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NEO-SCOLASTICA
Pubblicata a cura dell'Università Cattolica del Sacro Cuore
COMITATO SCIENTIFICO DI DIREZIONE:
GUSTAVO BONTADINI - SOFIA VANNI ROVIGHI '
ADRIANO BAUSOLA - ANGELO PUPI - GIOVANNI REALE
DIRETTORE: A. BAUSOLA
Anno LXVII Ottobre-Dicembre 1975 Fascicolo IV
SOMMARIO
Raniero Cantalamessa
1 Accenno appena alle soluzioni della teologia radicale, secondo cui la mutazione
inerente all’incarnazione è tanto reale da comportare la « morte di Dio»: cfr. soprat
tutto T. Altizer, The Gospel of Christian Atheism, Philadelphia 1966. Ricordo invece il
tentativo di P. Schoonenberg, Un Dio di uomini, trad. it., Brescia 1971, pp. 94-96, e di
H. KtlNG, Incarnazione di Dio, trad. it., Brescia 1972, pp. 642 s. (dove si legge anche
una rassegna delle posizioni recenti sul problema): tentativi che si ricollegano in
modo diverso a K. Rahner, Zur Theologie der Menschwerdung, in Schrijten der
Theologie, voi. IV, Einsiedeln 1960, pp. 137-155, pubblicato la prima volta in « Catho
lica », XII, 1958, 1-16 (trad. it. Roma 1967, pp. 193-221; Considérations générales sur la
christologie, in Problèmes actuels de christologie, edd. H. Bouesse et JJ. Latour,
Bruges 1965, p. 25; H. Muhlen, Die Verdnderlichkeit Gottes als Horizont einer zukiìnfti-
gen Christologie, Miinster in W. 1969. Si veda anche W. Pannenberg, Grundziige der
Christologie, Giitersloh 1969, pp. 317-334 (la storia dell’interpretazione kenotica dalla
riforma in poi).
2 De carne Christi, 3, 5 (CC 2, 876).
632 R. Cantalamessa
3 Apologeticum, 48, 2 (testo della ree. vulgata) (CC 1, 165 s.): « latti non ipsae
sunt, quae fuerant, quia non potuerunt esse quod non erant, nisi desinant esse quod
fuerant ». Per il testo cfr. G. Thoernell, Studia Tertullianea, voi. IV, Uppsala 1926,
pp. 135-140.
4 De anima, 32, 7 (CC 2, 831): « Enimvero si demutationem capit amittens quod
fuit, non erit quae fuit; et si quae fuit non erit, soluta est metensomatosis ».
5 De carne Chr., 3, 4 (CC 2, 876); cfr. anche Adversus Hermogenem, 34, 2 (CC 1,
426): «mutari perire est pristino statui»; Adversus Praxean, 27, 7 (CC 2, 1199): «trans
figuratio interemptio est pristini ».
‘ Adv. Prax., 27, 7 (CC 2, 1199); per le oscillazioni della terminologia, del resto poco
rilevanti, vedi R. Braun, Deus Christianorum. Recherches sur le vocabulaire doctrinal
de Tertullien, Paris 1962, pp. 57-59.
7 La definizione si legge in Melisso, Fragm. Diels B 7: εί γάρ έτεροιοΰται (το άπειρον),
άνώγκη το έόν μή όμοΐον είναι, άλλά άπόλλυσθαι το πρόσ&εν έόν, το δέ ούκ έόν γίνεσθαι
(cfr. De carne Chr., 3, 4: « amittens quod erat dum fit quod non erat »); Lucrezio, De
rerum nat., III, 519-520: « nam quodcumque suis mutatum finibus exit, / continuo hoc
mors est illius quod fuit ante ». È probabile un influsso diretto del testo lucreziano
su Tertulliano che anche altrove (De anima, 5, 6) riproduce una massima filosofica del
poeta latino. Da Tertulliano, a sua volta, potrebbe dipendere Novaziano, Trin., 4, 24
Incarnazione e immutabilità di Dio 633
(H. Weyer, p. 54): « Quidquid enim aliquando vertitur, mortale ostenditur hoc ipso,
quod convertitur; desinit enim esse, quod fuerat, et incipit consequenter esse, quod
non erat ». Per altri testi patristici posteriori, cfr. J.H. Waszink, Tertulliani De anima,
Amsterdam 1947, pp. 390-391.
* Herm., 12, 3-4 (CC, 1, 407): « Materiam vero tene semel aeternam determinatam,
ut infectam, ut innatam, et ideo indemutabilis et incorrectibilis naturae credendam,
ex ipsius etiam sententia Hermogenis, quam opponit, cum deum negat ex semetipso
facere potuisse, quia non demutetur quod sit aeternum. Amissurum scilicet quod
fuerat, dum fiat ex demutatione quod non erat, sic non esse aeternum ».
9 Ibid., 12, 4: « Hac et ego definitione merito illum repercutiam. Materiam aeque
reprehendo, cum ex illa mala, pessima etiam, bona atque optima a deo fiunt...
Demutationem igitur admisit materia, et si ita est, statum aeternitatis amisit ».
10 De res. mort., 55, 2 (CC 2, 1001); cfr. invece ciò che dice in Herm., 34, 2, cit.
sopra (nota 5).
11 De res. mort., 55, 6 (CC 2, 1002): « Perisse enim est in totum non esse quod
fuerit; mutatum esse aliter esse est ».
634 R. Cantalamessa
Non mi soffermo sulla prima parte del testo che riproduce l’obiezione
di Marcione, se non per metterne in rilievo il carattere fittizio. Gli editori
del De carne Christi hanno creduto di poter isolare, nel testo citato, delle
enunciazioni letterali di Marcione e Hamack ha rafforzato questa convin
zione14. Già però il solo fatto che qui Marcione parli con le stesse parole
altrove usate da Tertulliano o da lui messe sulle labbra di Ermogene 15 e il
fatto che faccia uso della definizione tecnica di mutazione circolante nelle
scuole suscita grosse perplessità circa l’autenticità marcionita dell’inserto.
La convinzione è rafforzata dal fatto che nessun’altra fonte attesta 1’esistenza
di un'obiezione gnostica o marcionita contro l'incarnazione, mossa in nome
dell'immutabilità di Dio. Tutto quello che si può documentare, a questo
proposito, in epoca anteriore a Tertulliano, è la tendenza degli gnostici a
interpretare Phil. 2, 6-7 (« cum in forma Dei esset... formam servi acci
piens ») come cambiamento di morphè, cioè come metamorphosis, o assun
zione della sola figura umana, con esclusione della rispettiva sostanza 16: ciò
che dà l’occasione agli autori ecclesiastici di formulare nei confronti degli
gnostici l'obiezione di concepire l’incarnazione come pura transfiguratio,
nel senso cioè di una demutatio anche se solo superficiale 17. In certo senso,
quindi, sono gli autori ecclesiastici che muovono l’obiezione della immu
tabilità di Dio agli gnostici e non viceversa.
La discussione intorno all’incarnazione e all’immutabilità di Dio è però
posta, sempre in epoca anteriore a Tertulliano, in maniera molto più evo
luta dai filosofi pagani, sotto forma di un’obiezione tratta da Platone all’idea
cristiana dell’incarnazione divina 18. La nostra fonte privilegiata, al riguardo,
è Celso. Tutta l’argomentazione di Celso è retta da un rimando al testo
classico di Platone suH'immutabilità divina, nel quale si legge:
16 Ireneo, Adv. Haer., Ili, 11, 2, dice a proposito dei marcioniti: « manifestatum
eum quemadmodum hominem transfiguratum, neque aiitem natum, neque incarna
tum »; cfr. anche ibid., I, 23, 3; Tertulliano, Adv. Marc., V, 20, 3 (CC 1, 724); Ippolito,
Ref., X, 11, 10-11 (Ofiti); Origene, C. Ceis., IV, 15.18; Epifanio, Haer., 76, 34 (GCS 37,
p. 383, 27); Filastrio, Divers. haer. liber, 70, 1 (CC 9, 246-247).
17 Cfr. Tertulliano, Adv. Prax., 27, 7 ss. (CC 2, 1199). Forse a questa problematica
antignostica vanno ricollegati alcuni accenni che si incontrano negli autori anteriori
a Tertulliano circa l’immutabilità di Dio neH’incamazione: cfr. Melitone di Sardi,
Fragni. 14 (O. Perler, SCh., 123, p. 240): « Servi speciem indutus est, et patris speciem
non mutavit. Omnia erat immutabili natura »; Ippolito, C. Noetum, 17 (P. Nautin, p. 263,
10) esclude che l’incarnazione sia avvenuta per una mutazione della divinità (tropè,
tuttavia, potrebbe tradursi anche con ‘metafora’). Questi accenni, oltreché agli gnostici,
potrebbero riferirsi alla dottrina pagana delle metamorfosi degli dei della mitologia,
dalle quali, in questo caso, si intenderebbe distinguere l’incarnazione del Figlio di Dio:
cfr. Pseudo-Clemente, Hom., VI, 10 (GCS 42, 110); Aristide, Apoi., 8, 2; 9, 6; Taziano, Or., 10;
Giustino, Dial., 67, 2; I Apoi., 23, 3; 33, 3; Tertulliano, Apoi., 21, 8 (« amatorem [lovem]
in aurum conversum Danaes »). Sulle metamorfosi delle divinità nel paganesimo, cfr.
F. Heichelheim, Tierdamonen: Pauly-Wissowa, VI A, 1, coll. 893-897; secondo l’esegesi
allegorica degli stoici, esse altro non sono che le mutazioni (tropai) dell’unica divinità
che tutto pervade: cfr. Ps.-Clemente, Hom., VI, 10 (GCS 42, 110).
18 Nonostante la dichiarazione di Origene (C. Ceis., IV, 14), che tende a ricondurre
alla Bibbia l’affermazione deH’immutabilità di Dio (vedi la citazione ivi di Ps. 101, 28
e di Mal., 3, 6), appare evidente che è il platonismo a imporre al cristianesimo questa
problematica, ignota nelle fonti anteriori all’incontro con l’ellenismo. Il testo di Giac. 1,
17 (« apud quem [Patrem ] non est transmutatio» [παραλλαγή]) non sembra aver
attirato alcuna attenzione a questo riguardo. Sul concetto del divenire divino nel pen
siero greco preplatonico, cfr. A. Milano, Il divenire di Dio. Sulla « teologia naturale »
dei primi pensatori greci, « Asprenas », 1973, pp. 4-59; tra la bibliografia citata da
Milano si veda particolarmente W. Jager, La teologia dei primi pensatori greci, Firenze
1961. Nei presocratici si realizza già il superamento della concezione mitica del divenire
di Dio (la teogonia): Dio è ingenerato (άγένητος) e incorruttibile (άφθαρτος): cfr. Anas
simandro, Diels-Kranz, A, 15. Il divenire divino (la genesis) che pure resta implicato
nel modo con cui essi concepiscono il rapporto tra il divino e la natura è un rapporto
causale che non distrugge l’attributo dell’immutabilità (cfr. A. Milano, Il divenire...,
cit., pp. 53-59).
636 R. Cantalamessa
la sua forma e assumendo varie forme, ora invece ingannandoci, facendo sì che
agli altri sembri (δοκεϊν) che queste cose avvengano di lui? Non è egli piuttosto
semplice e del tutto incapace di cambiare la sua forma? » a.
Celso utilizza manifestamente questo testo contro i cristiani quando
scrive:
«O Dio cambia (μεταβάλλει) veramente, come essi [i cristiani] pretendono,
per divenire un corpo mortale, ciò che — come si è detto — è impossibile, oppure
non cambia lui stesso, ma fa sì che a chi lo vede sembri (δοκεϊν) [che sia cam
biato] e allora egli inganna e mente » ”.
Celso con questa seconda ipotesi allude con tutta probabilità alla con
cezione gnostica docetista dell'incarnazione, anche se Origene nella sua
risposta sembra far riferimento piuttosto a Filone. Egli infatti scrive:
« Che altri concedano pure a Celso che Dio non cambia, ma fa in modo
che a coloro che lo vedono sembri (δοκεϊν) che sia cambiato (μεταβεβληκέναι).
Quanto a noi, convinti che non c’è apparenza (δόκησις), ma solo verità e realtà
nella venuta di Cristo tra gli uomini, noi non incorriamo nel rimprovero di
Celso » ”,
Non mi soffermo sulla risposta che Origene dà al filosofo pagano
perché essa, per quanto teologicamente interessante, storicamente riflette
uno stadio della discussione posteriore a Tertulliano e notevolmente più
evoluto. Con Origene abbiamo già il grande principio della cristologia
patristica « Quod erat permansit, quod non erat assumpsit » a. Per il prose
guimento della presente ricerca è utile e sufficiente mettere in rilievo l’os
servazione di fondo che emerge dalla meditata risposta dell'Alessandrino,
che è questa: l’obiezione contro l’incarnazione fatta in nome dell’immuta
bilità di Dio si pone acutamente soprattutto nella prospettiva del dualismo
ontologico di Platone, in cui la semplice discesa di Dio verso l’uomo (la sua
synkatabasis, o condiscendenza), comportando un contatto con la materia,
‘contamina’ il Logos e gli fa subire una mutatio in peius, anche nell’ipotesi
della permanenza inalterata della sua ousia divina26. È, in sostanza, il dogma
22 Respubt., 380 d.
22 Celso, in Origene, C. Ceis., IV, 18.
24 Ibid., IV, 19: cfr. Filone, De Somn., I, 232. 239, con la nota che ho dedicato al
testo in «Aevum», XLVIII (1974), p. 132.
22 Prine., I, praef. 4: « Cum Deus esset et homo factus mansit quod erat, Deus ».
Nella forma classica l’assioma si trova in Gregorio di Naz., Or. theol., III, 19:
(δ μέν ήν, διέμεινεν δ δε ούκ ήν, προσέλαβεν), ma nella sostanza esso rimonta al II
secolo come ho cercato di dimostrare in L'omelia « In S. Pascha » dello Ps. Ippolito
di Roma, Milano 1967, pp. 199-205. Accanto ad argomenti ad hominem, di carattere ritor-
sivo, come quello delle trasformazioni delle divinità pagane (C. Ceis., IV, 17) e della
concezione stoica ed epicurea di Dio (ibid., IV, 14; coll. II, 21; III, 75), Origene presenta
anche un tentativo di soluzione del problema « incarnazione e immutabilità divina » assai
più profondo di quello di Tertulliano. Egli parte dal punto cui era giunto in una prece
dente discussione con Celso (ibid., IV, 3-5), affermando che gli interventi di Dio nella
storia non distruggono il dogma biblico dell’immutabilità divina; in Dio infatti esistono
due piani: quello dell’ousia, o della sostanza, in cui è immutabile e quello dell'oikonomia
nel quale è condiscendente (συγκαταβαίνει) (ibid., IV, 14).
“ Cfr. ibid., IV, 18. La risposta di Origene è tutta imperniata sull'interpretazio
ne della kenosi di Phit., 2, 7 (cit. esplicitamente in C. Ceis., IV, 15 e 18) in chiave di
638 R. Cantalamessa
platonico del « nullus deus miscetur hominibus »27 che è al fondo dell’obie
zione di Celso. È da attendersi perciò che una simile impostazione del pro
blema torni a galla, in una forma o in un’altra, nella polemica degli autori
ecclesiastici contro lo gnosticismo che di quel dogma aveva fatto il proprio
punto di partenza in cristologia. Così è difatti e lo dimostra il contesto del
De carne Christi sopra riportato, anche se non si può dimostrare che esso
sia influenzato direttamente né dai testi platonici del De republica, né dalla
polemica di Celso. Il testo tertullianeo infatti viene a conclusione di una
discussione con gli gnostici tutta imperniata sul dilemma seguente che
abbiamo visto rimontare nella sua sostanza a Platone: o nascita reale (e
quindi mutamento in Dio), o nascita apparente (e allora inganno e menzo
gna da parte di Dio) Tertulliano, che naturalmente difende la prima
alternativa della nascita reale, oppone a Marcione l’argomento che Dio non
può mentire; ma deve, a sua volta, rispondere, o prevenire l’obiezione di
Marcione che Dio non può mutare. È appunto ciò che egli fa nell'ultima
parte del testo sopra tradotto, sulla quale concentriamo ormai la nostra
attenzione: « Deus in omnia converti potest et qualis est perseverare ».
La soluzione di Tertulliano
altro rispetto a ogni creatura, per cui i concetti umani, come quello di
mutamento, in lui non hanno un significato analogo, ma piuttosto con
trario ed equivoco. Nel caso specifico « in aliud converti », applicato alle
creature, comporta una « finis pristini », cioè la perdita di ciò che si era;
applicato a Dio, invece, comporta la permanenza di ciò che era.
Ne viene fuori un paradosso non nuovo in Tertulliano (cfr. il suo
« Certum est, quia impossibile »)29, secondo cui Dio muta e non muta, o
meglio mutando non muta. E un concetto che ha un riscontro assai preciso
nel libro II deH’Adv. Marcionem, che con ogni probabilità si colloca crono
logicamente poco prima del De carne Christix. In esso ritroviamo lo stesso
concetto dell’equivocità dei vocaboli umani nei confronti di Dio, questa
volta applicato al tema delle passioni, cioè a un caso molto vicino a quello
del mutamento31. La passione è corruttrice quando si tratta dell’uomo, è
incorruttrice quando si tratta di Dio, cioè, per definizione, è una « non
passione »32.
L’affermazione che Tertulliano fa nel De carne Christi circa la ‘muta
bilità’ di Dio in ogni cosa è in singolare contrasto con quanto egli stesso,
sulla scia di Platone, aveva scritto nel De anima, dove aveva posto la diffe
renza tra Dio e le creature nel fatto che le creature possono mutare mentre
Dio non può mutare33. D'altra parte, c’è da notare che neppure quella del
De carne Christi resta la posizione definitiva di Tertulliano. Egli infatti
ritorna ex professo sul problema nella polemica con i monarchiani, dando
luogo a una clamorosa, quanto inconfessata, retractatio e tornando alla
posizione iniziale del De anima. La definizione classica della demutatio toma
a essere impiegata in tutto il suo rigore, dopo tutte le contestazioni che
aveva subito ad opera deH'Africano. Questi scrive:
” Adv. Prax., 27, 6-7 (CC 2, 1199): « quaerendum quomodo sermo caro sit factus;
utrumne quasi transfiguratus in carne an indutus carnem. Immo indutus. Ceterum
Deum inmutabilem et informabilem credi necesse est ut aeternum. Transfiguratio
autem interemptio est pristini: omne enim, quodcumque transfiguratur in aliud, desinit
esse quod fuerat et incipit esse quod non erat. Deus autem neque desinit esse neque
aliud potest esse. Sermo autem Deus et sermo Domini manet in aevum (Is. 40, 8),
perseverando scilicet in sua forma ».
35 Cfr. Adv. Prax., 10, 1 (CC 2, 1169): « Ipse se, inquiunt, Filium sibi fecit ». Cfr. anche
le formule di sapore stoico attribuite ai monarchiani romani da Ippolito, Ref., IX, 12,
17; per i rapporti tra lo stoicismo e il monarchianesimo dell'inizio del III sec. cfr.
H. Hagemann, Die romische Kirche und ihre Einfluss auf Disciplin und Dogma in den
ersten drei Jahrhunderten, Freiburg in Br. 1864, pp. 345 ss., e A. Harnack, Dogmen-
geschichte, voi. I, Tiibingen 1909, p. 737, η. 1.
” Il termine « transfiguratio » in Adv. Prax., 27, 7 ha lo stesso significato forte
che riveste il termine « conversio » in De carne Chr., 3, 5: cfr. R. Braun, Deus Christia
norum..., cit., pp. 58-59.
37 E nel De carne Chr. (11, 4), cioè in un contesto tipicamente antignostico, che
Tertulliano formula in modo programmatico la sua adesione alla concezione stoica,
cioè monistica, del reale: « Omne, quod est, corpus est sui generis. Nihil est incorporale
nisi quod non est ».
Incarnazione e immutabilità di Dio 641
Studi in onore del Card. M. Pellegrino, Torino 1975, 350 ss. Il passo che potrebbe essere
stato utilizzato da Tertulliano è quello che nella redazione attuale delle omelie pseudo
clementine si legge in Hom., XX, 6-7. Gli elementi che servono a stabilire l’ipotesi di
una interdipendenza sono: Hom., XX, 6, 8 (GCS 42, 272, 8 s.): « Dio è in grado di
mutare se stesso in ciò che vuole » (πολλω ούν μάλλον ό θεός έαυτόν τρέπειν εις ò βούλε
ται δυνατώτατός έστιν); in secondo luogo, il principio che è proprio di Dio, in quanto
immortale, potersi cambiare in ciò che vuole (ibid., XX, 7, 5-6 [p. 272, 19 ss.]); in
terzo luogo, gli esempi degli angeli apparsi ad Àbramo (Gen., 18, 4) e dell’angelo che
lotta con Giacobbe (ibid., 32, 25 ss.) che si leggono anche nel testo del De carne Chr.
(3, 6-7), come prova della convertibilità di Dio nella carne. Questi elementi di affinità,
tuttavia, si inseriscono in un contesto molto diverso che potrebbe avere in comune solo
l’intenzione antimarcionita.
43 La formulazione più tipica è forse quella di Ascensio Isaiae, 3, 13 (framm. greco
in Grenfell-Hunt, The Amherst Papyri, voi. I, London 1900, p. 10): ή έξέλευσις τοϋ άγα-
πητοϋ έκ τοϋ εβδόμου ούρανοϋ καί ή μεταμόρφωσις αύτοϋ, καί ή κατάβασις αύτοϋ, καί ή
Ιδέα ήν δεϊ αύτόν μεταμορφωθηναι έν εϊδει άνθρωπον ; cfr. anche i testi di vari gnostici in
Ireneo, Haer., I, 23, 3; I, 30, 12; Ippolito, Ref., VI, 19, 6 (GCS 26, 147); Epifanio, Haer.,
21, 2, 4; 26, 9, 9 (GCS 25, pp. 240; 286); il tema fu studiato da C. Schmidt, Gesprdche
Jesu mit seinen Jùngern (TU, 43), Leipzig 1919, pp. 281-288.
44 Una versione collaterale di questa dottrina potrebbe essere il tema del « vero
profeta » delle pseudoclementine che si incarna lungo i secoli in figure diverse: Adamo,
Mosè, Cristo: cfr. H. Schoeps, Theologie und Geschichte des Judenchristentums, Tiibin-
gen 1949, pp. 106 ss.; Urgemeinde, Judenchristentum, Gnosis, Tiibingen 1956, pp. 48-54;
per i testi dei papiri magici, che documentano il tema nella gnosi pagana, cfr. Behm,
in TWNT IV, 764-765. '
Incarnazione e immutabilità di Dio 643
« Dicono poi dell’essenza del seme, causa di tutti gli esseri che nascono,
che non è nessuno di questi, ma genera e crea tutte le cose che nascono, e si
esprimono così: — Divengo ciò che voglio e sono ciò che sono —. Perciò è
l'immobile che muove tutto; infatti resta ciò che è, quando crea e non diventa
nessuna delle cose che sono create»".
" In Ippolito, Ref., V, 7, 25 (GCS 26, 84, 14 ss.); nel testo si avverte il tema aristo
telico del motore immobile; cfr. Aristotele, Phys., Vili, 5 (κινεί άκίνητον δν). Per il
dio privo di forma, cfr. anche Ref., V, 7, 18 (p. 82); V, 7, 23 (p. 84, 9); V, 8, 15 (p. 92,
5) e in genere tutto il testo naasseno che è imperniato sul nostro tema (Ref., V, 7, 2-9, 9).
Cfr. anche Plotino, Enn., VI, 7, 17, 40: « L’Uno è senza forma né specie » ( άμορφος καί
άνείδεος).
16 R. Reitzenstein, Philologische Kleinigkeiten, « Hermes », LXV (1930), 89, n. 2.
47 Al Reitzenstein si oppose energicamente K. Reinhardt, Poseidonios iiber Ursprung
und Entartung, « Orient und Antike », VI, Heidelberg 1928, p. 78; cfr. anche M. Pohlenz,
La Stoa..., cit., I, p. 443. Il carattere genuinamente stoico della definizione di Po
sidonio appare, per es., dal confronto con SVF II, 310; cfr. I. Heinemann, Poseidonios'
metaphysische Schriften, voi. II, Breslau 1928, pp. 30 s.; in particolare, per la dottrina
stoica del dio privo di forma, si veda Lattanzio, De ira, 18, 13 (CSEL 27, 117, 13 s. -
SVF II, 1057): « Omitto de figura dei dicere, quia Stoici negent habere ullam formam
deum ».
4’ Tale influsso fu mediato dal platonismo di mezzo e dagli scritti ermetici: cfr.
J. Pépin, Théologie cosmique, Paris 1964, p. 104, nn. 4-5; Pépin include in questo contesto
anche Ps. Clemente, Hom., XVII, 10, 5; ma si veda ciò che scrive in contrario A. Orbe,
Antropologia de san Ireneo, Madrid 1969, pp. 94 ss.
45 Su questo punto, come è noto, Tertulliano tiene una posizione diametralmente
opposta e ammette resistenza di una forma (effigies) in Dio, in accordo con la sua
concezione di Dio quale corpus sui generis: cfr. Adv. Prax., 7, 8: in ciò però è da
notare che Tertulliano si discosta almeno in parte anche dagli stoici (v. nota 47).
644 R. Cantalamessa
Quello che si è detto fin qui ha dimostrato, mi pare, almeno con buona
probabilità, la presenza nel testo tertullianeo del De carne Christi di un
concetto stoico posidoniano, mediato da una fonte giudeo-cristiana che in
altra sede ho proposto di identificare con i Kerygmata Petrou.
Questo aiuta a comprendere e valutare meglio la soluzione data da
Tertulliano in quel testo al problema del rapporto tra incarnazione e immu
tabilità di Dio. Tale soluzione (Dio incarnandosi muta, ma mutando resta
quello che è) appare occasionata dalla lettura di un testo estraneo al pro
blema specifico deH'incarnazione (nei Kerygmata Petrou si tratta della tra
sformazione, metabolè, divina che dà luogo all’ipostasi del male!): un testo
che l’Africano ha ritenuto utile al suo scopo in quanto presentava un con
cetto dell’immutabilità divina apparentemente, ma solo apparentemente,
risolutivo del problema.
Ne è risultata una soluzione posticcia, senza nessuna vera radicazione
teologica, ricollegata all'insieme del pensiero di Tertulliano soltanto dalla
concezione materialistica e stoica che essa suppone della divinità, ma in
contrasto stridente con quanto lo stesso autore aveva scritto, a proposito
deH’immutabilità di Dio, nel De anima e con quanto scriverà in seguito nel-
YAdv. Praxean. Nessuna originale innovazione dunque rispetto all'idea fis
sista deH’immutabilità di Dio ereditata dall'ellenismo, né anticipazione di
moderne intuizioni cristologiche, come farebbe piacere pensare a noi oggi,
ma solo utilizzazione ad hominem (cioè opportunista) di una concezione
stoica a lui congeniale nella lotta contro lo gnosticismo platonizzante. Una
concezione che oggi troverebbe il suo equivalente in un’idea di incarna
zione di tipo evoluzionistico, vagamente hegeliano, sebbene di segno oppo
sto, in quanto basata su una visione di fondo materialistica anziché idea
listica.
” Basilio, Ep., 262, 1-2 (anno 377) (PG 32, 973 B). Il testo di Atanasio (Ep. ad
Epictetum, 2-4 [PG 26, 1052C-1061A]) testimonia la presenza di queste stesse teorie alcuni
anni prima (371) nell'ambiente di Corinto. Siano o meno queste opinioni di provenienza
ariana e apollinarista (cfr. A. Stuelcken, Athanasiana [TU 19, 4], Leipzig 1899, pp. 67-70),
è evidente la loro parentela con la teoria gnostica dell’incarnazione « ex semetipso »
combattuta da Tertulliano (anche se, come si è visto, con poca coerenza). Si direbbe,
addirittura, che Atanasio abbia presente la confutazione degli autori antignostici del
II-III sec. (Ireneo e Tertulliano), perché ne segue da vicino le argomentazioni. L’argo
mento che è impossibile che la Vergine abbia avuto il latte, senza aver concepito Gesù
nel suo seno (PG 26, 1057C) si legge in Tertulliano, De carne Chr., 20, 6 (cit. nota 54).
Cirillo Al. riprese le idee di Atanasio rendendole quasi canoniche: Ep., 4 (PG 77, 45B):
« Né diciamo che la natura del Verbo si è fatta carne per mutazione (μεταποιηθεϊσα), né
che si sia trasformata (μετεβλήθη ) in tutto l'uomo costituito di anima e corpo »;
cfr. anche Ep., 17 (PG Tl, 109C).
* In Io. hom. XI, 2 (PG 59, 79). Alla formazione di una communis opinio tra i Padri
su questo punto, dalla quale, in definitiva, scaturì la definizione dell’atreptos di Calcedo-
nia, contribuirono oltre i testi di Cirillo citati alla nota 56, anche alcune espressioni di
sinodi e di documenti ufficiali del magistero, quali l’anatematismo 12 del sinodo di
Sirmio del 351 (H. Hahn, Bibliothek der Symbole, Breslau 1897, p. 197 s.; Simbolo Quicum
que, 29 (Denzinger, 76) e soprattutto Leone Magno, Tomus ad Flav., 2 (Denzinger, 297).
Incarnazione e immutabilità di Dio 647
Conclusione