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RIVISTA DI FILOSOFIA

NEO-SCOLASTICA
Pubblicata a cura dell'Università Cattolica del Sacro Cuore
COMITATO SCIENTIFICO DI DIREZIONE:
GUSTAVO BONTADINI - SOFIA VANNI ROVIGHI '
ADRIANO BAUSOLA - ANGELO PUPI - GIOVANNI REALE
DIRETTORE: A. BAUSOLA
Anno LXVII Ottobre-Dicembre 1975 Fascicolo IV

La « Rivista di Filosofìa neo-scolastica », fondata nel 1909, ha costitùito per


decenni uno dei centri più importanti intorno ai quali si è raccolto il pensiero
neoscolastico italiano. A tale orientamento sono, anche oggi, legati molti dei suoi
collaboratori; la Rivista mantiene il suo antico titolo — ormai, entrato nella
storia della filosofia italiana del nostro secolo — nella persuasione che quanto
esso esprime sia vivo e non sprovvisto di potenzialità di sviluppo.
La « Rivista di Filosofia neo-scolastica » è peraltro aperta a tutte quelle voci
non di impostazione neoscolastica, le quali — in piena autonomia di ricerca, ma
non in dissonanza con la fede cristiana — contribuiscono ad alimentare l’inda­
gine e la discussione filosofica contemporanee.

SOMMARIO

STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA


R. Cantalamessa, Incarnazione e immutabilità di Dio. Una soluzione
moderna nella patristica?................................................ p. 631
P. De Vitiis, Immanuel Hermann Fichte interprete dell'idealismo
tedesco.................................................................................. -»—648-
M. Ivaldo, Il problema Loisy: i primi scritti...........................................» 665

NOTE DISCUSSIONI E RASSEGNE


S. Arcoleo, La rinascita degli studi aristotelici in Italia dal 1961 ad
oggi. Parte quarta: dal 1968 al 1972 ............................... » 688
L. Alfonsi, Su un momento dell’* Hortensius » ciceroniano ... » 715
O. Carbonero, « Astutia suadendi » - « Duritia saeviendi »: i due volti
del sistema pagano in Tertulliano................................................... » 713
A. Roncoroni, Echi di invasioni barbariche e prospettive storico­
teologiche in alcuni poeti cristiani.................................................. » 723
G. Accarini, La ricerca di una nuova via spirituale in « Colonna e
fondamento della verità » di Pavel Florenski .... » 726
A. Babolin, Il pensiero filosofico e religioso di Abraham J. Heschel
nella critica d’oggi............................................................................ » 738
A. Poppi, La ricusazione della filosofia nel più recente marxismo ita­
liano ........................................................................................... » 768
I. Biffi, Il computer a servizio di san Tommaso: V* Index Thomi-
sticus »..................................................................................................... » 777

(segue in terza pagina di copertina)


STUDI DI STORIA DELLA FILOSOFIA

Raniero Cantalamessa

INCARNAZIONE E IMMUTABILITÀ DI DIO.


UNA SOLUZIONE MODERNA NELLA PATRISTICA?

Il problema se l’incarnazione comporti o meno un divenire reale


— e, perciò stesso, una mutazione — in Dio è balzato di nuovo in primo
piano nella cristologia contemporanea, dopo un periodo di relativa calma
succeduto al tramonto delle teorie kenotiche del secolo scorso *. Questo
nuovo contesto teologico, definito ‘evoluzionistico’ da K. Rahner, è carat­
terizzato da una profonda revisione del concetto classico dell’immutabi­
lità divina nell’incarnazione quale è espresso dall’atreptos (immutabiliter)
della definizione calcedonese.
Il nuovo modo di porre il problema ha richiamato spontaneamente
l’attenzione su un testo di Tertulliano che sembra anticipare, con singo­
lare chiarezza e ardimento, questa visione moderna e dinamica dell’immu­
tabilità divina. « Dio, scrive egli, può mutarsi in tutte le cose e rimanere
quello che è »2. Con la presente ricerca mi propongo di illustrare cosa
c’è dietro questo singolare testo di Tertulliano e quale concezione di Dio
nel contesto ellenistico ha reso possibile una tale soluzione del problema

1 Accenno appena alle soluzioni della teologia radicale, secondo cui la mutazione
inerente all’incarnazione è tanto reale da comportare la « morte di Dio»: cfr. soprat­
tutto T. Altizer, The Gospel of Christian Atheism, Philadelphia 1966. Ricordo invece il
tentativo di P. Schoonenberg, Un Dio di uomini, trad. it., Brescia 1971, pp. 94-96, e di
H. KtlNG, Incarnazione di Dio, trad. it., Brescia 1972, pp. 642 s. (dove si legge anche
una rassegna delle posizioni recenti sul problema): tentativi che si ricollegano in
modo diverso a K. Rahner, Zur Theologie der Menschwerdung, in Schrijten der
Theologie, voi. IV, Einsiedeln 1960, pp. 137-155, pubblicato la prima volta in « Catho­
lica », XII, 1958, 1-16 (trad. it. Roma 1967, pp. 193-221; Considérations générales sur la
christologie, in Problèmes actuels de christologie, edd. H. Bouesse et JJ. Latour,
Bruges 1965, p. 25; H. Muhlen, Die Verdnderlichkeit Gottes als Horizont einer zukiìnfti-
gen Christologie, Miinster in W. 1969. Si veda anche W. Pannenberg, Grundziige der
Christologie, Giitersloh 1969, pp. 317-334 (la storia dell’interpretazione kenotica dalla
riforma in poi).
2 De carne Christi, 3, 5 (CC 2, 876).
632 R. Cantalamessa

forse più acuto che la dottrina dell'incarnazione pone al pensiero cristiano:


quello della sua conciliazione con l'immutabilità divina.

Il problema della mutazione in Tertulliano

Tertulliano fu indotto a occuparsi del problema della mutazione alme­


no in quattro contesti diversi:
1. a proposito della teoria della metensomatosis o metempsicosi, nel-
YApologeticum e nel De anima-,
2. a proposito della creazione della materia, neliyfdversus Hermo­
genem·,
3. a proposito della risurrezione finale della carne, nel De resur­
rectione-,
4. a proposito dell'incarnazione, nel De carne Christi e neU’Adveritis
Praxean.
E necessario accennare brevemente alla soluzione che l’Africano dà
nei primi tre casi, prima di soffermarci sul quarto che è il solo che ci
interessa direttamente.
Tertulliano rifiuta la dottrina pitagorica della trasmigrazione delle
anime da un corpo a un altro (metensomatosis'), in base al seguente argo­
mento: « Le anime non sono le stesse che erano [nella precedente incar­
nazione], poiché non avrebbero potuto cominciare ad essere ciò che non
erano senza cessare di essere ciò che erano »3. Da questo testo e da
quello parallelo del De anima4 emerge già la definizione di mutazione
con la quale Tertulliano opererà costantemente in seguito. Nella forma più
sintetica tale definizione suona: « Converti in aliud finis est pristini »5.
Talvolta essa è sciolta in una proposizione verbale del tipo di questa!-
« Omne quodcumque transfiguratur in aliud desinit esse quod fuerat et
incipit esse quod non erat »6.
Si tratta di una definizione nota, nei suoi termini essenziali, fin dal
presocratico Melisso e diffusa anche tra i latini7. Non si è notato abba-

3 Apologeticum, 48, 2 (testo della ree. vulgata) (CC 1, 165 s.): « latti non ipsae
sunt, quae fuerant, quia non potuerunt esse quod non erant, nisi desinant esse quod
fuerant ». Per il testo cfr. G. Thoernell, Studia Tertullianea, voi. IV, Uppsala 1926,
pp. 135-140.
4 De anima, 32, 7 (CC 2, 831): « Enimvero si demutationem capit amittens quod
fuit, non erit quae fuit; et si quae fuit non erit, soluta est metensomatosis ».
5 De carne Chr., 3, 4 (CC 2, 876); cfr. anche Adversus Hermogenem, 34, 2 (CC 1,
426): «mutari perire est pristino statui»; Adversus Praxean, 27, 7 (CC 2, 1199): «trans­
figuratio interemptio est pristini ».
‘ Adv. Prax., 27, 7 (CC 2, 1199); per le oscillazioni della terminologia, del resto poco
rilevanti, vedi R. Braun, Deus Christianorum. Recherches sur le vocabulaire doctrinal
de Tertullien, Paris 1962, pp. 57-59.
7 La definizione si legge in Melisso, Fragm. Diels B 7: εί γάρ έτεροιοΰται (το άπειρον),
άνώγκη το έόν μή όμοΐον είναι, άλλά άπόλλυσθαι το πρόσ&εν έόν, το δέ ούκ έόν γίνεσθαι
(cfr. De carne Chr., 3, 4: « amittens quod erat dum fit quod non erat »); Lucrezio, De
rerum nat., III, 519-520: « nam quodcumque suis mutatum finibus exit, / continuo hoc
mors est illius quod fuit ante ». È probabile un influsso diretto del testo lucreziano
su Tertulliano che anche altrove (De anima, 5, 6) riproduce una massima filosofica del
poeta latino. Da Tertulliano, a sua volta, potrebbe dipendere Novaziano, Trin., 4, 24
Incarnazione e immutabilità di Dio 633

stanza un fatto curioso: la frequenza di questa definizione nelle opere


di Tertulliano non è dovuta tanto a una simpatia dell'Africano nei suoi
confronti, quanto piuttosto alla difficoltà che essa creava a ogni piè so­
spinto al suo sistema di pensiero condizionato dal monismo stoico. In
quasi tutti i contesti in cui egli discute il problema del mutamento è co­
stretto a difendersi dalle obiezioni mossegli dagli avversari in nome di
quella definizione che lui stesso aveva utilizzato contro la dottrina pita­
gorica della metensomatosis.
Così avviene nell’Adv. Hermogenem, in cui Tertulliano è impegnato a
combattere la detta definizione nell’uso che ne faceva l’avversario, il quale
con essa intendeva dimostrare che Dio non può aver creato la materia
senza subire egli stesso un mutamento, concludendo in tal modo a favore
della tesi platonica dell'eternità della materia. Partendo dall’immutabilità
divina, Ermogene, come si vede, contestava l’idea stessa di creazione. Se
Dio crea, dice egli, muta; se muta non è eterno 8.
Con la sua solita dialettica, Tertulliano riesce a ritorcere, questa volta,
l’argomento contro l'avversario, prendendo per buona la definizione di mu­
tamento da lui utilizzata e osservando che appunto perché la materia è
soggetta a mutazione non può essere eterna come sostiene Ermogene9. Non
così negli altri due casi: quello della risurrezione finale della carne e quello
dell'incarnazione del Verbo. Qui l’Africano è costretto alla soluzione estrema
di contestare la definizione stessa di mutamento fino allora comune tra i
filosofi. ;!i
Nel primo caso, gli avversari gnostici ricorrevano alla definizione clas­
sica secondo cui mutare significa cessare di essere ciò che si era, per dimo­
strare che la risurrezione dei morti, dato e non concesso che ci sia, dà
luogo a un nuovo corpo umano, diverso da quello terreno. Tertulliano si
trova esattamente di fronte alla stessa obiezione che lui stesso aveva mosso
alla dottrina della metensomatosis. Lungi però dal retrocedere dinanzi alla
difficoltà, contraddicendo apertamente ciò che aveva detto altrove, egli nega
che « demutari desinere sit in totum et de pristino perire »10. Introduce
invece una distinzione inedita tra mutatio e perditio, in base alla quale
perire significa cessare del tutto di esistere, mutari invece significa esistere
in modo diverso da prima u. Questo gli permette di concludere che « nel

(H. Weyer, p. 54): « Quidquid enim aliquando vertitur, mortale ostenditur hoc ipso,
quod convertitur; desinit enim esse, quod fuerat, et incipit consequenter esse, quod
non erat ». Per altri testi patristici posteriori, cfr. J.H. Waszink, Tertulliani De anima,
Amsterdam 1947, pp. 390-391.
* Herm., 12, 3-4 (CC, 1, 407): « Materiam vero tene semel aeternam determinatam,
ut infectam, ut innatam, et ideo indemutabilis et incorrectibilis naturae credendam,
ex ipsius etiam sententia Hermogenis, quam opponit, cum deum negat ex semetipso
facere potuisse, quia non demutetur quod sit aeternum. Amissurum scilicet quod
fuerat, dum fiat ex demutatione quod non erat, sic non esse aeternum ».
9 Ibid., 12, 4: « Hac et ego definitione merito illum repercutiam. Materiam aeque
reprehendo, cum ex illa mala, pessima etiam, bona atque optima a deo fiunt...
Demutationem igitur admisit materia, et si ita est, statum aeternitatis amisit ».
10 De res. mort., 55, 2 (CC 2, 1001); cfr. invece ciò che dice in Herm., 34, 2, cit.
sopra (nota 5).
11 De res. mort., 55, 6 (CC 2, 1002): « Perisse enim est in totum non esse quod
fuerit; mutatum esse aliter esse est ».
634 R. Cantalamessa

caso della risurrezione è possibile mutare, convertirsi, trasformarsi, man­


tenendo la propria sostanza: cum salute substantiae »u.
Apparentemente Tertulliano sembra venire a capo con maggiore disin­
voltura di un’obiezione analoga mossagli a proposito dell'incarnazione. Ri­
produco l'intero testo perché su di esso dovrà concentrarsi tutta la succes­
siva indagine. Il discorso inizia con un’apostrofe rivolta all’avversario, cioè
principalmente a Marcione:
« Non puoi dire che, se fosse nato e avesse veramente rivestito l’uomo,
avrebbe cessato di essere Dio, perdendo ciò che era nell’atto di divenire ciò
che non era. Dio non va soggetto ad alcun pericolo di venir meno al suo stato.
Dici: — Per questo io nego che Dio si sia veramente convertito in uomo, così
da nascere e assumere un corpo di carne, perché colui che è senza fine è
necessariamente anche inconvertibile. Mutarsi infatti in un’altra cosa è la fine
di ciò che si era prima. Non ci può essere dunque una conversione in colui
che è senza fine —. Certo, questa è la legge delle creature mutevoli, di non
conservare cioè quello che in esse si muta e, in tal modo, non conservandolo,
perire, dal momento che convertendosi perdono ciò che erano. Ma nulla è
paragonabile a Dio: la sua natura è diversa dalla condizione di tutte le cose.
Se perciò le cose diverse da Dio, e dalle quali Dio a sua volta si differenzia,
allorquando si convertono perdono ciò che erano, dove va a finire la differenza
tra la divinità e le altre cose, se per essa non si verifica il contrario e cioè che
Dio possa convertirsi in ogni cosa e rimanere quello che è? »1J.

Il problema incarnazione e immutabilità divina prima


di Tertulliano: la soluzione platonica

Non mi soffermo sulla prima parte del testo che riproduce l’obiezione
di Marcione, se non per metterne in rilievo il carattere fittizio. Gli editori
del De carne Christi hanno creduto di poter isolare, nel testo citato, delle
enunciazioni letterali di Marcione e Hamack ha rafforzato questa convin­
zione14. Già però il solo fatto che qui Marcione parli con le stesse parole
altrove usate da Tertulliano o da lui messe sulle labbra di Ermogene 15 e il

12 Ibid., 55, 12 (CC 2, 1003).


13 De carne Chr., 3, 4-5 (CC 2, 876): « Non potes dicere: Ne, si natus fuisset et
hominem vere induisset, deus esse desisset, amittens quod erat, dum fit quod non
erat. Periculum enim status sui deo nullum est. ‘Sed ideo’, inquis, ‘nego deum in
hominem vere conversum, ita ut et nasceretur et carne corporaretur, quia qui sine
fine est etiam inconvertibilis sit necesse est. Converti enim in aliud finis est pristini.
Non competit ergo conversio eius cui non competit finis’. Plane, natura convertibilium
ea lege est, ne permaneant in eo, quod convertitur in eis, et ita non permanendo
pereant, dum perdunt convertendo quod fuerunt. Sed nihil deo par est; natura eius
ab omnium rerum condicione distat. Si ergo quae a deo distant, a quibus et deus
distat, cum convertuntur amittunt quod fuerunt, ubi erit diversitas a ceteris rebus,
nisi ut contrarium obtineat, id est ut deus et in omnia converti possit et qualis
est perseverare? ».
14 A. Harnack, Marcion: das Evangelium vom fremden Gott (TU 45), Leipzig 1924,
p. 124, n. 4, attribuisce il testo « Sed ideo nego deum etc. » a Marcione o a un suo
discepolo.
15 Cfr., per es., Herm., 12, 3-4 e 34, 2.
Incarnazione e immutabilità di Dio 635

fatto che faccia uso della definizione tecnica di mutazione circolante nelle
scuole suscita grosse perplessità circa l’autenticità marcionita dell’inserto.
La convinzione è rafforzata dal fatto che nessun’altra fonte attesta 1’esistenza
di un'obiezione gnostica o marcionita contro l'incarnazione, mossa in nome
dell'immutabilità di Dio. Tutto quello che si può documentare, a questo
proposito, in epoca anteriore a Tertulliano, è la tendenza degli gnostici a
interpretare Phil. 2, 6-7 (« cum in forma Dei esset... formam servi acci­
piens ») come cambiamento di morphè, cioè come metamorphosis, o assun­
zione della sola figura umana, con esclusione della rispettiva sostanza 16: ciò
che dà l’occasione agli autori ecclesiastici di formulare nei confronti degli
gnostici l'obiezione di concepire l’incarnazione come pura transfiguratio,
nel senso cioè di una demutatio anche se solo superficiale 17. In certo senso,
quindi, sono gli autori ecclesiastici che muovono l’obiezione della immu­
tabilità di Dio agli gnostici e non viceversa.
La discussione intorno all’incarnazione e all’immutabilità di Dio è però
posta, sempre in epoca anteriore a Tertulliano, in maniera molto più evo­
luta dai filosofi pagani, sotto forma di un’obiezione tratta da Platone all’idea
cristiana dell’incarnazione divina 18. La nostra fonte privilegiata, al riguardo,
è Celso. Tutta l’argomentazione di Celso è retta da un rimando al testo
classico di Platone suH'immutabilità divina, nel quale si legge:

16 Ireneo, Adv. Haer., Ili, 11, 2, dice a proposito dei marcioniti: « manifestatum
eum quemadmodum hominem transfiguratum, neque aiitem natum, neque incarna­
tum »; cfr. anche ibid., I, 23, 3; Tertulliano, Adv. Marc., V, 20, 3 (CC 1, 724); Ippolito,
Ref., X, 11, 10-11 (Ofiti); Origene, C. Ceis., IV, 15.18; Epifanio, Haer., 76, 34 (GCS 37,
p. 383, 27); Filastrio, Divers. haer. liber, 70, 1 (CC 9, 246-247).
17 Cfr. Tertulliano, Adv. Prax., 27, 7 ss. (CC 2, 1199). Forse a questa problematica
antignostica vanno ricollegati alcuni accenni che si incontrano negli autori anteriori
a Tertulliano circa l’immutabilità di Dio neH’incamazione: cfr. Melitone di Sardi,
Fragni. 14 (O. Perler, SCh., 123, p. 240): « Servi speciem indutus est, et patris speciem
non mutavit. Omnia erat immutabili natura »; Ippolito, C. Noetum, 17 (P. Nautin, p. 263,
10) esclude che l’incarnazione sia avvenuta per una mutazione della divinità (tropè,
tuttavia, potrebbe tradursi anche con ‘metafora’). Questi accenni, oltreché agli gnostici,
potrebbero riferirsi alla dottrina pagana delle metamorfosi degli dei della mitologia,
dalle quali, in questo caso, si intenderebbe distinguere l’incarnazione del Figlio di Dio:
cfr. Pseudo-Clemente, Hom., VI, 10 (GCS 42, 110); Aristide, Apoi., 8, 2; 9, 6; Taziano, Or., 10;
Giustino, Dial., 67, 2; I Apoi., 23, 3; 33, 3; Tertulliano, Apoi., 21, 8 (« amatorem [lovem]
in aurum conversum Danaes »). Sulle metamorfosi delle divinità nel paganesimo, cfr.
F. Heichelheim, Tierdamonen: Pauly-Wissowa, VI A, 1, coll. 893-897; secondo l’esegesi
allegorica degli stoici, esse altro non sono che le mutazioni (tropai) dell’unica divinità
che tutto pervade: cfr. Ps.-Clemente, Hom., VI, 10 (GCS 42, 110).
18 Nonostante la dichiarazione di Origene (C. Ceis., IV, 14), che tende a ricondurre
alla Bibbia l’affermazione deH’immutabilità di Dio (vedi la citazione ivi di Ps. 101, 28
e di Mal., 3, 6), appare evidente che è il platonismo a imporre al cristianesimo questa
problematica, ignota nelle fonti anteriori all’incontro con l’ellenismo. Il testo di Giac. 1,
17 (« apud quem [Patrem ] non est transmutatio» [παραλλαγή]) non sembra aver
attirato alcuna attenzione a questo riguardo. Sul concetto del divenire divino nel pen­
siero greco preplatonico, cfr. A. Milano, Il divenire di Dio. Sulla « teologia naturale »
dei primi pensatori greci, « Asprenas », 1973, pp. 4-59; tra la bibliografia citata da
Milano si veda particolarmente W. Jager, La teologia dei primi pensatori greci, Firenze
1961. Nei presocratici si realizza già il superamento della concezione mitica del divenire
di Dio (la teogonia): Dio è ingenerato (άγένητος) e incorruttibile (άφθαρτος): cfr. Anas­
simandro, Diels-Kranz, A, 15. Il divenire divino (la genesis) che pure resta implicato
nel modo con cui essi concepiscono il rapporto tra il divino e la natura è un rapporto
causale che non distrugge l’attributo dell’immutabilità (cfr. A. Milano, Il divenire...,
cit., pp. 53-59).
636 R. Cantalamessa

«—Non potrebbe (Dio) cambiarsi (μεταβάλλοι) lui stesso trasformandosi


(άλλοιοϊ) ?
— Certo, disse, se però è vero che si trasforma.
— Ma cambia (μεταβάλλει) egli stesso in meglio e in ciò che è più bello,
oppure in peggio e in ciò che è più brutto? '
— Se veramente cambia, disse, è necessariamente in peggio; noi non diremo
mai infatti che Dio è bisognoso di qualche bellezza o virtù.
— Giustissimo, dissi io. Ma se così è, ti sembra, o Adimante, che qualche
essere, uomo o Dio, voglia farsi di sua volontà peggiore sotto qualsiasi riguardo?
— È impossibile, disse.
— Dunque è impossibile anche per un Dio, ripresi io, che voglia cambiare,
ma piuttosto essendo ognuno di loro il più bello e il migliore possibile, rimane
in eterno nella semplicità della sua forma » ”.
Celso ricava da questo testo un’obiezione contro l’incarnazione dei
cristiani, scrivendo:
« Dio è buono, bello, beato, nel più alto grado di bellezza e di eccellenza.
Perciò, se egli discende verso gli uomini, deve subire un mutamento (μεταβολή):
mutamento dal bene al male, dalla bellezza alla bruttezza, dalla felicità all’infeli­
cità, dal meglio al peggio. Ma chi sceglierebbe di sua spontanea volontà un
simile mutamento? È vero che per un mortale la natura è di cambiare e di
trasformarsi, ma per un immortale è di essere identico a se stesso e immutabile.
Dio dunque non può ammettere un tale mutamento »20.
In tal modo, con l’emergere cioè del problema dell’incarnazione, l’im­
mutabilità divina, da argomento classico dell’apologetica cristiana contro
la concezione stoica di Dio e contro le metamorfosi divine della mitologia
pagana21, si trasforma di colpo in un formidabile argomento del pagane­
simo contro la religione cristiana. -------------------
Celso è a conoscenza che questa sua obiezione non si applica a ugual
titolo a tutti i cristiani perché alcuni di essi ammettono una « discesa » o
incarnazione reale di Dio, altri invece (gli gnostici) solo una discesa appa­
rente. Ma anche contro questo secondo modo (docetista) di concepire la
discesa di Dicf egli poteva farsi forte di un argomento di Platone. Questi
infatti aveva scritto, nello stesso contesto del brano precedente, a propo­
sito delle metamorfosi delle divinità:
« Credi tu che Dio sia un mago o tale da ingannarci, trasformandosi ora
in un’immagine ora in un’altra, ora realmente presente e mutando (άλλάττοντα)

15 Respubl., 381, b-c.


22 Celso, in Origene, C. Ceis., IV, 14; cfr. anche ibid., IV, 5 con il commento di
C. Andresen, Logos und Nomos. Die Polemik des Kelsos wider das Christentum,
Berlin 1955, pp. 89-96. A questo concetto platonico si ispira forse Exc. Theod., 8, 3
(GCS 17, p. 108, 27 s.), dove si parla del mondo divino come della « sfera dell’identità »
(ένταύτότητι),οίοέ del piano dell'essere immutabile, in opposizione a quello fenomenico
e mutabile in cui il Salvatore entra con rincamazione: cfr. anche Exc. Theod., 19, 2.
21 Cfr. Aristide, Apoi., 4, 1; Giustino, I Apoi., 20, 2; Taziano, Or., 10; Atenagora,
Leg., 16, 4; Teofilo, Aut., I, 4. Più avvertito degli altri apologisti, Giustino aveva già
colto la possibilità (o 1'esistenza di fatto?) di una tale obiezione da parte dei pagani,
collegandola però più con il fatto della morte del Figlio di Dio che con quello della
sua incarnazione: cfr. I Apoi., 13, 4.
Incarnazione e immutabilità di Dio 637

la sua forma e assumendo varie forme, ora invece ingannandoci, facendo sì che
agli altri sembri (δοκεϊν) che queste cose avvengano di lui? Non è egli piuttosto
semplice e del tutto incapace di cambiare la sua forma? » a.
Celso utilizza manifestamente questo testo contro i cristiani quando
scrive:
«O Dio cambia (μεταβάλλει) veramente, come essi [i cristiani] pretendono,
per divenire un corpo mortale, ciò che — come si è detto — è impossibile, oppure
non cambia lui stesso, ma fa sì che a chi lo vede sembri (δοκεϊν) [che sia cam­
biato] e allora egli inganna e mente » ”.
Celso con questa seconda ipotesi allude con tutta probabilità alla con­
cezione gnostica docetista dell'incarnazione, anche se Origene nella sua
risposta sembra far riferimento piuttosto a Filone. Egli infatti scrive:
« Che altri concedano pure a Celso che Dio non cambia, ma fa in modo
che a coloro che lo vedono sembri (δοκεϊν) che sia cambiato (μεταβεβληκέναι).
Quanto a noi, convinti che non c’è apparenza (δόκησις), ma solo verità e realtà
nella venuta di Cristo tra gli uomini, noi non incorriamo nel rimprovero di
Celso » ”,
Non mi soffermo sulla risposta che Origene dà al filosofo pagano
perché essa, per quanto teologicamente interessante, storicamente riflette
uno stadio della discussione posteriore a Tertulliano e notevolmente più
evoluto. Con Origene abbiamo già il grande principio della cristologia
patristica « Quod erat permansit, quod non erat assumpsit » a. Per il prose­
guimento della presente ricerca è utile e sufficiente mettere in rilievo l’os­
servazione di fondo che emerge dalla meditata risposta dell'Alessandrino,
che è questa: l’obiezione contro l’incarnazione fatta in nome dell’immuta­
bilità di Dio si pone acutamente soprattutto nella prospettiva del dualismo
ontologico di Platone, in cui la semplice discesa di Dio verso l’uomo (la sua
synkatabasis, o condiscendenza), comportando un contatto con la materia,
‘contamina’ il Logos e gli fa subire una mutatio in peius, anche nell’ipotesi
della permanenza inalterata della sua ousia divina26. È, in sostanza, il dogma

22 Respubt., 380 d.
22 Celso, in Origene, C. Ceis., IV, 18.
24 Ibid., IV, 19: cfr. Filone, De Somn., I, 232. 239, con la nota che ho dedicato al
testo in «Aevum», XLVIII (1974), p. 132.
22 Prine., I, praef. 4: « Cum Deus esset et homo factus mansit quod erat, Deus ».
Nella forma classica l’assioma si trova in Gregorio di Naz., Or. theol., III, 19:
(δ μέν ήν, διέμεινεν δ δε ούκ ήν, προσέλαβεν), ma nella sostanza esso rimonta al II
secolo come ho cercato di dimostrare in L'omelia « In S. Pascha » dello Ps. Ippolito
di Roma, Milano 1967, pp. 199-205. Accanto ad argomenti ad hominem, di carattere ritor-
sivo, come quello delle trasformazioni delle divinità pagane (C. Ceis., IV, 17) e della
concezione stoica ed epicurea di Dio (ibid., IV, 14; coll. II, 21; III, 75), Origene presenta
anche un tentativo di soluzione del problema « incarnazione e immutabilità divina » assai
più profondo di quello di Tertulliano. Egli parte dal punto cui era giunto in una prece­
dente discussione con Celso (ibid., IV, 3-5), affermando che gli interventi di Dio nella
storia non distruggono il dogma biblico dell’immutabilità divina; in Dio infatti esistono
due piani: quello dell’ousia, o della sostanza, in cui è immutabile e quello dell'oikonomia
nel quale è condiscendente (συγκαταβαίνει) (ibid., IV, 14).
“ Cfr. ibid., IV, 18. La risposta di Origene è tutta imperniata sull'interpretazio ­
ne della kenosi di Phit., 2, 7 (cit. esplicitamente in C. Ceis., IV, 15 e 18) in chiave di
638 R. Cantalamessa

platonico del « nullus deus miscetur hominibus »27 che è al fondo dell’obie­
zione di Celso. È da attendersi perciò che una simile impostazione del pro­
blema torni a galla, in una forma o in un’altra, nella polemica degli autori
ecclesiastici contro lo gnosticismo che di quel dogma aveva fatto il proprio
punto di partenza in cristologia. Così è difatti e lo dimostra il contesto del
De carne Christi sopra riportato, anche se non si può dimostrare che esso
sia influenzato direttamente né dai testi platonici del De republica, né dalla
polemica di Celso. Il testo tertullianeo infatti viene a conclusione di una
discussione con gli gnostici tutta imperniata sul dilemma seguente che
abbiamo visto rimontare nella sua sostanza a Platone: o nascita reale (e
quindi mutamento in Dio), o nascita apparente (e allora inganno e menzo­
gna da parte di Dio) Tertulliano, che naturalmente difende la prima
alternativa della nascita reale, oppone a Marcione l’argomento che Dio non
può mentire; ma deve, a sua volta, rispondere, o prevenire l’obiezione di
Marcione che Dio non può mutare. È appunto ciò che egli fa nell'ultima
parte del testo sopra tradotto, sulla quale concentriamo ormai la nostra
attenzione: « Deus in omnia converti potest et qualis est perseverare ».

La soluzione di Tertulliano

La soluzione di Tertulliano fa leva sul concetto che Dio è totalmente

condiscendenza e di adattamento, secondo il tema, già assai diffuso al suo tempo,


della carne come « velum divinitatis ». Secondo questa spiegazione, il Logos non
cambia, incarnandosi, la sua ousia, ma ne dosa la manifestazione gloriosa secondo
la capacità di recezione degli uomini, servendosi del corpo come di uno schermo
(cfr. ibid., IV, 15: « Si è svuotato perché gli uomini potessero accoglierlo »). L’incarna­
zione non è quindi una simulazione della carne, come vorrebbero gli gnostici (cfr.
ibid., IV, 19), ma piuttosto una dissimulazione dello Spirito divino. Origene si occupa
anche altrove deH'immutabilità divina del Figlio, senza tuttavia fare riferimento
esplicito al problema dell'incarnazione; i testi in questione tuttavia (In Io., II, 123;
III, 193; De prine., I, 2, 10) interessano perché mostrano come il subordinazionismo
di fondo di Origene si rifletta anche in questo punto e porti ad attribuire al Figlio
i titoli di άτρεπτος e άναλλοίωτος in grado diverso che al Padre. Questo problema
infatti diverrà cruciale al tempo della controversia ariana (cfr. G.W.H. Lampe, PGL,
άτρεπτος, I, B, 4; Il A 2). Dopo Origene, il problema deH'immutabilità divina nella
incarnazione non è fatto oggetto di riflessione approfondita; di solito, ci si limita ad
affermare che l’incarnazione non ha comportato alcun mutamento nella natura del
Verbo: ecco alcuni testi più significativi: Mario Vittorino, Adv. Arium, I, 45; « Non
autem hoc significat: et λόγος caro jactus est, corruptus λόγος in carnem conversus est»;
Eustazio d'Antiochia, Hom. 29 (F. Cavallera, p. 39): έκ τής άχράτου παρθένου άμεταβλήτως
καί άσυγχύτως... σαρκωθέντα ; Epifanio, Ancor. 75: ού μεταβαλών τήν θεότητα εις άνθρω-
πότητα; Crisostomo, In Io. Hom., 11, 2: το “έγένετο,, (Io. 1, 14) τέθεικεν, ού μεταβολήν
ουσίας; Ps. Atanasio, C. Apoll., 2, 5 (PG 26, 1140): ού θεότετος μεταποίησήν έπιδειξάμενος,
άλλά της άνθρωπότητος καινοποίησιν έργασάμενος; Leporius, Libellus emendationis, 3 (PL
31, 1224): « non ut conversione aut mutabilitate aliqua coeperit esse quod non erat... »;
Vincenzo Lir., Comm., 13: « Neque enim illa coniunctio alterum in alterum convertit
atque mutavit (qui est error proprius Arianorum) ». Vedi anche i testi di Atanasio,
Basilio e Cirillo, discussi più avanti; e quelli citati in G.W.H. Lampe, PGL, voci
άτρεπτος, άναλλοίωτος.
27 Platone, Simp., 203 a, ripreso da Apuleio, De deo Socratis, 4.
2’ Cfr. De carne Chr., 3, 1-3 (CC 2, 875-876).
Incarnazione e immutabilità di^Dio 639

altro rispetto a ogni creatura, per cui i concetti umani, come quello di
mutamento, in lui non hanno un significato analogo, ma piuttosto con­
trario ed equivoco. Nel caso specifico « in aliud converti », applicato alle
creature, comporta una « finis pristini », cioè la perdita di ciò che si era;
applicato a Dio, invece, comporta la permanenza di ciò che era.
Ne viene fuori un paradosso non nuovo in Tertulliano (cfr. il suo
« Certum est, quia impossibile »)29, secondo cui Dio muta e non muta, o
meglio mutando non muta. E un concetto che ha un riscontro assai preciso
nel libro II deH’Adv. Marcionem, che con ogni probabilità si colloca crono­
logicamente poco prima del De carne Christix. In esso ritroviamo lo stesso
concetto dell’equivocità dei vocaboli umani nei confronti di Dio, questa
volta applicato al tema delle passioni, cioè a un caso molto vicino a quello
del mutamento31. La passione è corruttrice quando si tratta dell’uomo, è
incorruttrice quando si tratta di Dio, cioè, per definizione, è una « non­
passione »32.
L’affermazione che Tertulliano fa nel De carne Christi circa la ‘muta­
bilità’ di Dio in ogni cosa è in singolare contrasto con quanto egli stesso,
sulla scia di Platone, aveva scritto nel De anima, dove aveva posto la diffe­
renza tra Dio e le creature nel fatto che le creature possono mutare mentre
Dio non può mutare33. D'altra parte, c’è da notare che neppure quella del
De carne Christi resta la posizione definitiva di Tertulliano. Egli infatti
ritorna ex professo sul problema nella polemica con i monarchiani, dando
luogo a una clamorosa, quanto inconfessata, retractatio e tornando alla
posizione iniziale del De anima. La definizione classica della demutatio toma
a essere impiegata in tutto il suo rigore, dopo tutte le contestazioni che
aveva subito ad opera deH'Africano. Questi scrive:

- 29 Ibid., 5, 4 (CC 2, 881).


” R. Braun, Deus Christianorum..., cit., pp. 268 s., preferisce spostare la data del
De carne Christi intorno al 200 d.C., distaccandolo dal De resurrectione mortuorum
con cui fa coppia (cfr. De carne Chr., 1, 1; 25, 2 e De res. mori. 2, 5). Io preferisco
attenermi all’opinione comune che colloca il De carne Chr. intorno o poco dopo il 1. Il
deU’Adv. Marc.
31 Immutabilità e impassibilità sono due attributi divini che si richiamano a
vicenda: cfr. Clemente Al., Eclogae, 52 (GCS 17, p. 151, 24): τον θεόν τον απαθή καί αμε­
τάβλητον.
32 Adv. Marc., II, 16, 4 (CC 1, 493): « Stultissimi, qui de humanis divina praeiudi-
cant, ut, quoniam in homine corruptoriae condicionis habentur huiusmodi passiones,
idcirco et in deo eiusdem status existimentur. Discerne substantias et suos eis distribue
sensus, tam diversos quam substantiae exigunt, licet vocabulis communicare videantur...
Quanta erit diversitas divini corporis (!) et humani sub eisdem nominibus membrorum,
tanta erit et animi divini et humani differentia sub eisdem licet vocabulis sensuum,
quos tam corruptorios efficit in homine corruptibilitas substantiae humanae quam
incorruptorios in deo efficit incorruptibilitas substantiae divinae ». Diversa la soluzione
che allo stesso problema delle passioni divine dà Clemente Al., Strom., V, XI,
68, dietro Filone, Quod deus sit immutabilis, 96. Anche Tertulliano finisce per allinearsi
con la posizione di questi autori che negavano 1’esistenza di qualsiasi passione in Dio,
quando restituisce al Padre (« Dio dei filosofi ») in senso pieno Vapatheia, attribuendo
le passioni al Verbo incarnato o incarnando: cfr. Adv. Marc., II, 27, 6-7 (CC 1, 506-507).
33 De anima, 21, 7 (CC 2, 814): « Atque ita quod natum factumque constiterit, eius
natura capiet demutationem: et renasci enim poterit et refici. Innatum autem et
infectum immobile stabit. Quod cum soli deo competat, ut soli innato et infecto
et idcirco immortali et inconvertibili, absolutum est ceterorum omnium natorum
atque factorum convertibilem et demutabilem esse naturam ».
640 R· Cantalamessa

« È necessario domandarsi in che modo il Verbo si è fatto carne, se trasfor­


mandosi nella carne, o assumendo la carne. Senza dubbio assumendola. Si deve
infatti credere che Dio, essendo eterno, sia immutabile e non trasformabile. La
trasformazione comporta la distruzione di ciò che si era prima; tutto ciò infatti
che si trasforma in altro cessa di essere ciò che era e comincia ad essere ciò
che non era. Ma Dio né può cessare di essere, né può cominciare ad essere
qualcosa di diverso (da se stesso). Ma il Verbo è Dio e il Verbo di Dio dura in
eterno (Is. 40, 8), in quanto persevera nella sua forma»”.
Perché questo ritorno totale alla posizione tradizionale (platonica) sul
problema deU’immutabilità divina? Non è azzardato avanzare la seguente
spiegazione. In Adv. Praxean, da cui è tratto il testo citato, Tertulliano è in
polemica con i monarchiani che si basavano su una concezione accentua­
tamente stoica, cioè monistica, dello Pneuma divino, del quale ammettono
un successivo divenire o trasformarsi in Figlio e non un’originaria distin­
zione personale in Padre e Figlio35. In questo frangente Tertulliano, con
l'opportunismo che lo contraddistingue, trova utile l’impostazione platonica
che fa leva sull’immutabilità di Dio e nega perciò ogni possibilità di transfi­
guratio in lui36.
È dunque, con molta probabilità, un’esigenza polemica che riconcilia
Tertulliano con il postulato platonico dell’immutabilità divina neH’Adv.
Praxean. Questa osservazione induce a chiederci se il testo di De carne
Christi che stiamo analizzando non sia dovuto a un movente analogo e con­
trario: se cioè per opporsi più efficacemente agli gnostici, che muovevano
dal principio platonico, Tertulliano non sia ricorso a un’impostazione stoica
del problema che gli permetteva di ammettere l'incarnazione reale dello
Spirito, senza incappare nell’obiezione dell'immutabilità divina37. In altre
parole, l’Africano si sarebbe servito dello stoicismo per combattere gli
gnostici e del platonismo per combattere i monarchiani.

” Adv. Prax., 27, 6-7 (CC 2, 1199): « quaerendum quomodo sermo caro sit factus;
utrumne quasi transfiguratus in carne an indutus carnem. Immo indutus. Ceterum
Deum inmutabilem et informabilem credi necesse est ut aeternum. Transfiguratio
autem interemptio est pristini: omne enim, quodcumque transfiguratur in aliud, desinit
esse quod fuerat et incipit esse quod non erat. Deus autem neque desinit esse neque
aliud potest esse. Sermo autem Deus et sermo Domini manet in aevum (Is. 40, 8),
perseverando scilicet in sua forma ».
35 Cfr. Adv. Prax., 10, 1 (CC 2, 1169): « Ipse se, inquiunt, Filium sibi fecit ». Cfr. anche
le formule di sapore stoico attribuite ai monarchiani romani da Ippolito, Ref., IX, 12,
17; per i rapporti tra lo stoicismo e il monarchianesimo dell'inizio del III sec. cfr.
H. Hagemann, Die romische Kirche und ihre Einfluss auf Disciplin und Dogma in den
ersten drei Jahrhunderten, Freiburg in Br. 1864, pp. 345 ss., e A. Harnack, Dogmen-
geschichte, voi. I, Tiibingen 1909, p. 737, η. 1.
” Il termine « transfiguratio » in Adv. Prax., 27, 7 ha lo stesso significato forte
che riveste il termine « conversio » in De carne Chr., 3, 5: cfr. R. Braun, Deus Christia­
norum..., cit., pp. 58-59.
37 E nel De carne Chr. (11, 4), cioè in un contesto tipicamente antignostico, che
Tertulliano formula in modo programmatico la sua adesione alla concezione stoica,
cioè monistica, del reale: « Omne, quod est, corpus est sui generis. Nihil est incorporale
nisi quod non est ».
Incarnazione e immutabilità di Dio 641

La mutabilità di Dio nello stoicismo

Riprendiamo l’analisi dell’affermazione di Tertulliano, secondo cui


« Deus in omnia converti potest et qualis est perseverare », alla luce del­
l’ipotesi or ora formulata di una spiegazione stoica.
Fa parte del cuore del pensiero stoico più antico la convinzione che
Dio è lo Pneuma originario che contiene in sé le ragioni seminali (logoi
spermatikoi) di tutte le cose e che, animato da una forza o tensione (tonos)
propulsiva, nella fase della diakosmesis, dall’unità primordiale dà luogo
alla pluralità degli esseri, attraverso successive determinazioni e trasforma­
zioni (metabolai), rimanendo tuttavia sempre se stesso per la sympatheia
universale che unisce e rende omogeneo il tutto 38. È la soluzione del pro­
blema del divenire in un sistema di pensiero rigidamente monistico e
panteistico in cui ogni movimento (kinesis) è concepito come trasformà-
zione (metabolè) dello stesso principio originario39. Dio è lo Spirito sempre
in cammino; è « il fuoco artefice che avanza con metodo alla formazione
del cosmo... e che riceve nomi diversi a seconda delle trasformazioni della
materia nella quale circola », si legge nella più celebre definizione stoica
della divinità40.
Personalmente, sono convinto che dietro il testo di Tertulliano, circa
la divinità che si può mutare in tutte le cose, non ci sia soltanto questa
generica dottrina stoica or ora tratteggiata, ma piuttosto un testo o una
definizione precisa di Dio. Si tratta della definizione di Posidonio, secondo
cui Dio è « Spirito pensante e ignito che di per sé è privo di forma, ma che
si muta in ciò che vuole e si assimila a ogni cosa »41. In altra sede ho
cercato di mostrare come Tertulliano non abbia conosciuto questo testo
posidoniano direttamente, ma solo nell’applicazione che ne aveva fatto
l'autore dei Kerygmata Petrou, dal quale l’Africano dipende anche per altri
elementi del suo testo42.

31 Cfr. M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, voi. I, Firenze 1967,


pp. 134-157 (si vedano soprattutto i frammenti stoici citati a p. 151, n. 9); una chiara
sintesi della dottrina stoica si ha in Atenagora, Leg., 6, 4, e anche in Origene, C. Cels.,
IV, 14 (vedi il commento al passo di J. Moreau, L'àme du monde de Platon aux Stdiciens,
Paris 1939, p. 172, n. 8).
39 Cfr. SVF II, 492.
40 In Aetius, Plac., I, 7, 33 (SVF II, 1027). Contro questa concezione che coinvolge
Dio nel divenire ciclico del mondo (ciclico, perché a ogni diakosmesis segue una
ekpyrosis e viceversa) si appuntò la critica del platonismo di mezzo, critica fatta pro­
pria in seguito anche dagli autori cristiani: cfr. Plutarco, De def., 29; Stoic. rep., 38;
De com. not., 31-34; De Is., 54; Albino, Did., 10; Attico, in Eusebio, Praep. evang., XV,
7, 6; Numenio, Fragm. 20 e 22 in Eusebio, Praep. evang., XI, 10; Filone, Quod deus
sit immutabilis·, per Celso cfr. C. Andresen, Logos und Nomos..., cit., p. 95, n. 25. Tra gli
autori cristiani, si veda Giustino, I Apoi., 13, 4; 20, 2; Atenagora, Leg., 22, 3. Origene
è quello che meglio individua la teoria stoica del dio che si trasforma continuamente
(C. Ceis., I, 21; III, 75) e la mette in confronto con la dottrina cristiana dell’incarna­
zione (ibid., IV, 14).
41 In Stobeo, Ecl., I, 34-35, e in Aetius, Plac. I, 6, 1 (SVF II, 1009; Diels, Doxographi
Graeci, II, 294 s.): πνεύμα νοερόν και πυρώδες, ούκ έχον μέν μορφήν, μεταβάλλον δέ εις δ
βούλεται καί συνεξομοιούμενον πάσιν.
42 Cfr. il mio studio Una tonte pseudoclementina in Tertulliano?; in Forma futuri.
642 R. Cantalamessa

Il tema della ‘mutabilità’ di Dio, all’epoca di Tertulliano, era popolare


anche in un altro contesto e con un altro significato: quello della trasfi­
gurazione o metamorfosi della divinità. Prima perciò di prendere pei· asso­
data la spiegazione stoica fin qui delineata, occorre esplorare questa seconda
ipotesi alternativa.
Si tratta del tema della divinità originariamente amorfa (amorphos)
e senza figura (aschematistos, acharakteristos), che si ‘configura’, o assume
le forme che vuole, senza uscire mai veramente da se stessa, o alienarsi
dalla sua sostanza. Il contesto in cui il tema è di solito sviluppato è soprat­
tutto quello giudeo-cristiano, quello degli apocrifi e quello gnostico, sia
della gnosi cristiana che di quella pagana. Esso però è presente talvolta e
per taluni elementi anche in scrittori ecclesiastici.
Il tema si presenta in due versioni notevolmente diverse tra loro.
Applicato alla discesa di un essere celeste sulla terra, diventa il tema della
« discesa nascosta » del Verbo: scendendo attraverso le sfere celesti, il
Verbo si trasforma, o si metamorfizza, assumendo, via via, le sembianze
dello spirito o dell'essere angelico che domina in ognuna delle sfere, per
non essere riconosciuto e trattenuto da esso43. Applicato invece più gene­
ricamente a Dio, il tema viene a dire che la divinità suprema (rispettiva­
mente: l’Uomo primordiale), senza forma e nomi in se stessa, assume
forme e nomi diversi, a seconda dei popoli dai quali è conosciuta e dei
culti con i quali è venerata, nonostante che rimanga sempre identica a se
stessa.
In questa seconda versione, l'applicazione più nota è quella dei Naasseni
descritta da Ippolito44. Particolarmente significativo il testo seguente:

Studi in onore del Card. M. Pellegrino, Torino 1975, 350 ss. Il passo che potrebbe essere
stato utilizzato da Tertulliano è quello che nella redazione attuale delle omelie pseudo­
clementine si legge in Hom., XX, 6-7. Gli elementi che servono a stabilire l’ipotesi di
una interdipendenza sono: Hom., XX, 6, 8 (GCS 42, 272, 8 s.): « Dio è in grado di
mutare se stesso in ciò che vuole » (πολλω ούν μάλλον ό θεός έαυτόν τρέπειν εις ò βούλε­
ται δυνατώτατός έστιν); in secondo luogo, il principio che è proprio di Dio, in quanto
immortale, potersi cambiare in ciò che vuole (ibid., XX, 7, 5-6 [p. 272, 19 ss.]); in
terzo luogo, gli esempi degli angeli apparsi ad Àbramo (Gen., 18, 4) e dell’angelo che
lotta con Giacobbe (ibid., 32, 25 ss.) che si leggono anche nel testo del De carne Chr.
(3, 6-7), come prova della convertibilità di Dio nella carne. Questi elementi di affinità,
tuttavia, si inseriscono in un contesto molto diverso che potrebbe avere in comune solo
l’intenzione antimarcionita.
43 La formulazione più tipica è forse quella di Ascensio Isaiae, 3, 13 (framm. greco
in Grenfell-Hunt, The Amherst Papyri, voi. I, London 1900, p. 10): ή έξέλευσις τοϋ άγα-
πητοϋ έκ τοϋ εβδόμου ούρανοϋ καί ή μεταμόρφωσις αύτοϋ, καί ή κατάβασις αύτοϋ, καί ή
Ιδέα ήν δεϊ αύτόν μεταμορφωθηναι έν εϊδει άνθρωπον ; cfr. anche i testi di vari gnostici in
Ireneo, Haer., I, 23, 3; I, 30, 12; Ippolito, Ref., VI, 19, 6 (GCS 26, 147); Epifanio, Haer.,
21, 2, 4; 26, 9, 9 (GCS 25, pp. 240; 286); il tema fu studiato da C. Schmidt, Gesprdche
Jesu mit seinen Jùngern (TU, 43), Leipzig 1919, pp. 281-288.
44 Una versione collaterale di questa dottrina potrebbe essere il tema del « vero
profeta » delle pseudoclementine che si incarna lungo i secoli in figure diverse: Adamo,
Mosè, Cristo: cfr. H. Schoeps, Theologie und Geschichte des Judenchristentums, Tiibin-
gen 1949, pp. 106 ss.; Urgemeinde, Judenchristentum, Gnosis, Tiibingen 1956, pp. 48-54;
per i testi dei papiri magici, che documentano il tema nella gnosi pagana, cfr. Behm,
in TWNT IV, 764-765. '
Incarnazione e immutabilità di Dio 643

« Dicono poi dell’essenza del seme, causa di tutti gli esseri che nascono,
che non è nessuno di questi, ma genera e crea tutte le cose che nascono, e si
esprimono così: — Divengo ciò che voglio e sono ciò che sono —. Perciò è
l'immobile che muove tutto; infatti resta ciò che è, quando crea e non diventa
nessuna delle cose che sono create»".

Reitzenstein tentò di accostare questa concezione di Dio alla seconda


parte della definizione di Posidonio, facendo dipendere quest’ultimo da
concezioni orientali iraniche del tipo di quelle espresse appunto nel testo
dei Naasseni46. Ma tale spiegazione (legata in gran parte alla tesi dell'origine
e dell'indole essenzialmente pagane e precristiane del testo dei Naasseni
che fu cara all’autore) non fu accolta dalla critica posteriore che preferì
invece intendere la definizione di Posidonio come genuina espressione della
dottrina stoica47.
Anche però se è da escludersi per Posidonio, l'ipotesi di una dipendenza
dal tema gnostico potrebbe riproporsi per Tertulliano. La sua affermazione
che « Dio può mutarsi in ciò che vuole e rimanere ciò che è » si inserisce
nella linea del pensiero stoico espresso da Posidonio, o in quella gnostica
espressa nel testo dei Naasseni? Va notato subito che l'alternativa era meno
rigida al tempo di Tertulliano, nel senso che tra le due linee si era stabilita
da tempo una certa osmosi, anche se nel senso contrario a quello ipotiz­
zato dal Reitzenstein, vale a dire di un influsso della concezione stoica su
quella gnostica e non viceversa4S. Nonostante però questa precisazione,
credo che si possa affermare con sicurezza che il testo di Tertulliano non
dipende da concezioni gnostiche, medioplatoniche o ermetiche, del tipo di
quella dei Naasseni, ma si inserisce piuttosto nella logica del sistema stoico.
In lui infatti è assente l’idea del Dio originariamente amorfo, che costituisce
l’elemento più tipico delle prime49, mentre è centrale l'idea della corporatio,
o della « conversio in corpus humanum » comprensibile solo nel secondo.

" In Ippolito, Ref., V, 7, 25 (GCS 26, 84, 14 ss.); nel testo si avverte il tema aristo­
telico del motore immobile; cfr. Aristotele, Phys., Vili, 5 (κινεί άκίνητον δν). Per il
dio privo di forma, cfr. anche Ref., V, 7, 18 (p. 82); V, 7, 23 (p. 84, 9); V, 8, 15 (p. 92,
5) e in genere tutto il testo naasseno che è imperniato sul nostro tema (Ref., V, 7, 2-9, 9).
Cfr. anche Plotino, Enn., VI, 7, 17, 40: « L’Uno è senza forma né specie » ( άμορφος καί
άνείδεος).
16 R. Reitzenstein, Philologische Kleinigkeiten, « Hermes », LXV (1930), 89, n. 2.
47 Al Reitzenstein si oppose energicamente K. Reinhardt, Poseidonios iiber Ursprung
und Entartung, « Orient und Antike », VI, Heidelberg 1928, p. 78; cfr. anche M. Pohlenz,
La Stoa..., cit., I, p. 443. Il carattere genuinamente stoico della definizione di Po­
sidonio appare, per es., dal confronto con SVF II, 310; cfr. I. Heinemann, Poseidonios'
metaphysische Schriften, voi. II, Breslau 1928, pp. 30 s.; in particolare, per la dottrina
stoica del dio privo di forma, si veda Lattanzio, De ira, 18, 13 (CSEL 27, 117, 13 s. -
SVF II, 1057): « Omitto de figura dei dicere, quia Stoici negent habere ullam formam
deum ».
4’ Tale influsso fu mediato dal platonismo di mezzo e dagli scritti ermetici: cfr.
J. Pépin, Théologie cosmique, Paris 1964, p. 104, nn. 4-5; Pépin include in questo contesto
anche Ps. Clemente, Hom., XVII, 10, 5; ma si veda ciò che scrive in contrario A. Orbe,
Antropologia de san Ireneo, Madrid 1969, pp. 94 ss.
45 Su questo punto, come è noto, Tertulliano tiene una posizione diametralmente
opposta e ammette resistenza di una forma (effigies) in Dio, in accordo con la sua
concezione di Dio quale corpus sui generis: cfr. Adv. Prax., 7, 8: in ciò però è da
notare che Tertulliano si discosta almeno in parte anche dagli stoici (v. nota 47).
644 R. Cantalamessa

Solo nella prospettiva stoica infatti era concepibile, al tempo di Tertul­


liano, l'idea di un « Dio corporato » “, non certo in quella platonica, più o
meno apertamente soggiacente alla visione gnostica. Nulla rivela meglio
il carattere stoico e nulla mette meglio in evidenza le implicazioni moni­
stiche e materialistiche della definizione posidoniana di Dio utilizzata da
Tertulliano quanto il fatto che tale definizione è pressoché identica a quella
che gli stoici davano della materia primordiale5I.

Quello che si è detto fin qui ha dimostrato, mi pare, almeno con buona
probabilità, la presenza nel testo tertullianeo del De carne Christi di un
concetto stoico posidoniano, mediato da una fonte giudeo-cristiana che in
altra sede ho proposto di identificare con i Kerygmata Petrou.
Questo aiuta a comprendere e valutare meglio la soluzione data da
Tertulliano in quel testo al problema del rapporto tra incarnazione e immu­
tabilità di Dio. Tale soluzione (Dio incarnandosi muta, ma mutando resta
quello che è) appare occasionata dalla lettura di un testo estraneo al pro­
blema specifico deH'incarnazione (nei Kerygmata Petrou si tratta della tra­
sformazione, metabolè, divina che dà luogo all’ipostasi del male!): un testo
che l’Africano ha ritenuto utile al suo scopo in quanto presentava un con­
cetto dell’immutabilità divina apparentemente, ma solo apparentemente,
risolutivo del problema.
Ne è risultata una soluzione posticcia, senza nessuna vera radicazione
teologica, ricollegata all'insieme del pensiero di Tertulliano soltanto dalla
concezione materialistica e stoica che essa suppone della divinità, ma in
contrasto stridente con quanto lo stesso autore aveva scritto, a proposito
deH’immutabilità di Dio, nel De anima e con quanto scriverà in seguito nel-
YAdv. Praxean. Nessuna originale innovazione dunque rispetto all'idea fis­
sista deH’immutabilità di Dio ereditata dall'ellenismo, né anticipazione di
moderne intuizioni cristologiche, come farebbe piacere pensare a noi oggi,
ma solo utilizzazione ad hominem (cioè opportunista) di una concezione
stoica a lui congeniale nella lotta contro lo gnosticismo platonizzante. Una
concezione che oggi troverebbe il suo equivalente in un’idea di incarna­
zione di tipo evoluzionistico, vagamente hegeliano, sebbene di segno oppo­
sto, in quanto basata su una visione di fondo materialistica anziché idea­
listica.

” Anche se allo stoicismb ripugnava l'idea deH'incarnazione di un essere trascen­


dente (perché non ammetteva resistenza di un tale essere fuori del mondo), tuttavia
esso offriva alcuni concetti importanti per esprimere il messaggio cristiano del Dio
incarnato, prima di tutto Π rapporto tra Pneuma e corpo che non è antitetico come
nel platonismo.
!1 Si veda tale definizione in Origene, De orai., 27, 8 (SVF II, 318): Yousia (materia)
è « ciò che riceve ogni mutazione e trasformazione, mentre è per sua natura inaltera­
bile; ovvero ciò che sopporta ogni alterazione e mutazione (metabolè) »; cfr. anche ciò
che dice della materia Posidonio stesso in Stobeo, Ecl., I, 17 (Diels, Doxographi Graeci,
p. 462).
Incarnazione e immutabilità di Dio 645

L'impossibilità di leggere il testo tertullianeo in una chiave dinamica


più profonda, scorgendo in esso un tentativo di rottura rispetto al ‘natura­
lismo’ della .teologia del tempo, risulta evidente, mi pare, dal fatto che
all'Africano è passato inosservato proprio quell’elemento della fonte pseudo­
clementina che poteva prestarsi a sviluppi interessanti in tal senso. Mi
riferisco al concetto formulato dall'autore dei Kerygmata Petrou, secondo
cui Dio può mutarsi in ciò che vuole in quanto, a differenza delle creature,
egli non è schiavo e succube, ma piuttosto «padrone della propria natura»52:
non è determinato dalla sua natura, ma la determina.
Quello che Tertulliano aggiunge di suo, rispetto alla definizione posi-
doniana e al testo pseudo-clementino, è una più esplicita riaffermazione
del fatto che Dio resta immutabile anche attraverso la mutazione (« et
qualis est perseverare »). Ma si tratta di un paradosso lasciato senza alcun
tentativo di giustificazione che non sia quello della trascendenza e della
alterità di Dio, tentativo che, applicato coerentemente, condurrebbe al
rifiuto di ogni teologia, compresa la sua.
Più che il contrasto diacronico (cioè rispetto alle posizioni tenute da
Tertulliano in altre opere, prima e dopo il De carne Christi), è interessante
rilevare la grave contraddizione interna o sincronica. La spiegazione del­
l'incarnazione in base al motivo che Dio « in omnia converti potest et
qualis est perseverare », presa nel suo significato più ovvio (quello che si
deduce anche daH’esempio degli angeli con cui è illustrata), porta necessa­
riamente, nonostante tutte le intenzioni contrarie dell'autore, a concepire
l'incarnazione stessa o come « creatio ex nihilo »53, o alla stregua della
famigerata incarnazione « ex semetipso », cioè dalla propria sostanza, ciò
che annulla in ogni caso l’incarnazione « ex Virgine » e quindi l’origine
umana del corpo di Cristo. Tertulliano, che ha combattuto vigorosamente
questa opinione sostenuta ai suoi giorni da alcuni circoli gnostici54, non
si è accorto che, con la sua spiegazione deH’incarnazione come « conversio
in camem », egli riapriva ad essa la porta. O, meglio, se ne è accorto, ma
solo più tardi, scrivendo VAdversus Praxean, ed è ritornato subito, come si
è visto, all’idea dell’incarnazione come « assumptio carnis ».
Che il pericolo che ho delineato esistesse realmente e non come pura
ipotesi teorica, lo dimostrano due celebri documenti cristologici del IV se­
colo, uno di Atanasio e uno di Basilio. Da essi appare che, ai margini del-
l’arianesimo e deH’apollinarismo, fiorì una certa concezione dell’incarna­
zione per « conversione in carne » che dava luogo esattamente a quel tipo

52 Hom., XX, 7, 5 (GCS 42, 272): αύτης της φύσεως δεσποτεύων.


53 È la spiegazione addotta nello stesso testo di De carne Chr. (3, 9) nel caso
degli angeli, ritenuto da Tertulliano analogo a quello deH’incarnazione.
54 E la dottrina che Tertulliano rimprovera a degli gnostici Valentiniani, i quali
concepiscono l'incarnazione come trasformazione del Verbo in carne, o come produ­
zione da parte del Verbo della propria carne: cfr. De carne Chr., 18, 4 (CC 2, 906):
« Aut si ex semetipso factum est ... iam hinc tracta »; ibid., 20, 6 (p. 910): « Quod si
Verbum caro ex se factum est, non ex vulvae communione nihil operata vulva, nihil
functa, nihil passa; quomodo fontem suum transfudit in ubera, quem nisi habendo
non mutat? »; ibid., 21, 2: « Contra si verbum ex se caro factum est, iam ipsum se
concepit et peperit ».
646 R. Cantalamessa

di cristologia aberrante (una specie di “teologia della morte di Dio” ante


litteram) che abbiamo visto profilarsi sulla scia del testo tertullianeo (« Dio
può mutarsi in ciò che vuole e rimanere ciò che è »). Riproduco il testo
di Basilio, perché in esso si ritrovano, in breve, tutti i temi toccati da
Atanasio, anche se è posteriore ad Atanasio e forse dipendente da lui.
« Vengo a sapere che vi sono alcuni che corrompono la retta dottrina sul­
l’incarnazione del Signore con opinioni perverse. Tramite la tua carità, li scon­
giuro di abbandonare quell’assurda teoria che alcuni, a quanto ci si dice, tengono:
che, cioè, Dio stesso si è mutato in carne, che non ha assunto la pasta di Adamo
tramite la santa Vergine, ma che lui stesso, con la sua divinità, si è tramutato
nella natura materiale... Se si è mutato ha anche subito alterazione. Ma lungi
da noi il dire o il pensare ciò. Dio infatti dice: "Io sono, e non muto”
(Mal. 3, 6) »

Si tratta di una concezione dell’incamazione, come si vede, che riesce


a compromettere d’un sol colpo e in modo grossolano la immutabilità e la
spiritualità di Dio — facendo regredire la concezione di Dio a livelli pre­
platonici ■ —, la realtà umana del Salvatore, la nostra stessa salvezza, come
non si stancano di ripetere Atanasio e Basilio, e, infine, ogni maternità di
Maria, anche quella umana.
Anche il buon Crisostomo, solitamente poco interessato a questi pro­
blemi filosofici, se ne rese conto perfettamente. Commentando Gv. 1, 14
egli scrisse infatti, non senza una punta di ironia: « Se si dicesse che in
quanto Dio egli può tutto e che perciò poteva anche cambiarsi in carne,
risponderemmo che può tutto finché resta Dio; ma se va soggetto alla
mutazione e alla mutazione in peggio, che Dio è più? »

” Basilio, Ep., 262, 1-2 (anno 377) (PG 32, 973 B). Il testo di Atanasio (Ep. ad
Epictetum, 2-4 [PG 26, 1052C-1061A]) testimonia la presenza di queste stesse teorie alcuni
anni prima (371) nell'ambiente di Corinto. Siano o meno queste opinioni di provenienza
ariana e apollinarista (cfr. A. Stuelcken, Athanasiana [TU 19, 4], Leipzig 1899, pp. 67-70),
è evidente la loro parentela con la teoria gnostica dell’incarnazione « ex semetipso »
combattuta da Tertulliano (anche se, come si è visto, con poca coerenza). Si direbbe,
addirittura, che Atanasio abbia presente la confutazione degli autori antignostici del
II-III sec. (Ireneo e Tertulliano), perché ne segue da vicino le argomentazioni. L’argo­
mento che è impossibile che la Vergine abbia avuto il latte, senza aver concepito Gesù
nel suo seno (PG 26, 1057C) si legge in Tertulliano, De carne Chr., 20, 6 (cit. nota 54).
Cirillo Al. riprese le idee di Atanasio rendendole quasi canoniche: Ep., 4 (PG 77, 45B):
« Né diciamo che la natura del Verbo si è fatta carne per mutazione (μεταποιηθεϊσα), né
che si sia trasformata (μετεβλήθη ) in tutto l'uomo costituito di anima e corpo »;
cfr. anche Ep., 17 (PG Tl, 109C).
* In Io. hom. XI, 2 (PG 59, 79). Alla formazione di una communis opinio tra i Padri
su questo punto, dalla quale, in definitiva, scaturì la definizione dell’atreptos di Calcedo-
nia, contribuirono oltre i testi di Cirillo citati alla nota 56, anche alcune espressioni di
sinodi e di documenti ufficiali del magistero, quali l’anatematismo 12 del sinodo di
Sirmio del 351 (H. Hahn, Bibliothek der Symbole, Breslau 1897, p. 197 s.; Simbolo Quicum­
que, 29 (Denzinger, 76) e soprattutto Leone Magno, Tomus ad Flav., 2 (Denzinger, 297).
Incarnazione e immutabilità di Dio 647

Conclusione

Richiamandoci alla problematica moderna, da cui ha preso l’avvio la


nostra ricerca, possiamo dire quanto segue.
Il problema di come conciliare l'incarnazione con l’immutabilità divina
non fu ignoto nell’antichità cristiana. Fu la « reazione pagana » (Celso) a
formularlo per prima e a imporlo alla riflessione dei teologi cristiani sotto
forma di un dilemma: o l'incarnazione comporta un divenire (e quindi
una mutazione) reale in Dio, o è docetista. Come si vede, è, nella sostanza,
la stessa alternativa che ha indotto alcuni teologi moderni a riaprire il
dibattito sul problema. Una idea di incarnazione, si dice, che non comporti
alcuna novità e alcun divenire a parte Dei si risolve necessariamente, dal
punto di vista metafisico, in un docetismo.
Diversa però è la scelta risolutiva di fronte al dilemma. Nell’antichità
ci fu un vasto movimento (lo gnosticismo) che optò per la soluzione doce­
tista: Dio non muta, ma fa sì che a chi lo vede incarnato sembri che sia
cambiato. Oggi, al contrario, c’è chi opterebbe volentieri per la soluzione
opposta: quella di un metabolismo divino nell’incarnazione.
L’una e l'altra soluzione però si discostano dal filone della tradizione
ecclesiastica per il fatto stesso di ‘optare’, di scegliere cioè un’alternativa,
sostituendo così il criterio ‘dialettico’ dell’alt aut a quello tipico della
dommatica cattolica dell’ et et. Come avvenne a proposito del problema
della trascendenza e dell’immanenza di Dio in Cristo, anche a proposito
del problema, per tanti versi connesso, del rapporto tra immutabilità divina
e incarnazione, la soluzione ortodossa fu: e immutabilità di Dio e incarna­
zione reale del Verbo. Non trovarono, è vero, una soluzione soddisfacente
(quella di Tertulliano, si è visto, era una ‘soluzione’, ma non era soddisfa­
cente). Questo tuttavia non indusse i Padri — ed è forse in ciò la lezione
metodologica più importante che si può ricavare ancor oggi dal loro esem­
pio — ad abbandonare la ‘lectio difficilior’ della concordia oppositorum.
A Calcedonia essi ribadirono perciò l’una e l’altra cosa para tatticamente:
che il Verbo si è fatto « consostanziale all'uomo » (homoousios emin), ma
che non ha sub’to cambiamento (atreptos). Con altre parole, trovava così
uno sbocco dommatico l'antico assioma: « quod erat permansit, quod non
erat assumpsit ».

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