze speculative di Wall Street, oltre che alle privatizzazioni
della sicurezza sociale e dell’assistenza sanitaria, favorevole infine alla messa in opera di infrastrutture che
determineranno un’ulteriore bolla finanziaria inizialmente sostenuta dalla spesa pubblica – è stata salutata
dall’entusiasmo in tutto il mondo, realizzato nel pieno utilizzo di tutta la tecnologia all’avanguardia. La
capillarità comunicativa con cui Obama ha direttamente informato delle sue mosse utilizzando i cellulari
degli americani, ha pienamente compiuto quanto la psicologia militare aveva faticosamente individuato
durante la I guerra mondiale: trasmettere gli ordini non dall’alto, ma attraverso piccoli gruppi, con rapporti
personali più atti alla persuasione e all’ottenimento del consenso. Che si abbia l’impressione di contare
umanamente ...

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